IN PLICATVRVM -- impiegato -- H. P. Grice, St. John’s Oxford -- Compiled by Grice’s Playgroup, The Bodleian -- For The Anglo-Italian Society, Bologna -- Dedicated to A. M. G.
– Luigi Speranza, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia. -- NAMES
ABANO. (Abano). Grice: “I
like Abano; he is from my wife’s favourite part of Italy – Veneto – actually
provincial di Padova – which has a little bit on the water – Strawson says he
is more of a physician than a philosopher – but I say, “Both start with
aspirated p!” – Grice: “My favourite Abano is the logician or philosopher of
the lingo -- Abano Pietro d'Abano Da Wikipedia.
Se stai cercando l'opera lirica, vedi Pietro d'Abano (opera). Pietro
d'Abano Pietro d'Abano, latinizzato in Petrus de Abano o Petrus Patavinus è
stato un filosofo, medico e astrologo italiano, insegnante di medicina,
filosofia e astrologia all'Università di Parigi e dal 1306 all'Università di
Padova; inoltre è considerato il primo rappresentante dell'aristotelismo
padovano. Amico di Marco Polo, visse a lungo a Costantinopoli per imparare
il greco e l'arabo, studiando in originale i testi di Galeno, Avicenna e
Averroè. Fu autore anche di varie traduzioni di testi scientifici greci e arabi
in latino: i Problemata di Aristotele (ai quali aggiunse un commentario,
l'Expositio Problematum Aristotelis), i Problemata di Alessandro di Afrodisia[3],
vari scritti di Galeno e Dioscoride. Rivide inoltre la traduzione delle opere
di Abraham ibn ‛Ezra. Si guadagnò una grande fama come autore Conciliator
Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur. Probabilmente
Pietro d'Abano ispirò a Giotto il complesso – e per molti versi misterioso –
ciclo pittorico che ornava il Palazzo della Ragione di Padova, andato perso in
un incendio e rifatto da alcuni pittori minori seguendo lo stesso schema
iconografico. Il ciclo di affreschi è suddiviso in 333 riquadri, si svolge su
tre fasce sovrapposte, ed è uno dei rarissimi cicli astrologici medievali
giunti fino ai nostri giorni. D'Abano è considerato uno dei più colti ingegni
del suo tempo, la sua dottrina lo fece passare per un negromante.
Accusato tre volte dal Tribunale dell'Inquisizione di magia, eresia e ateismo fu
prosciolto le prime due volte. L'ultima volta morì in prigione a causa delle torture
subite, un anno prima della fine del processo. A seguito della condanna il suo
cadavere fu dissotterrato per essere arso sul rogo. A Pietro d'Abano
esplicitamente si rifarà, per alcuni argomenti, come l'embriologia, il celebre
medico Iacopo da Forlì. Citazioni famose Nel Conciliator Differentiarum, quæ
inter Philosophos et Medicos Versantur D'Abano riferisce di avere parlato con
Marco Polo di quello che aveva osservato nella volta celeste durante i suoi
viaggi. Marco raccontò che durante il suo viaggio di ritorno nel Mar Cinese
Meridionale, aveva avvistato quella che descrive in un disegno come una stella
"a forma di sacco" (ut sacco) con una grande coda (magna habet
caudam). Pietro d'Abano interpretò questa informazione come una conferma della
sua teoria secondo cui nell'emisfero sud si potesse osservare una stella analoga
alla stella polare, ma si trattava con ogni probabilità di una cometa. Gli
astronomi sono concordi nell'affermare che non ci furono comete avvistate in
Europa alla fine del 1200, ma ci sono testimonianze che una cometa venne
avvistata in Cina e in Indonesia nel 1293.[6] Questa circostanza non compare
nel Milione. Abano conservò il disegno nel suo volume Conciliator
Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur. Sempre nello stesso
documento, si riporta la descrizione di un animale di grossa stazza con un
corno sul muso, identificato oggi con il rinoceronte di Sumatra; Pietro
d'Albano non riferisce un nome particolare assegnato da Marco a questo animale;
si pensa invece che fu Rustichello a identificarlo con l'unicorno nel Milione. Questa
testimonianza è stata ripresa da Jensen, quando venne messa pesantemente in
dubbio la veridicità del Milione di Marco Polo. Sempre nel Conciliator
Differentiarum (Diss. 67), Abano menziona la spedizione di Ugolino e Vadino
Vivaldi genovesi verso le Indie Orientali per via mare. "Parum ante
ista tempora Januenses duas paravere omnibus necessariis munitas galeas, qui
per Gades Herculis in fine Hispamia situatas transiere. Quid autem illis
contigerit, jam spatio fère trigesimo ignoratur anno. Transitus tamen nunc
patens est per magnos Tartaros eundo versus aquilonem, deinde se in orientem et
meridiem congirando". Riconoscimenti Il Teatro Congressi di Abano Terme
(già "Cinema Teatro delle Terme") è a lui dedicato, come pure
l'IPSSAR "Pietro d'Abano (Istituto Professionale di Stato per i Servizi
Alberghieri e della Ristorazione) poco distante, e altrettanto il Centro Studi
Termali Pietro d'Abano, ente di ricerca del territorio Euganeo. È rappresentato
a Padova in una delle 78 statue di Prato della Valle e nell'altorilievo al di
sopra di una delle quattro porte d'entrata di Palazzo della Ragione. Ad
Abano Terme a lui sono dedicati una statua nell'omonima piazza e il
bassorilievo sul lato Est dello gnomone della meridiana monumentale in piazza
del Sole e della Pace. Note Dizionario di filosofia, Riferimenti in
Collegamenti esterni. Michelangelo
Guidi, Caratteri e modi della cultura araba, Real Accademia d'Italia, «A Padova, specialmente, ferve lo studio degli
Arabi, poiché Pietro d'Abano – il quale si era servito non solo del greco, ma
anche dell'arabo che era andato a studiare a Costantinopoli per poter
rettificare gli inevitabili errori delle versioni del tempo – aveva fatto della
sua scuola di medicina il centro di quello che fu poi detto l'«Arabismo
medico».». Iolanda Ventura, Translating, commenting, re-translating: some
considerations on the Latin translations of the Pseudo-Aristotelian Problemata
and their readers, in Michèle Goyens, Pieter de Leemans e An Smets (a cura di),
Science Translated: Latin and Vernacular Translations of Scientific Treatises
in Medieval Europe, Leuven University Press, Pietro d'Abano, su
galenolatino.com. R. Martorelli Vico, Per
una storia dell'embriologia, Guerini e Associati, Napoli, J. Jensen, The World's
most diligent observer, in Asiatische Studien, Francesco Bottin, Pietro
d'Abano, Marco Polo e Giovanni da Montecorvino, in Medicina nei Secoli, Girolamo
Tiraboschi, Storia della letteratura italiana: fino all'anno MCCC, Firenze, presso Molini,
Landi e C. Bibliografia Conciliator differentiarum philosophorum et
precipue medicorum Adalberto Pazzini, Pietro d'Abano, in Dizionario Letterario
Bompiani. Autori, III, Milano, Bompiani, Joan Cadden, "Sciences/silences:
the nature and languages of "sodomy" in Peter of Abano's Problemata
Commentary". In: Karma Lochrie & Peggy McCracken & James Schultz, Constructing
medieval sexualities, University of Minnesota press, Minneapolis & London, Médicine,
astrologie et magie entre Moyen Âge et Renaissance: autour de Pietro d'Abano.
Textes réunis par Jean-Patrice Boudet, Franck Collard et Nicolas Weill-Parot,
Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, (Società internazionale per lo studio
del Medioevo latino) Pietro de Sclavione d'Abano, Trattati di Astronomia,
Lucidator dubitabilium astronomiae, De motu octavae sphaerae e altre opere a
cura di Graziella Federici Vescovini, Padova: Editoriale Programma, Loris
Premuda, «Pietro d'Abano». In: Dizionario critico della letteratura italiana,
Torino: UTET L. Norpoth, «Zur Bio-Bibliographie und Wissenschaftslehre des
Pietro d'Abano, Mediziners, Philosophen und Astronomen in Padua», Kyklos, Lynn
Thorndike, A history of magic and experimental science, Vol. II: During the first
thirteen centuries of our era. New York: Columbia university press, Sante
Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di Pietro D'Abano: saggio
storico-filosofico, Genova: Tipografia R. Istituto Sordomuti, Pietro d'Abano,
Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum, Gregorio Piaia,
Pietro d'Abano. Filosofo medico e astrologo europeo, Milano, FrancoAngeli, Francesco
Aldo Barcaro, L'eretico Pietro d'Abano (medico o mago?), Nuova Grafica,
Vigorovea (Sant'Angelo di Piove di Sacco, PD), Voci correlate Storia della
scienza Aristotelismo Taddeo Alderotti Mondino dei Liuzzi Sefer Raziel
HaMalakh. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana.Guido Calogero, Pietro d'Abano, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Pietro d'Abano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc.Iolanda Ventura, Pietro d'Abano, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Pietro
d'Abano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.(FR) Bibliografia su Pietro
d'Abano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Marta Cristiani, Pietro
d'Abano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pietro
d'Abano, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. He
is possibly the first alphabetical philosopher. But there are more! Important Italian philosopher. From Abano-Terme. “If
Occam is called Occam, I should be called Harborne.”Grice. “He was an exacting
editor, if ever there was onebut he failed at one thing, “Problemata physica”
was never written by Aristotle!”Grice. Pietro
d'Abano-Terme, conosciuto anche come Petrus de Apono, Petrus Aponensis o Pietro
d'Abano italiano a Padova. -- Abano era nato nella città italiana da cui prende
il nome, ora Abano Terme. Abano-Terme guadagnato la fama scrivendo
"Conciliatore Differentiarum, quae tra Philosophos et Medicos
Versantur." Finalmente Abano-Terme è stato accusato di eresia e l'ateismo,
ed è venuto prima della Inquisizione. Abano e morto in carcere prima della fine
del suo processo. Abano-Terme Ha vissuto in Grecia per un periodo di
tempo prima che si è trasferito e ha iniziato i suoi studi a lungo a
Costantinopoli. Si trasferisce a Parigi, dove è stato promosso ai gradi di
dottore in filosofia e medicina, nella pratica di cui era un grande successo,
ma i suoi costi erano notevolmente alta. A Parigi divenne noto come "il
Grande lombarda". Abano-Terme si stabilì a Padova. Abano-Terme è stato accusato
di praticare la magia: le accuse specifiche è che è tornato, con l'aiuto del
diavolo , tutti i soldi che ha pagato di distanza, e che possedeva la pietra
filosofale. Gabriel Naudé, nel suo "antiquitate scholae Medicae
Parisiensis," dà il seguente resoconto di lui. "Cerchiamo di prossima
produciamo Peter de Apona, o Pietro da Abano, chiamato il riconciliatore, a
causa del famoso libro che ha pubblicato durante il suo soggiorno nella vostra
università. E 'certo che fisica laici sepolto in Italia, scarsa noto a nessuno,
incolto e disadorno, fino alla sua genio tutelare, un abitante del villaggio di
Apona-Terme, destinata a liberare l'Italia dalla sua barbarie e l'ignoranza,
come Camillo volta liberato Roma dall'assedio del Galli, ha fatto un'indagine diligente
in quale parte del mondo della letteratura cortese è stato felicemente
coltivata, la filosofia più astuzia gestito, e fisico ha insegnato con la
massima solidità e la purezza; e di essere certi che sola Parigi rivendicò
questo onore, là vola attualmente; dando se stesso interamente alla sua tutela,
si applicò con diligenza per i misteri della filosofia e della medicina;
ottenuto un grado e l'alloro in entrambi; e poi entrambi insegnato con grande
applauso: e dopo un soggiorno di molti anni, loaden con la ricchezza acquisita
in mezzo a voi, e, dopo essere stato il più famoso filosofo del suo tempo,
torna al suo paese , dove, a giudizio del giudizioso Scardeon , è stato il
primo restauratore della vera filosofia. Gratitudine, quindi, invita a riconoscere
i vostri obblighi a causa di Michael Angelus Blondus, di Roma, che
nell'ultimo impegno secolo di pubblicare il Conciliationes Physiognomicæ del
proprio Aponensian, e trovando erano state composte a Parigi, e nella vostra
università, ha scelto di pubblicarli nel nome, e con il patrocinio, della
vostra società. Portava le sue indagini finora nelle scienze occulte
della natura astruso e nascosta, che, dopo aver dato più ampie prove, dai suoi
scritti in materia di fisionomia , geomanzia, e chiromanzia , si è trasferito
sulla allo studio della filosofia; che studi hanno dimostrato in modo
vantaggioso per lui, che, per non parlare dei due prima, che lo presentò a
tutti i papi del suo tempo, e lo ha acquisito una reputazione tra i dotti, è
certo che era un grande maestro in quest'ultimo , che appare non solo dalle
cifre astronomiche che aveva dipinto nella grande sala del palazzo di Padova, e
le traduzioni fece dei libri del rabbino dottissimo Abraham Aben Ezra, aggiunto
a quelli che si ricompose nei giorni critici, e il miglioramento di astronomia,
ma dalla testimonianza del celebre matematico Regiomontano, che ha fatto un bel
panegirico su di lui, in qualità di un astrologo, nell'orazione ha pronunciato
pubblicamente a Padova quando ha spiegato c'è il libro di Alfragano .
Steepto scritti Conciliatore differentiarum philosophorum et
precipue medicorum Nei suoi scritti egli espone e difende i sistemi medici e
filosofici di Averroè, Avicenna , ed altri scrittori. Le sue opere più note
sono il Conciliatore differentiarum quae tra philosophos et medicos versantur e
De venenis eorumque remediis , entrambi i quali sono ancora esistente in decine
di manoscritti e varie edizioni a stampa dalla fine del Quattrocento attraverso
Cinquecento. Il primo tentativo di riconciliare apparenti contraddizioni tra
teoria medica e la filosofia naturale aristotelica, ed è stato considerato
autorevole in ritardo quanto XVI secolo. E 'stato affermato che
Abano-Terme ha anche scritto un libro di magia chiamato "Heptameron,"
un libro conciso di riti magici rituali che si occupano di evocare gli angeli
specifici per i sette giorni della settimana (da qui il titolo). Egli è anche
accreditato con la scrittura De venenis eorumque remediis , che ha esposto
sulle teorie arabi in materia di superstizioni, veleni e contagi.
l'Inquisizione Generico ritratto di Petr [noi] da Abano conciliatore ,
<la rovesciata 'c' è un'abbreviazione corrente latina per il prefisso 'con
-'> xilografia dalla Cronaca di Norimberga , 1493 E 'stato due volte portato
in giudizio da parte dell'Inquisizione; per la prima volta è stato assolto, e
morì prima che il secondo processo è stato completato. E 'stato trovato
colpevole, però, e il suo corpo è stato ordinato di essere riesumato e
bruciato; ma un amico aveva segretamente rimosso, e l'Inquisizione doveva
quindi accontentarsi con la proclamazione pubblica della sua frase e la
combustione di Abano in effigie . Secondo Naude: L'opinione
generale di quasi tutti gli autori è, che era il più grande mago del suo tempo;
che per mezzo di sette spiriti, familiari, che teneva chiuso dell'articolo in
chrystal, aveva acquisito la conoscenza delle sette arti liberali, e che aveva
l'arte di causare il denaro che aveva fatto uso di tornare ancora in tasca. È
stato accusato di magia nel ottantesimo anno della sua età, e che morire prima
che il suo processo era finito, è stato condannato (come riporta Castellan) al
fuoco; e che un fascio di paglia o vimini, che rappresenta la sua persona, è
stata pubblicamente bruciato a Padova; che così rigoroso un esempio, e dalla
paura di incorrere in una sanzione, come, potrebbero sopprimere la lettura dei
tre libri che aveva composto su questo argomento: il primo dei quali è la nota
Heptameron, o elementi magici di Peter de Abano, filosofo, ora esistente, e
stampato alla fine di Agrippa opere s'; il secondo, quello che Trithemius
chiama Elucidarium Necromanticum Petri da Abano; e un terzo, chiamato dallo
stesso autore Liber experimentorum mirabilium de Annulis secundem, 28 Mansiom
Lunae . Abside con il suo sarcofago. Barrett (p. 157) si riferisce
al parere che non era sul punteggio di magia che l'Inquisizione ha condannato
Pietro d'Abano-Terme a morte, ma perché ha cercato di spiegare i meravigliosi
effetti nella natura dalle influenze dei corpi celesti, non attribuendole agli
angeli o demoni; in modo che l'eresia , piuttosto che la magia, sotto forma di
opposizione alla dottrina degli esseri spirituali, sembra aver portato alla sua
persecuzione. Per citare Barrett: Il suo corpo, prese privatamente dalla sua
tomba dai suoi amici, sfuggito alla vigilanza degli inquisitori, che avrebbero
condannato a essere bruciato. E 'stato rimosso da un luogo all'altro, e
finalmente depositato nella Chiesa di St. Augustin, senza epitaffio, o
qualsiasi altro segno di onore. I suoi accusatori attribuiti opinioni
incoerenti a lui; lo accusato di essere un mago, e tuttavia con negare
l'esistenza degli spiriti. Aveva una tale antipatia per il latte, che vedendo
chiunque prendere lo faceva vomitare.Altro lettura Francis Barrett, The Magus, J.
Cadden, "Scienze / silenzi: la natura e le lingue di" sodomia
"in Pietro d'Abano Problemata Commento". In: K. Lochrie
&McCracken & J. Schultz (. Edd), Costruire sessualità medievali ,
University of Minnesota Press, Minneapolis & London 1997, pp 40-57..
Premuda, Loris. "Abano, Pietro D'." nel dizionario della biografia
scientifica . (1970). New York: Charles Scribner Sons. 1:
4-5. link esterno il Heptameron. Refs.:
Luigi Speranza, “The reception of pseudo-Aristotle via Abano’s edition,” Luigi
Speranza, "Grice ed Abano," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Abbà (Farigliano). Filosofo. Grice: “Abbà is a genius – an Italian
Lockino, as he calls himself in “Elementae logicae” – But he is actually better
than Locke – England’s and Oxford’s greatest philosopher – for a couple of
reasons: Locke uses barbarisms – anglo-saxonisms, Abba, who could be philosophising
in his Cuneo vernacular, uses Cicero’s tongue! And the good thing is that he is
fluent at it and his prose is flowing – It is difficult for a Locke to write in
Latin – witness the roughness of Occam’s prose in Latin – but for Abba, he is
obviousl THINKING in Italian and expressing his thoughts in ‘palaeo-Italian,’
as he calls ‘Latin.’ “Thinking in Italian may be preoponderant, but it need not
be true!” Grice” “Of course I enjoyed most his philosophising on the ‘signum
naturale’ – on which I drew for my Oxford seminars!” -- He is a great
interpreter of Locke; in a country that needs that!” - Filosofo allievo di Benone, gli succedette nella cattedra di metafisica a Torino. Partendo dalla filosofia di Locke, ritiene
che i dati empirici forniti dall'esperienza siano alla base della conoscenza
umana, ma che le idee si formino attraverso un'elaborazione di questi elementi
empirici da parte dell'anima umana, che utilizza categorie logiche indipendenti
dall'esperienza. Abbà entrò in polemica con Rosmini a proposito del suo “Saggio
sull'origine delle idee” mettendo in dubbio la veridicità del suo sistema.
Rosmini controbatté alle critiche nel Diario filosofico di Adolfo, VII,
G.A.A.(pubblicato in Riv. rosminiana, III [1908], 1-8).
Elementa logices et metaphysices, Taurini, Stamperia reale, Delle
cognizioni umane: trattato del teol.o coll.o Abbà, Torino, Canfari. Lettere a
Filomato sulle credenze primitive e sulla filosofia sino a Socrate scritte dal
teologo coll.o Abbà, Torino, Canfari. G. Capone Braga, La filosofia fitaliana
del Settecento, Padova,Francesco Corvino, Dizionario biografico degli italiani,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia. De
idearum signis 38. Sunt autem signa vel naturalia , quibus sen sus nostros
significamus ex effectibus;vel artificialia, (1). (1) Maistrii
sententia est , nihil arbitrarii esse in sermone , (2) Sicuti per vocabula
ideas;ita per scripturam vocabula quo dam modo pingimus ad ideas abscntibus
permanenter manifestan das.Quibusdampermanentibussignisideas,cogitationesque
suas communi consensu exprimere vel homines in barbarie positi con
sueverunt.Cultiores populi remotis temporibus scripturâ,usi sunt,
cuiusauctor,tempus,originislocus,omnia incerta.Quidam Cadmo,
aliiPhoeniciis,aliiÆgyptiis eam acceptam referunt.Putarem ego Divinae
originis.Ab Asia in Europam immigravit.Quidam putant spiritum in hac re
progressum fuisse a scriptura Ideographica, seu figurativa , ad Hyerogliphicam
seu symbolicam , a qua ad syllabi-. cam , inde ad alphabeticam. V. Degerando de
l'éducation des sourds-muets , pag. 380. tom. 2. 29 quae cum re
significata consociationem habent ex h o minum arbitrio (1),et
institutione.Hisce signis con stat idioma.Dicitur autem idioma signorum com
plexio , quibus ideae significantur. Est idioma tran siens, et permanens.Illud
actionis, et pronunciationis, hoc scriptionis appellatur.Omisso scriptionis (2)
idio mate , de duobus reliquis dicemus. 39. Idioma actionis coalescit ex
gestibus repetitis ad sensus animi aperiendos. Hisce gestibus consulto adhibitis
, et observatis ad quaedam sensa manife standa , orta est huius idiomatis ars.
Formae rerum externarum gestibus pictae mirum in modum istud idiomatis
amplificarunt. Hoc praesertim constať ani versalis quaedam hominum lingua , et
sermo panto mimicus . sed omnem linguam enasci , et enutriri ex ruinis aliarum
; hasce vero ruinas esse formidanda divinae iustitiaemonumenta.Itaque inimi cus
et omnis Neologismi. Bonald super linguarum originem suum systema Phylosophicum
struxit. 41. Pronuncialus autem hic sermo constat ex voci bus
articulatis. Voces sunt soni ex ore animantis emissi : Articulatio est vocalis
, et consonantis per vocis emissionem coniunctio.Ex hac coniunctione or tae
sunt syllabae , ex his vocabula , quae sunt sonį articulata voce prolati,
quibus ideas mente conceptas significanus.Quum autem omnis idea in mente
existens determinata sit, quodlibet vocabulum ideam quamdam determinatam
denotat , ac veluti determinat. Unde vocabula termini etiam dicti sunt:quum
etiam ideae res repraesentent; termini,quoque res ipsas median tibus ideis
denotant. 42. Ex vocabulis,seu terminis ortus sermo.Quae di sciplinà generales
sermonis regulas tradit, grammatica generalis, seu philosophica dicitur ; quia
hae regulae in natura cogitationis fundantur, suntque in omni lingua
servandae.Quae regulas docent singulis nationum lin guis proprias grammaticae
particulares appellantur (1). (1) Singulae linguae sua syntaxi , et
inflexionibus moderantur , 30 40. Licet possint homines actionis idiomate
sua sensa manifestare ; aliquando tamen id magna cum difficultate fit;
aliquando etiam id fieri omnino nequit, ut in magnis distantiis , et
interpositis obstaculis. Ut id incommodi averteret Deus , qui hominem ad
societatem condidit,non solum eum facultate loquendi, organisque ad sermonem
aptissimis donavit ; rerum etiam ad serinonem ipsum pronunciatum instituit, ut
ex sacris litteris edocemur,qui postmodum hominum arte , urgentibus
necessitatibus auctus quoque fuit. coloribusque donantur , qui
nationis indolem , culturam , et in genium exprimerent , ac fata : suis
singulae divitiis florentes sunt pro varia coeli temperie , naturae facie ,
aspectibus , forma regi minis , opinionum , religionis , educationis , morum ,
studiorumquc diversitate. Hinc variae apud varios populos idearum complexiones,
ex quibus est interpretationis difficultas. Hinc etiam linguae histo ria una
refert gentis suae historiam philosophicam,et civilizzationem . (2) Huiusce
picturae exemplaria sunt ideae,quas proinde pictura
isthaecimitaridebet.Ideaveroestvivax,rapida,clara.Ad hanc imitationem
perficiendam spectarc Grammatica debet.Cum etiam omnes idcae exhibeant
obiecta,et relationes;hinc duo verborum species existere debent , quarum aliae
pingant obiecta , aliae rela tiones eorum . Quare Plato , Apollonius , aliique
ex veteribus duo tantum sermonis elementa admittebant , nomen , et verbum . Nos
putamus , lot esse debere elementa , quot colores sunt necessarii ad
cogitationis tabulam exhibendam , huiusmodi sunt nomen , quasi notamen exhibens
obiecta ; hoc porro proprium , vel commune substantiarum , modorum : articulus
obiecta determinans : prono men ad vitandam satictatern : verbum relationem
exhibens inter obiecta , et istud substantivum , quod semper inest ceteris ,
quae adiectiva dicuntur.Eidem convenit notio temporis, et variis modis
inflectitur. Verbum est aliquando iterum modificandum , idque fit per adverbium
, quasi comes verbi ; in qua modificatione sunt gradus positivus, comparativus
, superlativus: sunt quaedam ideae temporis, passionis, actionis, quae mistae
veluti sunt ex nomine, et verbo, hae particivis exhibentur: sunt innumerae
aliae relatìoncs obiectorumrepraesentandae,puta loci,proclivitatis,directionis
aliaque id genus , quae praepositionibus significantur. In tabula 43.
Grammatica dici potest ars ideas pingendi per verba ,est enim a Graeco vocabulo
Gramma pi ctura , seu a verbo graphein describere , et pingere ; vocabulis
namque cogitationis nostrae veluti tabulam pingimus.Hinc tot sunt
vocabulorum,et terminorum species , quot idearum (1). 31 44. Sunt
praeterea termini positivi , qui aliquam reipsa ideam denotant , ut homo ,
arbor , etc. nega tivi qui absentiam alicuius ideae significant, ut nihil,
ignorantia,tenebrae.Terminus positivus,qui eam dem ideam constanter denotat,fixus
dicitur, qui vel proprius est,si uni,eidemque rei significandae sem per
inservit , ut Plato , Aristoteles ; vel univocus si pluribus rebus sub eadem
significatione tribuatur , ut sunt omnia vocabula generum , et specierum. Qui
modo hanc , modo illam ideam exhibet dicitur v a gus, vel aequivocus. Potest
autem aequivocus esse vel casu , nempe hominum arbitrio ; vel consilio , quum
res diversae , quae eodem termino significantur , ali quam habent similitudinem
, et analogiam , unde ter minus analogus , seu metaphoricus dicitur , ut termi
nus leo , quo etiam homo fortis significari consuevit ob analogiam
fortitudinis, qua homo cum leone con venit. Tandem termini dicuntur etiam
synonimi (1), cum variis vocabulis eamdem ideam significamus. denique
cogitationis , omnia sunt coniungenda , quod coniunctio . nes efficiunt.Haec
duo postrema,una cum adverbiis elyptica di cuntur , quia brevitati inserviunt.
Non solum idearum , sed affe ctuum etiam , et sensationum pictura quaedam esse
debet , huic officio addictas interiectiones , quarum imitationes sunt a c
centus , quidam veluti cantus , qui vocabula vivificant , animâque donant ,
unde spiritus à Graecis , sapores ab Hebraeis dicti sunt. Putat Tracyus ( qui
sermonis analysim in sua grammatica philoso phica , et universali dedit )
interiectionem alias sermonis partes ordine praecessisse quemadmodum
sensationes praecedunt ideas ipsamque esse quoddam propositionis genus. (1)
Vocabula vere synonima , si existerent, linguae perfectioni 14 32 en
7 45. Quum vocabulis ideas mente conceptas signia ficemus , iam
sequitur, ipsa non esse signa idearum , quae in audientium animis sunt', sed
earum solum , quas loquens in mente habet.Hinc quum pro varia h o minum
cognitione, variae in diversis hominibus de ea d e m re ideae esse possint, necesse
est, ut idem v o cabulum a diversis pronunciatum ,diversnm etiam sen sum
continere possit.Unde si verum vocabuli sensum determinare velis , ut aliorum
sensa assequaris , non ex propriis ideis tuis , sed e scribentis , vel loquen
tis mente ipsum interpreteris oportet. Quare d u m alio rum scripta legis, vel
sermones audis , cave ne tuae ideae , quae latenter subrepunt, efficiant, ut
aliorum sensa in tuam sententiam quandoque iniquissime d e torqueas , et eas
vocabulis ideas subiicias 46. Ex eo quod vocabula sint idearum nostrarum signa
, patet ideas et vocabula ita esse eadem esse debeat utrarumque oeconomia ,'et
quae de illis praedicantur , de istis aeque possint usurpari. Hinc maxima est
vocabulorum vis in scientiis , quae quantum iis perficiantur intelliges , si
teneas eiusdem esse vis in scientiis vocabula , ac in Arithmetica n u meri , in
Algebra litterae , in Geometria figurae. 47. In ideas vero ipsas, et
operationes mentis n o quas auctorem ipsum in mente habuisse , expensis
omni bus , verisimillimum non est. connexa ut 33 oílicere viderentur.Sunt autem
quaedam impropriesynonima,quae nempe repraesentant quidem eamdem ideam
principalem sed non casdem accessorias, ut verba amo , et diligo.
strae tantus est vocabulorum influxus , ut sine illis ne tacita quidem
mentis cogitatione vix aliquid mente revolvere posse videamur. Iisdem ideae
complexae usque , et usque resolvuntur ; resolutae autem uno vocabulo iterum
comprehenduntur , unde attentio , et memoria mirum in modum iuvatur;sicut eorum
sono, accentu , melodia , imaginationi succurrimus. C o m parate ad alios
communicationi inserviunt, et in ser mone civili, aesthetico , et
philosophico,qui caeteris accuratior esse debet , culturam , humanitatemque
augent (1). 48. Sed quantum mentem , scientiasque perficit rectus vocabulorum
usus ; tantum obest eorumdem abusus. Errat enim semper qui bene non utitur lin
gua. Hi autem abusus ortum habent 1. ex naturali vocabulorum imperfectione ;
cum enim comparate ad ideas exiguus admodum sit vocabulorum numerus , fit saepe
ut uno vocabulo plures quandoque etiam discrepantes ideas,aut admodum complexas
exprimere cogamur. (1) Nihil magis ostendit huiusce sermonis utilitatem , quam
surdi-muti nondum instructi,pueri,etsylvestres.Quoad surdos mutos praesertim
,'censet Bonald , ipsos nihil cogitare. Quanta igitur gratia est habenda D.D.
Ponce , Andres , De-l'Epée , Si card , Assaroti , aliisque ! 34 49. 2. Ex
hominum vel socordia,vel malitia.Abu limur nimirum vocabulis 1. cum iis vel
obscuram , vel confusam , vel nullam ideam afligimus ; quod vi tium ex eo est ,
quod a pueris prius vocabulum , 50. Hos autem abusus praecavebimus
1. Si vite mus voces ambiguas,obscuras,aequivocas,sine sensu, antiquatas,
barbaras, nimium translatas, nimium e m phaticas. 2. Si prius ideam in mente
concipiamus , tum de signo,quo eadem exprimatur solliciti simus; ab ideis enim
ad vocabula progredi nos oportet,non vicissim. 3. Si vocabulorum sensus in
eodem sermo nis filo constanter idem relineatur ; vel si necessitas contrarium
expostulet , auditor , aut lector praemo neatur , nisi ex adiunctis id
manifeste colligi possit. 4. Si utamur vocabulis usitatis , quae ab iis desu
menda sunt auctoribus , qui studio , et labore per rum sermonibus , aut
scriptis accuratior vocabulorum usus communi doetorum suffragio elucet. Licebit
ta men aliquando nova condere vocabula pro novis ideis exprimendis , d u m m o
d o id prudenter fiat. 5. Si fixum 35 quam ideas mente informare
consueverimus ; vel ex eo quod velimus aliquando pertinaciter desperatam
sententiam nostram defendere. 2. Abulimur quum in sermonis decursu eamdem vocem
in diversa signific. catione usurpamus quin auditorem , aut lectorem m o
neamus. 3 Quum obscuritatem sublimioris cuiusdam doctrinae famam captemus.Hinc
vocabula barbara peregrina obsoleta usurpamus , vel usitatis novam
significationem ad privatum arbitrium confictam affigimus. 4. Q u u m vocabula
pro rebus ipsis accipimus , ac per eadem reales rerum essentias ex primi
arbitramur , quo vitio praesertim laborant ter mini abstracti. affectamus ut
inde pararunt,et in quo sit menti tantum per vocabula de rebus
ipsis signi ficari, quantum loquens de iis cognoscit.6. Si vo cabula obscura ,
vel dubia , vel aequivoca , accuratâ definitione declaremus; quae autem confusa
sunt rite factâ divisione distinguamus. Andrea Abba. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Abba,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
Abbagnano
(Salerno).
Filosofo. Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be
different, dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later
illuminismo), and MY Abbagnano, the one who explored that infamous Greek
embassy that arrived in Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the
fascination of the Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist
Italian philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has
no entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history
of philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce. Nicola Abbagnano (n.
Salerno), filosofo. Laureatosi in filosofia a Napoli con Antonio Aliotta,
insegna dapprima al Liceo Umberto I ed all'Istituto Superiore di Magistero
"Suor Orsola Benincasa" del capoluogo campano, per poi trasferirsi
all'Torino dove è Professore di Storia della filosofia prima presso la Facoltà
di Magistero, poi presso quella di Lettere e Filosofia; è condirettore, a
fianco di Norberto Bobbio, della Rivista di filosofia; è stato ispiratore del
gruppo di intellettuali e filosofi, comprendente, tra gli altri, lo stesso
Bobbio e Ludovico Geymonat, che prende il nome di "neoilluminismo
italiano", organizzando una serie di convegni rivolti alla costruzione di
una filosofia "laica", aperta ai principali orientamenti del pensiero
filosofico internazionale. Collabora con il quotidiano La Stampa; si
trasferisce poi a Milano dove collabora con Il Giornale di Indro Montanelli e
dove viene eletto consigliere comunale nelle liste del Partito Liberale
Italiano e assume per circa un anno la carica di assessore comunale alla
Cultura. Divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. È stato
uno dei promotori del Centro di studi metodologici di Torino. Come studioso di
filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia, negli anni trenta e quaranta,
la conoscenza delle correnti esistenzialistiche francesi e tedesche, in
particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti
irrazionali del pensiero," Abbagnano esalta l'azione creativa, la volontà
e l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre alla verità. Erano
elementi che egli ritrova soprattutto nella filosofia di Giovanni
Gentile. Fondamentale nell'evoluzione del suo pensiero è l'opera "La
struttura dell'esistenza," pubblicata a Torino, nella quale Abbagnano
propose una terza alternativa alle due correnti appartenenti
all'esistenzialismo, quella di Heidegger e quella di Jaspers. Abbagnano
definisce la propria visione filosofica come "esistenzialismo
positivo"; esso, pur non esplicitamente formulato in veste sistematica,
individua la centralità dell'esistenza come momento ontologicamente fondativo,
considerando la razionalità dell'uomo come lo strumento principe in grado di
garantire a questo fondamento un valore positivo contro ogni possibile
nichilismo. Diversamente rispetto all'impostazione di Heidegger e di
Jaspers, Abbagnano evidenzia l'importanza della libertà e della
indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre
a porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo
che lo circonda il pensiero di Abbagnano insiste molto su un chiarimento
dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con quello della
necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo,
fatto che spiega la sua forte critica nei confronti queste due scuole
filosofiche. Nello scritto "Possibilità e libertà," l'autore chiarì
il senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica
dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure
ottimista al punto da concedere all'essere una realizzazione certa. In quegli
stessi anni prende vita il movimento filosofico da lui nominato
"neoilluminismo", nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo
positivo in termini di empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà
del mondo sociale. Il movimento, che ha avuto sin dal principio una
configurazione culturalmente e politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire
l'elaborazione di una visione e di un uso della ragione filosofica alternativi
tanto al marxismo che al pensiero cattolico. Abbagnano aveva del resto
ripetutamente criticato all'idealismo e al neoidealismo la tendenza a
sottostimare il valore della scienza, da lui invece considerata una disciplina
indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle
sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari
valore e ad essa complementare. Abbagnano insistette nei suoi lavori sui
concetti di libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di
scegliere, la seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni
dell'uomo. Anche il positivismo di stampo ottocentesco fu oggetto di
critica tramite la contrapposizione con le filosofie di Immanuel Kant e Søren
Kierkegaard. Nel suo "esistenzialismo positivo," Abbagnano
insiste molto sulla finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza,
destinata per sua costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli
vede kantianamente nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e
del nostro sapere. Negli ultimi anni questo lucido senso del limite e della
problematicità esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo
delle cose, inteso come un aspetto insopprimibile della nostra esperienza del
reale. «Ed è proprio questo senso del limite e del mistero, insieme alla
rinuncia ad ogni (illusoria) infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a
fondaresecondo l'ultimo Abbagnanola possibilità di un incontro genuino fra
credenti e non credenti. E ciò all'insegna di quella ”umiltà del pensiero”
(come la chiamava il filosofo) che rappresenta la condizione indispensabile di
ogni etica del dialogo e del reciproco rispetto». Oltre che autore di saggi su
singoli filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), Abbagnano è stato anche
l'autore di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate intere
generazioni di studenti e di docenti. Egli ha realizzato anche un "Dizionario
di filosofia," considerato tra i migliori a livello internazionale. La
Storia della filosofia (sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore
Paravia, sia nella versione universitaria pubblicata dalla Utet) è stata poi
aggiornata dal suo allievo Giovanni Fornero, in collaborazione con Dario
Antiseri e Franco Restaino, in due volumi sulla filosofia contemporanea. Lo
stesso Fornero, insieme a un'équipe di noti studiosi, ha curato anche
l'aggiornamento e l'ampliamento del "Dizionario di filosofia." Opere:
Le sorgenti irrazionali del pensiero, Genova-Napoli, Perrella. Il problema
dell'arte, Genova-Napoli, Perrella. Il nuovo idealismo, Genova-Napoli,
Perrella. La filosofia di E. Meyerson e la logica dell'identità, Napoli-Città
di Castello; La vita di Ockham, Gubbio, Oderisi. Guglielmo di Ockham, Lanciano.
La nozione del tempo secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova.
Fondamenti di una teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica,
Napoli. La struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione
all'esistenzialismo, Milano, Bompiani, 1Storia della filosofia I, Filosofia
antica. Filosofia patristica. Filosofia scolastica, Torino, UTET, II.1,
Filosofia moderna sino alla fine del secolo XVIII, Torino, UTET, 1II.2,
Filosofia del romanticismo. Filosofia contemporanea, Torino, UTET, II,
Filosofia del Rinascimento, la filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII,
Torino, UTET, La filosofia del Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e
XX, Torino, UTET, 4ª ed. aggiorn. e riv. voll. I, II, III, con aggiunta
del IV (La filosofia contemporanea):
tomo 1 di G. Fornero, L. Lentini, F. Restaino; tomo 2 di G. Fornero, D.
Antiseri, F. Restaino. UTET, Torino, Filosofia religione scienza, Torino,
L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario
di filosofia, Torino, UTET, (aggiornato e ampliato da Giovanni Fornero). Per o
contro l'uomo, Milano, 1Fra il tutto e il nulla, Milano, (con Aldo
Visalberghi), Linee di storia della pedagogia, 3Torino: Paravia, Questa pazza
filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La
saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti
esistenzialisti, B. Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Marcello
Staglieno, Milano, Protagonisti e testi della filosofia, Milano,
L'esercizio della libertà. Scritti scelti , B. Maiorca, ed. riv. agg. e
integrata, Boni, Bologna, 1Esistenza e metafisica, B. Maiorca, Milella, Lecce,
Scritti neoilluministici, B. Maiorca, introduzione diRossi e C. A. Viano, UTET,
Torino. Note Montano. Nicola ABBAGNANO, su accademia delle scienze.
La frase è tratta da G. Fornero, Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire», 28
settembre . La prima edizione della
storia della filosofia di Abbagnano, che aveva già pubblicato un Sommario di filosofia
per i licei risale agli anni 1945-1947 (per il manuale scolastico) (per il
manuale universitario). Attraverso successive edizioni e aggiornamenti (per
opera di Giovanni Fornero) tale storia continua a essere la più diffusa nelle
nostre scuole. N. Bobbio, Discorso su
Nicola Abbagnano, in: N. Abbagnano, Scritti scelti, Taylor, Torino, Norberto
Bobbio, La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di
Filosofia", Luigi Pareyson, Il pensiero di Nicola Abbagnano e i suoi sviluppi
recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor, Torino, Antonio Aliotta,
L'esistenzialismo positivo di N. Abbagnano, in Id., Critica
dell'esistenzialismo, Perrella, Roma, 1951. Giorgio Giannini, L'esistenzialismo
positivo di Nicola Abbagnano, Morcelliana, Brescia, Pietro Chiodi,
L'esistenzialismo, Loescher, Torino, 1957. Franco Lombardi, L'esistenzialismo
in Italia, in Id., La filosofia italiana negli ultimi cento anni, Arethusa,
Asti, 1958. Antonio Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il
Mulino, Norberto Bobbio, Discorso su Nicola Abbagnano, in N. Abbagnano, Scritti
scelti (Giovanni De Crescenzo e Pietro Laveglia), Taylor, Torino, 1967.
Giuseppe Semerari, Il neoilluminismo filosofico italiano, in Id., Esperienze
del pensiero moderno, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana nelle sue
relazioni con altri campi del sapere, Atti del Convegno di Anacaprigiugno 1981,
Guida, Napoli, 1988. Giuseppe Semerari, Genesi e formazione
dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida,
Napoli. Mirella Pasini, Daniele Rolando , Il neoilluminismo italiano. Cronache
di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Nino Langiulli, Possibility, Necessity,
and Existence. Abbagnano and His Predecessors, Temple University Press,
Philadelphia. Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Cantillo , Una filosofia dell'uomo,
Atti del Convegno in memoria di N. Abbagnano (Salerno), Comune di Salerno. Marco
Delpino, Paolo Riceputi , Nicola Abbagnano. L'uomo e il filosofo, Atti del
Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento di G. Fornero, Edizioni
Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure. Silvio Paolini Merlo, Consuntivo
storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino
(1940-1979), Pantograf (Cnr), Genova, 1998 Bruno Maiorca, Nicola Abbagnano,
Seam, Roma, Bruno Miglio , Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, Atti del
Convegno per il centenario della nascita (Torino,), Il Mulino, Bologna, 2002.
Aniello Montano, Il prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana tra
Ottocento e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, Bruno Maiorca,
Nicola Abbagnano. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma, 2003. Rosanna
Panelli Marvulli, 'Tributo ad Abbagnano', in abbagnanofilosofo., . Rosanna
Panelli Marvulli, Abbagnano. Una vita per la filosofia, con un saggio di
Giovanni Fornero, UTET, Torino, . Silvio Paolini Merlo, Abbagnano a Napoli. Gli
anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida, Napoli,
2003, 88-7188-694-1. Carlo Augusto
Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia,
Il Mulino, Bologna, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia.
Saggi sul pensiero italiano del Novecento, Il Mulino, Bologna, Giorgio
Primerano, La prospettiva pedagogica di Nicola Abbagnano, Aracne Editrice, Roma,
Silvio Paolini Merlo, L'esistenza come struttura. Il pensiero di Nicola
Abbagnano e l'esistenzialismo, Editoriale Scientifica, Napoli, Silvio Paolini
Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di Nicola Abbagnano, in
Id., Estetica esistenziale, Mimesis, Milano, . Franco Ferrarotti, Un greco in
via Po. Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano, Edb, Bologna. TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Nicola Abbagnano, Sito dedicato, su
abbagnanofilosofo. Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della filosofia
italianiAccademici italiani Professore Salerno MilanoEsistenzialistiStudenti
dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIProfessori dell'Università
degli Studi Suor Orsola Benincasa Professori dell'Università degli Studi di
Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di ToriRefs.: Grice,
“Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a hoot care what the
dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. – Abbagnano.
Keywords: filosofia latina, filosofia romana, filosofia italiana. Luigi Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Abbri (Agliana).
Filosofo. Grice: “I like Abbri; he is the equivalent of what *I* would be if I
present myself as “The Philosopher of Staffordshire” – for Abbri is obsessed
with Toscana – “Toscana e la scienza nuova,” “Filosofia e scienza nella Toscana
del Seicento,” – he has also studied the philosophies (particelle) of Santi and
Volta -- Filosofo. Sii è laureato in filosofia con Rossi a Firenze con una tesi
su Filosofia, chimica e linguaggio; è stato borsista della Domus Galilaeana di
Pisa e successivamente ricercatore confermato presso il Dipartimento di
filosofia dell'Firenze. Dal 1976 collabora con l'Istituto e Museo di storia
della scienza di Firenze, oggi Museo Galileo, come membro del Comitato
scientifico dell'Istituto e, dal 1986, anche come membro dell'editorial board
della rivista Nuncius. Inoltre, negli stessi anni, è entrato a far parte del
comitato editoriale delle riviste Prospettiva EP e Arkete; è nominato
professore straordinario di storia della filosofia moderna e contemporanea
presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università della Calabria,
Cosenza, dove ha anche insegnato storia della filosofia medievale. Dal 1990 ha
diretto, con Franco Crispini, la collana Storia delle idee della casa editrice
Rubbettino. Professore di storia della filosofia e professore supplente di
storia della musica moderna e contemporanea presso la Facoltà di lettere e
filosofia di Arezzo, Siena; della Facoltà aretina è stato inoltre preside, nnonché
direttore del Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici. Ha ricoperto
la carica di segretario della Società Italiana di storia della scienza. È stato
in più occasioni visiting scholar all'Uppsala e al Centro di storia della
scienza dell'Accademia reale svedese delle scienze di Stoccolma e membro dello
steering committee di un progetto europeo sulla storia della chimica moderna e
contemporanea finanziato dalla Fondazione europea per la scienza di
Strasburgo. Attualmente insegna storia della filosofia ad Arezzo nel
Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione
interculturale, e storia della filosofia e filosofia morale nel Dipartimento di
scienze storiche e dei beni culturali a Siena. È Presidente del Comitato della
didattica della LM interclasse di storia e filosofia di Siena-Arezzo. I
suoi studi riguardano la storia delle idee filosofiche e scientifiche, con una
particolare attenzione per la storia dell'alchimia dal Medioevo al Seicento,
della prima chimica, da Paracelso a Lavoisier, della magia e della cultura filosofico-scientifica
europea, dal Rinascimento all'Età dei Lumi, dei rapporti tra religione e
scienza e tra musica e filosofia nell'Età moderna. Si interessa inoltre della
filosofia e della cultura britannica del Novecento, di storia della
storiografia filosofica e scientifica, del rapporto tra femminismo e scienza e
tra storia antica e narrazione cinematografica. I suoi numerosi studi
hanno portato alla pubblicazione di varie opere uscite in Italia e all'estero;
i suoi saggi sono apparsi in riviste italiane e straniere e in volumi editi in
Francia, Paesi Bassi, Svezia, Germania e USA. Si è interessato alla
cultura scandinava e in particolare alle relazioni tra Italia e Svezia nel
secolo XVIII e ha curato la pubblicazione di carteggi inediti di scienziati
toscani con scienziati svedesi e russi. Vari lavori riguardano la
letteratura, la filosofia e la musica nell'Inghilterra del Novecento, con particolare
riferimento a McTaggart, Moore, Bloomsbury Group; il suo libro più recente
riguarda la filosofia della musica nell'800 britannico. Alcuni lavori
riguardano la metafisica e la filosofia della religione di Linneo, Priestley e
la tradizione sociniana e unitariana. In previsione di un lavoro monografico su
Priestley e l'apologetica del cristianesimo, le sue indagini considerano le
radici teologiche e filosofiche dell'unitarismo del chimico e filosofo inglese,
soprattutto la sua lettura delle opere di Fausto Sozzini e della Catechesis
Racoviensis. In altri scritti analizza le vicende delle tradizioni
storiografiche, filosofiche e scientifiche in Italia, con particolare
attenzione all'opera di Aldo Mieli che fu uno dei promotori della moderna
storia della scienza nel contesto internazionale. I suoi lavori più
recenti vertono sui dibattiti contemporanei, nell'ambito delle varie tradizioni
cristiane, relativi ai problemi connessi al gender e gli sviluppi della
tradizione sociniana nell'Età dei Lumi. OPAC del Museo Galileo, su
opac.museogalileo. Bernardette
Bensaude-Vincent, Ferdinando Abbri , Lavoisier in European context: negotiating
a new language for chemistry, Canton, Science history publications, Ferdinando
Abbri, Un dialogo dimenticato: mondo nordico e cultura toscana nel Settecento,
Milano, Franco Angeli, Un altro paesaggio: studi sulla musica britannica del
Novecento, Firenze, Edifir, Miti, sogni e storie: filosofia e musica nel
Novecento britannico, Milano, Franco Angeli, ,.
Ferdinando Abbri, Un paese musicale : filosofie della musica
nell'Ottocento britannico, Milano, Prometheus, , Ferdinando Abbri, Professore,
Siena, su segreteriaonline.unisi. Dipartimento di scienze della
formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale, Università
degli studi di Siena, su dsfuci.unisi. Museo Galileo, su
museogalileo. Nuncius: Journal of the material and visual history of
science, su museogalileo. Filosofi italiani del XXI secoloStorici della
scienza italiani 1951 12 lugliod Agliana. socinianesimo Dottrina
teologico-morale elaborata e sistematizzata da Lelio e Fausto Socini. Del s. (i
seguaci di questa dottrina si davano il nome di unitarii, che appare verso il
1570, o di Fratres Poloni, perdurante fino alla metà del Seicento; mentre la
qualifica di sociniani appare solo sul finire del 17° sec., durante l’esilio
olandese) sono più comunemente noti il razionalismo religioso (nella Scrittura
non ci può essere nulla contro la ragione, anche se ci può essere molto sopra
la ragione; nella deduzione della dottrina cristiana dalla Scrittura si deve
procedere solo secondo ragione, poiché ciò che nella Scrittura è detto sopra la
ragione non può esser commentato; dal che deriva che nessun dogma tradizionale,
e tanto meno quello trinitario, e nessuna istituzione, come i sacramenti,
possono essere accettati, in quanto appaiono irrazionali e non esplicitamente
ed evidentemente dichiarati nella Scrittura), il principio della tolleranza
religiosa (purché la vita da loro praticata corrisponda in pieno ai precetti
evangelici, fra i quali anche la non-violenza, tutte le Chiese o tutti i gruppi
che riconoscono come norma di vita i precetti di Cristo vanno riconosciuti come
cristiani, quindi non vanno perseguitati). Questi motivi sono fondati sulla
concezione della religione cristiana come metodo (via) per raggiungere la
salvezza, rivelatoci con i suoi precetti dall’uomo divino, ma mero uomo, Gesù
Cristo, per volere di Dio che l’aveva ispirato, e quindi sulla riduzione della
religione a eticità fondata sul complesso di norme del Vangelo. Concepita la
religione in funzione esclusivamente etica, essa non poteva essere interpretata
che razionalmente e le divergenze teologiche, dogmatiche, non potevano, di
fronte alla preminenza delle norme etiche, non apparire fantasie speculative.
Tali principi furono elaborati e argomentati con una esegesi sottilissima da F.
Socini, che aveva cominciato con il dimostrare razionalmente, con uno dei primi
esempi di critica filologica in grande stile applicata ai problemi religiosi,
l’autenticità della Sacra Scrittura e la preminenza della religione cristiana;
ma raccolgono nella formulazione estrema motivi diffusi già nel Rinascimento
italiano e negli ambienti ereticali del Cinquecento. I motivi schiettamente
religiosi furono il rinnovamento della pietà proposto da G. Contarini e da I.
Sadoleto, l’ideale della imitatio Christi raccolto in ambiente italiano da C.S.
Curione e S. Castellione; altri motivi, connessi e derivati dai primi, furono
l’indifferenza valdesiana per le questioni dogmatiche e la semplificazione dei
dogmi condotta all’estremo da Aconcio sulle orme di Erasmo. Agirono inoltre
anche elementi di origine filosofica, come la coscienza universalistica e
irenica tratta dal neoplatonismo toscano, l’estensione della critica filologica
di Valla, l’uso di argomentazioni familiari all’aristotelismo padovano. In
Polonia il movimento sociniano ebbe la sua capitale nel centro culturale di
Raków; il periodo più fiorente fu quello degli ultimi decenni del 16° sec. e
dei primi del 17°. Dal 1627 al 1662 durò la persecuzione in Polonia, culminata
con l’espulsione. Gli esuli andarono parte presso gli unitari transilvani, dei
quali condivisero la sorte di Chiesa a mala pena tollerata sotto la
preponderanza calvinista fino al 1690 e poi perseguitata dagli Asburgo
cattolici; in parte, attraverso Holstein, in Olanda, dove già erano conosciuti
fin dagli ultimi anni del 16° sec. e condannati; ma furono accolti nelle
riconosciute comunità dei rimostranti, e poi dei collegianti, e poterono
esercitare una vasta attività culturale: i loro principi furono discussi da
Spinoza e da Leibniz, e permearono la cultura religiosa olandese. Dall’Olanda
il s. si diffuse, per mezzo della stampa, in Inghilterra, dove il terreno era
stato preparato da Aconcio e dove, se da un lato unì in gran parte la sua
storia a quella della Chiesa unitaria, dall’altro penetrò anche, attraverso le
università, tra il clero anglicano e nella società colta inglese: sociniani,
benché non unitari, furono W. Chillingworth, R. Baxter, J. Milton, Newton, W.
Penn. La ‘controversia antitrinitaria’ del 1687 costituì lo sfondo storico
della Lettera sulla tolleranza (1689) di Locke. Così il s. cooperò alla
preparazione del deismo e della libertà religiosa, e assieme a essi fu
combattuto dal metodismo. In America, dove il s. assunse definitivamente il
nome di unitarianismo, il razionalismo etico di questa corrente religiosa
alimentò figure come T. Parker. Ferdinando Abbri. Abbri. Keywords: socianesimo,
Socini, Sozzini, Fausto Sozzini, catechesis racoviensis. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Abri” – The Swimming-Pool Library.
Accetto (Trani). Filosofo. Grice: “I learned so much about Accetto,
and I hope it showed in my talk at Brighton on ‘meaning, revisited.’ For
Accetto, unlike Strawson, there is ‘disimulazione onesta’ and ‘simulazione
disonesta.’ Accetto notes that there is an implicature to the effect that
‘disimulazione’ is disonesta per se and hence he tried to provoke the duchess
of Malfi by his little treatise on ‘Della simulazione onesta’ – “An oxymoron,
if ever there was one --,’ the duchess told the duke --.” Filosofo. Nativo di
Trani, visse ad Andria e fu in relazione con la cerchia del marchese Giovanni
Battista Manso, il mecenate napoletano che fu biografo di Torquato Tasso nonché
fondatore dell'Accademia degli Oziosi.
Scrisse varie rime, nelle quali evidenziò la sua delicata coscienza
morale e il breve trattato Della dissimulazione onesta: nato nel contesto della
dominazione spagnola in Italia, fu pubblicato a Napoli e rapidamente
dimenticato. Il libello fu poi riscoperto da Benedetto Croce all'inizio Professoree
ripubblicato da Salvatore S. Nigro. La "dissimulazione", tematica al
centro dei dibattiti all'epoca, non è, per Accetto, sinonimo di menzogna, ma
invito al raccoglimento e alla cautela. L'analisi di Accetto pone la questione,
da un piano di politica spicciola, su un piano di accurata indagine morale:
l'autore, alquanto speciosamente, differenzia la simulazione, moralmente
riprovevole perché viziata da intenzioni cattive, dalla dissimulazione, che
invece pareva all'Accetto l'unico rimedio per difendersi da una società
pullulante di simulatori e per trionfare delle proprie passioni. La ricetta
però per risultare vincente richiede una onestà di animo e un buon
equilibrio. Opere Edizioni originali: Rime di Torquato Accetto, Napoli: nella
stampa degli heredi di Tarquinio Longo, Rime del signor Accetto, divise in
amorose, lugubri, morali, sacre, et varie, Napoli: nella stampa di Giacomo
Gaffaro, Della dissimulazione onesta, Napoli, Edizioni moderne: Rime amorose, edizione critica Salvatore S.
Nigro, Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta, edizione critica Salvatore
S. Nigro; presentazione di Giorgio Manganelli, Genova: Costa & Nolan, nuova
edizione Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta Rime, E. Ripari, Milano:
BURRizzoli, . Note "Le Muse",
De Agostini, Novara, B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Eugenio
Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, 1966 Rosario Villari, Breve
riflessione sulla Dissimulazione onesta di Torquato Accetto, R. Villari, Elogio
della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, RomaBari, Laterza, sapere,
De Agostini. Torquato Accetto, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Torquato Accetto, su Liber Liber. Opere di Torquato Accetto, su openMLOL,
Horizons U. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si
accompagna con la dissimulazione Io tratterei pur della simulazione, e
spiegherei appie- no l'arte del fingere in cose che per necessità par che la
ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di
meno; e benché molti dicano: “Qui nescit fingere nescit vivere”, anche da molti
altri si af- ferma che sia meglio morire, che viver con questa con- dizione. In
breve corso di giorni o d'ore o di momenti, com'è la vita mortale, non so
perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa,
aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera
essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando
imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo. Basterà dunque il discorrer della
dissimu- lazione, in modo che sia appresa nel suo sincero signifi- cato, non
essendo altro il dissimulare, che un velo com- posto di tenebre oneste e di
rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al
vero, per di- mostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nel- l'ordine
dell'universo sia il giorno e la notte, cosí con- vien che nel giro delle opere
umane sia la luce 16 e l'ombra, dico il proceder manifesto e nascosto,
con- forme al corso della ra- gione, ch'è regola della vita e degli accidenti
che in quella oc- corrono. 17 V. Alcuna volta è necessaria la
dissimulazione, e fin a che termine La frode è proprio mal dell'uomo, essendo
la ragione il suo bene, di che quella è abuso; onde nasce ch'è im- possibile di
trovar arte alcuna, che la riduca a segno di poter meritar lode: pur si concede
talor il mutar manto, per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con
intenzion di fare, ma di non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si
può tollerar chi si suol valere della dissimulazione, che però non è frode; ed
anche in senso tanto moderato, non vi si dee poner mano se non per grave
rispetto, in modo che si elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono
alcuni che si trasforma- no, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e
spendendo questa moneta con prodiga mano in ogni pic- ciola occorrenza, se ne
trovano scarsi dove piú bisogna, perché scoperti ed additati per fallaci, non è
chi loro cre- da. Questo è per avventura il piú difficile in tal indu- stria;
perché, se in ogni altra cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si
esperimenta il contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa
metter in pratica di buona riuscita. È dunque dura impresa il far con arte
perfetta quello che non si può essercitar in ogni occasione, e però non è da
dir che Tiberio fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si
affermi; 18 e ciò considero perché, dicendo Cornelio Tacito: “Tibe-
rioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura seu adsuetudine, suspensa
semper et obscura verba”; non solo disse prima: “plus in oratione tali
dignitatis quam fidei erat”, ma conchiude: “At patres, quibus unus me- tus, si
intelligere viderentur”, ecc.; ecco che si accorgea- no chiaramente della sua
intenzion in quelli continui ar- tifici. In sostanza il dissimular è una
professione della qual non si può far professione, se non nella scola del
proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma- schera ogni giorno, sarebbe piú
noto di ogni altro, per la curiosità di tutti; ma degli eccellenti
dissimulatori, che sono stati e so- no, non si ha notizia al- cuna. 19
VI. Della disposizione naturale a poter dissimulare Quelli in chi prevale il
sangue o la malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto indisposto a
dissimu- lare. Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa
facilmente celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor
malinconico, quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente
le na- sconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran conto de'
dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleran- zia; e la collera, che è fuor
di misura, è troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato dun-
que è molto abile a questo effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle
tempeste del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è tranquillo l'animo,
parer turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile,
se non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che
sogliono attribuir a certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri,
stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire che, in ogni paese, son di quelli
che l'hanno e di que' che non vi si sanno ac- commodare; ma piú è certo che gli
uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la
volontà si gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in
que' versi: 20 Voi che vivete ogni cagion recate pur suso al cielo, sí
come se tutto movesse seco di necessitate. Se cosí fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per mal aver lutto. Il
cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto che 'l dica, lume
v'è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime
battaglie del ciel dura, poi vince tutto, se ben si nutrica. A maggior forza e
a miglior natura liberi soggiacete; <e> quella cria la mente in voi, che
'l ciel non ha in sua cura. 21 VII. Dell'esercizio che rende pronto il
dissimulare Da chi ha per non plus ultra le porte delle natie con- trade, o che
da' libri non apprende il lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con
difficultà si viene al consiglio della dissimulazione; perché in persona cosí
molle e poco intendente, riesce molto dura questa prati- ca, la qual contiene
l'esser d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi
non s'è tanto ri- stretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena
autorità che l'uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo, e riserba pur a
tempo, quelle deliberazioni che domane per avventura saranno buone, ed oggi
sono per- niziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò
di Ulisse, “qui mores hominum multorum vidit et urbes”, o l'aver letto ed
osservati molti accidenti, è cagion potente a produrre una gentil disposizione
di metter freno agli affetti, acciò che non come tiranni, ma come soggetti alla
ragione, ed a guisa di ubbidienti citta- dini, si contentino ad accommodarsi
alla necessità, della quale disse Orazio: Durum, sed levius fit patientia
quicquid corrigere est nefas. 22 Sí che tant'altezza di spirito si
accresce per mezzo della vita occupata negli affari del mondo, e nella consi-
derazione del tempo passato, per non contradir al pre- sente e poter far
giudicio dell'avvenire. Stando la mente cosí sodisfatta, non le parrà nuova
qual si sia mutazio- ne che le si vada rappresen- tando, ed in conseguenza
dipenderà da lei, e non dal precipizio del senso, l'espres- sion di quan- to le
suc- cede. 23 VIII. Che cosa è la dissimulazione Da poi che ho conchiuso
quanto conviene il dissimu- lare, dirò piú distinto il suo significato. La
dissimulazio- ne è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula
quello che non è, si dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di Enea: Spem vultu
simulat, premit altum corde dolorem. Questo verso contiene la simulazion de la
speranza e la dissimulazione del dolore. Quella non era in Enea, e di questo
avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi affanni: ricordava
però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando la rabbia di
Scilla e lo strepito degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne valse come per
sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate rui- ne, tutte le rie venture
che lor già davan noia; e col dol- cissimo “meminisse iuvabit”, conchiude: Per
varios casus, per tot discrimina rerum tendimus in Latium, sedes ubi fata
quietas ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae. Durate, et vosmet rebus
servate secundis. 24 Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo
dolente, perché “Talia voce refert curisque ingentibus aeger.” Si vede in
questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della fortuna, e prima fu espresso
da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore, quando in altra figura dava
di se stesso nuova alla sua Penelope; della qual disse: Hac autem <iam>
audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem corpus sicut autem nix liquefit
in altis montibus, quam Eurus liquefecit, postquam Zephyrus defusus est
liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur fluentes: sic huius liquefiebant
pulchrae genae lachrymantis flentis suum virum assidentem. At Ulysses animo
quidem lugentem suam miserabatur uxorem. Oculi autem tanquam cornua stabant vel
ferrum. Tacite in palpebris dolo autem hic lachrymas occultabat. Ecco la
prudenza con che Ulisse mettea freno alle la- grime, quando era tempo di
nasconderle; e la compara- zion di liquefarsi Penelope, come la neve, mi dà
occa- sione di soggiunger quello che sia l'umido e 'l secco, di- cendo
Aristotile: “humidum est quod suo ipsius termino contineri non potest; facile
autem termino continetur alieno. Siccum est quod facile suo, difficulter autem
ter- mino terminatur alieno”. Da che si può apprender che il dissimular ha del
secco, perché si ritien nel proprio ter- mine; e questi son gli occhi di Ulisse
rassomiliati, in tempo di dolore, alla fermezza del corno e del ferro, quando
que' di Penelope eran molli e non avean termine 25 prescritto, conforme a
quelle ch'eran versate nell'animo di Ulisse, tenendo il ciglio asciutto, ed a
questo par che corrisponda quella sentenza di Eraclito: “Lux sicca, anima
sapientissi- ma”. 26 IX. Del bene che si produce dalla dissimulazione
Presupposto che nella condizion della vita mortale possano succeder molti
difetti, segue che gravi disordini siano al mondo quando, non riuscendo di
emendarli, non si ricorre allo spediente di nasconder le cose che non han
merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan pericolo di
produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si
considera la natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che tutto il
bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il bello de' corpi che
stanno soggetti alla mutazio- ne, e veggansi tra questi i fiori, e tra' fiori
la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a prima vista dis-
simula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una sem- plice superficie di
vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch'ella sia porpora
immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso: quella non par che disiata
avanti fu da mille donzelle e mille amanti; perché la dissimulazione in lei non
può durare. E tanto si può dir di un volto di rose, anzi di quanto per la terra
riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché della bellezza mortale sia
solito dirsi di non parer cosa terre- 27 na, quando poi si considera il
vero, già non è altro che un cadavero dissimulato dal favor dell'età, che ancor
si sostiene nel riscontro di quelle parti e di que' colori che han da dividersi
e cedere alla forza del tempo e della morte. Giova dunque una certa
dissimulazion della natu- ra, per quanto si contiene tra lo spazio degli
elementi, dov'è molto vera quella proposizione che afferma di non esser
tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre,
perché ivi tutte le cose son bel- le dentro e fuori. Or, passando all'utile che
nasce dalla dissimulazione ne' termini morali, comincio dalle cose che piú
bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual si riduce nella
destrezza di questa medesima dili- genza. E leggendosi quanto ne scrisse
monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina inse- gna
cosí di ristringer i soverchi di- siderii, che son cagion di atti noiosi, come
il mo- strar di non veder gli errori altrui, ac- ciò che la con- versazione
riesca di buon gusto. 28 X. Il diletto ch'è nel dissimulare Onesta ed
util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di piacere; perché se la vittoria è
sempre soave, e come disse Ludovico Ariosto, Fu il vincer sempre mai lodabil
cosa, vincasi per fortuna o per ingegno, è chiaro che 'l vincer per sola forza
d'ingegno succede con maggior allegrezza, e molto piú nel vincer se stesso,
ch'è la piú gloriosa vittoria che possa riportarsi. Que- st'avviene nel
dissimulare, con che, dalla ragione supe- rato il senso, si riceve intiera
quiete; ed ancorché si sen- ta non poco dolor quando si tace quello che si
vorrebbe dire, o si lascia di far quanto vien rappresentato dall'af- fetto,
nondimeno piace poi grandemente d'aver usata so- brietà di parole e di fatti. A
questa conseguenza di sodi- sfazzione, ha da rivolger il pensiero chi disidera
di viver con riposo; e ciascun, che vuol ben accorgersene per gl'interessi suoi,
vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí ben conosca che tanto è nostro
quanto è in noi medesi- mi. Non dico che non si han da fidar nel seno
dell'amico i segreti, ma che sia veramente amico; ed è degno di gran
considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove parla a se stesso della
vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che stia nel mezzo
“pru- 29 dens simplicitas”, dicendo: Vitam quae faciunt beatiorem,
iucundissime Martialis, haec sunt: res non parta labore, sed relicta; non
ingratus ager, focus perennis; lis nunquam, toga rara, mens quieta; vires
ingenuae, salubre corpus, prudens simplicitas, pares amici, convictus facilis,
sine arte mensa; nox non ebria, sed soluta curis; non tristis torus, attamen
pudicus; somnus qui faciat breves tenebras; quod sis esse velis nihilque malis,
summum nec metuas diem nec optes. Il prudente candor dell'animo è dunque il
centro della tranquillità. “Hoc opus, hic labor”. 30 XI. Del dissimulare
con li simulatori Quelli che si applicano al piacer della parte ch'è in noi
soggett'alla morte, sprezzando l'uso della ragione, si mutano in abito di
fiere; perché tali son da riputarsi, come fu espresso da Epicteto stoico,
dicendo: “Certe misellus homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At melius
<etiam> quiddam habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni
duntaxat es deditus? Ob huius societa- tem declinantes a meliore natura quidam,
lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et insidiosi et ad nocen- dum
parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac trucu- lenti: maxima vero pars
vulpeculae sumus”. Da che si può considerar un de' duri impedimenti nel
dissimulare; poiché il guardarsi da lupi e da leoni è cosa piú pronta per la
notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si riscontrano; ma
le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si cono- scono, è
pur malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto
chi piú saprà tener apparenza di sciocco, perché, mostrando di creder a chi
vuol in- gannarci, può esser cagion ch'egli creda a nostro modo; ed è parte di
grand'intelligenza che si dia 31 a veder di non vedere, quando piú si
vede, già che cosí 'l giuoco è con occhi che pa- ion chiusi e stan- no in se
stessi aperti. 32 XII. Del dissimulare con se stesso Mi par che l'ordine
di questo artificio metta prima la mano nella persona propria; ma si richiede
prudenzia in estremo, quando l'uomo ha da celarsi a se medesimo, e questo non
piú che per qualche picciolo intervallo e con licenza del “nosce te ipsum”, per
pigliar una certa ri- creazione passeggiando quasi fuor di se stesso. Prima
dunque ciascun dee procurar non solo di aver nuova di sé e delle cose sue, ma
piena notizia, ed abitar non nella superficie dell'opinione, che spesse volte è
fallace, ma nel profondo de' suoi pensieri, ed aver la misura del suo talento e
la vera diffinizione di ciò ch'egli vale, essendo di maraviglia che ogni uno
attend'a saper il prezzo della roba sua e che pochi abbian cura o curiosità
d'intender il vero valor dell'esser loro. Or, presupposto che si sia fat- to il
possibile di saperne il vero, conviene che in qual- che giorno colui ch'è
misero si scordi della sua disav- ventura, e cerchi di viver con qualche
imagine almeno di sodisfazzione, sí che sempre non abbia presente l'og- getto
delle sue miserie. Quando ciò sia ben usato, è un inganno c'ha dell'onesto;
poiché è una moderata oblivio- ne, che serve di riposo agl'infelici: e benché
sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non se ne può far di meno, per
respirar in questo modo; e sarà come un sonno de' 33 pensieri stanchi,
tenendo un poco chiusi gli occhi della cognizion della propria fortuna, per
meglio a- prirli dopo cosí breve risto- ro: dico breve, perché fa- cilmente si
muterebbe in letargo, se troppo si praticasse que- sta negligenza. 34
XIII. Della dissimulazione che appartiene alla pietà Quando considero che il
vino fu trovato dopo il dilu- vio, conosco che non bisognava minor quantità
d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due cose: una di Noè, che ne restò
ignudo, e ciò ne dimostra che 'l vino è mol- to contrario alla dissimulazione,
e quanto questa s'im- piega a coprire, tanto quello attende a scoprire; l'altra
della pietà delli due figli, che con la faccia indietro rico- prirono il padre,
dissimulando di vederlo a tal termine, quando dal lor fratello, già alienato da
ogni legge di umanità, era schernito ignudo colui che l'avea vestito delle
proprie carni. Oh quanti son al mondo che imitano questa mostruosa
ingratitudine, facendo materia da ride- re chi loro doverebber'esser oggetto
d'amore e di reve- renza! Pochi son gl'imitatori di que' due che seppero tro-
var il modo di volger le spalle, per pietà, al padre, non come molti fanno, che
si lascian la paterna necessità dietro le spalle. Non solo que' pietosi figli
si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar di non averlo ve- duto in
tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a scusar i disordini, ed in
particolare que' de' superiori, ogni volta che alcuno di loro v'incorre. Altri
pietosi uffi- ci mi si rappresentano nell'istoria di Giuseppe che, ven- duto
da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di 35 piú riconoscerli
per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada mansuetudine, dissimulava il
dono di quegli ele- menti che lor in apparenza vendeva, perché i medesimi
sacchi ne riportavano i danari a casa; finché, fatto venir anche l'ultimo de'
fratelli, e usati tutt'i modi di manife- star a tempo la sua benignità, “non se
poterat ultra cohi- bere Joseph multis coram adstantibus”. In questo ebbe fine
quella sincera ed innocente dissimulazione; e segue nel Genesi a narrarsi la
sua pietà: “unde praecepit ut egrederentur cuncti foras, et nullus interesset
alienus agnitioni mutuae. Elevavitque vocem cum fletu, quam audierunt Aegyptii,
omnisque domus Pharaonis, et dixit fratribus suis: - Ego sum Joseph -”. Era
egli nell'Egitto con suprema gloria, e già chiamato salvator del mondo; con
tutto ciò, non tenendo conto dell'offese, dissimulò d'esser fratello, per
dimostrarsi piú che fratello. Io non so chi possa ritener le lagrime, leggendo
quella pietosa istoria, dalla qual si può apprender la dolcezza del per- dono e
del dissimular l'ingiurie, e massimamente quan- do vengon da persone tanto care
quanto son i fratelli. 36 XIV. Come quest'arte può star tra gli amanti
Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è pic- ciolo, e come disse
Torquato Tasso: Picciola è l'ape, e fa col picciol morso pur gravi e pur
moleste le ferite; ma qual cosa è piú picciola d'Amore, se in ogni breve spazio
entra, e s'asconde?. Nondimeno è pur tanto grande, che non ha luogo da potersi
in tutto nasconder, è quando è giunto al suo cen- tro, ch'è il cuore, se non si
mostra per altra via, accende quella febre amorosa della qual era infermo
Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco: E se non fosse la
discreta aita del fisico gentil, che ben s'accorse, l'età sua in sul fiorir era
fornita. Tacendo, amando, quasi a morte corse; e l'amar forza, e 'l tacer fu
virtute; la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse. Quindi si può considerar come,
mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme, ne fan publica
pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peg- 37 gio, quando
amor prende stanza ne' petti umani, accen- dendogli da dovero, perché i sospiri,
le lagrime, la palli- dezza, gli sguardi, le parole, e quanto si pensa e si fa,
tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antio- co, nell'amor verso
Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò l'incendio nelle vene
e ne' polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante Didone, mentre Amor in
figura di Ascanio trattava con lei; ma niuna cosa mancava, perché già si
vedesse accesa, come Virgi- lio va significando: Praecipue infelix pesti devota
futurae expleri mentem nequit, ardescitque tuendo Phenissa et puero pariter
donisque movetur. Ed ancorché andasse velando gli stimoli della piaga interna,
nel progresso del suo affetto, At regina gravi iamdudum saucia cura vulnus alit
venis at caeco carpitur igni, pur, quello che la lingua non avea publicato, fu
espresso nelle strida della piaga ch'ella stessa disperata si fe', conchiudendo
Virgilio: Illa, graves oculos conata attollere, rursus deficit: infixum stridet
sub pectore vulnus. Di Erminia si ha, da Torquato Tasso, che avea dissi- mulato
il suo pensiero, e ch'ella poi disse a Vafrino: 38 Male amor si nasconde.
A te sovente desiosa i' chiedea del mio signore. Vedendo i segni tu d'inferma
mente: - Erminia - mi dicesti - ardi d'amore. - Io te 'l negai, ma un mio
sospiro ardente fu piú verace testimon del core; e 'n vece forse della lingua,
il guardo manifestava il foco onde tutt'ardo. Il medesimo dolor che tormenta
gli amanti, se non ba- st'a far che dicano i loro affetti, si muta in ambizione
amorosa di dimostrarli; e se gli animi onesti si contenta- no di non
manifestarsi, con gran fatica si riducono a portar intiero il manto che ha da
coprir tanti affanni. 39 XV. L'ira è nimica della dissimulazione Il
maggior naufragio della dissimulazione è nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú
manifesto, essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta le fiamme nel viso, e
con orribil luce fulmina dagli occhi; e di piú fa precipitar le parole, quasi
con aborto de' concetti che, di forma non intieri e di materia troppo grossa,
manifestano quanto è nell'animo. Molta prudenza si richiede, per rinchiuder
cosí gagliarda alterazione; e di chi è trascorso a tanto impeto, disse Platone:
“tanquam canis a pastore, ita de- nique revocatus ab ea quae in ipso est
ratione mitescat.” Era Achille in questa passione contra Agamennone, quando
“truculento intuens aspectu: - O vir - inquit - ex dolo totus atque imprudentia
factus ac genitus, et quis tibi Graecorum posthac libens pareat? -”. Ma
l'ufficio della ragione, significata per Minerva scesa dal cielo, va
temperando: “ - Non venit - inquit - a caelo, Achilles, ut te iratum in
ultionem iniuriae acceptae erumpere vi- deam, sed ut ira<cundia>m tuam
compescam -”. Sí che Omero, in questa occasione di Achille, spiega insieme
quanto importi la dissimulazione. Da due potenti stimoli procede tanta licenza
di parole nell'ira, cioè dal dispia- cere e dal piacere, perché ella è
appetito, con dolore, di far vendetta che si dimostri vendetta, per dispregio
che 40 crediamo fatto di noi, o d'alcuno de' nostri, indegnamen- te, come
disse Aristotile; ed a questo dolor segue il di- letto, che nasce dalla
speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto di vendetta: e però
Aristotele soggiun- se: “recte illud de ira dictum est quod, defluente melle
dulcior, in virorum pectoribus gliscit”. Dunque, da cosí fatto misto di amaro e
di dolce, dee guardarsi chi non si vuol mostrar facilmente turbato, come
sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e tutti quelli che si fan
vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la conside- razione di quanto è maggior
diletto vincer se stesso, in aspettar che passi la procella degli affetti, e
per non deli- berare nella confusione della propria tempesta; ma nel sere- no
dell'animo che, ritirato ogni pensiero nell'altissi- ma parte della mente,
potrà sprezzar molte cose, o non curar di vederle. 41 XVI. Chi ha
soverchio concetto di se stesso ha gran difficultà di dissimulare L'error che
si può far nel compasso, il qual si gira nel- l'opinion di noi stessi, suol
esser cagion che trabocchi ciò che si dee ritener ne' termini del petto;
perché, chi si stima piú di quello che in effetto è, si riduce a parlar come
maestro, e parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa pompa del sapere, e
dice molte cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto. Pitagora, sapendo parlare,
insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fati- ca, ancorché paia
d'esser ozio. I concetti che risuonano nelle parole, non solo portano l'imagine
di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli mentali (già che non posso dir
carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sa- pere. Questo è il concetto
primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli altri; e se non è con misura,
ne pro- cedono molti e vari ragionamenti, e di necessità però si scopre quanto
è nel pensiero; ma chi di sé fa quella sti- ma che di ragion conviene, non
commette alla lingua maggior giuridizzione di quanto è il lume dell'intelligen-
zia che la dee muovere. 42 XVII. Nella considerazione della divina
giustizia si facilita il tollerar, e però il dissimular le cose che in altri ci
dispiacciono Convien di trattar di alcune cose piú in particolare, che
ricercano d'esser tollerate, ch'è lo stesso a dir dissi- mulate, poiché sono
molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo gran teatro del mondo, nel
qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed or non dico di quelle che
son invenzioni de' poeti antichi o mo- derni, ma delle vere mutazioni del mondo
stesso, che da tempo in tempo, in quanto agli accidenti umani, prende altra
faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa il tutto simigliante a Dio,
che lo creò e lo serba col dono della sua providenza, la qual per lo gran mar
dell'essere ogni cosa conduce con prospero viaggio; e disponendo la medesima
regola sopra il merito o demerito delle ope- re umane, si vieta nondimeno alla
debolezza de' nostri pensieri il passar negli abissi de' consigli divini, alli
qua- li si dee infinita riverenza, avendosi da ricever per giu- sto quanto
consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non vediamo nelle cose mortali
quell'ordine infallibile che si manifesta nel moto del sole, della luna e
dell'altre stelle, anz'in molta confusione spesse volte si truovano i 43
negozii di qua giú, non manca però la certezza dell'eter- na legge, che tutto
sa applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non sempre vien pronta,
si aspetti come decreto inseparabile dal giudizio divino, che per tutto va
penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A que- sta verità, ch'è via di
quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò piú distinto il modo
di accom- modarsi a quelle. 44 XVIII. Del dissimular l'altrui fortunata
ignoranzia Gran tormento è di chi ha valore, il veder il favor del- la fortuna,
in alcuni del tutto ignoranti; che senz'altra oc- cupazione, che di attender a star
disoccupati, e senza sa- per che cosa è la terra che han sotto i piedi, son
talora padroni di non picciola parte di quella. Veramente chi si mette a
considerar questa miseria, è in pericolo di perder la quiete, se insieme non
s'accorge che la medesima for- tuna, che talora fa qualche piacere alla turba
degli scioc- chi, suol abbandonar l'impresa, e quando piú luce, si rompe,
lasciando scherniti que' che non son degni della sua grazia; e di piú la gente
di questa qualità, non ha che pretender per l'acquisto di quella gloria, che
solamente appartiene a chi sa da dovero; e se qualche uomo di ec- cellente
virtú, alcuna volta sta quasi sepellito vivo, in ogni modo si ha da udir il
grido del suo merito; e non solo la voce ne dee risonar tra quelli che vivono
nel me- desimo tempo, ma se ne va passando da un secolo all'al- tro; perché il
vero valor è che fa per fama gli uomini immortali, come disse il Petrarca; e
prima di lui Dante: 45 vedi se far si dee l'uomo eccellente sí ch'altra
vita la prima relinqua. Di questa maniera si libera il nome dalle mani della
morte, ed un'anima piena di cosí alta speranza, non sente noia che a qualche
indegno e da poco, per poco tempo, si faccia applauso, es- sendo un salto di
fortuna che se ne passa senza lasciar ve- stigio, come il fumo nell'aria.
46 XIX. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia Orrendi mostri
son que' potenti, che divorano la so- stanza di chi lor soggiace; onde
ciascuno, che sia in pe- ricolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di
ri- mediar, che l'astenersi dalla pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da'
sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que'
dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicu-
rando le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora
di star sepolto, che il tesoro delle cose mortali. Il capo che porta non
meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la sapienzia; e però spesso
è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non
dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e
dell'altrui ti- more. Anche lo splendor della fortuna ha da esser cauto nel
palesarsi, già che, passando a dimostrazioni di so- verchi arnesi e di oziosi
ornamenti, oltre al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco
nella pro- pria casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e
forse il tutto. Ma piú dura è la fatica di dover pi- gliare abito allegro nella
presenza de' tiranni, che so- glion metter in nota gli altrui sospiri, come di
Domizia- no disse Tacito: “Praecipua sub Domitiano miseriarum 47 pars
erat videre et aspici, cum suspiria nostra subscribe- rentur, cum denotandis
tot hominum palloribus suffice- ret saevus ille vultus et rubor, a quo se
contra pudore muniebat”. Sí che non è permesso di sospirare, quando il tiranno
non lascia respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va
facendo vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lagrime che
dalla beni- gnità della natu- ra son date a' miseri come propria dote, per
formar l'onda che in cosí pic- ciole stille suol por- tar via ogni grave noia e
la- sciar il cuor, se non sano, al- men non tanto oppresso. 48 XX. Del
dissimular l'ingiurie L'ingiuria, che si può dissimulare, e nondimeno si
manifesta nel disiderio della vendetta, è fatta piú da co- lui che la riceve
che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il decoro dell'onesta
tolleranzia, in che si ac- cordano tutt'i filosofi, che per altre opinioni, in
varie set- te, non son di conforme parere, dicendo Tertulliano: “tantum illi
subsignant, ut cum inter se<se> variis secta- rum libidinibus et
sententiarum aemulationibus discor- dent, solius tamen patientiae in
com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint pacem: in eam
conspirant, in eam foederantur, illi in adfect<at>ione virtutis
unanimiter student, omnem sapientiae ostenta- tionem de patientia praeferunt”.
Alcuni, non distinguen- do la forteza dal temerario ardire, son pronti ad ogni qualità
di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor modo, vogliono penetrar
negli altrui pensieri e dolersene come di offese publiche. I sensi cosí fieri
son vicini ad estremi mali, e l'esperienza dimostra che le picciole in- giurie,
se non si lascian passar sotto qualche destrezza, sogliono diventar grandi; ed
a tutti color che son potenti, molto piú convien di ritirar la vista da simili
occasioni: perché ogni un che possa poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per
accommodarsi a tollerare; ma chi ha forza di risentirsi, sente stimolo di
correr a precipizio, e molti di questi che stanno in alta fortuna, scordati non
sola- 49 mente di usar perdono, ma della proporzion della pena, prendono
mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avvie- ne ch'essi pur rimangono in
tanta turbazione de' fatti loro che, oltre all'odio publico, son anche in odio
a se medesimi, per la perdita della quiete interna, ch'è bene inestimabile ed
appartiene all'innocenzia. 50 XXI. Del cuor che sta nascosto Gran
diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è
collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star
chiuso, per l'ordine naturale si mantiene; e quando gli occorre di star
nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle operazioni
esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde,
nell'elezzione, si con- sideri quello che fu detto da Euripide: <...>
Sapienti diffidentia non alia res utilior est mortalibus. L'esperienza, che si
suol doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva
oscura per l'incer- tezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto va-
gliasi degli abissi del cuore, ch'essendo breve giro, è ca- pace d'ogni cosa;
anz'il mondo intiero non lo riempie, poiché solo il Creator del mondo può
saziarlo. Si ammi- ra, come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne'
termini de' palagi, ed ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a
guardia delle loro persone e de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che,
senza tanta spesa, può ogni uomo, ancorch'esposto alla vista di tutti,
nasconder i suoi affari nella vasta ed insieme segreta 51 casa del suo
cuore, perché ivi soglion esser quei templi sereni, de' quali cantò Lucrezio:
sed nihil dulcius est, bene quam <munita> tenere edita doctrina
sapientium templa serena, despicere unde queas alios passimque videre errare
atque viam palantes quaerere vitae. Applicando io però questi versi al senso
che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una quiete, che con- duce al
piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto fallace. 52 XXII. La
dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male Era tanto stimata da
Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di valersene nel suo
regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di aver fatto assai
dalla parte sua perché non gli fosse caduta dalle mani, disse: Nonne
dissimulavi? nonne silui? nonne quievi? et venit super me indignatio. Egli con
tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo fe'
volentieri; e però s'era per- suaso che non avesse da seguir mutazione nelle
cose sue, ben assicurate dalla prudenzia, che in sé raccoglie- va
dissimulazione, silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in miseria, fu
voler di Dio, che si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una
invitta costan- za e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera
gloria si menò appresso come catenati tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina
felicità con duplicate sodisfaz- zioni; e quella sua giustizia, che nel termine
della sem- plice natura si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per
affermare che i servi di Dio, in ogni condizio- ne, son sempre beati. Dunque
Giob era tale, anche nel tempo de' suoi tormenti; ma per non uscir dalla
materia 53 di che vo trattando, dico ch'egli, facendo il conto con la sua
conscienzia, dicea: “Nonne dissimulavi? nonne si- lui? nonne quievi?”, volendo
significar che a questa dili- genza non suol mancar piacer alcuno; e quando
succede qualche accidente che perturbi tanto sereno, vuol il cielo che, dopo
l'avversità, si accresca splendor agli animi che son alieni dagli affetti della
terra. 54 XXIII. In un giorno solo non bisognerà la dissimulazione È
tanta la necessità di usar questo velo, che solamente nell'ultimo giorno ha da
mancare. Allora saran finiti gl'interessi umani, i cuori piú manifesti che le
fronti, gli animi esposti alla publica notizia, ed i pensieri esaminati di
numero e di peso. Non averà che far la dissimulazio- ne tra gli uomini, in
qualunque modo si sia, quando Id- dio, che oggi “est dissimulans peccata
hominum”, non dissimulerà piú; ma poste le mani al premio ed alla pena, metterà
termine all'industria de' mortali, e que' sa- gaci intelletti, che hanno
abusato il proprio lume, si ac- corgeranno come allora non gioverà l'arte del
cucir la pelle della volpe dove non arriva quella del leone, che fu consiglio
di un re spartano: perché l'onnipotente Leo- ne, facendo ruggir il mondo dagli
abissi fin alle stelle, chiamerà tutti; e ciascuno dee saper e dire
“circumdabor pelle mea”, come disse Giob. Quell'aurora porterà un giorno
tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi sarà arte da far
vedere il bianco per lo nero. S'u- dirà il decreto, che sarà l'ultimo delle
leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre, al piacer ed alla pena,
alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di fuggirsene in tutto,
quando la verità stessa aprirà le fine- 55 stre del cielo e, con la spada
accesa, troncherà il filo d'o- gni vano pensiero. 56 XXIV. Come nel cielo
ogni cosa è chiara Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la
dissimulazione, nell'altra non occorre mai; e lasciando di trattar delle anime
infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli
orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente feli- ci.
Ivi hanno lo specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca
il suo nome, come osservò Gre- gorio Nisseno, dimostra efficacia di vedere,
perché theós viene a theáome, ch'è mirare e contemplare. Veg- gono i beati
colui che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è
manifesto, perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono
a possedere il sommo bene, tanto piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può
succedere occasion di custodire in- teresse alcuno. Ma qui, dove siamo vestiti
di corruzzio- ne, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissi- mula
per rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia one- sto, pur è travaglio; onde
si dee aspirar al termine di questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo
dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero lume che, anche
per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella divina
essenza, i beati go- dono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine
dell'uo- 57 mo, essendo la piú alta operazione dell'intelletto, per mezzo
del lume della gloria che lo conforta; perch'es- sendo la divina essenza sopra
la condizione dell'intellet- to creato, può questi vederla, non per forze
naturali, ma per grazia; e come uno ha maggior lume di gloria del- l'altro,
cosí può meglio conoscerla, ancorché sia impos- sibile vederla quanto è
visibile, perché il medesimo lume della gloria, in quanto è dato a tal
intelletto, non è infinito. Or, considerando cosí sodisfatti, cosí felici, ed
in eterno sicuri, gli abitatori del Paradi- so, si vede come non han da
nasconder di- fetto alcuno; e per conseguenza la dissimulazio- ne rimane in
ter- ra, dove ha tutti i suoi ne- gozii.
The first stage X produces a screech volunaarity so that the rest of the world
should think that x he is in the state wwhich the NONvolunatry production woutl
SIGNIFY. Stage 2, produce X is now supposed not only TO SIMULATE pain-behaviour
but also to be recognised as simulating pain-behaviour. Stage three X screes so that Y not only recotgnises that
the behaviour is voluntary but also recognises that X intends Y to recognise his
behaviour as voluntary. We have underminded that this is a straightforward
piece of DECEPTION. DECIEVING consists in trying to get a creature to accept
certain things as SIGNS of something or other wihout knowing that this is a
FAKED case. Were would weuld have a sort of PERVERSE faked case in which
something is faked but at the same time a CLEAR thindictation is put in that
the faking has been done.Y can be thought of as initially BAFFLED by this
conflicting performance. There is this creature simulating pain but ANNOUNCING,
that this what he is doing. What on earth can it be up to me. If Y does raise
the question of why X should be doing this, Y might first come up with the idea
that X is engagnen in some form of make believe – a game to which Y is expected
to make some appropriate contribution. This is stage 4. But we may suppose,
tthere might be cases which coud NOT be handled in this way. If Y is to be
expected to be a participant whith X in some form of play, it ought to be
possible for Y to recognise what kind of contribution Y is supposed to make.
And we can envisage the possibility that Y has NO CLUE on which to base such
recognition, or again that though some form of contribution seems to be
suggested, when Y obliged by coming up with it, X instead of producing further
play-behaviour geets corss and perhaps repeats its original and now problematic
performance. This is stage 5, at which U supposes thanot that X is engaged in
play that buta what I is doing is trying to get Y to believe or accept that X
is in pain. In relation to the particular example which I have been using, to
reach the position ascribed to in in stage five, Y would have to solve, bypass,
or IGNORE, a possible problem presented by X/s behaviour. Why SHOULD X produce
what is NOT a genuine but a FAKED expression of pain if what X is trying to get
Y to believe is that X IS in pain? Wy not just let out a natural bellow?
Possible answers are not too hard to come by. For example, it would be UNMANLY,
or otherwise uncreaturely, for X to produce NATURALLY a natural expression of pain,
or that X’s NON-NATURAL faked production of an expression of sincere pain is
NOT to be supposed to INDICATE EVERY feature which WOULD be indicated by a
NATURAL production (. The non-natural production or emission, for example, of a
LOUD BEELLOW might properly be taken to indicate pain, not that THAT degree of
pain wich would correspond with the DECIBELS of the particular emission. This
problem would not, however, arise if X’s performance, instead of being
something which, in the NATURAL INVOLUNTARY case, woud be an EXPRESSION of the
STATE of X which (in the non-natural faked case) is is intended to get Y to
believe in, were rather something MORE LOOSELY connecterd with the state of
affairs (NOT NECESSARILY A STATE OF X) which it is intended to conveye to Y.
X’s performance, that is, would be SUGGESTIVE, IMPLICATURAL, in some
recognizable way, OF THE STATE of affairs WITHOUT being a NAUTRAL involuntary
response of X to THAT state of affairs. We reach then stage 6. Where the
correlation is meant to be something other than inconic. A stage in which the
communication vehiles do not ave to be, initially A NATURAL SIGN of what which
it is used to communicate. Provided a bit of behaviour could be expected to be
seen by the receiving creature as having a discernible connection with a
particular piece of information, that bit of bheaviour will be usable by the
transmitting creature, provided that the creature can place a fiar bet on the
cconnetion being made by the receiving creature. Any link will do, proided it
is detectable by the receiver, and the ooser the links creatures are in a
position to use, the greater the freedom they will have as communicators, since
they will be less and less restricted by the need to rely on a proor natural
connection. The widest possible range is given where creatures use for these
purposes a ANGE of communication devices which or gamut of communication
devices which have NO ANTECEDENT connection at all with the things that they
communicate or represent, and the connection is simply made ofbecause the
sassupmtion of such an artificial connection is prearranged and foreknown. Here
creatures can simply cash in on the stock of information built into them. In
some cases, the devices might have other features above the one of being
artividial. They might infolve a finite number of roto devices and a FINITE set
of fmodes or forms of combination – combinaroty operations, which are cableble
of being used over and over again. The creatures whihcll have what some have
thought to be characteristic of a language, a communication system with a
finite set of initial devices, together with semantic provisions for them, and
an understanding of what the functions of those modes of comination are. As a
result, they can generate an infinite set of complex communication devices,
together with a correspondingly infinite set of things to be communicated. This
gives a rationale ro communiationThe muth exhibits the conceptual link Torquato
Accetto. Keywords: dissimulazione onesta, dissimulazione disonesta nell’animali
– mimesis – camuffare, camouflage, laboratorio di mascheramento – vegetato:
camuffamento uffiziale dell’esercito italiano. vegetato: camuffamento uffiziale
dell’esercito italiano, simulation as the key concept to unify the only sense
of ‘sign’ x consequentia y, y seq-uitur x, segno naturale divenne segno
artificiale – segno di una proposizione p – un gesto segna la proposizione p,
la correlazione e iconica – ma se intenzionale, it cannot be ‘natural’. Passage
in ‘Meaning revisited’ --. -- Giulio Cesare, Medici – grigio – esercito -- Accetto.
Refs. Luigi Speranza, “Grice ed Accetto” – The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza, Liguria.
Achillini (Bologna). Filosofo. Grice: “It is
from Achillini that I draw the idea that ‘mean’ is essentially a ‘consequentia’
relation – he speaks of the sillogismo fisiognomico (those spots do not mean
measles, YOU mean that you have measles, since you painted them yourself!” –
but then he was ‘of’ Bologna, and thus a physician, more than a philosopher!
Bless his little heart!” Grice: “The fact that the Loeb Classical Library has
Aristotle’s Physiognomica helped!” -- Grice: “I like Achillini; he is my type
of logician.” “Possibly, his most generalised implicature is his little
philosophical tract on ‘de prima potestate syloogismi,’ translated during the
second world war as “la prima potesta del sillogismo.’ His example: “all men
are mortal, Garibaldi!” -- Filosofo. Essential Italian philosopher. Grice:
“What fascinates me about Achillini is, first, that he belonged to a varsity
older than mine, Bologna; second, that he was a Renaissance occamist, as Matsen
has shown.” Alessandro Achillini (Latina Alexander Achillinus)
filosofo. Achillini è nato a Bologna e ha vissuto la maggior parte della
sua vita. Era il figlio di Claudio Achillini, membro di un'antica famiglia di
Bologna. E 'stato celebrato come docente in filosofia presso Bologna e Padova ,
ed è stato designato "il secondo Aristotele." Lui era di natura molto
semplicistico. E 'stato qualificato nelle arti di adulazione e di doppio gioco
a tal punto che i suoi studenti più argute e imprudenti spesso lo consideravano
come un oggetto di ridicolo, anche se lo hanno onorato come insegnante. Egli
possedeva anche un bel carattere vivace. Secondo la descrizione di un collega,
che era bello, alto ma ben proporzionato, allegro, felice, spesso sorridente, e
affabile. Achillini mai sposato. La sua reputazione tra i suoi colleghi era
ammirevole ed era molto rispettato. E anche se era ben Achillini lettura e
formidabile in un dibattito, è stato detto di essere un po 'rigida e rigido
nella sua docenza. Dopo la sua morte, molte persone sono state estremamente
devastati. Le sue opere filosofiche sono state stampate in un volume in
folio , a Venezia , e ristampato con notevoli aggiunte. E 'morto a Bologna e fu
sepolto nella chiesa di San Martino. Tra le sue scoperte notevoli, è conosciuto
come il primo anatomico per descrivere le due ossa tympanal dell'orecchio,
chiamato martello e incudine . Ha mostrato che il tarso (parte centrale del
piede) è costituito da sette ossa, ha riscoperto il fornice e l'infundibolo del
cervello. Inoltre ha descritto i condotti delle ghiandole salivari
sottomascellari. Suo fratello è stato l'autore Giovanni Filoteo Achillini
, e il suo pronipote, Claudio Achillini, era un avvocato. Fu costretto a
lasciare Bologna a causa della espulsione della potente famiglia Bentivoglio di
cui era un partigiano. Poi anda a Padova dove è nominato professore di filosofia. Iniziò
ad insegnare quando aveva 21 anni. Ad eccezione 1506-1508, è stato professore
di filosofia a Bologna. Achillini era un professore presso Padova. Achillini
insegna a Bologna per ventotto anni, che è più lungo di chiunque abbia mai
insegnato a Bologna in la filosofia. Padova ha uno statuto, che se un
professore è riuscito a leggere in qualsiasi giorno assegnato, o non è riuscito
ad avere un certo numero di studenti che sarebbe essere documentati e poi ci
sarebbe stata una diminuzione di stipendio per evento. Achillini non soddisface
il requisito per la lettura, a cui è stato penalizzato 351 lire bolognesi.
Anche riceve due lettere fortemente formulate dal Comune di Bologna, affermando
che la sua assenza non era autorizzata, e se avesse continuato avrebbe
penalizzato severamente (500 ducati d'oro per la prima
infrazione). Partecipa molti comitati di dottorato come membro per l'esame
e l'approvazione dei candidati. Ci sono registrazioni di lui che frequentano
almeno novanta volte al presente procedimento. I procedimenti sono esami di
dottorato o di elezioni dei nuovi membri della compagnia di collegiali medici.
Inoltre, e ben versato in teologia. I suoi disegni iniziali indicano un
interesse ad entrare al sacerdozio. Egli sembra aver iniziato gli studi al
seminario. L'anno in cui è entrata la tonsura nella Cattedrale di Bologna. E
anche se poi sposta la sua attenzione al mondo accademico, rimanne un filosofo attivo
per tutta la sua vita e ha contribuito a due Congressi Generali dell'Ordine Francescano;
uno a Bologna e un altro terrà a Roma.. Mentre in residenza a Bologna, è
accreditato come strumentale nel generare interesse per Guglielmo di Ockham.
L'estensione del riconoscimento alcuno di Achillini è difficile da discernere,
ma si ritiene che i suoi contemporanei e all'università istigato una breve
rinascita Ockhamistica, come evidenziato dagli ultimi lavori dei suoi
studenti. pubblicazioni Le “Note anatomiche del grande Alexander
Achillinus di Bologna” dimostrano una descrizione dettagliata del corpo umano.
Paragona ciò che trov durante i suoi dissezioni a ciò che altri come Galeno e
Avicenna trovano e note le loro somiglianze e differenze. Afferma ci sono sette
caratteristiche in sede di esame del corpo al posto del credeva sei data nel
libro di Galeno sulle sette. Queste caratteristiche sono sette dimensioni: il
numero, la posizione, la forma, la sostanza come in sottili o spessi, sostanza
in polposo o ossea, e carnagione. In questo saggio, dà anche indicazioni come
come procedere con alcune dissezioni e le procedure, come la castrazione,
l'estrazione della pietra, e la rimozione della gabbia toracica di esaminare
ulteriormente il cuore ei polmoni. E 'stato anche distinto come un
anatomista, tra i suoi saggi che sono De humani corporis anatomia (Venezia), e Expliciunt
Annotationes anatomicae in Mundinum Magni Alex. Achilini Boron. Editae per
euius fratrem Philoteum (Bologna) – Achillini Bononiensis opera lima ejusce
actoris repollita et extersa ac denuo maxima cura ac diligentia impressa
(Venezia). Di Achillini Annotationes anatomicae è stato pubblicato da suo
fratello, Giovanni Filoteo, E 'stato
pubblicato in un piccolo formato di diciotto fogli con un paio di poesie di sei
e due righe ciascuna. Ulteriore lettura Franceschini, Pietro Dizionario della
biografia scientifica Herbert Stanley
Matsen -- la sua dottrina di "universali" e
"trascendentali": uno studio in rinascimentale Ockhamism . Bucknell
University Press. Gallerie online, storia della scienza collezioni, University
of Oklahoma Biblioteche immagini ad alta risoluzione delle opere di e / o
ritratti di Alessandro Achillini in e il formato .tiff. INDEX TOTIVS OPERIS DVBIORVM,
ÇAPITVLORVM, ET EORVM QVAE NOTATV DIGNA VIDENTVR. finiti vigoris fit D e u s .
p a g . 1 . telligat. Vtrum prima forma quæ estvi tor. Virum
quodamordinerecedant intelligentiæ mediæ àpri. ma. 16 Virum intellectus
possibilissubijciatur accidentibus. Verum incelle&uspossibilis sit formadansesschominé.
23 In libro dc.Orbibus. Cælum eftingenerabile. Cælum non est
calidumnifivirtualiter Cælum nonindiget Athlante,ncq; animacogente. Cælum eft
naturæncutræ, Dubium secundum . Vtrum specizdifferant stella, & o r Stella
est continuasuoorbi. Stella eftdextrumcæli, Noucm gradus felicitatis secundum
Aristotelem & Commé Intercælosnoncft corpus replensvacuum. rarorem, ibidem
. Quid siccopulatio. Quomodo intelligitur propositio dicens recipiens debetelle
Verum quaruncung; intelligentiarum perfe& ioattendatur ibidem Vtruntalis
sit proportiomoventiú, qualiseftrefiftentiarī. ibi. Omnes diversitas stellarum
pene proportionabilem habet Nonetfellaterræ aliquando propinqua,&
aliquandoree Tantum motu diurno cælum stellarum mouctur. Puncto velocissimo diurni
motus non describitur æquino Aialis. Sufficit Afrologis imaginarium esseorbem,
quem putant Infra Solem sunt Venus& Mercurius. Vtrumtalisfit proportio
motus ad motum in velocitate, Regularis.cftmotuscæli. ibidem Verum apud
Thcologá independentia inferat infinitate. ibid. Dubium quartum. Vtrum
intelligentia sit. Solius naturalis est subftantiaabftra &
áelledernóftrare. 61 Dubium sextum.Verum intelle&usmoucatur. Deus non est
condensabilis, ncq;rarcfa&ibilis. Deus noncftintentionaliter variabilis.
Intelligentiæ mediæ sunt ingenerabiles & incorruptibiles. Incelligentiæ
mediæ sunt nonaugmentabiles & non diminuibiles. Intelligentiæ mediæ non
sunt rarefa&ibilcs, autcondensa Intd qualis cf desidcrijad desiderium. An
homo cognoscar infinitatem Dei. Quid per infinitatem intelligendum sit. ibidem
ibidem per se entiores. Vtrum possibile sit imaginare Deum esse potentiale.
ibid. Vtrum Deus conservar intelligentias. ibidem Vtrum ex maiore de necessario
sequatur conclusio de necella ibidem Ve rum 1. de generatione, tex.com.13.
probetur ab Aristotele materiam esse æternam . ibidem rio in figura
prima. -- penes appropinquationem summo. VBIVM primum.Vtrum in Vtrum
tantum Deum Deus in VTRVM in calofirmateria. Cælum est necessarium &
æternum. Vtrum possibile fitcs homo antequam moriatur intelligat substantias
separatas. Dubiumtertium. Vtrůcccentrici, & epiciclis intponendi. 48
Cælinon sunt perforati. Virum quanto naturæ lune viciniores materiæ,
cantosingim 37 timus finis, sit primus mo Vtrum Deus, liberomoucatcæ Cælum non
est rarefa &ibilcncquecondensabile. 7 Cælum non est senescibileneque
fatigabile. ibidem Dubium quintum .Vtrum Dæmon sit. ibidem Deus non est
alecrabilis. 20 35 36 Primus orbis mouet alios. Maxima sphærarum est stellata.
Cælum est incorruptibile. Cælum non est alterabile nisi intentionaliter 26
Aggregatum omnium cælorum est quasi vnum animal.Vtrum ponenda sir creatio.
Vtrum intelligemtiæmcdiæsint Cælum est cancumadiuum. productz. % Cælum est
corpus spirituale & divinum . Cælum est grave aut leve. 30 Cælum non est augmentabilencg;
diminuibile. Cælum non est sensibile nisi visu. Stellamoucturad motum sui
orbis. Vnum est centrum mundi. in Sole. 17 28 In libro de Intelligentijs. Vtrum
Deus fic intelle&usagens. Quid intellectus adeptus. stanci. primum mobile.
ncq; per accidens. denudatum à natura recepti. ibidem. mota. tumpot eft.
aliquomodo. Vtrum intelligentiæ inferiores intelligant superioram . 13 VIRUM
intellecus sit VIRTUS materialis. Virum intellectum possibilem habeat omnis
HOMO. Vtrum intellectus possibilis sit pure pocentialis. bis cius. Vtrum
felicitas sit Deus. 27 Nullo motum ouentur corpora cælestia nisi circulari.
Virum latitudo intelle&u ũlitvni formiter difformis. 33 Vtrum sequatur,
Deus est infiniti vigoris, ergo mouetinin Verum valcat hoc naturalicer mouct:
ergo ipsum movet quan Vtrum infinitum sit cognoscibile. Virum in substantia
ponendus sit gradus. ibidem Verum aliquis sit appetitus inclinationi naturali
conformis Deus est ingenerabilis & incorruptibilis. Deus non est
augmentabilis nec diminuibilis. non bonus. Vtrum intelligentiæ se conservent.
Verum intelligentiæ dependcantam phancasmatibus. ibid. Vorum Plato ponat formam
quæ nonc idea. ibidem . biles. Intelligentiz mediz non sunt alecrabilcs. lum.
ibidem Non est intelle&usagens in Deo, nisi identice nec possibilis Deus
non est localicer mobilis neq; persc, ncq; per partem, Vtrum vniversales
itnotius SINGULARI. Intelligentiæ mediæ non sunt intentionaliter variabiles.
Vtrum species prius apprehendatur quam genus. Inintelligentijs medijs est aliquo
modo intelle&usagens, & Vtrum formæ intentionales educantur deporencia
materiæ. inrelle& us possibilis. Intellectus possibilis est generabilis,
& corruptibilis. Dubium septimum. Vtrum cælum recipiat else ab
intelligencia. Vtrum vniversale sit innarum intelle&ui possibili, Vtrum
scientia sit ipsum scitum. Vtrum corpus subratione qua mouetur sit subiectum.
Vtrum omnium sensibilium corporum formas philosophus naturalis quidditatiue
consideret. An cælum philosophus naturalis quidditatiuc consideret. An
naturalis scientia pcedat ordinedo&rinæ metaphysicam. Quare in mathematica
non possumus a posteriori demon II2 Quomodo movens primum consideratur a
metaphysico. Dubium uerit. o&auum Vtrum cælum mutationem termina 90
vndecimum.Vtrum cælum sit sphæricut . 92 duodecimumVcrum cælum sit luminofum
dese.73 Non est lumen lunæ reflexum tantum. Dubium Dubium Vtrum morus cæli
fuerit æternus. Cælum movetur sine fatigatione & pæna. thematicam,
naturalem, & metaphysicam . VBIVM primum.Vtrum vniversalia ex i Intellectus
agens deus. fant inintelle&u. 104 Vtrum vniversale sit nomen tantum. ios
Verum vniuersales it ens rationis. Vtrum vniversale sit respc&iuum. Vtrum
vniversale sit extra animam in re abstractum . Vtrum vniversalia sint extra
animam. Vtrum vniversalia substantiarum sint substantia. Vtrum vniuersale sit
corporale. Vorum vniuersale sit corruptibile. Vtrum vniversale existat nullo
Singulari illius existente. An felicitas considerat in scientia speculatiua. An
felicitas sit vita. An felicitas sit sempiterna vita. An tanta sit æquiuocatio
dicatur de vivo & lapideo. Vtrum ad felicitatem requiratur scientia
moralis. Quomodo exdi&o speculatiuos equatur practicum. IIS Quid
demonstratio SIGNI, causæ tantum,& causæ & eltc. De quibus causis
considerat naturalis, mathematicus, & dini Verum cuiusq; causati scientia
sit per omnes cius causas. Intelligentiæ mediæ sunt localiter mobiles per
accidens ab alio nonå se. sensatum sit in intellectu. Intellectus possibilis
est augmentabilis & diminuibilis. Vtrum vniuersalia sine obic&uni
intelle&us. Vtrum vniuersalia ina&usinr in intelle&u. Intelle &
us est realiter alterabilis, terminatiue, non subiectiua Intelle&tus
possibilis eft localiter mobilis per accidens, Intellectus possibilis est
intentionaliter variabilis. Vtrum forma inintelle&u habeatesse singulare.
Verum vniuersale verius habeat dscinintelle&uquàm ex Cælum est
intelle&iuum, & appetitivum. bie &tum neq; tali mutationem ut ab ir
ura d non esse. Vtrum coelum sit sub ic & um principale naturalium. Vtrum
fubic&um attributionis in naturalibus sit cælum. Non concederet Aristoteles
cælum fuisse creatum neq annihilabitur. Apud Aristo.non incipit mundus esse
neq;desincr. Ad omnes operationes iniftis inferioribus cælum concurrit. Cælum
iftis inferioribus non imponit necessitatem . naturali neq causæ finalis.
Efficiens duplex. Non est influentia cæli instrumentum diftin&um a motu
& primum efficiens à naturali consideratur. Quomodo corpora cælesia sunt in
loco. extra . Vtrum vniuersale fit idem vel diuersum á singulari. Vtrum
vniuersale fit causa fingularis. Quomodo, materiaà mathematico consideratur.
Quomodo naturalis quatuor causas considerat. Vtrum melius sitponereinrationeformali
subiedimobile 1Virum ex nihilo aliquidfiat. quàm moueri. sophianaturali. Vnde
Quid ficmoueri localiter,fecundum forinam ,& fecundum materiam. Quæ
intelligibilia cósideranturà mathematico, qàmetaphy. Dubium cercium
decimum.Verum quiescente cæloparient Vtrumvnum& idemfitcaulasubie&i&
accidentis. contenta, Vtrum vniuerfale fic in singulari. Cælum
quatuorcausashaber. Vtrumvniuersaliadeclarentquidditatem fingularium. ErrorGalenidecertitudincMedicinæpra&ticæ.
Vtrumvniuersaliaprædicenturdesingularibus. ftrare. Quomodo ccelum alteratur. In intellectu possibilieftintellc&tusagens.
Ratio formalis subie&I naturalis philosophiæ . Cælum estcffc&iúumhabentiumnacuraniininferioribus.
Nontotumgenuscausæformaliscósideraturàphilosopho Cælum eftconferuatiuumhorum
inferiorum . luminc.nus. 1 Coelumestcompofitumexmateria& forma. Cælum
cftviuens,& non eftnegativum , Cælum eftaniinal, & noneftsensibile. TRTM
naturatum sitfubic&um inphilo Cælum eft finaliter ,formaliter, &
materialitercausatum. Cælum est esse Aiue conservatum. Vtrum subiectum
contincat omnes veritates ad scientiam pertinentes. Nonestmutatumcælum
adellemutationenonhabentelu Vtrum aliquid quodnonmoucturexsc,sitsubic&uminna
turaliphilosophia Non fuit mundus generatus,neq;corrumpetur.' Vtrum subiectum philosophiæ
sit ampliusquàmcorpus. Dubiumnonum. Vtrum cælunifitfinitæmagnitudinisin
Quidsitordocorporum inphilosophianaturali. adu. Quidfitordoperfectioniscorporumnaturæ.
Dubium decimum .Vtrum coeluitiilicvnum. Virum motus coelifit naturalis. In
intellectum humanum nondire&eagiccælum . In Tractatúde Vniuerfalibus. Vtrum
moralis scientiafitexcludeda àtrinaphilolophiæ di uisionc pofira ab Arift.6.metaphysicæ
tex.com.2.in m a Vtrùm vniuersaliasinescientiarci. Vtrumvniuersaliafinirforniæ
Vtrum vniucrsaleànaturadenominatadifferat: Vtrum morssequaturadnaturammateriephilosophia
naturalis prima ordine doctrinæ præparans intelle&umad Verum vniuersale quantum
eftdescnoneftinintelle&u,nec felicitem. Medicinam subalternarinaturaliphilosophiæ.
Vtrumvniuersalesensibilium,cuiusnulluinsingularefucrit
Quidmateriaprimaquidfecunda,&quidformasimplex, tra. In Libro de Physico
auditu. Vtrum natura fitfubic&tumlibri phyficorum, Naturalisnonhabetde cælo
perfe&tissimamcognitionem. Ante sensum ellevegetationem . An homo sit
æquivocum . Vcrumfinitiadinfinitumnullasitproportio. IVnde do
&rinaordinaria. Vtruinmagisvniuersalefit primo cognitum. Vtrum philosophi naturalis
sit probaresuaprincipia. Quæ principiapolsintinscientiaprobari.Virum
formaappetatmateriam Vtrūpriuatiofitcausaappetitusmateriæ definitiomateriz Quid
materiasecunda. Duplex generalissimum substanciae. Deaccidencibuscælinorandum .
Vtrūformaantcquagenereturpræcxiftarinmateria. Vtrum infinitumfitignotum.
Vtruminductiofitbonaconsequentia. Vtrum principiasintcadem . Priuatio,quarcprincipiumperaccidens.
Quid generatio fimpliciter ,&secundumquid. Sperma propria esse masculi et
non feminæ. Et quiddeopi altcrumfcilicetperformamnionc Galeni. Opinio Alexandri
de intelle& u possibili. Dubium verummateriahabcataliquamformasub Materiacæli,nunquam
fincpriuationc. Principium perquodindiuiduuinefthoceftforma. Trinitasprincipiorumplatonica.
Intelle&uspossibiliscorruptibilis& generabilis.
Quareinconceptudifferentiænoincluditurgenuscuiusest Metaphysicæ,triplex subicctum.
Differentia. Quid fit realiter distingui. Vtrum
materiasinequantitatefirdiuisibilis. Vtrum tresdimensionesfintpassiones quantitatis.
Vtrum compofitum ex materia & formacllcfitacceptum a
Vtrummateriafitprodu&aàDco Vtrum mareria fic forma Propositionespersenotæinphilosophianaturali.
Vcrum polsibilesitrotocontinuoquiescentepartemillius Diuisioformæ,& naturæ.
130 De principiomotus augmentationis, & alterationis. In libris de
Elementis TRVM materiaexistat. Quid sittransmutatiosubstantialisquidac
Quomodoipsaestmediuminterens& nonens.
DubiumfecundúanSortenonexistenteSortessitho. 158: Dubium tercium quid
cftmateria. Uam. Materia non ch operatiuanisipaciendo. Materianonperfccxistitsedinaliofcilicetcomposito
Sper Quómodo logica considerat de ente reali. Quæ ressintprimaprincipia.
Terminigenerationis& corruptionis. quid. Quomodo materiaeftcns Cogitatiuavlcimatapræparatioadintelle&um
. Andemonstrationesinmathematicaprocedantpercausam.
Quomodomateriamediumdiciturinternihil & ago. Vtrum eadem sintnobisnota
& naturæ. Appetitus duplex materialis & cumfenfu Quomodo materiæ acciditq
fit potentia. Melius eft dicere causas esse notiores natura quàm naturæ.
Quædiffinitiodescriptiua. Demonftrationesinphilosophianaturali, quæ a priori.
Quomodo aliquideßin prædicamentoadaliquid. Quomodo homo cognoscitin
cognitionenaturæ. Virum materiasir suapotentia. Quomodo artificinorioreftcaula.
Verummateriasitpotentiaomncsformæ. Formalapidisextraintelle&tumestvniuersaleintentio,aliud
Vtrumtriaprincipiaexæquoprincipientmotum à fubicéto. Vtrum vniuersalia sint realia.
Quomodo consuctudo alteranatura. Verum fingulare fit per se intelligibile.
Vtrum vniuersalia sint prius nota singularibus. Primum cognitumà nobis
fingulare,& secundocognitum Quomodoexnonenteperaccidensfitaliquid.
Vtrúcademproportiomateriæsitpotétiæ oésformæ, Vtrum
intelligentiæhabcantmarcriam . Vtrum materiafitminusperfe&aaccidente. el
vniveriale. A b intelle& uagente non datur definitio. Quomodo intelligentiæ
sunt mobiles. Vtrum quantitas realiter diftinguatur à materia. metaphysico.
Vniuerfaliarationeintelle&usinquofunthabent aliquid Vtrum matcria fit Deus
æterni. Quid maximum fit & quid minimum non. Termini accidentales ex quibus
fitaliquid. Quomodo conucniuntq,uomodo differüt. Quid generatio simpliciter,
quid secundum Quomodo ipsacftinprædicamento. Vtrum
transmutatioficripofsitdeindiuidnovniusspeciei Quomodo
materiacivnumcumpriuatione ad indiuiduum ciusdem specici. Quomodo priuatio fub forma
comprchenditur. Dubium quartum vtrum materia sit substantia. Virum insubstantial
sit contrarictas. Vtrù philosophu snaturalisdebcatprobaremateriäсssc Quarcmagispriuatiocftidemmateriæquàmformæ
Materiahabctdifferentiam ,circunscriptiuam,nonconficuti Vtrum tantum criafintprincipiarerum
naturalium Vtrum generatio fit subita. Auicennae opinio de forma corporcitatis.
Materia prima consideratur à philosopho naturali. Matcriacftinduobus prædicamentis.
Dubiumquintumvtrummateriafitforma Materiam nonestina&umotiuointellectus torum.
Dubium vtrum materiapossitexisteresincforma Opiniones tres de præ cxistencia
forma in materia. Philofophi naturalis eft Quarcformasubstantialiscontrarium
probarematcriamesse,formameffe, non habet. compositum effc.
Anfrigiditasaquæminorsitfrigidicasterræ. moucri localiter. Vtrum principia sint
contraria. Vtrum generatio accidentalissequaturalterationcm . Sex
positionisdifferentia. Materianonestcompositum,ncq;aliquodquatuorclemen
Vniuersale triplex Conceptü fpecificădatintelle&usagens,& nó
gencricũ.124 Vtrum incælosirmateria. Vtrum materiapossitellesincpriuatione.
Quid requiritur ad hoc vtaliquafintideinfimpliciter. Concretum
principaliterfignificatqualitate,& quare. VtrummateriaAuat. A Muliere
duplicem exirehumiditatem . Vtrum priuatiofitprincipium Quomodo priuatioprincipiumperaccidens
Quomodo cælumvariarlocum secundumformam . Differentia materiæ eft poccntia,&nona&us
nisi negatiuc. · Matcria nonhabetformamabipsainseparabilem, fedquam Scientiæ
naturalis duplicia sunt principia. Virumens ficvniuocum , Vtrùm
quanrirastermineturterminisproprijgeneris. Virum totum fitsuæpartes. Viruni
forma fitab agente. Vtrūmctaphysicisit probare substantia abstractus esse Virum
ficdarçminimum. Verum priuatio fit principium per se. Materia libet perdere
poteft. Virum materiaapperat. Materiatertia,& quarta. stancialem fibi
propriam cidentalis Dubium o&auum,vtrummateriaprimasitvnanumero omnium
generabilium ,& corruptibilium . nat sint summa. Verum aërficfrigidus.
Remotæ potentiæ numerantur numerarione specierum. Materia est potentia
Cubic&iua ntelle&ui. Dubium vtrum materialitquantitas. Dubium 16.vtrum
quantitatisuccederepossitaliaquantitas Dubium vtrum quantitas præueniat formam
subftantia leminmateria. In Quæstione de subiecto Physionomiæ . VID princpium
cognitionis tantum, & co Principiorum in complexorum proprietates
Principiorum complexorum quærit metaphysicus proprietates corruptibilitatis Verum
ambæ qualitates quasynum elementumsibidetermi Mareria non cftvnumesseina&u.
Potentia describit materiam. Potciitiæpropinquæ materiæ sunt quatuor. Dubium23.
vtrum essentia sit esse. Subic&um,quomodopersenotuminscientia Physionomia,&
chiromantiascientiæ. SiestElementum, præsupponitur, quiaipsumeftfubic&um
Physionomia &chiromantia naturalisubalternantur considerationi Artic.
Tertio princinalitercósiderandüeltcirca mixta Quomodo
intelle&usfitpra&icus. Quæ operationespraxesdicuntur. Eidem scientiæ
subalternaripra&icam& speculativam. Artic.Quarto principaliter
considerandum circa animatave getaciva , aut sensitiua. Vtrum deturminimum
innaturalibus. Vtrum calidicas, frigiditas, ficcicas,& humiditas, sint
qualita- Cor esse primam fenfusredicem secundum Arist. 264 Quæstio de priina
syllogismi potestace. nobis. Vtrum terrasitvbiq; habitabiles. Cogitativam
virtutem componere. Materia non eftspecies. Dubium nonum vtrum possit
elleqrinco de supposito sint Condensare & rarefacere non perscsequuntur
qualitatespri multæ materiæ mas . Dubium vtrum materia sit per se
intelligibilis. Materia non potest esse &iue neque formaliter mouereintcl
uitare. Materianonestdeseina&uenticaciuo. Dubium vtrummateriasitsuapotentia.
Vtrum terrarespe& ucælifitvtpun &um . Vtrumterrasiessetlucida,&
existeret in cælo videretur á Dubium 18.vtrum quantitas in terminata fit
quantitaster minata nomia. Dubium verum materia primasır causa generabilitatis
& Homo secundum quod natura bonus subiectum in physio Contra Scotum de
subiecti continentia. Materia non eå quidditas nisi improprie. Ens et esse sunt
idem. Essentia et existentia sunt idem . Forma estesseactu. In demostratione
simpliciter passio de subiecto concluditur. Quid subiectum primum per
attributionem . 258 Quarc substantiain metaphysica subiectum eftper attribu
Dubium 24.vtrum totum sit suæ partes. Dubium vtrum forma ante generationem
habeat este principalitatis. reale in materia. Dubium27.vtrum privatio sit res Contra
Galenum de numero complexionum. An in compofito substantiali
pluressubltantialesformarepe De via in physionomia & chiromantia. riantur.
Scicntiaalterumduorummodorumdiciturpra&ica. 262 Vtrum cælum componatur ex
quiditatibus, & videturelit, Quomodo theologiatora pra&ica. quialubente
continetur, & sub corpore Prudentia circa quæ. Artic. Quinto principaliter
considerandum de homine. anip Experientia quid. fo animam intellectivam
expectet sensitiva. Vrrum aliquidmoucat se. te. Vtrum figuram aliquam sibi
determinet elementum. Vtrum vnum elementum sit locus naturalis alterius. Vtrum
vnum elementum in alterum immediateta an(mura Vtrum ignis sit primo calidus Vtrum
elementa media æquáliter habeantde grauitatc& lc Homo in quantum lanabileå
naturaliconsideratur. Ta , & tamen propositioestignora, Quid requiriturad
hoc vt subie&um fit adæquätum Quid requiritur ad hoc vtfubic&um sit
primum primitate 2180 Aegrotabile in ratione formalisubie&imedicinæcaderenon
Genita ex putrefactione alterius sunt rationis a generare Dubiū 12.vtrú materia
fir generabilis& corruptibilis Vtrum terrasit frigidior aqua. fitnul.
Dubium Is.vtrü materia fine quantitate habcat partes Dubiumzz.verummateria 176
Solum ponenda sunt prædicamentorum Quantitasestquod passiocftnota.& idquod
est ciuscau sit. pars quidditatis. & quo aliquid est Quomodo aliquando genera
logicalia. nationis primæ sub antiæ. Dubium vtrum priuatio principium. potest. In
in materia . quæruntur in naturalibus . resprima Quæstio de subiecto medicina,
Materia efteffepotentia . rionem, Dubium vtrum formasubstantialis 179. Quid
bonum animi. sitprincipium indiui Rario formalis subie&i,quid Latitudines
in elementis compleri per contraria. Non cft potentia dc effentiali
diffinitione materiz. Compositum est vtroque participans. ripossit.
Subic&ũnon debet prædicari de principijsfubie&i,& quare. Materia
inférior aliquomodo præfcindipoteft. Quare qualitates elementorum di&tæfunt
effc elementisfub Verum qualitatessymbolæ elementorumsinteiufdemfpe
Itantiales ciel Quo mod o
intelligiturpriuationem per secorrumpi. Materiaapudphilosophumestintelle&a Vtrumterrasitcentrummundi.
Maceriacælinonpoteftpræscindiàforma. lectum . Dubium 11.vtrummateriasitgenus Anaërfitprimohumidus.
Dubium vtrum materia appetat formam . Dubium vtrum appetitus fit
naturalismateriæ Arric. Secundo principaliter considerandum est composicum
Quomodo medicina partim practica, & partim theorica, lic militer &
theologia, similiter & logica. generabile. Verum tantum quatuor sint
elementa. Virum prima qualitates sint formæ substantiales elemento genitis per
propagationem contra Scotum. Run gnitionis & cffc. Propriumnonageneresolumfluit,sedådifferentia,&
gene Genita per putrefa & ionem non esse eiusdem rationis cuna De
elleanabellentia distinguatur. Caput secundum devno. Error Auer. de necessarij
SIGNIFICATIO nci Caput tertium ,de vero Caput quartum, de bono, Ens tripliciter
eft quid. Quidditatiuum de quibus dicitur. Capursextum, dere, pagina. Caput
septimum, decodem subiecto. Quomodo pars formæ fluit. ElTeidemin forma quatuor
habet gradus. Caput nonum, decodem secundum materiam. Capur 12. de eodem
difinitione. 260 Quomodo Deus eftf elicitas modo intelligitur Caput20. dediftin&ione
ex natura rei Verum distinctio ex natura rei sit accepta ab Arist. Vtrum
diffinitio& definitum ex natura rei distinguatur ra rei non realiter An
communicabile,& prædicabiledifferant Differentia individualis est ipsa
forma in composita ex materia 297 An Deo accributa propriamhabeant infinitatem.
299 Accidens non realiter distinguia substantia reis ubic&a Materiam &
formam realiter distinguivult Scotus, &Sá&tus Thomas oppositum,
similiter& Aver. rant . liter ili.
Vtrumdiftin&tioperdiffinitionemfitdiftin&iopersolum Anomnia quæ sunt
idem realiteralicui, fintilli formaliter Capur 13. de eodem habilitate.
Dedifferentiainterpositionemquæeftprædicamentum ,& positioncm quæ estdifferentiaquanti.
idem. ter. An fialiqua fintidem essentialiter, illasint idem realiserant..
Quomodointelle&uspossibilis & agens sunt vnum, & quo- Ansiali qua
sint idem se totis subiective, illa sint essentiali modo duo. differant. De
subiecto & propria passione, quomodo suntidem. An fiali
quasetotisfubic&iuc differant, illafccotisobie&tiuc differant.
Vtruma&us intelle&us possibilis collatiuusfitin primaope Ansi aliqua
fecoisfubic& iuc differant,illafctotisobic&i Caput 19.
dedistin&ionc rationis ratione intellectus. Vtrum fit aliquis
conceptusfi&us. ue idem. obie Aiue. Vtrum omnis diftin&iofitrcalis aut
rationis. Verum conceptus a rebus quarum sunt conceptus, sint ratio Verum omnis
distinctio sit aliquid positiuum. ne distinAi. . In libro de
Distinctionibus. Intelle&us & voluntas sunt idem Quid
eftaliquidsynonyma. APYT primum decncis SIGNIFICATIONIBVS pagina. Quomodo
speciesre intelligibilis, a&usintelligendi,&habi tuis intellectus sunt
idem . Cogitatiua,& intellectus idem materialiter Igncitas, leuitasest simpliciter,&
forma ignis substantialis. Differentia inter hominem
metaphysicum,&hominemna Vtrum prædicatio specicide genere fit pe rse.
Anista propofitiofitpersc, homo albus est homo albus. De sensu communiquid
Auer. & Vtrum CONCRETVM & abftractum formaliterdifferant.
Quomodophantalinatasuntintelle&tus speculatiuimate Vtrum humanitas sit animalitas.
Ria dedistinctionercali. Caputo&auumdecodemsecundumformam .
Aninierdistin&ionesdatasàScoristisfitordo. Vtrum diftin&io secundum modum
differtàdiftin&tionele Vtrum omnis distinctio ex natuta reisit distinctio
ratio cundum esse. Memorativam in medio ventriculo cerebrimanifeftari. Potentia
substantialis prior est accidentali.& deprædicamento substantiæ. Vtrum
fialiquaessentialiterdifferant,realiterdifferant. Vtrum
fialiquarealiterdifferant,illaeffentialiterdiffe verum ex coq essentialiter
dicitur aliquidcaliquo dicatur Vtrum sialiquas et otisfubic&tiue differant,
illaeffentiali rerdifferant. vniversaliter de codem & femper.
decodemacuvelpotentia An fialiquaessentialiterdifferant, illa
secotisfubic&iucdif Quæ sit maxima identitas. Vtrum seclula operationc
intelle&us possibilisresrationc differant. An si aliquas intsetotis
obicctiucidem, illasintsctotissub ie&iueidem. Qữo genus,&
differentiarationedistinguantur,& nonrc. Vtrum
prædicamentarcalitedrifferant. An relatiodifferatàfundamento. D e diftin
&ionecaloris naturalis ab artificiali. VerumcumSortesnoneaipsesitens Materiam&formamnondistinguisecundumesse,quomon
Entis diuisio de distinctione modali. 296 Duo modi realis distinctionis. Vtrum
fialiqua realiterdifferant.illa formaliter differant An fialiquasint
essentialiter idem , illa sint sctotisfubic&tiuc Quomodo dequo Vtrumintelle&usagens&
possibilisdistinguanturexnatu 281 teria& forma.
Ens,res,autsubatantiagenerasuntanalogicedi&tadeDeo* Caput22.
dediftin&ione formali. turalemsecundumScorum. 298 Intelle&um appetere
contra Scotum.& secundum Thomam .3 appetitivam cognoscere Quomodo
intelligitur secundam intelligentiam esse vnam 304 Caput18.decodem secundum
dispositionem. San&tum An diversitas & differentia coincidant in idem.
Vtrum omnia formaliter diftin &ta realiterdifferant. ter idem Caput de
distin &t i o n e e ssentiali. de'eodemsecundummodum Caput25.dedistin&ionesetorissubie&iue.
Vtrum distinctiosecûdumessesiesufficicnsadhocvt contra dictoria verificentur de
aliquo. formaminsubie&o,&multaindiffinitione. Vtrumomniaquæsuntidemformaliteralicui,fincidemrca
Vtrum ellediffinitioneidem ,siteffeidemsecundumeffe. nis. Vtrum omnia
formaliter distincta ex natura rei diffe Caput 11.de codem secundum else de
distin 301 &ioneserorisobic & iuc. opus intelle& us. Vtrum
quælibetconceptus ftinguatur. abalioconceptu, solaratione di Vtrum omnis diftin
&iofitde genere relationis: Caput 14. decodem inredemonstrata. Capite
16.decodem effentialiter. 205 Vtrum ex comparatione intelle&uspossibilis,
fiantrespe&us, Ansialiquasiti demserotisfubic&iua, illasintidemsetotis
qui sunt genus aut species. rant. ter. Caput1s.decodem secundumpositionem Vtrum
sialiqua sintidem rcaliter, illafint idem effentiali 292 194 Vtrum distinctio
fitrcfpc&iuum . fitiones habere possint. 317 Melius est non
videre quædam, quàm videre,quomodo in Proportio maior est, quæ maiorem habet
denominationem. telligitur. Regulæ tres proportionum secundum Ari Quomodo
sensus in prædicamento qualitatis, actionis, palo An deus cognofcatchimeramantaligidfi
um .An incelle&tusina&u, vtintellc&us intelligentiarum propo
Proportionis divisio . 307 308 Vtrumveritasdifferatàpropofitionevera.
Inintellc&tuardo. pliciterabftra&arum aliquam veritatem videat persuam ftotclem
. Q &uplaquare duplael quadruplz. In
quæstione demotuum propor Voluit Arif.deum cognoscere hæc inferiora, 313 Motys
(equitùr dominium 318 . 323. FINIS. Alessandro Achillini.
Achillini. Keywords: corpo umano, singulare, individuo. Refs.: Grice, “Achillini’s problem with
transcendentals and universals,” Luigi
Speranza, "Grice ed Achillini," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Acito (Pozzuoli).
Filosofo. Grice: “Acito, who would
have thought it, made me read Cuoco’s brilliant novel on Plato based on an
epigram by Cicero (“You know, Plato was there, in Taranto!” – Acito has also
written on corporations – whatever they are (the mob) – and on Macchiavele --
Filosofo. Del periodo fascista e attivista del regime. Studiato a Torino.
Iscritto all'Albo degli Avvocati di Milano, divenne direttore della rivista “Tempo
di Mussolini”. Selezionato al Premio San Remo per libro “Machiavelli contro
l'anti-Roma.” Partecipa come rappresentante italiano al Congresso dell'Unione Europea
degli Scrittori a Weimar. Insegna
diritto, storia e dottrina del fascismo a Genova. “Il Popolo d'Italia,” “L'Oriente
arabo”. “Odierne questioni politiche della Siria, Libano, Palestina, Irak;
“Popolo d'Italia”; “Corporazioni e sindacati nello stato, nella storia, nei
partiti politici” (Milano, Trasi); “Il volto della rivoluzione”; “Storia della
rivoluzione”; “La dottrina dello stato”; “Realtà nazionali”; “Il Fascio e la
Verga” (Milano, Morreale); “L'idea unitaria dello stato” (Milano, Sonzogno); “La
idea romana dello stato unitario nell’antitesi delle dottrine politiche
scaturite da diritto naturale”; “La dottrina dello stato in Cuoco”; “Contributo
allo studio del pensiero politico del secolo XVIII” (Milano, Sonzogno); “La
corporazione e lo stato nella storia e nelle dottrine politiche dall'epoca di
Roma all'epoca di Mussolini: introduzione allo studio del diritto corporativo”
(Milano, Pirrola); “Catalogo della mostra di sculture e disegni di Vincenzo
Gemito” (Milano Castello Sforzesco Milano, Orsa; “Il trattato di ben governare:
opera inedita di Tommaso da Ferrara del 1500”; “Tempo di Mussolini”; “L'ordinamento
dello stato corporativo nel pensiero di Mussolini e nelle decisioni del Gran
Consiglio del Fascismo” (Tempo di Mussolini); “Le origini del potere politico:
"Omnis potestas a Deo" nelle discussioni degli scrittori politici del
Trecento” (Tempo di Mussolini); “Machiavelli contro l'Antiroma, Tempo di
Mussolini. “Il concetto di popolo” Tempo di Mussolini, “Il problema morale
della rivoluzione” Tempo di Mussolini”, “La crociata anti-materialistica dell'asse”;
“Tempo di Mussolini”; “Storia e dottrina del Fascismo”, “parte generale:
Nozioni fondamentali” (Milano, Guf). Onorificenze Medaglia di Benemerenza per i
Volontari della Guerra Italo-Austriaca nastrino per uniforme ordinariaMedaglia
di Benemerenza per i Volontari della Guerra Italo-Austriaca (19Medaglia
commemorativa dell'Unità d'Italianastrino per uniforme ordinariaMedaglia
commemorativa dell'Unità d'Italia Medaglia commemorativa delle campagne
d'Africa (1882-1935)nastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa delle
campagne d'Africa, Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia Croce al merito
di guerranastrino per uniforme ordinariaCroce al merito di guerra. Frank-Rutger
Hausmann, Annuario ufficiale delle forze armate del Regno d'Italia, Istituto poligrafico
dello Stato, I professori dell'Pavia, Amedeo Bianchi, Professore all’Università
Bocconi: Notizie sulla famiglia Acìto Filosofia Filosofo Professore Pozzuoli
MilanoStudenti dell'Università degli Studi di Torino Avvocati italiani del XX
secoloProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori
dell'Università degli Studi di Pavia Decorati di sciarpa littoria Personalità
dell'Italia fascistaCavalieri dell'Ordine della Corona d'Italia.. È con
Roma che nasce il diritto e nasce lo stato, perciò lo stato romano è lo stato
giuridico. Infatti, il fondamento giuridico della società e dello stato, impide
che a Roma si sviluppa la demagogia. Persino la repubblica a Roma è aristocratica. Il senato, che impersona lo
stato, è un corpo eminentemente aristocratico e il popolo stesso, inquadrato
negli ordini della milizia, non degenera. Lo stato presso i romani afferma la potenza
del suo carattere unitario, sintesi delle prime gentes rurali e militari.
Questa qualità fa nascere il SENSO DI DIRITO che il genio romano applica nella
formidabile organizzazione politica e sociale dello stato. Questa
organizzazione statale che si reassume nel genio di Giulio Cesare e che detta
l’impalcatura all’impero, altro non è se no la crezione dello stato unitario,
che è una gerarchia di AUTORITÀ, FONDATA SUL DIRITTO, tutelata dalla forza
militare, al quale [diritto] il CIVIS resta subordinato, ma nel quale [diritto]
trovoa la regolazione giuridicamente definita e GARANTITA DEI SUOI RAPPORTI
PRIVATI. SUBORDINAZIONE perciò incondizionata DEL CITTADINO ALLO STATO. IL
PRINCIPIO DI AUTORITÀ domino tutta la COSTITUZIONE POLITICA dello stato romano
e ne regge la potente struttura. Il cittadino romano non conosce l’antitesi ed
ha una morale sua PROPRIA. IL MOS MAJORUM ANIMA I COSTUMI di Roma. Il successive
consolidarsi del capitaismo, se pure di capitalism puo parlarsi nell’epoca
antica, o meglio l’avidita delle richezze, CORRUPPE quello STATO DI
PRIMITIVITA. Mentre il mondo dell’economia a schiavi si estendeva, il
paganesimo non agi come MODERATORE DEGLI ISTINTI INDIVIDUALI. Optimates
and Populares, (Latin: respectively, “Best Ones,” or “Aristocrats”, and
“Demagogues,” or “Populists”), two principal patrician political groups during
the later Roman Republic from about 133 to 27 BC. The members of both groups
belonged to the wealthier classes. Skip in 1s FAST FACTS Facts
& Related Content Date: c. 133 BCE - 27 Areas Of Involvement: Patrician
Related People: Lucius Domitius AhenobarbusQuintus Caecilius Metellus Celer
Marcus Porcius Cato Marcus Aemilius Scaurus Titus Annius Milo...(Show more) See
all facts and data → The Optimates were the dominant group in the Senate. They
blocked the wishes of the others, who were thus forced to seek tribunician
support for their measures in the tribal assembly and hence were labeled
Populares, “demagogues,” by their opponents. The two groups differed,
therefore, chiefly in their methods: the Optimates tried to uphold the
oligarchy; the Populares sought popular support against the dominant oligarchy,
either in the interests of the people themselves or in furtherance of their own
personal ambitions. Finally, it is well to remember that the Senate’s authority
was based on custom and consent rather than upon law. It had no legal control
over the people or magistrates: it gave, but could not enforce, advice. Until
133 BC any challenge to its authority was little more than a pinprick, but
thereafter more deadly blows were struck, first by such Populares as Tiberius
and Gaius Gracchus, then by Gaius Marius, and finally by the army commanders
from the provinces. Gli Ottimati (in latino: Optimates, cioè i migliori)
erano i componenti della fazione aristocraticaconservatrice della tarda
Repubblica romana. Nascita della fazione Modifica In origine
influenzavano la vita politica romana, essendo la gestione della Res Publica
appannaggio soltanto di quella ristretta cerchia di nobili che avevano le
possibilità e la cultura per dedicarsi alla politica. In seguito alla
Secessione dell'Aventino, però, le classi popolari e piccolo e medio borghesiriuscirono
a ritagliarsi una fetta di potere, da esercitare mediante loro rappresentanti:
i tribuni della plebe, magistrati dotati di potere legislativo (per esempio il
diritto di veto su qualsiasi legge o decreto del Senato), nonché di auctoritas,
ovvero l'autorità morale. Inoltre erano conferiti della sanctitas, ossia la
sacra inviolabilità della loro persona, che rendeva ogni atto sovversivo,
finalizzato a danneggiarli materialmente o fisicamente, un delitto gravissimo.
Per rispondere a questa organizzazione politica del popolo, anche i patrizi
romani si allearono tra di loro nel movimento politico degli
"optimates" (it. "ottimi", "nobili"), cioè il
partito aristocratico. Organizzazione del movimento. Modifica In effetti
la fazione aristocratica non era un vero e proprio partito politico secondo
l'accezione moderna del termine (nonostante sia a volte chiamata Partito
Aristocratico). Era bensì una confederazione di nobili, ciascuno dei quali era
politicamente indipendente (o quasi) dagli altri, grazie ad una diffusa rete di
clientele e di alleanze che ciascun nobile gestiva in modo autonomo.
L'appartenenza ad un'unica fazione era resa però evidente dall'alleanza di
tutti i nobili "optimates" con il Senato, dal comune interesse a
conservare tutti i privilegi nobiliari, nonché dalla comune avversione nei
confronti dei "Populares" (l'organizzazione politica dei ceti
popolari e borghesi) e dei "Tribuni della Plebe". Gli Ottimati,
infatti, desideravano limitare il potere delle Assemblee della plebe ed estendere
il potere del Senato romano, che era considerato più stabile e più dedicato al
benessere di Roma. Si opponevano anche all'ascesa degli uomini nuovi (plebei,
di solito provinciali, la cui la famiglia non aveva avuto esperienza politica
precedente) nella politica romana. L'ironia era che uno dei principali campioni
degli ottimati, Marco Tullio Cicerone, era egli stesso un uomo nuovo.
Oltre ai loro obiettivi politici, gli ottimati si opposero all'estensione della
cittadinanza romana fuori dall'Italia (e si opposero perfino ad assegnare la
cittadinanza alla maggior parte degli Italici). Favorirono generalmente alti
tassi di interesse, si opposero all'espansione della cultura ellenisticanella
società romana e lavorarono duramente per fornire la terra ai soldati congedati
(erano convinti che soldati felici erano probabilmente meno disposti a
sostenere generali in rivolta). La causa degli ottimati raggiunse l'apice
con la dittatura di Lucio Cornelio Silla (81 a.C.-79 a.C.). Sotto il suo
potere, le Assemblee furono private di quasi tutto il loro potere, il totale
dei membri del Senato fu portato da 300 a 600, migliaia di soldati si
stabilirono nell'Italia del Nord e un numero ugualmente grande di popolari fu
giustiziato con le liste di proscrizione. Limitò i poteri dei tribuni della
plebe, ridusse i consoli e i pretori ai compiti cittadini della direzione
politica e dell'amministrazione della giustizia e vietò di ricoprire una
medesima carica prima che fossero trascorsi dieci anni. Tuttavia, dopo le
dimissioni e la successiva morte di Silla, molti dei suoi provvedimenti
politici furono gradualmente ritirati, ma furono più durature le innovazioni
nel campo del diritto e del processo penale. Appartenevano agli
"optimates" importanti uomini politici quali Lucio Cornelio Silla,
Marco Licinio Crasso, Marco Porcio Catone detto Il Censore e Catone Uticense,
il già citato Marco Tullio Cicerone, Tito Annio Milone, Marco Giunio Bruto e, a
parte il periodo del Triumvirato, Gneo Pompeo. Voci correlate. Modifica
Repubblica romana Plebe Patriziato Romano Lucio Cornelio Silla Marco Tullio
Cicerone Gneo Pompeo Marco Licinio Crasso Tito Annio Milone Collegamenti
esterni. Modifica ( EN ) Ottimati, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorit GND ( DE ) 4172652-2
Antica Roma Portale Antica Roma Diritto Portale Diritto. Alfredo
Acito. Acito. Keywords: sindacato, stato unitario, idea unitaria del stato,
Cuoco, storia di Roma, popolo d’Italia, materia e spirito, anti-materialistico,
anti-materialistica, popolo, popolazione, Peacocke – sistema di comunicazione
per una popolazione – idioletto – procedimento idiosincratico – idioletto,
dia-letto – comunita, immunita. . Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Acito,” The
Swimming-Pool Library.
Aconzio (Trento). Filosofo. Grice: “I like
Aconzio way of LISTING the devil’s strategies – and naming tdhem after abstract
nouns represented by females: superbia, … etc. – He says he philosophised on
‘dialettiica’ but only for his fellow Italians, and writing to Russell (Lord
Bedford) he adds, ‘it would be fastidious to present them to you!” – When
Elizabeth received his copy of ‘Il timore di Dio,’ she asked, alla Hardie, ‘And
what, Mr. Aconzio, is the meaning of ‘of’?” -- Grice: “I like Aconzio, and so did
my mother – a High Anglican! Aconzio’s claim to fame is twofold: his
“Stratagemata” which resembles Speranza’s study of Apel – only that Aconzio is
‘stratagemata satanae’ – and his “De method” which inspired Feyerabend, an
American professor at the newish varsity of Berkeley in the New World, to
philosophise ‘Contro il metodo.’” – Grice: “There is a small passage in “Del
metodo” – and an even smaller in “Stratagemata” – where Aconzio seems to have
invented (but soon disinvented) the idea of a conversational implicature!”
-- Filosofo. essential Italian
philosopher. Grice: “What I like about my fellow Brit, Aconzio, is that unlike
Feyerabend with his ‘Anything goes,’ Aconzio cared to write about ‘method.’ Ora è
noto per il suo contributo alla storia di tolleranza religiosa. E 'stato
tradizionalmente pensato per essere nato a Trento, anche se era probabilmente
Ossana. E 'stato uno degli italiani, come Pietro Martire e Bernardino Ochino,
che ha ripudiato la dottrina papale e, infine, ha trovato rifugio in
Inghilterra. Come loro, la sua rivolta contro romanità ha preso una forma più
estrema di luteranesimo, e dopo un soggiorno temporaneo in Svizzera ed a
Strasburgo arriva in Inghilterra subito dopo Elizabeth adesione s'. Studia
legge e teologia, ma la sua professione era quella di un ingegnere, e in questa
veste trovalavoro con il governo inglese. Al suo arrivo a Londra si une
alla Chiesa riformata olandese a Austin Frati , ma è stato infettato con ana-baptistical
e pareri Arian" ed è stato escluso dal sacramento da Edmund Grindal,
vescovo di Londra. Gli fu concessa la naturalizzazione. E 'stato per qualche
tempo occupati con drenaggio Plumstead paludi, per i quali si oppongono i vari
atti del Parlamento sono stati passati in questo momento. E inviato a riferire
in merito alle fortificazioni di Berwick e sembra che era conosciuto in
Inghilterra sia per il lavoro come ingegnere e di un riformatore religioso e
sostenitore della tolleranza durante l'inizio della Riforma. Prima di raggiungere
l'Inghilterra pubblica un trattato sui metodi di indagine, "De Methodo,
hoc est, de recte investigandarum tradendarumque scientiarum ratione"
(Basilea). Il suo spirito critico lo pone al di fuori tutte le società
religiose riconosciute del suo tempo. La sua eterodossia si rivela nella sua
"Stratagematum Satanae libri octo," talvolta abbreviata in
Stratagemata Satanae. Gli stratagemmi di Satana sono i credi dogmatiche che
affittano la chiesa cristiana. Aconzio cerca di trovare il comune denominatore
dei vari credi. Questa è la dottrina essenziale, il resto e irrilevante. Per arrivare
a questa base comune, dove ridurre il dogma a un livello basso, e il suo
risultato è in generale ripudiato. "Stratagemata Satanae" non è
stato tradotto in inglese fino al 1647, ma in seguito è diventato molto
influente tra i teologi liberali inglesi. John Selden applicata alla
Aconzio l'osservazione, "bene ubi, nil melius; ubi maschio, nemo
pejus" -- "Dove buono, nessuno meglio. Dove male, nessuno
peggio." La dedica di un tale lavoro alla regina Elisabetta illustra la
tolleranza o lassismo religiosa durante i primi anni del suo regno. Aconzio poi
trova un altro patrono in Robert Dudley, primo conte di Leicester. Saggi:
Stratagematum Satanae libri octo, De methodo sive recta investigandarum
tradendariumque artium ac scientarum ratione libello, De methodo e Opuscoli
Religiosi, opuscoli filosofici, Giorgio Radetti, Firenze: Vallecchi) Somma
brevissima della Dottrina Cristiana Una esortazione al timor di Dio; Delle
Osservazioni et avvertimenti che haver si debbono nel legger delle historie
Traduzione in inglese, Tenebre Scoperto (Satana stratagemmi) , London
(facsimile ed., Scholars' Facsimiles & ristampe. Trattato Sulle Fortificazioni,
Paola Giacomoni, Giovanni Maria Fara, Renato Giacomelli, e O. Khalaf (Firenze:
LS Olschki). Riferimenti Attribuzione Chisholm, Hugh, ed. " Aconcio, Giacomo
". Enciclopedia Britannica, Note finali: Di Gough Index a Parker Soc.
Publ. Di Strype Grindal , 62, 66
Dictionnaire di Bayle G. Tiraboschi, Storia della letteratua italiana (Firenze,
Smith, Elder & Co. link esterno Allgemeine Deutsche Biographieversione
online a Wikisource Opere di Jacob Acontius a Post-Riforma Digital Library. Molti
riformati italiani vedremo cercarvi rifugio.Colà erasi ricoverato Jacobo
Aconzio, valoroso giureconsulto di Trento, il quale nel 'opera “De Methodo, sive
recta investigandarum tradendarumque scientiarum ratione (Basilea1558) aveva
ripudiata ladialettica ordinaria, propo nendo un nuovo metodo di giungere al
vero collo scomporre e ricomporre più volte la cosa,ed esaminarla sotto aspetti
diversi, passando dal noto al l'ignoto. Alla divina Elisabetta regina
d'Inghilterra, da cui ebbe ripetute attestazioni di stima, dedicò "Gli
Stratagemmi di Satana in fatto di religione (Basilea 1565),libro allora molto
acclamato, e tradotto in varie lin gue,ov'egli studia di ridurre a pochissimi
idogmi essenziali del cristiane simo , nello scopo d'indurre le sêtte a vicendevole
tolleranza. Aveva avuto per compagno Francesco Betti romano ,che al mar In
Chap. 3, Caravale investigates the long publishing success of Acontius’s
Satan’s Stratagems in seventeenth-century England. After reconstructing the
popularity of Acontius among the Dutch Arminians in the 1610s and 1620s, the
chapter focuses first on the religious debates that involved Catholics,
Arminians and Latitudinarians in 1630s England and then on the heated
controversies which characterized the English Civil War in the 1640s.
Particular attention is given to debates at the Westminster Assembly of
Divines, where the Presbyterian Francis Cheynell suggested forming a Committee
to examine Acontius’s book, which had just been (partially) translated into
English and published by John Goodwin in 1647. The condemnation of the book
issued by Cheynell’s Committee did not stop Acontius’s supporters from
circulating his book widely. Indeed, new editions of Satan’s Stratagems were
published in the early 1650s. This chapter follows this exciting publishing
story as a significant part of the cultural and intellectual history of
Revolutionary England. What was hidden behind the intriguing title exalting
Satan’s Stratagems? This chapter aims to answer this question in an attempt to
understand the extraordinary success of Jacob Acontius’s masterpiece and
contextualize its line of thinking. The reader will find a careful
reconstruction of the author’s intellectual biography (ca 1520–1566) from his
early career as a notary in Trent, Italy to his conversion to Lutheranism in
the mid-sixteenth century, his escape from the peninsula and his sojourn in
England as an engineer. Acontius soon became involved in religious
controversies in England in the early 1560s, which is when he wrote his major
work, Satan’s Stratagems, arguing consistently for an extremely broad and
tolerant vision of Christianity. The book is analyzed in detail and comparisons
are made with his previous publications and other major contemporary books on
similar topics. 1565. Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio authore,
accessit eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad Johannem
Vuolfium Tigurinum eodem authore. 1565. Jacobi Acontii tridentini de
Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem,
hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo. 1648.
"Satan's Stratagems, or the Devil's Cabinet-Council discovered, ...
together with an epistle written by Mr. John Goodwin and Mr. Durie's letter
concerning the same." London. J. Macock. Sold by J. Hancock. 1648. 4to.
British Museum. George Thomason's copy, now in the British Museum, contains his
correction of the date to 1647, and records its purchase on February 14 of that
year. The translation contains three dedications, one to the Parliament,
one to Fairfax and Cromwell, and one to John Warner, lord mayor. The translator
announces that if his work was well received he would complete it, but only
four of the eight books were published. The stock was then sold apparently to
W. Ley, who reissued it, with a new title, "Darkness Discovered; or, The
Devil's Secret Stratagems laid", London. J. M. 1651. 4to. With a
doubtfully authentic etching of the Italian author, ‘James Acontius, a Reverend
Diuine.' This translation is an English version of Jacopo Aconcio's celebrated
work, "Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio authore, accessit
eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad Johannem Vuolfium
Tigurinum eodem authore. Basileæ, ap. P. Pernam. 1565. 4to. The Dictionary of
National Biography says that this is the genuine first edition, of extreme
rarity. Brunet records an octavo edition of the same year, place,
and publisher, but with a variant title: Jacobi Acontii tridentini de
Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem,
hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo. Basilea.P. Perna.
1565. 8vo. Reprinted, Basileæ, 1582, 8vo; and 'curante Jac. Grassero,' ib.,
1910, 8vo; ib., ap.Waldkirchium, 1616; ib., 1618; ib., 1620; Amsterdam,1624;
Oxon., G.Webb, 1631, sm. 8vo; London, 1648, 4to; Oxon., 1650,
12mo; Amsterdam, Jo. Ravenstein, 1652, sm. 8vo; ib., 1674,sm.8vo; Neomagi,
A. ab. Hoogenhuyse, 1661,sm.8vo. The Dedication of the first edition, to Queen
Elizabeth, begins,with grandiloquent flattery, Divæ Elisabethæ, etc. Les Ruzes
de Satan receuillies et comprinses en huit liures. Basle. P. Perne. 1565. 4to.
Also, Delft, 1611, 8vo, and ib., 1624, 8vo. Further, Bâle. 1647. sm. 8vo
(German translation), and Amsterdam, 1662, 12mo (Dutch translation). The Satanæ
Stratagemata is a book which had a considerable influence in the development of
opinion. In all, I record twenty-one editions of it , five of them of English
imprint , and all of them publications of about one century, 1565–1674, the era
of the Reformation. Aconcio's argument was the simplification of dogmatic
theology. In general, he reduces the doctrines of Christianity to a strictly
Scriptural basis. He argues that the numerous confessions of faith of different
de nominations are simply the ruses of the Evil One, the 'Stratagems of Satan,'
to tempt men from the truth. He protests against capital punishment for heresy,
and favours toleration among all Christian sects. Such liberal theology is
distasteful alike to Calvinists, who accused Aconzio of Arianism, and to
Catholics, who index his essay. The Tridentine Index Libb. Prohibb. (1569)
places "Satanæ Stratagemata" among anonymous books, but the Roman
Index of 1877 describes the essay accurately. Acontius
(Jacobus) -- Jacobi Acontii tridentini de stratagematibus Satanæ in religionis
negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc.,
libri octo. Basileæ, P. Perna, 1565, in-8 (1936 ou 8884"). Première
édition d'un ouvrage singulier qui jadis a fait beaucoup de bruit parmi les
théologiens protestants, mais qu'on ne lit plus guère aujourd'hui. Il doit se
trouver dans ce volume un traité du même auteur, intituli: "De ratione
edendorum librorum," qui a paru égalementent 1565, et qui aétéréim primé
dans l'édition des "Stratagemata Satanis", donnée par Jacq. Grasser,
à Basle, chez Conr.Waldhirche, en 1610, in-8, sous un titre qui diffère de
celui de la première édition. Les autres éditions de ce livre n'ont pas de
valeur. La plus répandue parmi nous est celle d'Amsterd., Jo. Rawestein, 1652,
pet.in-12; celles d'Oxford, 1631 et 1650, pet, in-12, ne le sont guère moins.
LES RUSES de Satan, recueillies et comprinses en huit livres, p pet. in-4.
Cette traduction a été reproduite à Delft, de l'impr. de B. Schinckel, 1611, et
aussi en 1624, in-8.; ce pendant les exemplaires n'en sont pas communs; celui
del'édit. de 1565, qui était rebé en mar: ., n'a été vendu que 6 fr. chez La
Valliere, mais il serait plus cher aujourd'hui. L'ouvrage est traduit en
Namand, en allemand et aussi en anglais. L'auteur, nommé Jacobus Acontius sur
le titre de ce livre, avait pour nom italien Giacomo Concio. M. Graesse cite à
l'article Acontiues l'ouvrage suivant, qu'il dit très-rare. UNA essortazione al
timor di Dio, con alcune rime italiane, nuov, messe in luce (da G. B.
Castiglione). Londra (senz'anno), in-8. Aconce .De
stratagematibus Satanæ in religionis negotio, per superstitionem, errorem,
hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. LibriVIII. auctore
Jacobo Aconcio. Basileæ,1565, in-8. et Amstelodami, 1674, in-8. Cet
ouvrage impie a été dédié à Elisabeth, reine d'Angleterre. Il en aparu une
traduction française à Basle en 1565,in-4.; à Delft, en 1611, et en 1624, in-8.
L'auteur s'est proposé, dans cet ouvrage, de réduire , à un très-petit
nombre , les dogmes de la religion chrétienne, et d'établir une tolérance
réciproque entre toutes les sectes qui divisent le christianisme: c'était
le vrai moyen de déplaire à toutes. Un
singolarissimo saggio in favore della tolleranza apparve nel 1565 per opera del
giureconsulto trentino Giacomo Aconzio o Aconcio, saggio che fu posto
erroneamente fra i libri di magia per il suo strano titolo, "De
stratagematis Satane in religionis negotio, per superstitionem , errorem ,
hæresim , odium, calumniam, schisma, etc." (Basil.). Esso per contro
è il primo libro, al dire dell'Hallam (op. cit. ii, cap. 2, p. 84), in cui,
secondo la tendenza sociniana, si sia cercato di ridurre gli articoli
fondamentali della religione cristiana al più piccolo numero possibile,
escludendo, per esempio, quello della trinità e tutti gli altri non razionali.
E ciò allo scopo di trovare un punto di appoggio comune e di universale
consenso per tutte quante le sette, in cui è scisso il cristianesimo, e quindi
una base sicura per la tolleranza reciproca di tutte le credenze. L'Aconcio si
leva vivissimamente non solamente contro la pena di morte, ma contro qualunque
pena inflitta ai pretesi eretici, ed esce in questa esclamazione. Se il
sacerdozio riesce a prendere il disopra, se gli si concede questo punto, che
non appena un uomo avrà aperto la bocca il carnefice dovrà venire a troncare
tutti i nodi col suo coltello, che cosa di venterà lo studio della Scrittura?
Si penserà che essa non vale guari la pena che altri se ne occupi; e, se mi è
permesso di dirlo, si daranno come verità i sogni dell'immaginazione. O tempi
infelici! o infelice posterità, se noi abbandoniamo le armi con le quali
soltanto possiamo vincere il nostro avversario! (CANTÙ, Op. cit .,
II, 451). Il saggio ebbe subito gran voga e fu tradotto in francese, in
inglese, in tedesco ed in olandese. Anzi esso godette nel secolo seguente in
Olanda di una immensa popolarità ed autorità. Aconcio intanto viene citato fra
molti altri scrittori del suo secolo d'autori della tolleranza nel libro di
Mino Celso senese, sotto il cui nome si ritenne per un pezzo si celasse o Lelio
Socino od altri, ma di cui invece consta che fuggì da Siena nel 1559, vagò tra
i Grigioni tre anni, e quindi si ridusse a Basilea, ove cercò sempre di mettere
concordia fra i dissidenti (1). L'opera si intitola: "In haereticis
coercendis quatenus progredi liceat, Celsi Mini Senensis disputatio. Ubi
nominatim eos ultimo supplicio afici non debere, aperte demonstratur,
Cristling. 1577. Fu ristampata nel 1581 senza indicazione di luogo, con due
lettere di Beza e Dudicio in senso opposto; e inoltre nel 1662 ad Amsterdam col
titolo, "Henoticum Christianorum, seu Disputatio Mini Celsi, etc. Lemmata
potissima recensa a D. 2. (Dom .Zwickero). È una lunga dissertazione accurata,
ove tra l'altro si sostiene bastare abbondantemente contro gli eretici le
ammende e l'esiglio. Loscritto di Gioacchino Cluten: De Haereticisan sint
comburendi? Argent., 1610, contiene, oltre alla prefazione del Castellion alla
sua Bibbia latina, una raccolta di passi di più scrittori in favore della
tolleranza (2). Una difesa, piena di giustizia e di moderazione, della causa
della tolleranza è pure quella del teologo sociniano tedesco Giovanni Crell
(1590-1633), intitolata, "Vindiciae pro religionis libertate (3). Essa fu
tradotta poi nel 1687 dal Le Cene in francese, e riveduta dal Naigeon, sotto il
titolo, "De la tolérance dans la religion. Al dire dell'Hallam, ancora nel
1760 l'Holbach l'avrebbe tradotta e ripubblicata (4). (1) Il SENKENBERG nelle
aggiunte alla Bibliotheca realis iuridica del Lipenius,Lips.,1789,p.187,
ricorda una edizione, s . I. 1562. Non ho potuto vedere il saggio; ma tale
indicazione andrebbe poco d'accordo con quanto altri riferiscono, cioè che Mino
Celso citi già l'ACONZIO.Giacomo Aconzio. Aconzio. Keywords: satana, diavolo,
implicatura di satana – stratagemmi -- negozio – religione, per superstizione,
errore, eresia, odio, calunnia, scisma, ecc.
Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Aconzio," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Acquisto (Monreale). Filosofo. Grice: “I like Acquisto; he was a
priest, but you’d hardly notice it; but then he was jailed and few priests get
that! They must be real bad boys! But
blame it on the mess that the Capri area found itself at that time – In any
case, he reminds me of Manser, the Waynflete professor of metaphysics –
Acquisot was very systematic –I would think his semiotics, strictly, is exposed
in a chapter in the second part to his masterpiece, the ideologia – the first
is psicologia, and the third is logica – in Ideologia, he is a Lockeian – words
stand for ideas – and ‘linguaggio’ is the most effective ‘means of
communication’ to transmit them – native or natural signs, like a ‘grido’ do
communicate, but that’s it – ‘I’m in pain,’ but not ‘The cat sat on the mat.’’
– He is hardly original but then neither is Leibniz, or Locke or Kant, for that
matter – His emphasis is on the atural versus artificial and pours scorns on
those philosophers who tried to improve on the Latin language – created by the
Umbrians, he claims --.which is artificial enough!” “raffaele d'acquisto
– n. Monreale -- arcivescovo della Chiesa cattolica Incarichi
ricopertiArcivescovo di Monreale Nato1º febbraio 1790 a Monreale
Ordinato presbitero5 febbraio 1814 Nominato arcivescovo23 dicembre 1858 da papa
Pio IX Consacrato arcivescovo2 gennaio 1859 dal cardinale Antonio Maria Cagiano
de Azevedo Deceduto7 agosto 1867 (77 anni) a Palermo Filosofo.
Fu uno dei principali esponenti della storia del pensiero filosofico in Sicilia
nell'800, fautore di quella linea ontologista che vide, allora, moltissimi
seguaci in Sicilia e che mise in collegamento la riflessione filosofica
siciliana con quella presente nel resto d'Italia, in particolare con la
dottrina ed il pensiero di Vincenzo Gioberti. Il suo pensiero risulta una
sintesi fra la psicologia cartesiana ed il dinamismo di Leibniz a cui si
aggiunge la tradizione teologica e filosofica cristiana che prende come punti
di riferimento sant'Agostino e san Bonaventura da Bagnoregio. Pubblicò
numerose opere i cui contenuti spaziavano dal pensiero intorno a Dio al
creazionismo, dall'onnicentrismo all'analisi dell'uomo come essere vitale che è
insieme Potenza, Sapienza ed Amore. Indice 1L'età giovanile 2L'età
adulta, l'insegnamento universitario e le opere 3La carica di arcivescovo ed i
moti insurrezionali 4Gli ultimi anni 5Il pensiero filosofico 6Opere principali
7Genealogia episcopale 8 9 10 L'età giovanile Benedetto D'acquisto nacque come
Raffaele D'Acquisto a Monreale il 1º febbraio 1790 da Niccolò D'Acquisto di
professione calzolaio e da Maria Di Meo. Sin da giovanissimo manifestò uno
spiccato interesse verso lo studio e per questo motivo fu iscritto dai genitori
alla scuola del seminario di Monreale. All'interno del seminario il sacerdote
Benedetto Signorelli rimase favorevolmente colpito dalle grandi doti e
dall'ingegno di Raffaele D'Acquisto e decise di fornirgli i mezzi economici
necessari per continuare gli studi in quanto i genitori non potevano
garantirgli l'accesso all'istruzione superiore. Fu in segno di riconoscenza nei
confronti di questo sacerdote che Raffaele decise di cambiare il suo nome in
Benedetto. Da quel momento in poi verrà, infatti, ricordato come Benedetto
D'Acquisto. Nel 1806 all'età di 16 anni entrò a far parte dell'Ordine dei
Frati minori riformati a Palermo dove prima compì gli studi superiori in
filosofia e teologia e poi divenne insegnante nello stesso convento.
Successivamente otterrà anche la laurea in filosofia presso l'Università degli
Studi di Palermo; insegnerà tale disciplina anche in corsi universitari presso
il collegio San Rocco di Palermo sito in via Maqueda nel centro della
città. L'età adulta, l'insegnamento universitario e le opere. Concorse
alla cattedra di filosofia all'Palermo, ma la scelta della commissione
esaminatrice cadde su un altro candidato ed allora anda ad insegnare filosofia
presso il seminario arcivescovile di Palermo. Vinse il concorso per la cattedra
di etica e diritto naturale all'Palermo e venne eletto arcivescovo, vi dedica
le sue energie intellettuali migliori che gli valsero anche la carica alla
vicepresidenza dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo. Questo è
anche il periodo in cui pubblica le sue opere principali ed in cui il suo
pensiero raggiunge una grande fama. Tra gli saggi più importanti di questo
periodo si possono ricordare “Elementi di filosofia fondamentale”, il “Sistema
della scienza universale”; la “Genesi e natura del diritto di proprietà” (Palermo
-- lodata persino da Napoleone III);
“Trattato delle idee o Ideologia” in cui porta a compimento la costruzione
della sua filosofia teoretica e lo studio sulla “Necessità dell'autorità e
della legge” in cui tratta tematiche inerenti al diritto. Pubblica una
delle sue opere più importanti intitolata la “Cognizione della verità” che
rappresenta una sintesi armonica fra la filosofia e la teologia. In quest'opera
sottolinea gli stretti rapporti tra il Creatore e le sue creature pur nella
loro sostanziale ed infinita distinzione e differenza e presenta
un'antropologia filosofico-teologica che concepisce l'uomo sotto un triplice
aspetto (puro, trascendentale, fenomenico), caduto per sua libera scelta
nell'errore e nel male, ma che pure ha in sé la condizione necessaria ma non
sufficiente per la sua elevazione verso la verità e verso il bene,
condizione che soltanto grazie ad una rivelazione esterna diventa sufficiente
ed attuabile. Questo saggio rappresenta il punto massimo del pensiero del
filosofo monrealese. Oltre a questi scritti D'Acquisto ci ha lasciato
anche un trattato di logica dal titolo “Organo dello scibile umano”, pubblicato
postumo a Palermo ed un manoscritto inedito e privo di titolo attualmente
conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo. La carica di
arcivescovo ed i moti insurrezionali Benedetto D'Acquisto fu nominato
arcivescovo di Monreale il 23 dicembre 1858 da papa Pio IX. Appena entrato
nell'arcidiocesi dovette confrontarsi con un periodo turbolento caratterizzato
dalla rivolta di Monreale del 4 aprile 1860, dall'arrivo delle truppe
garibaldine e dal conseguente tramonto del regime borbonico. Con la
costituzione del Regno d'Italia versò una cospicua somma di denaro per
equipaggiare la neonata Guardia Civica. Questo gesto gli meritò l'attenzione e
la gratitudine di re Vittorio Emanuele II che in occasione della sua visita al
duomo di Monreale volle premiare Benedetto D'Acquisto con la commenda
all'Ordine Mauriziano con la motivazione di essersi distinto egregiamente nel
campo della filosofia. Tuttavia nel 1866 scoppiò a Palermo la Rivolta del sette
e mezzo, una violenta insurrezione antigovernativa che in breve tempo si estese
anche ai territori limitrofi in particolare Monreale e Misilmeri. In questo
contesto D'Acquisto fu nominato presidente del Comitato insurrezionale di
Monreale con l'obiettivo di mantenere l'ordine pubblico nella cittadina
normanna, ma non poté fare molto, perché di lì a poco la situazione degenerò ed
i rivoltosi misero a ferro e fuoco la provincia di Palermo, causando la morte
di 21 carabinieri e 10 guardie di pubblica sicurezza. Dopo sette giorni
l'insurrezione fu domata dalle truppe governative ma Benedetto D'Acquisto fu
arrestato. Il generale Raffaele Cadorna, inviato dal governo come regio
commissario con il compito di reprimere la rivolta siciliana, nella sua
relazione al Consiglio dei ministri accusò D'Acquisto di avere incoraggiato il
moto rivoluzionario e lo qualificò come "notissimo e pericoloso
reazionario". Fu rinchiuso in prigione prima a Monreale e poi in altre
località per circa un mese insieme ad altri uomini illustri come Giuseppe de
Spuches, famoso letterato, poeta ed archeologo. Rimesso in libertà
provvisoria nel 1866, ngodette del provvedimento di amnistia e ritornò a Monreale
per continuare la sua missione pastorale. Gli ultimi anni Ritornato nel
suo luogo natìo, si dedicò, dopo la diffusione del colera, all'assistenza di
coloro che avevano contratto tale malattia. Tuttavia si ammalò anche lui e morì
a Palermo. Fu tumulato nella chiesa di Santa Rosalia, una piccola parrocchia in
campagna alla periferia di Monreale, ma dopo una solenne cerimonia le sue
spoglie furono traslate nel duomo di Monreale. Il suo pensiero
filosofico, nell'ambito teoretico e delle relazioni logiche e dialettiche, si
avvicina molto a quello platonico ed agostiniano con vistose influenze anche
del pensiero di Fidanza. Nell'ambito dell'ontologia si rifà alla scuola
metafisica di Monreale, il cui più importante esponente fu Miceli, di cui Acquisto
rappresenta il naturale seguace e studioso. Il nucleo centrale della sua
filosofia consiste nella sintesi fra psicologia ed ontologia. Egli
colloca nella coscienza il fondamento teoretico della conoscenza scientifica e
divide le idee in tre categorie: l’idea sensibile che riguarda il mondo
materiale, l’idea intellettuale concernenti il proprio essere e l’ideea
necessaria relative a Dio. Questi tre tipi di idee co-esistono
contemporaneamente nello spirito umano. A queste tre categorie ne aggiunge una
quarta definita come idee "di rapporto" che permettono all'individuo
di esprimere giudizi e formulare ragionamenti. Nell'analisi del processo
conoscitivo crea la sua nozione di onni-centrismo in cui riesce a trovare un
equilibrio fra due poli apparentemente all'opposto: l'individualità e
l'universalità. Nella sua concezione onni-centrista riesce a far
coesistere l'io individuale con l'io trascendentale sviluppando così un'unità
reale fra intuizione sensibile ed intelletto. Dall'unità tra intuizione
ed intelletto si crea l'intuito intelligente che contiene in un nesso
ontologico tutta l'umana vitalità e che mette in relazione l'individuo con
l'intuito dell'azione creatrice dell'essere assoluto. Questa visione avvicina
molto Acquisto a Rosmini e Gioberti. Il filosofo monrealese tratta anche delle
relazioni fra morale e diritto. L'azione derivante dall'attività dello spirito
può rimanere all'interno dello spirito stesso senza manifestarsi all'esterno e
trasformandosi così in un atto giuridico. Questo atto giuridico costituirà la
legge morale che conduce l'individuo a conformarsi alla natura, alla ragione ed
a Dio. Tutto ciò rappresenta la sintesi perfetta fra l'essere naturale e l'essere
spirituale. Infine nella sua opera Corso di diritto naturale afferma che
il diritto di proprietà è presente in ogni individuo che lo utilizza per
raggiungere il suo scopo naturale. Il diritto, dunque, nella vita
dell'individuo tende essenzialmente alla conservazione, allo sviluppo e al
perfezionamento della natura umana. Il diritto POSITIVO, invece, ha l'obiettivo
di far prendere coscienza all'individuo delle proprie azioni e di creare una
perfetta armonia fra il diritto stesso e la moralità. Ma soltanto l'onnipotenza
di Dio puo portare alla coesistenza perfetta e senza contrasti fra fede e
scienza. Opere: “Elementi di filosofia fondamentale”; “Saggio sulla legge
fondamentale del commercio fra l'anima ed il corpo e su di altre verità che vi
hanno rapporto”; “Prolusione alle lezioni di diritto naturale a Palermo); “Discorso
preliminare alle lezioni di diritto naturale ed etica”; “Memoria estemporanea
sul diritto e dovere del proprio perfezionamento”; “Sistema della scienza
universal”; “Corso di filosofia morale”; “Corso di diritto naturale e filosofia
del diritto”; “Cognizione della verità”; “Trattato delle idee o Ideologia”; “Genesi
e natura del diritto di proprietà”; “Necessità dell'autorità e della legge”; “Teologia
dogmatica e razionale; Ragionamento sulla resurrezione dei corpi”; “Organo dello
scibile umano”. Genealogia episcopale Cardinale Scipione Rebiba Cardinale
Giulio Antonio Santori Cardinale Girolamo Bernerio, O.P. Arcivescovo Galeazzo
Sanvitale Cardinale Ludovico Ludovisi Cardinale Luigi Caetani Cardinale
Ulderico Carpegna Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni Papa
Benedetto XIII Papa Benedetto XIV Papa Clemente XIII Cardinale Giovanni Carlo
Boschi Cardinale Bartolomeo Pacca Papa Gregorio XVI Cardinale Antonio Maria
Cagiano de Azevedo Arcivescovo Benedetto D'Acquisto V. Di Giovanni, D'Acquisto e la filosofia
della creazione in Sicilia, Firenze 1868. V. Mangano, Benedetto D'Acquisto
filosofo monrealese, Palermo 1890. G. Millunzi, Storia del seminario
arcivescovile di Monreale, Siena 1895. F. Lorico, Vita di Benedetto D'Acquisto,
Palermo 1899. V. Mangano, La filosofia sociale di monsignor Benedetto
D'Acquisto, Palermo 1900. G. M. Puglia, L'arresto di mons. Benedetto D'Acquisto
arcivescovo di Monreale, Palermo; Dizionario dei siciliani illustri, Palermo
1939. Monreale Duomo di Monreale Rivolta
del sette e mezzo Sant'Agostino San Bonaventura da Bagnoregio Antonio
Rosmini Benedetto D'Acquisto, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Benedetto D'Acquisto, . David M. Cheney, Benedetto D'Acquisto, in
Catholic Hierarchy. L'ontologismo
rivoluzionario nella Logica di Benedetto D'Acquisto di Antonio Fundarò, dal
sito dell'Istituto siciliano di studi politici ed economiciISSPE. Predecessore Arcivescovo
di Monreale Successore Archbishop Pallium PioM. svg Pier Francesco Brunaccini, Giuseppe
Maria Papardo del Pacco, Arcivescovi di Monreale Fino al 1500Caro Giovanni
Boccamazza Pietro Gerra Ausias Despuig Juan de Borgia Llançol de Romaní XVI
secoloJuan Castellar y de Borja Enrique de Cardona Alessandro Farnese Ludovico
de Torres I Ludovico de Torres II XVII secolo Arcangelo Gualtieri Jerónimo
Venero Leyva Cosimo de Torres Giovanni Torresiglia Francesco Peretti di
Montalto Ludovico Alfonso de Los Cameros Vitaliano Visconti Giovanni Roano e
Corrionero XVIII secolo Francesco del Giudice Juan Álvaro Cienfuegos Villazón
Troiano Acquaviva d'Aragona Giacomo Bonanno Francesco Testa Francesco
Ferdinando Sanseverino Filippo Lopez y Royo XIX secoloMercurio Maria Teresi
Domenico Benedetto Balsamo Pier Francesco Brunaccini Benedetto D'Acquisto Giuseppe
Maria Papardo del Pacco Domenico Gaspare Lancia di Brolo XX secoloAntonio
Augusto Intreccialagli Ernesto Eugenio Filippi Francesco Carpino Corrado Mingo
Salvatore Cassisa Pio Vittorio Vigo XXI secoloCataldo Naro Salvatore Di
Cristina Michele Pennisi. DELLA NATURA DEL LINGUAGGIO, E DELLA SUA
INFLUENZA NELLA FORMAZIONE DELLE IDEE. (1) Per estensione della idea generale
s'intende la sua capacità di applicarsi al numero degli individui; la
comprensione è riposta nel pumero delleideesemplicidellequaliessa sicompone;perció
quanto è maggiore lacomprensione tanto minore è l'estensione,ed
all'inverso. 1.Ritrovare l'origineprimitivadellinguaggio,dopo infinite
vicissitudini ed incalcolabili trasformazioni, oltre di essere fuori del nostro
assunto , sarebbe la cosa più difficile. I fenomeni quanto sono più ovvi e
generali altrettanto la loro radice è sepolta nelle te nebre . Moltissime e
svariate sono state le opinioni dei filosofi intorno all'origine
del linguaggio, e forse an cora la lite non è stata decisa. Varie lingue si
sono parlate,dalla corruzione e dalle trasformazioni di que ste ne sono risorte
delle altre,e da queste ancor del l'altre. Se cosa di certo potrà trovarsi, la
speranza di tal trovamento si deve porre nel fatto, cioè nella co stituzione
dell'uomo e nella natura dello stesso lin guaggio. L'uomo è dotato di
sensibilità e di facoltà attive e libere : égli prova sensazioni , è affetto da
piacere e da dolore ; in ciò è passivo : egli reagisce sopra le stesse s e n s
a z i o n i, e d a s u o p i a c e r e a n a l i z z a , r i c o m p o n e , e
n e forma de nuovi prodotti,ed in ciò è attivo e libero; egli ha dunque delle
sensazioni e delle idee e forma giudizi ; tutto ciò è effetto del lavoro
interno dello spirito umano , e non v’interviene convenzione per conto alcuno.
Dall'altra parte avvi nel linguaggio ciò che nell'uomo ha anche costituito la
natura,evisitrovasempre lo stesso, propagato in tutle le lingue senza alcun can
giamento o alterazione, e che dovrà per necessità tro varsi in tuttelelingue possibili.L'uomo
èstato for nito degli organi vocali ; egli mette per essi natural mente de'
suoni ;questi sono o semplici emissioni di fiato , tali sono i suoni detti
vocali ; altri sono delle intonazioni che dipendono dall'azione libera di
alcuni organi vocali, tali sono icosi detti suoni consonanti, e questi stessi
suoni non possono prescindere dai suoni vocali perchè o li precedono, o li
seguono, non po tendosi dare esercizio di organi subordinati senza l'e
197 sercizio degli organi subordinanti (1). I suoni vocali sono la
manifestazione de' sentimenti , e le intona
zioni,oconsonantileespressionidelleidee,quelli ac cennano
allapassività,questiall'attività;quellisono comuni all'uomo ed alle bestie,
questi all'uomo sola mente,e mettono la gran differenza fra le une e l'al tro.
Tutto ciò è ancor opera della natura; bisogna in fine riconoscere un legame
ancor formato dalla stessa natura : questo legame è il rapporto fra lo spirito
e gli organi corporali, e fra questi e gli oggetti;la con dizione, che stringe sempre
più e muove questo le game, è il principio d'imitazione che eminentemente
possiede l'uomo; egli per parlare ha un modello n a turale da imitare,cioè la
natura e le idee. Tutto ciò adunque che si ricercava alla perfezione del
linguag gio era stato dato dalla natura;che altro mancava alla esistenza di una
lingua, se non la combinazione vo lontaria dei suoni vocali e delle intonazioni
per for mare la pittura e l'espressionedelleidee.Ma questa pittura, questa
espressione nel linguaggio primitivo (1) Gli organi che concorrono alla
formazione de'suoni articolati sono la trachea o canna della gola per la quale
passa l'aria, e ri passa ne pulmoni; la laringe che è un canale cilindrico
corto alla tesla della trachea ; la glotta che consiste in una piccola fissura
fra due membrane circolari dove si forma il suono e la diversità ed intensilà
de'tuoni ; la cavità della bocca e delle narici in cui il suono
vieneriflessoerisuona;questiorganisonodestinatiallapro duzione de' suoni vocali
; la lingua colle suc vibrazioni,identi, le labbra coi loro movimenti sono gli
stromenti delle intonazioni,le quali combinate con i suoni rocali danno in
risullalo la voce ar licolala . 198 dovean essere da una
parte corrispondenti ai bisogni ed allo sviluppo dell'uomo, perciò i suoni
articolati, prodottidallefunzioninaturalidegliorganie dall'eser cizio libero
dei poteri interni moventi gli organi m e desimi,e che esprimeano isentimenti e
leidee,do veano essere in poco numero , che sono le radieali di tutte le
lingue, restando in arbitrio dell'uomo l'in fletterli e modificarli a sua
volontà secondo che cre scevano i bisogni della vita , e s'estendevano i rap
porti e cogli oggetti della natura e cogli altri uomini. Dall'altra parte, come
il tutto era preparato alla per sezione dell'uomo, cioè l'intelligenza, e gli
organi di rapporto col mondo ; questi riceveano naturalmente l'azione degli
oggetti esterni e produceano i senti menti , quella trasformava i sentimenti in
idee per effettodeirapporti naturali onde erano connessi;egual mente erano
preparati gli organi onde pingere ed espri mere coi suoni le idee; era quindi
necessario, che la stessanatura,secondo gl'intimirapporti di questior gani,
producesse i suoni in corrispondenza alle prime idee necessario risultato
dell'esercizio delle facoltà. Ciò che ela ha realizzato per un procedimento
naturale. È un fatto costantissimo nella natura dell'uomo cioè che egli per la
sua suscettività prova sentimenti, per la sua intelligenza li trasforma in
idee, e per la sua attività ne determina i movimenti muscolari nel corpo,
iquali sonodirettisopral'oggettorappresentatodalle idee; cosi la stessa
attività mette in funzione im u scoli degli organi vocali per significare agli
altricon i suoni l'idea che gli è presente nello spirito, que 199 L'oggetto
esterno ha una costituzione tutta propria, che forma la sua specifica natura;
dalla specificità di questa natura origina il modo e la legge dalla sua azione
sopra l'organo del corpo umano ; quest'organo, per lo stimolo impressovi
dall'azione esterna entra in movimento, il quale, sebbene fosse la continua
zione dell'azione esterna, tuttavia è modificato e spe cificato dalla legge
fisiologica risultante dalla costitu zione dell'organo medesimo: questo
movimento or ganico cosi specificato modifica realmente lo spirito,
eviproduceprimamenteunsentimento,ilqualeper l'azione delle facoltà è seguito da
una idea. Questa idea per l'attività intelligente diviene una norma della sua
determinazione e direzione verso l'oggetto rap presentato dalla idea, onde
prenderlo e mettersene in possesso. La stessa attività sotto la scorta della
stessa idea, mette in esercizio i muscoli degli organi vocali per esprimere
colla voce la idea, e per essa il suo oggetto. La volontà,nello eccitare i
movimenti orga nici del corpo, può avere un doppio motivo prodotto da un
diverso interesse,cioè o immediato, o mediato : è immediato quello per cui
eccita il movimento nei muscoli,per esempio della mano,per prendere l'og getto
rappresentato dalla idea;è mediato quello,per cui mette in azione gli organi
vocali per significare o far nascere negli altri l'idea che è presente al suo
spirito, col fine, sia di simpatizzare con essi,sia per determinare la loro
volontà a proprio vantaggio, e per 200 sto procedimento si effettua
nell'uomo sotto l'influenza delleleggifisiologiche e psicologiche.Eccone
ilmodo: avere da costoro o un'azione, o l'oggetto che desi dera ,
sia perchè non gli noceia. La causa dunque del doppio movimento è lastessa,cioè
lamedesima idea, i motivi solamente differiscono, essendo uno il possesso
dell'oggetto rappresentato dall'idea,e l'altro la premura di manifestarla
aglialtri;onde lo stesso èilprocedimentodelmovimentodellamano,ede gli organi
vocali eseguito sotto l'impero delle stesse leggi fisiologichee psicologiche,
sebbene perun di verso riguardo. Perciò se naturale è la presa dell'og
gettosignificatodalleidee,naturale è purelavoceche esteriormente la esprime
:ciò ha bisogno di ulteriore sviluppo. 201 Nella esterna espressione
delle idee dello spirito , cioè nel linguaggio parlato, avvi un processo
inverso aquellocolqualeegliacquistaleidee,ma collastessa legge di continuità.
Il processo, pel quale nello spi rito si forma l'idea,ha il suo principio nella
azione dell'oggetto esterno :questa azione è sempre conforme alla naturale costituzione
dell'oggetto, alla sua rela tiva posizione e stato in rispetto agli organi
esterni; quindi di tante diverse specie e di tante gradazioni nella stessa
specie sono le azioni che gli oggetti esterni esercitano sopra gli
organi.L'azione dell'oggetto, ar rivando all'apparecchioesternodell'organo,lo
stimola e vi produce un movimento rispondente all'indole ed alla forza
dell'azione dell'oggetto agente, ed allo stato di
organizzazionedellostessoapparecchio:questomo vimento cosi modificato si
comunica alla struttura ed al processo nervoso dello stesso organo, nel quale
il movimento riceve un'altra modificazione e qualifica z i o n e ;
il m o v i m e n t o c o s i m o d i f i c a t o e q u a l i f i c a t o i n =
teressa e modifica lo spirito, e produce in esso il s e n timento,che per
l'azione delle facoltà diviene idea, la quale nello spirito è il segno della
esistenza del l'oggetto esterno e della sua qualità : l'idea devesi considerare
come la interna parola, per la quale lo spirito sente , conosce ed è assicurato
dalla esterna realtà e dei suoi modi per la modificazione reale che egli riceve
dalla forza reale del di fuori attuata nel movimento, e dalla indole dello
stesso movimento de terminata e dalla natura dell'azione dell'oggetto ester
no,e dalla struttura dell'apparecchio esternoedella costituzione interna
dell'organo e del cerebro. Dal l'oggetto esterno fino allo spirito avvi una
continua zione di movimento, modifiealo però in diverse guise una connessa
coll'altra fino all'ultima modificazione che riceve dall'organo centrale del
cerebro. Il movimento nella sua essenza non è che la forza materiale attuata e
manifestata sensibilmente per le due forme primitive del tempo e dello spazio;e
per ciò esso è nell'azione dell'oggetto esterno, nelle at tuosità dell'apparecchio,
e nella costituzione del tes suto nervoso del cerebro : riceve le diverse
modifica zioni e specificazioni della natura dell'oggetto in pri ma , indi
dalla organizzazione dell'apparecchio esterno dell'organo e della tessitura
interna dei nervi ed in ultimodel sensoriocomune ; queste modificazioni e
specificazioni diverse del movimento si possono con siderare come tante
articolazioni dello stesso movi 202 203 mento, che
costituiscono, per cosi dire, la parola fi siologica cheintendelospirito,perlaqualeconosce
e la realtà dell'oggetto esterno nella forza attuata nel movimento , che è
l'elemento generico , e la qualità dello stesso oggetto nella modificazione e
specificazione dello stesso movimento,che formano l'elemento spe cifico delle idee
; questo è il processo naturale nella formazione delle idee. Volendo poi lo
spirito manifestare al di fuori i suoi sentimenti e le sue idee, si serve dello
stesso elemento generico cioè del movimento, che esso eccita agendo
soprailcerebro:questomovimento eccitatonelce rebro, e da questo propagato ai
tessuti nervosi riceve le peculiari modificazioni dall'esercizio delle facoltà
dello spirito in conformità al sentimento ed alle idee che vuole egli
esprimere, per le quali si mette in azione il sistema dei muscoli e muove gli
organi vo cali, e gli apparecchi degli stessi organi , cioè il p u l m o n e e
la trachea per la emissione dell'aria ; la glotta dove l'aria diviene sonora,
che è ilmezzo di espres sione del sentimento ; il palato, la lingua, i denti e le
labbra, dalla funzione dei quali il suono riceve le diverse modificazioni, le
quali formano le intonazioni o i s u o n i c o n s o n a n t i , c h e s e r v
o n o a m a n i f e s t a r e le f o r m e del sentimento cioè le idee e le
loro qualità ; quindi nell'aria emessa divenuta suono che in fondo è m o
vimento, si ha l'elemento generico, il quale forma la base del linguaggio, e
l'elemento specifico che consi stenelle modificazioni che
ricevelostessosuono.Onde i suoni vocali sono le prime modificazioni del
suono 204 ܕ generale, indi le intonazioni o le articolazioni dello stesso
suono,le quali si combinano in guise diversis sime con isuoni vocali,edaqueste
combinazioniri sulta il linguaggio articolato; queste intonazioni sono sempre
precedute o seguite da suoni vocali ; poiché l'elemento specifico del
linguaggio non può sussistere senza il generico che ne è la base, di cui le
intona zioni sono modificazioni prodotte dall'esercizio delle facoltà.Isuoni ,
che esprimono le circostanze e le po sizioni necessarie dell'oggetto che si
vuole significa re, formano le parti elementari che si trovano in ogni lingua
delle parti del discorso:lecombinazioni poi dei suoni vocali con i consonanti
per esprimere l'oggetto e le sue qualità dipendono dalle esterne circostanze in
cui possono trovarsi gli uomini,come sonoilcli ma,ilgeneredi
vita,lareligione,ed altro,lequali come influiscono sopra lo sviluppo della
facoltà, cosi determinano lacombinazione de'suoni vocali con icon sonanti .
Nella formazione delle idee vi sono due estremi,il primo è l'oggetto esterno
allo spirito, ed il secondo è lo stesso spirito che dà esistenza alla idea .
L'agente esterno nelle stesse circostanze sempre agisce allo stesso modo , é
cosi gli organi essendo nello stesso stato , per cui l'idea è sempre la stessa;
laddove nella espres sione esterna della stessa idea, cioè nel linguaggio ,
essendolospirito,ilprimo estremoche suscitailmo vimento, secondo le
disposizioni da cui egliè affetto per la influenza delle esterne circostanze,
muove gli organi vocali in modi diversi e combina in diverse guise isuoni
vocali con i consonanti, per cui lo stesso oggettop.e.l'astrodelgiornonelle
diverse lingue ha diversi nomi,come sole,sol,soleil,yacos eco. Perchè poi
potesse rendersi stabile la esterna m a nifestazione dei sentimenti e delle
idee, che è fugi tiva nel linguaggio parlato, lo spirito si serve delle figure;
ad alcune delle quali associa ed attacca in prima i suoni vocali, ad altre i
consonanti , quali figure d i vengonosegnideisuoni,come leparolelosonodelle
idee, e le idee degli oggetti; e come il punto e le linee possono combinarsi di
diverse maniere; quindi la diversità e la moltiplicità delle figure ossia delle
letlere. Dunque l'elemento di base oggettivo alla for mazione delle idee, della
parola, della scrittura è lo stesso, cioè il movimento : lo specifico, nella
forma z i o n e d e l l a i d e a , è il m o d o d i a g i r e d e l l ' o g g
e t t o e s t e r n o sull'organo e dell'organo sullo spirito; nella forma
zione della parola è pure la costituzione degli organi e l'articolazione
dell'aria che si porta al senso degli altri; nella formazione della scrittura è
ancora la costi tuzione degli organi e la loro azione sopra una m a teria
esterna che viene specificata. Lo stesso spirito è il fine del processo fisico
e fisiologico nell'acquisto della idea, ed il principio dello stesso processo
nella espressione esterna della idea;ilegami hanno lastessa connessione e la
medesima continuità si nell'uno che nell'altro processo:lo spirito nella
espressione delle sue idee imita il modo naturale della loroacquisi zione. In
tutti i segni adunque degli oggetti, cioè nelle 203
idee,nelleparole,nellascrittura vi ha l'elemento ge nerico e lo specifico : il
generico in fondo è lo stesso, cioè il movimento, il quale non è che laesterna
m a nifestazione della forza intrinseca a tutti i corpi , l'e lemento specifico
è riposto nella trasformazione dello stesso movimento secondo la struttura
degli organi che sono in funzione, e la natura dell'oggetto che ve la determina
; perciò i movimenti possono diversificare di tanti modi , quante sono le
esterne impressioni, il loro grado di forza, e la costituzione degli oggetti
che le cagionano , la struttura e lo stato degli organi in ternied
esterni.Nell'essereassicuratolospiritodella esistenza di un oggetto per mezzo
della idea vi sono perciò due condizioni della diversità de' movimenti ; una
esteriore, che deriva dal modo di agire dell'og getto esterno allo spirito ; e
l'altra interna, che nasce dalla naturale struttura e dallo stato degli organi
, i quali modificano e trasformano ilmovimento ricevuto dall'esterno. 206
Cosi nel manifestare lo spirito le sue idee , é per esse la cognizione degli
oggetti vi hanno due condi zioni, una è la reazione dello spirito, la quale è da
esso determinata giusta la informazione che egli ha della idea ; e l'altra è
riposta nel movimento degli organi interni e nella funzione degli organi vocali
che produconoilsuono,ilqualepuò modificarsiindi versissimi modi ed in tanti
suoni articolati , quante sono le idee e le loro qualità , come è chiaro, della
moltiplicità e delle parole, e delle diverse lingue. Il suono nel linguaggio
risponde ed esprime il senti mento che è la base della idea, e
l'articolazione del suono alle forme del sentimento cioè alle idee ed alle loro
proprietà; come il sentimento nello spirito ri sponde al movimento organico che
ve lo cagiona , e la idea all'indole peculiare dell'armonia del movimento sotto
la quale è prodotto. Questi fatti sono connessi e legati l'uno all'altro in un
processo di continuità tanto nella formazione della idea,quanto nella produ
zione del linguaggio, ma in un ordine inverso ed al terno . L o spirito legge
nelle sue idee le esistenze degli o g getti col processo che comincia dalla
loro azione , e per un processo inverso, che ha principio dall'azione dello
stesso spirito, egli esterna e manifesta le stesse idee fino alla scrittura,
alla pittura, alla scoltura ec. Uno è il movimento, ed indefinite le
modificazioni chelodiversificano;unoèilsentimento ed indefinito il numero delle
idee nelle quali si trasforma; uno ė il suono , ed indefinito il numero delle
parole 'nelle quali è articolato;unico è ilpunto del flusso dal quale nasce la
linea,ed indefinito il numero delle figure, e le combinazioni che di essi possono
farsi, d'onde le diversità delle lettere nelle diverse lingue : tratti g e
nerali hanno le idee, le parole , le figure. L'unione del pensiero col
linguaggio, e di questo colla scrit tura ha ilcentro e la base nello spirito,
il quale,per il movimento modificato delle leggi fisiche ed orga niche riceve
leimpressioni nellasuaunità,eda que sta riversa il prodotto e lo propaga al di
fuori per mezzo delle stesse leggi.Se le condizioni che formano 207
l'elemento specificodellinguaggiofosserosemplificate e ridotte a principi
non sarebbe difficile la formazione di una lingua universale. È bensi da
osservare che la totalità dell'armonia della costituzione del corpo umano , ed
in essa la spe cialità degli organi che la compongono, è modificata ed
informata negli individui da talune cause esterne ed interne , le quali ,
agendo sopra di esso potente mente e perennemente vi determinano un tempera
mento costante ilquale poi,come modifica di un modo speciale i sentimenti e le
idee,cosi modifica diversa mente il movimento degli organi vocali nella produ
zione delle intonazioni , le quali commiste ai suoni vocali producono una
diversa articolazione, e quindi la diversità delle parole che significano
presso diversi individui la stessa idea ed il medesimo oggetto.Qui si trova la
ragione del linguaggio diverso presso le diverse nazioni,lequali,secondo
lediverseposizioni e circostanze morali , politiche, fisiche e topografiche,
parlano diverso linguaggio come hanno diversi costu mi.La nazione greca,che
fucolta,civile e voluttuosa, parlava u n linguaggio ornato , polito e splendido
; R o ma,che parve nata a comandare,ebbe un linguag gio nobile, robusto,
magnifico. Le lingue che ebbero nascita da questa madre portano tratti
differenti non solo della loro madre, ma ancora fradi esse.La spa gnuola porta
il carattere di gravità, di pomposità e di alterezza : la francese è vivace,
spiritosa ed animata: l'italiana molle, gentile ed amena ; l'inglese sobria,
sentenziosa e concisa:quelle delsettentrione aspre, 208 Il
linguaggio convenzionale è uno dei più potenti mezzi che contribuiscono al
soddisfacimento di questi bisogni ; e mentre il linguaggio si accresce per lo
svi luppo delle facoltà, tende a sempre più perfezionare le facoltà. Ma i segni
convenzionali,che compongono il linguaggio, non possono aversi senza i segni
natu rali;poichènonpuòdarsifragliuomini convenzione alcuna senza che prima
s'intendano, nè possono in tendersi senza i segni naturali, i quali sono a
tutti comuni, perchè prodotti spontaneamente dalla loro n a tura,eperciòperquestituttigliuomini
s'intendono; devono per tanto ammettersi prima i segni naturali per iquali
eglipo s'intendono,ed intendendosi sopra gli stessi segni naturali fondano il
linguaggio con venzionale, il quale è di quelli una estensione. I segni naturali
sono le grida, ed i gesti, i qua li sono varii come lo sono le grida. Questi
segni sono generalmente da tutti intesi, perchè esprimono in tutti le medesime
idee ed i medesimi sentimenti. Che se al grido si unisce ilgesto, il segno di
espres sione diviene più indicativo e sicuro : infatti questo linguaggio
siparla nella vivacità dellepassioni,quando non ha luogo l'esercizio delle
facoltà intellettive. Ora 209 dure ed austere.La lingua e l'eco del
costume, come il costume lo è della natura e carattere delle idee , le quali
sono più o meno perfette, in maggiore o m i nor numero secondo il maggiore o
minor grado di sviluppo e di perfezionamento delle facollà, ed il m a g giore o
minor numero dei bisogni che si suscitano nell'uomo. se il gesto si
unisce al grido,ed il movimento de'm u scoli corporei al movimento de muscoli
degli organi vocali per rendere più sicura ed espressa la manife stazione
dell'interno sentimento e della idea,non su difficile mettere in movimento
imuscoli degli organi della lingua de' denti e delle labbra per rendere più
completo e più perfetto il suono per la manifestazione più esalta più commoda e
più espressiva della idea, e surrogare alle gesla le intonazioni che
suppliscono alla loro imperfezione. Si osservi infatti, quali sono le risorse
della natura che ruole esprimere gli interni sentimenti e le idee. Mentre il
bambino ha soli sentimenti e non ha for mato idee degli oggelli che lo
modificano , egli si espri me per ilmezzo delle grida, iquali diversamente m o
difica secondo la diversità de'sentimenti che egli prova ; quando le sue
facoltà cominciano a svilupparsi, ed a formare idee , egli comincia a dare una
certa preci sione alle sue gesta , ed insieme una certa articola 210
suoni vocalileintonazioni , le sue idee, sebbene noi , con che intende
esprimere non sono tura , e per e per opera della l'istinto della imitazione na
uso delle parole comincia a far non l'intendiamo convenzionali; indi , perchè
che ascolta, e che gesto diretto sopra , per il mezzo del attacca l'oggetto presente
al suo allo stesso oggetto sguardo, mente : tutto ciò succede nel bambino.
Questo natural procedimento naturale che si fa per gradi essere pergradi
perfetti imperfetti nel bambino , , dovelte ed istantanei nell'uomo pri
211 miero,ilqualenacqueadulto,colpienosviluppo delle sue facoltà :
egli conobbe i suoi poteri naturali, co nobbe la natura degli oggetti che lo
circondavano , ebbe nette e precise le sue idee, perciò fu facilissimo per la
manifestazione delle sue idee accoppiare le in tonazionisempliciaisuoni
vocaliancorasemplici,d'on de risultò la voce articolala anche semplice,al prof
ferimento della quale uni anche il gesto , e fu c o m preso. Questa voce
divenne il segno radicale che si attaccò alla idea,ilquale per l'abitudine
divenne per-, manente.Formata questa lingua primitiva;divenne essa il tipo
della formazione di tutte le altre. Quesla
teoriaèconformeaciòchesileggenelGenesicap.2, v. 19, 20. Formatis igitur,
Dominus Deus, de humo conctis animantibus terrae, et universis volatilibus
coeli, adduxiteaadAdam,utvideretquidvocaretea:omne enim quod vocavit Adam
animae viventis, ipsum est nomen ejus. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta
animantia et universa volatilia coeli, et omnes bestias t e r r a e . C o s i a
n c h e i m p o s e il n o m e a d E v a , h a e c v o cabitur virago,
perchè,quoniam deviro sumpta est,e ciò perchè egli conobbe che ella era , os ex
ossibus meis, et caro de carne med . La Divinilà in fine dovea dare l'ultimo
complemento a tutti gli elementi della sua opera , ed attualizzare tutti
irapporti necessari fra questi elementi.Ilprimo uomo adunque, come naturalmente
provò sentimenti, come per l'eserciziodellasua intelligenzalitrasformó in idee
, come naturalmente per i primi mise fuori suoni yocali, per la seconda produsse
le intonazioni ; 212 così dovette combinare le intonazioni colle
vocali e produrre la parola articolata , imagine e pittura della idea, allo
stesso modo come trasformò in idea il sen timento coll'esercizio delle facoltà
della sua intelli genza. Questo lavoro delle facoltà non fu che istan taneo
nell'uomo che nacque sviluppato,ed istantaneo su il linguaggio. Fu opera della
Divinità l'esistenza, e la perfezione dell'uomo primiero mediante la per
fezione e lo sviluppo delle sue facoltà, cosi fu opera della stessa Divinità
l'esistenza del linguaggio m e diante l'esercizio degli organi vocali dati
all'uomo per questo fine. Fuvvi dunque nella lingua primitiva la base posta
dalla natura, e questa base devesi trovare in tutte le lingue ; fuvvi l'opera e
l'esercizio delle facoltà, e questo sirinviene in tutte lelingue;ilprimo
elemento è in variabile,esitrasfonde da generazioneingenerazione senza
mutamento o alterazione; il secondo è varia bile,e cangia coi tempi, secondo i
climi, i bisogni, il genere di vita , ed il progresso dei lumi , ed esso è la
causa della moltiplicità delle lingue e della loro varietà . P i 2.
Dietro tali considerazioni chiaramente si scorge, che il linguaggio articolato
è il segno in fatto della grande differenza che distingue l'uomo da tutti gli
altri viventi, a cui mancano le intonazioni, perchè manca l'esercizio libero
delle facollà della intelligenza, e mancano in conseguenza la precisione e la
perfe zione delle idee,e sono perciò limitati ai semplici suoni vocali, perchè
limitati alle sole sensazioni. Nell'uomo però in cui sonvi non solo
le sensazioni, ma ancora interviene l'esercizio libero delle facoltà , sonyi e
le vocali,e le intonazioni,e la combinazione,ed il con certo delle une e delle
altre, per la espressione delle idee.Ibruti naturalmente,peresprimereleloro sen
sazioni, si servono de'suoni vocali diversamente m o dificati ed espressi, e
tale espressione è intesa dagli individui della stessa specie. Non potrebbe
l'uomo anche fare lo stesso,essendovi in esso gli stessi a p parecchi e le
stesse condizioni ? certamente che si, m a l ' u o m o h a p u r e i d e e , e
d h a il m e z z o o n d e e s p r i m e r l e , cioè le intonazioni ; chi
impedisce d'impiegarle e c o m binarle per la espressione delle idee come per
le vo caliesprimeisentimenti.Era forsedifficileilframet tere le intonazioni
necessarie alle vocali spontanee ? come non era e non è difficile il combinare
il sen timento coll'esercizio delle sue facoltà ed averne in risultato l'idea,
cosi non gli fu difficile combinare e modificare le vocali necessarie
all'espressione del sen timento colle intonazioni,che potevano contornarle e.
precisarle alla esatta pittura della idea. Si forma un
nuovooggetto,unamacchina,p.e.mancailnome, l'espressione ; che sifa, si
combinano due o più ter mini che esprimono gli elementi , e se ne forma un
solo.Questo esempio èsensibile,ma infinitiesempi simili si osservano, sebbene
poco considerati in tutte le lingue come nella greca , nella latina ed in tutte
le altre ; come dunque in tutte le lingue per l’unione delle voci
radicalisiformarono le derivate;cosi nella lingua primitiva dalla unione delle
vocali e delle in 213 tonazioni analoghe si formarono le
radicali.Ma come avrebbero potuto trattenersi a memoria tante voci ? come si trattengono
a memoria ed ilvocabolo nuova mente composto, e le voci derivate. L'oggetto che
è presenteallospirito,glielementiediloronomi par t i c o l a r i , c h e s i c
o n s e r v a n o n e l l a m e m o r i a , s o n o il m e z z o di ricordare
il vocabolo nuovamente coniato ; cosi le vocali che esprimonoi sentimenti
dell'animoiquali sono presenti allo spirito , le intonazioni corrispon denti
all'operazione delle facoltà,che ancor è presente allo spirito , sono il mezzo
di ricordare la voce i m piegata alla espressione di quel sentimento precisato,
di quella idea ; si risovvenga che il linguaggio pri mitivo,per ipochissimi
bisogni dell'uomo,per ipochi rapporti cogli altri uomini , non si componeva che
delle sole radicali, e che le voci composte comincia rono ad accrescersi
secondo crescevano e s'intreccia vano ibisogni ed irapporti. Quindiper
dimenticare il s u o n o , c h e e r a u n p r o d o t t o n a t u r a l e , b
i s o g n a v a d i menticare l'idea;ciò che succede ad ogn'uomo oggi. giorno.
S'aggiunga a ciò, che quanto èpiù forle l'impres sione, quanto è più vivo il
sentimento , tanto è più energicà e pronunziata l'espressione ed il suono vo
cale ; quanto più marcata è l'azione dello spirito sul
sentimento,tantoèpiùdecisa l'espressione delle in tonazioniedelleconsonanti,equantoèpiù
interes sante e distinta l'idea, tanto più viva è l'espressione e la parola.
Ciò è chiaro e ne ' selvaggi , ed in tutti coloro che sono nell'impegno di
trasmettere colle p a 214 215 role le loro idee ardenti e
staccale. La parola è la pit tura e l'immagine della idea; l'idea è l'immagine
dell'oggelto e l'espressione dello spirito ; l'oggetto e lo spirito sono
l'espressione dell'assoluto ; tanto è chiaro a sé lo spirito,e tanto luminoso
allo spirito l'ogget to, quant'è il grado di luce che comunica l'assoluto allo
spirito ed all'oggello : tanto è vivo il sentimento e distinta l'idea, quanto è
più chiaro a sé lo spirito e luminoso allo spirito l'oggello ; tanto forte è il
suono vocale,ed energica l'intonazione, e precisa la parola quanto più vivo è
il sentimento e distinta l'idea. I sentimenti dell'uomo primiero , che nacque
adulto e non bambino , e tale dovea nascere , i prodotti del l'azione degli
oggetti esterni, la percezione del pro prio spirito,ed indi le sue idee furono
vivissimi, di stintissimi, ed al massimo grado di precisione, tanto per la
novità,quanto pel grado di luce, che la Divi nità diffuse e nello spirito
dell'uomo di recente for mato e nella natura, che la prima volta espose al suo
sguardo ; perciò forte, marcalo,ed espressivo dovette essere,ma
semplice,econcisoilsuolinguaggio,ciò si rende chiaro dalle indole della stessa
lingua , la quale,a giudizio de'più dotti filologi,può conside rarsi come
l'esemplare di tutte le altre: Schlegel in fatti la chiama la più sublime e la
più energica, e per la sua vibrata concisione , e per le vive e frequenti
aspirazioni delle voci, e lo stesso Audisio la dice di vina (1). (1) Questa è
la lingua ebraica, la quale fu parlata da Adamo e G l i e l e m e
n t i d u n q u e d e l l i n g u a g g i o , c h e f o r m a n o il s u o tipo
originale,furono tutti dati all'uomo dalla natura, e l'uomo,che trovò in se
preparati e pronti questi ele menti, non fece altro che metterli in opera, ed
ebbe immediatamente il prodotto. Per questo tipo il lin guaggio è mezzo di
comunicazione e centro di rap porti fra tutti gli uomini ; perchè in tutti
questo tipo è identico,tutti comunicano e fra loro s'intendono, restando sempre
separati per l'arbitrario : infatti il tipo naturale delle lingue è insegnato
es'impara dalla ragione, perchè in tutti gli uomini ella è uguale e la stessa
:e perchè tale, è in tutti gli uomini centro di unità e condizione identica di
comunicazione,per il mezzo degli apparecchi vocali, che sono uguali e gli
stessi in tutti ; laddove l'arbitrario s'apprende per l'uso e per abitudine ,
perchè introdotto dall'uso e dall'abitudine (1). 3. Tuttociò come da lume,e ci
rende facilelaco noscenza della natura del linguaggio,cosi riceverà m a g dai
suoi discendenti, ed ebbe questo nome da Eber nella famiglia del quale si
conservò dietro la confusione delle lingue. (1) Ciò fa conoscere l'errore che
si commelle nell'apprendimento delle lingue specialmente antiche,pel quale si
daono tante svariate e moltiplici regole e precetti di che si compongono le grammatiche
specialmente moderne, le quali, gravando la mente non fanno ap prendere con
facilità e perfezione la lingua. In qualunque lingua devesi imparare colla
ragione,cioè colle regole,ciò che è opera della natura e della ragione, vale a
dire,ilfondamento della lingua : la costruzione
perd,ilgenio,iterminidellalingua,leloro inflessioni, e la sua eleganza, essendo
un prodotto dello sviluppo ed esercizie delle facoltà, debboosi imparare
coll'uso. 216 Occupa nel linguaggio il primo luogo quella
voce che esprime l'oggetto dell'idea che o è principio di a z i o n e o n e è
il t e r m i n e , o p u r e q u a l c h e p r o p r i e t à d e l medesimo
oggetto ; questa voce è stata detta nome ; che 217 gior luce , e sarà
confermato dall'analisi che ne fa remo. Il linguaggio è un fatto il più noto ed
il più generale;analizzandoquestofattosiconoscerà distin tamente ciò che vi ha
posto la natura, e ciò che vi è introdotto dalla volontàdegli uomini.
Tuttigliuo mini sono dotati di sensi pei quali ricevono impres sioni dagli
oggetti esterni e provano sensazioni ; tutti hanno una intelligenza dotata di
facoltà, perlequali e possono trasformare i sentimenti in idee , parago narle ,
e formare giudizi sopra le idee e gli oggetti corrispondenti,e preparare in un
giudizio la maleria di un altro,e da ciò che ha conosciuto avanzarsi ad
ulteriori conoscenze. Tutti possono cacciar fuori una massa
d'ariadaipulmoni,emettereinazioneglialtri organi vocali che servono a
modificarla, e come non per propria industria ha avuto l'uomo queste facoltà,
cosi non perpropria arte ha conseguito di poter par lare. Infatti prima di
formarsi o la grammatica, o la logica,ciascuna nazione ha ricevuto dalla natura
l'uso della favella e gli elementi necessari e presso tutti si
mili.Chiunquevuoleesprimerelesueidee,emani festare gl’interni giudizi in
qualunque siasiluogo,in qualunque lempo,di tante parti naturalmente fa uso,
quante sono necessarie ad esprimere le idee, ed i giu dizi con tutte le
circostanze, le particolarità, e la gra dazione di colorito e di luce. 1
se esprime l'oggetto si dice sostantivo, se indica la proprietà si chiama
aggettivo, se però si considerano in astratto, e come separate dai loro
soggetti , rien trano nella classe de'sostantivi come bianchezza, tar
ghezza,solidità,ecc.È però da riflettere,chegliog getticheagiscono
sopraisensi,edicuilospiritopuò formarsi idee sono di un numero incalcolabile
;ildare ad ognuno di essi un nome sarebbe stata una impresa non che
difficilissima, ma si bene impossibile ;l'uomo ha superato tale difficoltà,con
applicare lo stesso nome a tutti quegli oggetti che presentano le medesime pro
prietà ; si è dato il nome di albero a ciò che hanno d'identico quegli oggelti
che sorgono da una radice, che son nutriti dalla terra, che hanno tronco, rami,
foglie ecc., quindi tutti i nomi esprimono idee gene rali di classe, di
genere,dispecie,tranne quei nomi che disegnano un solo individuo come
Pietro,Paolo ecc., i quali si dicono nomi propri a differenza dei primi che si
chiamano appellativi. Ma dicendosialbero,uomo,nonsisaprebbediqual albero,di
qual uomo volesse parlarsi;la natura ha suggerito un altro mezzo onde togliersi
questa per plessità, qual'è ilpronome, il quale è una parola che rappresenta
determinatamente il nome dell'oggetto , ed ha nello stesso tempo il vantaggio
di escludere le frequenti ripetizioni dello stesso nome.Il pronome ė anch'esso
generalissimo, potendosi applicare ad oggetti diversissimi e ad ognuno di essi
secondo le circo stanze.Indica in prima la persona che parla io;la persona a
cui si parla , tu; e quella di cui si parla 218 219 quello,
questo, colui ecc.; attribuisce ancora la pro prietà alla cosa designata , come
tuo, nostro ; indica similmente le relazioni degli oggetti con altri di cui
si:forma giudizio, come, il quale, le quali,e nota in
finelapresenza,lavicinanzaolalontananza dell'og getto designato, come questo,
quello, colui. Vi sono altre circostanze ed altre relazioni che pos sono avere
gli oggetti , e che il linguaggio con pre c i s i o n e e s p r i m e ; q u i n
d i il n o m e t a n t o s o s t a n t i v o c h e aggettivo ha numeri, generi,
e casi. Il numero indica s e l ' o g g e t t o è u n o , o p i ù d i u n o ; il
g e n e r e p r o p r i a mente determina i sessi, o l'analogia che hanno coi
sessi ; i casi esprimono le diverse relazioni che un oggetto ha con altri,
designate con certe particelle che si premettono ai nomi ,tali sono isegnacasi
come il, del, al ecc. come nelle lingue moderne ;o da certe infles
sioninellesillabefinalidello stessonome,comepater, patris,patriecc.,yxws,4x8,qxw
ecc.,nellelingue an tiche per la più parte. Il nominativo indica o sem
plicemente la cosa che è , o pure che agisce ; il ge nitivo esprime il
possessore ; il dativo la persona o la cosa a cui si reca utile,danno,o
qualunque altra attribuzione; l'accusativo la cosa su cui passa o cade l'azione
; il vocativo mostra l'oggetto a cui si diri gono le parole ; l'ablativo
finalmente che si trova in molte lingue, serve ad esprimere tutte quelle altre
p o sizioni che non si potevano commodamente espressare cogli altri casi. Un
oggetto può solamente esistere,può essere in azione , e può ricevere in sè
l'azione di un altro; era perciò necessaria una voce che
esprimesse questi stali ;questa voce è detta particolarmente verbo, il quale
esprime ciò che è di più essenziale nel discorso, cioè o l'esistenza, o
l'azione, o la passione coi progressi del tempo, e le circostanze delle cose, e
contiene in sè un completo giudizio intorno alla natura delle cose
medesime.Essoindicailtempo dell'esistenza,del l'azione e della passione e le
sue gradazioni, cioè il presente,ilpassatoel'avvenire;ammette anche imodi,
l'indicativo che esprime lacosa assolutamente; l'im p e r a t i v o c h e c h i
e d e o c o m a n d a , il s o g g i u n t i v o c h e e s p r i m e il giudizio
sotto la condizione o la subordinazione di qualche cosa a cui si riferisce.
Esso finalmente ha numeri e persone. È prossimol'avverbiochesiuniscetantoainomi
quanto ai verbi , e serve a determinare il particolar luogo,modo,e grado o ad
una cosa,oall'esistenza, o all'azione, o alla passione ; esso ha una vastissima
estensione sul riguardo che può modificare le circo stanze della cosa o
esistente o in azione ,ed è una maniera abbreviata di espressione come hic qui
vale in questo luogo ecc. 220 Il verbo in ogni lingua genera un'altra
voce, che vien detto participio, in quanto serba la significazione del verbo da
cui ha origine , ed acquista insieme la forma del nome ,con che un giudizio
viene incluso in un altro , e richiama con un sol segno alla m e moriaciòcheèstatodetto,osisuppone
conosciuto, con designare nello stesso mentre la persona, il n u mero, l'azione
ed il tempo,come amans amante, co luicheama,amava,oamando. 221 3
Sebbene sembra che queste parti avessero potuto bastare ad esprimere inostri
pensieri, purnondimeno affinchè il linguaggio riuscisse a copiare perfettamente
i nostri interni sentimenti con supplire all'espressione degli accidenti e
de'siti lasciati e non indicati dalle parti antecedenti, si sono aggiunte altre
voci di gran dissimo uso,che si dicono preposizioni come super so pra , circum
intorno ; alcune altre che servissero a se parare o a congiungere le idee
secondo il bisogno , tali sono le congiuntive e le disgiuntive come et e , aut
o,ecc. Altreinfine,chesebbenenon abbiano segnatamente attaccata alcuna
idea,indicano però i movimenti del nostro animo , che le facoltà non hanno
potuto , a causa della loro istantaneità analizzare e sviluppare in idee , e
che possono considerarsi come l'espressioni naturali dell'uomo affetto di
dolore o di piacere , o di qualunque altra forte e subitanea affezione heu,
oimè ecc.Quindi colla frequente ricorrenza, e colla combinazione di otto voci
riusciamo ad immettere nel l'animo altrui le nostre idee , i nostri giudizi , e
le nostre affezioni con tutte le loro particolarità , cioè l'oggetto del
nostropensiero,lesue proprietà,igradi delle medesime
proprietà,tuttigliaggiunti, l'esisten za, l'azione, la passione con i loro
rispetlivi tempi, modi e numero degli agenti o pazienti; gli ordini delle cose
adiacenti nella natura, la loro successione nell'animo, il graduato calore
degli affetti.Di queste parti alcune sono invariabili e sempre le stesse nella
loro espressione ; altre sono soggette a certi cambia menti,
tuttavia però nello stesso cambiamento serbano una certa costanza , la quale
forma il principio e la natura della grammatica delle lingue. 4. Tutte queste
parti,che devono riguardarsi come il fondamento del linguaggio , si trovano in
tutte le lingue si antiche che moderne ;in esse si scorge l'o pera della natura
sempre stabile e costante in mezzo alle incalcolabili varietà che subiscono le
lingue ;tutto ciò che cangia è opera dell'uomo , ciò che è costante
èl'effettodiuna causa superiore,laqualecomeman tiene costantemente nell'uomo
gli organi e le facoltà, conserva egualmente le parti essenziali del
linguaggio. Non è però lo stesso nelle lingue ciò che è opera del l’uomo ;
questa viene modificata da varie circostanze, tali sono il genere di vita , i
temperamenti diversi , la religione, il costume, la temperatura dell'aere, la
qualità de' luoghi , le gradazioni di sviluppo e tante altre,che,come
influiscono sopra la maniera di pen sare, influiscono nella maniera di
esprimersi, da ciò ladiversitàdellelingue.Sidissepiùsopra cheisuoni vocali sono
l'espressione della sensibilità,e le into nazioni,e i consonanti il prodotto
delle facoltà dello spirito ; la sensibilità ed i prodotti diessa sono quasi
simili in tutti gli uomini, perchè in tutti esistono gli stessi sensietutti
sono capaci di piacereedidolore; iprodotti però delle facoltà libere dello
spirito variano esimodificano diversamenteintuttigliuomini;onde è che possono
darsi alla stessa voce varie intonazioni, cioè possono i suoni vocali essere
combinati con di verse e varie intonazioni, d'onde risulta la diversità
222 delle voci articolate e la moltiplicità delle parole . M a la
stessa temperatura dell'aria , la medesima educa zione, la religione , lo
stesso suolo , i medesimi co stumi come influiscono nell'esercizio e sviluppo
delle facoltà,influiscono cosi nello stesso modo d'intonare, perciò la stessa
lingua presso lo stesso popolo,ed in questo più o meno perfetta, più o meno
elegante,più o meno estesa a seconda lo sviluppo e la collura degli individui
dello stesso popolo,della medesima nazione. Oltrediqueste cagioni
intrinseche,avvene un'altra estrinseca che produce la varietà delle lingue,
vale a dire la mistione di altre lingue, e da questa mistione hanno origine
altre lingue che sorgono nuove. Tale sappiamo l'origine di tutte quelle lingue
, e di quei popoli fin dove si estende l'istruzione dataci dalla sto ria, e con
particolarità di quelle a noi più vicine e le piùfamose,come
lagreca,elalatina;tanto l'una che l'altraebbero
originefraipiratiemasnadieri,ecreb berosottoibarbari.IFenici,iFrigi,iMacedoni,
gli Illirici, i Galati, gli Sciti,e l'eventuale concorso degli errabondi, e
degli esuli diedero origine alla greca nazione,e furono i primi
legislatoridella lingua.Gli Umbri, i Galli, gli Etruschi, i Sabini, i Campani ,
i Sanniti diedero origine alla latina, ognuno de' quali da parte
sua,introducendoipropri termini,elapro pria maniera d'inflettere, concorse alla
formazione di una nuova lingua non prima parlata, che fu il pro dotto di vari e
diversi dialetti, quale indi,le vicende delle nazioni,ilprogresso nelle
arti,nellescienze,e nella civilizzazione portarono a quello stato di perfe
zione che tanto in esse ammiriamo. 223 L'opera dell'uomo non
è mai stabile,come l'uomo stesso ; ha egli la sua nascita , la puerizia ,
l'adolo scenza,lavirilità,la decrepitezza,efinalmente muore per rinascere la
materia sua corporea sotto di altre forme; cosi è delle lingue : infatti dalla
Greca nacquero altre lingue;e di sotto le rovine dell'impero e della lingua del
Lazio sorsero l'italiana, la francese, e la spagnuola.Ma perquantigradivisipervenne?quante
mutazioni,e quante vicissitudini non bisognarono su bire prima di arrivare al
grado di perfezione in cui sonoalpresente?Variecauseviconcorseroesicom binarono
; gli improvisi eventi degli affari politici, il sito, l'amenità de' luoghi,
l'asprezza delle contrade, l'aspetto più o meno ridente di un altro cielo,la
lem peratura diversa dell'aria,lalontananzaolavicinanza de'mari,delle
selve,de'monti, la diversa indole degli uomini che si unirono , le forme
diverse di governo e di religione , la coltura delle arti, e delle scienze ,
egualmente che i vari dialetti che si resero familiari per lafrequenza
de'negozi diedero all'antico linguag gio forme affatto diverse. 221
Cacciati gli Ismaeliti da tutta l'Europa,ove aveano per qualchetempofattodimora,restòl'articoloarabo,
checominciòaprefiggersiainomi;quindinonsicu rarono le desinenze de'suoni
finali, l'introduzione di questo articolo fu la cagione primaria del mutamento
dellalingua liberaepittricedelLazio nellelinguem o derne servili. Abbandonando
gli Arabi la Gallia m e ridionale, la Spagna , le coste di Salerno e della
Italia meridionale, lasciarono tuttavia la desinenza de'versi
puerile,senon vogliam dire,sonante.Non possiam però negare che dobbiamo
loro le brevissime note dei numeri, i calcoli algebrici , vari nomi di
astronomia e stromenti di gnomonica, con alcune notizie di bo tanica e di
medicina. Vari nomi di fioried erbe, in cogniti ai nostri , furono recati
dall'oriente dai cro cigeri ; intanto le arti e le scienze che 'mano mano
siavanzavano,lenuove scoperlechesifacevano,ap portavano nuovi soccorsi e nuovi
nomi alle lingue. Varie maniere di costruire addussero prre gli inglesi ed i
francesi nell'italiano linguaggio,e varie pure di
questoneintrodusseronelloro;cosisiaggiunse sem pre novità a novità, varie leggi
di costruire, diverse maniere d'inflettere, originate in prima dalla negli
genza della pronunzia , anche molto spesso tronca vansi non che le lettere, ma
ben anco le intere sil-. labe : dal che ne avvenne che gli uomini domiciliati
nello stesso suolo, degenti sotto lo stesso cielo,e sotto la stessa forma di
governo cominciarono per effetto d'imitazione a adottare comunemente tal forma
di pronunziare,checoll'andardeltempo divenneunuso, una legge. 5. La natura ha
sempre prodotto degli uomini di genio, i quali e per la finezza del giudizio, e
per la vivacità della immaginazione si sollevarono sopra degli altri ; ciò che
dal volgo era enunciato di una maniera bassa e triviale, da quelli profferivasi
con scelta, con dignità ed eleganza;furonoessiimitati perchè piace vano, e cosi
discesero e si propagarono nel volgo le maniere più dignitose e più culte di
espressioni , 223 1 15 gli ornamenti della lingua
cominciarono a mostrarsi in tutto il loro splendore ; si cercò d'imitare
ipoeti, gli oratori, e si seguirono ne' loro vari stili. Questa fatica e questo
diletto che prima s'ignorava in mezzo al fragore ed allo strepito delle armi ,
e fra gli in commodi de viaggi e delle emigrazioni , cominciò a seguirsi , a
perfezionarsi dai filosofi nel libero ozio delle lettere , nel calmo silenzio
della meditazione , nella tranquilla diligenza di scrivere. Cosi il linguaggio
dapprima rozzo ed incolto per la tanta confluenza delle discordi locuzioni,
cominciò a tingersi dello stesso colore,a vestirsi della stessa for
ma,amostrarsiunasolalingua,chesottolalima degli uomini di genio e degli eruditi
apparve finita e perfetta; ove isuoni sembravano aspri,furono con sultate le
orecchie , si adottarono sillabe più scorre voli e sonanti ; ciò che pareva
meno adatto ad espri mere una cosa si corresse e si rese più preciso. Da ciò
chiaro appare che ogni lingua ha le sue parti essenziali esprimenti le idee ed
i giudizi del nostro spirito, cioè i suoni articolati secondo idiversi offici
che ognuna,nella espressione de'nostri pensieri,deve
adempiere,edinciòconsisteilfondamento della lin gua che è opera della natura.
Avvi un modo parti colare di costruzione e di combinazione di queste parti ,
una diversità di suoni e d'inflessioni che costituisce la differenza delle
lingue, ed il diverso loro genio, e ciò dipende dall'opera degli uomini e dalle
circostanze nelle quali si trovano.Ha finalmente ciascuna lingua de celebri
scrittori,de'grandi parlatori,che altri 226 Il primo
carattere della lingua, cioè il fondamento, forma l'oggettodioccupazione della
filosofia,laquale ricerca ciò che avvi di naturale nelle lingue; il se condo
appartiene ai grammalici, che si occupano delle forme e della proprietà delle
stesselingue ; il terzo si tratta dai retori che ne considerano l'eleganza, lo
stile e gli ornamenti. La prima svolge gli elementi naturali e sempre costanti
del linguaggio,la loro unione relativa all'ordine, alla successione, ai
tempi,ed alle circostanze delle idee e de' pensieri che si succedono nel nostro
spirito, ed a questo riguardo illinguaggio è una pittura fedele delle nostre
idee;questi elementi, che sogliono chiamarsi parti del discorso,si ritrovano
identici in ogni lingua.La seconda riguarda la varia desinenza de' suoni, la
loro inflessione, il modo di verso di costruire i medesimi suoni ; questa varia
se condo le diverse lingue, o piuttosto forma la varietà delle lingue, perchè
essa è opera dell'uomo non mica della natura. La terza rintraccia l'ornamento
delle lingue,l'uso dellefigure,ele maniere vezzose,eper cosi dire voluttuose
delle medesime ; essa è il risul tato della coltura e del genio.
6.Eglièverocheunuomo,ilqualeèdotatodi organi sani che funzionano normalmente,e
di un'anima ragionevole, può formarsi idee degli oggetti che agi scono
sopraimedesimi organi,puòimprimereleidee nella memoria, può richiamarle quando
l'esige il bi 227 proccurano e si studiano d'imitare; in essi trovasi e
deve ricercarsilaproprietàdellalingua,perchèessila recarono allo stato di
perfezione e di pulitezza. 228 sogno,può riflettereedastrarre,tuttaviasenzaillin
guaggio la nostra condizione sarebbe troppo degradata ; e quantunque i bisogni
comuni ed i vantaggi della vita avvicinassero gli uomini e li mantenessero fra
loro uniti, purnondimeno, senza la facoltà di manifestarci scambievolmente gli
interni sentimenti e le idee , le società reslerebbero stazionarie'ó molto
imperfette. Potrebbero i gesti in certo modo esserci utili,essendo
l'espressione energica della natura :ma di qual aiuto sarebbero in distanza o
nelle tenebre? come potreb bero indicare le cose passate ed a lungo intervallo
da noi ? in qual maniera esprimerebbero tante varie m o dificazioni si
dell'animo nostro , quanto degli esseri fuori di noi con tutte le gradazioni
delle varie loro tinte e colori , con quella esattezza e precisione con cui
sono espressedaisuoni articolati?igestinon po trebbero mai indicare inostri
interni sentimenti,iloro gradi d'intensità , e certe oscure e delicate
affezioni di cui l'animo è affetto. È opera del linguaggio ar ticolato il delineare
e pingere con esattezza,con pre cisione e nella sua totale adequatezza tutto
ciò che sentiamo,che sperimentiamo e che vogliamo trasmet tere nell'altrui
animo ;esso analizza e scompone nelle sue parti i sentimenti , e dà ad ognuna
di esse un segno preciso.Egli è vero che noi possiamo avere idee
sensibilideglioggetti esterni,elepossiamo trattenere a memoria senza l'uso de'
segni, che anzi non può prodursi un segno prima di averne formato l'idea che
deve attacarsi a questo segno.Ma tante idee sono di tal carattere, che tosto
formate sparirebbero senza al 229 taccarle al segno che le rende
permanenti, e noi sa remmo nella dura fatica di sempre formarle di nuovo,
talisonoperlapiùparteleideecomplesse necessarie, intellettuali, e tutte le nozioni
astralte di virtù,vizio, giustizia, bellezza, deformità, differenza,
uguaglianza. Senza l'uso delle parole le scienze non avrebbero p o tulo avere
esistenza;poichè non avvi scienza pura mente empirica,cioè,che non abbia
principi generali : l'individuale,essendo mutabile,non avendo necessità, non
può esser base e fondamento di scienza ; or le nozionigenerali,iprincipi
necessari non avrebbero potuto aver permanenza nello spirito senza i segni ; i
segni li rendono stabili e pronti all'uso,ed isegni hanno servito d'occasione
alla loro formazione, a tanti ritrovati,a tante ricerche:leparoleperchè?come?
onde?da chi?quando?essenza,relazione,causa,at tributo sono fonti fecondi onde
lo spirito possa met tersi in movimento e scoprire delle nuove vedute. Tutte le
scienze sono nate,si sono accresciute ed hanno acquistato quel grado di
estensioneediperfezione in cui le troviamo per aver ricercato ilperchè ed
ilcome di un effetto, e tutti i passi e le idee, cominciando dal perchè e dal
come sino all'ultimo risultato,sono state segnate dalle parole e
permanentemente registrate nel linguaggio. Tante riflessioni potrebbero addursi
intorno all'in fluenza del linguaggio sopra le idee ed il perfeziona mento
delle nostre facoltà; ma non volendo esagerare nė deprimere i vantaggi dello stesso
linguaggio ci li mitiamo a ciò che è della massima importanza. 230
Quasi tutte le operazioni riflesse del nostro spirito
sonocomplesseerisultanodavarielementi;ma questi elementi sono cosi connessi
nella unità del sentimento, che sembranoessereunsoloesempliceelemento;vero è
che l'altività dell'analisi,penetrando nel seno dello stesso sentimento,ne
distingue glielementi confusi;ma questa distinzionenon sarebbe
permanente,durevole, e lucida senza il linguaggio e le parole, ognuna delle
quali disegna ciascuno degli elementi distinti,non che i rapporti che si
scovrono fra essi elementi . U n sol fatto sembra la sensazione, il giudizio,
il raziocinio : l'analisi li decompone, ed il linguaggio nola e dise gna
ciascuna parte della decomposizione , e presenta successivamente e
distintamente il tutto;onde volen dosi replicare e riconoscere l'operazione,
basta repli care e ripetere le parole. Il linguaggio in generale d e v e c o n
s i d e r a r s i c o m e il p i ù p o s s e n t e a i u t o d e l l a m e
moria , anzi esso costituisce una memoria artificiale. In vero, lo sviluppo e
la coltura dell'uomo non con siste precisamente nella prontezza ed esaltezza
del giu dicare, nella sola faciltà di ragionare,ma nella pron tezza di aver
nuovamente le idee, le operazioni pas sate che possono servire al bisogno
presente;per ri produrre con prontezza le idee è necessario che fos sero nette
e scolpite, e tali si rendono per il linguag gio;illinguaggio,agevolando
lamemoria,contribuisce moltissimo allo sviluppo ed alla coltura dell'uomo ;
infatti sono in ragione direttalacivilizzazionede'po poli, e la perfezione del
linguaggio. Le paroledelle quali si compone illinguaggio non
231 sono che suoni articolati : esse per questo riguardo sono
oggetto proprio ad agire sopra il senso dell'u dito, e produrre modificazioni
ed idee nello spirito , i suoni articolati considerati in se stessi nulla espri
mono , sollanto producono sensazioni , modificano a loro modo lo spirito , e
tante sono le modificazioni quanti sono i suoni articolati che agiscono sopra
l'u dito : di tutte queste modificazioni e di queste idee lo spirito ne ha
coscienza, e ne ha memoria.Noi sap piamo che l'esperienza diviene più
tenace,più solida, più infallibile quando è comparata : infatti acquistiamo le
idee precise ed esatte delle distanze, quando si c o m bina l'esperienza della
vista con quella del tatto. Or ogni idea di qualunque natura ella sia, a
qualunque classe essa appartenga è una esperienza, è un senti mento distinto
che si deposita nella memoria ;intanto questa idea,questa interna esperienza
non riceve l’ul tima perfezione, l'ultima mano d'opera, siccome non si figge
nella memoria onde possa a piacere richia marsi , che allorquando si combina
colla esperienza dell'udito,colsuono articolato,quando all'idea,che abbiamo
attualmente nello spirito e nella coscienza , si attacca la modificazione che
produce il suono ar ticolato; questo suono tanto per essere giudicato iden tico
alla idea a cui si attacca, quanto per essere si multaneamente presente allo
spirito, diviene rappre sentativo dell'idea,come l'idealodiviene del suono, e
fa sì che l'idea sia compresa tulta e ristretta dentro la capacità e la
periferia del suono,ed acquista m a g giore sensibilità per la sensibilità del
suono in cui è ristretta ed a cui è attaccata , e cosi riceve
l'ultimo contornamento, l'ultima precisione e finitura. Cosi le parole
cielo,mare,monte,temperanza,giustizia ecc. Questo vantaggio è comune a tutte le
idee ed in q u e sto influisce più potentemente il linguaggio sopra le idee. Ciò
è chiaro non solo nelle idee sensibili , m a ancora nelle
intellettuali,nellenecessarie,siano sem plici,siano complesse,e con
particolarità nelle idee de' numeri, e nelle idee universali. Il numero non è
che l'aggregato di molte unità omogenee ; esso si forma col ripetere ed
aggiungere l'unità a sè stessa. Noi non possiamo , sotto il m e desimo atto di
conoscenza,abbracciare più di quattro ocinqueunità insieme;ma illimitede'numeri
non si arresta al quattro o al cinque , esso è indefinito. Supponghiamo di
avere coll'idea il termine dell'unità ed il segno dell'addizione, cioè uno e
più, e proce dendo progressivamente uno più uno più uno più uno, ciascuna di
queste addizioni, ed indi il numero che ne risulterebbe sarebbe cosi confuso
che noi non po tremmo affallo determinarlo,e molto meno potremmo formarne idea
onde poterla distinguere da un'altra ; come infattipotremmo senza isegni avere
l'idea 2000 e distinguerla da 1999 ? in questi numeri come ogni parola si
affigge ad ogni passo della progressione,la parola ne determina e precisa il
numero e l'idea, e per mezzo de' segni noi distinguiamo l'una dall'al tra, e le
mettiamo in combinazione ed in rapporto ,
eneformiamolascienza;questescienzedunque,la necessità e l'utile che ne deriva
si devono al linguaggio. 232 Leideegeneralinonhannoalcunmodellonellana
tura a cui corrispondano , ma sono il prodotto della azione dello spirito sopra
le idee individue. Noi non possiamo numerare tutti gli oggetti della natura,
che sono o possono essere in rapporto con noi , perchè non possiamo tutti colle
loro differenze e proprietà trattenerli nella memoria ,e riprodurli
distintamente quando vogliamo, per la stessa ragione non possiamo dare ad
ognuno un nome proprio, essendo essi di un numero indefinito; questa impresa è
superiore alle nostre forze. Ma lo spirito dell'uomo , che ha nella sua
attivitàdellepotentirisorse,paragonandogliog getti, ed interponendo fra essi la
identica sua cogni zione, conosce ciò che l'uno è all'altro, e questi ad un
altro,ecosidiseguito,evedendolesomiglianzee le analogie da una parte , e le
differenze e dissomi glianze dall'altra , per effetto della sua identica ve
duta ed indivisa interposizione fra questi oggetti e le loro qualità, riunisce
quanto in essi trova d'identico, l'astrae da ciò che li diversifica, ne forma
una con cezione di tal natura che tutti gli contiene e li rap presenta ; tale
concezione non è che una veduta reale dellospirito,ma
chenonhaalcunarealtànellanatura; essa è più o meno estesa nellasua
compreensione, d'on de nascono le idee generali di specie, generi, classi,
ordini, famiglie. Or tali idee , non avendo originale nella natura, perchè
semplici vedute dello spirito,senza un segno che le rappresenta svanirebbero,
nè potreb bero aversipresenti al bisogno ;laddove laparola rende permanente
l'idea generale, tutta , per cosi dire , la 233 ܐ
chjude nel suo ambito, e rappresentando tutta l'idea generale, rappresenta
tuttele idee identiche contratle in un solo gruppo, ed identificate in una sola
idea, a questo riguardo ogni termine generale è l'espres sione concisa di un
completo e perfelto metodo ;poiché contiene ed esprime confronti , giudizi ,
astrazioni e maniere di generalizzare; e siccome il termine gene rale si
considera come unico e semplice in sè stesso, cosi circoscriveefissailimiti
della idea,eledà l'ul timo grado di precisione. Le parole adunque non solo
associano le idee in dividuali in un modo indipendente dall'ordine di ac $
quisizione,onde poterleconfaciltàrichiamare,ma sono ancora necessarie per
fissare irapportide'con fronti, i termini de' giudizi, per dividere gli oggelti
della natura e le loro proprietà , per astrarre, per g e neralizzare,e per
rendere facile in fine le scienze tutte. Ogni idea dunque ha bisogno di una
parola che la rappresenti; se è concreta per renderla indipendente dalla sua
sensazione,e per tenere raccolte in una m a niera permanente tutte le idee
semplici di cui si c o m pone,e per richiamarla tosto alla memoria : se è
astratta per tenere riunite in un solo gruppo le idee astratte di cui è composta,
e formarne un modello distinto e durevole nella memoria. Il vantaggio però più
generale e proprio del lin guaggio si è quello, per cui tutti gli uomini
mettono in comunicazione tutteleloro idee,iloro sentimenti, ilorobisogni ed
imutui soccorsi;poichè essendo co muni i segni che l'indicano, ne segue che
colui che 231 ascolta esegue le stesse operazioni interne di
colui che parla,cioèeccitainsè,edunisce successivamente nel suo spirito quelle
idee che si sono eccitate successi vamente in colui che parla,con questa sola
differenza, che questi analizza il proprio pensiero ed attacca ad ogni
elementoun termine,laddovequello sintesizza, riunendo cioè le idee con
quell'ordine con cui ven gono indicatedalleparole.Questo vantaggioperònon ha
egualmente in tuttiilsuo pieno effetto, perchè le parole presso tutti non hanno
lo stesso grado di pro prietà, di precisione e di analogia , quindi variano i
modi d'intendersi come variano i mezzi di comuni carsi. L'influenza del
linguaggio su questo rapporto è di una utilità indefinita,poichè,colla
comunicazione delle idee e de sentimenti, lega fra loro gli uomini, e consolidà
le basi della umana società. Coltivato e diretto dall'arte, applicato ai vari
oggetti si trasforma e veste vario stile;ma ciòmerita l'attenzionede're tori, e
degli oratori. Sebbene igeroglifici,lecifrealgebriche,isegni te
legrafici, gli emblemi ed altri segni convenzionali pos sano rappresentare le
nostre idee,tuttavia il sistema de' suoni articolati è da preferirsi a
qualunque altro mezzo di espressione, tanto per la facilità, pel numero ,
quanto perché può adattarsi a tutti i luoghi, a tutti i tempi , ed a tutte le
circostanze per la portentosa varietà dell'articolazione ed inflessione de'
suoni.La scritturaèunaespressionedellinguaggiocome questo laèdelleidee;essaperciòèsempre
relativaedinra gione diretta del linguaggio , talchè la perfezione di 235
236 quella dipende dalla perfezione di questo ; poiché,come
laparolarappresental'idea,lascrillurarappresenta le parole.
l'autore non ebbe più tempo a pubblicarla , sì che restò inedita
con l'altro trattato teologico su'sacramenti. La dottrina intanto di que
st'altra opera che titolava Organo dello scibile umano o Lo gica, scritta forse
più che quindici anni fa, è sempre con forme al sistema dell'autore, e benchè
sembri non uscir dalle vie segnate alla logica da Aristotile e dagli
scolastici, trovi tuttavia nell'Introduzione quanto oggi si richiede da un trat
tato di logica che non voglia la nota di logica formale , sic come si dice. «
La logica , vi è scritto, ha la sua deriva « zione dal greco hóros che in
latino si traduce verbum , « cioè parola , discorso , perchè essa nella sua
essenza non « è che l'atto vivo che prorompe dalla virtù ragionevole « dello
spirito umano , che colla sua unità abbraccia e tra « scorre dalla potenza
dalla quale emana all'obbietto che lo « fa nascere ; essa primamente distingue
ed unisce questi « due termini , i quali possono considerarsi come due sil «
labe fondamentali che connette l'atto logico , e risulta la « parola feconda è
che senza dividersi in sè si protende , « abbraccia, e s'interpone fra tutti
gli esseri che esistono e « che possono esistere ; ne conosce i rapporti e le
relazioni , « li distingue e li riunisce in un sistema vastissimo e c o m «
prensivo. Questa forza logica ripassa sopra la fecondità a dell'atto creatore e
conservatore della Causa prima , il quale « senza scindersi produce la immensa
varietà degli esseri e « li coordina in un sistema portentoso ; lo riflette e
lo river « bera in sè , e per le relazioni che tra essi scorge li rias ime in
unico sistema cosmico. Questa forza che si an « nunzia nella parola vivente ed
operosa , con la penetrante (1) Questo m s . porta il titolo: Elementi di
Filosofia fondamentale. Organodelloscibileumano,oLogicadelP.BenedettoD'Acquisto
da Mon reale professore di Diritto Naturale e di Etica nella R. Università
degli studj di Palermo.Consta di quaderni 6,tutto di mano dell'autore,e
disposto per la stampa : oggi è presso i fratelli Matteo e Filippo L o rico di
Monreale,nipoti del D'Acquisto,insieme all'altro ms. su’Sa cramenti, di carte
140 , e contenente 18 capitoli. 27 « sua luce scorta e dirige
le operazioni delle altre facoltà « dello spirito al trovamento del vero che è
l'obbietto natu « rale della intelligenza dello spirito ; e trovatolo dà il m o
d o « onde poterlo convenientemente mostrarlo agli altri ». Così il nostro
filosofo dà a fondamento della logica formale una logica che oggi è detta reale
, e all'arte logicale prepone la scienza del pensiero.Ilquale appunto secondo
che congiunge diversi estremi piglia nell'esercizio logico diversi stati o
gradi progressivi come son detti dall'autore. Chè , « il primo grado « si trova
, ci dice il nostro , nella nascita dell'atto logico e « nel primo è radicale ,
nel quale esiste la potenza , l'oggetto « e l'atto , il quale separando nel
primo istante la potenza « dall'oggetto , congiunge indi l'uno all'altra ed
emerge l'è, a prima parola logica che esprime la nascita dell'individuo «
umano; il quale è ciò ch'egli è,ma sebbene è ciò che è, « non dice però sono;
allora dice sono, quando intende il si « gnificato della parola vivente è: e
ciò succede in virtù del « secondo atto , il quale comprende ed abbraccia il
primo , « che coll'interporsi distingue la potenza e l'oggetto contenuti «
cell’atto,e dice sono;ciò che costituisce il secondo sviluppo « logico ; il
quale forma il piano generale in cui la potenza « conoscendo ed affermando sè
stessa , conosce in sè ed af « ferma tutte le modificazioni ed in esse tutti
gli oggetti m o « dificanti, pe'quali la potenza si manifesta in diverse guise.
« L'atto logico adunque s'interpone tra le sostanze degli o g « getti , le
distingue e le congiunge , ed il risultato è l'idea «
generaledell'essere;terzosviluppo.L'attologicos'interpone « t r a l ' e s s e r
e e d il s u o m o d o , li d i s t i n g u e e li c o n g i u n g e ; e d « il
resultato è l'oggetto qualificato. L'atto logico s'interpone « tra la qualità
di un oggetto e quella di un altro, le di « stingue e le congiunge , ed il
resultato è l'idea specifica « della qualità. L'atto logico s'interpone tra
l'azione di un « essere e quella di un altro , le distingue e le congiunge , «
e il resultato è l'idea di causalità.Infine, l'atto logico s'in « terpone tra
tutti questi resultati dello sviluppo graduato « dello stesso atto logico ,ed
il resultato è l'idea comprensiva 28 1 « del sistema.L'alto
logico adunque ha una capacità univer- « sale ed una forza comprensiva che si
estende ed abbraccia « tuttociò che è.L'atto di ogni facoltà si limita alla
indivi « dualità ; l'atto logico trapassa la individualità , e si eleva « alla
massima generalità ». Ho voluto riferire, o Signori , questo lungo passo , si
perchè è già di un'opera inedita, e sì perchè si abbia come il nostro appuntava
nelle altissime ra gioni della scienza quella che comunemente si crede non e s
sere che solo disciplina pratica , e spesso vanamente sottile, del discorso
umano. È sempre , intanto , la stessa dottrina che va ripetuta per più capi , e
che si ha spiegata poi in tutta la sua sintesi stupenda nel Sistema della
Scienza Universale . Nella quale opera il D'Acquisto ha lasciato un bel
monumento ,come al trove ebbi a dire (1), della filosofia in Sicilia a metà del
se colo X I X . Questo sistema della scienza universale ha il suo perno
nell'atto infinito che sostiene come creativo, conserva tore e imperativo ,
l'universale ordine delle cose , in cui l'au tore trova che tutto è vita ,
tutto forza e movimento di un'immensa armonia ($ 544);tanto che esso sistema è
lo specchio di tanta universale armonia, metafisica, fisica, m o rale,naturale
esovrannaturale,laquale ha principio nelDio che concepisce , produce e accorda
il concetto e il prodotto della creazione primaria e secondaria , e ha termine
nel Dio della rivelazione , della grazia e della redenzione. Vero è che il
nostro filosofo, fedele al suo metodo , non va sulle prime alle alte regioni
della ontologia; ma è vero eziandio che non si chiude mai , secondo l'uso
de'psicologi , negli stretti limiti della psicologia e della ideologia : e però
il suo libro dà un vero sistema comprensivo (2) delle universali ragioni della
(1) Ved . il nostro libretto Sullo stato attuale e su'bisogni degli studi
filosofici in Sicilia , p . 5 2 e s e g g . P a l e r m o , 1 8 5 4 . (2) Saprà
bene il lettore che il Contı , nella sua lettera al pro fessorNaville sulla
filosofia contemporanea in Italia (ved.Appendice
allaStoriadellaFilosof.,Vol.IIp.538),poneilD'Acquistotra’seguaci del metodo
comprensivo. 29 scienza , esposto seccamente e quasi con metodo
geometrico, ma sempre con la medesima profondità di speculazione e logico
rigore. Che se poi quest'opera del nostro senta forse più che altra dell'odore
delle dottrine del Miceli , basta ri cordare l'occasione sopra notata ond'essa
nacque , perchè si abbia pronta spiegazione delle molte reminiscenze miceliane
che occorrono frequenti al lettore. In quanto adunque a n a tura della nostra
cognizione e a quel che in essa si accolga e scopra la riflessione, il sistema
ripete le dottrine stesse e l'analisi minuta che si hanno nella Psicologia ,
nel Saggio sulla legge fondamentale del commercio tra l'anima e il corpo
dell'uomo , e nella Ideologia ; m a per quel che concerne la ontologia , qui si
ha tutta la teorica compiutadella creazione e dell'ordinamento idealo e reale,
metafisico, fisico e morale delle cose , con le « investigazioni altissime
dell'umano sa pere » : tanto da chiamare appunto per questa ragione Si stema
della Scienza Universale il sistema di cui l'autore non tirava, a suo dire, che
brevi linee, ma cosiffatte « da som « ministrare dal punto supremo della sua
altezza le vedute « anticipate indicanti i nessi essenziali e le vere tendenze
« della scienza,che poi illavoro dello spirito umano potrebbe « condurre ad
effetto » (p. 14 ). L'ideale e il reale vanno iBenedetto D’Acquisto.
D’Acquisto. Acquisto. Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Acquisto” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Acri (Catanzaro).
Filosofo. Grice: “Acri has explored quite a few topics – all in the good Lit.
Hum. Oxon. tradition – and since he tutored at an even older varsity, kudos! He
has explored ‘Amore’ and he expands on the Athenian dialettica – he in fact
distinguishes between turbo and sereno – He left his notes on sereno as an
unpublication, but a tutee cared to publish them ‘Unpublication’ – There is
turbo, and there is turbato – as applied to ‘colloquenza’ qua conversational
dyad, Acri speaks of the colloquenza
itself as being ‘turbata’ – he relishes on that – if there is no ardimento, and
the Romans loved one – what’s the good to argue? The second phase of the
dialettica is ‘serena’ – I find the distinction genial and in a way corresponds
to my epagoge/diagoge distinction – the ‘turbo’ is dyadic – say A wants to
influence B (turbo 1), B gets influenced and expresses it in a second
conversational move (turbo 2). – Dialettica turbata – they reach the principle
of conversational helpfulness and they arrive at the ‘sereno’ – dialettica serena’
– until the next turbo arises, that is1” - Grice: “I like Acri – he is a
platonist, and he is explicitly against the positivists, whom he contrasts to
the ‘filosofi sobri.’ His own theory of ideas is hardly platonic, but finds its
base on Vico, which is nice – since, if an Italian does not understand Vico, no
one will! –Acri explores the connection between ‘idea’ and ‘expression,’ and
considers the ‘radice’ (root or stem) of expressions – he has commented
extensively on ‘Cratilo.’ In any case, he is a sensualist, so at the root of it
all is what he calls, after Aristotle (“De Interpretatione”) ‘il fantasma’ and the ‘imagine.’ Italian philosopher, author
of an essay on Plato’s and Vico’s theory of ideas. “Abbozzo” essential Italian philosopher. Grice: “I love Acri’s
rendition of the Cratilo into the vernacular!” Filosofo. Opere: “Del sistema in genere”;
“Prose; “Abbozzo d'una teorica delle idee”
(Palermo: Stab. tip. Lao, -- In memoria di Alfonso della Valle di Casanova);
“Sulla natura della storia della filosofia” (Bologna: Nicola Zanichelli successore
alli Mrsigli e Rocchi); “Cratilo – Menone – Apologia di Socrate, Critone -- Dizionario
Biografico degli Italiani. IL CRATILO. Due
solenni questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone
in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor
propria ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa
qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda.
Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le
confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di
Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or
potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un
nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni
nome da chiunque posto Due solenni questioni intorno all'origine della lingua
toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi
abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome
che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza:
Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben
apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla
seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome
parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che
sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di
Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto a qualunque cosa sia
retto, deriverebbe che tutti i nomi, sì veri che falsi, sarebbono del pari
retti, e che la cosa medesima potrebbe aver nomi altrettanti, quanti individualmente
dagli uomini le fossimo posti, e che tosto anzi gli avesse, che quel sopressa
li pronunciassero. Inoltre, se le cose non han già sol esse una stabilità lor
propria da natura (contro il dir di Protagora, esser elle a mo' ch'a noi
paiono; giacchè se così fosse, non potrebb'esser uno più sapiente di un altro);
ma stabilità pari ad esse han pure le azioni loro, per modo che, se unoe ha da
tagliare una cosa, per ret tamente ciò fare, ei non la dee tagliare a ca
priccio suo, ma nel modo che la natura della medesima richiede di tagliarla e
che taglisi e con quello con che debbe tagliarsi; così pur segue che il
nominare le cose, send'un'azione, noi non le dobbiamo nominare a libito nostro,
ma nel modo che la lor natura richiede di nominarle e che nomininosi e con che
deb bonsi nominare. Arroge, che se il giudicare poi di quello con che fassi una
cosa, cioè del suo stromento, se sia ben fatto, non pertiene al l'artefice che
lo fa, ma a colui che ne usa a modo (giacchè il giudicar di un pettine se sia ben
fatto e acconcio al tessere, non per tiene a falegname, ma a tessitore, e il
giu dicar di una nave, di una cetra, se sian ben ſatte, non pertiene ai loro
fabbricatori, ma a piloto e a citarista); così pur segue, che il giudicare del
nome di cosa qualunque, se sia ben fatto, cioè se la indichi ed insegni vera
mente, non pertenga a chiunque nè a chi lo pone, ma a colui che a modo ne usa,
al dia lettico; e per conseguenza rimane chiaro che il porlo non è opra di
chiunque, ma di solo colui, che ragguardando al nome che in ispezie a ciascuna
cosa da natura conviene, colle let tere e colle sillabe è in grado di render
l'idea del medesimo. A questo discorso non sapendo Ermogene che rispondere,
prega Socrate, che voglia spie gargli e fargli conoscere cotesta ragione, che
il nome ha in sè da propria natura; e quindi soggiugnendogli ch'ei non
ammettendo la sen tenza di Protagora, esser le cose come paiono a ciascuno, non
poteva tener vero quello che in virtù di tal opinione Protagora affermava dei
nomi, Socrate allora il conforta a ricorrere ad Omero, il quale distingue nelle
cose stesse i nomi ad esse dati dagli Dei da quelli dati dagli uomini;
avvegnachè gli Dei chiamino le cose con nomi, che ad esse rettamente
convengono. E così movendosi a spiegare Socrate, secondo Omero, come ad
Astianatte, Ettore, Oreste, Agamemnone, Atreo, Pelope e Tantalo bene stieno que
nomi ch'hanno, dalla menzione di quest'ultimo naturalmente viene condotto a
spiegar la ragione del nome pur del suo padre, cioè di Giove, e quindi sale a
quello di Saturno e di Urano. Intanto rispetto ai nomi che sono posti agli
uomini ed agli eroi, egli avverte di non doversene troppo fidare, perchè molti
di essi, dicegli, sono stati presi da que de pro pri progenitori, o sono stati
posti secondo gli auspici e voti per loro, come Eutichide, for tunato, Sosia,
salvato, ecc., e per ciò dando l'addio a tali nomi, passa a spiegare quelli
delle cose che sono sempre nello stesso modo ed immutabili, vale a dire ai nomi
Dii, demoni, eroi, uomini, ed al nome corpo ed anima, dai quali l'uomo è
composto. Ma desideroso Ermogene, nel modo che aveva inteso la ra gione del
nome di Giove, di saper anche quella del nome degli altri Dei, Socrate, dopo
aver formalmente protestato, che per riguardo agli Dei, affatto nulla di loro ei
sapeva nè con quai nomi tra loro si chiamassero, nondimeno dice, che si
accingeva a dar la spiegazione di tai nomi, secondo l'opinione ch'ei credeva
avere avuto gli uomini nel porre i nomi ai medesimi; e così fra questi pel
primo comincia da quello di Vesta.Il nome per esser retto, come si disse, bi
sogna ch'esso abbia una certa natural conve nevolezza con quello ch'ei nomina;
per dunque conoscere se un nome sia retto e stia bene colla cosa da esso
nominata, bisogna pur conoscere l'essere della cosa medesima. Or intorno all'es
tempi di Socrate e di Platone; l'una degli Eraclitiani, che credevano le cose
esser sempre in moto; l'altra degli Eleatici, i quali opinavano, che fossero
sempre in riposo. Secondo il proprio sistema ciascuno spiegava pure i nomi; onde
Socrate, nel dar l'etimologia del nome Vesta, riferisce anche la sentenza di
queste due scuole filosofiche dicendo, che gli Eleatici il nome di Vesta, Eatix
(Hestia), perchè, second'essi, in antico in vece di obaix (ousia), essenza, en
tezza, si diceva anche aix, esia, il derivavano da siva (einai), essere, mentre
gli Eraclitiani, prendendolo per sinonimo di oaix, osia, il de rivavano da
33siv (othein), cacciare, spingere. Dopo questo passa ai nomi degli altri Dei,
e quindi a quello del sole, della luna, delle stelle, della terra, dell'aria,
delle stagioni e dell'anno; e quantunque la maggior parte di questi paia
spiegarli secondo il sistema di Eraclito; tuttavia havvene alcuno, la cui
spiegazione può anche convenire al sistema degli Eleatici; finchè ve nendo ai
nomi della prudenza, scienza, sa pienza, giustizia, fortezza, virtù, vizio,
ecc., e a quelli della tristezza, del diletto e a tanti altri, quasi tutti ei
li spiega un po' lepidamente ed ironicamente, ridendosi degli Eraclitiani, col
riferire tutto al loro modo, come se le cose fossero sempre in moto. Ma questo
modo di dichiarar la ragione del nomi, come facevano gli Eraclitiani, semplice
mente per mezzo di una superficiale e succes siva decomposizione del medesimi
in altri nomi, non appagava intieramente Socrate. Impercioc chè, dice egli, se
uno interroga intorno alle parole, da cui è composto un nome, e poi di nuovo
intorno a quelle, da cui sono composte queste medesime, e così continua sempre
oltre ad interrogare, è necessario venire alla fine ad una parola, la quale non
si può più decom porre, e di cui nulla più sappia quegli che ha a rispondere.
D'altra parte però se uno non sa dar la ragione dei primi nomi, non sa certo
darla del derivati, che si debbono spiegare per mezzo del primi. Per la qual cosa
a rintracciar la ragione del primi nomi ei si fa nel seguente modo. I nomi
tutti, sì primi che derivati, deb bon dichiarare come veramente ciascuna cosa
è. Ora se noi non avessimo nè voce nè lingua, e dovessimo indicare le cose,
certo, come i muti, colle mani e col capo e con tutto l'altro del corpo noi
tenteremmo di significarle, elevando le mani verso del cielo per indicar quel
che è alto e leggiero, e per l'opposito abbassandole verso terra per indicar
quel che è basso e grave. Dal che rettamente ei conchiude che il nome per esser
retto, cioè per poter indicare come vera mente una cosa è, dee pur anco essere
un'imi tazione, che la voce fa di quella cosa, ch'uno per mezzo della voce
toglie ad imitare onde fi gura e il color delle cose, la musica il loro suono,
così l'arte del nominare imita la loro es senza per mezzo di sillabe e lettere.
E per di mostrare poi come per mezzo di sillabe e let tere uno possa ciò fare,
oltre al distinguere egli le lettere in consonanti e vocali e semi vocali ecc.,
ei fa pur osservare in molte di esse un valor loro proprio, facendo avvertire
nel l'elemento r il valore d'indicare il moto e ciò che è aspro e duro,
nell'elemento l quello d'in dicar ciò ch'è liscio e molle, e così un proprio
valore dà egli a molte altre lettere. E di que sta cognizione pertanto intorno
al valor delle lettere, come anche della cognizione della na tura delle cose
fornito lo istitutore dei nomi, afferma Socrate, che in quel modo, che i pit
tori per render l'immagine che vogliono effi giare, or adoprano un colore or un
altro ed or ne mescolano molti insieme, così egli nel far ciascun nome per
ciascuna cosa, adope rando l'elemento or di una lettera or di un'al tra ed or
mescolandone più insieme, secondo che l'immagine della cosa ch'ei voleva
nominare pareva richiedere, abbia formato i primi nomi; e quindi da questi
primi, sempre coll'imita zione per mezzo di sillabe e lettere, abbia pur
composti tutti gli altri, e che questa sia la vera ragion de nomi. Secondo un
tale ragionamento pare che Socrate, che è quanto dir Platone, propenda per la
sentenza di Cratilo, il quale affermava, avere gli esseri in sè da natura la
ragion del loro nome. Nondimeno non esser tutti i nomi retta mente posti
conforme alla natura delle cose, che nominano, il dimostra poi nel seguente
modo. Il nome, dice egli, è uno stromento, il qual si fa per indicar e insegnar
le cose come veracemente sono. Or ogni stromento sup pone un artefice; e buono
essendo quello che è fatto da un buon artefice, e cattivo quel che è fatto da
un cattivo, ne segue che anche i nomi saranno altri bene, altri mal fatti.
Cratilo pretende che tutti i nomi, come tali, cioè in quanto son nomi, son
tutti ben fatti e retti; per modo che se uno dà a qualcuno il nome che non gli
conviene, costui parrà sì ben averlo, ma esso appartiene propriamente a colui,
la cui natura viene dichiarata dal nome. Dun que se tutti i nomi sono retti,
ripiglia Socrate, non più anco si potrà dire il falso. No, non si può dire il
falso, soggiugne Cratilo, perchè dire il falso è dir quel che non è; or quel
che non è, non si può pensare nè dire. E che dunque, replica Socrate, fa colui
che ti chia masse o ti salutasse col nome di Ermogene, mentre che tu sei
Cratilo? costui non chiame rebbe, non saluterebbe te, ma un altro? di rebbe
egli qualche cosa o direbbe nulla? Costui, risponde Cratilo, non farebbe altro,
ch'un van un'altra prova. Il nome, dice egli, secondo quel che da noi si è
ammesso, è una imitazione, la quale si fa per mezzo delle lettere e delle
sillabe, come la pittura imita coi colori; e per ciò in quel modo che la
pittura, se, nello effigiare le cose, vi adatta i convenienti colori, effettua
bene e belle le loro immagini; così pure l'arte del nominare, se per mezzo
delle lettere e delle sillabe imitando l'essenza delle cose, saprà ad esse
adattare tutto quello che conviene e che loro è simile, bella ne effettuerà
l'immagine; che se no, effettuerà sì bene un'immagine, ma non già bella, per
conseguenza i nomi ch'essa fa, gli uni saranno ben fatti, e gli altri no.
Cratilo a questo energicamente si oppone, di cendo che se in un nome si muta,
si traspone, o si toglie o si aggiugne una lettera, non so lamente non
iscriviam bene tal nome, ma non lo scriviamo affatto, anzi esso diventa subito
un'altra cosa che il nome. Socrate concede ciò aver luogo ne numeri, a quali se
uno toglie od aggiugne un'unità, subito diventan essi un altro numero da quel
che eran prima, ma non già nelle qualità e nelle immagini delle cose; poichè se
le immagini dovesser aver tutto quello che ha la cosa di cui son immagini, non
sa rebbero più immagini, ma rimarrebbero la cosa stessa di cui elle appunto
sono le immagini; e per ciò neanco i nomi debbono aver tutto quel che ha la
cosa di cui sono nomi, nè es serle in tutto e per tutto simili; perchè, se così
fosse, ne avverrebbe, che gli esseri sarebbero tutti doppi, e non si saprebbe
più dire qual fosse proprio la cosa e qual solo il nome. Per la qual cosa a
giudicare se un nome sia ben fatto, basta che in esso si trovi il tipo della
cosa di cui esso è nome; e quantunque si debba concedere, che più retti e belli
sian que nomi, che per la gran parte son composti di lettere convenienti;
tuttavia non si può sostenere, che un nome, il quale non abbia le lettere
simili alla cosa che nomina, non possa indicare la medesima. Ed in conferma di
questo Socrate adduce il nome azXood:ng (sclerotes), durezza, nella cui
composizione in vece di entrarvi ilr, il cui valore è appunto d'indicare ciò
che è duro e aspro, v'entra anzi il X, l, che indica tutto il contrario, ciò
che è molle e liscio; nondimeno quand'uno il pronuncia, tutti sanno quello
ch'ei vuole dire e quello ch'egli ha in mente; così che fa pur d'uopo
conchiudere, che le cose s'indicano non solo per mezzo dell'imi tazione delle
medesime, che si fa colle lettere e colle sillabe, ma ancora per mezzo dell'uso
e della convenzione. Che se dunque tutti i nomi non son posti convenientemente
secondo la natura della cosa che nominano, ei si vede quanto senza fonda somi
glianza tra essi e quelle, che chi conosce i nomi conosce anche le cose. Del
resto, anche dato, continua Socrate, che per mezzo del nomi si possano
conoscere le cose; tuttavia essendo essi, anche quelli che rettamente conforme
la natura delle cose sono posti, solamente imma gini delle medesime, il miglior
modo di cono scerle sarà investigarle per esse, una per l'altra a vicenda, se a
sorte cognate sono, e ciasche duna per sè, e così venirle a contemplare nella
verità loro, e non solo nelle loro immagini. Intanto come questa verità, questa
cognizione si possa conseguire lasciando ad investigare un'altra volta, pel
presente ei si contenta di far vedere, che qualcosa di stabile e fermo è nelle
cose, e che oltre ad esservie un viso bello, ei v'ha poi un bello in sè, che
non è passeggiero nè soggetto a movimento o flusso, ma immu tabile e sempre lo
stesso; pel che rettamente conchiude dicendo, che non retta gli pareva la
sentenza di Eraclito, il quale voleva che tutto fosse in centinuo flusso.
Cratilo però alle ra gioni di lui non si acqueta, onde Socrate il prega, che
più attentamente volesse ancora esaminare la cosa, e, quando gli venisse fatto
di trovare la verità, si piacesse di fargliene partecipe.Così termina il
dialogo, dal quale si vede, come già in principio di questo argomento dicevamo,
che Socrate, e nella sua persona Pla tone, quantunque confuti la sentenza di
Ermo gene e quella di Cratilo, nondimeno, ancorchè espressamente nol dica,
molto di vero ei rico nosce in amendue, anzi le rettifica. In fatti, se concede
a Ermogene esser lecito agli uomini porre nomi alle cose; non gli concede però
ciò essere lecito a tutti, com'ei pretendeva, ed afº ferma non potersi porre a
capriccio, se hanno ad essere ben posti, ma richiedersi un'arte, e per ciò
esser opra di solo colui, che è in istato di rendere per mezzo del nome l'idea
della cosa che vuol nominare; come dall'altra parte, se ammette con Cratilo
avere i nomi da natura lor ragione, non conviene però che tutti sieno
rettamente posti e stieno a capello; e se pur gli concede migliori essere i
nomi che per mezzo di lettere e di sillabe esprimono la na tura delle cose che
nominano; tuttavia non gli consente, che assolutamente non abbiansi a chiamare
nomi quelli che non sono così for mati; giacchè l'esperienza ci dimostra
esservi nomi, i quali, senza che abbiano alcuna lettera simile o corrispondente
alla natura della cosa da lor nominata, per via del solo uso noi ve niamo posti
in grado di ottimamente intenderli e riferirli a cose, che non hanno punto di
si mile col medesimi. Chi è versato nella lettura delle opere di Pla tone facilmente
si persuaderà, che questo divino oltre all'addurre le prove dell'immortalità
dell'anima umana, scopo suo fu pur anco di rappresen tarci il quadro del
filosofo morente; nel Gorgia, oltre lo scopo di far vedere i difetti
dell'oratoria politica e sofistica, ebbe pur anco quello di far la difesa di se
stesso, perchè non si fosse dato alla vita pubblica; noi dunque ora nel Cratilo
dobbiamo pure investigare, se egli oltre al di mostrare, che la vera origine e
ragion de nomi non si dee derivare nè dalla stessa natura sola nè dal solo
arbitrio umano, abbia pur avuto intenzione di dimostrare ancora qualch'altra
cosa pratica. Erano ai tempi di Platone intorno allo essere delle cose, come
abbiam già detto, due sentenze, l'una degli Eraclitiani, i quai credevano ch'esse
fossero in un continuo flusso o moto; e l'altra degli Eleatici, i quali opina
vano, che fossero sempre in riposo. Ciascuna di queste due scuole (come tutti
in ogni tempo, e come anche vediamo aver fatto il nostro Vico), per confermare
le loro dottrine, i loro sistemi, ricorrevano all'etimologie delle parole,
credendo in queste trovare la ragione di quelli. Ma, quantunque lo studio delle
etimologie talora conduca alla cognizione delle cose, Platone tut tavia non vi
aveva molta fede, sì perchè ne nomi stabiliti a sorte dall'uso e dalla consue
tudine, di rado e forse quasi mai è possibile trovar la loro ragione e la
verità di quello che nominano; sì perchè nemmanco sulla strada più vera e più
sicura ci mettono quelli, che dall'in gegno e dalla potenza umana fur posti.
Imper ciocchè chi pose i primi nomi alle cose, com'egli dice, li pose, quali
credeva che queste fossero; or sei non aveva una retta opinione delle cose, e
ad esse pose i nomi secondo l'opinione ch'ei n'aveva, noi rimarremo ingannati,
se il se guiremo. Per far vedere adunque in che vano e fragile fondamento si
appoggiassero le scuole filosofiche che così facevano, e metter in chiaro
l'insufficienza di questo loro metodo per venire alla cognizione delle cose,
Platone in questo dialogo facendo una lunga esposizione di etimologie, sebben
acute ma strane, di cui molte forse raccolse da vari libri, mise in ridi colo
l'abuso di tale studio, validamente dimo strando, che le cose debbonsi
piuttosto cono scere per mezzo d'esse medesime, che per mezzo de' nomi, che
sono soltanto una loro adombra zione; e così, come metodo a ciò acconcio ed
efficace, colloca poi egli alla fine del dialogo, come opposta diametralmente
alle opinioni degli l'iraclitiani, la sua dottrina delle idee. Che se a questo
avessero badato certi eru diti (!), non mai avrebbero creduto che Platone (1)
Proclo spezialmente fra gli antichi, e fra i moderni il Menagio, ad Diogen.
Laert., pag. 149, e il Tiedemann, Argum. dialogg. Plat., pag. 84 e seguente.
etimologie, che espone in questo dialogo. E nel vero, an corchè sia difficile
il distinguere dappertutto quello ch'ei dice per gioco e quello che dice da
senno; tuttavia al veder, che nello spiegar la ragione de nomi di Teti, di
Poseidone (Nettuno), di Demetra (Cerere) e d'altri, ei lascia le etimologie
prossime e ovvie, e in vece ne arreca delle rimote, anzi talvolta ne inventa
delle strane e bizzarre, spezialmente quando adduce quella oltremodo ridicola
di Dioniso (Bacco), niun certo può disconoscere ch'ei non ischerzi. Arroge, che
il protestaregli, per bocca di Socrate, che quello che per riguardo all'eti
mologia de nomi dichiarava, il diceva non come cosa sua propria e che sapesse,
ma come cosa che teneva per ispirazione della musa di Euti frone, ognuno
avrebbe dovuto accorgersi o al men sospettare, che Platone non poteva far buono
tutto quello che per ispirazione della musa di questo sciocco e superstizioso
fanatico ei diceva. Per la qual cosa lo Schleiermacher è di parere che Platone
avesse in mira di bef farsi in questo dialogo di Antistene; ma, oltre che molte
cose in esso occorrono che mala mente si potrebbero attribuire a questo
filosofo Socratico, come rettamente osserva lo Stallbaum, ei si dee ancora
avvertire che gli studi di An tistene erano piuttosto dialettici e retorici,
che grammatici, e non si trova documento veruno, il qual ne accerti ch'ei si
occupasse anche della ragione de nomi. E se poi non si può assolu tamente
negare, che nelle sue giocose etimologie abbia pur egli avuto in mira Prodico,
perchè questi nel dar la ragione della differenza de nomi, di necessità spesso
doveva anche spie garne le etimologie; scopo suo però fu piut tosto di beffarsi
di tutti quel filosofi, che, come abbiam detto, nelle etimologie de nomi cre
devan trovar confermati i loro sistemi, e spe zialmente di mettere in canzone i
sofisti, che in coteste arguzie ponevano molto studio e tanto si dilettavano, i
quali appunto egli dileggia, quando ironicamente spiegando il loro nome,
afferma che significa eroi. E in fatti che Protagora molto attendesse anche all'interpretazione
degli scrit tori spezialmente poeti, abbiam già veduto nel dialogo del
Protagora, intitolato dal suo nome, nel quale insieme con Prodico ed Ippia ed
altri espone a Socrate il suo sentimento intorno ad un passo oscuro d una
canzone di Simonide. E che, oltre all'aver lasciato precetti intorno alla
retorica, come ci attesta Cicerone nel Bruto. i 2: « scriptae fuerunt et
paratae a Protagora rerum illustrium disputationes, quae nunc com munes
appellantur loci, º molto pure si occu passe intorno alla proprietà dei nomi e
della collocazione delle parole per rendere bella l'elo cuzione, lo aſſerma lo
stesso Platone nel Fedro, pag. 267, C, ed Aristotele nclla Retorica, lib, ini,
ori gine e ragione de nomi abbia pure disputato. Questo pare chiaramente
indicato nel Cratilo, alla pag. 295 (Stef 391. C), anzi da quel, che ivi dice
Ermogene, sembra che tal questione facesse parte del suo libro della Verità,
reo A), 3sizg, come vedremo. I seguaci di cotesto sofista adunque sono quelli,
contro dei quali è diretta spezialmente l'ironia e lo scherzo di que sto
dialogo, poichè cotesti sono quelli, che, come il loro maestro Protagora,
approvando la sentenza di Eraclito, il quale stabiliva, che tutte le cose
perpetuamente scorressero, come un fiume, avevano ad essa accoppiata la loro,
cioè che l'uomo fosse la misura di tutto e che le cose fossero come a lui
appariscono; e per ciò credendo che tutto continuamente fluisse e che i nostri
sensi a questa mutazione delle cose si accomodassero in guisa, che sempre esse
fos sero come a loro apparivano, venivano pur a credere tali essere i nomi
delle cose, quali dal senso e dall'intelligenza di ciascheduno venivano
percepiti, cioè naturali. Da questo si vede che in cotesti
Eraclitiani-Protagoristi non si deb bono comprendere, gli antichi e veri
seguaci di Eraclito, ma solo i posteriori, che, material mente intendendo
Eraclito, facevano una cattiva e falsa applicazione dei suoi principii. E se
dum que di tutte le sette filosofiche, come sappiamo, era anticamente costume
di riferire i loro sistemi ai sapienti più antichi e spezialmente ad Omero, non
dee dunque far maraviglia, se i detti nuovi Eraclitiani-Protagoristi, chiamati
appunto Omeriani da Platone nel Teeteto (pag. 179. E), tentassero pur di
derivare le loro spie gazioni e interpretazioni de nomi da Omero ed anche da
Esiodo, e se in questo dialogo conforti poi Socrate Ermogene, se non ammet teva
la verità di Protagora, a ricorrere ad Omero, e se quindi egli pure, secondo
questo poeta, gli faccia parecchie spiegazioni del nomi. Il Cratilo,
interlocutore di questo dialogo e da cui anzi lo stesso dialogo s'intitola,
Aristotele (Metaph. 1, 6), Apuleio (de dogm. Plat.2), e Diogene Laerzio (III,
6), narrano essere stato, prima di Socrate, maestro di Platone, e che gli abbia
insegnato le opinioni e dottrine di Eraclito. L'Ast però (Platons Leben und
Schri ſten, pag. 19) opina, che il Cratilo interlocu tore del presente dialogo
sia diverso dal Cratilo che fu maestro di Platone, affermando non altro potersi
raccogliere dallo stesso dialogo, se non che il Cratilo, ivi interlocutore, era
se guace di Eraclito, e non già che sia stato mae stro di filosofia e che abbia
avuto Platone per discepolo; e per ciò pretende non esser pro babile, se così
fosse, che Platone l'avesse messo così in canzone senza riguardo veruno. Questa
sentenza a noi non pare di gran momento; poichè hoi non abbiamo sufficienti
argomenti Cratili, amendue filosofi e della scuola di Eraclito, onde poter
dubitare qual di loro sia stato maestro di Platone. D'altra parte, Aristotele,
Apuleio e Diogene Laerzio avevan certo notizia e del Cratilo maestro di
Platone, e del Cratilo inter locutore di questo dialogo; non avendogli essi di
stinti, rimane chiaro che sì quello che questo sono il medesimo Cratilo. Per
riguardo poi a quello, ch'ei dice non esser probabile, che Platone abbia messo
in canzone così ingratamente il suo maestro, noi facciamo osservare, che Pla
tone non gli fa dire da Socrate alcuna cosa dura, anzi l'ironia, che regna
nella esposizione delle etimologie, è pur così coperta, che può anche sfuggire
a non mediocri ingegni. Volendo Platone render conto, perchè si fosse scostato
dalle opinioni eraclitiane del suo primo mae stro Cratilo, ed avesse poi
seguito quelle di Socrate, ei non poteva più giurare in verbo del suo primo
maestro Cratilo, nè rappresen tarcelo superiore a Socrate nelle ricerche e di
scussioni didattiche, ma sì bene rappresentar celo, come veramente egli era, e
cercar, per quanto poteva, di farci conoscere il modo di verso dell'esposizione
scientifica d'amendue, come anche intieramente il loro carattere. Per questo
appunto Platone non si contenta già di far abbattere da Socrate in questo
dialogo le opinioni, che Cratilo aveva intorno alla ragion de nomi, ma il fa
udire ancora una lunga ſi lastrocca di spinose etimologie, che Socrate espone
ad Ermogene, la quale se par essere un dileggio verso coloro a cui viene fatta,
non è però fuor di proposito, perchè Cratilo era così dato alle dottrine di
Eraclito, che tutto contento ed incantato beccava qualunque cosa gli fosse
detta in confermazione di quelle, e tanta era la sua ostinatezza in quel che
soste neva, che dicendogli Socrate alla fine del dia logo migliore essere il
metodo di conoscere le cose per mezzo di esse stesse nella verità loro, che
solamente per mezzo delle loro immagini, cioè per mezzo dei loro nomi, a tal
patente ragione ei non si arrende ancora. L'altro interlocutore del dialogo,
anzi il primo che entra in discorso con Socrate, è Ermogene, figliuolo
d'Ipponico e fratello di Callia. Anche questo afferma Diogene Laerzio (nel
luogo ci tato) essere stato maestro di Platone nelle dot trine della scuola di
Elea. Ma questa asser zione viene rigettata dall'Ast (nell'opera citata, pag.
2o), e dal Groen Van Prinsterer (Pro sopographia Platonica, pag. 225), il qual
ul timo crede, e con lui concorda lo Stallbaum, che il testo di Diogene Laerzio
sia stato cor rotto da un ignorante, il quale abbia intruso il nome di Ermogene
dopo quello di Cratilo, nell'opinione, che siccome dei due rappresen Platone,
così il fosse anche stato quello dell'Eleatica, Ermogene. A questo aggiungasi
ancora, che Aristotele ed Apuleio, i quali affermano essere stato Cratilo
istitutor di Platone, ciò non di cono più di Ermogene. Altro è che questi fosse
seguace delle dottrine degli Eleatici, altro è che in esse abbia pure istruito
Platone; giacchè trattandosi di un fatto, sì per istabilire la sua verità, come
per abbatterla, è del tutto neces saria una prova positiva, la quale, quando
manca, è nullo tutto ciò, che pro o contrada qualunque si dice. Per la qual
cosa, se l'unica e dubbia autorità di Diogene Laerzio non si dee tenere da
tanto per farci credere vero tal fatto, neanco per negarlo pare a noi esser suf
ficiente la prova negativa dello Stallbaum e del Groen Van Prinsterer, i quai
dicono, il poco ingegno e la poca dottrina di Ermogene essere un argomento
bastante a far sì, che niuno il possa creder essere stato maestro di Platone.
Imperciocchè come veramente stesse di dottrina Ermogene, non è poi cosa facile
a dichiarare, stante che il merito scientifico degl'interlocu tori, che Platone
mette ne suoi dialoghi in iscena, non si dee giudicare dal grado, in cui egli
ce li rappresenta e ce li fa parlare; giac chè quando si tratta di coloro ch'ei
vuol con futare, ei fa da loro anche dire cose strane ed assurde, le quali essi
mai non sognarono, ma ch'egli però dalle loro dottrine deduce, per sempre far
maggiormente spiccare il contrasto della verità, ch'ei difende. D'altra parte
poi, se si dovesse giudicare da questo dialogo, pare che per niuna parte
Ermogene la ceda a Cra tilo. E nel vero, per non dire che la discus sione,
fatta in principio tra Ermogene e So crate, è sottile anzi che no, e suppone in
Ermogene un non mediocre ingegno, bisogna avvertire che la lunga esposizione
delle etimo logie secondo il sistema di Eraclito, è diretta a mettere in
canzone non altri, che coloro che tal sistema seguivano; e per ciò pare anzi
che d'in gegno un po' tardo ben si potrebbe tacciare Cratilo, che non mai in
udirle di tal corbelleria s'accorga, ma non Ermogene, il quale, udendole,
scorgendo per mezzo di esse beffarsi Socrate dei seguaci delle dottrine di
Eraclito, veniva sempre più confermato in quelle contrarie degli Eleatici,
ch'ei sosteneva. Del resto ch'Ermogene non pigliasse tutte per vere le
etimologie di Socrate, non solo si vede da quello, che in udirle non mai egli
fa alcun segno d'ammira zione o di contentezza, come se fosse giunto alla
cognizione di qualcosa grande e nuova, ma nemmanco di piena approvazione;
giacchè, appena che ha udito l'etimologia di un nome, senza più, quasi sempre
passa subito a inter rogar Socrate di quella di un altro, e se talor mostra
d'averne per buona alcuna, la sua con a Socrate, Pare che un po' ci tocchi o ci
cogli ecc., daivet, xtvòvvsústg o doxsig rt Xéyetv. Ma, che ancora? Che
Ermogene più per curiosità e diletto che per altro, se ne stesse ad ascoltar
l'espo sizione delle etimologie di Socrate, argomento certo n'è, ch'ei pure
celia collo stesso Socrate, come (per non citar altri luoghi) quando udita
l'etimologia del nome ivtavróg, anno, ironica mente gli dice, che aveva già
fatto molti passi nella sapienza, e spezialmente quando Socrate, nello spiegare
il vocabolo 3) aſºspdv (blaberon), nocevole, dicendogli che propriamente si do
vrebbe chiamare 3ov) arrrepoijv, boulapteroun, ei gli soggiugne che all'udirlo
pronunziar così bel nome, gli pareva veramente che zufolasse il preludio
dell'aria di Minerva. Il timore e la superstizione, che dà a dive dere Socrate
in questo dialogo, nel protestare che per riguardo agli Dei e ai loro nomi, ei
punto non ne sapeva, ma che solo diceva quello che ebbero in opinione gli
uomini in porre loro i nomi, indicano manifestamente, che l'Euti frone, per
ispirazione della cui musa, ei dice tenere le spiegazioni, che dà dei nomi, è quello,
da cui è pure intitolato un dialogo di Platone. Così appunto opinano l'Ast e lo
Stallbaum. Quest'uomo è il tipo della leggerezza e della superstizione; ei si
vantava di saper meglio che alcun altro le cose divine, e tanto era il suo
entusiasmo, come dice egli stesso (!), quando di esse parlava e mandava fuori i
suoi oracoli, che eccitava il riso e pareva maniaco. Verisimil mente dunque
nell'interpretare la mitologia degli antichi poeti e spezialmente di Omero, e
nel cercar la ragion de nomi degli Dei e nel darne la spiegazione, vi poneva
molto studio e vi met teva pur lo stesso entusiasmo e furore, come nel mandar
fuori gli oracoli. Forse sarà anche stato della scuola di Eraclito. Onde
piacevole e grazioso pare lo scherzo di Platone, in far per bocca di Socrate
dar l'etimologia de nomi a Cratilo, il qual non era men entusiasta e maniaco in
beccar ciò, che parevagli confer mare le sue dottrine eraclitiane (giacchè,
quanto a Ermogene, egli stava, come abbiam veduto, a udirle più per curiosità e
diletto, che per altro); mentre così facendo Platone, a chi era di perspicace
ingegno dava, per mezzo dell'ironia, a divedere, che a lui non andava a grado,
anzi disapprovava il poco ragionevol modo degli Eraclitiani, nello spiegare i
nomi e nel pretendere di trovare quasi in ciascun verso di Omero qualche cosa
di oscuro e mi sterioso, togliendovi quel suo proprio colore, semplice e
naturale. In qual tempo sia stato composto questo dia logo da Platone, e qual
loco gli si debba as ri mane ancora a vedere. Lo Schleiermacher il pone dopo il
Teeteto, il Menone e l'Eutidemo, e pretende che debba servire di compimento a
quel primo; ma ognun vede che l'argomento della scienza, che trattasi nel
Teeteto, non viene ampliato nè discusso nel Cratilo; anzi tutto il contrario,
quel che affatto alla fine del Cra tilo è appena indicato, viene poi
diffusamente discusso nel Teeteto; chiaro dunque egli è, che questo il dee
seguire e non precedere. L'Ast il colloca non solo dopo il Teeteto, ma anche
dopo il Sofista, il Politico e il Parmenide; anzi crede che il Cratilo faccia
parte ed appartenga ad una trilogia o tetralogia, che non fu da Platone
compiuta; e per prova ne adduce le prime parole del dialogo: Brami tu dunque
che in cotesta questione anche qui Socrate c'entri' le quali ei dice essere del
tutto nude, secche e immotivate. Inoltre che quest'opera non sia un lavoro
compiuto, seguita egli, si vede da quello, che nell'ultima sua parte i passaggi
da una cosa all'altra sono scuciti e duri, e molto, che non ista in immediata
relazione con quel che precede, vien posto senza alcuno appa recchio e
introduzione, mentre le ricerche, che si connettono coll'argomento principale e
che eccitano un grande interesse, vengono al l'improvviso abbandonate. Ma
checchè ne voglia dire l'Ast, quantunque le prime parole del dialogo indichino
a precedente discussione tra Er mogene e Cratilo, tuttavia di questa trilogia o
tetralogia incompiuta, ch'ei pretende, non s'in contra indizio veruno nelle
opere di Platone, nè si trova che l'argomento del Cratilo venga da lui trattato
in qualche altro suo dialogo. Questo scritto può stare da sè, ed io non veggo
la ragione, perchè l'Ast il voglia far seguire al Sofista, al Politico e al
Parmenide, e non anzi a tutti questi precedere. E nel vero, per non dire, che
l'irrisione, che domina nell'espo sizione delle etimologie nel Cratilo, non
troppo acconciamente può stare vicina alle gravità e serietà, con cui sono
trattati il Sofista, il Po litico e il Parmenide, l'argomento del Cratilo non
ha che fare con quello di questi; nè si ravvisano ancor in esso vestigia della
scuola pitagorica, come nel Parmenide, ma appena si fa menzione in un suo luogo
dell'armonia de corpi celesti; nè appare ch'ei segua il me todo
dell'investigazione tenuto dai filosofi Me garici, i quali erano versatissimi
in trattare le quistioni di questo genere, come lo segue nel Sofista, nel
Politico e nel Parmenide; nè fi nalmente si vede ch'egli molto insista sulla
sua dottrina delle idee, ma appena ne fa cenno alla fine del dialogo, e la dà
soltanto ancora come un suo sogno. Per l'opposito, niuno può disconoscere, che
tra il Protagora, l'Eu tidemo e il Cratilo vi regni un'affinità quasi irri
sione drammaticamente ci rappresenta Platone il vano fasto di Protagora e di
tutti que sofisti che si millantavano essere maestri di virtù, e se
nell'Eutidemo poi egli si beffa delle meschi nità delle arguzie e de lacciuoli
dialettici pur de' seguaci di Protagora, anche nel Cratilo, come abbiam veduto,
con ischerzo e con ironia viene egli a dimostrare l'inutile sforzo de' Pro
tagoristi-Eraclitiani, che per mezzo dell'inter pretazione del vocaboli
tentavano di venire alla cognizione delle cose e di stabilire i loro sistemi.
Per la qual cosa, sebben l'autore in quest'opera sia lungi dal comico che
domina nel Protagora e nell'Ippia Maggiore, l'andamento però e la condotta
della medesima, come anche la molti plicità degli esempi e le minutezze, con
cui, secondo il metodo di Socrate, procede Platone in principio di essa, e
finalmente ancora lo scherzo e l'ironia che si scorge nell'esposizione delle
etimologie, danno a bastanza a divedere, ch'ella moltissimo si approssima ai
dialoghi po polari Socratici, ch'egli scrisse i primi, e che da lui sia stata
composta in una età, in cui egli non era ancora del tutto scevro da pro tervia
e petulanza giovanile. Non pertanto, quan tunque da solo quello, che si fa
menzione in questo dialogo delle vocali a ed o, le quali furono introdotte in
Atene, sotto l'arcontato di Euclide (l'anno 2 della 94 olimpiade, 4o3 prima
dell'era volgare, e 26 dell'età di Platone), non si possa di certo conchiudere,
che dopo tal anno sia stato questo scritto composto, per la ra gione, come
ottimamente osserva lo Stallbaum, che queste vocali potevano già essere in
vigore in uso privato, prima che pubblicamente fos sero sancite e passate ne'
monumenti pubblici (ved. il Matthiae Gramm. Ampl., tom. 1, pag. 22, annot.);
tuttavia non si può dubitare, che questo dialogo da Platone sia stato disteso
in quel tempo, in cui egli aveva già concepito i principii della sua dottrina
delle idee e deter minato con essa di confutare i Protagorei e gli Eraclitiani.
Or tanto le cognizioni richiedentisi per poter ciò ben fare, quanto le sottili
inve stigazioni circa la ragion de nomi, che in que st'opera si ravvisano,
paiono indicare esserelle un lavoro di Platone non così giovane, ma sì bene di
lui d'alquanto già più maturo. Che se poi tra il Protagora e il Cratilo, che
hanno tra di loro un'affinità che non si può disconoscere, noi abbiamo inserito
l'Ippia Maggiore ed il Gorgia, non è già che crediamo il Gorgia essere
anteriore al Cratilo (anzi la di fesa che nel Gorgia fa Platone di se stesso,
perchè non si fosse dato alla vita pubblica, ma alla filosofica, indica
chiaramente che tale scritto è un lavoro di un uomo più che maturo), ma non per
altro così ci parve di fare, se non perchè abbiam voluto far seguire l'un dopo
celebri sofisti della Grecia, Protagora, Ippia e Gorgia, ne quali Platone
graziosamente smaschera il loro vano sapere ed acremente li frusta. Però se uno
bada, che i Protagoristi-Eraclitiani, che Platone dileggia in questo dialogo
canzonando le loro etimologie, questi medesimi poi con con cludenti ragioni
validamente egli confuta nel Teeteto, facilmente ei si persuaderà, che il
Cratilo a questo dee stare unito e precederlo, anzi che susseguirlo; e per
conseguenza che noi, nell'assegnargli il posto che gli assegniamo, nel suo vero
l'abbiam collocato. Three sections on Plato in Acri’s essay on ideas: Plato’s
Parmenide, Plato’s Sofista, Plato ed Anselmo. Gl’Intelligibili
e il Parmenide di Platone. L'uno quale Platone lo disamina nel principio
della seconda parte del Parmenide è un intelligi bile , e la contraddizione in
cui lo involge è tale per colui che lo considera come idea contro l'in tenzione
di Platone medesimo.Ecco,se tu fissi l'uno nel nome suo,se tu appunti l'occhio
nell'uno come uno, esso non è più uno , cioè non è idea. Impe rocchè all'uno
fissato nell'uno,contratto in sé,sen za espansion di sorta, non compete
relazione alle idee di parte e di tutto, di principio, mezzo , fine, cioè
all'idea di quantità, e neanco all'idea di quan tità parvente come a dire la
figura, e neppure al l'idea di luogo nè a quelle di moto o di stato,nè a quella
di qualità,né a quella di relazione di si miglianza, di egualità,di medesimezza
e dell'idee contrarie,nè a quella di tempo,nè a quella di es sere o divenire,né
da ultimo all'idea di senso,di opinione, di scienza. Adunque l'uno irrelativo
non è quanto,nè quale,né in luogo,nè in tempo,non ė medesimo, nè simile, né
eguale a sè e neanco il contrario, non è, non diventa , non si sente ,
non s'opina, non si sa. Dunque l'uno irrelativo non é uno: cioè a dire
l'uno elemento dell'idea uno non è l'idea uno che si componë e di quello
elemento e di molti altri. Gl'intelligibili e il Sofista di Platone. Nel
Sofista Platone tratta della comunione delle specie , come se le specie
precedessero la comu nione,pigliandoa esempio l'essere,ilmoto,lostato, il
medesimo e il diverso. Ma la comunione precede le specie; imperocchè l'essere
non è tale senza pri ma comunicare col medesimo, nè ilmedesimo è tale senza
prima comunicare con l'essere, nè il medesimo è ciò ch'è senza il diverso,nè
questo è ciò ch'è senza quello. Alla mente di Platone certo la comunione delle
specie si mostra come necessa ria; tuttavia le si pasconde che le specie prima
di essere specie sono elementi le une delle altre , e la comunione è per lei
esteriore e di specie già in tiere e fatte. Più giusto sarebbe stato lo
affermare ed esaminare la comunione degl'intelligibili, cioè di quei semi che pe'loro
congiugnimenti diventa no specie o speciose o spettabili se cosi dire si vo
glia . Sant'Anselmo e Platone . S. Anselmo nel capitolo primo del Monologio or
meggiando i passi di s.Agostino per provare Dio dice : tutti beni son beni per
una qualche cosa ch'è bene per se stessa; e nel secondo dice : tutte quelle
cose che sono grandi per alcun che sono gran di, il quale è grande per se
stesso; e nel terzo a g giugne che tuttociò che è , per un qualcosa pare che
sia , la quale è per se stessa ; e nel quarto aggiugne : se le nature delle
cose si distinguono per disuguaglianza di gradi,e alcune nature si re putano
migliori di altre conviene che ci sia alcuna tra quelle cosi
eminente da non averne altra a sė superiore. Imperocchè,se,tale distinzione di
gradi è cosi infinita che non sia alcun grado superiore di cui altro superiore
non si rinvenga; la ragione conduce a questo , che la moltitudine di esse n a
tare non sia chiusa da alcun termine.Ma ciò diuno reputa non assurdo se non chi
è affatto privo di r a gione. È dunque di necessità alcuna natura,la quale é
talmente superiore ad alcuna od alcune,che al tra non ve n'abbia, a cui sia
ordinata come infe riore (volgarizzamento del Rossi). Queste argomen tazioni si
posson paragonare a quelle che fa Platone per provare le specie per sé. Egli
dice : Ne' sen sibili c'è meschianza e confusione di contrarie no te;
imperocchè una cosa è bella e brutta, giusta e ingiusta, grande e piccola, e
via via; bella, giusta, grande per un rispetto,e per un altro brutta, iugiu sta,piccola;dunque
ci dev'essere un bello che per nessun rispetto sia brutto , un giusto per
nessun rispetto ingiusto , un grande per nessun rispetto piccolo,e
viceversa;delle quali specie contrarie par tecipa il sensibile. La differenza è
in ciò, che Pla tone si fonda più su la contrarietà delle note che apparisce
ne'sensibili,e Anselmo più su la grada zione di esse note;e dovechéPlatone a
filodilo gica è necessitato a dare a tutte il valore m e d e simo di specie,
Anselmo lo dà ad alcune, come alla grandezza e non già alla picciolezza ,
all'essere e non già al non essere,al bene e non già al male; e da ultimo
Platone vuol provare una moltitudine 99 inconfondibile di
enti per sè,e Anselmo di un solo. Ma di quest'argomento suo che ci conviene pen
sare ? Ecco, premettiamo che al tempo dei Dottori si vedeva nelle idee una
certa costituzione già fer ma; esse aveavo fatto presa;e che poi per istinto
dubitativo generato dalla riforma o meglio gene ratore di essa parve che si
disciogliessero,e si cer cò rifare la loro sostanza medesima. E l'argomen
tazione propria alla filosofia medievale è nell'espli care ciò ch'è implicato;
e dimostrare un'idea vale dischiuderla da un'altra dove giaceva intiera e for
mata , da un'altra della quale non si dubita. E , stando a questa filosofia, il
contenuto di un'idea è quasi indipendente da quello delle altre, e ai sil.
logismi come esplicativi si dee assegnare un gran valore anche pigliati
singolarmente. Ma non c'è, si può dire , componimento e accordo e universa lità
mirabile nella Somma di S. Tommaso ? Si, ma l'universalità dalla religione è
data alla filosofia, la quale assume l'ufficio di sconnetterla,scomporla e
verificarla a parte a parte. E il contrapposto dell'u niversalità della materia
con la singularità e la di. visione e lo spezzamento della forma è
notabilissima nel libro mentovato , che recapitola maravigliosa mente il
pensiero del suo tempo. Per un'altra filoso fia al contrario l'argomentazione
non sta ne' sillo gismi netti,che anzi li ha a sdegno,ma nella gene razione
dialettica e necessaria,in guisa che tanto vale per essa dimostrare un'idea
quanto farla con cepire nelle viscere d'un'altra e poi evocarla alla
100 101 luce. Però avvertisco io che il suo generare, la sciando da
parte le frasi nuove,è in fatti un porre una serie di equazioni facendo si che
l'ultimo ter mine che si vuol generare appaja eguale al primo termine che si
risguarda come generatore,in virtù di molti medii che celano graduatamente la
reale dissagguaglianza. Ecco uno schema dell'argomen tare suo:a è vicino a
m,perchè vicino a b,e o vicino a C, e c vicino a d, e d vicino a e, cd e v i
cino a f; col divario che dov'io dico vicino essa dice eguale.Da ultimo c'è
un'altra filosofia,non ne mica a quella dei Dottori, anzi benevola,anzi re
verente come a madre figligola, la quale non sup pone l'idea intera e formata,
e neanco vuol rifarla da capo o generarla come dice l'altra,a cui è ni
micissima perchè quella é superba , m a la costi tuisce di principii che già
preesistono,la compo ne.In breve una è esplicativa ovvero resolutiva,l'al tra
generativa, almeno di nome e in apparenza, e l’nltima è costitutiva o
compositiva. E inoltre questa il contenuto di un'idea costituisce per modo che
si colleghi a quello di tutte l'altre,ond'essa è deside rosa d'universaleggiare
e procedere alla larga c01 tra la prima che singulareggia e procede per or dini
distinti, minuti , sottili; e, contro alla seconda che vuol generar le idee una
dall'altra, ella crede che vivano insieme ciascuna della vita dell'altre, e
risplendano insieme ciascuna dello splendore del l'altre. E la sua
argomentazione sta non già nello esplicare o nel generare, bensi nel bene
allogare; inguisachè un'idea è dimostrata quando posta in mezzo
alle altre con esse fa buon accordo. Onde il sillogismo, non già come
esplicativo o come e guagliativo, sibbene come dispositivo è l'argomento suo, e
non ha valore da solo ma insieme ai mol tissini altri per efficacia reciproca.
Ma tornando ora lá d'onde ci siamo mossi di ciamo che si può dir buono, grande,
giusto tutto ciò che partecipa alla grandezza, alla bontà, alla giustizia , e
che altresi pare si possa dire che la grandezza, la giustizia , la bontà c'è
perchè ci sono cose grandi,giuste,buone;esenza dir quale delle apparenze
risponda al vero , affermiamo che ricorre qua la questione de'generi,cioè se
son reali fuori noi o son concezioni astratte , e che l'argo mento di
sant'Anselino come quello che presuppone un intricatissimo viluppo di
ragionamenti da solo non può avere piena evidenza. Acri. Refs: Platone in Italia. Luigi Speranza,
"Grice ed Acri," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Addiego. (Turi). Filosofo. Grice: “I like Addiego; his obituary looks
fine, ‘amateeur mathematician and professional philosopher;’ of course he was a
priest and priests tend to get the nicest obituaries written by members of
their respective orders! Henry VIII once
said, “I shall follow Occam and not multiply religious orders beyond
necessity!’ Some say he went a bit too further! My St. John’s used to be a
Cistercian monastery!” “One good thing about Addiego is that instead of trying
to prove the immortality of the soul, or the existence of God – “These are
Strawsonian presuppositions,’ he would say – he rather played with Platonic
numbers and geometries! His mathematical explorations caught the attention of
the Pope who invited him to Rome, thus leaving his ‘paese,’ the lovely Bari – and
beyond!” -- Vincenzo maria d’addiego (n. Turi), filosofo italiano, nominato
Preposto Generale dei Padri Scolopi. Entra
giovanissimo nell'ordine degli scolopi.
Papa Leone XII lo chiama a Roma e con un Breve apostolico lo nomina
preposto generale dei padri scolopi.
Alla sua morte il Pio VIII gli rese l'estremo saluto nella casa professa
di S Pantaleo. Note D. Resta, Turi. La
perdita del loro Preposi to Generale P. Vincenzo Maria D'Addiego, rapito ai
vivi in pochi istanti nella notte dei 31 del p.sp.. marzo, ha immerso in
grandissima costernazione I Religiosi delle Scuole Pie. Nativo egli di Turi
nella Puglia, vesti giovinetto le divise del Calasanzio, e fatti con somma lode
isuoi studj nel Collegio Re a s le di Napoli , diretto dai religio si suddetti ivi
professa per lo spazio di quaranta e più anni prima le belle lettere, e poscia
la Filosofia e le Matematiche , nell'insegnamento d'entrambi accoppið sempre la
pietà, lo studio l'amorevolezza el'industria alla precisione de'metodi. Fu due
vol te Provinciale; e dopo lepassate luttuose vicende nominato Delegato Generale
pel riordinainento delle Scuole Pie nel regno delle due Sicilie, ebbe la
consolazione di veder coronate le sue fatiche da un esito felicissimo.
Chiamato Breve di Leone XII , di gloriosa ricordanza, nel1824 alGovernoHi
tiftta la sua Religione, la regole con dolcezza e prudenza , si mostrò padre
con tutti, e a tutti su specchio einodello di quelle rel giose virtù , che più
belle appariscono in chi tiene l'altrui direzione Vicino al termine del suo
ogorevole incarico, stavaeliane Tando alla tranquillità della vita privala,
dalla quale la sola Defienza aveva pniuto cayarlo; quando piacque all'Eterno di
premiare (come speriaino) con franquillità ben maggiore imeritiche si aveva
procacciati nella crislis na e religiosa carriera di anni 74. Domani sicelebrerà la Stazio De rrella Chiesa di S.
Giovanni in Laterano. TRATTENIMENTO PEL NEL LETTORE Che D. D. D. NECESSITA
DEGLI SU LA MIGLIORAMENTO MACCHINE pubblicamente SIGNORI I Giuseppe GIUSEPPE DE
GIOVANNI Studenti di COLLEGIO Filosofia e DELLE SCUOLE PIE SOTTO LA VINCENZO
D'ADDIEGO . FRANCIONI Rivera Cesare D. PASCALE REALE DIREZIONE DEL MARIA
MARTINO BATISTA SPERIMENTI DELLE sperimentano CONVITTORI Matematica FISICO
ZNALED COLLONES /1000 NAPOLI 1810. COL PERMESSO DEL GENERALE , NELLA STAMPERIA
MINISTRO FLAUTINA. DELLA POLIZIA نموده و S u m a t quisque , quod
suum credit , nihil mihi vindico , Sgravesand in Prafat, Mihi satis fuerit ,
suum cuique habuisse honorem , Dalham in Præfat. I chierici regolari poveri
della Madre di Dio delle scuole pie (in latino Ordo Clericorum Regularium
Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum) sono un istituto religioso maschile di
diritto pontificio: i membri di questo ordine, detti comunemente scolopi o
piaristi, pospongono al loro nome le sigleS.P. o Sch. P.[1] Lo
stemma dell'ordine reca il monogramma coronato di Maria e le lettere greche MP
e ΘY, abbreviazioni per μήτηρ θεοῦ (madre di dio) Le origini dell'ordine
risalgono alle scuole popolari gratuite (scuole pie) fondate da san Giuseppe
Calasanzio a Roma nel 1597. Il 25 marzo 1617Calasanzio e i suoi compagni
diedero inizio a una congregazione di religiosi per l'insegnamento: papa
Gregorio XV elevò la compagnia a ordine regolare con breve del 18 novembre
1621.[2] Gli scolopi si dedicano principalmente all'istruzione e
all'educazione cristiana di giovani e fanciulli.[2] Il fondatore dell'ordine,
Giuseppe Calasanzio, giunse a Roma nel 1592 e venne nominato Teologo e
precettore dei nipoti del cardinale Marco Antonio Colonna. Nel 1596 si
iscrisse alla Confraternita dei Santi Apostoli. Nel mese di maggio cominciò le
visite ai rioni di Roma, portando aiuto ai poveri. Un giorno, mentre passava in
una piazza, fu colpito in modo insolito dallo spettacolo di una turba di sudici
e malvestiti ragazzi che giocavano tra grida scomposte, atti sconci, litigi e
bestemmie. Di colpo comprese qual era la missione per la quale era giunto a
Roma dalla sua patria lontana: la scuola. Così, in un ambiente di ristrettezze
e povertà, sul finire dell'autunno dell'anno 1597, in due povere stanze attigue
alla sagrestia e messegli a disposizione dal parroco Don Brendani della chiesa
di Santa Dorotea in Trastevere, aprì "la prima scuola popolare gratuita in
Europa", come riconobbe anche Ludwig von Pastor, che nella sua monumentale
opera Storia dei Papi scrisse: «...ebbe origine la prima scuola popolare
gratuita d'Europa.» E lì, in tempi in cui l'istruzione era privilegio delle
classi più abbienti, sviluppò il suo progetto della scuola come strumento di
promozione umana e salvezza educativa per i ragazzi di strada (metodo
preventivo, attinto da san Filippo Neri). Nel 1602 fondò la "Congregazione
secolare delle Scuole Pie". Vincenzo
Maria d’Addiego. Addiego. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Addiego” – The Swimming-Pool
Library.
Adorno (Siracusa). Filosofo. Grice: “I like Adorno; he more than
anyobody else I know UNDERSTANDS the change of mind set from the Hellenic
embassy at Rome and the ‘gravitas’ of the Romans who found that relativistic
talk on justice ‘sophistical’! Scipione and the Roman aristocracy – just to be
different – enjoyed it and embraced it – and it turned out that, as antiquities
became more popular with the Romans, they recovered the many schools of
philosophy that have thrived in the provinces: Velia, Crotone, Girgenti.” Filosofo.
Laureato in Filosofia a Firenze e professore a Bari, Bologna e Firenze, è stato
presidente dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La
Colombaria", del Museo e istituto fiorentino di preistoria e dell'Accademia
delle Arti del Disegno. Ha diretto la pubblicazione del Corpus dei papiri
filosofici greci e latini. Ha studiato
il rapporto tra l'insegnamento socratico e la sofistica, estendendo i suoi
interessi a Platone, allo stoicismo e all'epicureismo; inoltre ha approfondito
aspetti della cultura greco-latina e cristiana tra il primo secolo a.C. e il
sesto secolo d.C., nonché del pensiero tardomedievale e umanistico. Utilizza il
metodo filologico per la descrizione degli autori del pensiero antico della
scuola ionica, di Socrate, di Platone, della prima Accademia, delle scuole
ellenistiche, di Epicuro, di Seneca, ecc.
La sua formazione culturale affonda le radici negli ambienti
intellettuali e politici fiorentini tra gli anni 1930 e 1945 e in particolare
risente dell'influenza crociana nell'interpretazione della filosofia come
riflessione teorica mai disgiunta dalla situazione storica reale. In nome di
questa concretezza antimetafisica e della necessità di una descrizione storica del
pensiero filosofico, aderisce al metodo marxista e alla filosofia del
linguaggio facendo sì che i testi classici vengano interpretati nel loro
autentico e concreto sottofondo politico e culturale. Opere: “I sofisti e Socrate”; “La filosofia
antica”; “Studi sul pensiero greco”; “Socrate”; “Dialettica e politica in
Platone”; “Platone”; “I sofisti e la sofistica nel 5°-4° sec. a.C.”; “Pensare
storicamente”. “Pitagora
di Samo. I suoi viaggi, la permanenza in Magna Grecia. Le suggestioni e la
polymathia di Pitagora”. Esigenze e problemi
in Magna Grecia e ad Velia dal VI secolo all'inizio del V l. Note Francesco
Adorno, su RAIEnciclopedia multimediale delle scienze filosofiche. l'11 dicembre
22 dicembre ). Adórno, Francesco,
in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. l'11 dicembre . Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche alla voce corrispondente.
Maria Serena Funghi , Hodoi dizēsios. Le vie della ricerca: studi in
onore di Francesco Adorno, Firenze, Olschki, Francesco Adorno, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Adorno, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Francesco Adorno, su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Filosofia Filosofo del XX secolo Filosofi italiani del XXI secolo Storici
della filosofia italiani Accademici italiani del XX secolo Accademici italiani Professore Siracusa Firenze Studenti dell'Università
degli Studi di Firenze Professori Bari Professori dell'Bologna Professori
dell'Università degli Studi di Firenze. E interessante
sottolineare che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste dell'Asia
Minore, emigra in Crotone, Italia (Magna Grecia) circa nel 5~0, dopo aver fatti
molti viaggi in Egitto e in Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le
piu tarde scuole pitagoriche hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo
alterne vicende simili a quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi
contrasti tra la classe dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate,
che favod il popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che
e amico di Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora
abbandona la Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato
là da una fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora,
testimoniano appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene
Laerzio, IX, l) sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di
Pitagora. Evidentemente il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda
che fosse, ormai acquisita. Erodoto riferendo dubitosamente la leggenda di
Zalmosside, un tracio vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di
Pitagora e che, poi, liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama
di mago e dove insegna l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma
che questo gli era stato narrato dai greci abitanti l'Ellesponto e il Ponto
(cfr. Erodoto, IV, 95). La vita e la figura di Pitagora le troviamo avvolte
nella leggenda dai tempi piu antichi. Con una certa sicurezza si può dire
ch'egli nacque a Samo, da Mnesarco, irù torno al 570 circa. Emigra da Samo
nella Magna Grecia nel 530 per un dissidio sorto con Policrate tiranno di Samo.
Muore sul principio del V secolo. Possono non essere leggendari i suoi molti
viaggi, in particolare quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta.
Risale probabilmente a Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si
svolge una vita pitagorica, cui partecipano sia gli uomini sia le donne. Fama
di dotto e di enciclopedico e fama di uomo superiore Pitagora dove, dunque,
avere già prima del suo ultimo viaggio che lo trasporta a Crotone. Per quanto
scarse, fondamentali sono le testimonianze di Eraclito, Senofane ed Erodoto,
che confermano l'esistenza reale di Pitagora. Pitagora a Crotone, fondatore di
una setta, di quella vita pitagorica di cui parla anche Platone (Repubblica,
600b), scienziato e sacerdote a un tempo, sacerdote e medico di anime, si perde
nella leggenda, o meglio nelle ricostruzioni dei tardi filosofi neo-platonici
e neo-pitagorici. “La Vita di Pitagora,” del neo-platonico Porfirio e la “Vita
pitagorica” del neo-platonico Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai
neo-pitagorici Apollonio di Tiana, Moderato di Gada e Nicomaco di Gerasa. Solo
che il neo-pitagorismo puo sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove
esigenze, da una lunga e continua tradizione che si scandisce in tempi diversi,
ogni volta tornando alla leggenda pitagorica e proiettando in essa ciò che rispondeva
a un certo tempo e a una certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo
di pitagorismi. Di tappa in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio
delle varie stratificazioni, si può risalire sino a Filolao, pitagorico di cui
possediamo alcuni frammenti. Risalire oltre è estremamente difficile e
pericoloso. Gli stessi scritti andati sotto il nome di Pitagora – i versi
d'oro, i tre saggi su educazione, politica, e fisica -- sono composti da
pitagorici che rivivano il sacro verbo del divino Pitagora. Lo stesso Aristotele,
cosi propenso ad interpretare posizioni diverse in funzione del proprio
pensiero, non cita mai direttamente Pitagora, ma parla sempre di coloro che
vengono detti PITAGOR-ici (Metaf., I, 5, 985b). – cf. Speranza non cita
direttamente Grice, ma parla sempre di coloro che vengono ditti GRICE-iani. D'altra
parte di quello che può essere stato il Pitagora storico - anche il nome ha
destato sospetto, ché ‘Pitagora’ significa l'annunciatore del Pizio, e la
leggenda vuole ch'egli fosse figlio di Apollo pizio o di Mercurio - non
sappiamo altro dalle fonti piu antiche se non ch'egli, figlio di Mnesarco,
nativo di Samo, si sarebbe occupato di una quantità di studi," (Lct&I
Lct't'ct -- Eraclito) - e che quindi sarebbe stato spinto da un largo desiderio
di sapere. Forse di qui la fama di Pit-agora, l’annunciatore del pizio, che per
primo usa il termine ‘filosofo’, desideroso, filos, appunto, di sapienza,
sofia, che sostenne l'immortalità dell'anima e forse la tras-migrazione delle anime,
che, giunto a Crotone, fonda una conventicola politico-religiosa.
Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti mathemata per indurre
che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che per Pitagora le cose sono
numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora la fisica pitagorica. Si
pensi, comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”, che c'è in
Eraclito (fr. 41), nel greco significa solo studio, apprendimento, e che nelle
fonti antiche, riferentisi a Pitagora, mai troviamo il termine “numero”
(&.pL&(.L6t;). Il termine “numero” lo si trova, invece, in alcuni
frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione riferisce che e Filolao a
divulgare la sapienza pitagorica, tradendo quello che è stato detto il
"silenzio pitagorico" cioè l'assunto che la setta doveva mantenere il
segreto sull’inziazione. Solo che altra tradizione riferisce anche che il
silenzio sarebbe stato rotto da Ippaso, pitagorico piu antico di Filolao, da Archippo,
da Liside e cosi via. E costruita nei circoli pitagorici la leggenda di
Pitagora uomo divino, già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni di
Pitagora; e ben si conosce l'austerità dei pitagorici del IV secolo, austerità che
ci è testimoniata da Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per il pitagorismo
suscita il desiderio di conoscere quale era stata la sua storia. Si scoprono
nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono saggi di pitagorici anteriori
a Filolao. La leggenda del silenzio pitagorico nasce cosi, e -cosi nasce
l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di aver violato il segreto pitagorico
(Maddalena, I pitagorici, Bari, p. 90, n. 32). Aristotele, poi, sostiene che al
tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici si dedicano allo
studio delle matematiche e lo fecero progredire. Essi, dunque, nutriti nello
studio delle matematiche, credeno che i principii delle matematiche sono i
principii delle cose (Meta/., l, 5, 985b, 23-26). Evidentemente qui Aristotele
si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa colomba
mecanica. Dunque il pitagorismo, fondato sulla scienza dei numeri e della geometria,
dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso l'influenza di
Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai primi immediati
suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può chiarire il complesso
problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici, ne pone altri. Altri pitagorici
però dicono che dieci sono i principii, ordinati in serie: limite/illimitato,
dispari/pari, uno/molteplice, destroy/sinistro, maschio/femmina,
in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo, luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo.
In modo simile pare che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo
da loro, sia ch'essi l'abbiano appreso da lui (Metaf., I, 5, 986a-986b).
ALCMEONE, medico della scuola di Crotone, vive circa al tempo in cui a Crotone
fu Pitagora. A Pitagora, dunque, si puo far risalire il motivo delle
opposizioni, delle cose vedute come determinantisi e quindi opponentisi. Forse
di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nella lonia, di Anassimandro e di
Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora conosce gli studi
(!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione geometrica della realtà
scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni entro la linea
dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura quantità,
incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè numerata, onde
dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve, come facile è
l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente tale e la tesi
dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita. Piu tardi, sia da
Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale tesi della realtà scandentesi
nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto per l'implicita opposizione
contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle altre unità (molti per sé).
In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei contrari, del pari e del
dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e, sottesa, una discussione serrata
nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente con Filolao che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx”
pitagorici divenneno il numero, “cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e
ancora il contorni di una cose, il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi
a delineare già nel pitagorismo due momenti storicamente determinabili. Uno
originario, del tempo di Pitagora, in cui il tipo di indagine è vicino a quello
di Anassimandro e di Anassimene. Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea
in un senso piu strettamente matematico e musicale, che però spiega come i suoi
sostenitori (Filolao ed ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi pitagorici,
recuperando certi “!L«&~!LCX't'CX” di Pitagora. Piu complicato ancora è
stabilire storicamente l'aspetto religioso-magico di Pitagora, l'effettiva
consistenza della setta d'iniziati che fonda a Crotone, i suoi rapporti da una
lato con gli sciamani e il leggendario Abari, sciamano venuto dal nord (Dodds, “I
greci e l'irrazionale”, Firenze, pp. 171 sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la
scuola medica di Crotone. Ancora durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora
e famoso per la sua multi-scienza, ma anche per il suo atteggiamento di uomo
attraverso cui parla il divino, per il suo atteggiamento magico-religioso. Si
dice che tale suo fascino suscita nella Ionia meraviglia e forse anche
diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici; test. e framm.,” I, Firenze, p.
4) ed si sostenne che Pitagora e un aristocratico che si trova in contrasto con
il mondo ionico e milesio, razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi
fenomeni (O. Gigon, “Der Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis
Parmenides”, Basilea, pp. 120 sgg.). È questa un'ipotesi plausibile, che da un
lato spiega il contrasto con Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato
da una corte lussuosa, e dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone,
governata aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre
in via ipotetica si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici
Pitagora benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi
il motivo dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese,
dal demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che
oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una
incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti
egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e
nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro,
e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne
nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc.,
1788, VIII, fr. 4). Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone
(“Carmide”, 156d-e) -abbia fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora,
un medico che, accanto alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso
incantatore, ch'era tipica pratica dei medici di Crotone, tra cui non va
dimenticato che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa, influenza i
primi pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e della
compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare, rifacendoci
in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza di
Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che il
vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o
“apeiron”, il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature,
essendo una specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”,
IV, 6, 213b 22-27). Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è
criticata in un frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio, IX, 19),
non del tutto aleatoria è l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del
primissimo pitagorismo. La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei
contrari per la forza della respirazione, di due moti contrari, emissione ed
immissione, costituenti l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia
pitagorica. La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal
soffio vitale (anima). L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò,
nell'uomo, il venir meno dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi
morte dei singoli, non del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo
muoe, perché non puo ricongiungere il
principio con la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone (fr. 4).
Qui, forse, anche il motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della
trasmigrazione, è terapeuticamente la cura del corpo che non può non essere
accompagnata dalla cura dell'anima. E come il corpo si cura ristabilendo
l'equilibrio, cosi l'anima si cura ristabilendo l'equilibrio, purgandola, purificandola
mediante un apprendimento, mediante un’incantagione. E se l’insegnamento
consiste nell'iniziazione alla visione dei contrari e del respirante· cosmo,
l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il sodalizio pitagorico a
Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in cui se da un lato il
maestro iniziava ai “mathemata” putificatori, dall'atro, mediante una dieta, ;a
prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di vita, tendeva alla cura
dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita all'unisono con la vita
del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari, certi aspetti del dionisismo
e de.i misteri cretesi, certi tabu, ricongiungendosi a tradizioni apollinee,
sirveno benissimo a costituire questa vita pitagorica che in altri tempi, per
altre esigenze assume ben diversi significati. Si venne cosi a costituire,
probabilmente fin dal tempo di Pitagora, tutto un complesso di norme
dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in cui, secondo il racconto di
Dicearco (Porfirio, Vita di P., 18-19), che fossero ammessi ad ascoltare il
verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”) e a far parte del
sodalizio uomini e donne, e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre distinzione
tra acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare -- e
matematici, coloro che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono
probabilmente i continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A
Pitagora, dunque, si possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei
dieci contrari (da cui poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e
musicale) e vivente del respiro (da cui la cosmologia); la concezione
dell'immortalità dell'anima e della presenza dell'anima là dove sono esseri (e
forse a questo allude il celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità
dell'anima e la trasmigrazione si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si
narra che una volta, passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora
impietosito pronunziasse, ‘Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un mio
amico: l'ho riconosciuto udendone la voce!’ (fr. 7); la cura medico-incantatrice
dell'anima, ove sono presenti tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia
meridionale, e tradizioni agrarie e mistiche che probabilmente proprio allora
si costituisce in quelle associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che
giuocano in senso politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia
pure in via ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo
tempo, e accolto con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO,
di Pitagora dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora
giunse a Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e
combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu
vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge
che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici
hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si
siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai
primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica
un'eccessiva chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che
l'aristocratico CILONE DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il
sodalizio pitagagorico, che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a
molti altri, la casa, ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che
sfuggirono alla morte Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra
fonda un circolo pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi
Simmia e Cebete, i famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone.
Archippo si rifugia a Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e
il pitagorico ARCHITA, amico di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due
versioni, l'una risalente a Dicearco (fr. 34 Wehrli), l'altra ad Aristosseno.
Secondo la versione di Dicearco, prima dell'esplosione violenta dei Ciloniani
che porta all'incendio della casa di Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da
Crotone. Pitagora si recato a Metapmto dove e morto ancor prima dell'incendio. Secondo
la versione di Aristosseno (fr. 18 Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito al
massacro, perché non era presente. Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per andare,
infine, a Metaponto dove e morto, probabilmente (cfr. Porfirio, Vita Pit., 56).
Data l'indefinitezza della figura storica di Pitagora e del suo insegnamento, eopportuno
delineare solo certe suggestioni la cui origine si possa effettivamente far
risalire a Pitagora, suggestioni che hanno dato luogo a motivi molteplici e a
interpretazioni che si son delineate su vie diverse (la via della legislazione,
dell'aritmetica, della mistica, del SIMBOLO, della medicina), e che hanno
profondamente inciso, per un verso o per l'altro, a seconda di certe esigenze o
di altre, sulla cultura italic meridionale, costituendo, nella circolazione
delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo italico. l primi pitagorici.
lppaso. Il medico Alcmeone. Si può dire che i primi pitagorici, quelli che
Aristotele avvicina ad ALCMEONE DI CRONOTE, sono quei pitagorici che
stabiliseno le dieci serie di opposti. Sono gli scolari di Pitagora o i
discepoli piu vicini al maestro i quali pensano si al numero come rapporto e
armonia, ma tra i componenti dell'armonia poneno oltre tutti gli opposti, anche
l'uno e il molteplice. Ma come potevano accordarsi l'uno e il molteplice? (E.
Paci, St. d. pensiero presocratico, Torino, p. 83). Proprio questo disaccordo o
opposizione, tra l'uno da un lato e il molteplice dall'altro, impegna la
discussione di Eraclito, mentre, per altro verso, imposta la polemica di
Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso* matematico della parola non troviamo
accenno nei primi pitagorici, se non piu tardi con Filolao. Nei primi pitagorici
si tratta-nell'esigenza di definire la quantità indefinite, il contorno di una
cose, di un disegno, costituito di punti. In altri termini, i pitagorici
scoprono, attraverso quanto, mediante Pitagora, e pervenuto dalla geometrizzazione
di Anassimandro, che “intendere” significa “misurare”, e “de-finire, appunto di-segnare.
E poiché il ‘di-segno’, lo schema, sotto questo aspetto la forma, la de-limitazione
è linea. Un piano e un insieme di line. Un solido e un insieme di piani. Una
linea e un insieme di punti. Si puo dire che ciò, senza di cui nulla è, e il
punto, e che, dunque, la qualificazione, l'intelligenza delle cose è dovuta al
punto stesso e alla variazioni spaziali dei punti, onde una figura e una schema,
la cosa, e pure, numeri. Ciò che rende conto della realtà stessa, delle cose, e
la misura. Ora, se l'unità è il *punto*, si capisce come l'unità sia unita
accanto ad altre unità. Di qui l'opposizione uno/molti, e, nella configurazione
della cosa-punti, le opposizioni pari/dispari, limitato/illimitato,
destroy/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento, diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo.
E poiché il dis-pari è in-divisibile, e cioè riferibile all'unità, il dispari e
anche bene e luce, mentre, all'opposto, poiché il pari è divisibile, riferibile
alla molteplicità, il pari r anche *male* e tenebre. Nella tavola pitagorica
delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti dispari e una figura-punti
pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra facessero i primi pitagorici,
con una squadra (gnomone), si de-terminano in modo che i lati della squadra
resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i lati resultano disuguali, e
quindi mentre i primi sono sempre rapportabili all'unità, i secondi sono
rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito di gnomoni dispari, il
rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*, il rettangolo molteplicità,
e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero quadrato e di un numeri
oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che assume significato la
famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto poi, i pitagorici giurano,
dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva dal fatto che la
rappresentazione geometrica della quaternaria è costituita da 10 punti messi in
forma di triangolo avente quattro punti per lato, la cui somma 1 + 2 + 3 + 4 è
uguale a 10. La quaternaria costitusce il numero perfetto, poiché racchiude in
sé i numeri delle TRE proporzioni musicali (proporzione ottava 2:l, proporzione
quinta 3:2, proporzione quarta 4:3), delle quattro specie di enti geometrici --
punto = l; linea = 2; superfice = 3; solido = 4) cioè di ogni cosa (cfr.
Mondolfo-Zeller, “La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico” Firenze, p.
676). E questa un'interpretazione piu tarda. Unità-molteplicità resta, dunque,
l'opposizione fondamentale. Compresa l'unità, la misura, l'armonia, rimane
incompresa la molteplicità, la dis-armonia: il calcolabile (razionale) e l'incalcolabile
(irrazionale, incommensurabile). Oppure gli uni rimaneno accanto agli uni e,
dunque, ai molti dell'indefinito spazio (quantità), che fu forse il respiro di
cui, sembra, parla Pitagora, o il vuoto cui accenna Aristotele. Solo che
l'indefinito, de-finendosi, è un insieme di punti, è il contorno di cose che
tuttavia si scandisce come pari e dispari, come infinito e finito, come
comprensibile e incomprensibile, il tutto vivente dell'infinito (respiro), e
quindi esso stesso, perché indefinito, incomprensibile, irrazionale. Di qui prende
le mosse la critica di Parmenide di Velia, che, senza dubbio, ha rapporti coi
primi pitagorici, anche se può essere leggendario ch'egli sia stato avviato
alla filosofia, come dice Diogene Laerzio, da Aminia, figlio di Diocete,
pitagorico (IX, 21). Ma di qui, crediamo, anche le due facce dello stesso
Pitagora, da un lato volto ai “mathémata”, alla geometrizzazione, alle
tecniche, e dall'altro al silenzio, alla via sacerdotale, come si dirà piu
tardi, che coglie, come in un'iniziazione, di là dall'opposizione del finito e
dell'infinito, del pari e del dispari, il divino respiro del tutto, la suprema
armonia. Da questo, comunque, discende anche il significato medico
dell'insegnamento di Pitagora e dei primi pitagorici, come particolarmente si
rileva in ALCMEONE DI CROTONE, che se anche si accosta a Pitagora avendo già
una sua certa formazione di origine milesia, poteva sopratutto attraverso il
motivo dei contrari e dell'equilibrio, lui medico, accettare parte dell'insegnamento
pitagorico. Come alla fisica ionica si ricollega probabilmente la primitiva
dualità pitagorica apeiron/péras, cosi da quella stessa fisica trae verosimilmente
Alcmeone alcune opposizioni: umido/asciutto, caldo/freddo, amaro/dolce, le cui
potenze constata nella pratica della medicina, e che introduce in questa
corrente pitagorica (M. Timpanaro-Cardini, pp. 119- 20). Dice cosi Alcmeone che
la salute si mantenne dall'equilibrio delle forze, dell'umido, del freddo, del
caldo, dell'amaro, del dolce e cosi via, mentre il dominio di un solo provoca
la malattia (fr. 4), onde l’uomo muoie perché non puo ricongiungere il
principio con la fine (fr. 2). E cosi non è un caso che medici e pitagorici
siano stati anche CALLIFONTE e DEMODENE DI CROTONE, e poi di Taranto, medico e
maestro di GINNASTICA. Ed è
probabilmente entro questa cerchia di interessi e di problemi, anche se
discussa n'è la datazione, che rientra l'anonimo trattatello cosmologico-medico
“Sul numero sette” (m:pl ~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse
piu antichi) descrivono il dominio del numero sette nell'universo, mentre i
capitoli ultimi (XII-LIII) discutono le malattie partendo dalla premessa che gli
animali e le piante che vivono sulla terra hanno una natura simile a quella del
cosmo, i piu piccoli come i piu grandi (c. VI). A parte Pitagora, maestro e
medico, nei primi pitagorici sembra abbiano prevalso, entro la visione totale di
Pitagora, interessi piu particolari e tecnici, o per la medicina, o per la
traduzione di una cosa in punto-figura, dai quali si venne poi formando quella che sarà la
cosmologia pitagorica (come può darsi sia il caso di Petrone d'Imera che ha una
visione del cosmo in forma triangolare; o di Cercope, o di Brotino, o di Xuto,
di cui in effetto non sappiamo quasi niente); o per la mnemotecnica (Parone) o
la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza segreta, gli acusmatici con a capo
Ippaso di Metaponto si ribellano contro i matematici, divenendo tali essi
stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori matematici del primo pitagorismo,
egli che divulga il dodecaedro, iniziando le ricerche sugl'irrazionali.o
incommensurabili, poi proseguite da Teodoro
e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di lui sono molto discordanti e in
discussione è anche il periodo storico in cui sarebbe vissuto. Ssecondo E.
Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi contemporaneo di Archita.
Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle testimonianze (tutte molto tarde,
aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche) sappiamo ch'egli trova
gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica (di qui
l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi dei
periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è stato
avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes," pp. 180 sgg.; M.
Timpanaro, cit., pp. 105 e 78-83). La circolazione delle idee Epicarmo, commediografo,
vissuto tra il 550 e il 460, nato forse a Cos, nell'Ionia, o a Megara Sicula,
vissuto fin da bambino nella Isola di SCILIA e particolarmente a SIRACUSA, alla
corte di Gelone e di Gerone, ove, sembra, conosceSenofane, ha, per i frammenti
che di lui ci sono rimasti, pochi purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è
chi in EPICARNO ha rintracciato motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del
primo pitagorismo (l'opposizione di pari e dispari: particolarmente
interessante il fatto che, parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le
unità e il cangiamento delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere
o togliere pietruzze - fr. 2, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari
influssi senofanei. Originario di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto
a Siracusa, fin da bambino, alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il
primo grande poeta della commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un
trecento frammenti e molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie
mette in parodia la mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse
naufrago), o si diletta di rappresentare figurine umane, tipizzandone i
caratteri (Il contadino, Il megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca
di delineare ora uno ora altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar
rintracdando una filosofia di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato,
sottolineare il significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi
motivi propri del primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per
rendersi conto di come circolasno le idee e di come tali idee dovessero far
presa ed essere discusse non in un certo ristretto mondo di intellettualima in
piu vasti strati, costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va
scordato, a questo proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente
uno dei primissimi. Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della
festa orgiastica) come la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri)
hanno origine da feste e riti collegati con il culto di Dioniso, e che il
dionisismo e all'inizio, religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle
p6leis, e che via via s'imposne con la caduta dell’aristocrazie. La commedia
sempre mantene il suo carattere popolare e, almeno piu tardi, popolare e
politico, tanto che in effetto non poté mantenersi che in Atene democratica,
ivi compreso il caso limite del conservatore Aristofane che, appunto,
liberamente pone sulla scena la sua polemica politica contro gli uomini nuovi e
i filosofi rivoluzionari. Probabilmente Epicarmo è il primo. Non senza
interesse è che Platone (“Teeteto”, 152 d. c.) dica che nel genere della
commedia Epicarmo è degno di stare a pari con Omero ad avere collegato e
ahicolato in commedia vera e propria quelli che originariamente sono canti fallici
e parodie popolari di miti distaccati gli uni dagli altri. Ora, proprio il
fatto che Epicarmo scrive commedie e che, dunque, si rivolge a un certo
pubblico, usando una certa tecnica di discorso, porta a pensare che quelli che
distaccati dai contesti (che non abbiamo piu) sembrano possibili "sistemi
" autonomi, dovevano essere in effetto motivi comprensibili a tutti,
rispondenti anche se presi in giro a esigenze e problemi diffusi in un piu largo
mondo. Sotto questo aspetto e per quel poco che di lui ci è rimasto, Epicarmo
non fu né pitagorico né eracliteo né senofaneo. In lu, pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei
stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una
riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di
fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà,
dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui
l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di
assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea
o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del
metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo
a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con
l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro
alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge
dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti
di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la
polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le
genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e
il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra
cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di
queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni,
l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche
stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia
nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei
culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e
sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di Pericle,
quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite dall'impero
persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e in Sicilia
i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non sembra,
dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e Pitagora ed
Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in sé, in
quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in
Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia
sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e
politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento
di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del
tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in
questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre
persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi
preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli
uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a
loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno,
ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni
azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la
fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni
azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si
difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov
aocpLa!LiiT(I)V), trova per essi, e le
combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv.
442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali
potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali
ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di
come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi problemi
che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è appunto
entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica contro i
pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via, dell'unica via
(636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide, cittadino di
Elea, colonia focese sulla costa della Campania, vissuto tra il 520 e il 440
(tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio del “Parmenide” (127b), narra che
una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e Zenone vennero ad Atene e si
incontrarono con Socrate, allora giovanissimo, mentre Parmenide era già molto
innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque anni. Calcolando sulle
indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate giovanissimo poteva avere
allora sui diciotto anni, e poiché sappiamo che Socrate nacque nel 470i69,
l'incontro tra Parmenide e Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per
cui Parmenide dovrebbe essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto
Platone non precisa esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto,
183e; Sofista, 2l7c). Secondo Diogene Lacrzio (lX, 1), invece, Parmenide
sarebbe nato nel 544/400. Probabilmente Diogene Laerzio desumeva la sua
cronologia da Apollodoro e dalla tradizione che s'era sforzata di far
coincidere le date di Parmenide con quelle di Eraclito e di Senofane (Diogene
L., IX, l, 20). Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra che si occupa di
politica e che ordina la propria patria, Velia, con ottime leggi (Plutarco,
.Adv. Colot., 32). Anche il poema di Parmenide va sotto il titolo “Intorno alla
Natura” (sembra si dividesse in due nette parti, la prima intitolata la vmta,
la seconda l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi. 41
mente indicative), abbia risentito e discusso il motivo senofaneo dell'uno
che tutto comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia Senofane ad aver
fatto tesoro dell'unica via di Parmenide. Può darsi che Parmenide discuta
Eraclito e polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu facilmente, con
l'opposizione unità-molteplicità, che implica nell'opposizione stessa di piu
esseri il non essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che proprio
dall'insegnamento e dalla problematica dei pitagorici -- si dice che Parmenide
fosse stato iniziato alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico -- sia sorto
in Parmenide il problema di quale sia la via che rende possibile il sapere e
comprensibile il reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a seconda
della presa di posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato su uno o
altro dei motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte, colorendo
quindi di una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide. Proprio
questo, tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che sviluppare o
portare a estreme conseguenze un certo "sistema," in effetto cerca,
nella molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità del sapere,
nella diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le strutture
che rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il proprio
punto di vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle posizioni.
Alcuni frammenti che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi, inseriti e citati
in testi piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide calato in un preciso
ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità del reale.
Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo pensierò
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi
imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le
opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza (fr. l, vv. 29-30). La molto
dibattuta questione e "ora devi imparare - cioè renderti conto - di come
siano possibili le opinioni dei mortali," sono due espressioni molto
precise che sembrano indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da
un dibattito su questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse,
e, dall'altro lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende
possibile il sapere, comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di
opinione (36~ac) si può parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc).
Sembra lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema
fosse piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che,
scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica
via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere
e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema,"
perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5). Abbiamo qui il
punto su cui Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca
senza di cui non è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la
verosimiglianza delle opinioni (cfr. fr. l, vv. 31-32) intorno alla natura.
Ora, può essere interessante sottolineare che il proemio (ne sono rimasti 32
versi e forse è intero) del poema, che a sua volta nettamente si divide in due
parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione, di cui non leggiamo
che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che rivelerebbe, com'è stato
detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una serie di luoghi, di
tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche popolare, che evocano
l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin dove vuole il mio cuore,
anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero [guidato sulla via molto
famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede il sapere (fr. l, vv.
1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac., IV, 5, 5), per Parmenide
sede della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si raccoglie
il molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta, fin dai
tempi piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità dell'apprendere,
perché sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in quest'attacco del
proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale capacità intellettiva
- naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla distinzione Notte e
Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del sole, ed ecco un altro
topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce, liberando il capo dai
veli (fr. l, vv. 9-10), lo ha condotto cioè fino al punto primo delle
tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle
contraddizioni oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la
porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la
chiudono l'architrave e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere,
grandi battenti di cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno
uso (fr. l, vv. 11-14). La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe
Parmenide, perché ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare),
onde, appunto, la dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via
(che~ invero lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la
giustizia, “dike” (fr. l, vv. 26-28), cioè il giusto pensare, che è via lontana
dall'uomo comune (tanto è vero che Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”).
Ma ora - prosegue la dea - devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema
della ben rotonda verità c le opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza.
Ma tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché
possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr.
l, vv. 28-32). L'accettare i dati dell'esperienza, di ciò che appare
all'immediatezza dei sensi, implica molteplicità e dispersione, contraddizione;
la definizione dell'indefinito implica il frantumarsi del reale in unità
opposte fra loro, onde accanto alle cose che sono bisogna porre un non essere.
Il pensiero, invece, coglie sé come discorso (logos), ma discorso che è unitd
(mente, nas) ove ogni singolo membro del discorso si articola all'altro in una
continuità che costituisce e presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa
realtà. Infatti a seconda di come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto
erranti membra, cosi la mente accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che
pensa - l'intima struttura delle membra - negli uomini, in tutti e in ognuno.
Ché il pensiero ~ ciò che prevale (fr. 16). E allora quella stessa realtà, che
nell'immediatezza sensibile e nella definizione puntuale appare molteplice e
disarticolata, onde si pongono esseri accanto a esseri e quindi essere accanto
a non essere, non appena si colga il pensiero, che è discorso e unità
comprensiva (mente), quella realtà molteplice è essa stessa unità, cioè
pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il perire, l'opposizione. Ma
guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono invece per opera della
mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione
con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte, seguendo un
certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4). Parmenide punta subito
sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia unità, o meglio comprensione
totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si concentra,
né una serie disgregata di punti accanto a punti, ma totalità. In Parmenide,
dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma
di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano
le cose cosi come appaiono all'occhio, ai sensi, le une accanto alle altre,
ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là
dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del
tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente: e
non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra (vuv) tutto insieme, nella sua
compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) (fr. 8, vv. 5-6) o soltanto nella
sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha corretto l'Untersteiner.
Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò ... quali sono le vie di
ricerca che sole son da pensare ": fr. 2, vv. 1-2) si risolvono in effetto
in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il
reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica sempre
dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL NULLA è NON
DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non puoi né
conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo ": fr. 2, vv. 7-8), e
se il pensare dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere
(fr. 3). Per la parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia:
solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è " (fr. 6); e poiché
il pensiero è n~s(vou<;), mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso,
cioè articolazione della molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il
pensare sono la stessa cosa, l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta
(finita), circolare. Per me," dice la dea, "è uguale da qualunque
punto cominci: poiché là tornerò di nuovo" (fr. 5). Pensare, dunque, e
dire non si può che l'essere, per cui la via che è e che non è possibile che
non sia (fr. 2, v. 3) è la via che, non essendo contraddittoria, è l'unica che
persuade, ed è perciò la via della Verità ("questa è la via della persuasione,
poiché segue la verità (fr. 2, v. 4); mentre l'altro modo di atteggiarsi di
fronte alla realtà, quello della sensibilità, è una via che non è e che è
necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr.
l, vv. 5-6). La conclusione cui la prima via conduce, e non può non condurre
("e, come era necessario, il nostro giuizio fu quindi di abbandonare una
delle vie, perché impensabile e innominabile, e infatti non è la strada della
verità, e che l'altra è ed è vera (fr. 8, vv. 16- 18), è che l'essere è e che
solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare l'essere, e non si può
non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito, cioè compiuto - ché a
lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se fosse due o piu di
due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa che distingue e
che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è, per cui
l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "), senza
origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o risolversi
nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando
i legami, ma lo tiene ben fermo": fr. 8, vv. 13-14). L'Essere in quanto
essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte
dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se
stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in
un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è (cfr. fr. 8, vv.
1-35). Totale unità, perfetto e quindi finito, indivisibile, immobile e
immutabile, identico a sé, tutto presente sempre e, dunque, atemporale e
aspaziale, tale l'Essere, quale necessariamente il pensiero può pensarlo senza
contraddizione; o, meglio, QUESTI I SEGNI, crljji4TCX (fr. 8, v. 2), non
contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a uno solo (a è), e quindi
persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE) l'Essere. L'Essere, dunque, non
si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero che, alla fine, Parmenide non può
non pensare l'Essere che come sfericità compatta. Esso è compiuto tutto
intorno, uguale alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni
parte con ugual forza giacché· è necessario che non sia in questo o in quel
punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni parte identico a se stesso,
urta in ugual maniera nei suoi confini (fr. 8, vv. 42-45, 49). Parmenide crede
cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria opposizione
unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso egli dice.
Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente sanno, uomini
a due teste ... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è lo stesso e
non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può esser percorsa
in due sensi (fr. 6, vv. 3-5, 7-9). Si può in questi versi scorgere una critica
ai primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito.
Risolta, dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il
perire, quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano
contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta
nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri, cose
che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose. Cosi
facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose,
mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette
le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che
puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto,
convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di
luogo e mutare lo splendeQte colore (fr. 8, vv. 38-41). E qui va sottolineato
che Parmenide non dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica
cosa. Ma dice essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la
contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel
contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio
·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali
nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo
è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni
assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce,
e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso, ma non
uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza
luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione
Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da
seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè,
bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio
lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le
cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione,
illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà
definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre
l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per
cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare,
il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro
valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza
debba configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il
tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). Si chiarifica cosf il motivo della
Notte e del Giorno del proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte
dedicata all'Opinione. L'unica via, che è quella del pensiero e sulla quale
conducono le vergini Eliadi, porta oltre le distinzioni originarie di Giorno e
di Notte (oltre quelle distinzioni che son servite all'uomo per definire e
intendere il reale) annullando ogni distinzione nell'unicità dell'essere che è.
Solo ora, solo quando si sia consapevoli di ciò, possono sussistere i due
mondi, il mondo della verità e quello dell'opinione, come due modi diversi di
cogliere l'unica realtà: sentita e tradotta in parole da un lato (opinione), e,
dall'altro lato, còlta col pensiero e tradotta in una sola parola, la parola
per eccellenza, è. Quando si sia consapevoli di questo, si coglie il valore
ipotetico delle opinioni, che possono determinare e ritagliare una certa realtà
verosimile. Di qui - crediamo - tra le opinioni, si pone l'opinione di
Parmenide su come sia costituito il cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che
oscuri accenni in Aezio. Quella di Parmenide sembra fosse una visione dell'universo
concepito come un complesso di cerchi concentrici, costituenti tutti una sola
circolarità, che, forse, era l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della
Sfera, e, sotto altro aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo
cosi risposto Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per
non contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza
il tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto,
l'unico piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e
delle parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa.
Sarà questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva
giungere alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie,
che, in altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le
antilogie dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni
eleatiche dei Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si
precisano chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e
difensore di Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è
e in cui tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio
del “Parmenide” Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide
e Zenone vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto
bianco, ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone
si avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo
(Parmenide, 127b). Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un
saggio che scrive per difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli
compose per amor di polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto,
per cui, Platone fa dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se
fosse o no il caso di darlo alla luce (128a). Platone, forse, per dare avvio alla
sua discussione, probabil-mente nei confronti dell'eleatismo megarico, si
riallaccia di proposito a Zenone e a Parmenide mettendoli in rapporto con
Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate di cui poi i megarici furono
discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la notizia di Zenone ad Atene
insieme a Parmenide, in un'epoca, il 455-450, in cui sembra difficile, per
ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene, o avesse circa
sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone sia stato
effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa, e che sia nato tra il 500 e
il 490. Discepolo di Parmenide, Zenone nacque ad Elea nel 500/490. ·Platone
(Parmenide, 127b) narra che nel 452 circa Zenone, venuto con Parmenide ad
Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le fonti lo presentano come uomo
prestante e altamente intelligente, che prese attiva parte alla vita politica
della sua città, dove sarebbe eroicamente morto combattendo il tiranno Ncarco,
quando, preso da Nearco e torturato, per non parlare si spezza la lingua con i
denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra che la struttura originaria del
saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse antinomica, e che [Altro punto
sospetto è che Platone dice che il saggio che Zenone scrive e stato fatto circolare
senza il permesso dell'autore. Potrebbe questo essere indice che Platone, in
effetto, non espone la tesi vera di Zenone, anche se, nella finzione del
dialogo, Zenone stesso approvi, con qualche riserva, il sunto che dei punti
salienti dà Socrate. Platone, nel Parmenide tende a dimostrare l'impossibilità
di pensare l'essere di Parmenide che porta dietro di sé l'altrettanta
impossibilità di pensare i molti, onde, postici sul piano di Parmenide, risulta
impossibile il discorso, un qual- sivoglia giudizio. Non interessa ora la
soluzione di Platone e il suo tentativo di poter pensare l'Essere come
dialetticità corrispondente alla dialetticità del pensiero, per cui si rendeva
possibile porre un tutto oggettivo. come ordine dialettico e misura su cui
scandire, attraverso la conoscenza di sé, lo stesso ordine politico. È tuttavia
importante sottolineare che nei confronti dell'uno di Parmenide e delle opere
di Zenone (che accettando l'ipotesi di Parmenide e anche accettando che l'uno
di Parmenide si può, all'estremo, ritenere assurdo, vuoi dimostrare che
altrettanto assurdo è porre unità accanto a unità, come i pitagorici, quando si
ritenga che queste siano realtà per sé e non puri nomi), la polemica di Platone
chiarifica quella che storicamente dev'essere stata l'aporia fondamentale in cui
doveva trovarsi il lettore del saggio di Zenone. In verità - abbietta Zenone
nel Parmenide di Platone - questo mio saggio vuol essere in certo modo una
difesa della dottrina di Parmenidc contro quelli che cercano di metterla in
ridicolo sostenendo che la tesi dell'esistenza dell'uno va incontro a molte
conseguenze ridiwlc c contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio saggio
quelli che asseriscono l'esistenza dei molti c render loro la pariglia e anche
di piu, cercando di mostrare che la loro ipotesi dell'esistenza dei. molti va
incontro a conseguenze ancor piu ridicole di quella dell'uno se si vuole andare
in fondo alla ricerca (l28c-d). In effetto qui Platone corregge la sua prima
affermazione che Zenone e Parmenide avessero detto la stessa cosa ("dite
su per giu la cosa medesima ": 128b}, e per i suoi intenti lascia cadere
la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale, perché, in genere, è con
questi abili accenni che Platone distingue quello che a lui importa da quello
che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla verità storica. Zenone,
quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che sostiene il molteplice e il
moto. Platone che vede in Zenone il difensore dell"Uno di Parmenide, lo
chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro, 26ltl). ] dunque, sarebbe
parmenideo alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto di Parmenide porti
alla finale contraddizione dell'impensabilità - proprio sulla via del pensiero
- dell'Uno stesso. Solo che la facile critica dell'annullarsi dell'Uno deve
tener presente che, ammessa la esistenza dei molti, di punti accanto a punti,
come enti reali, si cade nelle stesse contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone
non dice mai cosa sia l'Essere. Zenone nega che posti i molti come esistenti,
sul piano logico i molti esistano, confermando cosi la tesi parmenidea che i
molti in quanto tali, in quanto definizioni, non sono che puri nomi. Ammessa,
dunque, pitagoricamente, l'esistenza di punti reali costituenti le cose,
bisogna necessariamente ammettere che ciascuna di tali unità in quanto punto ha
una grandezza, anche se minima, onde in ogni punto vi sono infiniti punti e
quindi ogni punto-unità sarà infinitamente grande; se il punto poi non ha
gradezza, poiché le cose si costituiscono come aventi grandezza per l'unione
dei punti, come sarà mai possibile che punti senza grandezza diano luogo a
grandezze? n punto dunque, se non ha grandezza, non è (fr. l, 2). Ancora: ammesse
piu cose costituite di punti, esse saranno ad un tempo in numero finito e
infi.t;lito, il che è contraddittorio: saranno in numero finito, perché non
possono essere piu o meno di quante sono; infinito perché tra l'una e l'altra
ve ne sarà un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra ancora all'infinito
(fr. 3). Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé, bisogna
ammettere o che sono continue, onde la molteplicità si annulla nella
continuità, che, essendo divisibile all'infinito, è costituita di infiniti
punti a loro volta divisibili all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni
cosa, limitando l'altra, occupa uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno
spazio: ma allora ogni spazio in quanto luogo implica un altro luogo e cosi
all'infinito, sino all'unico luogo cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele,
Fisica, 209a-210b; Simplicio, Fisica, 140, 34, 562, 1). Entro questa linea
rientra anche il cosiddetto argomento del grano di miglio. Un grano o la
decimillesima parte di un grano di miglio fa rumore: ora se fra un grano di
miglio e un medimmo c'è proporzione, vi sarà proporzione anche tra i suoni, per
cui se un medimmo di miglio fa rumore lo farà anche un solo grano (Aristotele,
Fisica, 250a~ 19; Simplicio, Fisica, 1108, 18), ma ciò non avviene.
Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei termini dei primi. Se l'uno, o
la totalità, è impensabile irrelativamente, altrettanto impensabili sono i
molti qualora si pongano quali realtà accanto a realtà. Nessuna parte del
molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà senza una relazione con
un'altra" (fr. 1). Poiché i molti sono impensaolli, se non. determinati
come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL CONTINUO si può rappresentare
come retta all'infinito, fino al nulla, i molti, se posti come realtà per sé,
non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile se non in quanto estensione
ed estensione che si qualifica) altrettanto inconcepibile è il moto, o meglio
la possibilità dello spostamento e del passaggio da punto a punto, ché, dato,
ad esempio, un segmento AB, tra A e B posta una metà A', necessariamente tra A
e A', vi sarà una metà A" e cosi vita all'infinito – eis apeiron -- (argomento
della dicotomia, cioè della divisione in due: Aristotele, Fisica, 233a, 239b, 263a;
Simplido, Fisica, 1013; 4). Evidentemente non vi è allora passaggio tra un
ipotetico primo punto A e il punto della linea accanto ad A, onde si può dire
che Achille piè veloce" (in A) non raggiungerà mai la tartarugà che sia un
passo avanti (in A"), ché, in effetto, logicamente, né l'uno né l'altra si
muovono (argomento dell'Achille: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio 1013,
31), tanto piu che la linea, essendo costituita d'infiniti punti, è divisibile
all'infinito, e quindi, all'infinito, si annulla. Analogamente LA FRECCIA non
raggiungerà mai il bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo sempre
ferma al punto di partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele, Fisica,
239b; Simplicio, Fisica, 1015, 19; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio, Fisica,
199, 4). Infine, dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone avrebbe
dimostrato la contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o la
definizione dei dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo
l'argomento detto dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che
va ad una certa velocità, se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà,
ad esempio, a dieci chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un
altro punto mobile che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello
stesso mobile va a venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice
Aristotele - è quello delle due serie di masse uguali che si muovono in senso
contrario nello stadio, lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla
fine dello stadio, le altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è,
secondo Zenone, che la metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr.
anche Simplicio, Fisica, 1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con
cui, accettata la premessa che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di
deduzione in deduzione, si dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi,
non si possa se non negare il moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio,
VIII, 57, nel “Sofista” andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre
della DIALETTICA, come arte del confutare), ci sono rimasti attraverso le
discussioni e le critiche di Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti
fossero proprii del saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso
Platone (che fa intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della
molteplicità), ne tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere
conseguenza di quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità
della fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO
SPAZIALE, portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale
su cui si determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di
movimento divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili
o contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i
punti- cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri
interi delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri
irrazionali, sia contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita,
della mutevolezza, alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri
nomi quella stessa vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone,
tenendo presenti certe posizioni a lui contemporanee o immediatamente
posteriori - lasciando da parte le implicazioni che vi hanno veduto certi
storici, riferendo le tesi di Zenone ad alcune delle concezioni della
matematica e della fisica moderna, - sembrano potersi indicare nei seguenti
punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in termini matematici; 2. conseguente
impossibilità di pensare, e quindi di definire, sia l'Essere come totalità, sia
la molteplicità; 3. consapevolezza che ogni ricostruzione matematica è valida,
in quanto ipotetica e che altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica.
Sul piano storico si determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale
aspetto della problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito
sul continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come
determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo
stesso, cioè nell'infinita unità (Me- lisso); o si è risolto l'uno su di un
piano puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie,
né il pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che
nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi
fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del
continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito,
ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni
punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti
punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno
all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie
di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè
un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito).
Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare
l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale
stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella
consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della
Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i
termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia).
Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici (111) del poema di
Empedocle di Girgenti, che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò
che pare potersi ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita
di quattro elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era
donatrice di vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di
vita per i mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico
detto nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli
elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot),
l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la
realtà tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina
la forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte
aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno
sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella
lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad
Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie
sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap-
porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 54-55) e con Parmenide,
durante un suo viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G.,
p. 477). Fu di parte democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle
abbia scritto piu opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i
titoli (Politica, Della med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura
(ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti, del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi
frammenti. 62 sorge la vita vera e propria, che è amore e contesa
a un témpo, unità e distinzione, finché per il predominiò di Odio le quattro
radici si di- stinguono totalmente restando masse accanto a masse. In effetto
il ciclo cosmico è sempre tutto insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in
questo scorrere e trapassare dall'unità dello sfero alla distinzione delle
radici, dall'uno all'altro polo, ove l'essenza delle radici resta sem- pre
quella che è, mutandosi le cose per la tensione delle due forze op- poste: le
due forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai
l'infinito tempo di questa coppia sarà vuoto (fr. 16). D'altra parte la massa
dell'acqua, o quella del fuoco, o della terra, o dell'aria, è costituita,
ciascuna, d'infinite particelle d'acqua, di terra, di fuoco, di aria, onde nel
momento d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme, mentre nel momento di Odio
si distinguono separandosi e tutte le particelle di acqua si unificano
nell'acqua, quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella terra, quelle di
aria nell'aria. Aristotele poteva cos( sostenere che Empedocle cadeva in
contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando, infatti,
per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora il fuoco
si .raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de- menti;
quando, al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno, è necessario
che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro (Metaf., l, 4,
985a m). A parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta proprio di Empe-
docle è che la realtà è costituita di infinite particelle di acqua, di terra,
di fuoco, di aria, che, distinte per qualità, sono, come sfondo originario su
cui tutto si ritaglia, una unità indistinta, ove le distinzioni avvengono per
la tensione delle due forze. E allora, per Empedocle, la vita, l'esistenza, è
appunto il momento intermedio, che non è né pieno amore né pieno odio, ma,
appunto, la tensione i cui momenti estremi sono come termini ideali di un
ciclo, che in quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione stessa. I
dati dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è, è
riducibile a quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi
(aria e fuoco). Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che
è i quattro elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità
ongmaria e di una distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo,
oscilla il costituirsi di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e
di repulsione, cui si giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che
ciascuno vive quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo
frammento. Angusti poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo
una piccola parte di una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono
rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a
caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto.
Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate
dalla loro mente. Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto
la mente umana possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a
un tempo, in quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un
lato non può cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero
(fr. 27-28) d'amore, ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è
piu (a lui, all'essere, è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli
occhi e afferrarlo con le mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi
al cuore dell'uomo (fr. 193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto,
proprio perché la realtà quale appare all'uomv è unione e distinzione degli
elementi, che i due termini estremi sona unità totale e fusione delle radici e
distinzione delle quattro radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e
l'altra (tu dunque saprai solo questo cui poté assurgere la mente umana -- fr.
2), fondata sull'esperienza di ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è
dato sentire, vedere, toccare, vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di
forze vitali nella loro opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia,
supplico, di ciò che è giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno.
Tu, dunque, uomo, con ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu
fidando all'occhio che all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara
fede del gusto, e a nessuna delle altre membra, per quante è una via di
conoscenza, nega fede, ma conosci ogni cosa in quanto è palese (fr. 4). E
poiché, appunto, la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è
la via dell'esperienza diretta (fr. 193), è questa che pone l'uomo di fronte
alla realtà costituita di terra, di fuoco, di acqua, di aria, e a questa
Empedocle richiama. Su via! Vedi un po' se nelle testimonianze che ti ho dato
ho commesso qualche errore, parlando della forma ((Lopq~~) degli elementi.
Guarda, dunque, il bianco sole il cui calore ovunque si spande, e tutte le
costellazioni infuse di vaporosa chiarezza, e la pioggia che reca freddo e
nuvole ovunque, e la terra donde scaturisce tutto ciò che è saldo e compatto
(fr. 21). Non solo, dunque, si dimostra l'esistenza del fuoco, dell'acqua e
della terra per via puramente sperimentale, ma anche l'esistenza dell'aria,
cioè dello spazio come pienezza corporea, escludente il vuoto che è non essere
inconcepibile, mediante la prova famosa della clessidra. Empedocle descrivendo
il processo respiratorio, dimostra l'esistenza dell'aria come corpo, immergendo
una clessidra nell'acqua. Quando una fanciulla, giuocando con una clessidra di
lucente rame, ne copre il foro con la sua mano ben modellata, e la immerge
nella cedevole argentea pozza, il volume dell'aria che preme dall'interno
dell'orifizio impedisce all'acqua di entrare, finché la fanciulla non libera la
corrente d'aria compressa. Allora, non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra
in quantità uguale (fr. 100, 8-21). E, cosi, sperimentabili sono le due forze
(amore e odio) dalla cui tensione nascono e muoiono tutte le cose, senza che
gli elementi subi- scano variazione. E manifesta è la lotta tra Amore e Odio anche
nell'insieme del corpo umano. Quando sotto l'azione di Amore, gli elementi si
riuniscono in una sola massa, allora i corpi fioriscono di crescente vita;
quando sono disgiunti dalla funesta Discordia, allora le membra errano
separatamente verso le prode estreme della vita (fr. 20). L'uomo, dunque, in
quanto momento intermedio dell'oscillazione pendolare del tutto, trovandosi
come al momento culminante della tensione su cui la realtà tutta si scandisce,
avendo in sé gli elementi e le forze su cui si struttura la realtà, può
conoscere la realtà stessa in quanto le sue strutture coincidono con le stesse
strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione di Empedocle che il
simile conosce il simile, che fra le parti vi è un'attrazione simpatetica. Si pone
cosi in maniera consapevole il problema del conoscere, possibile in quanto le
strutture della realtà coincidono con le strutture del soggetto, in una
identificazione delle parti del soggetto alle parti dell'oggetto (con la terra
vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con l'etere l'etere divino, e col
fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore l'Amore e con la funesta Discordia la
Discordia (fr. 109), ch'entrano in comunicazione mediante effluvi emananti
dalle cose e che penetrano nei sensi per mezzo di pori. t evidente in Empedocle
una forte preoccupazione metodologica, per spiegare il ritmo della realtà
tutta, una e, nell'unità, molteplice. Fondandosi sui dati di un'esperienza
totale, si rende verosimile l'ipotesi fisica del tutto i cui termini opposti, idealmente
dati (la fusione di tutti gli elementi, la separazione degli elementi accanto
agli elementi), diano conto di quella che è in atto la presenza della realtà. Ipoteticamente
son cosi concepibili i due estremi dell'unica oscillazione e. la formazione e
la disgiunzione della situazione attuale. Dalla fusione del tutto, poi, via
via, si costituirono le cose: dapprima, ad esempio, sulla terra spuntarono
teste senza colli, ed erravano le braccia nude prive di spalle, vagavano occhi
soli sprovvisti di fronti (fr. 57). Molti esseri nacquero con doppie facce e
petti, e buoi con facce d'uomini, o sorsero busti umani con teste bovine, e
forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose (fr. 61). Per
giungere infine, attraverso il punto intermedio della parziale unificazione e
disgiunzione, alla totale disgiunzione degli elementi. Una, dunque, la realtà,
e molteplice a un tempo. Immobile nell'essere dei suoi elementi, mobile nello
svariare dellè congiunzioni e disgiunzioni, entro il ritmo delle due forze
opposte che governa il tutto, il tutto che sempre è, pur nelle sue facce
molteplici. Si capisce cosi come anche Empedocle {leghi ogni antropomorfismo,
come egli canti l'essere uno vitalità, “cpp-l)v”, ineffabile, che per tutto il
mondo si slancia con veloci pensieri (fr. 134), come l'appello alla natura sia-
un appello polemico, di contro a certe credenze popolari, un appello
all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita
che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo.
Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in
tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste
cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente. Tu
dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa
(fr. 2). L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli distoglie l'amico
Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò che appare
nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini volgari, per
richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se nella trama
serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se con spirito
puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno presenti e
molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono nell'uomo, ciascuna
secondo la sua natura (fr. 110). Attraverso l'indagine della natura, di
esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse,
l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola
in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica
con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi
vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati
venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i
coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la
pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda
acqua che nutre l'albero e le messi future (fr. 111). Di qui, probabilmente, e
da altri testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle
mago e taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora,
che non a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle
fa sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento
di mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios., 515c); che arresta la pioggia,
che salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo moltiplicare
gli esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a sostegno di
proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e certi testi di
Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando Empedocle nel suo tempo
(nacque nel 492 circa e muore nel 432), nella sua città, Girgenti, in un'epoca
di grande attività economica e politica, in una Sicilia in cui sappiamo che
circolano le idee di Senofane, di Pitagora, della scuola medica di Crotone, di
Parmenide, di Eraclito, la figura e la personalità di Empedocle non hanno nulla
di straordinario. Egli e uno scienziato, che, atraverso una serie di
esperienze, formula, tenendo presenti i risultati di Parmenide, di Eraclito e
la polemica di Senofane, l'ipotesi del tutto che costituito di quattro
elementi, fusi e confusi in una sola unità come sostrato, si distinguono ed.
esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il metodo di Parmenide e uno
metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un metodo empuiStlco e
razionale, che imposta, a sua volta, il problema del rapporto fra natura e uomo
che; parte della natura, può, in quanto sappia il ritmo della natura stessa e
la sua costituzione, modificare sé e la natura. Sotto questo aspetto la fisica
di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale, tesa, attraverso l'indicazione del
metodo e delle vie dd conoscere, a purificare gli altri, la maggioranza dei
cittadini ignoranti, legati a tradizioni, a riti, a concezioni che Empedocle,
conscio di una piu ardita cultura, sente come estremamente invecchiati e falsi.
Cosi, leggendo i pochi frammenti che sono rimasti dell'altro suo carme, “Le
purificazioni” {xot&otp!Lo(), si ha la consapevolezza precisa di trovarci
di fronte a un uomo vissuto in un certo ambiente, che ha la coscienza di
respirare una nuova atmosfera culturale, effettivamente civile, e in questo
senso purificatoria, di avere. contribuito a fare avanzare la scienza, che non
può essere solo patrimonio di alcuni, ma che diviene davvero operante in quanto
si divulghi, formi una diversa coscienza critica, un diverso equilibrio e
rapporto umano che diviene, dunque, azione politica, naturalmente entro i
termini di una certa situazione storica. In quanto rivolta ai piu, ai
concittadini di Agrigento popolosa e arretrata, la sua lezione può apparire
come profetica. Ma come storicamente, per non equivocare, non diremmo Empedocle
taumaturgo, cosi neppure lo diremmo profeta o mistico. Il suo discorso ai piu,
il carme pun"'ficatorio, è, in effetto, molto chiaro nella sua genesi,
quando lo si riconduce a quello che probabilmente ha voluto essere. Il discorso
di un saggio che rivolgendosi a un pubblico, a una massa, senza dubbio
arretrata, usa un linguaggio comprensivo per quel pubblico, al quale egli
appare, appunto perché sapiente, come un dio e un sacerdote di una nuova
religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi essere incantatrice, indicando
ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella necessaria discordia, la strada
dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque parola medica e politica. Amici,
che abitate la grande città che declina al biondo Acragante, sul sommo della
cittadella, uomini usi a fare buone opere, fidi porti di ospiti, che non conoscono
la perfidia, a voi salute. Io al vostro cospetto non piu· mortale, ma un dio,
mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono degno, coro- nato di bende e di
fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi seguono in grandissimo numero,
chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli uni vogliono oracoli, altri
di malattie innumeri domandano la parola che sana, lungamente da aspre doglie
trafitti (fr. 112). La via che guida a salute, la parola che sana. Aristotele
dice (secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” perduto) che come Zenone
di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA RETORICA, l'arte del dire.
E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un medico, e discepolo di Empedocle,
e che Empedocle scrive anche un trattato di medicina, e che ha contatti con i
medici di Crotone, con i medici pitagorici e con i medici agrigentini Pausania
e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza di queste notizie, ma sono
sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme Purificatorio
(ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una specie di
discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea dei
discorsi medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di
Crotone (anche se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a
coincidere, data una precisa concezione del tutto, con il movimento politico
delle democrazie sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle.
Ora, se in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere
sull'uomo come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere
con .certe visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su
quelle, tende a purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di
torbido e d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo
cosmico, ove nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano
mitico si puo sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il
volgo dall'uso dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti.
Empedocle, cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è
divino, onde compito dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si
scandisce il tutto, tendendo all'equilibrio delle forze, di Amore e di
Discordia, senza far prevalere Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe
l'uomo stesso, per cui, anche se l'aspirazione è all'unità totale e divina,
tuttavia l'uomo, proprio perché uomo è anche discordia e lotta, senza di cui
neppure si renderebbe conto di Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza
di cui non istituirebbe quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto,
onde Empedocle sarà cantato da LUCREZIO (1, 710 sgg.). Cosi se nel carme “Sulla
Natura” leggiamo: poiché Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo
onore insorse, compiutosi il tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in
alterna vicenda per ampio giuramento (fr. 30); nel Carme purificatorio éos1
suona il frammento 115. V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dèi,
suggellato di larghi piuramenti: se mai alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte
una lunga vita, macchi le sue membra di sangue, o seguendo la Discordia empio
spergiuri, vada errando tre volte diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel
corso del tempo sotto tutte le forme mortali, permutando i penosi pensieri
della vita. Perché la forza dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida
terra, la terra nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici
dell'aria, l'uno li riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi
anch'io sono, fuggiasco dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle
Discordia. Ma l'uomo è anche amore, amore che si pone, mediante la discordia,
come termine di realizzazione, onde se da un. lato a questo porta l'indagine
sperimentale e metodologica, dall'altro a questo è possibile aniare i
piu·mediante certe tecniche di discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un
tempo medicina e politica. Gran parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso
guaritore e resuscitatore di morti, uomo divino e profeta, derivano da certi
passi del Carme Purificatorio, che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di
Empedocle unà specie di santone, accomunandolo non senza perché àlla leggenda
di Pitagora, e, per altro verso, a Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena
della verità divina rivelatasi attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche
la morte di Empedocle è rimasta avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella
secondo cui Empedocle, per disfarsi dell’estranea tunica di carne (fr. 126) che
lo riveste, per tornare (ed è evidente, in Plutarco e in Porfirio da cui è
tratto il frammento, l'interpretazione orfico-pitagorica) alla patria celeste,
si sarebbe gettato nel cratere dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei
calzari di bronzo del filosofo (cfr. Strabone, VI, 274; Diogene Laerzio, VIII,
70; Suda, s.v.). Ma altrettanto sintomatica è l'altra leggenda secondo cui Empedocle,
dopo aver resuscitato una donna, durante la notte, dopo un banchetto, chiamato
da una gran voce, in mezzo a un immane bagliore, sarebbe scomparso in
un'apoteosi, tornando, egli divino, tra i numi del cielo (cfr. Eraclide
Pontico, in Diogene Laerzio, VIII, 67 sgg.). Qui, d'altra parte, s'innesta LA
RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica la portata. Non preoccupiamoci - egli dice
- dell'Essere e del Non-essere, tanto l'uno e l'altro sono la stessa cosa. Che
ci sia o non ci sia quel mondo è lo stesso, perché non è conoscibile (Del non
ente o della natura). Se ci crediamo, accettiamolo. Ma esso non incide affatto
su questo nostro mondo umano, che è il mondo dell'illusione e dell'opinione su
cui si agisce facendolo e ordinandolo mediante la parola e l'arte della parola
(RETORICA). L'Elogio di Elena di Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno
scherzo, ma è senza dubbio uno scherzo assai serio, che proprio, in quanto
esercitazione, mette chiaramente a nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA,
indipendentemente (come Protagora) da ogni preoccupazione d'ordine
logico-gnoseologico. La parola domina tutta quanta la vita affettiva. Con la
parola discipliniamo gli affetti. La retorica, dunque, è fondamentale nella
formazione degli uomini, meglio nella istituzione della vita sociale. È appunto
giuocando passione con passione, sentimento con sentimento, che possiamo
costruire una società umana. E poiché la passione di una folla non è la passione
di un individuo e quella di uno non è la passione di un altro, di qui
l'importanza del sapere usare le parole, volta a volta, l'importanza delle
tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio del come accentuare parole,
o porre parole accanto a parole. Cosi non .1 caso Gorgia nell'Elogio di Elena vede
subito la relazione che corre tra la retorica e la poesia. Le parole della
poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e particolari esperienze. L'anima
attraverso i discorsi uditi si modifica. Il discorso cosi è visto come
espressione da una parte e dall'altra come capacità di modificare il modo dei
rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e opinione. E sentimento e
opinione sono parole. E la parola che trasforma e costruisce il mondo umano,
istituisce volta a volta quelle che possono essere le virtu, indi- [Figlio di
Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a Leontini, in Sicilia,
probabilmente tra il 485 c il 480. Sembra sia stato discepolo di Empedocle ed
abbia risentito gl'influssi della scuola di Velia e di quella pitagorica. Con
sicurezza sappiamo che nel 427 venne ad Atene, ambasciatore di Leontini, per
chiedere aiuti contro Siracusa. Ad Atene ha molto successo e determina un
notevole influsso sulla letteratura oratoria. Itinera poi in Tessaglia, in
Beozia, ad Argo. E certo a Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni. Senza dubbio e
altre volte ad Atene e qui tenne un famoso Epita/io. Muore vecchissimo - quasi
tutte le antiche testimonianze dicono a 109 anni - in Tessaglia presso Giasone,
tiranno di Fere. Suoi discepoli furono: Menonc tessalo, Licofrone, Isocrate,
Crizia, Alcibiade, Tucidide, Prosscno di Beozia, Polo di Girgenti, Licimnio,
Protarco, Alcidamante di Velia. Le sue opere piu famose sono: “Intorno al non
ente o intorno alla Natura”, “L'elogio d’Elena”; “L'apologia di Palamede”;
“Epitafio”; “Discorso olimpico”; “Discorso pizio”. Forse è di Gorgia anche un
trattato su L'arte oratoria.pendentemente da cosa sia la Virtu con il V grande.
Sotto questo aspetto estremamente importante, proprio per rendersi conto
dell'appello al concreto dei primi sofisti, appare il fatto che Gorgia, ad
esem-pio, non intende ricercare cosa sia la Virtu, ma, a chi gli chiedeva cosa
è Virtu, risponde. La virtu di chi? Del bambino, dell’uomo virile, o del vecchio?
della donna o dell'uomo? (cfr. Platone, Menone, 71e; Aristotele, Politica, I,
1260a, 17). La seconda fase dei pitagorici secondi. Le indagini matematiche.
Ippocrate di Chio Secondo la leggenda, dalla distruzione della casa dei
pitagorici a Crotone si salvarono Liside e Archippo. Liside si sarebbe
rifugiato a Tebe, ove, sembra, avrebbe fondato un circolo pitagorico di cui un
prosecutore sarebbe stato Filolao, fiorito nella seconda metà del V se- colo,
che sul finire del 400 sarebbe andato in Italia. Archippo si sa- rebbe, invece,
rifugiato in Taranto, ove avrebbe proseguito l'opera di Pitagora, proseguita a
sua volta da Archita di Taranto, uomo politico di vaglia, contemporaneo e amico
di Platone. In realtà di Filolao e di Archita sappiamo molto poco.1 Non ~enza
una qualche ragione, anzi, particolarmente per quel che riguarda Fi- lolao, si
è giunti a dubitare che gli stessi frammenti che si ritengono proprii
dell'opera (Sulla natura) di lui, siano in effetto rielaborazione, se non
falsificazione, di Speusippo, il nipote di Platone e suo succes- sore nella
direzione dell'Accademia, che avrebbe composto un libretto Sui numeri dei
Pitagorici (cfr. Throlog. Arithm., p. 82, 10 De Falco). Platone nel Fedon pur
discutendo alcune tesi pitagoriche, rivela un suo pitagorismo, soprattutto per
quel che riguarda il mo- tivo dell'armonia dei contrari, e cosi:, in piu passi
degli altri dialoghi l in particolare nel Filebo e nel Timeo, sembra riallacciarsi
a certi mo- tivi che paiono tipici di. Filolao (armonia del limite e del non
limitato, armonia cosmica), e di Archita (armonie musicali). Ad ogni modo l'ac-
cenno che nel Pedone Platone fa direttamente a Filolao è molto so- spetto: O
come,.Cebète, non avete, tu e Simmia, udito parlare di questi argo- menti, voi
che siete stati discepoli di Filolao? Si, ma niente di preciso, Socrate. Anch'io,
veramente, solo per averne udito parlare di queste cose (Fedone, 61tl). Chi
abbia un po' di pratic~ dei testi platonici sa che generalmente Platone usa
questi giri di frase allorché vuoi mettere sugli attenti in- torno a certe
dottrine. Nel caso preciso Platone avverte che la tesi che sta per esporre,
appunto quella dell'armonia del tutto cui si giunge at- traverso l'analisi di
se stessi (ché le nostre strutture corrispondono alla ragion d'essere del
tutto) non è né tesi di Socrate né di Filolao, ma interpretazione personale,
volta a certi scopi precisi e diversi. Tal- volta, effettivamente, dietro
alcune tesi platoniche si nascondono mo- tivi esistenti, ma che in realtà
avevano storicamente tutt'altro signifi- 1 Scarsissime sono le notizie sicure
su Filolao e su Acchita. Di Filolao sappiamo che visse nella seconda metà del V
secolo: fu senza dubbio contemporaneo di Socrate (dr. Feàone, ove Socrate parla
di Simmia e Cebete di Tebe che avevano ascoltato Filolao). "Demetrio negli
Omonimi dice che Filolao fu il primo a pubblicare i libri dci Pitagorici, col
titolo Della natura " (Diogene L., VIII, 84-85). Su questo e sull'esistenza
di un'opera di Filolao si è molto discusso e la questione è ancora aperta. Di
Acchita di Taranto, sappiamo che visse a cavallo tra il V e il IV secolo, che
fu uomo politico di vaglia, signore di Taranto, amico di Platone (cfr. VII
lettera, 338b, 339a) che riusci a far partire Platone da Siracusa, quando
Platone nel 361/60 si trova in quella città semi-prigioniero del tiranno
Dionisio (VII lettera, 350a). Secondo Aristosseno (fr. 48 Wehrli) Acchita,
quando fu stratega, non fu mai sconfita~: ritiratosi dal comando, cedendo
all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato. Questo, con tutte le
cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto un certo aspetto, di
Archita: Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le conclusioni dell'Uno
massiccio di Parmenide, rielabo- rato un pitagorismo a modo suo, pur
rifacendosi a certi motivi che po- tevano scaturire dalla discussione di
Filolao nei confronti dell'Essere di Parmenide. E questo particolarmente appare
da certe pagine del Par- mmide e del Filebo, ove sono alcune espressioni che
sembrano coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao, ma che in effetto vanno
molto oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai frammenti di Filolao. Es-
sendo, dunque, possibile una distinzione tra Platone e Filolao, senza arrivare
a sostenere una troppo raffinata falsificazione da parte di sco- lari di
Platone, che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a bella posta, la cosa piu
probabile sembra sia la seguente:- del secondo pitagorismo ciò che appare di piu
altamente metafisica, in un'aspirazione all'ordine supremo del tutto, è in
effetto rielaborazione platonica in primo luogo, poi rielaborazione di
Aristotele. Piu probanti, per tentare di avvicinarsi alle tesi storiche del se-
condo pitagorismo, sembrano certe pagine di Platone in cui si pole- mizza
contro coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, di astronomia, di
teoria musicale: loro difetto sarebbe, secondo Platone, di non essersi elevati
al primo principio, alle strutture dialettiche dell'essere, per ri~anere sul
piano delle ipotesi e della traduzione del visibile in termini geometrici e
aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c sgg.). L'abbiezione di
Platone, che implica tutt'altro problema, il problema della ragion d'essere del
tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel suo contenuto - che ai
pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto, rifacendoci a certi
frammenti di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta da Aristotele tra i
pitagorici del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici del tempo degli
atomisti, sembra che si possa realmente parlare di un secondo pitagorismo,
facente capo a Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto matematici o per lo
meno in quanto sono partiti da osservazioni o da scoperte di carattere
aritmetìco e geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo - nome
generico, - entro cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti coloro che
si sono occupati di matematica e di armonia. Tale il significato della
testimonianza di Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli
atomisti, afferma: vi furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle
scienze matematiche, le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello
studio di esse, vennero nell'opinione che i principii delle matematiche fossero
i principii di tutti gli esseri. E poiché i principii della matematica sono,
naturalmente, i numeri, parve loro di vedere nei numeri, piu che nel fuoco,
nella terra e nell'aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono
(Metaf., 958b). Aristotele, dunque, non solo distingue tra i pitagorici del
tempo di Pi~agora, cui sarebbe attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e
i cosiddetti pitagorici di un tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in
particolare, attribuisce il progresso delle scienze matematiche, in- tese come
scienze del numero, e la tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a
numero, cioè a quantità. Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la
tesi che elementi del numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il
secondo, finito; e l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita
di entrambi gli elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf.,
986a). Mentre nei primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde
vedemmo la critica di Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di
risolvere sul piano matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri
termini con Filolao e poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte aritmetiche
e àltre musicali abbiano -portato a impostare il pro- blema della pensabilità
del reale sul piano del discorso, possibile qua- lora si riduca a quantità il
pensabile stesso, ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e misurabilità
resa possibile dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu uno o altro
punto della serie, ma il discorso stesso come armonia di punti (finiti e
infiniti), cioè come condizione di quelli e quindi come " parimpari,"
per cui ogni aspetto comprensibile del reale è pari e dispari, è unità (monade)
e diade. L'unità e la molte- plicità si conciliano cosi in una serie infinita
di numeri, che si ritmano nell'unità del discorso, come armonia, e come armonia
dei contrari: l'armonia nasce solo dai contrari: perché l'armonia è unificazione
di molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti (Filolao, fr.
10). Il che non significa èhe per Filolao l'uomo colga l'essenza ultima della
realtà: la causa o le cause prime - saranno questi i problemi di Platone e di
Aristotele. Egli pone semplicemente e concretamente la possibilità di pensare
il reale : la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono
conoscenza divina, non umana; solo che nessuna delle cose che sono e noi
conosciamo 106 sarebbe potuta esistere, se non ci fosse la
sostanza delle cose che compòngono il cosmo, delle limitanti e delle illimitate
(fr. 6). Ora, poiché le cose appaiono come aventi qualità infinite, esse non
sarebbero pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse, cioè se non si potessero
ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile me- diante la numerabilità
e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu- meri, divisipili (pari) e
indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui corrono rapporti di
misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè quell'unità che è
condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si conoscono- dice
Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile pensare né
conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il dispari e
il pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due mescolate. Molte
forme ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa le rivela (fr.
5). Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di conosce- re o di
cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale sia la
condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la
scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno
tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole
cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma
questo, armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co-
noscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar
corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di
quelle limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte
le cose con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste nell'armonia,
nel numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna menzogna
accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la menzogna.
La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e
dell'inintelligibile e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria
della specie dei numeri (fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico,
per cui ciò che nel- l'immediatezza sensibile appare come continuo e
indefinito, illimitato, diviene intelligibile in quanto si numera, in
quanto ciò che si defi- nisce non è piu né acqua, né terra, né fuoco, né altra
qualità, ma è traducibile in figure, in forme (mediante lo gnomone), costituite
di piani, di linee, di punti; e i piani, le linee, i punti (gli originari
punti, o ciottoli dei primi pitagorici), i numeri interi della serie (tutti
uguali l'uno all'altro), si articolano fra di loro, in una unità discorsiva,
che dunque non è nessuno dei punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi
ad un tempo pari e dispari, una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose
sono necessariamente o limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e
illimitate. Soltanto cose illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in
Giamblico si legge. Secondo Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia
oggetto conoscibile, se tutti gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3);
cosi. come non ci sarebbe conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla
constatazione che nulla è pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si
colgono le figure ddle cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune,
viene l'affermazione di Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi
illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le
sue parti (fr. 1). Ora, se è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le
figure, le forme, “idee”, delle cose si costituiscono di numeri, è altret-
tanto vero che ogni cosa ha un suo numero, e che, reciprocamente i numeri si
determinano come figure: punti, linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi
e cosi via. Nascevano di qui i problemi grossi dei rapporti tra le figure, che
tradotti in numeri ponevano il problema delle proporzioni, a loro volta
fondamento delle tecniche, ad esempio ar- chitettoniche, statuarie, e musicali.
La natura del numero e la sua grande potenza - dice Filolao - le si vedono ...
anche in tutte le attività e in tutte le parole degli uomini, sia nelle
attività tecniche che nella musica (fr. Il). E Archita: la scoperta del calcolo
ha fatto cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile
che ci sia sopraffazione da che esso è stato trrntc: c'è invece parità. Per
esso infatti ci accordiamo nelle relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri
ricevono dai ricchi e i ricchi dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli
altri di avere la loro parte. Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i
torti (fr. 3). Quanto al cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione
del- l'universo ed alla sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un
lato può darsi che Filolao abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e
forse risalenti allo stesso Pitagora (come, ad esempio, il motivo della
sfericità della terra, del moto dei punti, costituenti le figure, del moto
inteso come respiro dell'universo), dall'altro lato il tentativo di tradurre in
figure piane e solide, gli elementi come il fuoco, la terra e cosi via, può
essere sospetto, soprattutto per quel che riguarda le figure solide e i loro rapporti,
“sterometria”, perché la stereometria, come appare chiaramente da Platone, che
ne fa un solo accenno nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel
Tim~o, fu studiata da Teeteto - discepolo di Teodoro che è senza dubbio
alquanto posteriore a Filolao. Può cosi essei:e giustificato il sospetto di una
rico- struzione a posteriori, formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo
primo e secondo (l'accentuazione dell'armonia musicale, il tentativo di
matematizzare l'astronomia rifacendosi all'aritmetica e alla musica), in cui
sono presenti anche ipotesi platoniche, democritee, eudossiane. In effetti i
frammenti che si dicono propri di Filolao o i frammenti di altri pitagorici del
tempo o anche anteriori, sono troppo pochi, brevi, e inseriti in testi troppo
posteriori per giustificare sia una concezione cosmologico-cosmogonica propria
di Filolao, sia una concezione cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court.
Non solo, ma non va scordato che possiamo ricostruire tale concezione
pitagorica solo attraverso testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di
Simplicio che non cita Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da
Aristotele, e da Aezio che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco,
intorno al quale ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato
alla decade, alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che
non ha dunque posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato
da un primo alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che
sembra risalire a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in-
determinato spazio vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con
distanze uguali dal mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si
trovano sopra la 109 parte centrale sono dalla parte opposta rispetto
a quelle che si trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto
alla parte centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte
(Filolao, fr. 17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da
esso si generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono
o la torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato,
l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si
determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la
realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente
intorno al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo:
la terra e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché
ruotante insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti
(Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao
dice che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che
è nel centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna
e, infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi,
sempre secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la
parte estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro
purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in
cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare
dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo
Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi
celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la
dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là
dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la
tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è
quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia,
trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr.
Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra,
infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina
dell'armonia delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita
direttamente i pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una
posteriore interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento
degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e
questi sono consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi
grandi, ne nasca un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che
sono quaggiu, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può,
dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e
della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta
velocità. Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in
relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò
dicono armonico il suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che
questo suono non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre
dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e
quindi non possiamo distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto
perché sono in contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che
accade ai fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu
(De coelo, II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco,
che è al centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del
tutto, cosi: sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo
musicale. L'anima, in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come
l'uno centrale, il focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra
gli elementi contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce,
essendone la condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto
questo aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima,
ché l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la
condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che
è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche
se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei,
dovrebbe venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le
dottrine cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha
fatto risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del
primo e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e
sistemazioni posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe
conce- zioni proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da
Teeteto (cfr. la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale
icosaedro, aria uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale
dodecaedro), sono state piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao
(cfr. E. Sachs, Die fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette
pitagoriche sono in realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono
interpretazioni che, comunque, rispondono ;~ problemi e ad esi- genze di altri
pensatori in altre situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei
secondi pitagorici, o almeno dei 111 matematici della seconda metà
del V secolo, è il valore dat~ all'i(lotesi, intesa etimologicamente come il
presupposto che permette un. certo ragionamento; ipotesi matematiche che
permettono appunto di pensare e che hanno estrema importanza per le tecniche,
come sottolinea Fi- lolao. Di qui la critica di Platone a coloro che si sono
occupati di geo- metria, di aritmetica, di astronomia: essi hanno formulato
i(lotesi, ma da queste non sono giunti ai fondamenti primi, o meglio, al
contrario, a queste .non son giunti dalla suprema ragion d'essere (cfr. Ref1.,
510c); e la critica di Aristotele secondo cui i pitagorici sarebbero rimasti
sospesi fra il sensibile e l'intelligibile (Metaf., I, 987a). Ha cosi ragione
Abel Rey (La science dans l'antiquité, Parigi) quando sostiene che i pita-
gorici hanno insistito sui " primi principii della scienza che non sono
però i primi principii in se stessi assolutamente parlando." Entro questi
termini può essere opportuno ricordare che a Filolao sembra si debba la
scoperta e lo studio della proporzione o medietà ar- monica (di quarta, di
quinta, di ottava), accanto alla proporzione arilm~ tica (le cui proprietà
furono formulate da.Archita) e a quella geometrica. Queste ricerche e studi
appaiono come l'aspetto piu saliente del secondo pitagorismo, insieme a un
altro problema che si presentava loro, e che, forse, entrava in contrasto con
la teoria dei punti-unità dei primi pi- tagorici, il problema degli
incommensurabili o numeri irrazionali (detti prima indicibili, 4ppYjTat; poi
irrazionali, 4>-oyo'), che tuttavia po- neva le basi di nuovi rapporti e
misure, la possibilità del passaggio dalle figure piane (geometria), alle
solide (stereometria). Di qui da un lato il problema della duplicazione del
quadrato e dall'altro il problema della duplicazione del cubo, che vennero
spostando il problema da un'inda- gine piu strettamente aritmetica a una
indagine che divenne sempre piu strettamente geometrica. Non sappiamo con
precisione a chi risalga la teoria delle grandezze irrazionali. Probabilmente
si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo applicare il teorema detto di
Pitagora (la duplicazione del quadrato) al triangolo rettangolo isoscele, ci si
accorse ch'era impossibile misurare e indicare con un numero la diagonale del
quadrato di lato l. Senza dubbio il motivo degli irrazionali fu poi
approfondito da Teodoro di Cirene e quindi da Teeteto, come risulta chiaramente
da Platone. Quanto alla duplicazione del cubo, o problema di Delo (cosi detto
perché secondo la leggenda, conservataci da Eutocio, l'oracolo di Odo avrebbe
richiesto agli abitanti di Delo di duplicare uno degli al- tari del tempio,
clie aveva forma cubica), sembra che per primo vi si 112 sia
dedicato il matematico Ippocrate di Chio, che venuto ad Atene per ragioni di
commercio vi si stabill insegnando matematica tra il 450 e il 430, scrivendo i
primi elementi di geometria ed entrando in rap- porto coi maggiori esponenti
della cùltura ateniese. lppocrate applicò alla duplicazione del cubo il metodo,
da lui stesso scoperto, detto apagogico, che consiste nel ridurre un problema a
un altro problema, di modo che, se il secondo è risolto, o dimostrato, lo è ugualmente
il primo. Egli stabilisce cosi che il problema della duplicazione del cubo era
di trovare due medie proporzionali fra due numeri dati e non una sola media
come per la duplicazione del quadrato (cfr. P. H. Michel, La science hellène,
in Hist. génér. des Sciences, Parigi, l, p. 236). Sempre a Ippocrate di Chio
sembra si debba l'impostazioné del problema della quadratura del circolo, cui
credette di poter giungere mediante lo stu- dio dell'area delle lunule, che, se
non risolse la quadratura del circolo, servi a formulare nuovi teoremi. In
questa epoca il problema della quadratura del circolo fu ripreso e discusso
anche da lppia di Elide, che mediante la curva <la lui detta di Ippia o
quadratrice, se non risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della
trisezione dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando
indefinitamente il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un
cerchio; e da Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV
secolo, che oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non
a caso ci siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a
questioni precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si
era formulato con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come
inesistente, ché nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo
di ricerche (volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la
realtà, o delle condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle
che esplicano il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da
costituire una ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende
ciò che allora s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto
(come avverrà con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in
senso gene- rale, diremmo che la filosofia della seconda metà del V secolo, fu
la matematica, la fisica, lo studio di quello che è il modo umano di pen- sare
e di parlare, la retorica, l'indagine di come gli uomini istituiscono rapporti,
di come l'uomo è religioso. Entro questi termini culturali ed entro questo tipo
di ricerche rientrano esattamente anche le indagini di Democrito.'A tal
proposito sembra, anzi, interessante ricordare che già sulla metà circa del II
secolo si venga sempre piu definendo il campo pro- prio della dialettica e
particolarmente della retorica come scienze a sé, approfondendone il
significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco che sappiamo della
Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a Carneade si recò a
ROMA per l'AMBASCERIA DEL 155, il quale vedeva nella retorica l'arte con cui si
formano uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet., I, p. 333.
Sudh.); o dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre
Ermagora di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative
alle questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten),
delineò la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere
generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono
essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella
giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in
Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce
come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole,
o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi
stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche,
indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui
il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per
prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo
dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un
ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e
strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in
modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre
sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica
crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in
un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che
piu forte- mente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che
si vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta
l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti
con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra
difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di
quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui
esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili
a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e
sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze,
che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua
logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati,
e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato,
dall'e·sposi- zione che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di
Ze- none, di Cleante e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante
e a Crisippo, la stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo
cos1 solo sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi
in una catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per
analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e
la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile
discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un
atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul
probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla
logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno
o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto
ba- sate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale
diamo quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente
ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella
consapevolezza critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si
libera accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le
mosse, ha possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e
volontà umana possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date
una mossa piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la
spinta a un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di
girare, cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in
nostro potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli
stessi gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e
delle menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno
e l'indole degli animi (Cicerone, De fato, 41-43; Aulo Gellio, Notti Attiche,
VII, 2). Altro di Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili
discussioni sugli indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente
certi sviluppi relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli
uomini sono uguali e, idealmente almeno, hanno quindi tutti gli stessi diritti da natura (il giusto
è per natura e non per convenzione, come anche la legge e la retta ragione,
secondo dice Crisippo ": Diogene L., VII, 128), le interpretazioni
allegoriche degli dèi, alcune affermazioni paradossali, sono certo posteriori a
Crisippo, e se prestiamo fede alle ricostruzioni di Cicerone, furono proprii
della Scuo- la e in particolare di Diogene di Seleucia o di Babilonia e di
Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone di T arso, successero nello scolarcato
della Stoà durante il II secolo. Secondo Antipatro si deve rivelare ogni cosa,
perché il compratore non ignori nulla di ciò che conosce il venditore: e per
Diogene il venditore deve dire i difetti di ciò che vende, fin quanto vuole la
legge; per il resto agisca senza inganno e, poiché vendè, venda nel modo
migliore... E mentre Antipatro dice: " M a come? Mentre devi provvedere
agli uomini e ren- derti utile al consorzio umano, a tale scopo sei nato, e
riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo è inseparabile
dall'utile comune e vice- versa, terrai nascosto agli uomini quel vantaggio che
può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro è tacere. (Cicerone,
De officiis, III, 51-52). In effetto sembra che se da un lato molte delle
discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di esercitazioni
dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali esercitazioni ponevano il
problema della eticità su di un piano casistico, che venne, non poco, spostando
la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo una maggiore duttilità nei
confronti delle singole situazioni politiche, mentre il motivo dell'ugua-
glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione naturale assu- meva
significato polemico di fronte alle sempre piu gravi sperequa- zioni sociali,
anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove tutto si dispone in ben
precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva giustificare proprio
quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento polemico, invece, tanto
meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III secolo (Bione di
Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli, Telete), che, mantenendo
il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo di società, nelle loro
satire e diatribe e meliambi, forme letterarie propriamente popolari e rivolte
al popolo, vennero puntando l'accento sulla sperequazione tra ricchi e poveri:
Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non toglie ai ricchi la loro maialesca
ricchezza? A quali signori, dunque, a quali celesti dovremo rivolgerei, per
avere il giusto compenso, quando il Cronide, che tutti ci ha generati, che
anche a noi ha dato la vita, degli uni si mostra padre [dei ricchi], degli
altri patrigno [dei poveri]? (Meliambo I, v. 9, w. 23-27). Alla morte di
Crisippo, avvenuta ad Atene tra il 208 e il 204, sco- larca dell'Accademia era
Telecle, successo a Lacide di Cirene, ch'era stato a capo della Scuola dalla
morte di Arcesilao (240 circa) al 223. Di Lacide, ch'ebbe notevole fama di
maestro, che fu circondato da molti discepoli venuti ad Atene da· tutte le
parti del mondo greco, sappiamo solo che espose per scritto il pensiero del
maestro. COs1, poco o niente sappiamo di Telecle, morto verso il 178, e meno
ancora del suo successore Evandro, che lasciò la direzione dell'Accademia a
Ege- sino di Pergamo, al quale successe il discepolo Carneade. Di altri Ac-
cademici di questo periodo sappiamo solo i nomi, Aristippo di Cirene e
Pitodoro, che dedicò i suoi scritti all'esposizione delle argomentazio- ni di
Arcesilao (si cfr. Diogene L., IV, 51; Il, 83; lndex Herc., XXVII, 9; Cicerone,
Lucullus, VI, 16; Suda, s. v. Aotxu31Jc;). La loro importanza sembra, dunque,
soprattutto dovuta all'avere costituito una tradizione arcesilea, prendendo le
mosse dalla quale Car- neade,1 in un approfondimento delle argomentazioni di
Arcesilao, serratamente discusse gli scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non
fosse sta- to, neppure io sarei : Diog. L., IV, 62) e le tesi stoiche elaborate
dai discepoli di Crisippo, Diogene di Babilonia, alla cui scuola fu Car- neade
(Cicerone, Lucullus, XXX, 98), e Antipatro di Tarso, contempo- raneo di
Carneade, del quale si dice che mai osò attaccare Carneade nella scuola o in
piazza, preferendo difendere lo stoicismo attraverso gli scritti (Numenio, fr.
5). Nato a Cirene nel 219 circa o nel 214, in una città ricca di tradizioni
scientifiche e culturali - da dove erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene
tra il 219 e il 214, Carnéade venne ad Atene in un'epoca che non è dato
precisare. Ad Atene si preoccupò soprattutto di rendersi conto delle varie com-
ponenti culturali: ascoltò Egcsino di Pergamo, scolarca dell'Accademia, Diogene
di Ba- bilonia, scolarca della Stoà e discepolo di Crisippo. Fu uomo di
vastissima cultura, dia- lettico sottile, buon parlatore. Successe nello
scolarcato dell'Accademia a Egesino di Per- gamo. Probabilmente fu proprio la
sua fama di dialettico e di buon parlatore che fece decidere gli ateniesi ad
inviare a Roma Carneade insieme allo scolarca della Stoà Dio- gene di
Babilonia, e allo scolarca del Peripato, Critolao, in qualità di·ambasciatore
presso il senato romano (155 a.C.). Gli ateniesi, condannati da Roma a pagare
una·forte multa per avere saccheggiato Oropo, inviarono Carneade, Diogene di
Babilonia e Critolao, a Roma perché cercassero di far ritirare il provvedimento.
Giunti a Roma e non ascoltati subito dal senato, i tre ambasciatori presero
contatto coi giovani romani, discutendo con loro di filosofia. Chi fece la
massima impressione, per la sua arte dialettica, per avere un giorno esaltato
la giustizia e il giorno dopo, con altrettanti argomenti convincenti, sostenuto
che la giustizia è stoltezza, fu Carneade.
gli accademici Aristippo e Lacide, - Carnel).de, ad Atene, ascoltò le
lezioni e le discussioni dei maggiori maestri, dallo scolarca dell'Accade- mia
Egesino di Pergamo a Diogene di Babilonia, scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”,
VI, 16; XXX, 98). Studioso e lettore attento di scritti filosofici di ogni
provenienza dice Cicerone che Carneade co- nosceva a fondo ogni parte della
filosofia: Va"o, XII, 46, - ottimo parlatore e sottile dialettico, sembra
che per queste sue doti sia stato scelto da Egesino a succedergli nello
scolarcato dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non abbia scritto
nulla, indica chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della
filosofia come sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non
tanto un atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un
continuo richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibi- lità
umane verso cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la
discussione di Carneade si svolge al di dentro della stessa lo- gica dello
stoicismo. Carneade non oppone allo stoicismo altra conce- zione, sia pur
rovesciata, ché sempre si sarebbe trattato di una " filo- sofia," ma
egli, riconoscendo con lo stoicismo, o meglio con Crisippo, che i fondamenti
del discorso umano sono da un lato i dati dell'impressione sensibile e
dall'altro lato l'attività del soggetto che ordina e unisce in nessi e
implicazioni quei dati stessi, proprio per questo, non po- tendo la ragione
umana uscire da se stessa e dal proprio discorso, sottolinea l'illeceità del
passaggio dal discorso umano ad un presun- to discorso della realtà. E,
soprattutto, usando il metodo delle anti- Carneade visse fino al 129 circa.
Intorno al 137, vecchio e ammalato, aveva lasciato la direzione dell'Accademia,
che passò al discepolo Carneade di Polemarco che prem.ori al maesto (131). Lo
scolarcato dell'Accademia fu quindi tenuto da Cratete di Tarso, al quale, morto
nel 129, successe Clitomaco di Cartagine. Carneade non lasciò scritti. Su di
lui e sul suo modo di pensare scrisse Clitomaco, che, probabilmente, fu la
maggior fonte di Cicerone. Per utilità ricordiamo che dopo Platone scolarchi
dell'Accademia furono: Speu- sippo (347·339), Senocrate (339-314), Polemone
(314-270), Cratete di Atene (270-268), Arcesilao (268-240), Lacide (240-223),
Tclecle (223-178), Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di Diogene di
Babilonia e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma nel 155, sappiamo
molto poco. Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, successe nello
scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso: soprattutto si occupò di dialettica e
di retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante (264-232),
Crisippo (232-208), Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i frammenti di
Critolao, nativo di Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su di lui.
Successe nello scolarcato del Liceo ad Aristone di Ceo che scrisse una “Storia
del Peripato”, in cui sono inseriti i testamenti degli scolarchi suoi
predecessori. Critolao fu il quinto scolarca del Liceo, dopo Aristotele:
Teofrasto (322-288/86), Stratone di Lampsaco (288/86-27-2/68), Licone di Troade
(272/68-228/25), Aristone di Ceo, Critoli10. A Critalao successe Diodoro di
Tiro. 274 logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di
affidarsi a una qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la
possibilità che una dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui,
di contro ad ogni tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi
o del divino, l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle
proprie possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo
tipo di filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della
serietà dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di
scienza delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per
volta il limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la
consapevolezza dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero.
Carneade, certo, non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda
i limiti della logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e
della Legge, e senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della
libertà e della umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di
Carneade alla consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al
significato e alla funzione che ha il fi- losofare, non è un vuoto appello, ma
una concretissima presa di po- sizione, nei confronti di tesi che finivano per
alienare- l'uomo, in una situazione storica particolarmente favorevole a simili
evasioni ed evi- tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto
alla discus- sione svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica,
della veracità o meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capa-
cità di discernere i ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della ne- cessità
della epoché (discussione, del resto, anche se piu approfondita, molto simile a
quella svolta da Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la precisa
problematica posta da Carneade nei confronti del- l'impossibilità di porre da
un lato una realtà fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là dove
dev'essere necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una legge
universale, e, dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per cui
almeno alcune cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si decide
né per l'una né per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre
l'inconciliabilità tra libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire
il proprio mondo e d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è legge.
Ma nel sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguen- za ed a
consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran parte del
pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel quale si vede
bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce e la volontà
come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività
propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola
aristotelica, che svincolando il filo- sofare dalla ricerca delle cause prime e
dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle
condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra
via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad
Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, con-
tro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione dell'u-
niverso. Ed infine pensiamo agli stessi Stoici, in particolar modo a Zenone e a
Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale,
che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte
degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove
giovani si erano formati - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe
proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di
implicazioni dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non
è, presa in sé, né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare
che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto impressionante,
perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità
del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio perché ogni
discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni
di- scorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità - la coerenza o
meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impres- sioni e i
relativi ricordi, per cui la stessa dialettica, intesa come scienza che
dovrebbe distinguere il vero dal falso nei discorsi, non ha alcun criterio
assoluto e quindi è vana, sf come vano sul piano ontologico si rivela il
criterio dell'analogia con cui gli Stoici hanno costruito la loro cosmologia, la
loro concezione del divino, della Provvidenza, con cui provano l'esistenza di
Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Co- struzione umana, gli umani
discorsi e le umane verità, le une e gli altri validi entro i termini della
mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è
storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal
momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di
una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto
naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio,
sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la
giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in
servizio del vantaggio a ltrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div.
inst., V, 276 16, 2-3). C'è, dunque, un diritto civile, non un
diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due
parti, chiamando l'una so- ciale e l'altra naturale, Carneade le capovolge
ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e
la seconda è 1..erto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III,
20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giusuz1a o
opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare
l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'uma- no
discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come
recta ratio su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la
giust1z1a, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per
dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere
alcun fondamento certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere
per ciò che riguarda gli dèi, la co- smologia, la provvidenza, la divinazione
(artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute
senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la
contraddittorietà sia ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici,
come i soriti, sia all"' ironia" socratica (si cfr., anche per ciò
che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De
divinatione, II; De fato, VII, XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv.
math., IX e VII passim). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la
dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per
analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione
in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in
quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione
fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o
respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse
trarre che, dunque, l'esito non· contraddittorio della logica stoica doveva
essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione,
ma il ripiegamento sul probabile o cre- dibile (7tr.&«vov- pithan6n ).
Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile.
" È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica,
Milano, l, pp. 515-16}, di considerare del tutto a parte la dottrina
carneadiana del pithan6n, che darebbe fondamenmente si scandisce e la volontà
come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività
propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica,
che svincolando il filo- sofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini
ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni
che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come
è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua
polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, con- tro il sillogismo
di Aristotele, contro la matematicizzaione dell'universo. Ed infine pensiamo
agli stessi stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro
sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito
religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici
provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si
formano - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade.
Posto cioè che ogni discorso si costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo
di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé1 né falsa né
vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è
quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima
conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere
il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui
l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni discorso è valido sul piano
umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può
cangiare, se diverse sono le impressioni e i relativi ricordi, per cui la
stessa DIALETTICA, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal
falso nel discorso o dialogo, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana,
si come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui
gli stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino,
della provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del
diritto naturale. Cotruzione umana, le umani discorsi e l’umane verità, le une
e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle
loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini
sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne
cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a
seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed
esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria
natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in
qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio
altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V, 276 16,
2-3)... C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto naturale (Cicerone,
Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una so-
ciale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la
prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è terto naturale
giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta,
non significa affatto negare la giust1z1a o opporre alla tesi stoica un altro
concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia
in sé, di cogliere, di là dall'uma- no discorso e dalle situazioni umane, la
ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si fonda.
Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giusUZla, non già perché pensasse che
essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori
discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido
(Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi,
la co- smologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cos1
via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse
argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle
antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all'ironia socratica
(si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De
natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De finibus, II,
35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra parte, infine,
poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le
leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il
discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la
condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la
sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un possibile
discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro,
allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non·
contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere
assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o
credibile (7tt&otv6v- pithanon). Molto si è discusso sul significato che ha
in Carneade la tesi del credibile. " È invalso l'uso," scrive il Dal
Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16) di considerare del
tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon, che darebbe fondameoto al
suo probabilismo, come anche di considerare il probabilismo del tutto a parte
rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per con- tro, un attento esame della
questione porta a concludere che, anche a proposito del problema dell'azione e
del motivo della probabilità, Carneade non ha fatto che attenersi al classico
metodo della ritorsio- ne polemica nei confronti dello stoicismo. Crisippo
sostenne che il probabile conduce all'assenso, ma non certo all'assenso della
rap- presentazione comprensiva; mentre tale assenso infatti è criterio di
verità, la probabilità è causa permanente di errore; ci si potrà difen- dere da
esso percorrendo interamente ogni enunciazione, evitando che il conflitto delle
ragioni in pro ed in contro ci distolga dalla rappre- sentazione comprensiva,
evitando soprattutto che l'indebolimento del- l'assenso ci porti a !asciarci
sfuggire la rappresentazione comprensiva. Ebbene, Carneade rispondeva
all'incirca nei termini seguenti: il vostro criterio, o stoici, della
rappresentazione comprensiva non è in fondo che un pithan6n, ossia una di
quelle probabilità che voi considerate come perenne fonte di errori; la vostra
dialettica, che è tutta la vostra scienza, fondata sulla persuasione e sulla
probabilità diviene una pura e semplice arte di persuadere, una retorica; la
vostra pretesa di costi- tuire, partendo dalla sensibilità, una scienza del
vero e del falso, è vana; per l'azione è sufficiente la persuasione, come
mostra lo stesso sapiente stoico; e la persuasione rende inutile la conoscenza
compren- siva; la vostra teoria della conoscenza non ha dunque oggetto; pro-
prio e solo alla persuasione voi siete costretti a ridurvi; il pithanon è l'unico
punto che vi resta di tutta la vostra filosofia." La rappresentazione ha
due aspetti, uno relativo all'oggetto, l'altro al soggetto. Rispetto
all'oggetto essa vera o falsa... Rispetto al soggetto ap- pare vera o faisa: e
quella che appare vera si chiama persuasive, “pithane”. Ora, quella
rappresentazione che appare vera, e in modo abbastanza chiaro, è per Carneade
criterio di verità... per la. condotta della vita e l'acquisto della
felicità... Talvolta accade anche che una tal rappresenta· zione sia falsa. Ma
siccome questo capita di rado, si pu~ prestar fede a quella che per lo piu è
vera, poiché noi non possiamo regolare giudizi e azioni che in conformità di
ci~ che è il piu consueto (Sesto Empirico, Atlv. math., VII, 166-173). Il
criterio primo e comune secondo Carneade è dato dalla rappresentazione
persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non sono mai isolate,.ma formano come
una catena nella quale ciascuna è collegata con le altre, il secondo criterio
sarà la rappresentazione persuasiva e insieme non contraddetta, “aperispastos”.
Come alcuni medici comprendono chi ha davvero la febbre non da un solo SINTOMO,
ma dal concorso di tutti, cosi l'accademico dal concorso delle rappresentazioni
giudica la verità; e se nessuna delle rappresentazioni concomitanti la
contraddica come falsa, dice che è vera quella che gli appare. Ma ancor piu
della rappresentazione non con- traddetta è persuasiva e perfetta generatrice
di giudizio quella che ag- giunga al non esser contraddetta anche l'esser
esaminata in ogni parte (" diexodeuméne "), per esempio, per quel che
riguarda il giudicante, il giudicato, il mezzo attraverso cui si giudica, la
distanza e l'intervallo,. il luogo, il tempo, la disposizione, l'attività, e
cosi via. Nelle contingenze comuni, dice Carneade, usiamo per criterio la sola
rappresentazione persua- siva; in quelle un po' importanti la non contraddetta;
in quelle poi che in- fluiscono sulla felicità, quella esamimta in ogni parte
(Sesto Empirico, Adv. math., VII, 176 sgg.). Cicerone e Sesto sono le uniche
fonti per avvicinarsi alla pos1z10ne di Carneade. Cicerone sembra attingesse -
ma personalmente li rielabora, agli scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco
di Cartagine, che fedelmente espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo,
comunque s'intenda o s'interpreti la tesi del pithan6n, sia pur attraver- so la
ricostruzione che dell'atteggiamento di Carnede dà Cicerone e l'esposizione che
del cosiddetto scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente
emerge è il continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo
umano, ad assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o
venerabile che sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee,
rende conto di ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un
accantona- mento delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma di-
struggitrici di quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo ed
entro i termini delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto
dell'impressione che fece in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in
cui, dopo aver sostenuto il valo- re della giustizia con argomenti convincenti,
con altrettanti convin- centi argomenti ne dimostrò l'assurdità. Ma ci rendiamo
conto anche delle preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade,
e il suo darsi da fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene
di Babilonia stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA (156-155),
per convincere il senato a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a
pagare una forte multa per aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e
se ne andassero al piu presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA NEL 155 è un
episodio, ma è un episodio che è pure un SINTOMO e che, anche se con cautela,
può indicare un termine bi-fronte: la conclusione di quella ch'ela problematica
propria del pensiero greco, e l'inizio di tutta una problematica rispondente a
situazioni diverse, a diverse richieste ed esigenze, nell'incontro tra due culture
diverse di origini diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a culture
orientali, non piu filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo greco
attraverso Roma. Certo non fu all'indomani del 155 che tutto divenne diverso.
Ma è sicuro che già coi primi discepoli di Carneade (dei quali peraltro
sappiamo pochissimo: Carneade di Polemarco, premorto al vecchio Carneade, che
venne meno nel 129 erica, Cratete di Tarso, Clitomaco che fedelmente espose il
pensiero del maestro), e particolarmente con Carmada e Metrodoro dai quali
deriva Filone di Larissa (160-79), che fu a Roma e del quale Cicerone ascolta
le lezioni, e Antioco di Ascalona (130-68), si puo determinare una problematica
diversa, rispondente, appunto, a situazioni diverse e a diverse richieste. E
cosi troviamo entro la scuola stoica modificazioni e compromessi che dettero
luogo alla cosiddetta media stoa, indicativi anch'essi di situazioni diverse e
di diversi controlli umani e politici, ove in nome dell'ordine e della
razionalità del tutto, del diritto naturale e della legge universale, si puo riconoscere
Roma la capitale del mondo, caput mundi), recuperando gia vecchie concezioni
astrali e cosmologiche dei caldei, sia certi aspetti piu mistici e religiosi di
Platone. Non solo, ma non è un caso che proprio in questi tempi, tra la fine
del II e l'inizio del I secolo, vi sia un rifiorire dell'epicureismo e si diffonda
un epicureismo romano che già condannato dal senato romano, nel 173 o nel 154,
con l'espulsione degli epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi
licenziosi (Ateneo, XII, 547a), è indicativo di una opposizione nuova, di un
appello alla plebe, fino all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in
Epicuro piu che una dottrina un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere
LUCREZIO e l'epicureismo romano se non si tengono presenti proprio quelle
situazioni di cui parlavamo, e senza di cui è difficile rendersi conto del
delinearsi di una nuova civiltà, frutto di un incontro, di uno scontro e di un
dialogo, diversi da quelli da cui si generò il complesso delle compo- nenti
della cultura greca: la quale, a sua volta, offri i suoi elaborati strumenti,
ma in una modificazione dei suoi contenuti. Roma si assicurò il dominio
dell'Egeo nel 190, nel 188 (pace di Apamea) conquista l'Asia Minore fino al
Tauro, nel 168, con la battaglia di Pidna, la Macedonia fu definitivamente
sconfitta, e, nel 148, con la seconda battaglia di Pidna, divenne PROVINCIA
ROMANA. Nel 146, a causa di un'ultima rivolta della lega greca, Roma, dopo
avere distrutto Corinto, rese tributarie tutte le città greche, trann~ Atene e
Sparta. Il poeta Antipatro di Sidone, nato verso il 170, cosi canta la
distruzione di Corinto. Dov'è, dorica Corinto, la tua ammirata bellezza, dove
le tue corone di torri e le ricchezze antiche? Dove i templi degli immortali e
le case? Dove le spose sisifee e le miriadi di folla? Nessun VESTIGIO è
rimasto, infelice, di te. Tutto ha rapito, tutto ha divorato la guerra. Noi
sole, le alcioni, immortali Nereidi oceanine. Restiamo a testimoniare il tuo
dolore (Ant. Pal., VII, 87). Sono versi come tanti ve ne potevano essere, si come
tante erano state le guerre e le distruzioni durante la lunga e tormentata
storia della Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro significato
simbolico, come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu il primo
poeta greco che volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto indicativa è la
vicenda di Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia, e, dopo la
battaglia di Pidna (168) tra i mille ostaggi inviati a Roma da Emilio Paolo. A
Roma entra in dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo circolo,
descrivendo, infine, la grandezza di Roma, con chiara consapevolezza che tutto
un mondo culturale e civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si
richiedeva, altre sono le esigenze, altra divenne la cultura. Oserò avanzare
l'ipotesi che quanto il resto dell'umanità [i greci] de- ride è il fondamento
della grandezza romana, cioè la superstizione. Questo elemento è stato
introdotto in ogni aspetto della loro vita pubblica e pri- vata con ogni
artificio per impressionare l'immaginazione a un grado tale, che non se ne
potrebbe concepire uno piu alto. Molti probabilmente si stu- piranno
nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu fatto per impressionare le
masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i citta- dini fossero
filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose; ma in ogni Stato
le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni.
Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile
e con altri inganni di tal genere. Non a caso, ma a ragion .veduta, gli antichi
insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La
folha. ~ la .incapacità sono nostre [dei greci] poi- che cerchtamo dt
dtsperdere tah liluswni (VI, 56). E non è, forse, senza interesse ricordare che
proprio IL CIRCOLO DEGLI SCIPIONI ha accolto ostilmente la celebre opera
(Scritto sacro) di Evemero di Messana (vissuto tra il 340 e il 260 a. C.), in
cui Evemero, rifacendosi a certe tesi sofistìche sull'origine storica della nascita
degli dèi, sosteneva che gli dèi non sòno altro che uomini celebri e famosi in
vita, che, per i loro meriti verso il genere umano, furono divinizzati dopo la
morte.compimento del pensiero greco e Roma. La cultura e tradizioni greche a
Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra la seconda
metà del secondo secolo e la prima metà del primo a. C., tra l'ambasceria dei tre
filosofi a Roma (155) e la morte di Cicerone (43), si trova di fronte a un
insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo
non si possono risolvere con quella specie di categoria che è divenuto il
termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem., 21)
nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia
critica philosophiae, Il, Lipsia, p. 193) e da allora adottato da tutta la
storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio dell'ultimo secolo
avanti Cristo e di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosi parlato
di “eclettismo” per lo stoico Boeto di Sidone (morto nel 119 circa), per gli
stoici Panezio (180-109) e Posidonio (135-51), per Mnesarco (1 sec. a.C.)
successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di
Larissa (160-79) e Antioco di Ascalona (1.30-&1), successi nello scolarcato
dell'Accademia a Clitomaco (187-110), per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al
di fuori dell'”eclettismo” e, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone
di Sidone, Fedro, Filodemo, Patròne, culminante in Roma con Tito LUCREZIO Caro
(98/95-54/51), mentre con Enesidemo (di cui non si sa con certezza il secolo in
cui visse, ma sembra il 1 a.C.) si avrebbe un ritorno all'originario
scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza
di testi e di una documentazione precisa che permettano una ricostruzione
storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per
Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è
Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia
assunto un diver~ significato rispetto a quello di Carneade. Ciò che sappiamo
di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che
Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del
significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i
termini de! mondo romano, della sua cultura e della sua storia, in un momento
drammatico per la salvezza della repubblica) ha operato di quei dibattiti, di
quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove
richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di
Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente una sua cultura ed una sua
formazione, si veniva trasformando in “impero”, in mezzo a lotte e a dolori, a
guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e
culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare
con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE DELLA TRADIZIONE
ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale
(168 a.C.), a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio
che furono Cuma e L’ETRURIA prima (fin dall'viii secolo a.C.), TARANTO, la
MAGNA GRECIA (282-266) – Crotone, Velia --; la SICILIA (264-210) poi. A tal
proposito Cicerone (106-43 a.C.) è piuttosto preciso nel dichia-rare
l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che
avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo
della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una
determinata concezione, piu che una filosofia, vede una tradizione, un modo di
vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente
determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della città e un
tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e contadino-MIITARE,
dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche
terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia –
Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di "pitagorismo,"
dall'altro lato s'incontravano con la situazione ARISTOCRATICO-contadina del
popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive Cicerone - sono un ammiratore
dell'ingegno e della virtu dei nostri connazionali, ma soprattutto per quegli
studi a cui si dedicarono molto tardi, trasferendoli dalla Grecia nella nostra
città. È vero che fin dalle prime origini di Roma, durante il periodo regio,
gli ordinamenti, e in parte anche le leggi, regolarono a perfezione gli
auspici, le cerimonie religiose, le assemblee popolari, gli appelli al popolo;
il consesso dei senatori, la ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta
l'organizzazione militare. Però, quando lo stato lazio o romano e liberato dal
regime monarchico, si verifica un progresso meraviglioso e uno slancio
incredibile verso ogni specie di primato. Non è certo questo il luogo per
parlare dei costumi e degli ordinamenti dei nostri ante-nati né della costituzione
e del governo dello stato lazio o stato romano. Esaminando in questa sede le
attività culturali e filosofiche, molti fatti mi fan credere che esse pure
siano state desunte dal di fuori e siano state non solo ricercate, ma anche
mantenute e coltivate. I nostri ante- nati avevano infatti quasi sotto gli
occhi un uomo di straordinaria sapienza e rinomanza, Pltagora, che visse in
Italia al tempo in cui liberò la patria Lucio BRUTO. Poiché la dottrina di
Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere penetra anche nella nostra città,
e questa congettura non è soltanto probabile, ma è anche confermata da alcuni INDIZI.
Infatti le grandi e potenti città dell'Italia meridionale – Crotone, Taranto,
Velia --, che appunto fu chiamata Magna Grecia, sono al culmine del loro
splendore ed ivi ha grande risonanza il nome di Pitagora prima, e piu dei
“pitagorici”. Chi può pensare che i nostri connazionali siano stati sordi a
quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per ammirazione verso i pitagorici
anche IL RE NUMA che regna tra il 714 e il 671, molto prima del tempo di Pitagora,
e stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti conoscevano le teorie e le
massime di Pitagora, e dai loro pro-genitori avevano avuto notizia della equità
e della saggezza di quel re. Ma, facendo una confusione cronologica sull'età di
quegli uomini, perché si perdeva nella lontananza del tempo, credeno che colui
che primeggia per sapienza e un alunno di Pitagora. E questo basti per la
congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici, benché se ne possano raccogliere
molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo l'argomento della presente
discussione, Si dice che essi solevano esporre in poesia certi insegnamenti piu
segreti e rilassare nella tranquillità le loro menti affaticate dalle meditazioni
con il canto e la musica. E CATONE, scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini”
che presso i nostri ante-nati vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno
dopo l'altro cantassero, accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli
uomini illustri. Risulta da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto
applicato ai suoni musicali e la poesia. Per quanto anche Le Dodici Tavole
rivelano che già allora si coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che
non e lecita la diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura
di quei tempi è che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano
al suono della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola
filosofica di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO,
console nel 307 e nel, 296, che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto
Tuberone, di cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno,
discepolo di Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi, è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre
istituzioni vi sono ancora molti particolari che risalgono ai pitagorici. Ma li
tralascio, affinché non appaia che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama
di avere appreso da noi. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è
certamente antico presso di noi, però non riesco a trovare nomi da citare per
il periodo anteriore a LELIO, detto sapiens, oratore, stoico, console nel 140,
e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi erano giovani, mi risulta che furono mandati
dagli Ateniesi come ambasciatori presso il senato lo stoico Diogene e l'accademico
Carneade (155 a. C.) (Cicerone, Tusculanae disp., IV, 1-3). Sembra, questa, una
pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è chiaramente
mostrata l'UNILATERITà della cultura romana. Non sappiamo fino a che punto vi sia
qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il quadro di una antica
AUSTERITà romana, cui puo servire il topos della vita pitagorica, e dall'altro
lato a dimostrare la necessità di una consapevole riflessione che serva da
fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi di vita, senza di cui la
stessa attività dell'oratore non è, in effetto, realmente e concretamente
politica e che Cicerone riconosce dovuta alla complessa problematica della
cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul tronco delle nuove esigenze e dei
problemi, che, politicamente, socialmente, economicamente, militarmente, si
presentano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha presente la situazione di Roma al
suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i conflitti e i cozzi di ideologie e di
interessi di classe e personali, i tentativi economici, le resistenze, le
aperture (dai conflitti dei Gracchi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un
mondo, senza dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa
anche che l'uomo politico, l'oratore (e si badi che Cicerone nettamente
distingue il retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di
retorica, dall'~atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali,
com'è chiaramente dimostrato dal “De inventione”, un manuale di retorica, al
“De Oratore”), non può concretamente agire, determinare una certa condotta
piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non
avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal
riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge
rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura
stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa, soprattutto quando
le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si
tenga conto delle varie situazioni storiche dall'85 al 44, per ricostruire, piu
che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui
si venne determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo romano, e la
trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova
atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile, quando non lo
si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga
la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche
e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato del “vir
bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa inserirsi
in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella
società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta “honestas”. Si
capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e di
società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl
come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i
vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle
concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare
gli uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria
esposti da Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a quella di COTTA, di
CRASSO e di ANTONIO, a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di BRUTO - e i fondamenti
filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi,
attraverso questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione” al “De Oratore”,
all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da
trasformarsi in ORATORIA, cioè in filosofia, nel senso che la verace
persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare (ELOQUENZA)
istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve possedere un
complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei caratteri,
di ciò che ragionevolmente anche del- l'ordine del tutto e della realtà e del
divino può essere accettato (consensus gentium), donde, nel conflitto tra
"filosofia" e "retorica," il significato dato da Cicerone
alla psicagogia del Fedro platonico e alla retorica di Aristotele, e, ad un
tempo, accanto alle ipotesi (discussione giuridica di casi particolari), alle
tesi (discussione di problemi generali), e quindi a certi aspetti della virtu e
delle concezioni degli stoici la cui casistica e discussione scolastica, offre
larga mèsse per le tesi" -, ma anche alla duttilità discussiva di un
Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il contro di ogni concezione
e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui,
appunto, Cicerone verrà criticando e esclu- dendo sia il fato sia la
divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un "brillante
espositore di dottrine altrui," come si è detto, né un uomo che abbia
cucito insieme dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se non in quanto
con- trasto e conflitto furono propri dello stesso Cicerone. Pensi pure
ciascuno come vuole: vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci atterremo
sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè sempre in ogni questione quello
che abbia maggiore carattere di probabilità, senza essere vincolati a regole di
nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità. (Tusc. disp., IV, 4). Vi è
piuttosto, in Cicerone, una sottile noia nei contronti delle di- spute di
scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un concreto agire umano sia il
ragionamento sia la problematica morale sia la problema- tica relativa
all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche retoriche e le tecniche
dialettiche, o una o altra concezione etica o religiosa, al fine di persuadere
a un certo modo di vita che sia salvazione della libertà romana, della
cQflcordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale consapevolezza portava
Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della cultura greca, pur
usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica, pur rifacendosi ai
grandi oratori latini, pur usando con- cetti e motivi elaborati dai greci,
aveva cercato di dare una consapevo- lezza critica (filosofica) al popolo
romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né
meramente precettistica e sco- lastica: Magnifica e gloriosa cosa è per i
Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo,
adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1). Stando cosi
le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire
precise posizioni di pensatori precedenti (Pane- zio, Posidonio, Filone di
Larissa, Antioco di Ascalona, e cos( via), ché, sempre, anche quando Cicerone
cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli
autori, egli usa quelle fonti in fun- zione di un suo fine, in funzione del pro
e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei
confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile,
attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è
ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la
stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il
senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una
problema- tica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e,
dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e
correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla compo-
sizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure,
appaiono evidenti quattro punti fondamentali. La cultura greca, in senso
stretto, a parte i contatti con il mondo greco prima del 168 a.C., penetra in
Roma sotto forma di inse- gnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai
liberti greci, soprat- tutto per ciò che riguarda la retorica. 2) Quella stessa
retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente ~recierano richiesti dai
romani delle classi superiori, m quanto strumento per una formazione culturale
che servisse alla vita politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di
Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro
culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro
lato entrarono in rapporto con personalità ro- mane, furono a Roma, insegnarono
a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente
e in occidente. 4) Nes- sun romano, discepolo di piu di un maestro greco e
attento a correnti diverse, fu, tra il secondo e il primo secolo a.C., filosofo
di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo,
oratore, finché pro- prio in questo, in questo saper governare, consisterà per
essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium,
ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente
dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della vita
contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato
negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica"
romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas,"
attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i
problemi e gli ideali di vita con l'av- vento del principato e dell'Impero. Filosofia,
retorica, politica e diritto. Da Catone a Cicerone. Rispetto al primo punto
sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del De Oratore, in cui
Cicerone riferendosi ai tempi immedia- tamente posteriori alla conquista del
mondo greco, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il
suo dominio su tutte le genti - assicurò un certo otium, non vi fu giovinetto
posse- duto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i
suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne
della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un
qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere
col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli
oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei
maestri greci, fu veramente con incredibile studio che i ro- mani
s'infiammarono per l'eloquenza... (De Oratore, l, 4, 14). I romani delle classi
aperte al governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus
honorum) aveva la retorica, e poiché incon- trarono presso i greci e le scuole
gr.eche la piu ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei
greci, trovand6 numeroso per- sonale insegnante tra i molti. schiavi che
procuravano le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di
Taranto ('Zl2), quando da Taranto·fu condotto come schiavo. a Roma Livio
Andronico, che venne poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato
i figli (Hieron., Chron., 187a). Con Andronico, accanto all'insegna- mento
privato del greco, ebbe inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque
insegnava Andronico (Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo
inì:eres~ qui ricordare - ebbe anche inizio, in Roma, sul calco della scuola
greca,'l'insegnamento secondario. L'inse- gnamento primario, cioè
l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al
periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degli
etruschi e il metodo di insegnameoto della scrittura, derivato agli etruschi dai
greci (cfr. I. Marrou, Storia dell'èducazione nell'antic/Utà, Roma, p. 333).
L'insegnamento secondario latino appare molto piu tardi, verso la metà del m
secolo a. C.. Questo ritardo non deve. meravigliare; l'insegnamento secondario
classico si basava in Grecia sulla spiegazione dei grandi poeti e prima di
tutto su Omero. Come avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale
studio dal momento che non possedeva una letteratura NAZIONALE? Di qui il
paradosso, che non è forse stato abba- stanza messo in rilievo, che la poesia
latina è stata precisamente creata per fornire una materia d'esegesi
all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo
romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto di un'educazione unicamente
data in greco. Il primo poeta IN LINGUA LATINA, che anche il primo professore
di letteratura IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio Andronico di TARANTO, segnalato
come il primo in data dei maestri di gr.eco che hanno insegnato in Roma. Egli
tradusse IN LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia o la loquela dei lazini l'Odissea,
servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio. Tale traduzione e per Andronico
un testo che egli spiega, praelegehat, parallelamente ai classici nella
‘loquela graii’ (Svet., Gram., 1, 1).
Naturalmente non fu questa l'unica fonte della poesia nella loquella dei lazii,
ma per molto tempo conservò il carattere, per noi strano, d'essere intimamente
vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario:
due generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, ac- canto ad autori greci,
continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango
di .classici" (Marrou, cit., p. 334). Quando Roma conquistò
definitivamente la Grecia, i romani delle classi superiori conoscevano
benissimo il greco e già lo usavano come lingua diplomatica, per cui non
ebbero· piu bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e
insegnata per tutto il secondo secolo e il primo a. C., in greco. Ma i!
discorso, sul piano del conte- 16 nuto, è lo stesso di quello
fatto per l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto
fondamentale dell'insegnamento supe- riore, servi ai romani, che avevano
possibilità di fare carriera poli- tica, come strumento di cultura, come
esercizio e preparazione, .s1 come per l'insegnamento secondario serviva la
grammatica e l'esegesi dei testi poetici. E perciò essi, almeno in principio,
si rifecero, indi~ scriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica,
indipenden- temente dai possibili contenuti di pensiero che pur erano dietro
quelle tecniche. Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolgesse
me- diante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toc-
cavano o le tecniche persuasive, rientranti nella deliberativa, o le tecniche
proprie della controversia, ove si discuteva il pro e il contro di casi parti-
colari in relazione a testi di. legge, in modo astratto e precettistico; ma
questo spiega anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali
(''tesi"; anche se già si ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e
come "tesi" in Teofrasto, esse vennero poste in primo piano da Erma-
gora di Temno) si potesse assumere, indifferentemente, a seconda della
"tesi" messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate
dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti
dagli accademici. L'entusiasmo che nel 155, a Roma, suscitò Carneade presso i
giovani colti, col suo doppio discorso sulla giustizia (cfr. I vol.), rientra
in questo quadro, sL come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da
parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo
studio della retorica, dunque, non presentava soltanto l'insegna- mento di una
precettistica, ma implicava un piu vasto sapere: discus- sioni sulla dialettica
e sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuri- dici, di psicologia, e,
quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il
materiale poteva essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie
greche, e usato, poi, a seconda del- l'una o dell'altra causa politica o
giuridica, deliberativa o relativa a controversie. Proprio questa neutralità
della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima
grande sofistica, dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani.
Polibio (XXXI, 24) testimonia che nel 167 circa era in Roma grandissimo numero
di maestri greci. Del 161 è il Senato consulto che proibisce la residenza in
Roma ai retori e ai filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un
conservatore DELLA RAZZA DEL CELEBRE CATONE il Censore (234-149)1 si
preoccupasse del- 1 [Nato nella Sabina, a Tuscolo, nel 234, Marco Porcio
Catone, di una famiglia 17 ] l'introduzione
in Roma delle tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche
e scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della
cultura greca, si preoccupava dei Greci e probabilmente dei Greci del suo
tempo, ch'egli considera dei degenerati. t sf bene - scrive nei celebri “Praecepta
ad filium” avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. RAZZA
CATTIVISSIMA e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei greci, e
fa' conto che sia un profeta che ti dice questo. Se, quando che sia, codesta
gente ci darà la sua scienza, manderà tutto in rovina; e peggio ancora, se
verranno qua i suoi medici. Congiurano di ammazzare con la loro medicina tutti
i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e
possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi,
anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur.
hist., 29, 7). Ad ogni modo lo stesso Catone fu grande oratore e si rese tanto
conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne teme le
possibili applicazioni. I conservatori romani paventarono, ora, certi di
agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )><'r tutta la sua
lunga. vita. Vita parca, dura, laboriosa, dice egli stesso, vissi sin da
principio, coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando,
seminando le selci (p. 69, Maleovari). Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse,
contadino-soldato egli fu )><'r tutta la vih. Questore in Sardegna di
Publio Scipione Africano nel 204, edile nel 199, pretore nd 1::18, console e comandante
di eserciti in Spagna nel 195, e nominato censore 'nel 184 e soprattutto il suo
nome fu legato alla durezza della sua censura, tanto che fu detto, )><'r
distinguerlo da altri Catoni, Catone il Censore. Inviato nel 153 a Cartagine,
in qualità di ambasciatore, ne torna con la convinzione che gl'interessi di
Roma esigessero la distruzione di Cartagine: "Delenda Carthago"
divenne il suo slogan. Muore nel 149, a ottantacinque anni. Plutarco riferisce
un epigramma su Catone, che in due versi sintetizza la figura fisica e morale
di Catone. Tutto denti, mordace, occhi verdi, rossigno è Catone, e Persèfone
teme ancora d'accoglierlo nell'Ade. Se una specie di enciclopedia dove essere
il suo “Praecepta ad filium” (vi si trattava di medicina, di agricoltura, di
retorica, di giurisprudenza e di arte militare), un vero e proprio trattato di
arte agraria è il “De agr'icoltura”, il primo libro in prosa nella locuzione
dei lazini giunto fino a noi (dalla classe degli agricoltori provengono gli
uomini migliori e i piu valorosi soldati. Meno in balla di cattivi
)><'nsieri sono coloro che attendono al lavoro dei campi. Non altro che
pochi frammenti possediamo della sua grande opera storica ·in 7 libri, le “Origines”
(I libro: storia di Roma sotto i re; II e III libro: storia delle primitive
città. italiche; IV e V libro: storia della prima e della seconda guerra
punica; VI e VII libro: storia degli avvenimenti fino al 149). Orazioni Catone
scrisse (ben quarantaquattro volte dovette difendere se stesso) durante tutta
la sua vita (delle 150 che compose, di un'ottantina leggiamo oggi scarsi
frammenti). Celebri sono rimaste certe sue lapidarie sentenze. “Orator est,
Marce fili, VIR BONUS DICENDI PERITUS” “Rem tene, verba sequentur" (dai
Praecepta ad filium). Tutto cose, fatti, conti, come risulta dalle biografie
antiche (Livio, 39, 40; Cornelio Nepote; Plutarco), la sua durezza, il suo
talento, il suo buon senso da contadino, il suo utilitarismo, il suo ideale
d'uomo forte, non ozioso, la sua stessa dirittura, hanno servito a creare la
figura del ROMANO O LAZINO per eccellenza (a parte la sua ambizione, e il non
troppo bello episodio del suo essersi dato all'usura)] aspetti della cultura
greca, si come nel v-Iv secolo i conservatori ateniesi dello stampo di un
Aristofane e di un Senofonte, o del piu grande Platone, temettero la sofistica.
Non a caso, anzi, Catone s'ispira piu volte a Senofonte e si senti vicino al
Socrate, moralista e predicatpre, presentato da Senofonte nei “Detti memorabilia”
e nel “Convito” (il principio delle Origines di Catone, fr. 2, è una traduzione
del principio del “Convito” di Senofonte). Non solo, ma è interessante a tal
proposito ricordare che le opere di Senofonte, che Cicerone testimonia essere
sempre state in mano di Scipione Emiliano (in particolare i ·Memorabili e la
Ciropedia) e lette da Catone (cfr. Tusc., Il, 26, 62; Ad Quint. frat., l, l,
23; Gato maior, 59, 79-81), fano parte della Biblioteca dei re di Macedonia,
messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di Cizio, e che, dopo il
168, Paolo Emilio ha trasferito a Roma, come proprietà privata, in casa sua, e
posta a disposizione dei propri figli e degli amici loro. Il Socrate
senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano il.grosso della
biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto secondo cui Zenone di
Cizio si.sarebbe convertito alla filosofia leggendo il Socrate di Senofonte e
ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve certo a Catone
rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia che di
Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca, Bari, pp.
314 sgg.). Ad ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci, cominciarono a
circolare a Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale e quei
contenuti, quella necessaria cultura di cui parlavamo, e che, a seconda della
situazione politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore. D'altra
parte, per rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo essere
assunti passi o·tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Crisippo, e,
piu tardi, di Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di Antioco, o i
loro modi di intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta presente la
classe cui appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O LAZINI, da P.
Cornelio Scipione Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a Pompeo, a Mario e
Silla, a Cicerone. Non va, intanto, scordato che nella seconda metà del secondo
secolo cominciò a circolare la grande sistemazione della retorica dovuta a
Ermagora di Temno, vissuto a metà del 11 secolo. Il manuale di Ermagora duo
essere, per quel che ne sappiamo, una specie di summa e di ordinamento dei vari
aspetti in cui si era discusso il problema della retorica dai sofisti agli
stoici, dai quali ultimi deriva Ermagora stesso, in una teorizzazione della
retorica. Egli, dopo avere insistito sulla distinzione tra ipotesi e tesi,
dando particolar valore alla tui -- due sono i generi delle 'questioni',"
scrive Cicerone. L'uno è il genus infinitum, l'altro il genus definitum.
Definito è quello che i greci chiamano ipotesi, e noi nella loquela lazia,
causa. Infinito quello ch'essi dicono tesi e noi possiamo chiamare pro-posito (Cic.
Top., 21, 79), imposta la distinzione dei discorsi retorici sullo stato della causa.
Ermagora divide a sua volta lo stato della causa in due grandi aspetti,
l'aspetto razionale (yévot; Àoytx6v, genus rationale) e l'aspetto legale
(yévot; VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes,
Lipsia, i fragmm. 6-23). Ermagora cosi teorizza da un lato una retorica
razionalistica e filosofica, dall'altro invece una retorica spiccatamente
giuridica, una interpretatio iuris sorgente dalla stessa pratica giuridica. Da
un lato, quindi, la retorica ermagorea mira al vero, dall'altro al GIUSTO: ai
due massimi valori, cioè, della filosofia stessa, nella sua parte teoretica e
nella sua parte morale (A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Milàno, p.
114). Accanto alle altre conoscenze, offerte dai testi del pensiero greco, e
dai maestri greci che venivano a Roma o alle cui scuole (Rodi, Atene) ci si
recava, prese sempre piu piede, sulla fine del II secolo, l'esigenza di una
sistemazione e razionalizzazione del DIRITTO, tanto che sulla fine del 1
secolo, anche per l'impulso dato da Cicerone, sorsero, accanto alle scuole di
retorica, scuole vere e proprie di DIRITTO in cui insegnarono magistri iuris,
iuris periti. La conoscenza delle leggi e del complesso delle leggi, come
insegna Ermagora di Temno, sirve non poco alla retorica ed all'azione politica.
Materiale per tale sistemazione, soprattutto quando si pensi che il significato
della legge giusta e universale era discusso e studiato in particolare da
uomini che tende- vano al potere politico e che per nascita e censo ne avevano
la possibi- lità, era offerto dalle varie elaborazioqi e approfondimenti che
della Legge e del diritto avevano dato e davano gli Stoici, risalendo poi,
attraverso essi, alle testimonianze di Platone, di Aristotele, di Dicearco.
Quasi tutte le nozioni - scrive Cicerone - le cui parti sono riunite ora in
corpi dottrinali, costituenti questa o quell'arte, un tempo erano disperse e
non formavano un insieme. Cosi, in musica, il ritmo, i toni, la melodia; in
geometria, le linee, le figure, le dimensioni, le grandezze; in astronomia, le
rivoluzioni del cielo, il sorgere e il tramontare, i movimenti degli astri; in
grammatica, la spiegazione dei poeti, la conoscenza della storia, il significato
delle parole, la pronuncia; nella stessa retorica, l'invenzione, l'elocuzione,
la disposizione, la memoria, l'azione. Il rapporto di questi elementi fra loro
era ignoto. Sembra senza legami, disarticolati. Si è coscer- cato al di fuori,
in un altro campo, di cui i filosofi si attribuiscono l'intiera proprietà, un
metodo che in qualche maniera cementasse questi materiali sparsi e li
costringesse a entrare in un sistema razionale. Poniamo dunque l'oggetto del
diritto civile: mantenere, sulla base delle leggi e dei costumi, i principi di
giustizia che regolano gli interessi dei cittadini nelle loro reciproche
relazioni. Distingueremo, quindi, i generi, riducendoli a un certo numero, il
piu piceolo possibile. Il genere è ciò che racchiude due specie o piu, simili
tra loro per un carattere comune, ma separate per una differenza propria. Le
specie consistono nelle suddivisioni che si raccolgono sotto il genere di cui
sono formate. E tutti i termini che servono a desi- gnare generi o specie,
avremo cura di definirli con il loro esatto valore. La definizione, infatti, è
una spiegazione breve e precisa dei caratteri che sono propri dell'oggetto che
vogliamo definire... Si tratta, insomma, di ricondurre il complesso del diritto
civile a un piccolissimo numero di ge- neri, dividere poi .ciascuno di questi
generi in diversi membri o specie, far vedere infine, con una definizione, il
valore proprio di ogni termine: avremo cosi una teoria completa del diritto
civile, ed una scienza t:stesa e feconda invece che difficile e oscura (De
Oratore, I, 42, 187-190). Se cos{, per il yhoç ÀO')"x6v, il genere
razionale, e per le "tesi" si cercava il materiale negli aspetti piu
vari del pensiero greco e nei modi con cui esso poteva essere usato -
retoricamente si potevano benissimo accostare tesi diverse, e, soprattutto,
frasi diverse, sganciate dai loro contesti, - per il yhoç VOIL'x6v, il genere
legale, il materiale e offerto, formalmente, dalla logica, dalla dialettica, e,
per il contenuto, dal rapporto v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;, che
impostato da Platone (cfr.. Leggi, 957c), poteva essere interpretato secondo il
"diritto naturale" approfondito da alcune posizioni stoiche.
L'esegesi del diritto e delle leggi, l'esegesi delle tecniche retoriche, la
loro funzionalità a seconda di certe situazioni ed esigenze politiche,
implicavano una piu vasta cultura, la richiesta di conoscenze e sistemazioni -
come chiaramente si vede attraverso Cicerone - atte ad essere usate di volta in
volta. Cicerone verrà a costituire come il nodo di questo processo, svoltosi
dall'età di Scipione alla morte di Cesare, nel consapevole tentativo, egli homo
novus, di conciliare l'oratoria usata dagl’ARISTOCRATICI con l'oratoria dei
"populares" (o, meglio, di certi ARISTOCRATICI che mossero il
popolo), mediante, appunto, una piu alta e vasta cultura, che fosse terreno
comune, comune parentela, con cui determinare la persuasione alla pace, non
solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del popolo e tra aristocrazia e
popolo: naturalmente attraverso l'oratoria di un uomo capace di questo,
attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dal- l'alto. Ma di qui, per Cicerone,
l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in la lingua
degl’abitanti del lazio, perché fosse possibile costituire nel mondo romano o
del lazio una consapevolezza critica (filosofia), che doveva, nel suo ideale, determinare upa misura e un
rapporto tra le classi, che fa davvero dello stato una res publica. Tale
prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei
lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da Scipione Emiliano ai Gracchi
a Silla. Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di
politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni
almeno, come nell'Emiliano, trovò la sua espres- sione, il suo linguaggio,
nello stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu
il modello aristocratico del vir bonus, del salvatore della patria, dell'uomo
misurato, che si sacrifica per lo Stato e la sua unità, e la cui eloquenza
riflette, appunto, tale modo di vita. Si pensi a Scipione, a Lelio, ad Antonio,
a Crasso, a Rutilio Rufo, a Scevola pontefice, a Cotta. Oppure si tratta di
muovere e commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e allora altro
è il tipo di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa ricorso. Si pensi
all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di Sulpicio. Sotto questo aspetto sembra
chiaro perché nel 99 Crasso, allora censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola
di retorica in la loquela dei lazini, creata l'anno prima da Plozio Gallo, su ispirazione
di Mario. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico, come ora
Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si erano
formata una vasta cultura, mediante cui tendevano a persuadere della propria
concezione non solo la propria classe, bens( tutto IL POPOLO ROMANO o il popolo
del LAZIO. Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che per
l'oratoria ha la cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per quella
cultura stessa (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, l, 4), consapevoli del pericolo
che l'oratoria venisse insegnata in la loquela del Lazio. Non è un caso che la
fondazione di una scuola di retorica in la loquela del Lazio e ispirata da
Mario, un "popolare," che Cicerone dice essere sné eloquente né colto
(Cic., Pro Fonteio, 19, 43). L'arte del ben dire, in quanto insegnata in quello
ch’Ovidio chiama la ‘loquela graia’, accompagnata da lunghi studi, divenne
patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia. Plozio Gallo, attraverso la
sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le stesse armi piu che ai populares
allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione dell'anonima “Retorica ad
Erennio”, composta, sembra, tra 1'86 è 1'82. È un trattato di retorica in la
loquela dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni, di recente, l'hanno
ritenuta di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di
tipo molto moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole
della loquela ‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora,
in cui si reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per
avvicinare l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla
reale vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e
dibattiti agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità,
I, p. 336). Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge
frumentaria del tribuno saturnino (Ret. ad Er., l, 21)? Si può assolvere
l'uccisore del tribuno P. Sulpicio, ucciso nel1'88 per ordine di Silla (Ret. ad
Er., l, 25)? Il Senato delibera, durante la guerra sociale, 91-88, sulla
questione di accordare il diritto di cittadinanza agli ITALICI chi non sono
lazini (Ret. ad Er., III, 2). Morte tragica di Tiberio Gracco (Ret. ad Er., IV,
55). Naturalmente non tutti i soggetti sono tratti da un'attualità cosi scottante,
e l'argomentazione non è sistematicamente orientata nel senso favorevole ai
populares - un buon retore deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia non c'è
dubbio che l'atmosfera generale della scuola risentiva della posizione politica
del fondatore (Marrou, cit., p. 336). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie
chez Cicéron, Parigi), invece, ritengono che non bastino le citazioni dei
Gracchi, gli elogi dei populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini,
per accertare che la Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o
lazini. Già Antonio, che, secondo Cicerone (De Oratore, I, 21, 94), aveva composto
un trattato di retorica, e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De
Oratore, Il, 24, 199 sgg.). Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette
in primo piano i populares. Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario,
è altrettanto vero che tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er., IV, 54, 68), spesso
evoca la politica aristocratica e cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano
(Ret. ad Er., IV, 13, 19; 32, 43), non solo ma in certi casi, come nella lotta
contro Saturnino, approva il consensus bonorum (Ret. ad Er., l, 12, 21), e non
pochi sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret. ad Er., l, 10, 17;
15, 25; 16, 26). Il Michel (p. 72) trae di qui la conclusione che l'autore
della “Retorica ad Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra
populares e OPTIMATES e ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia
politica di Roma. In effetto la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si
ispira ad Aristotele, a Crisippo e ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta,
sull'esempio, appunto, di Ermagora, di presentare una summa dell'arte del dire,
in una sistemazione dei vari aspetti della retorica in un tutt'uno coerente,
facendo uso nelle esemplificazioni, non solo degli esempi oratori greci, ma,
SCRITTA DA UN ROMANO, nel LAZIO, per romani, anche dei mggiori esempi dell'oratoria
romana. Si vedono cosi, chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La
teoria dell'arte del dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai
contenuti filosofici ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella
classificazione dei tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo,
deliberativo. Nella divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea,
in invenzione, elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece
dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria,
che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del
discorso, exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per
la casistica e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di
orazione dei grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande
Antonio, quanto dei Gracchi. Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad
Ermnio è il primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in
realtà, le fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso
Cicerone, il quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla
Retorica ad Erennio, di dare una base meno precettistica e piu
culturale-filosofica alla retorica, discutendo poi della funzione e della
cultura necessaria all'orator, che deve svincolarsi dall'assumere
unilateralmente una o altra precisa concezione, dall'accettare una o altra
posizione, ha classificato e opposto tipi di retorica, cui corrispondeno tipi
di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un lato, l'indice chiaro
dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai lazini del Lazio di una
sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario del sapere
retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del CON-VIVERE civile,
si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e, dall'altro lato,· è
l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia senatoriale
nella quale si era sviluppato l'ideale del “vir bonus” subisce la concorrenza
delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu democratico,
penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui il nuovo
aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che perora per un
magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere un grande
dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console, risponde
alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa defensionale
che scandalizza Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo del popolo (Cic.,
De Oratore, l, 52,. 226). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei dibattiti
aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora sempre se
l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. Talvolta lo istruisce adulandolo
(Michel, cit., p. 45). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione,
oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento
politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo
fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini
entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa,
del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo
novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che
alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una contemperanza
dell'antico ideale del vir bonus senatoriale, il cui modello e la figura di
Scipione l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il
raggiungimento di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine,
attraverso la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto
Cicerone non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente
impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una
moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il
Senato. In Cicerone, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno
senza dubbio giuocato mo.):ivi di'lersi, concezioni e dottrine diverse, che, se
prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con
l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i
contesti ciceroniani. Cicerone non espone dottrine altrui, ma usa tesi e
aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla,
o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta
drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto
quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda
conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane
esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione
dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce
quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose
future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e
preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale,
mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza
che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis, l, 4,
11-12). Cosi, sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire
gli Accademici, e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi
all'uso fatto da Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti
dell'analisi aristotelica per la formalità delle definizioni; sul piano della
condotta forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia
aristoteliche, sia stoiche, potevano servire le tecniche retoriche elaborate da
Aristotele, da Crisippo, da Ermagora; sul piano piu strettamente umano, della
possibile comunione umana, poteva servire la delineazione di una humanitas il
cui incontro è la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio,
che sembra fosse l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di
Panezio, in cui, certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di
Aristotele e il motivo accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu
alto piano politico si ricercava una legge universale, un diritto naturale che
giustificasse un certo ordine sociale, una certa legalità, per cui potevano
servire altre tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad
una quiete ultra mondana, soprattutto dovuta a :situazioni immediate e tristi
della vita, poteva benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone sull'immortalità
dell'anima o alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di Aristotele,
accanto a una visione del divino la cui fonte può essere Cleante, insieme al topos
della filosofia intesa come consolatio. Ora, se tagliamo via Cicerone e poche
testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione ciceroniana, poco o
nulla resta delle opere dei pensatori greci tra il secondo e il primo secolo.
Di qui, per le ragioni dette sopra, la difficoltà di ricostruire, attingendo a
Cicerone, dottrine e posizioni compiute, storicamente esatte. Si pensi, ad
esem- pio, al caso di Platone. Se le opere di Platone fossero andate perdute e
si dovesse ricostruire Platone mediante Cicerone, non avremmo certo Platone ma
Cicerone stesso, che usa frasi e motivi di Platone. Lo stesso dobbiamo dire per
gli accademici da Clitomaco a Filone di Larissa ad Antioco di Ascalona, gli
ultimi due direttamente ascoltati da Cicerone e per gli stoici Boeto di Sidone,
Antipatro, Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato da Cicerone, e per tutti gli
altri cui si riferisce Cicerone. Non è, evidentemente, possibile ricostruire,
ad esempio, la dottrina e una compiuta e sistematica filosofia di Panezio
attraverso Cicerone, per poi, con un Panezio cosi ricostruito, spiegare
Cicerone. Ciò che possiamo è, invece, renderei conto delle questioni suscitate
in Cicerone, in funzione della sua problematica, dai pensatori greci da lui
citati e discussi, i quali, a loro volta, hanno senza dubbio, almeno per ciò
che ne sappiamo, risposto alle esigenze, ai problemi, alle richieste che
provenivano da Roma, fin dal tempo di Carneade e di Polibio, in un complesso e
Ìn un ampiamento di orizzonti, anche geografici, per cui se è vero che il mondo
romano si grecizzò, è altrettanto vero che il cosiddetto mondo greco si romanizzò,
o meglio si venne determinando tutta una nuova e diversa atmosfera culturale,
in cui anche certe parole, pur rimanendo le stesse, vennero ad assumere altro
significato. Il celebre DOPPIO DISCORSO SULLA GIUSTIZIA, che Carneade tenne a
Roma nel 155, era ancora riportato e discusso da Cicerone circa un secolo dopo.
Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita la fama e l'importanza, ma,
certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti fondamentali della riflessione
romana s'era venuto a imperniare sul motivo delle condizioni che rendono
possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno dimenticate da un lato la
storia di Roma e delle sue conquiste dal 200 in poi e dall'altro lato la
problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le capacità del potere. A
parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI CARNEADE, la sua forza
filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che di quel discorso
rimaneva piu crudo e scottante era, non solo la sottile negazione della
dottrina stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non va
ricercata né in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale, ma
l'esito di quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza della
giustizia nel senso comune sottolinea ch'essa è sempre, soprattutto nei
rapporti tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della
parola. Se Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire
ciò che, con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata
prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è
possibile vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta
inazione. Se lo stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di
giustizia. Lo stesso va ripetuto per i romani. Quello di Carneade poté suonare
come un richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla
consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla
verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le
cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile
romano e dell'utile di una certa classe dirigente venivano ammantate
dell'orpello del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna il vecchio Catone,
particolarmente per la verità pericolosa ch'era implicita nel discorso di
Carneade non va scordato che Polibio scrive che la grandezza romana sta
nell'avere imposto un certo ordine e una certa legge giuocando sulla
superstizione, tenendo a freno le masse mediante il timore dell'invisibile:
Polibio, VI, 56, tutto questo impone, d'altra parte, una piu approfondita discussione
e giustificazione. Carneade, è stato detto, non condanna l'impero romano: mette
solo in rilievo il fatto che esso non ha alcuna base etica; e questo stimola
altri a cercarne una (T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Bari). Non
solo, ma va aggiunto che se al tempo di Carneade il concetto di impero non esiste,
se non nella sua figura giuridica, e proprio la riflessione sulla
giustificazione del comando di un singolo o di un gruppo in Roma, nella delineazione
di un modello di uomo giusto, e del potere di Roma sugli stati e le città
conquistate, che venne a costruire, appunto, il concetto di principato e di
impero. Entro questa linea,· nei termini di questa esigenza di rendere
giustificabile e, per ciò stesso, razionale e, dunque, convincente, l'azione
della classe, che ha possibilità politiche, e l'azione di Roma, sembrano
chiarirsi molti degli atteggiamenti assunti e dagli Stoici, e dagli stessi
Accademici, i quali tutti, nel corso del n secolo e della prima metà del 1,
ebbero contatti diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe
dirigente romana, a cominciare da Polibio e da Panezio: Mentre, per altro
verso, la deli- neazione di un ordine razionale e universale cui adeguarsi,
fondamento e giustificazione dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe
possibilità di carriera si allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei
nuovi ricchi o dei cavalieri, mise in crisi il monopolio del potere dei nobili,
giustificando, appunto, in nome della comune ragione, le possibilità
dell'inserimento politico da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione
universalistica e imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine
politico basato su quella razionale uni- versalità, di cui il
"princeps" - l'"orinor" in principio - è il depo- sitario e
il propagandista, non poco poteva servire la tesi del giusna- turalismo stoico,
qualora se ne giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da
Carneade, che cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva
a negare l'azione e gli atti giusti. Ora tale giustificazione imponeva una
revisione, entro i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica,
che fu tentata da Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di
Scipione Africano, s1 come da parte degli Accademici (da Carmada e Metrodoro a
Filone di Larissa e Antioco di Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia-
lettica e la discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno
delle modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu
niente a che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte,
va scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera
intorno alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu
tardi, Antioco fu amico di Lucullo e che a Roma visse e scrive Filone di
Larissa. Chi tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie
fasi del pensiero tra il 150 circa e Cicerone, non può non tener conto della
storia interna di Roma, soffermandosi in primo luogo dapprima sull'esigenza da
parte senatoriale di giustificare il proprio operato e la propria virtuosità
fino a giungere a costruirsi con Scipione Emiliano minore l'ideale modello del
vir bonus, salvatore della patria, che assomma in sé I'auctoritas, il cui
consiglio è dato alla potcstas (all'esecutivo), piu che con la parola, con la
propria figura morale e la propria condotta, divenendo princeps della città. In
secondo luogo, tenendo presente il conflitto tra la classe senatoriale e
l'impoverita borghesia italica rurale, culminante nel conflitto tra lo stesso
Scipione e Tiberio Gracco (dell'uccisione di Tiberio, Scipione dirà: iure
caesum) e poi tra Scipione e C. Papirio Carbone, fino a che, morto Scipione,
improvvisamente, nel 129, la notte precedente il giorno in cui egli dove pronunciare
un discorso in senato contro le proposte di legge sulla questione agraria (fu
chi disse che Scipione venne fatto uccidere da Papirio Carbone), sembrò potersi
attuare la rivoluzione in virtu di Gaio Gracco (nel 122), rivoluzione però
stroncata dalla oligarchia senatoriale; e, in terzo luogo, tenendo presente il
celebre conflitto tra Mario e Silla, fino a giungere a Pompeo e al primo
triumvirato. Entro questi termini sembra chiarirsi perché il problema
fondamentale - quali che di volta in volta ne siano state le soluzioni - fosse
il problema delle condizioni che permettono la vita politica: o in una
negazione delle tecniche retoriche - particolarmente da parte senatoriale, -
puntando sul retorico modello di una figura esemplare, e, per la sua
esemplarità, convincente; oppure, via via negata la retorica come arte a sé,
neutra, in un'affermazione della retorica filosofica, psicagogica - onde piu
volte l'uso di Platone e di Aristotele, - che, ricorrendo a tecniche diverse,
caso per caso, seducesse ad una razionalità, istituente ordine e misura, entro
i termini della legge, specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui,
anche, la sempre piu accentuata importanza data alla conoscenza del diritto e
alla sua sistemazione. Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il
conflitto dapprima tra contenuti e retorica e poi tra retorica degli affetti e
retorica filosofica, la problematica tra il porre una virtuosità in assoluto,
che alla fine nega ogni possibilità di azione, e, quindi, anche ogni
possibilità di convin- cere a quella virtuosità stessa, e il porre una
possibilità di rapporto umano, fondato solo di volta in volta sul giuoco degli
affetti, il riflesso di tutto ciò, anche nella sua aderenza, caso per caso, a
precise esigenze politiche, è molto chiaro in Cicerone. A tal proposito, anzi,
sembrano particolarmente illuminanti certi passi di Cicerone, in cui egli condanna
l'insegnamento retorico di Cleante e di Crisippo. È vero che Cleante scrisse un
trattato di retorica e anche Crisippo, ma in modo tale che se uno desidera
diventar muto, non deve leggere niente altro (De fin., IV, 3, 7). Troppo rigida
ed esclusiva la loro logica per divenire eloquentia (De Oratore, Il, 38, 157
sgg.), essi non hanno possibilità di discutere altri argomenti, ché uno solo è
il loro, onde mancano di inventio (Topici, 2, 6). Essi perciò non possono
convincere alla virtu, per alta e pura che sia la virtu da essi proclamata
(cohlc, sottolinea Cicerone, fu il caso dello stoico romano Rutilio Rufo, che
per non adulare le passioni del popolo, per non scendere dinanzi ai giu- dici
ad usare la tecnica del pathos, non fu capace di difendersi: De Oratore, I, 53,
227-54, 231). Sotto questo aspetto sembrerebbe aver ragione Carneade, dimostrando
che sul piano umano lo stoico non può che contraddirsi, ripiegando sul probabile
e sul convenevole, negando con ciò stesso la propria tesi, tanto è vero che gli
stoici non pongono alcun passaggio tra il saggio e virtuoso e il non saggio e
malvagio (di qui, per Cicerone i paradossi degli stoici: cfr. Paradoxa
stoicorum), giungendo alla fine a sostenere che nessun uomo è saggio, tranne
pochissimi, che, d'altra parte, non hanno possibilità di convincere gli altri
per lo stesso fatto che gli altri sono non saggi, per cui il saggio stoico resta
in conclusione assolutamente avulso da ogni tipo di vita politica, rinnegando
con questo lo stesso proprio concetto di giustizia e di razionalità. In realtà
vi sono negli stoici cose troppo incompatibili con l'oratore quale noi
formiamo. Questa, ad esempio: ad ascoltarli, tutti coloro che non sono saggi
sono schiavi, nemici pubblici, folli; d'altra parte non v'è uomo che sia
saggio. Sarebbe, dunque, una grande assurdità affidare la cura di guidare il
popolo, il senato, qualsivoglia assemblea a chi fosse persuaso che tra i suoi
ascoltatori non vi è uomo sensato, non un cittadino, non un uomo libero (De
Oratore, III, 18, 65). Tale impossibilità di guidare la vita politica,
sottolinea Cicerone, non ha permesso agli Stoici piu antichi di scrivere
intorno allo stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). Solo Dione stoico, aggiunge,
se n'è occupato. Chi sia Dione stoico non sappiamo a meno che non si tratti di
Diogene di Babilonia, che secondo Ateneo, XII, 526, scrisse De legibus, e,
insieme a lui, Panezio di Rodi. Su questo argomento dei magistrati, alcune
questioni furono studiate molto sottilmente prima da Teofrasto, poi dallo
stoico Dione. Tu dici? Anche dagli stoici fu trattato questo? Non proprio,
salvo da colui che ho ricordato, e poi da quel grande e coltissimo uomo di
Panezio. Gli stoici antichi soltanto astrattamente e pur con acutezza hanno
trattato dello Stato, ma non in questa maniera pratica per l'utilità del popolo
e dello stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). È vero. Lo stato che potremmo
delineare attraverso i frammenti di Cleante e dì Crisippo sarebbe lino Stato
universale, fondato sul motivo del diritto naturale, razionalmente ordinato,
ove la legge sarebbe specchio della legge del tutto, del logos, ma dove anche,
data la distinzione stoica tra saggi e non saggi e la incomunicabilità tra gli
uni e gli altri, si avrebbe un solo saggio ché tutti i saggi si
identificherebbero in uno e molti uomini, i non saggi, i quali soli, alla fine,
si dimostrerebbero capaci di azione e di vita sociale, che sarebbe però
ingiusta, asociale, apolitica, dove non potrebbe non avere il sopravvento che
la retorica degli affetti e delle passioni. L'abbiezione di Cicerone avrebbe
potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa di Carneade nei confronti
degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone tende a rendere convincente
sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in quanto utili a un certo fine
politico. Certo a Carneade, per quel poco che di lui sappiamo, non seppe
rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di Tarso. Si dice che Antipatro
non ebbe mai il coraggio di scendere in discussione con Carneade direttamente e
ch'egli tentasse di difendere le posizioni dello stoicismo ortodosso per
scritto (cfr. Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 8, 6), limitandosi ad
approfondire gl'indifferenti tra cui avrebbe posto il dovere e la fama validi
entro l'ambito umano (cfr. Cicerone, De fin., III, 17; anche Seneca, Ad Lucil.,
92, 5; 87, 38), mentre Diogene di Babilonia, il collega di Carneade al tempo
dell'ambasceria a Roma, discepolo di Crisippo, avrebbe particolarmente
approfondito alcuni aspetti della dottrina stoica, in forma precettistica e
tecnica (la dialettica, la retorica, la musica), ma in modo tale che, ponendosi
su di un piano piu logico che ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo
rinnovare i contenuti stessi dello stoicismo. Panezio avrebbe poi tentato il
recupero di tutte quelle tesi stoiche che, utili per un tipo di politica e di
giustificazione di una certa azione, avrebbero potuto assumere, entro una
precisa visione del tutto, una loro forza sul piano umano. In realtà, dietro
l'atteggiamento piu pratico - come sottolinea Cicerone - piu umanistico di
Panezio, che puo esattamente servire ai fini dell'azione di Scipione Emiliano,
v'era la possibilità di svi-luppare la logica e la dialettica di Crisippo,
indipendentemente da corrispondenti strutture ontiche, battendo l'accento
sull'aspetto ipotetico del discorso e sulla retorica nel modo in cui, attraverso
Zenone e poi' Crisippo, s'e delineata in Diogene di Babilonia. Studi recenti
(cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene di B., Filosofia) hanno messo in chiaro
la stretta relazione posta da Diogene tra filosofia e retorica. Se la filosofia
viene ad essere stoicamente 2 [Di Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo
molto poco. Discepolo di Crisippo, successe nello scolarcato della Stoà a
Zenone di Tarso. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante
(264-232), Crisippo (232-208), Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. A Diogene
di Babilonia successe nella direzione .della scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro,
nel 129, Panezio. la scienza del ben
pensare, attraverso cui si determinano le condizioni senza le quali non v'è
discorso cioè i dati e l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un
discorso sintattico e proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui
anzi consiste l'esperienza si capisce come l'arte del dire, in quanto
espressione dell'arte del pensare, possa avviare gli altri a ben pensare,
costituendo un· ordine. sintattico e armonico, sociale, specchio appunto dell'ordine
razionale cui si giunge attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi del
pensiero a se medesimo. Ipotetiche le premesse, anapodittici i sillogismi,
formalmente il di- scorso è necessario e può costituire, sul piano umano, un
ordine altrettanto necessario e perciò stesso razionale, a cui serve la
retorica, valida qualora, appunto, sia introduzione e avviamento al ben pensare
e per ciò al ben vivere, insignificante, anzi da respingere, qualora resti su
di un piano neutro di contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il
contra.sto tra retorica pura e retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza,
e il parallelo, posto da Diogene, tra retorica e medicina (fr. 91, III Arnim),
per cui la vera retorica è terapeutica ed è psicagogica. Di qui, formalmente e
per la sua funzione terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene tra
retorica e musica (fr. 92, III Arnim). La funzione della retorica, che, in
quanto seducente in vista del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali,
si fonda su tecniche precise che potevano essere benissimo riprese dalle
analisi sulla retorica e dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei
caratteri umani (Gorgia, Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche
l'accorgimento dell'inganno o dell'illusione seducente (cfr. fr. 105, III
Arnim), sapendo con opportunità (eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (fr.
122, III Arnim), prende un suo carattere preciso in quanto serva a porre ordine
e composizione (croveaL(i, syncsis) nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot,
cuagoghia) politica, cioè sociale (fr. 102, III Arnim). Retorica e politica
venneno, in tal modo, a coincidere in funzione della costituzione di un
rapporto umano che fosse rapporto razionale, simile all'ordinarsi necessario di
un discorso, in una misura per cui ciascuno si ponga là dove è bene che sia,
come lè parole in una strut- tura grammaticale e sintattica. Non a caso, cos(,
sembra che tra i pen- satori greci, suoi contemporanei, Catone il Censore
avesse, accanto all'ideale del Socrate senofonteo, una qualche simpatia per
Diogene di Babilonia, che, d'altra parte, e anche questo sembra opportuno sottolineare,
era stato a Roma già prima della CELEBRE AMBASCIATA DEL 155 (cfr. Cicerone, De
senectute, 7, 23). La medit Stoà. Panezio. Polibio. Il diritto naturale. La ncostruzione
di Cicerone. Le lodi che Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento
che Panezio avrebbe reso realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della
virtu e della giustizia stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà, molto
poco. Sappiamo ch'egli nacque nel 180 circa, a Rodi, città in quel tempo
culturalmente attiva, politicamente legata a Roma. Uomo aperto e curioso, non
vincolato fin dal principio a una precisa scuola, non formatosi ad Atene,
sappiamo che Panezio visse a Roma parecchi anni, ch'entrò in dimestichezza con
Scipione Emiliano, che ne fu consigliere ed amico, che fu con lui ad
Alessandria e durante le campagne d'Africa, dal 146 al 142, e che divenne, in
Atene, scolarca della stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso, nel 129, proprio
all'in- domani dell'improvvisa morte di Scipione. Può darsi sia un caso, ma è
un caso che può far pensare. Panezio lasciò lo scolarcato (non si sa se anche
in quell'anno sia morto) nel 109. In effetto Panezio non fu uno stoico di scuola,
né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che avrebbe potuto giuocare su di
lui il pensiero dello stoico eretico [Nato nel 180 circa a Rodi, Panezio, amico
e discepolo di Diogene di Babilonia, visse a Roma parecchi anni, entrando in
dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu consigliere. Lo segui in
Africa e in Asia tra il 146 e il 138. Nel 129 fu nominato scolarca della Stoà,
succedendo ad Antipatro di Tarso (su Antipatro cfr. vol. 1). Lascia lo
scolarcato nel l09 e sembra sia morto in quello stesso anno. Delle sue opere,
andate perdute, si ricordano soprattutto una Sul dovere! (ITcpl wii x~o~), che
sarebbe stata scritta al tempo del suo soggiorno a Roma, ed una Sulla
provvidenza (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la fonte del De olficiis di Cicerone.
Si conoscono inoltre i seguenti titoli: Sulla tranquillità dell’animo (ITcpl
IÒ&u!l-(«ç); Sul ,Oflt!Nio (ITcpl no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl
atlp~m:(J)'\1); Di Socrate dei socratici (ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II
E(J)xpcmxwv); Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello scolarcato della Stoà, a
Panezio successe Mnesarco, del quale non sappiamo nulla se non che segui
pedissequamente il maestro. A parte Posidonio (dr. oltre) e i romani che
seguirono Panezio, un altro discepolo di Panezio, del quale occorre fare almeno
il nome, fu Ecatone di Rodi, che si occupò in particolare di problemi morali e
i cui manuali divulgativi ebbero larga diffusione. In essi si discuteva
soprattutto il pro- blema dei conflitti dei doveri, in una delineazione della
piu rigida morale stoiea e in una distinzione tra virtU teoretiche e virtU non
teoretiche, riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che non era stata certo
quella di Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio: "Secondo gli
Stoici, non v'è alcun grado intermedio tra la virtU e il vizio. Come un legno
deve essere diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o ingiusto... Ecatone,
nel secondo libro Sui beni, sostiene che la virtU è sufficiente alla
felicità... non dando alcun valore a tutto ciò che si crede possa turbarla.
Panezio e Posidonio invece sostengono che la virtU non è sufficiente, ma
occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza"
(Diogene L., VII, 127-128). Per il resto cfr. sempre Diogene Laerzio, VII,
passim. Ci sono stati tramandati i titoli delle seguenti opere di Ecatone: Sui
fini (ITcpl T&ÀW'IIi; Sui beni (ITcprciyat.&wv); Sullt! virtu (ITepl
cip&:Twv); Sul dovert! (ITcpl xat&ljxo~ ; Sulle passioni (ITcpl
ncx&ciiv); Sui paradossi (ITcpl natpct36~(J)'II); Sentt!nze (xpc't«'). Boeto
di Sidone, del quale, di fatto, non sappiamo niènte (cfr. J. F. Dobson, Boethus
of Sidon, "Classica! Quarterly," pp. 88-90), se non che avrebbe fatto
un commento ai Fenomeni di Arato (su Boeto cfr. Diogene Laerzio, VII, 54, 143,
148, 149). Anche se indirettamente, cioè al di fuori e indipendentemente dalle
dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio avrebbe risposto a Carneade,
rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso "probabilismo"
di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a suo contenuto - se non vi
fosse una presunta verità, neppure si potrebbe parlare di probabilità, di
capacità d'assu- merne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro a sé o innanzi a
sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui ciascuno, a seconda
della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso del cosiddetto pla-
tonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge del tutto - niente
affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine di realizzazione,
come dovere, cui l'uomo ~onoscendo sé, entro i limiti della propria natura,
deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu genuina natura
umana, l'istintr proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che Cicerone (sembrano
ispirati a Panezio parti- colarmente il De natura deorum e il De otficiis) e
anche altre testimo- nianze. (sia pur assai frammentarie) sottolineano come i
piu appariscenti di Panezio: da un lato un rigoroso immanentismo naturalistico,
dall'altro lato - entl'Ò i termini di quella che è la natura nella sua totalità
- il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a quella natura stessa, ciascuno a
seconda della propria natura. Sembra cos' interessante ricordare che Diogene
Laerzio (VII, 41), su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio, sottolinea
che mentre Zenone e Crisippo ponevano per prima la logica e per seconda la
fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla
fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v rpuatxwv
clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione della
fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le testimonianze
sottolineano avere Panezio ne- gato rispetto alle posizioni degli stoici
precedenti. Panezio avrebbe so- stenuto che il cosmo non muore e non invecchia,
ch'esso è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un
principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis)
periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza
(rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino:
l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept .&eou Myov (Epifanio, De
fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor., Il, 46, 118; Filone,
De aet. mundi, 76; Diogene L., VII, 142; Arnobio, Adv. nat., Il, 9; Stobeo,
Ecl., I, 20 e Il, 7). Sembre- rebbe cos' potersi riferire a Panezio, anche se
non direttamente citato, la concezione riportata da Cicerone nel De natura
deorum secondo cui natura e divinità coincidono nel senso che il divno è la
stessa ragion d'essere (L6gos) del tutto, forza vitale e organizzatrice
(egemonica), non separata dagli esseri individuali, esistente .anzi nel
costituirsi di quegli esseri, che quanto piu realizzano e conservano se stessi
(la propria natura), tanto piu realizzano e conservano l'universo mede- simo,
ché diversi tra loro per gradi, non lo sono affatto per natura. L'ordine,
quindi, e i rapporti tra le cose non sono dovuti a una "sim- patia"
delle cose tra loro né alla necessità del fato, bens1 ad una ra- zionalità che
rende pensabile e giustificabile la realtà stessa e i suoi molteplici aspetti,
e che esclude da sé sia il motivo della divinazione sia il motivo dell'anima
immortale, separata dai corpi (cfr. Cicerone, Lucullus, XXXIII·, 107; De
divinatione, l, 3, 6,. 7, 12; Il, 42, 87-47, 97; Tusc. diss., l, 32, 79-33, 80;
Diogene L., VII, 149). Piu di questo non possiamo dire della fisica di Panezio.
D'altra parte, sia il fatto che alcuni interpreti antichi hanno veduto nella
concezione fisica di Panezio una diretta influenza della concezione platonica
(va sottolineato che il riferimento è al Timeo ed è dovuto all'interpretazione
che del Timeo dà Proclo, In Plat. Timaeum, 50b), sia i continui riferimenti
delle testimonianze all'aristotelismo di Panezio, al suo essere non solo filoplatone
ma anche filoaristotele (Stoic.lnder Herc., col. 61, Com- paretti 534), avendo
Panezio sostenuto l'eternità del cosmo, sempre tutto in atto, l'unità di anima
e corpo, portano a pensare che per Panezio la realtà, tutta in atto sempre, nei
suoi aspetti molteplici, sia quella che è, in sé né buona né cattiva,
comprensibile in quanto ricondotta ad una sua universale razionalità,
rasserenante qualora appunto se ne comprenda da un lato la sua necessaria
razionalità, dall'altro lato che, entro quella stessa razionalità, ogni cosa è
là dove è bene che sia, ogni cosa attua se stessa pienamente in quanto attui la
propria natura, cioè la propria ragione, secondo le risorse che la natura ha
dato. Poiché, d'altra parte, è un fatto che all'uomo è dato rendersi conto di
ciò (tra l'uomo e la bestia vi è grandissima differenza; la bestia, solo in
quanto è stimolata dal senso, conforma le sue abitudini a ciò che è vicino e
presente, non curandosi affatto del passato e del futuro; l'uomo, invece,
poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella vede la concatenazione dei
fatti, le cause efficienti di esse e le cause occa- sionali, e ne conosce quasi
i precedenti, confronta le cose simili e con- giunge intimamente le cose future
alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita -- Cic., De
off., I, 4, 11), tale consapevolezza e comprensione è ciò che Panezio chiama
ragione di contro all'istinto e agli impulsi degli animali e alla natura
propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro aspetto, essi stessi impulsi e
natura, sono razionali. "Due sono gli elementi naturali dell'animo: l'uno
è posto nell'istinto, 35
detto dai Greci op!J.i) (hormè: impulso), che trascina l'uomo qua e là;
l'altro è posto nella ragione, che insegna e rivela all'uomo cosa si debba fare
ed evitare. È quindi vero che la ragione deve comandare e l'istinto obbedire. I
movimenti dell'animò sono di due specie e consistono nel pensiero e
nell'appetito: il pensiero si applica soprat- tutto alla ricerca del vero;
l'appetito spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero
alle cose piu grandi e di far sentire all'appetito il peso della
ragione..." (Cic., De off., I, 28, 101; l, 36, 132). Di qui,
evidentemente, l'affermazione di Diogene Laerzio che secondo Panezio due sono
le virtu: virtu teoretica e virtu pratica (VII, 92). In altri termini, insomma,
l'istinto, l'impulso sono tali in quanto non compresi; compresi, l'istinto e
l'impulso cessano di essere irrazionali, onde la razionalità - e ciò è dato
all'uomo consiste nello stesso impulso qualora sia ordinato nella
consapevolezza di quelle che sono, appunto, le risorse che la natura ci ha dato
(•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv
xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot;
d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve conservare
le proprie tendenze... Perché si possa pm facilmente conseguire quel decoro,
che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la natura
dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di quella
superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva l'onesto e
il decoro ed alla quale risale la cono- scenza del dovere": Cic., De off.,
l, 30, 107); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria natura
("come nei corpi ci sono grandi dUie- renze... cosi negli animi vi sono
varietà anche maggiori": Cic., De off., I, 30, 107), cosi che anche se le
altre ci sembrano migliori e piu impor- tanti, misuriamo alla sua regola le
nostre attitudini; non ~ opportuno in- fatti andare contro la natura e cercare
di ottenere quello che non si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia il
decoro, perché non ~ lecito far nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di
Minerva, ci~ quando la natura ~ contraria. Ma non v'è cosa piu decente della
coerenza e di tutta la vita e delle singole azioni, e non si può conservarla
se, per imitare l'altrui, trascuriamo la nostra natura... Tanta questa
differenza fra le nature umane, che talvolta per gli stessi motivi uno è
costretto a darsi la morte ~ un altro no... (Cicerone, De off., l, 31, 110-112).
Concepita la realtà come razionalmente .strutturata, strutturato ra-
zionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò per
cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio
impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'or- ganismo quanto piu
ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in
atto nei suoi organi), ne consegue che 36 l'uomo scoprendo sé come
ragione, quanto p1u vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio
dell'uomo, che ordina e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a
seconda delle proprie possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo
"natura," secondo la propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur
nell'interpretazione che ne dà Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di
Panezio sia stato quello di insistere sul fatto che nell'ordine razionale del
tutto ciascuno ha il suo giusto posto, in una specie di ordine gerarchico, per
cui da un lato ne deriva che ciascuno deve rea- lizzare sé razionalmente, cioè
misuratamente, entro i propri limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato
ne deriva anche che ciascuno deve rimanere al suo posto, al posto che natura
gli ha dato. Non a caso Cicerone, in funzione del suo ideale politico, riallacciandosi
alla idea- lizzata figura di Scipione, svilupperà particolarmente proprio
questo motivo, fino a giungere a far rientrare entro questo quadro la difesa
della proprietà privata. Se è vero che formalmente gli uomini sono tutti
uguali, perché partecipi di ragione (cfr. Leggi, l, 7-21 sgg.) e che per ciò,
formalmente, non esistono cose private per natura, è altret- tanto vero che, in
concreto, come ciascuna cosa e ciascuno nell'ordine del tutto è distribuito al
suo posto, cosi ciascuno ha il diritto a ciò che gli è toccato in sorte. Come
il primo dovere della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è
provocati da ingiuria, cosf dovere della giustizia è di usare delle cose comuni
e delle cose private come proprie. Non vi sono però cose private per natura, ma
per antico possesso... Tuttavia, poiché quei beni comuni per natura diventano
di proprietà privata, ognuno si tenga ciò che ebbe in sorte; se poi qualcuno
desidererà per sé l'altrui, violerà il diritto ddl'umana società (Cicerone, De
officiis, l, 7, 20-21). L'uomo di Stato dovrà soprattutto badare che ciascuno
conservi il suo e che la pro- prietà pri\>ata non sia diminuita da parte
dello Stato..._, L'eguagliamento delle fortune è la' peggiore delle pesti. Gli
Stati furono costituiti e le comunità cittadine furono ordinate appunto perché
ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli uomini infatti, sebbene siano spinti
per istinto natu- rale ad unirsi fra di loro, cercano la difesa delle città
nella speranza di conservare i loro beni (Cic., De off., Il, 21, 73). Certo,
nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro l'ordine del tutto
sia entro le società specchio della politéia cosmica (l'argo- mento platonico
anche se con frase stoica è particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi:
"Questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi
ed agli uomi~i": Leggi, I, 7, 23) si veniva delineando lo scioglimento del
rigido motivo stoico dell'ordine dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel
tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé,
un proprio dovere, che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la
comune ra- gione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si
pone da un lato come realizzazione della ragione propria di ciascuno e,
dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf
che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un
ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli
uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel
linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore
verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi
motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla
vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i
figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere... Né invero è
piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa cono- scere
cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non
v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose
visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste pro- prietà
dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la
bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano
atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia
o si pensi a capriccio... (De off., l, 4, 12-14). Di qui il concetto,
sviluppato da Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della
società come ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come
rapporto di interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida,
realizzante la universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello
Stoicismo, il virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente
attua il dovere asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte,
se nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che
idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo
posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi
il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli
compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a
quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione
con- siste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso
che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci .lo chiamano
xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano
xcx&;jxov. E cosf 38 definiscono questi doveri, in modo da
stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere
comune .quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo
Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una
deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella
quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare
poi ed esaminare se l'ar- gomento preso in considerazione possa arrecare o no
le comodità e le gio- condità della vita, gli averi, il benessere, il credito e
il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale
deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando
ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci
trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro
animo vacilli nel pren- dere una decisione e rimanga perplesso fra opposti
pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva
seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo
mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé1
(cognitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov,
prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era
possibile, nella realiz- zazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso
ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre ilcomplesso
·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in
cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di
volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito civile,
che va dai rapporti sociali 1 (De of J., I, 7-34) all’educazione, dal modo di
vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37), al decoro
delle abitazioni (1, 39) e cosi via;
dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo
bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere, estetica-
mente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi- sura.
"Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste
il decoro, che i n greco si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off., l, 27,
93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore
aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire
benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rap- porto di equilibrio e
di rispetto, in cui sta l'humanitas e la charitas generis humani: charitas,
cioè rapporto di decoro, che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto
di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto
dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è
anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che
spiegare. Qualunque 39 cosa
infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si
manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che
costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assen- natezza e
prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero...
La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime
sembrano decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le
parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di
astrazione, ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che
si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in
teoria che in pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un
decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo
subordinato, che riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi
definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in
quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi,
invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è
consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e
temperanza ed una certa nobiltà... A noi la na- tura stessa ha assegnato una
parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e
perciò, dalla natura stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza,
della moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il
modo di comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia
l'estensione del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare.
Come infatti là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle:.membra
attira gli sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in
leggiadra armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione
di quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli
atti e dei fatti. Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli
uomini migliori, ma anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal
decoro, deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed
alla conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non
potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza...
(Cic., De off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato,
di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un
organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate
e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei
confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto
volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale
modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici,
particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del
Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della
Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione
40 di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di
realiz- zazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quel-
l'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il
proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza mo- rale di certo
stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del
conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un
loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con
temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è
povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato
i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle
classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della
temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma
anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le
sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si
potessero sfruttare- le indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu
etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come
un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale
negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar
significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo
stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui
tutto si scandisce: la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di
uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di
cia- scuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in
tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o
classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola
Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo,
l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e
alla legge universali, in nome della comune umanità razio- nale, per cui tutti
gli uomini sono uguali, quando si era venuta formu- lando e!ltrO l'àmbito della
prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere
politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali
delle Città-Stato, quali in par- ticolare si erano venute determinando dopo la
morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva
avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in
quanto costru- zione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione
della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello
formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini,
invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione
universale, che non esistono a sé, ma nel co-
41 stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è
bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale
assume una venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti, per
natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso
dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, di- verso
dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da
natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno
non può non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là
dove deve essere, po- tendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto,
nel rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto
dell'ordine costi- tuito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la
conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A
tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio,
dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella
Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo,
costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le
altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico
Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione
politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi
paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo
nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa,
sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni
religiose (come malinconica- mente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle
singole situazioni poli- tiche delle città greche, condizione della possibile
realizzazione dell'ar- monia delle genti ed internamente ad ogni stato
dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto Panezio
abbiano esal- tato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e che
Polibio, rifa- cendosi al motivo dicearchiano della "politèia" mista,
ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica romana,
mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da Sci-
pione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e della
Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome della f
Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno dei capi
della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio
venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della casa degli
Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e consigliere di
lui, Polibio accom- pagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie spedizioni: sia
in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine (146), sia in quella
contro Numanzio (134). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per una caduta da
cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt, che vuole
essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI, 5, 58), libertà
della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella
storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato
quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e
divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua
Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui
fatti, •pragma- tica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto stolto o pigro
da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i
Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza precedenti
ndla storia, abbiano conqui- stato quasi tutta la terra abitata? (I, l). Il
carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto piu
straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte rivolse
in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le
costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per
i lettori in una uni- taria visione d'insieme il vario operato con cui la
fortuna portò a compimento le cose dd mondo (I, 4). E nel VI libro si legge:
Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma sottomettere
e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si inchinino ai
suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani è
inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi ba- stano a provare
la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano [al tempo
ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. Il
loro potere era cosi ben diviso e distri- buito, che neppure i Romani avrebbero
potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico,
democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il
potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica,
valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno
inqne avesse consi- derato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo
Stato romano democratico. Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi
della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora .ai nOstri
giorni, sono le stesse (VI, 11). Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben
congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella
romana. Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i
Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto. potere,
che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi,
cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione
razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda
conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia. 43 necessario e i provvedimenti
non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e
collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i Romani sono
insuperabili e che la. loro costituzione è per- fetta sotto tutti i riguardi.
Quando poi, liberati dai timori esterni, essi go- dono del benessere seguito ai
loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità,
come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia,
subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se
difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in
confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente
come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e
controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di
propria iniziativa... (VI, 18). Non va ora scordato che questi testi del VI
libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio
alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e
ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10).
Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della
naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un t6pos
("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri
filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la monarchia
la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge
l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa
avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella
oclocrazia (potere della plebe). La moltitudine, abituata a consumare i beni
altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e
ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la
violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a
quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca"
(VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç,
politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano,
deca- dono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista sembra che la
costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna
delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in essa la piu
alta forma di demo- crazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine
dello stato costi- tuito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati,
sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in
XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per un certo tempo,
salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e
popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è
presente in Polibio la lotta condotta da Scipione con- tro Tiberio
Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche,
attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere
recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che
rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustificava
la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. La
repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione è cosa del popolo
(res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito
in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata per accordo
nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima causa poi di
siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto
associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ nella
solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di
abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo po- trebbe rimanere isolato1.
Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa
natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché
rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la
società... Tutta la popolazione, che è costituita da un rag- gruppamento di
gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato
che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente,
onde essere duraturo. Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa
è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.1Da questa suole sorgere
il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello
popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che
già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e
delle vicissitudini negli ordina- menti politici; è proprio del filosofo
conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al
governo dello Stato, moderan- done il corso e mantenendolo in propria potestà,
questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento
pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento,
moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1che ho
men- zionati per primi (Cic., De rep., l, 25, 26, 29). Il circolo sembra cosr
chiudersi. Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di
motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la
visione di un tutto razionalmente ordi- nato, ove ogni cosa è là dove deve
essere, dove è giusto che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di
un'azione politica, il tentativo di un ordi- namento dello Stato, che trova il
suo fondamento e la sua giustifica- zione, la sua legalità, nello stesso ordine
universale, nell'ordine natu- rale, che, in quanto a tutti comune, per la
comune razionalità, se for- malmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto,
in nome del diritto naturale, del vinculum iuris e della
giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per
natura e, dunque, per legge. Entro questi termini si vede bene; da parte
romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che
il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la
sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di
modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto coincidesse.
Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine costituito,
rovesciare la respublica, venendo meno alla giusti· zia e al diritto stesso, su
cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e della sua classe
dirigente in funzione dello ius gentium. "Il consolidamento del territorio
o della giurisdizione di una na- zione, specialmente quando comprende tribu o
distretti confinanti, non può non far sorgere contemporaneamente la questione
dei rapporti tra legge nazionale e legge delle tribu o dei distretti: e la
risposta non può essere rimandata a lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune'
deve sorgere per rispondere a questa pratica necessità, e il contenuto effet-
tuale di questo sistema dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando
la necessità compare... Roma incontrò questo problema nei primi tempi,
relativamente, della sua storia giuridica, quando l'in- fluenza della filosofia
politica greca era forte e il diritto romano ancora malleabile, e anzi piu
suScettibile di influenze esterne di quanto non divenne piu tardi, dopo che le
sue leggi si furono sviluppate e fissate in una tecnica tanto esigente da
richiedere uno studio che escludeva necessariamente gli altri rami del sapere.
Avvenne cosi che i primi giuristi romani poterono - e lo fecero, in effetti -
fondere i principi filosofici greci con le leggi locali della penisola italica,
per formare il loro nascente sistema giuridico; e per alcuni di essi questa
fusione può avere gradualmente ·preso la forma di una identificazione piu o
meno completa dello ius gentium - un sistema 'comune' distillato in pratica
dalle varie leggi locali di Roma.e delle vicine tribu da ultime assogget- tate
- con lo ius naturale che la filosofia stoica aveva insegnato a consi- derare
come un sistema 'comune' a tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero
politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo, trad. it., Venezia, 1959, pp.
136-37). Il motivo del diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da
fondamento e da giustificazione per l'azione politica della classe diri- gente
senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione
Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto
al tempo di Cicerone, quale giustificazione della posizione assunta dalla classe
degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della
legge razionale su cui si scan- disce il tutto) a giustificare la
conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere
quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica
di Cicerone. Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della
concezione paneziana, retori- camente espressa volta a volta a seconda di certe
situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della
"res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi
platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per
Cesare e la sua avversione per gli epi- curei, la cui filosofia, egli arriva a
dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge
(De finibus, II, lO, 30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto
aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava
non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un
ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razio- nalità è
conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rie- laborazione del
concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il
motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante,
Crisippo, Panezio) vien data del di- ritto naturale da Cicerone: lucidissima
formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di
discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una
precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che
non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente,
non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che
non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno
(Massime Capitali, XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma
solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un
accordo di non recare né di ricevere danno (Mass. Cap., XXXIII). L'ingiustizia
non è di per sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non
poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass.
Cap., XXXIV). Da un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti,
poiché rap- presenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista
delle parti- colarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali
segue che una medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI).
Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi contrattualistica e con-
venzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto contrattualistica e
storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente pericolose per uno Stato costituito,
che, d'altra parte, cercava giustificazione e fondamento alla propria politica
universalistica, dice. Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a
natura, diffusa tra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al
dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta
inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. A
questa legge non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né
annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal
popolo...; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma
come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo,
e un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò,
elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e,
per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se
sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono con- siderati
supplizi (Cic., De rep., III, 33). Ancora una volta, sia pur nell'affermata
uguaglianza di tutti gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da
parte di un preciso partito politico. Assumono anzi un valore non poco
indicativo certe battute iniziali de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice:
Riallacciamoci, dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella
legge suprema che è nata tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata
scritta o che un qualche Stato sia mai stato costituito... Dal momento, dunque,
che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello Stato,
la cui forma Scipione ci insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi
dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, occor- rendo anche
inserirvi i principi morali senza sancire ogni cosa .per scritto, trarrò fuori
la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta
questa discussione... (Leggi, l, 19-20). Non solo, ma altrettanto indicativo è
che alla tesi postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla
potenza, dalla ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con
qualsiasi altro termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde
discende che il tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga
la tesi epi- curea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle
cose proprie né delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: "Te
lo concedo, se me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di
acque" - il dialogo si finge svolto in campagna - "non temo che mi
senta al- cuno dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto l'uguaglianza
di tutti gli uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia
è vincolo universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già
in partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune
ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico,
infatti, la comune ragione è la Ragione universale che realizza se
stessa me- diante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve
man- tenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e
sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa
visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la
funzione cosmica (ordi- natrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si
delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in
quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere
conveniente- mente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e
che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, ri-
spetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro
quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della
formulazione della parola"della legge e della sua interpretazione, in
quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giusti- zia, o,
meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della
legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giu- stizia formale e
giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fon- damento medesimo
della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per·altro verso, studio delle
tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che fin dal principio le persone che
ruo- tarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con Polibio e con
Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo " stoicismo" e siano
state soprattutto personalità politiche, militari, oratori e giuristi, a co-
minciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C. circa), avversario dei Gracchi, detto
sapiens, per la sua prudentia politica, amico di Panezio; C. Fan- Dio, genero
di Lelio, console nel 122, anch'egli amico di Panezio, autore di Annales,
contrario alla proposta di C. Gracco di concedete la piena cittadinanza ai
Latini e i diritti dei Latini agli ltalici; Blossio di Cuma discepolo di
Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Au- gure (174 circa-87), Q. Elio Tuberone,
avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco, Sp. Mummio, vicino a Scipione e
a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q. Elio Stilone (154-dopo il 90), maestro
di Varrone e di Cicerone; per giungere a Q. Mucio Scevola Pontefice, nato nel
140 circa, morto nell'87, vittima delle lotte civili, celebre per la sua giu-
stizia, giurista di grande valore, autore di libri XV/Il iuris civilis, in cui
cercò di dare un fondamento al diritto, e di un'opera intitolata "Opo~
(H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di concetti giuridici e di rapporti
giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli giurista, discepolo di Q. Mucio
Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al quale Cice- rone assegna nel De
natura deorum il compito di esporre le conce- zioni stoiche sul divino; a M.
Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti- giano di Pompeo, ucciso
dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Vale- rio Sorano; al celebre Catone
Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da Pergamo, segui
Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro. Cicerone definl
Catone stoico com- piuto, soprattutto per la sua dirittura e constantia
sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla libertas
romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C., si tolse la vita. II suo
suicidio è rima- sto un topos della letteratura stoica e della teorizzazione
del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra abbia discusso
con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55 sgg.). 4. Posidonio. Le sctenze.
Ipparco di Nicea È stato detto che il gran merito di Posidonio di Apamea,'1
scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51 a. C., "fu di raggruppare,
in modo piu completo di chiunque altro, la massa di credenze che dominavano lo
spirito degli uomini, dando ad esse una forma singolare ed elo- .quente. II
vasto insieme dei suoi scritti esprime con una.pienezza unica Io spirito
generale del mondo greco all'inizio dell'èra cristiana: egli concentrò questo.
spirito e lo rese consapevole. È per questa ragione che, in seguito, gli
scrittori che si occuparono di teologia, di filosofia, ·di geografia o di
scienze naturali, considerarono Posidonio come la fonte piu abbondante e piu
facilmente accessibile a cui attingere. Egli li Posidonio, nato sul 135 a. C. ad
Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la patria, dilaniata da lotte
intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita delle città greco- siriache.
Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora diretta da Panezio.
Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò Atene. Si
mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Dal 95 a.C.
circa fissò la sua dimora in Rodi, ove,·divenuto celebre per la sua cultura, il
suo insegnamento, le sue ricerche scien- tifiche e storiche, fu fatto cittadino
onorario della città, occupandone anche la pritania. Ambasciatore a Roma
sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne visitato dalle mag- giori
personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo, e Cicerone si recò
apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa. Delle moltissime
opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli traman- dati: Fisica
{~cnxòç ).6yoçl; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OUl; Sugli dèi (IIe:pt &t:wvl;
Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl à(XLI'6116l\ll; Sul fato
(IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione” (IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima”
(IIcpl ~U)('ijt;l; Introduzione al lin- guaggio (E!a(XyCilyi) ncpl
>Jl;t:Cilç l ; Contro Ermagora {Upòt; 'Epi'(Xy6p(X11 l ; Srtl cri- terio
(IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl 7rot&wv l; Dottrina del
carattere (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; “Sulle virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l;
Etica ('Hihxòc;;~·Myoc;l; Protrepttci (IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu
xcx&Tjxo\ITOc;l; Esege# del Timeo di Platone ('E~iJY1JaLç TOU
IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l ; Sulle meteore (IIe:pl !.I.ETC6lp6l11 l ;
St<lla gran- dezza del Sole {Ilcpl TOU 'H).(ou l'cyi&ouc;l; Su Zmone
(IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul ;Oltre Polibio (TIZ I'CTii
Ilo).(~L0\1l ; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l ; Lettere ('E7rLCJTOì.r&t l-
50 univa i vantaggi di uno stile attraente e colorito a quelli di
una enci- clopedia" (E. Bevan, Stoics and Sceptics, Oxford, 1913}. D'altra
parte, si è anche detto, il fatto che il nucleo degli scritti di Posidonio
fosse tratto dalla filosofia corrente delle scuole e dalle credenze popolari
accresce la difficoltà che sorge quando si cerca di attribuirgli con sicu-
rezza molte idee che ritroviamo presso scrittori a lui posteriori. "Que- ste
idee possono infatti essere giunte a questi scrittori attraverso la mediazione
di altri" (Bevan, cit.). Senza dubbio dietro molte cogni- zioni di
Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di Filone l'Ebreo, di Strabone, di
Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono anche quei molti manualetti di
filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico, che sappiamo circolare nel 1
secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi comuni, di sentenze
correnti, di detti popolari. Impossibile rico- struire attraverso le fonti una
posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché a seconda delle fonti
usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso dall'altro; tuttavia mediante
quelle fonti stesse, cri- ticamente vagliate, è possibile cogliere un Posidonio
volto, piu che a costruzioni astratte, a raccogliere dati, descrivere e
catalogare fenomeni, a rendersi conto e a rendere conto di quei dati e di quei·
fenomeni stessi, dai normali agli anormali all'osservazione, si tratti di
fenomeni fisici o di fenomeni cosiddetti psichici, o di fatti storici, in un
tenta- tivo, sembra, di dare una spiegazione integrale dell'universo o, com'è
stato detto, di "rendere l'universo familiare agli uomini." Già un
primo sguardo ai testi da cui si traggono le testimonianze su Posidonio o entro
cui si trovano citazioni da Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli
interessi di lui in campi molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che
Posidonio servi da fonte e da informazione a uomini di culture diverse e mossi
da interessi diversi. Chi si limi- tasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un
Posidonio studioso di questioni morali e sociali; chi si limitasse a Galeno
avrebbe un Posidonio stu- dioso di fenomeni psichici; chi si limitasse a
Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore
di fenomeni naturali, geometrici, astronomici, astrologici, geografici,
storici; chi si limitasse a Cicerone e a Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio
assai vicino a un Cleante e a un Crisippo, particolarmente in fisica. Abbiamo
citato solo alcuni nomi di autori dalle cui opere è possi- bile trarre
informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai indi- cativi per mostrare
da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana e, dall'altro lato,
l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o ad altra precisa
dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe fonti, da cui sem-
bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta tra un 51 principio positivo e attivo e
un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo presente
l'origine orientale, siriaca di Posi- donio, ha fatto di Posidonio un mistico,
legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti," che di
contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe
inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come
starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo
stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico,
negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non
sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono
stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché
"scienti- fici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando
precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione
di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale,
dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro Panezio,
riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il pneuma
diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~<nLV ot1Y.(j) .ro
n<iv cfr. Arnim, II, fr. 473). Posidonio, ancm:a di contro a Panezio,
avrebbe ripreso la tesi della ciclicità del tutto i cui termini estremi,
toccantisi, sono dovuti alla conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui
l'universo, che si scandisce per degradazione nelle due zone del razionale e
del- l'irrazionale (aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare
o terrestre e mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le
anime umane - nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle
ricostruzioni dello Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando
tutte le fonti, appare l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di
Posidonio, in cui mentre da un lato .sarebbero penetrati motivi mistici e
irrazionali di provenienza orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero
stati spie- gati da Posidonio, al di là delle tesi propriamente stoiche,
mediante la concezione aristotelica dell'universo distinto nelle due zone,
celeste e sublunare, e la concezione platonica dei due aspetti dell'anima, la
razionale e l'irrazionale, in una conseguente ripresa del dualismo pla- tonico,
proprio del Timeo (sembra che Posidonio abbia scritto un commento ·al Timeo)
nella tensione tra Intelligenza e Necessità. Posido- nio, dunque, avrebbe posto
a fondamento del tutto due principi attivo l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo
l'altro (~ò n«oxov, tò paschon), in quanto materia sostanziale non avente
alcuna qualità (Diogene L., VII, 134). "La materia e sostanza di tutto,
Posidonio disse che è senza qualità e senza forma, non avente né una forma
distinta per sé né una qualità in sé" (Doxographi Graeci, p. 458, 811).
L'altro principio, il principio attivo o divino, è alito caldo, pneuf!Ja e
fuoco, forza vitale che, pur senza forma, si diffonde e dà forma alla materia
informe, esso l6gos dando a tutti una ragione, una propria ragion d'essere.
"Dice Posidonio : .&&6c; la-rL 7tV&:U(.Lot vo&:pòv 8L~xov
8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio è alito razionale diffuso per tutta la
materia" (Commenta Lucani, ed. H. Husener, ad. v. 578, p. 305). Ne
discende che la realtà qual è scaturisCe nelle sue qualificazioni, cominciando
dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), dalla tensione tra il principio
attivo e quello pas- sivo in una gradazione che va dal superorganico
(l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino, inesistente in sé
quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico, dal razionale (di
cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite, al corpo, come
termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. Di qui la distinzione
tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo, cor- ruttibile,
già oltre la natura e sottoposto al fato. "Dice Posidonio che il fato è
terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il fato"
(Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto mancanza di
organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim- patia") è
propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto corpo,
impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo aspetto
dell'anima irrazionale). Le passioni non sono, quindi, dovute ad un errore di
giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto altrettanto reale
dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità (anima razionale),
mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò facendosi specchio
di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma che si dif- fonde e
si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. Animato il tutto per la
razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il tutto si diffonde
sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo come nesso tra
l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il principio divino,
vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi intermediari. Secondo certi
stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria è tutta piena di anime,
venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano agli uomini sogni e
presagi" (in Diogene L., VIII, 32). E tale tesi è da Cicerone (De
divinatione, l, 64) attribuita a Posidonio. Di qui, sembra, il motivo
posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il
significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi,
attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario
Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati
Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza
dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio, 53 si capisce d'altra parte
com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti dello stoicismo
primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" - secondo Diogene
Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi, innanzi tutto la
fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda l'"etica,"
soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle passioni,
dell'irrazionale e del male, del fato, che sono propri della natura umana, ad
essa radicati e che si risolvono solo, platonicamente, in un controllo delle
passioni, in una sapiente misura, per cui è possibile da parte di chi sa, di
chi ha com- preso e studiato le umane passioni e gli umani caratteri,
un'educazione dell'anima, mediante l'indicazione di un ordinamento delle
passioni stesse, in cui consiste la razionalità, in un amore di sé come
armonia, specchio dell'armonia del tutto, che diviene ad un tempo amore degli
altri, in quanto tutti, cose e uomini, sono come organi di un solo orga- nismo
(dr. in particolare, per l'analisi delle passioni e per la loro terapia,
Galeno, De plac. Hipp. 6t Plat., libri IV e V). Sotto questo aspetto, la
funzione del filosofo, in quanto saggio, è d'essere educatore e, per ciò
stesso, socialmente e politicamente impegnato. Molti piu frammenti e
testimonianze abbiamo relativamente alle ricerche ed alle scoperte scientifiche
di Posidonio. Innanzi tutto sap- piamo che gran parte delle sue descrizioni di
fenomeni, dei suoi cal- coli, delle sue dottrine, sono dovuti a osservazioni
dirette, a minuziose raccolte di dati, opportunamente vagliati e non solo
catalogati. Sap- piamo altres1 che Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città
greca sull'Oronte, fondata un secolo e mezzo circa prima della sua nascita),
abbandonò ancora giovane la patria, dilaniata da lotte intestine, da guerre tra
città e città, nella corsa al potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della
oramai distrutta casa seleucida. Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del
suo disprezzo per la vita molle delle città grcco- siriache e per la
"miserabile farsa delle loro operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.).
Da Apamea Posidonio venne ad Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel
115 a. C. Dopo la morte di Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa
settentrionale fino alle colonne d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi
proprt occhi calare il sole di là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5,
138; che vide alberi popolati di scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita
l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi barbari vide teste umane appese
alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5, 198); e, sempre spinto dalla sua
curio- sità e dall'esigenza delle sue ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden-
tale conquistato e ordinato da Roma. Da circa il 95 a. C. in poi fissò la sua
dimora in Rodi, la patria di Panezio, ove scrisse le sue opere, insegnò,
divenne celebre, cittadino onorario di Rodi, di cui occupò 54
anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a Roma, visitato dai
romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o che da lui
veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone. Sono tutti
dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era scolarca della
Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di professione, non fu
scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò molto, raccolse u n
notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con un partito, né fu
cliente, tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città rimasta piu libera del
mondo dominato da Roma. Il complesso delle sue ricerche e delle sue
osservazioni lo portarono non solo a raccogliere e a descrivere un materiale di
prim'ordine in tutti i campi delle scienze naturali (astronomia, meteorologia,
geo- grafia), ma anche a formulare teorie che furono fondamentali per ulteriori
ricerche e che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo proprio dei
precedenti grandi ricercatori di Alessandria. In astro- nomia, Posidonio,
riallacciandosi alla misurazione del diametro del sole ottenuta da Aristarco e
migliorata da lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di Archimede, giunse
a dare la misura del diametro del sole e della distanza di esso dalla terra che
piu si approssima alle misure calcolate oggi, spiegando anche perché il sole
appare piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel cielo aperto (cfr.
Plinio, Nat. ·hist., II, 85; VI, 57), mentre descriveva il fenomeno della
rifrazione atmo- sferica (cfr. Cleomede, Sul moto circolare dei corpi celesti),
Posidonio poi, rifacendosi all'analisi che delle maree avevano dato Eratostene
e Seleuco di Seleucia, mediante osservazioni proprie, fatte dalle coste della
Spagna atlantica, sostenne che le maree sono dovute agli sposta- menti della
luna, descrivendo, per primo, i tre periodi delle maree: alta e bassa marea
quotidiana; alta e bassa marea mensile; alta e bassa marea annuale. Il fenomeno
è, secondo Posidonio, dovuto all'influenza della luna e degli altri astri sulla
terra, entro l'ambito della simpatia universale. Celebri furono anche le
descrizioni e catalogazioni, meto- dicamente effettuate da Posidonio, dei
fenomeni sismici, ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante l'ipotesi che i
movimenti terrestri fos- sero dovuti all'aria circolante nelle cavità
sotterranee, e la descrizione della formazione delle comete. Si è detto,
infine, che Posidonio è stato il fondatore dell'"etnologia." In effetto,
Posidonio, rifacendosi a de- scrizioni di popoli date da Erodoto e da Polibio,
alle analisi dei carat- teri umani e dei popoli di certi testi ippocratici,
mediante osservazioni proprie, ha cercato di determinare i caratteri fisici e i
tratti psicologici di ciascun popolo, spiegando tale rapporto psico-fisico con
l'influenza dei climi. Egli ha cosi nettamente distinto ·i popoli europei del
nord 55 dai popoli europei
del bacino mediterraneo. Ha sottolineato che i popoli del nord e quelli delle
zone tropicali, gli uni per il troppo freddo, gli altri per il troppo caldo,
hanno intelligenza ottusa, mentre i popoli che vivono in clima temperato hanno
intelligenza vivace, e in loro prende il sopravvento il l6gos, la razionalità,
fonte di civiltà e di equilibrio. Ogni natura (piante, animali, uomini) si
determina qual è nel suo luogo naturale, ma quando viene trasportata in altra
regione si adatta poco a poco ai caratteri del nuovo ambiente, finché ne assume
la natura propria. Abbiamo, non a caso, citato il nome di Archimede (cfr.
sopra, I vol.) e il nome di Ipparco. Ipparco di Nicea, in Bitinia, nacque
intorno al 180, mori nel 125, visse ad Alessandria e a Rodi, dove compf la
maggior parte delle sue osservazioni. Non è qui il luogo per descri- vere le
scoperte di Ipparco e i suoi calcoli. Basti ricordare ch'egli ottenne la
possibilità di determinare la posizione delle stelle (calcolò la posizione di
circa 800 stelle) e di farne un catalogo, appurandone la grandezza a seconda
della loro luminosità, calcolando la loro longi- tudine e latitudine, mediante
processi matematici, per i quali, usando pratiche babilonesi, determinò i
fondamenti della trigonometria. Posto un circolo, egli lo divise in 36 gradi,
ogni grado in 60 minuti e cia- scun minuto in sessanta secondi. " Dividendo
poi il diametro in 120 parti, Ipparco cercò di calcolare, con procedimenti
teorici, di cui troviamo l'applicazione in Tolomeo, e non con semplici
approssima- zioni pratiche, il valore delle corde in rapporto a queste parti
del diametro. Non solo, ma per rendere piu comodi e piu rapidi i calcoli
astronomici nei quali dovevano essere utilizzati i diversi valori delle corde,
ne stabiH una vera 'tavola' cominciando da un angolo di una metà dì grado e
successivamente procedendo per metà di grado. Si vede di quale aiuto poteva
essere una tale tavola, e quale ·precisione un simile procedimento
trigonometrico dava alla espressione matema- tica delle osservazioni
astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an- tiquité, in Histoire de la
Science, a cura di M. Daumas, Parigi, p. 266). Su questa base scaturisce il
tentativo di Ipparco di applicare le costruzioni geometriche alla realtà
concreta dei fenomeni osservati. Solo dopo la piu attenta .osservazione del
movimento di ciascun astro, delle sue eccezioni, della sua grandezza e periodo,
per cui Ipparco, oltre la tavola trigonometrica, si costruf degli strumenti
nuovi (per la misura del diametro apparente del sole e della luna, costruf uno
stru- mento migliore di quello che s'era fatto Archimede, in quanto munito oltre
che di un punto visivo mobile, di un punto visivo fisso con cui con esattezza
si otteneva il dia~etro angolare dell'astro), è possibile passare alla
costruzione geometrica che renda ragione delle apparenze. 56
Ipparco cosi, studiando il sole, dimostrò per via di misurazione la ine-
guaglianza delle stagioni, mediante gli eccentrici e gli epicicli, deter-
minando la posizione del sole per ogni giorno dell'anno, giungendo quindi a
formulare la celebre teoria della "precessione degli equinozi."
Ipparco, infine, sempre sul piano del calcolo e della misurazione con- tinuò
l'opera geografico-matematica di Eratostene, sviluppando l'uso delle coordinate
geografiche, cioè introducendo paralleli e meridiani, indicando cosi le regole
geometriche mediante cui è possibile disegnare carte piane del cielo e della
terra. Sembra che per la rappresentazione del cielo abbia proposto una
proiezione stereografica e per quella della terra una proiezione ortografica
(cfr. Brunet, cit., p. 273). A parte i risulçati di Ipparco, ciò che
soprattutto interessa sotto- lineare qui è il tipo della sua ricerca, che, sul
piano di un Archimede, di un Eratostene, sul piano di quella ch'era divenuta la
ricerca propria dei "filosofi" di Alessandria"',
indipendentemente da pregiudiziali teo- logiche, da costruzioni già date
"a priori," si fonda sull'osservazione sperimentale, e, attraverso
questa, senza rimanere preso dalla pura enumerazione dei fenomeni, vien
determinando una teoria, che serva a rendere ragione dei fenomeni osservati,
attraverso il calcolo e la misura- zione matematica (che assumono il valore di
strumento, si come gli strumenti veri e propri che servono per quelle
misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è esempio il nuovo astrolabio
inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come abbiamo detto, colpisce
particolarmente chi studia come si sono costituite le scienze dei primi
"filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un Archimede, un
lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione diretta e allo
studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca, che diviene
scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse limitazioni,
dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni medesime, è l'allon-
tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati discepoli di
Aristotele, che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per il peri- colo
sempre implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone si era
mantenuto sul piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia
intesa come teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati,
sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere.
Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente
Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla
catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso
la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano
concretamente a spiegare in unità una molteplicità di fatti. Tutto ciò,
naturalmente, era pio facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna
scienza di trovare 57 le
condizioni dell'una e dell'altra. Piu difficile lo fu per ·la fisica e particolarmente
per l'astronomia. L'astronomia, e per altro verso la fisica, dopo Platone - si
pensi in special modo alla soluzione del Timeo, delle Leggi e dell'Epinomide, e
all'importanza politica ch'ebbe per Platone quella soluzione - andò ·a cozzare
contro il motivo (d'altra parte ripreso da Aristotele) del movimento circolare
e uni- forme dei cieli. Con esso, che, in quanto movimento perfetto e razio-
nale, veniva identificato con la divinità, entrava in contrasto il rispetto dei
fatti e diveniva estremamente astratta la riduzione della fisica e dell'astronomia
a teologia, ché la soluzione geometrico-matematica dei fenomeni (la
"salvazione dei fenomeni") correva il rischio di passare da strumento
esplicativo a costruzione per sé stante entro cui, poi, dovevano essere
costretti i fenomeni. I termini del contrasto si vedono bene quando si pensi
all'accanto- namento della teologia operato in Alessandria dagli
"istorici" e poi, andando oltre essi, dai "filosofi" che
usarono la matematica e la geo- metria come strumenti esplicativi dei dati Bsservati
e sperimentati, finché alla loro volta in altri ambienti (sempre per sottintese
esigenze politiche) quelle ipotesi geometrico-matematiche tornarono ad avere la
funzione che avevano assunto in Platone e in Aristotele, definitiva- mente
teologizzando la filosofia. Per altro verso, tale contrasto si vede bene
allorché si dia il debito peso alla polemica di Epicuro e all'ipotesi della
struttura dell'universo costituito di atomi e di semi vitali, e al
"casuale" incontro di quegli atomi, ove la razionalità non è piu un
dato, una forma per sé, ma una conquista. Sia pur giungendo a solu- zioni
diverse - a parte la componente del primo scetticismo .e della seconda
Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il motivo della
"simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi- tuzione di una
fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe esperienze
religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in ambienti
popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. · Ora, una piuttosto
ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo d'indagine
proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni, uso .di
certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione dei
dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze
irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori
dell'usuale. Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di
rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo
stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è
possibile pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi
non qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma" : da un
lato urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla
tensione dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde
l'ordine e la razionalità non son presupposti, "forme," ma si
costituiscono nella stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la misura
e la razionalità sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e la
saggezza, e dove la religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere
dalle forze irrazionali (documentate dall'esperienza, testimoniate dalle
tradizioni religiose popolari, dai misteri) dall'altro lato nell'operare,
mediante il l6gos, su quelle forze, costituendo un'armonia che è la stessa
razio- nalità. Giuoco di forze l'universo, giuoco di forze l'uomo; il l6gos,
che è soffio vitale (pneuma), scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella
con-passione (simpatia) dell'una e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi
dell'una e dell'altra cosa, dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le
reciproche influenze e simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad
esempio, le maree dovute alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le
anime (pnéumata) che per gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. Sembra, cosi,
chiaro come per Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti
della natura e dei fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto
consapevolezza dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è
possibile rendere "familiare l'universo," dall'altra parte, entro un
tale universo familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare
all'uomo, operando sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una
testimonianza preziosa di Seneca (Lettere a Lucilio, XIV, 90). Seneca discute e
critica la tesi posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver
"portato un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc., 90, 6-7),
non può ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività,
che mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche,
che naturalmente modifi- cano e trasformano la natura in funzione del benessere
umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle
tecniche per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case
riscaldate, comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. "Non posso
concedere a Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né
saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili. La sapienza sta piu in alto, non
delle mani maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet,
animorum magistra est)" (Lett. a Luc., 90, 7, 25-26). Nella polemica di
Seneca - e si vedranno le ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito
liberatore, il compito di purificare l'anima, di curarla, per condurla alla
contemplazione del divino, in un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi
l'atteggiamento proprio di Posi-
59 donio, anche nel campo piu strettamente politico, ché,
appunto, anche la politica è saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè capacità
da parte del saggio di costituire, di creare un ordine tra le passioni, in un
equilibrio che è conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad un tempo,
giustizia. Sappiamo, ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato Posidonio a
Rodi e che con Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da inviar- gli la
Storia del proprio consolato, perché il grande storico la usasse per la sua
opera (può essere abbastanza sintomatico che la richiesta di Cicerone sia
rimasta senza risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati, delle singole
dottrine scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi posidoniana
relativa all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in funzione della
cultura enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la formazione
dell'oratore (cfr. particolarmente, De Oratore, III, 55 sgg., 57, 61, 87 sgg.).
Anche; tale deviazione ciceroniana è piuttosto indicativa, come lo è il
fattiféhe, appunto, il successo che ebbe Posi- donio nel futuro della cultura
fu dovuto essenzialmente alla mèsse di notizie, di dati, di istorie, che si sono
ritrovate in lui, usato soprat- tutto come una specie di enciclopedia del
sapere. Sembra, infine, che Posidonio, sottolineando i rapporti intercorrenti
degli oggetti che scaturiscono dalla tensione tra i due principi nell'or-
ganarsi delle cose sotto la spinta del l6gos, del pneuma, abbia da un lato
giustificato sul piano di un'ipotesi le possibili influenze dell'una stella
sull'altra e delle stelle e degli astri sulla terra e sulle cose della terra,
ivi compreso l'uomo (astrologia); dall'altro lato, posto che per gradi di
affievolimento, non giungendo il 16gos a tutto, vi è una zona che rimane come
abbandonata a sé, pura quanticl, abbia con ciò giu- stificato non solo le
passioni e il caso, ma anche indicato la possibilicl di operare, mediante .il
16gos umano, su quella zona, qualificando certe cose, cioè trasformando il loro
primigenio aspetto in altro. Posi- donio, pare, giustificava cosf tutta una
serie di esperienze che aveva determinato la tradizione astrologica (di
provenienza caldaica) e tutta un'altra serie di esperienze che, pur rifacendosi
all'astrologia, si era delineata per un verso nella fiducia di costituire delle
tecniche mediante cui con la natura trasformare la natura (alchimia, magia), e
per altro verso operando su certe cose, in rapporto diretto con una o altra
influenza stellare, influire sulle stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli
dèi (magia astrologica). Anche se, indirettamente, alcune testimonianze hanno
fatto pen- sare che Posidonio abbia raccolto del materiale intorno alla storia
della magia e abbia descritto esperienze magiche, e abbia inoltre composto una
specie di storia dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto
60 distinta dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale,
cÒmunque, sostiene che tra gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli
"astro- logorum praedicta" (De divinat., II, 88), e il silenzio, in
merito, di fonti piu tarde, non permettono un piu lungo discorso. Ha, invece,
una sua importanza l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca
nella citata Lettera a Luci/io. Dopo avere negato che le tecniche e le
invenzioni siano frutto della filosofia e della saggezza come avrebbe voluto
Posidonio, Seneca cita Democrito: il medesimo Democrito trovò come si leviga
l'avorio, come un sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo,
come anche oggi, cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf
colorati. Ora, anche se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte
perché era un saggio (Seneca, Lettere a Lucilio, 90, 33). Cultura e
politica nell'ultima fase della Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L'avvento di
Augusto l. La Nuova Accademia: da Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stratonica
a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona. Cicerone È noto come, ancora una
volta, bisogna rifarsi a Cicerone per rico- struire, molto approssimativamente,
quello che fu il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno
e l'altro per un certo periodo della loro vita scolarchi dell'Accademia (Filone
dal 110 all'88 a. C. circa; Antioco sembra dall'87 al 68); e come, in effetto,
sia la posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro,
si possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue
intenzioni. Secondo l'Academicorum index herculanensis (XXV, l, 36; XXIV, 28;
XXIX, 39.; XXX, 5), a Carneade, ritiratosi per vecchiaia e malattia nel 137,
successero nello scolarcato dell'Accademia, prima Carneade di Polemarco, morto
nel131, poi Cratete di Tarso, al quale, morto nel 129, successe un altro
discepolo di Carneade, Clitomaco, detto Asdrubale, nato a Cartagine riel 187
circa. Carneade di Polemarco e Cratete di Tarso non sono piu che dei nomi.1
Dello stesso Clitomaco" sappiamo pochissimo. Venuto ad Atene 1 Per la vita
di Carneade cfr. I volume. Dci primi successori di Carneade sappiamo
pochissimo, in realtà solo i nomi: Carneade d i Polcmarco, scolarca dal 137 al
131; Cratctc di Tarso, scolarca dal 131 al 129; Clitomaco Asdrubale di
Cartagine, scolarca dal 129 al 11o. Sembra che Clitomaco, per un qualche
disguido con Carneade, nel 140 - nato nel 187 circa a Cartagine, aveva allora
47 anni - abbia aperto una scuola per conto suo. Ciò renderebbe conto del
perché Carneade ritiratosi dall'insegnamento nel 137, piuttosto che Clitomaco
abbia designato alla sua successione, prima Carneade di Polemarco, poi Cra-
tcte di Tarso. Solo dopo la morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco, ritenuto
il piu fedele interprete del pensiero di Carneade, poté essere nominato
scolarca dell'Accademia. Delle sue molte opere (400 secondo Diogene Laerzio,
IV, 67) non abbiamo che notizie. La piu celebre è una storia della dottrina
sulla sospensione dell'assenso, in 4 lihr'i. Si ricorda anche uno scritto sulle
sètte. Per il resto si veda sopra, s{ come a veda sopra ciò che riguarda le
varie correnti determinatesi in seno all'Accademia al tempo di Clitomaco. 95 su1 ventiquattro anni (cosi
secondo l'lndex herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67,
sui quaranta), aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e
approfondi le tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr.
Diogene L., IV, 67 - Clitomaco fu noto soprattutto per i suoi scritti con i
quali divulgò il pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni,
dandone evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non
aveva scritto nulla). Non sembra un caso, anzi, che con- temporaneamente a
Clitomaco, di contro a lui, altri discepoli di Car- neade abbiano sostenuto che
diversamente andava interpretato Carneade. Delle moltissime opere di Clitomaco
(circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative
all'esplicazione del pen- siero di Carneade (Diogene L., Il, 92, cita anche un
suo scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., III, 22, 54, un
suo scritto consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione
della città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre
la tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due
dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda
sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi
disce- poli. A Clitomaco successe nel 110/109 Filone di Larissa. Nato a
Larissa, in Tessaglia, nel 160/159 circa, Filone fin da giovane potE _ascol-
tare l'insegnamento dell'accademico Callide che a Larissa dirigeva una
diramazione dell'Accademia. Sui ventiquattro anni, nel 136 circa, passò ad
Atene, entrando nell'Acca- demia, sotto la direzione di Clitomaco. A Clitomaco,
mono nel 110 a.C. circa, suc· cesse quale scolarca dell'Accademia. Filone resse
l'Accademia fino all'88. Nell'88, allo scoppio della guerra mitridatica, si
recò a Roma, dove prosegui il suo insegnamento, e dove, sembra, mori intorno al
79. Nulla·~ rimasto dell'opera di Filone se non scarsi frammenti e
testimonianze di un suo scritto Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro,
composto a Roma, che si sarebbe non poco spostato dallà linea
Carneade-Clitomaco-Carmada seguita da Filone finchE sog· giornò ad Atene.
Antioco nacque ad Ascalona, in Palestina, tra il 140 e il 130 a. C. :Venuto ad
Atene da giovane, segui per molti anni l'insegnamento di Filone. Nell'88 quando
Filone si trasferl a Roma, Antioco si recò ad Alessandria, passando prima per
Roma dove conobbe Lucullo. Nell'86 era sicuramente ad Alessandria con Lucullo.
Nel 79 era ceno ad Atene, scolarca dell'Accademia. Segui poi Lucullo nella
spedizione di Siria, durante la seconda guerra mitridatica, assistendo alla
battaglia di Tigranocerta (69 a. C.). Mori nel 68 circa. Delle molte opere di
Antioco .non possediamo nulla se non ciò che riferisce Cicerone, in panicolare
di una, il Sosus. Il Sosus fu composto da Antioco, al tempo del suo sog· giorno
ad Alessandria, per controbattere e confutare lo scritto dell'antico maestro
Filone giuntagli da Roma e che lo aveva indignato. Si veda nel testo i termini
e il significato della polemica Filone-Antioco. Se già Filone.aveva dato un
nuovo indirizzo all'Accade- mia, per cui si disse ch'egli era stato il
fondatore di una quana Accademia; piu deciso ancora verso un aspetto piu
dogmatico fu l'indirizzo dato da Antioco per ciò detto il fondatore della
quinta Accademia ("Di Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state tre:
la prima e piu antica fu quella di Platone, la seconda, o media, quella di
Areesilao, uditore di Polemone, la terza e nuova quella di Carneade e
Clitomaco. Alcuni ne aggiun· gono una quarta, quella di Filone e Carmada, e
altri ne contano una quinta, quella di Antioco": Sesto Empirico, Pyrr.
hypoth., l, 220). 96 ampia intitolata, appunto, Sospmsione del
giudizio, in quattro libri, nei quali venivano esposte e discusse le tesi di
Arcesilao e di Carneade. Non dirò nulla - sottolinea Cicerone - di cui si possa
sospettare che sia una mia invenzione: riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto
con Car- neade fino alla vecchiaia, uomo di acutezza veramente cartaginese, c
so- prattutto accurato e zelante. Abbiamo di lui quattro libri sulla
sospensione dell'assenso (de sustinendis.assensionibus)... Ho esposto sopra,
sull'autorità di Clitomaco, come Carneade spiegasse il suo probabilismo.
Ascoltate ora come tale problema sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro
da lui dedicato al poeta Lucilio, dopo averne dedicato un altro, sullo stesso argo-
mento, a L. Ccnsorino, che fu console con M. Manilio (Cic., Lucullus, XXXI, 98;
XXXI1, 102). A quanto sembra Cicerone riteneva che Clitomaco fosse stato un
espositore accurato e fedele di Carneade (del suo zelo analitico e della sua
prolissità parla anche Sesto Empirico, Adv. math., IX, l, che, d'altra parte,
accomuna sempre il nome di Clitomaco a quello di Carneade, Pyrrh. hypot., l,
220, 230), soprattutto per ciò che riguarda quello che dovètte essere il motivo
piu discusso nella scuola, in polemica con i fondamenti della logica stoica, e
cioè il motivo dell'assenso cui si accom- pagnava la possibilità o meno del
criterio del probabile, che a sua volta coinvolgeva la possibilità o meno della
fiducia nell'azione. In due modi, aggiunge Clitomaco, si può intendere
l'affermazione: il sapiente sospende l'assenso; l) che il sapiente non dà il
proprio assenso a nulla; 2) che si trattiene dal rispondere, senza dichiarare
se approva o no, senza negare, senza affermare. Clitomaco ammette la prima
inter- pretazione, c non dà mai il suo assenso: adotta anche la seconda c,
tenendo ferma la sola probabilità, risponde si o no, a seconda che ciò che si
presenta sia piu o meno probabile..., ma solo per quelle appercezioni che
spingono all'azione, e per quelle, mediante cui possiamo, quando si venga
inte~ro gati, rispondere in uno o altro senso, non seguendo che le apparenze,
dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso (Cic., Lucullus, XXXII, 104).
Sembrerebbe, dunque, che la interpretazione data da Clitomaco della posizione
di Carneade - sulla scia di Carneade egli mostrava anche come tutte le tesi che
sostengono la possibilità di un sapere assoluto siano controvertibili: cfr.
Sesto Empirico, Adv. math., IX, l - s i risol- vesse sul piano della totale
sospensione, allorché si tratta del vero in assoluto, onde il sapiente non solo
non può proclamare alcuna verità, ma, conseguentemente, neppure accettare una
qualsiasi opinione: se tutto è opinione, nulla è opinione, ché assumendo una
qualsiasi opi- 97 nione già
si distinguerebbe tra vero e opinabile. Solo che allora, pro- seguendo
coerentemente su questa via, sarebbe impossibile il criterio del
"probabile," sia pur sul piano dell'azione (dice Sesto che "gli
Acca- demici assentiscono a qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con
simpatia, accompagnata da un forte volere" : Pyrrh. hypot., l, 230). Se
l'una rapppresentazione vale l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del
volere, sia da preferire all'altra, sia piu probabile dell'altra. E per ciò
verrebbe a cadere anche la retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv.
math., II, 20 sgg.), che di contro alla dannosità della retorica comune, basata
sofisticamente sulla possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera
retorica consisterebbe nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la
discussione delle varie opinioni dei filosofi. Ma se l'una opinione vale
l'altra, l'un giudizio vale l'altro, nep- pure è possibile pensare bene o
pensare male, ed altro non resterebbe che il silenzio. Tali, sembra, le
obbiezioni che in seno alla scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli
di Carneade, i quali tesero a dare del mae- stro un'interpretazione piu
temperata e meno esclusiva. Su questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si
mossero particolarmente Carmada e Metrodoro di Stratonica. Certo, delle molte
discussioni che fiorirono intorno al modo di interpretare il genuino pensiero
di Carneade poco o nulla sappiamo, se non, appunto, che l'Accademia sembrò un
"uni- verso coro" (Sesto Emp., Adv. math., IX, 1). Cosi, di Callide
che diresse una diramazione dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che
ne diresse una ad Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un'opera Contro
i retori, di Melanzio di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie
esteriori (cfr., per Callide e Zenodoro, lndex herc., XXXV, 36; XXXIII, 8;
XXIII, 2; per Hagnone, Quintiliano, lnst. or., II, 17, 15; per Melanzio ed
Eschine, Cicerone, Lucullus, VI, 16; De Oratore, l, 45; Diogene Laerzio, II,
64). Tutti, comunque, appaiono impegnati intorno alla questione della
"sospensione dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di
contro a certa verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa
impostazione logico-empiristica, che non poteva non condurre al silenzio,
dall'altro lato di contro al peri- colo, portando ad estrema conseguenza la
"sospensione del giudizio" sul piano teoretico, di rimanere in
silenzio, cioè nell'assoluta impossi- bilità di pensare e di agire. Entro i
termini di tali discussioni si mossero Carmada e Metrodoro di Stratonica. Di
Carmada si dice che fosse bravissimo oratore, che celebre fosse la sua memoria
(cfr. Cicerone, Tusc. disp., l, 24, 59; De Oratore, II, 88, 360; Lucullus, VI,
16), che, fedelissimo di Carneade (ne imitava perfino la voce: Cicerone,
Orator, XVI, 51), ne seguisse il metodo (cfr. Cicerone, De
Oratore, I, 18, 84), discutendo le varie opi- nioni, non tanto per far
prevalere l'una o l'altra, quanto per richiamare sempre chiunque ad un
controllato atteggiamento critico, in cui, d'altra parte, consisteva per
Carneade, come già per Clitomaco, la retorica da opporre alla cosiddetta
"retorica comune." Ma proprio perché fosse possibile la riduzione
dell'atteggiamento carneadiano a tecnica retorica, mediante cui, dalla discussione
di tutte le opinioni, escludendo ogni passaggio dall'opinione al vero in
assoluto, si potesse assumere, sul piano pratico, una certa opinione che
servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia nellfl spinta all'azione, era
necessario scostarsi dalla sospen- sione assoluta propugnata da Clitomaco.
Ugualmente sembra che Me- trodoro di Stratonica - sottolinea il Dal Pra -
" sia stato del parere che conveniva senz'altro riconoscere
l'inevitabil~tà dell'assunzione di qualche opinione e di qualche posizione; lo
scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed alcuna
posizione; piuttosto egli attri- buisce alla sua opinione o posizione un valore
ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. Per
mantenersi nello scetti- cismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza
tra verità ed opi- nione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia
una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la
condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano, 1950, pp. 227-28). In
effetto la discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene
- sul piano della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica,
scaturita dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla
cosa significata. Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che
corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri
delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti
realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale
(in senso aristotelico); allora, posto che rimane sempre in dubbio che la
rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e
che, quindi, lo stesso discorso. sia arbitrario, ne deriva che si debba
sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa
di qualche altra cosa, perché ciò implicherebbe sempre l'affermazione o la
negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente; su questo piano,
probabilmente essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del
discorso verace e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno
all'afasia di Pirrone. Oppure, se si ritiene (riallaccian- dosi al tipo di
logica scaturita dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza
necessaria di Aristotele, e delineatasi attraverso la tema- tica dei sillogismi
ipotetici di Teofrasto e l'implicazione di Diodoro Crono e di Filone
Megarico),,che il discorso si fondi su rappresenta- 99 zioni (già esse giudizi e
proposizioni, e non soggetti e predicati), non perciò analizzabili, sulla cui
veracità ed esistenzialità assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di
altre, ne deriva che il discorso si costituisce di rapporti tra rapprèsentazioni-giudizi,
la cui implica- zione è dovuta al ricordo e, dunque, all'anticipazione. Perciò
verace o no è il discorso, se corretta o meno è la implicazione, indipendente-
mente dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla reale ineremea (di qui i
sillogismi ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle possibili strutture della
realtà); se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul piano della verità in sé e
della esatta corrispondenza tra rappresentazione e cosa rappre- sentata,
parlare di sospensione del giudizio e di non assenso, mentre sul piano del
discorso si può parlare di probabilità relativamente a ciò che esso significa,
assumendo quel discorso che appare come il meno con- traddittorio, cioè il piu
probabile, il piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). In altri termini, se sul piano
del vero non c'è nessun "criterio" che permette di sostenere che le
cose sono comprensibili (per cui può anche darsi che lo siano), onde non si può
parlare né di vero né di falso, sul piano, invece, delle rappresentazioni,
quali si presentano alla mente, indipendentemente dal loro corrispondere o meno
alla cosa, si può par- Jare, relativamente a ciò che appare, di verità e di
falsità. Il remo che nell'acqua appare spezzato e fuori dell'acqua diritto, può
darsi che in sé sia spezzato o diritto: perciò su questo sospendiamo il
giudizio; solo che è vero che ai sensi appare··spezzato ed è vero che ai sensi
appare diritto, ma anche che, se piu evidente è attraverso l'impres- sione
stessa, ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è diritto ed è falso che è
spezzato, e perciò l'assenso è di probabilità (per l'esempio del remo, o per
quello del colore cangiante delle piume del collo della colomba, cfr. Cicerone,
Lucullus, XXV-XXVI). Tale, sembra, la posizione di Fi- lone di Larissa che,
discepolo diretto di Clitomaco, al quale successe nella direzione
dell'Accademia, alla morte di Clitomaco, avvenuta nel 110/109 a. C., fu piu
vicino alla interpretazione che di Carneade ave- vano dato Carmada (di cui
furono scolari Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non abbiamo che i
nomi: cfr. lndex herc., XXXV, 39; Cicerone, De Oratore, II, 88, 360; Plinio,
Nat. hist., VII, 24, 89) e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari
Metrodoro di Pitane e Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i
nomi: cfr. lndex herc., XXXVI, 11 e XXXV, 33). Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh.
hyp., I, 235), brevemente esponendo la tesi di Filone di Larissa, scrive:
"Filone afferma che relativamente al criterio stoico, cioè la
rappresentazione catalettica, le. cose sono in- comprensibili; ma relativamente
alla natura delle cose, esse sono com- prensibili." Il criterio stoico non
garantirebbe cioè se le cose siano o no 100 comprensibili. Ma
proprio questo, appunto perché non si· può dire quando una cosa sia o non sia
compresa, non esclude che le cose in quanto tali siano comprensibili.
"Noi," sottolinea Cicerone, che in questo passo, su sua
testimonianza, si riferisce a Filone, "non neghiamo quello che ·si
presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle stesse cose che voi
stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi sembrano probabili"
(Le~cullus, XXXII, 105). Di qui deriverebbe la sottile distinzione posta da
Filone tra evidenza e ' percezione: evi- denti o incerte le cose in quanto presenti
alla mente in modo piu o meno forte, ciò non significa ch'esse siano di per sé
percepite e non percepite (cfr. Cicerone, Lucullus, X, 32; Xl, 34). E cosi,
all'abbiezione che Antioco di Ascalona - discepolo dapprima di Filone, ma poi
deci- samente volto a uno stoicismo del tipo di quello di Cleante - avrebbe
mosso a Filone: se assumiamo la proposizione alcune rappresentazioni sono
false, e quindi affermiamo esse non differiscono in nulla dalle vere, si cade
in contraddizione, perché, accordata la prima e riconosciuta dunque una qualche
differenza tra le rappresentazioni, la prima viene negata dalla seconda che
dichiara le rappresentazioni false simili alle vere; Filone avrebbe risposto:
"l'abbiezione sarebbe giusta se toglies- simo del tutto la verità: ma non
lo facciamo; noi discerniamo tanto il vero quanto il falso, solo ch'essi si
presentano sotto l'aspetto della probabilità, poiché non abbiamo alcun segno
che indichi la perce- zione" (Cicerone, Lucullus, XXXIV, 111). Sembra,
dunque, che Filone svolgesse la propria discussione su due piani diversi. Da un
lato, egli, riallacciandosi ad una certa tradizione (da Democrito a Carneade),
negava la possibilità (sia coi sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle
che sono le strutture proprie della realtà, che resta di là dalle possibilità
umane, e intorno a cui si sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi;
dall'altro lato, perciò, entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la
possibilità di costituire discorsi piu o meno probabili. Di qui la funzione
della esperienza e della ragionata esperienza e della ragione che, se rimane
sospesa sul piano dell'essere, è valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca,
la discussione delle opinioni, dei pro e dei contra, sul piano umano: " p
e r navigare, seminare, sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le
quali la sola probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucul- lus,
XXXIV, 109). • Si capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella
storia del pensiero greco, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica
si dovesse rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discus- sione la
possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipo- tesi e
prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la 101 pensabilità del reale, onde
la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste
l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o,
per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. E per ciò Filone
poteva sostenere che egli, in effetto, rappresentava il piu intimo platonismo
e, dunque, l'Ac- cademia, interpretando il platonismo da un: lato sul piano dei
dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi della maturità
di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul mito e sul
verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della vita
pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era stata una
prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre l'intento.
Filone ha sostenuto nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla sua stessa
bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo
irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano... Chiamano nuova quest'Accademia,
se nell'antica si deve collocare Platone. Comunque, Platone, nei suoi scritti,
non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro, interroga su ogni
argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. Tuttavia, si chiami pure, se
si vuole, antica Accademia· quella di cui ho parlato ora, e nuova quella che si
è continuata fino a Carneade, quarto successore di Arcesilao, e che non si
discostò dai principr del suo fon- datore... Arcesilao diresse i propd
.attacchi contro Zenone, non per per- tinacia, o per ambizione di vincere, ma a
causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto Socrate a
confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito, Anassagora,
Empedocle e quasi tutti gli antichi. Sostennero che nulla si può conoscere,
nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli gli
intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel
profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può
esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre.
Arcesilao, cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate
s'era mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche
Lucullus, XXIII, dove sono an- cora citati Anassagora, Democrito, Empedocle,
Socrate, Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono,
Alexino, i Cirenaici). Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle
discussioni dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di
altre, in una continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si
costituisca come regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve
(male) alla vita, al convivere. Non sembra, perciò, un caso, secondo la
testimonianza di Stobeo (Ecl., Il, 40), che Filone, in un suo libro sulla
funzione della filosofia, paragonasse la filosofia alla medicina e il filosofo
al medico, che sostenesse che la f).Inzione della filosofia consiste nell'av-
102 viare a purgarsi dalle opinioni unilaterali e perciò stesso false
(I libro), determinando quindi i beni e i mali (II libro), quale possa essere
il fine - cioè la felicità - cui l'uomo deve tendere (III libro), quali le
varie forme di vita - per chi, in senso particolare; e come, entro i termini
della convivenza politica, in senso generale, - quali, per l'uomo comune - per
chi non è sapiente - i precetti e le regole da seguire (IV libro). Pur- troppo
il rapido sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degli Accademici di Cicerone
- nei quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica di Filone -
non permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando una
verosimile ipotesi, che potesse inter- pretarsi in chiave platonica, Filone
abbia proposto l'ipotesi stoica del- l'ordine entro cui tutto si scandisce ed
entro cui ciascuno deve assu- mere il posto che gli spetta. Tale sembra
l'interpretazione di Numenio (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 9, l) e di Agostino
(Contra Ac., III, 18, 41), i quali sostengono che Filone dapprima nemico
giurato degli stoici, sarebbe poi passato allo stoicismo (Numenio), riducendo
lo stoicismo a platonismo (Agostino). Senza dubbio Cicerone (Varro e Lucullus),
discorrendo dell'aspro conflitto che sarebbe scoppiato tra Filone e An- tioco
di Ascalona, fa intravedere questo passaggio di Filone. Ad ogni modo,
interessante sembra la notizia (Cicerone) che Filone avrebbe particolarmente
sottolineato l'utilità pratica della piu generale tési stoica dell'ordine,
quando da Atene (nell'88. circa, all'epoca della prima guerra Mitrìdatica) passò
a Roma (da dove non si sarebbe piu mosso, e dove forse mori nel 79 circa),
entrando in diretto. contatto con gli uomini che in quel tempo conducevano la
politica romana. Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a Roma, scrisse
un'opera in due libri, che pervenuta nelle mani del suo ex scolaro Antioco di
Ascalona che, allora, si trovava ad Alessandria, ne suscitò grande
indignazione. Mentre ero proquestore ·ad Alessandria - fa dire Cicerone a
Lucullo, che fu appunto ad Alessandria come proquestore nell'87, - con me era
Antioco, egià prima di noi era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di
Antioco, che per parecchi anni aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu
uomo di valore e celebre in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna oggi
alla ribalta. Spesso ho ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre,
dall'una e dall'altra parte con dolcezza. Fu proprio allora che i due libri di
Filone, recentemente portati ad Alessandria, per- vennero per la prima volta,
tra le mani di Antioco. Quest'uomo, per na- tura dolcissimo (nulla avrebbe
potuto essere piu mite di lui), violentemente si arrabbiò. Me ne sorpresi, ché
fino ad allora non l'avevo mai visto in quelle condizioni. Appellandosi alla
memoria di Eraclito, gli domandava se quei libri gli sembrassero di Filone, o
se ma:i avesse ascoltato aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche
altro accademico. Eraclito diceva di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né
era possibile dubitarne. Erano presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e
Tetrilio Rogo, uomini dotti, i quali assicuravano di avere ascoltato a Roma
sostenere quegli stessi prin- cipi da Filone, e che avevano copiato i due libri
dal manoscritto dell'autore. Antioco trattò allora Filone ancora peggio e alla
fine non poté tenersi dal pubblicare contro il suo maestro un libro intitolato
Sosus (Cicerone, Lucullus, IV, 11-12). Antioco, nato ad Ascalona in Palestina
(cfr. Strabone, XVI, 2, 29), tra il 140 e il 130 (di circa venticinque anni piu
giovane di Filone), venuto ad Atene in gioventu, segu( per molti anni
l'insegnamento di Filone, facendo parte dell'Accademia di cui difese con zelo
le tesi fondamentali, discutendo particolarmente contro la posizione stoica di
Mnesarco (successo nel 110 a Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano.
Circa al tempo in cui Filone lasciò Atene (88 a. C.) per andare a Roma, Antioco
lasciò Atene per recarsi ad Alessandria. Forse era passato prima per Roma.
Certo si legò di amicizia con Lucullo. Nel 79 Antioco era ad Atene, scolarca
dell'Accademia, e là lo ascoltll Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della
dittatura di Silla. Nel 74, quando Lucullo fu nominato console e condusse le
truppe durante la seconda guerra mitridatica, che vittoriosamente per Roma si
concluse con la battaglia di Tigranocerta (69 a. C.), Antioco segu( Lucullo in
Siria. Mod nel 68 a. C. Senza dubbio Antioco, come risulta dal Lucullus di
Cicerone - in cui da un lato per bocca di Lucullo si espone la tesi di Antioco,
IV-XIX; e dall'altro lato si difende, per bocca di Cicerone stesso, la
posizione di Filone e dell'Accademia in genere, XX-XLVII, - era passato da un
atteggiamento piu strettamente critico, da una posizione vicina a quella di
Carneade, di Clitomaco e di Filone (del Filone almeno del periodo di Atene) ad
una posizione piu dogmatica, avvici- nandosi decisamente a tesi stoiche:
anch'egli, sembra, al tempo in cui entrò in piu stretti contatti con l'ambiente
romano e particolarmente con un uomo come Lucullo. La malignità di Cicerone,
secondo cui alcuni avrebbero sostenuto che Antioco aveva abbandonati i suoi an-
tichi amori e le tesi di Filone, quando anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi
in futuro sarebbero stati detti "antiocheni," è una malignità assai
indicativa quando si pensi che i discepoli di Antioco erano soprat- tutto
romani (cfr. Lucullus, XXII, 69-70). Curiosa sembra allora la rot- tura tra
Antioco e Filone, se essa è dovuta, come pare, all'irritazione che Antioco
provò per il passaggio da parte di Filone allo stoicismo, passaggio documentato
dall'opera di Filone, scritta a Roma, giunta ad Antioco che si trO\'llva ad
Alessandria. Antioco scrisse allora 11 ~osus, in cui, soprUtutto, secondo
quanto riferisce Cicerone, cerca di demo- lire il motivo del
"probabilismo" e della"sospensione." Gli argomenti contro
la tesi del "probabile" e contro la "sospensione" ricalcano
la linea con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso sostenevano la
"fantasia catalettica" e l'"assenso" e con cui Platone, nel
T~~teto, affermava che l'atto del giudizio è dovuto all'anima (Cicerone,
Lucullus, VII, 19-22); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco,
il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un
certo fonda- mento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a vivere
secondo l'ordine del tutto. Ma è la conoscenza delle virtU che innanzi tutto ci
assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. In esse sole,
diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione degli
oggetti, ma comprensione stabile e immutabile; lo stesso è per la saggezza, per
l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità. Se tale
invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando donde
viene e come è nata... Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche severe,
perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede alcuna
comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della sua
azione? Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un
prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se
non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. Se la saggezza stessa
ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza?
E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna
idea certa da seguire? Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non
sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? È chiaro anche che
bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad
agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. Se no, la tendenza
(traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci
è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. Ma la
rappresentazione che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta
vera, il che sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser
distinta da una rappresentazione falsa. Come l'anima potrebbe essere spmta a
ricercare un oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme
o estraneo alla natura?... Se la tesi di Filone fosse vera sopprime- rebbe
interamente la ragione che è luce e fiaccola della vita. In ogni ri- cerca, è
la ragione che offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene,
poiché la virtU non è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca.
Desiderio di conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non
si scoprono cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti;
si parla di scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi
in chiaro. Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la 105 percezione e la comprensione.
La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che
conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone,
Lucullus, VIII, 23-26). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica
di Antioco nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui
sembrerebbe che, alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba
es- sere rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in
Filone, come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento,
scientificamente determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato
dagli Stoici. Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo
primitivo atteggiamento, scostandosi dalla linea di Car- neade, di Clitomaco,
dello stesso Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva
dire che nel nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu
il vecchio maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma
ipotetica e probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo
essere altrettanto probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o
l'una o l'altra, potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in
discussione particolarmente lo stoicismo di Cleante (cfr. I vol.), cercando di
mostrare la contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione catalettica
ad un tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che impressiona e
come assenso, cioè giudizio. Posto, appunto, che la rappresentazione è di
oggetti, la rappresentazione stessa non può essere giudizio, ché il giudizio si
ha solo nella proposizione, e se la rappresentazione la poniamo nel senso di
Cleante, evidentemente essa non è una proposizione, se mai un termine della
proposizione. Impossibile l'assenso relativamente a ogni rappresentazione, ogni
rappresentazione (non giudizio) si presenta vera tanto quanto ogni altra
rappresentazione, per cui lo stesso giudizio che si determinerà nel costituire
i nessi e le implicazioni tra le rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu
avvicinato a Diodoro Crono e ai megarici), non potrà mai esser volto alle
strutture e ai nessi in sé dd reale. Sul piano della verità, dunque, lo stesso
stoico, se non vuol ca· dere in contraddizione è costretto a sospendere il
giudizio, o a rima· nere in silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo
morale, sul conveniente, sull'eulogon, o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e,
poi, Carneade (polemizzando con Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni
sull'epoché per mettere in contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza
di contro avanzare una loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c
con Filone si cercò di dare un valore positivo e non piu solo critico nei
confronti dello stoicismo, al "probabile" carnea- 106
diano, assumendo, perché sia possibile l'azione una probabile ipotesi. E
qui Antioco aveva buon giuoco: la tesi del "probabile," divenuta po-
sitiva e non piu critica, poteva esser ricondotta alla prima tesi della
sospensione del giudizio e perciò all'indifferenza di tutte le rappresen-
tazioni, per cui si poteva ritorcere l'accusa fatta agli stoici, che cioè come
gli stoici dovevano rimanere in silenzio e inattivi, cosi in silenzio e
inattivi dovevano rimanere gli Accademici. Per venir meno all'una e all'altra
accusa, Antioco, riallacciandosi all'interpretazione che della fantasia catalettica
di Zenone aveva dato Cleante, e cioè che la rap- presentazione coincide
esattamente con il rappresentato e che perciò i nessi tra le rappresentazioni
ripercorrono i nessi tra le cose, giungeva, sia pur con altra terminologia (con
terminologia stoica), a rifar sua la logica di tipo aristotelico, e, non
rendendosi conto che, in effetto, la logica degli stoici era una logica
"proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto benissimo
Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla realtà in
discorso di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva interpretare Platone
in chiave aristotelico-stoica. Quali sono le qualità che diciamo percepite dai
sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice che sono direttamente
percepite dai sensi, ma :he in un certo qual modo lo sono: "questa cosa è
bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è odorosa, altra ancora è
aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di comprensione dell'anima,
non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un cane." Poi si passa,
per il resto, ad una serie ~he collega insieme i caratteri piu salienti, come
quelle proposizioni che abbracciano una percezione completa di realtà: "se
è uomo, è animale mor- tale partecipe di ragione." Di questo genere sono
le nozioni delle realtà impresse in noi e senza di cui ogni intelligenza, ogni
discussione, ogni problema sono impossibili. Se tali nozioni (in greco ennoiaz)
fossero false o impresse in noi in rappresentazioni tali che le vere non
potessero essere distinte dalle false, come potremmo usarne? Come potremmo
vedere quel che si accorda e quel che non si accorda con una cosa? E alcun
luogo sarebbe lasciato alla memoria, che tuttavia è di fondamento, a un tempo,
non solo della filosofia, ma di tutta la vita e di tutte le arti..Come potrebbe
esserci, infatti, memoria di cose false? Ci si ricorda di ciò che non si è
\'eracemente afferrato con l'anima?... (Cicerone, Lucullus, VII, 21-22).
Antioco cosi, poiché il criterio stoico dimostrava, secondo lui, la coincidenza
tra strutture della ragione e strutture della realtà, cui si giunge mediante le
percezioni, sosteneva che, in effetto, gli stoici ave- vano servito,
approfondendo la genesi del processo conoscitivo, a dar conto della tesi
platonica, secondo cui l'ordine del tutto è razìonale e coincidente con le
strutture del pensiero, onde l'indirizzo dato all'Ac- 107 cademia da Arcesilao prima
(media Accademia), aveva cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino
pensiero di Platone, che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici,
voleva restaurare in funzione anche della vita associata e della moralità, non
a caso rial- lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro,
di qui, come Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e
dell'"anima mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta
in atto, nel suo scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di
Zenone-Cleante, accantonando, d'altra parte, in questa, a sua volta,
interpretazione dello stoicismo in chiave platonico-aristo- telica, certe tesi
piu propriamente stoiche, come quella della confliJgra- zione, probabilmente
anche per influenza degli stoici Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di
Babilonia (la stessa attività divina che farebbe dopo la conflagrazione? E
ammessa la conflagrazione, non ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile
divinità?: cfr. Filone l'Ebreo, De aeternitate mundi, 54), ma derivandone,
attraverso le conces- sioni fatte proprio dagli ultimi stoici al rigidismo
morale primo, una propria interpretazione dell'imperativo stoico: "vivi
secondo natura." E ora, entro il quadro che siamo venuti delineando,
assume un suo particolare significato l'esposizione che per bocca di Varrone,
Cicerone (Varro) fa della posizione di Antioco, che scaturisce dall'interpreta-
zione che ·Antioco dava della vecchia Accademia, di Aristotele e degli Stoici.
Per influenza di Platone, vasto, diverso, ricco, si costitu{ una forma di
filosofia una e identica sotto una doppia denominazione, cioè la filosofia
degli accademici e quella dei peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle
cose, non differiscono che per il nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{
dire, l'eredità della sua filosofia a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi
discepoli piu brillanti per il sapere e per la dottrina furono Senocrate di
Calcedonia e Aristotele di Stagira... Gli uni e gli altri, completi della fe-
condità di Platone, formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad
un tempo. Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la
consuetudine di Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò
che Socrate non approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane,
in un ordine delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae).
In principio tale filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era
alcuna differenza tra i peripatetici e l'antica Accademia... Stabilivano la
stessa distinzione tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice
fu la ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita
e dei costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del
ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da
quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. 108
Nella prima parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla
natura, ci si raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella
natura, va ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre
azioni~ Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei
beni, consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario
all'anima, al corpo, alla vita. Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel
complesso, gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la
bellezza; nelle parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna
delle parti del corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la
chiarezza per la voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. Dicevano
beni dell'anima tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e
riferivano gli uni alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano
proprie la prontezza nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù
dall'attività della mente e dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri
interessi, e, per cos{ dire, le nostre consuetudini, le quali in parte si for-
mano con un assiduo esercizio, in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i
beni dell'anima. Quelli della vita (terza specie) consistono in certe ag-
giunte che possono facilitare la praùca della virtu. Infatti la virtu (del-
l'anima e del corpo) si mostra anche ill" alcuni vantaggi che non
dipendono tanto dalla natura, quanto da una vita felice. Affermavano perciò che
l'uomo è membro della città e del genere umano, è cioè unito ai suoi simili
mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò che pensavano del sommo e naturale
bene, cui riferivano tutti gli altri beni che servono ad accrescerlo o a
conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza, la gloria, la grazia. In tal
modo ponevano tre specie di beni... Questa teoria comprendeva l'ob- bligQ di
condurre una vita attiva e la fonte del dovere stesso: in altri ter- mini,
raccomandava di obbedire ai precetti della natura... Della natura poi (questo
seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a due principi: l'uno efficiente,
l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione modifi- catrice del primo.
Nella causa efficiente, vedevano una forza; l'oggetto sot- tomesso alla sua
azione era una specie di materia. Ad ogni modo non concepivano l'una senza
l'altra, ché le parti della materia non sarebbero coerenù se non fossero
trattenute da una qualche forza, e la forza non può trovarsi fuori della
materia, poiché tutto ciò che è deve essere in qualche parte. Tale unione dei
due principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste qualità le une sono
primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie sono uniformi e
semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi. Cosi l'aria...,
il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse sono scaturite le
forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce. Per ciò si
chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. Ve ne sono due,
l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le altre, cioè
l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo l'azione di
questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano formati gli
astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle quattro di cui
sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa materia
non 109 avente alcuna specie
e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose sono espres- sione, di cui tutte
sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che può essere modificata in tutti i
modi e in tutte le sue parti: donde segue che, per essa, perire non è affatto
annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che possono essere tagliate e divise
all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{ piceòlo che non possa essere
diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi percor- rono intervalli
ugualmente divisibili all'infinito. [Da tal moto e dalla mate- ria sorgono i
fenomeni che abbiamo chiamati qualità], che, nella natura giustapposta e
continua, hanno formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori del mondo non
v'è alcuna particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti del mondo
tutti gli esseri di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla natura
senziente, in cui risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla vi è
di pio forte che possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del
mondo, essa stessa mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa
specie di prudenza che veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che
ha particolar cura del cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende
umane. Talvolta chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere
altrimenti da ciò che mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{
dire fatale e immutabile dell'ordine eterno. Altre volte, invece, la chiamano
fortuna, poiché produce quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità
delle cause e la nostra ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e
accademici trattano quindi la terza parte della filosofia, la parte che ha per
oggetto la ragione e la dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di
verità non risiede nei sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose:
la consideravano come la sola degna d'essere cre- duta, perché solo essa contempla
ciò che, sempre, è semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi chiamavano
idea, sull'esempio di Platone (e tale termine noi postiamo esattamente tradurlo
con spedes) •..La scienza, se- condo questi filosofi, non riposa che sulle
nozioni dell'anima e sui ragio- namenti. [L'opinione sulle sensazioni non
illuminate dalle nozioni]. Per questo approvavano le definizioni delle cose, e
le usavano in tutte le que- stioni controverse. Approvavano anche le
spiegazioni delle parole, cioè le ragioni per cui un certo termine era stato
applicato a un certo oggetto,. il che chiamavano etimologia. Infine, prendendo
per guida gli argomenti, quasi segni infallibili delle cose, giungevano alla
prova e alla conclusione di ciò che volevano chiarire. In questo consisteva
tutta l'arte della dialettica, l'arte in virtU della quale la ragione deduce
conseguenze. Insieme alla dia- lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano
progredire l'arte oratoria, che consiste nello sviluppare tutto il seguito di
un discorso composto in modo da persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate
da Aristotele e da Zenone di Cizio, si conclude, affermando]: penso come il
nostro amico Antioco, che cioè nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera
riforma della vec- chia accademia piùttosto che una nuova dottrina... (Ci~rone,
Van-o, IV-XII). Varrone, Cicerone e la funzione della cultura A parte Antioco,
o chi per lui, il testo di Cicerone sopra riportato non ha tanto importanza se
considerato a sé, quanto perché in esso è chiaramente delineata una concezione
che sembra oramai divenuta comune, e che, indipendentemente dalle singole
discussioni delle scuole . su singoli argomenti ed aspetti, assume significato
in quanto viene a costituire un sistema di sfondo, una visione abbastanza
generale e ge- nerica (divinità, ordine .dei cieli, mondo nella sua totalità,
uomo e uomo che in quell'ordine del tutto trova i principl, la regola della
vita) che serva da prima ed elementare cultura. Si capisce come qui giuo-
cassero, di là dai loro contesti, testi singoli di Platone (dal Sofista al
Timeo), dell'Epinomide, del primo Aristotele, gli aspetti pio generici della
fisica stoica, in un tutt'uno abbastanzà· coerente che costituiva questa specie
di religione cosmica entro cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita,
proprio della classe colta e' dirigente. È stato giustamente detto che tale
religione del Mondo trascende ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene
comune di ogni per- sona che abbia partecipato della b "paideia"
greca : "oggi, diremmo, che abbia seguito il suo bravo corso scolastico"
(Festugière, La révélation d'Hermès Trismegiste, II, p. 343). Non solo, ma non
poco in- dicativo sembra il fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si
riflette l'esposizione manualistica da un lato, dall'altro lato la
presentazione per argomenti) siano state compilate dai loro autori quando,
usciti dai propri diretti impegni nelle loro singole scuole, sono entrati in
contatto con la classe colta e dirigente del mondo romano, rispondendo
evidentemente a ben precise richieste e .dando ad esse. chiarificazione e
consapevolezza, in un arco che va da Polibio a Panezio ad Antioco e Filone. Per
altro verso, invece, in seno alle scuole (particolarmente di Atene: Accademia,
Stoà), si discutevano singoli problemi, donde il nascere, poi, ad uso delle
scuole stesse, di manuali in cui - ad esempio per la scuola stoica - si
elencavano questioni di morale, modi diversi di vita a seconda delle singole
situazioni, sistemazioni delle ricerche della scuola sul linguaggio e sulle
tecniche del dire (cfr. Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso, Cratete di
Mallo, che insegnò a Per- gamo), introduzioni generali alla. stessa dottrina
(cfr. Apollodoro di Sdeucia); oppure - per l'Accademia e ad uso delle
discussioni - si elencavano le opinioni diverse intorno alle piu varie
questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a problemae cos1 via (si cfr., ad
esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò, fuori dalle singole scuole,
fuori da precise problematiche che rispondevano a specifica preparaziOne, as-
"sunse entro l'àmbito della cultura romana, la funzione da un lato di lll introduzioni generali,
dall'altro di manuali utili alla preparazione sulle singole materie. E quando si
pensa alla classe che in Roma aveva in mano le redini del governo e al modo di
funzionare della politica romana (non si scordi l'importanza che ebbero anche i
processi), ci rendiamo conto del perché la maggioranza di questi manuali, di
cui è rimasta me- moria, o siano manuali d'introduzione (dacxyoylj, eisagoghè}
alla filosofia (intesa come concezione culturale generale) o manuali di
retorica, di dialettica, o esposizioni di una certa· serie di opinioni o
sentenze su singoli problemi (non a caso in quest'epoca, 1 a.C., si formarono i
cosiddetti Vetusta Placita, una epitome in sei libri delle Opinioni dei fisici
di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla scuola di Posidonio), o manuali di
morale e di casistica morale (si vedano sopra i titoli delle opere di Ecatone
di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i termini di una preparazione generale,
manuali divulgativi intorno alle singole scienze (particolarmente di
astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale), cui potevano servire i clo~ti
acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scien- ziati del m e del u secolo. E
se è vero che tali Introduzioni e Manuali servivano già per i giovani greci,
che venendo alle scuole di Atene, di Alessandria o di Pergamo, non aspiravano
certo a loro volta alla professione dei loro maestri, ma a formarsi, appunto,
una cultura ge- nerale che servisse poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che
offriva l'amministrazione dei singoli regni, ciò è tanto piu vero per i giovani
romani avviati alla carriera politica, nel disfacimento di quei regni stessi.
Le discussioni svoltesi in seno all'Accademia e alla Stoà, partico- larmente in
quest'ultima, per ciò che riguarda i modi di vita, le posi- zioni di Panezio,
di Posidonio, di Filone e di Antioco, le introduzioni e i manuali, le
dossografie e le esposizioni di singole questioni, si ri- flettono in
Cicerone.2 Chiaramente, anzi, attraverso gli aspetti piu 2 Di antica famiglia
di possidenti, appartenente all'ordine dci cavalieri, Marco Tullio Cicerone
nacque ad Arpino, in un'antica villa dci suoi antenati, il 3 gennaio dd 106 a.
C. Giovanissimo, insieme al fratello Quinto, Marco Tullio Cicerone fu condotto
dal padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore istruzione. Sotto la guida
dell'oratore Lucio Licinio Crasso ebbe a insegnanti i maggiori maestri greci
allora in Roma. Avuta nel 90 la toga virile, CiccJ:one prese pane alla guerra
Marsica, comandata da Pompeo Strabone. Tor- nato a Roma prosegui i suoi studi
sotto la guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Acca- demia in Atene fino
all'88, stabilitosi a Roma dopo 1'88, c sotto la guida del retore Molonc di
Rodi, mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico Diodoto, che in casa di
Cicerone moti nel 49 a. C. Ristabilitosi con Silla dittatore un relativo
ordine, Ciocrone si dette alla carriera oratoria, trattando cause civili c
subito dopo penali. Dell'SI ~ l'ora- zione a favore di Publio Quinzio, dell'SO
l'orazione a favore di Sesto Roscio accusato di parricidio. Preoccupato per
avere difeso Sesto, contro le accuse di Crisogono potente libcrto di Silla,
Cicerone si allontanò da Roma, per un viaggio di "perfezionamento"
112 problematici deil'opera di Cicerone, si delineano alcune
grandi conce- zioni, entro il quadro di quelle visioni d'insieme, di cui
parlavamo, e che, appunto mediante le discussioni delle Scuole, i manuali, le
in- in Grecia. In Atene ascoltò lo scolarca dell'Accademia, Antioco di
Ascalona, successo a Filone di Larissa, il retore Demetrio Siro, gli epicurei
Fedro e Zenone. Lasciata Atene, visitò le scuole di retorica in Asia e fu,
quindi, a Rodi dove s'incontrò di nuovo con Molone di Rodi e dove conobbe
Posidonio. Nel 77 era di nuovo a Roma, "non solo piu esercitato, ma quasi
mutato" (Brutus, 89 sgg.). Cicerone, che nel frattempo aveva spo· sato
Tercnzia, tornò alla carriera oratoria. Nominato questore nel 75, ebbe la provincia
Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e moderazione. Ritornato a
Roma, nel 71 intentò il celebre processo contro Verre che nei suoi tre anni di
pretura siciliana (73-71) 11veva saccheggiata la provincia. Nel1 .69 fu eletto
edile curule, nel 66 pretore urbano. Disse allora la sua prima orazione
politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). Nd 63, insieme a Gaio Antonio fu eletto
console, con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il partito degli oligarchi
contro quello dei popolari e di Cesare, con quattro orazioni contro il disegno
di legge agraria proposto dal tribuno della plebe Rucio Servilio Rullo. Fu poi
la lotta contro Catilina e la lotta a favore di Murena. Se è vero che durante
il suo con- solato Cicerone aveva reso grandi servigi al partito degli ottimati,
è altrettanto vero, come è stato detto, ch'egli aveva abusato del potere
mandando a morte cittadini romani senza regolare giudizio. Avvenuto l'accordo
di Pompeo con Cesare e Crasso (80), Cice- rone si trovò isolato, sotto l'accusa
di Publio Clodio, che passato ai plebei, nella sua qualità di tribuna della
plebe, nel 59 promosse una legge contro coloro che avevano fatto uccidere un
cittadino romano senza regolare condanna. Cicerone allora (marzo 58) si
allontanò da Roma,. mentre Clodio faceva decretare l'esilio di Cicerone e
l'ordine di distruzione della sua casa di Roma e delle ville di Tuscolo e di
Formia. Cicerone si recò a Brindisi, a Tessalonica e quindi a Dirrachio. Nel
57, il console dell'anno, su proposta di Pompeo, revocò l'esilio di Cicerone, sostenendo
ch'egli aveva agito per il bene della Repubblica. Cicerone tornò a Roma in
trionfo, pronunciò ~razioni di ringraziamento dinanzi al Senato e al popolo e
riusd a farsi ricostruire a spese pubbliche le sue case. Legato a Pompeo,
Cicerone che non era piu appoggiato dal Senato, cercò da ora in poi, appoggi e
forza presso i potenti dell'ora, difendendo amici e fautori, accusando nemici c
gente che potevano metterlo in pericolo. Con molta intelligenza e moderazione
resse il proconsolato in Cilicia nel 51. Tornato nel 50 a Roma si trovò in
piena lotta tra Pompeo c Cesare. Titubante dapprima, si decise poi a seguire
Pompeo c fu con lui in Oriente. Malato, non combatté a Farsaglia (48) e, dopo
la fuga di Pompeo, rifiutato il comando della flotta, si recò a Brindisi, dove
attese Cesare. Appena Cesare sbarcò (47), Cicerone gli andò incontro. Cesare
smontato da cavallo si accompagnò a Cicerone. Tornato a Roma si ritirò dalla
vita politica. Ucciso Cesare nel 44, Cicerone pronunciò in Senato un'orazione
in favore di una pacificazione c di un'amnistia generale. Marco Antonio invece
eccitò il popolo contro i congiurati. Anche Cicerone fu costretto a fug- gire
d" Roma. La sua lotta contro Antonio è affidata alle celebri Filippiche.
Giunto a Roma Ottavio, che assunse, in qualità di crede di Cesare, il nome di
Cesare Ottaviano, Cicerone tornò a Roma sperando che Ottaviano salvasse la
Repubblica, mantenendo la sua linea politica di difesa del Senato e degli
Ottimati. Ma Ottaviano si accordò con Antonio e Lepido, proclamandosi triumviri
uipublicae costituendae per cinque anni, riserbandosi ciascuno il diritto di
proscrivere i propri avversari. Cicerone fu proscritto da Ant<.onio. Fuggito
da Rom.., si rifugiò nella sua villa di Astura presso Gaeta, ovc raggiunto da
sicari di Antonio, venne ucciso il 7 dicembre del 43. Se le orazioni di
Cicerone, seguite cronologicamente segnano le tappe della sua attività
politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui si venne scandendo il suo
pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e dei suoi fini, di cui
specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in volta usate. In realtà
impossibile è una divisione 113
traduzioni, si c9stituiscono in funzione di certe esigenze proprie del
mondo romano. E quando diciamo mondo romano, non intendiamo qualcosa di
compatto. Tutt'altro: un mondo culturalmente in fieri, delle opere di Cicerone
in retoriche, filosofiche, storiche. Diamo qui, per utilità, l'elenco
cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle orazioni. IOpt!re retorico-filosofiche
Traduzione dell'Economico di Senofonte (85 a.C.: ne restano alcuni frammenti);
traduzione dei Fenomeni di Arato (84 circa: ne restano alcuni frammenti); De
inven- tione rhetorica (80: in 2 libri; tentativo di sistemazione delle
tecniche retoriche); De Oratore libri 111 (55: si dà, oltre alle tecniche,
valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e di eloquenza); De Republica
(in 6 libri, composto tra il 54 e il 51: doveva includere 9 libri. Il dialogo
si suppone avvenuto nel 129 ed ha per principali interlo- cutori Scipione
Emiliano e C. Ldio. Resta una parte del VI libro, andata sotto il nome di
Somnium Scipionis; possediamo inoltre citazioni e riassunti di Lattanzio e di
S. Ago- stino, alcuni frammenti scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano.
Nel l libro dopo avere discusso della natura dello Stato e della sua origine, e
dopo aver passato in rassegna le tre forme di reggimenti politici tradizionali,
monarchia, oligarchia, democrazia, e delle loro degenerazioni, si sostiene che ottima
è la costituzione romana; nel n libro si fa vedere come si è realizzata la
costituzione di Roma; nel III libro si dimostra che non c'è Stato senza
giustizia; nel IV libro si chiariscono i fondamenti istituzionali senza di cui
non vi sarebbe vita morale; nel. V libro si delinea quale debba essere la
figura dd reggitore, del rector rerum publicarum; nel VI libro si doveva·
definire il princeps: ne è un saggio il somnium Scipionis); De Legibus
(composto tra il 53 e il 51, fu pubbli- cato, sembra, nel 46; doveva essere in
5 o 6 libri; ne restano 3. Il dialogo si finge tenuto ad Arpino, nel 52, presso
il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali interlocu- tori sonò lo stesso
Cicerone, il fratello Quinto e Attico. Nel I ·libro si discute e si defi· nisce
il diritto naturale e il significato da dare alla legge; nel Il libro si
dichiara che le leggi civili debbono avere a loro fondamento le leggi naturali;
si discutono poi le leggi religiose; nel III libro si discutono le leggi dei
magistrati; il IV e il V libro dove- vano trattare dei giudizi e
dell'educazione); Brutus o De claris oratoribus in un libro (composto nel 46:
il dialogo, che ha per principali interlocutori Cicerone stesso, Bruto e
Attico, è una specie di storia dell'eloquenza romana, culminante in Antonio,
Crasso e Ortensio); Orator (del 46: vi si delinea il ritratto dell'oratore
perfetto secondo Cicerone, filosofo ed oratore ad un tempo); De optimo gent!re
oratorum (del 46: è un'introdu- zione alle traduzioni latine, andate perse, che
Cicerone fece dell'Orazione di Eschine contro Ctesifonte e dell'Orazione di
Demostene per la Corona); Paradoza Stoicorum (del 46: elenco di tesi retoriche
tratte da tesi stoiche in funzione di discussioni sulla morale); Hortensius
(perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne restano frammenti e testi· monianze.
Doveva essere una specie di grande introduzione alla filosofia inspirantesi al
Protrettico di Aristotele. Servi nelle scuole eome introduzione alla filosofia.
Fu composto, sembra, tra il 46 e il 45); De partitione oratoria (45 circa:
opera a carattere tecnico e istituzionale); Consolatio (perduta: ne abbiamo
qualche frammento citato da Cicerone stesso e da Lattanzio. Fu sc:Ìitta nel 45
per consolarsi della morte della figlia Tullia); Academici libri (Cicerone ne
stese due redazioni: gli Academica priora in 2 libri e gli Academica posteriora
in 4 libri; degli Academica priora il l libro, o Catulus, è per- duto, il n
libro, o Lucullus, si è salvato; degli Acllliemica posteriora si è salvato il l
libro, o Varro; abbiamo alcuni frammenti e testimonianze degli altri libri.
Furono scritti nel 45. Vi si espone criticamente la storia del pensiero degli
Accademici e in pa'licolare il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di
Ascalona); De finibus bonorum et malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il
primo dialogo abbraccia il l e il n libro; il secondo dialogo il III e IV
libro; il terzo dialogo il V libro. Nel l libro C. L. M. Torquato espone la
tesi epicurea secondo cui il bene sta nel piacere; nel n libro Cicerone confuta
la tesi epicurea; nel III libro Catone espone la tesi stoica secondo cui il
bene consiste nella virtU e tutti gli altri cosiddetti beni sono indifferenti;
nel IV libro 114 ove la grande espansione e le conquiste
presentano problemi nuovi, economici e sociali, per cui lo stesso modo antico
di governo entra in crisi, in cui la classe senatoriale e, ormai, quella degli
uomini nuovi Cicerone confuta la tesi stoica sostenendo che nulla di nuovo se
non nelle espressioni. hanno detto gli Stoici, rispetto ai platonici e agli
aristotelici; nel V libro si espone la dottrina degli· Accademici, o meglio
quella di Antioco); Tusculanae Disputationes libri V (del 45; sono una
prosecuzione del De finibus; si rivolgono ad un pubblico piu esteso che non il
De finibus, e, questo, forse, spiega il maggior peso dato all'ideale dd saggio
stoico: nel I libro si dimostra che il saggio non teme la morte, nel II che non
teme i dolori del corpo, nel III e nel IV che è alieno da ogni passione, nel V
che uno è il bene, la virtu, in senso strettamente stoico); traduzioni del
Protagora e del Timeo di Platone (45 circa); De natura deorum libri Ili
(composto tra il 45 e il 44: nel I libro Velleio epicureo espone la tesi di
Epicuro sulla divinità, confutando le tesi di Platone e degli Stoici ed
esponendo le varie teorie sugli dèi da Talete a Diogene di Babilonia; Vdleio
viene quindi confutato da Cotta; nel II libro Balbo espone la tesi stoica sul
divino; nel III libro, di cui sono andate perdute alcune parti, Cotta confuta
la tesi stoica sia relativamente alla natura degli dèi, sia al loro governo sul
mondo, sia al loro inte- ressamento per gli uomini. Cicerone, infine, sostiene
ch'egli attraverso la sua posizione accademica, ritiene opportuno optare per la
tesi di Balbo); De senectute o Cato maior (composto tra il 45 e il 44,
probabilmente finito prima del De natura deor., del De divinazione e del De
fato; il dialogo si finge tenuto nel 150 tra Catone il Censore,
ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e C. Lelio, ed ha per oggetto la difesa della
vecchiaia; la prima ispirazione è probabilmente dovuta al I libro della Rep. di
Pla- tone); De divinazione libri Il (del 44; si riallaccia al De nat. deorum,
per confutare la tesi stoica della divinazione. Il dialogo si svolge tra
Cicerone e il fratello Quinto. Nel I libro si espone la storia e la critica
della divinazione, implicante una ferrea ne- cessità. Quinto si dichiara
favorevole alla tesi stoica; nel II libro Cicerone confuta la tesi stoica); De
fato (scritto dopo la morte di Cesare, 44, nel De fato si discute a fondo la
questione del rapporto necessità-libertà, rifiutando sia la tesi epicurea che
quella stoica); Laelius de amicitia (del 44; il dialogo si finge avvenuto nel
129 in casa di Lelio all'indomani della morte dell'amico di Lelio, Scipione
Emiliano); Topica (scritti nel 44, durante un viaggio per mare da Velia a
Reggio; è un'opera di logica formale e di tecnica retorica); De officiis libri
Ili (composti sulla fine del 44; vi si tratta dei doveri medi, in una
rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata IItpl "tOÙ
Xct&-l)xov-ro~. Nel I libro si delinea in che consiste l'honestum, nel II
in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti tra honestum e
utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e il De virtutibus,
ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio (81); Pro Seztio Roscio (80); Pro
Q. Roscio (76); Pro M. Tullio (72-71: non completa); Verrine (70; dalla
Divinatio in C. Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5 accusat. in C.
Verrem); Pro M. Fonteio, Pro .Aula Caecina (tra il 69 e il 67); Pro lege
Manilia o De imperio Gn. Pompei (66); Pro .A. Cluentio (66); De lege agraria
contra P. Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum contra Rullum (63); Pro
C. Rabirio (63); In Catilinam (63); Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro P. Sulla,
Pro .A. Licinio .A.rchia poeta (63-62); .Ad Quirites post reditum suum (57);
Post reditum in Senatu (57); Pro domo sua a d Pontifices (57); De haruspicum
responsis in Senatu (56); Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P. Vatinium, Pro
M. Coelio, Pro Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis consularibus (56); In L.
Calpurnillm Pisonem (55); Pro T. Anneo Milone (52), Pro C. Rabirio postumo, Pro
M. Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege Deiotaro (50-45), Filippiche
(14 orazioni in M. Antonium, del 44). ·si ricordano, infine, . gli epistolari
ciceroniani, raccolti, probabilmente, fin dal 46, dal dotto liberto di
Cicerone, Tirone (Epistolarum libri XVI ad familiares, Ep. libri XVI ad
Atticum, Ep. libri Ili ad Cicer. fratrem, Ep. ad Brutum) ed alcune opere
storiche e poetiche andate perdute, ma, sembra, di nessun valore. 115 tentano di mantenere il
proprio potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti interni - senza
perdere le proprie prerogative, cer- cando anche, per la propria opera o la
propria azione, giustifica- zioni ideali. La prima concezione, d'ordine·
generale (trascendendo le singole scuole e le loro piu profonde differenze),
quale appare attraverso l'opera di Cicerone, è quella delineata come di
Antioco: visione di un tutto ordinato, gerarchicamente scandentesi, ove il
divino è la stessa ragion d'essere che fa s( che ogni cosa si articoli
all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su tutto si diffonde
(anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione (l6gos). Entro questi
termini, in cui si fondevano aspetti platonici (doH'ultimo Platone) e stoici
(particolar- mente la dottrina del principio attivo e del principio passivo,
del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della legge, e la possibile interpre-
tazione di tali dottrine, il cui esito era una concezione legale del cosmo), e
il cui arco va da Panezio ad Antioco di Ascalona, si vede bene il costituirsi
di una concezione, la quale ideologicamente serv( a giustifi- care un certo
modo di intendere la politica e il mos, quali vennero attuati sull'esempio di
Scipione, dalla corrente senatoriale, che prese, appunto, le mosse da Scipione
Emiliano. Non solo, ma tale concezione, sotto l'aspetto dell'armonia del tutto
e della legalità del tutto, giustifi- cava da parte ~enatoriale l'istituzione
di un certo "diritto" a diritto universale e la teorizzazione di un
costume e di una libertà che veni- vano perciò assunti a costume, a bene, a
libertà per tutti. Non poi molto lontana da questa, è un'altra dottrina che
traspare da Cicerone, e che sembra sia stata messa a fuoco da Filone di
Larissa. Identico lo sfondo e la strutturazione stoico-platonica, essa tuttavia
sembra rispondere a una diversa esigenza, che rivela, di contro alla oramai
sclerotizzatasi visione di certi conservatori piu rigidi, la possi- bilità di
una maggiore duttilità di una discussione e convinzione che si realizzi
retoricamente. Essa rivela cioè l'esistenza di gente che, pur legata alla
carriera politica e alla corrente senatoriale conservatrice, si rende conto dei
mutamenti avvenuti, che piu vivi sono i contrasti entro la stessa classe
dirigente, nel venire alla ribalta di uomini nuovi e in una carriera politica
alla quaie non si accede piu solo per nascita, ma anche da parte di chi ha
rivelato le proprie capacità nei tribunali e nei processi. Pur optando per la
visione di un tutto ordinato, tale strutturazione tuttavia viene assunta non
come verità assoluta. Tale accettazione dogmatica, utile finché unica era la
voce, diveniva estre- mamente debole, quando, in una discussione piu aperta si
poteva di- mostrare che, portata alle estreme conseguenze, giungeva alla nega-
zione proprio dell'azione (s( come avveniva in certe posizioni dello 116
stoicismo) e, alla fine, all'impossibilità del discorso e, perciò, ad
esau- rire la propria forza di convinzione. Di qui, invece, l'assunzione di
quella tesi, e oramai comune concezione, come ipotesi, come verità pro- babile:
era cosr possibile la discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il
muovere a quella piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le
tecniche della convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la
relativa acquisita saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover
essere, come impegno di realizzazione. E allora accanto al recupero di certo
platonismo, stoicismo, aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti
del platonismo, di quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che
come essere, proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del
saggio stoico, anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale
medi~. di una misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca-
pace, possono servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu
perfetta, posta non come principio, ma come termine di realiz- zazione. Tale la
via presa da Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e
all'Accademia, piuttosto che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando
Antioco di Ascalona. Se avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per
ostentazione o per puro gusto di critica, penso che andrebbe condannata non
solo la mia stol- tezza, ma anche il mio costume e il mio carattere. Ché se
nelle piccole cose si biasima la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso,
vorrei, allorché si tratta del fondamento e del fine della mia intera vita,
entrare in conflitto con gli altri, o frustrare gli altri tanto quanto me
stesso? Perciò, se non pensassi essere inconveniente in una tale discussione,
fare quello che tal- volta si· fa quando si discutono le questioni dello Stato,
giurerei per Giove e per gli dèi penati che brucio per scoprire la verità e che
penso come parlo. E come non potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento
che provo gradimento se, su di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma
proprio perché giudico essere cosa bellissima contemplare la verità, ritengo
vergognosissimo affermare il falso come se fosse una verità. Personalmente,
certo, sono incapace di non affermare mai il falso, di non dare mai il mio
assenso, di non avere mai un'opinione, ma qui si tratta del saggio. Quanto a
me, faccio molte congetture (io non sono un saggio), e non mi volgo a quella
piccola Cinosura [Orsa minore] "guida notturna cui si affidano i Fenici in
alto mare," come dice Arato [Cic., Arat. frg. 7; cfr. Nat. deorum, 2,
106], i quali, tanto piu esattamente si dirigono, quanto piU, per la sua
vicinanza al polo, "ha una breve rivoluzione," ma dirigo i miei
pensieri verso I'Orsa maggiore e le chiarissime stelle di settentrione, cioè
verso ragionamenti in forma larga e non minuziosamente limati. E per ciò mi
capita di andare errando e di navigare nel vago. Ma, come ho detto, non si
tratta di me, ma del sapiente. Quando, infatti, ciò che mi rappresento ha
fortemente scosso la mente e i sensi, lo
accetto e talvolta anche gli do il mio assenso; tuttavia non lo percepisco; ché
nulla ritengo si possa percepire. lo non sono un sapiente; per questo cedo alle
rappresentazioni e non posso resistere loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone,
quando pensa che la piu alta forza del sapiente è di stare attento a non essere
afferrato e a non essere ingan- nato. Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che
abbiamo della gravità· del sapiente che l'errore, la leggerezza,
l'avventatezza... (Cicerone, Lucullus, xx, 65-66). Quando scrisse gli
Accademici (nel 45 a. C.) Cicerone aveva ses- santun anni. In essi, per quel
che n'è rimasto (Acad. post. lib" l, Varro; Acad. prior. lib. Il,
Lucullus), alla posizione piu rigida e pio dogma- tica di Antioco di Ascalona,
quale, d'altra parte, si rifletteva .nella posizione di Varrone reatino e di
Lucullo, si contrappone nell'inter- pretazione del probabilismo di Filone di
Larissa (cfr. sopra: si veda anche: "ci sono molte cose probabili, le
quali, per quanto non colte in sé, tuttavia, dandoci una rappresentazione
chiara e distinta, servono a regolare la vita del saggio": De nat. deorum,
l, 12; anche Tusc. disp., V, 33, 82), una piu duttile concezione, passibile
d'essere assunta in funzione retorica, avente per fine un certo tipo di
politica. Cicerone era oramai giunto al pieno della sua maturità. Se
considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel complesso degli scritti di
Cicerone, gli Accademici hanno un particolare interesse, in quanto chiariscono
il doppio aspetto di tutto il pensiero ciceroniano: da un lato l'esigenza di
una concezione filosofica, di una riflessione critica che renda conto, diciamo
cosr, di una "saggezza teorica"; dall'altro lato, anche mediante
quella saggezza, la capacità d'inserirsi nel mondo umano, per mezzo del- l'arte
del dire, sr che quello stesso mondo umano si muova, scendendo, se si vuole, a
compromessi, usando tutte le tecniche della piu scaltrita retorica. Può darsi
che in Cicerone non vi sia una "filosofia," com'è stato detto, che in
lui coabitino piu concezioni, non poche volte in contraddizione tra di loro,
ch'esse siano state desunte, volta a volta, superficialmente, dai manuali e
dalle sillogi, ma è anche certo che in Cicerone si riflette la problematica di
un'epoca, o meglio di una certa classe di uomini, fluida e in lotta, in una
certa epoca, nel suo tenta- tivo di determinare un modo di vita, che andando
oltre l'assunzione della cultura come mezzo, facesse della cultura il fine, in
una sintesi di scienza e retorica, in un pensiero che è davvero tale se è
azione. Non è cosr un caso l'abile ripresa del motivo aristotelico ("e
cosr - esclama Cicerone, - l'uomo, secondo Aristotele, è nato per due fini,
comprendere e agire, come un dio mortale -- De finibus, II, 13, 40) di una ragione
teoretica, di una ragione pratica e di una ragione poietica (cfr. I vol.), ove,
relativamente alla retorica, essa, avendo per campo il mondo del possibile e
non del necessario, fa tutt'uno con la dialettica. Certo, per intendere
la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo ideale di vita da lui affrescato,
il significato da lui dato alla cultura e perciò al rapporto
filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica illuminata, capace di
inserirsi volta per volta nel contrasto degli avvenimenti, vanno tenuti
presenti i momenti estremamente gravi della storia e della politica di Roma
durante l'arco della vita di Cice- rone, dal 106 al 43 a. C. È storia troppo
nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le alleanze e le rotture
tra uomini in lotta, i conflitti tra i "populares" e gli
aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le lotte in nome del popolo o del
senato che gli stessi aristocratici e i cavalieri ebbero tra loro, pur di
assurgere al potere. Entro questi termini si vede bene il tentativo di Cicerone
di ostacolare l'affermazione singolare dell'uno o dell'altro personaggio - non
a caso Cice- rone fu in contrasto con Pompeo e con Cesare, - in nome di un
ordine e di una legalità che conservasse quella res-publica quale si era deli-
neata attraverso Scipione Emiliano, ch'era poi il tentativo di mante- nere un
ordine in cui si determinasse la libertà d'azione piu che degli aristocratici o
dei popolari, degli optimates. "Tutti sanno," ha scritto giustamente
La Penna, "di qual largo favore godette nell'ultimo se- colo della
repubblica romana lo slogan della libertas: uno slogan usato da parti opposte,
con contenuto diverso e indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la
libertà e la democrazia di oggi. Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso
campa di sostrati remoti di cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti
per la libertà, benché a quasi tutti gli storici sia ormai chiaro che quella
libertà era, in fondo, la facoltà per alcune cricche nobiliari di manipolare
elezioni e magi- strature, grazie alla ineducazione politica e alla fame della
plebaglia urbana, le cui esigenze vere o si manifestavano in esplosioni cieche
e inefficaci o influivano in misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno
noto... che lo slogan della libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare
sotto l'impero. Augusto attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem
publicam e gli imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della
libertà; nelle contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami
campione della libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di
scarsissimo interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan
della libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario, vada
sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e se-
curitas è la tranqu~llità nel godimento dei propri beni, senza paura di 119 nemici esterni, senza paura
di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia rerum novarum cupida,
senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto, in buone mani. Questo
processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età augustea..."
(Libertas e Securitas, "Belfagor," p. 'Zll). In effetto tutto questo
era già presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo presente la situazione
storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia da certi aristocratici e
cavalieri che agivano avendo per scopo un potere personale, sia dalle rivolte
popolari, in una struttura sociale in cui il popolo non c'era; ma anche si
chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla cultura, la tensione a porre,
sia pur come dover essere, un ordine e una misura ideali, per muovere i quali
divenivano di grande importanza tutte le tecniche retoriche, onde la retorica
venne pian piano a perdere per Cicerone il significato di mèra precettistica
(come ancora era nel giovanile De inventione), per assumere la funzione di
costituire e di "inventare" un certo ideale e di convincere ad esso.
Se non vanno dimenticati i massacri di Mario, le molte guerre civili, le
proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo, di Crasso e di Cesare, i molti
processi, neppure vanno dimenticati, anche in funzione di questi stessi
conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari, i due schemi retorici che
n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus romana, legato alla sola
tradizione del "forte" popolo romano, indi- pendentemente da ogni
cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine costituito, la cui visione
è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla concezione del saggio di
tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca nettamente dalla politica.
Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era divenuto un ideale, cioè la
figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché saggio, ma saggio perché uomo
d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo Stato verso il bene, sorge
l'esigenza di delineare l~ figura dell'oratore quale uomo politico, che può
indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da realizzare, in quanto
abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò stesso, perché ro- mano,
non solo volta a quella greca, ma anche allo studio della tra- dizione di Roma,
dei suoi costumi, della sua lingua, del suo diritto. Tale, sembra, l'esigenza
messa in chiaro da Cicerone. Da un lato, quindi, l'importanza di una cultura
enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre all'interesse per ascoltare e conoscere
i vari maestri delle varie scuole, recandosi anche nei centri di maggior
cultura, Rodi, Alessan- dria, Atene, il significato dato ai manuali, alle
introduzioni, alla di- scussione delle questioni, mediante cui formare la
propria personalità, cioè la propria humanitas o cultura; dall'altro lato il
valore che assumono le ricerche dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua,
120 alla sua cultura. Assume qui un preciso significato storico -
di cui già ci si rendeva conto nel tempo- l'opera cosiddetta erudita di
Varrone8 reatino, vissuto tra il 116 e il 27 a. C. A tale proposito, anzi,
sembra avere un particolare interesse la delineazione che Cicerone fa della
figura di Varrone e soprattutto della sua importanza per aver fatto conoscere
ai romani la loro storia, le loro antichità, contrapponendo tuttavia a lui la
propria funzione di rendere latino un aspetto della paidèia greca, costituendo
i cardini di una nuova cultura. ... Che Varrone ci dica quello che fa, poiché
le sue Muse tacciono piu a lungo del solito. Non credo che abbia smesso di
lavorare, ma penso che nasconda le cose che scrive. "Niente a~o,"
rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è follia scrivere ciò che poi si
'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una grossa opera, di cui da tempo mi
propongo di dedicare una 3 Nato nel 116 circa a. C. a Rieti, nella Sabina, da
una illustre famiglia plebea, Marco Terenzio Varrone fu soprattutto uomo di
lettere e di vastissima cultura, anche se per un certo periodo si oc:cupò di
politica. Questore nell'86, legato, propretore di Pompeo nella guerra contro
Sertorio (76 e seguenti), uibuno della plebe, pretore nel 68, legato di Pompeo
nella guerra contro i pirati (67), Varrone vedeva in Pompeo il salvatore delle
antiche tradizioni repubblicane. Addolorato per l'alleanza di Pompeo con Cesare
e Crasso, segui di nuovo Pompeo contro Cesare nella Spagna ulteriore (49). Dopo
Fàrsalo si ritirò definitivamente dalla vita politica attiva per darsi tutto
agli studi, ma sempre in funzione di Roma. Sia pur avendo combattuto contro
Cesare, sia pur avendo scritto l'elogio di Porcia, la moglie di·Catone Uticense
avversario di Cesare, Cesare, al quale Varrone aveva dedicato nel 47 le
Antìquitates rerum divi,..,m, gli diede l'incarico di organizzare un complesso
di pubbliche biblioteche latine e greche (cfr. Svetonio, Caes., 44). Morto
Cesare nel 44, Varrone rientrò tra i proscritti di An· tonio. La sua casa e la
sua ricchissima biblioteca furono saccheggiate e fu in quell'oc· casione che
molte delle opere di Varrone andarono perdute. Varrone si dette alla macchia e
fu nascosto da amici fidati, tra cui Fufio Caleno. Amnistiato poté tornare ai
suoi studi. Morl nel 27 a. C., l'anno stesso in cui Ottaviano prese il nome di
Augusto. Varrone stesso, secondo Gellio, III, IO, I7, nel I libro delle
Ebdomadi, scrivèva che a 84 anni aveva composto 490 libri: il Ritschl,
OfJUJt:., III, 525, riprendendo l'in· terrotto catalogo dei titoli delle opere
di Varrone olfertoci da S. Gerolamo e aggiun· gendo scritti citati da autori
antichi· che non si trovavano nel catalogo di S. Gerolamo, arriva a citare 70 opere
per un complesso di 620 libri. Di tale sconfinata opera di Varrone resta
pochissimo: Libri tres rerum rustìt:iiTUm (scritti a 80 anni); sei libri dei
venticinque De linpa latina; un migliaio di frammenti delle altre opere. Diamo
qui un elenco dei titoli delle opere piu celebri di Varrone: Antiquitates rerum
humanarum et divinarum (41 libri); Annalium libri tres; De vita populi Romani;
De gente populi Romani; De Pompeio (3 libri); Legationum libri 1I1; De iure
civili (15 libri); DiscipliniiTflm libri IX (1. De grammatica; 2. De
dialectica; 3. De rheto- rica; 4. De geometria; 5. De arithmetìca; 6. De
astrologia; 7. De musica; 8. De me· dicina; 9. De architectura); Libri tres
rerum rustit:iiTflm; De lingua latina (25 libri); De poematis (3 libri); De
poetis; De Jt:aenicis originibus (3 libri); De actionibus scae- nicis (3
libri); Quaestìonum Plautinarum libri V; De lectionibus (3 libri); Suationes (3
libri); Orationes (22 libri); De proprietate scriptorum (3 libri); De
bibliothecis (3 libri); De similitudine verborum (3 libri); Liber de
philosophia; De forma philo· sophiae libri' IIT; De principiis numerorum libri
IX; Logistorici (76 libri); Saturae menippeae (4 libri); Pseudo-tragoetiiar11m
(6 libri: tragedie da leggere, non da rap· presentare); Poemata ( I O
libri). 121 parte al nostro
amico (parlava di me Cicerone); è un lavoro di una certa importanza, che sto
limando e rifinendo. Varrone, dissi io, benché
da tempo aspetù questo tuo lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di
cui ti è noto l'affetto, mi ha detto (certe cose non si possono nascondere), che,
!ungi dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né mai
l'abbandoni. C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in mente di
farti; ma ora, che mi son dato all'impresa di trasmet- tere gli argomenti dei
nostri comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica filosofia che
è cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi tante cose,
accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che tale studio
e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e ad ogni
altra arte?" Varrone rispose: "Tu mi parli di un progetto cui ho
spesso pensato, che spesso ho agitato... Vedendo la filo- sofia trattata con
una cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei nostri
concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle
dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre
quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si
curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere
l'erudizione greca. Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non
potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che
rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica
(due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo
costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù
preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure
ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. Non solo, ma tu, Cicerone,
conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che
questa forza plasma e modifica: abbiamo dun- que bisogno anche della geometria.
Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che
concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve
cercare?... (In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...:
quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e
oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! Tengo, dunque, per me solo
i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola
della mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la filosofia
è il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli dèi. Ma
quelli dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in Grecia,
consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai rivi che ne
derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e che gli
studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel che ho
potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei
concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la
morte del nostro L. Elio, ai Latini. Ad ogni modo, le opere della mia
giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche
gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non
poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere
dall'interesse dell'argomento, 122 comprendessero piu facilmente
tali questioni filosofiche, mi sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei
proemt delle mie Antichità, se, comunque V l sono ClUSCltO. "SI,"
risposi, "ci sei riuscito, Varrone; stranieri nella nostra città, errànti
come viaggiatori, le tue opere ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e,
grazie a te, possiamo finalmente conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che
ci hai rivelato l'età della nostra patria, la successione dei tempi, i diritti
della religione e del sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna,
la disciplina militare, la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci
hai svelato i nomi di tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e
le cause. Tu hai diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla
nostra grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto;
tu, certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare
l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o,
I-III, 2-10). Varrone, per quel che ne sappiamo, fu soprattutto un uomo di
studio. Forte di una certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla
scia del suo maestro Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Va"o, III, 12),
applicò alle proprie ricerche sul mondo antico, greco e romano, il metodo
istorico proprio della scuola peripatetica, cercando d'illumi- nare le sue
ricerche intorno ai costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla
letteratura, mediante la visione della vita e della virtu propria degli stoici,
dei cinici, e, pare, in particolare di Posidonio. Ad ogni modo sembra che le
molte letture, la sua curiosità di co- noscere le cose umane, attraverso i
monumenti e i documenti, lo ab- biano portato, nei suoi scritti, oltre alla
descrizione e alla schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf
agli antichi sf come un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in certe
condi- zioni politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce certi tipi
di costume, di religione, di condotta politica. Sotto questo aspetto si chia-
risce come Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore
all'altro, tre tipi di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie-
garsi da parte dell'uomo la propria esigenza religiosa. Il discorso su dio in
forma di favola (teologia favolosa o poetica) risponde all'esi~ genza del
divino propria degli uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino
interpretato come ragion d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia
naturale), è il discorso proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che
identificano il divino con la stessa ragion d'essere o con le possibili
condizioni che rendono pensabile la realtà, quali che poi ognuno ritenga siano
le strutture del tutto (Varrone accettava la tesi accademico-stoica del divino
come anima mund1); il discorso sulla divinità, rispondente all'esigenza
dell'uomo in soCietà (teologia civile) di trovare un criterio
all'obbligatorietà della legge, può essere in con- trasto, per ragioni
politiche, con la t~ologia naturale (ove molte sono le soluzioni e le
interpretazioni), per cui, proprio in funzione della vita associata, secondo
Varrone, i discorsi della. filosofia intorno al divino e alla natura debbono
rimanere privati o chiusi in seno alle scuole, a meno ch'essi non coincidano
con le strutture legali di una certa comunità, servendo anzi a rendere conto di
tale legalità. Il che, per altra via, sembra spiegare il successo di certo
stoicismo e di certa Acca- demia nell'àmbito della classe romana, dirigente la
vita politica (cfr. per la testimonianza sulle tre teologie, Sant'Agostino, De
Civitate Dei, VI, 2-5). Gli studi storico-eruditi di Yarrone su come è che
l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra parte, a sostenere che già gli studi e le
dimostra- zioni dei piu grandi pensatori dimostrano che l'aspirazione naturale
dell'uomo consiste nel realizzare pienamente se stesso (felicità), e che perciò
l'uomo è felice, allorché attua se medesimo sia come anima sia come corpo, ché
l'uomo è un tutt'uno d'anima e di corpo. Vita beata, perciò, si avrà quando
"virtu" (capacità di realizzare sé eccellente- mente) e
"naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per natura, prima
naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano anche quei
beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla. Di qui
anche si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e attiva),
ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né l'altro,
se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita cioè che
sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca dalla
rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria
posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua
sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue
ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura
posteriore e sull'organizzazione degli studi. Purtroppo della sua immensa
produzione - sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres
rerum rusticarum (che scrisse a 80 anni), sei libri dei 25 De lingua latina,
pochi fram- menti e non poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle
sue ricerche in quasi tutti gli autori posteriori. Cos{ sembra che tra le opere
piu lette e sfruttate siano state le Antiquitates rerum huma- narum et
divinarum (in 41 libri) e gli Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De
poematis, il De poetis, il De scaenicis originibus, il De actio- nibus
scaenicis, i Quaestionum Plautinarum libri V, il De jure civili, i Logistorici
- mentre notevole influenza, rispetto all'organizzazione degli studi e degli
insegnamenti, mediante cui costituire il "cur- 124
riculum" che formi l'uomo, che lo liberi con una cultura fondata
appunto sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum libri IX, cosi
suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de geometria, de
arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de architectura. Varrone
era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor· tanza della cultura
per la formazione dei "cittadini." Solo che Cice- rone fu piu preso
nel giuoco politico che non Varrone. Varrone ebbe, certo, uffici importanti (fu
triumviro capitale, questore nell'86, pro- pretore di Pompeo nel 76, tribuno
della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra civile dalla parte di
Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche, pacificatosi con Cesare,
al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò ogni velleità politica,
proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi (Cesare lo incaricò di
mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a sfuggire alla proscrizione
di Antonio (43 a.C.). Purtroppo le sue biblioteche andarono completa- mente
distrutte. Altro il temperamento di Cicerone. Senza dubbio piu ambizioso, egli,
fin da giovane, fu attratto dalla carriera politica. Fu, anzi, in funzione di questa
che Cicerone venne elaborando una concezione, che, riprendendo motivi
circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere un ordine e una
misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella lotta per il potere
di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si tenga poi presente
che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas della
res-publica. Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una possibile
carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del suo tempo
(egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu particolarmente
attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone), preso dagli
esempi di grandi oratori come Sulpicio, di giu- risti come Scevola, di uomini politici
corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di Scipione Emiliano,
Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del retòre, divenuto oramai
solo maestro di retorica, precettista, nell'antica figura del retore uomo
politico, del- l'orator, nel senso di un Demostene, che, tuttavia, deve
inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per la quale
perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una diversa
concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e degli
Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica delle
diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e dei
contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu probabile)
servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo or- dine
politico e giuridico. Per questo Cicerqne, non accettando la tesi 125 varroniana che le questioni
piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole,
affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle
conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto
politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere
(duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta
atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale
politico, in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la
"res-publica," fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno
abbia il posto che gli compete. Di qui la paura continua di Cicerone (e il
compromesso) nei__confronti di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in
nome del popolo, potere personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si
dimostrò difensore del Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché
in Cesare egli vedeva il possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione
Emiliano; riti- ratosi dalla vita politica durante il periodo in cui Cesare
ebbe in mano il potere, Cicerone riprese la sua attività politica alla morte di
Cesare (15 marzo 44), in appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato,
il difensore dei diritti del Senato, moderatore della "res-publica,"
contro Antonio. Incluso nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano
e Lepido si trovarono d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai
sicari di Antonio nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. Cicerone se da un
lato appare come un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo,
mediante la sua visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove
tutto ha il suo giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo
si costituisce legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr.
Somnium Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una
specie di anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da
quelle retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il
fondamento giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana
di Ottaviano Augusto. Entro questi termini si vede bene la linea - anche
cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione (85-80) al De
officiis (44-43), che passando attraverso il De Oratore (55), il De republica
(54), il De Legibus (52), le Partitiones oratoriae e il Brutus (46), si compie
nel senso di un affinamento delle tecniche di persuasione e dello studio di
quelle tecniche stesse, mediante l'Orator (46), i Paradoxa stoicorum (46), i
Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie ipotesi, per avviare -
tale è per Cicerone la funzione protrettica della filosofia, e sembra che
questo fosse il contenuto del perduto Hor- tensius (46) - a certi presupposti
valori, dialetticamente enunciati e 126 retoricamente discussi che
siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata nella
Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De
natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De fato, De gloria,
Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte tutte al tempo
della sua forzata inazione politica, tra il 45 e il 44-43). Inutile ripetere,
ora, quanto ab- biamo detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le
componenti culturali del II-I secolo a. C., e che per necessità di
documentazione abbiamo rintracciato attraverso Cicerone stesso (per la
concezione ci- ceroniana della legge, della r.es-publica, del decoro, dei
doveri medi, del- l'honestum, dell'humanitas, del consensus gentium, cfr.
sopra). Certo, con Cicerone, attraverso la dialettica (in senso soprattutto
accademico-filoniano e tecnicamente stoico: "la dialettica è l'arte che
insegna a distribuire una cosa intera nelle sue parti, a ,spiegare una cosa
nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura con una
interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo e da
ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero e il falso e se
le conseguenze derivino dalle assunte premesse" : Brutus, 41, 152), si
determina il t6pos della filosofia intesa come discorso reto- rico-protrettico
in funzione di una certa forma di vita civile e legale, in una opzione
dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio- nevolmente (piu che
razionalmente) costituito. Filosofia, condottiera dell'esistenza! indagatrice
della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza di te che ne sarebbe non
dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu hai fatto nascere le
città; hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano dispersi; li hai uniti
nella convivenza sociale, ottenendo il reciproco rispetto tra vicini ed
insegnando alle fami- glie a federarsi con patti nuziali; tu. hai rivelato agli
uomini le possibilità comunicative del linguaggio e della scrittura. Hai
inventato le leggi, hai suscitato le comunanze, hai dettato i doveri... Meglio
vivere un giorno a norma di filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato.
E chi saprebbe aiutarci meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del
vivere; tu ci hai salvato dal terrore della morte... (Tusculanae, V, 2, 5-6). E
che si tratti di opzione, di un ordine posto piu che come essere coine dover
essere, di un fine cui convincere e convincersi mediante la dialettica e il
discorso mitico, sembra si chiarisca bene quando si tenga presente la polemica
di Cicerone nei confronti della divinazione, del fato e della simpatia
universale, nei termini in cui derivavano da una massiccia e
naturalistico-razionale interpretazione dello stoicismo teologico. Sotto questo
aspetto Cicerone sembra che rovesci la visione del tutto ordinato e
necessariamente articolato in una simpatia uni-
127 versale, per cui tutto ciò che avviene, avviene come è
bene che sia (Provvidenza), necessariamente (fato), onde si rende possibile la
divi- nazione, ch'era visione propria di certe posizioni stoiche. La questione
di come allora si possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era
questione su cui già gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare
Crisippo), e su cui gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era
assolutamente negato - almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino
e libertà (si ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro
Aristotele, giungeva a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il
contingente e il possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza
della strutturazione del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia
razionalmente costituito, sca- turendo anzi da un incontro casuale di atomi
(Epicuro), si giungeva ad accantonare la questione dell'ordine in sé, per
sostenere che l'or- dine e la misura sono dovuti alla stessa attività e alle
iniziative umane, mediante cui si sfuggiva al cosiddetto "argomento
pigro" (ignava ratio), ch'era la conclusione cui secondo i megarici (probabilmente
i seguaci di Diodoro Crono) doveva giungere chi sosteneva che il tutto è
provvidenzialmente e fatalmente ordinato. Se per te è destino di gua- rire da
questa malattia, guarirai; sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai.
Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai,
sia se ricorrerai a un medico sia se non ricor- rerai. Ora il tuo destino è
l'una o l'altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al
medico" (Cicerone, De fato, 12, 28). Non a caso Cicerone, particolarmente
nel D e fato (cfr. anche D e divina- tione), ripropone la lunga discussione sul
destino e sulla libertà, pro- spettando sia le concezioni antologiche (da
Crisippo a Epicuro), sia quelle logiche che negando il possibile e la libertà
sul piano .logico (Diodoro), non escludono su altro piano (allorché si dimostri
con Car- neade che strutture della ragione e strutture della realtà possono non
coincidere) che sia possibile da parte umana volere quell'ordine che, col
criterio della probabilità, si pone come termine di realizzazione, solo
miticamente e idealmente posto dietro le spalle, lasciando all'uomo la
possibilità di costituire quell'ordine idealmente presupposto, a cui con-
vincere mediante le tecniche della persuasione. Tale sembrò allora a Cicerone -
nel periodo di pace fredda con Cesare e di inazione politica diretta - la sua
funzione politica ("la filosofia rimase trascurata fino ad ora, né mai
brillò nella letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e, se
nella mia attività politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per
quanto è possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata": Tusc.
disp., l, 3, 5). Nella Repubblica e nelle Leggi egli aveva delineato quale
doveva 128 essere lo Stato nella sua fondazione e nella sua
costituzione giuridica, tenendo presente l'ideale figura di Scipione, non
imperator, non rex, ma princeps, moderatore e reggitore dell'ordine ragionevole
della res- publica, si come la divinità lo è del cosmo. Ora, a quell'ordine e a
quella misura si doveva convincere per altra via. Non assunta dogma- ticamente
alcuna posizione o concezione già data - ad ogni posizione come tale si può
opporre altra posizione, - si determina il metodo del- l'opzione per una qual
certa ipotesi, a seconda della sua probabilità e del suo possibile successo in
funzione di una certa concezione che serva alla vita politica e associata
(Accademici). Tale atteggiamento scettico, rispetto alla struttura della
realtà, portava Cicerone in una, volta a volta, rigorosa discussione ed
esposizione delle tesi opposte, ad assu- mere quella certa tesi che servisse a
quel certo scopo, attraverso una retorica convinzione (De fìnibus, Tusculanae
disp., De natura deorum), si che l'ordine e la misura prospettati (ch'erano poi
l'ordine e la misura genericamente stoici e platonici) divenissero termini di
volontà, azione per combattere chi volesse rompere quell'ordine politicamente e
giuri- dicamente costituitosi, in un equilibrio sociale, che, d'altra parte,
esclu- deva l'accettazione supina di un ordine necessario che, alla fine,
poteva portare all'indifferenza per tutto ciò che avvenisse, appunto alla pigra
ragione (De divinatione, De fato, De otficiis). In effetto l'opera di Cicerone
presenta costantemente due aspetti: un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non
crede in nulla, angosciato - in un'epoca in cui morire era facile, in cui le
vecchie tavole dei valori erano travolte - dall'idea della morte, che
attraverso il successo e l'azione e l'opera personale spera nella gloria, unica
eternità ("breve è la vita che da natura abbiamo ricevuto; ma se
nobilmente la ren- diamo, essa lascia sempiterna memoria. Se tale memoria non
durasse piu della stessa vita, chi sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo
delle piu grandi fatiche e dei piu grandi pericoli, di raggiungere la lode e la
gloria- supreme? ... E cosi, in cambio della. vostra condizione mortale avete
ottenuto l'immortalità": Filippiche, XIV, 12, 32: e sono le ultime parole
di Cicerone), che delinea per sé e per gli altri del suo gruppo, della sua
classe, una specie di modus vivendi, un'etica che si risolve in un giusto mezzo
di tipo aristotelico, e per cui, appunto, la virtu sta, di volta in volta, in
un saper dominare se stessi e le cose con misura, con distacco, in una
convenienza che si rivela fin nel tratto, nella voce, nel modo di vestire e di
parlare, in un vivere civile, che si delinea alla fine in un tipo di morale da
"signori," e, perciò, per cosi dire, in un "galateo"; e un
Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in fun- zione della classe degli
optimates, tende a difendere un tipo di res- publica, e per cui, su di un piano
retorico vale la pena di ricorrere
129 anche ai piu consunti t6poi dell'ordine e della misura
del tutto, del- l'armonia dei cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli
astri (non si scordi che Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni
di Arato),.della funzione civile degli àuguri, onde per il popolo servono la
teologia poetica e la teologia civile delineate da Varrone. Non a caso cosi Cicerone
che, per altro verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di chi aveva
le capacità di governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi assumesse
potere personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e la misura
come termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi: Credo che
effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica... (II, 13,
32). Lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e dell'autorità
degli ottimati... La istituzione e l'autorità degli àuguri è di vitale
importanza per lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma perché è
di vitale importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore
della possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che
l'àugure dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che
potere imporre le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che
poter dare o rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che
potere abolire una legge ingiusta? (II, 12, 30-31). "Con Cicerone, come
con Platone," .commenta il Farrington, "biso- gna sempre porsi la
domanda: queste sono le parole del legislatore o del filosofo?" (Scienza
e· politica nel mondo antico, trad. it., p. 217, n. 33, Milano, 1960); e
prosegue: "questa era l'attività delle due piu rilevanti figure di
letterati (Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente precedenti
e seguenti alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria sul
problema di salvare la società conservando e inculcando la superstizione non è
un fenomeno isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano
testimoniata da Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici
della classe dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo
stoicismo il nuovo mondo d'Occidente" (cit., p. 187). 3. L'Epicureismo a
Roma. Epicurei romam. Filodemo di Gadara. Lucrezio Entro i termini della
problematica ciceroniana, sembra chiaro l'at- teggiamento costantemente
polemico di Cicerone nei confronti dell'epi- cureismo. Cicerone non combatte
tanto l'ipotesi epicurea quale possi- bile ipotesi con cui spiegare la
pensabilità del reale, quanto gli esiti a 130 cui quell'ipotesi
conduce sul piano politico-sociale, particolarmente per quel che riguarda la
tesi dell'ordine razionale e unico del tutto, e la tesi della religiosità della
legge naturale, messe iri forse dalla filosofia di Epicuro, donde derivava
anche la polemica di lui contro la cultura ufficiale, contro la superstizione
usata come strumento politico, ma soprattutto la conclusione che l'uomo,
ciascuno, è responsabile del pro- prio mondo, della costruzione del rapporto
umano, indipendentemente da elaborate discussioni sul divino, sui processi
conoscitivi, sulla dialet- tica e sulla retorica, che sembravano finire in
esercitazioni puramente scolastiche. Va, dunque, ora, tenuta presente la forza
rivoluzionaria dei mo- tivi dell'epicureismo e cioè il deciso sganciamento
dell'uomo da un ordine precostituit.o e razionale per sé; il mondo umano
costituito storicamente dagli stessi uomini entro l'arco della vita umana (e
non si scordi il motivo della convenzionalità del diritto e della giustizia);
la liberazione degli uomini da preconcetti e pregiudizi religiosi e
teologico-politici (da cui la polemica di Epicuro contro un tipo di cultura e
di politica); l'appello di Epicuro ad intendere la natura per quello che la
natura è, ascoltando la "voce delle cose"; la raziona- lità dovuta
alla stessa attività della ragione nella costruzione del pro- prio mondo in un
equilibrio e in una misura che sono conquista e non dati; il risolversi della
realtà, umanamente, nel linguaggio (per cui, poi, in effetto, semanti.camente
la logica epicurea poteva coincidere, escluso che il segno evochi la cosa
coincidendo con la cosa stessa, con la logica stoica del tipo di quella di
Zenone di Cizio). Non solo, ma di qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si
rivolgeva a tutti, uomini e donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro
alla semplicità del- l'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non
contraddittorie e intui- tive sulla costituzione della realtà che rendano
capace l'uomo di pen- sare con la propria testa, liberandosi da pregiudizi e
paura, dal mistero della natura, di cui solo pochi eletti possono parlare
(altro aspetto della polemica di Epicuro contro la cultura), e l'appello di
Epicuro all'ami- cizia, all'isolarsi da un certo mondo politico, in un rapporto
di uomini, che, comprendendosi, trovino nel con-vivere (amicizia) il
significato di un mondo costruito dagli uomini stessi, . in equilibrio e serena
armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).4 4 Degli Epicurei di Atene e scolarchi
del giardino dopo Epicuro sappiamo, in realtà, solo i nomi, e che seguirono e
diffusero il pensiero del maestro. Ne abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo
Epicuro al 51 a. C., anno in cui, sembra, l'Areopago di Atene concesse al
romano Memmio di edificare sull'area occupata dalla Scuola di Epicuro. Essi
sono: Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno
del Giardino, Zenone di Sidone (morto nel 79-78, ascoltato da Cicerone), 131 Gli esiti, dunque,
dell'ipotesi epicurea e ~ella propaganda epicurea preoccupano Cicerone. Egli è
preoccupato perché, spezzato il pregiu- dizio (politicamente utile) di un
ordine già dato, di una divinità che è legge e dell'immortalità dell'anima,
mediante un insegnamento fon- dato su poche e semplici nozioni - possibili di
essere comprese da tutti, - si poteva liberare il popolo dalla catena del
divino e dalla paura dell'aldilà, donde ne sarebbe derivata, disancorata da una
razio- nalità costituita, un'irrazionalità pericolosissima per quella
res-publica difesa da Cicerone: non a caso Cicerone insiste contro
gl'indifferenti dèi di Epicuro, messi "a riposo" (cfr. De nat. deorum,
I, 44, 123), non pio elementi perturbatori dell'operare umano, e contro
l'ipotesi dell'incontro fortuito degli atomi e del clinamen (cfr. De nat.
deorum, I, 25, 69-70; De finibus, I, 6, 19), da cui secondo Cicerone
deriverebbe la stessa irrazionalità del mondo umano: "Come non dovrei
meravi- gliarmi," esclama Cicerone, "che vi sia un uomo capace di
credere che elementi solidi e indivisibili, movendosi di propria forza e
aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a questo nostro mondo, pieno
di tanta armoniosa bellezza? Chi crede possibile questo, non capisco perché non
creda possibile ançhe che, seminando alla rinfusa una certa quantità di lettere
dell'alfabeto, impresse in oro o in qualsiasi altro Fedro (ascoltato da
Cicerone), Patrone (scolarca dal 70 al 51 a. C.). Cfr. oltre nel testo. Cosl,
poco o nulla sappiamo della prima diffusion~:~ dell'epicureismo in Roma, sicura
da prima del 173 a. C., se di quell'anno è l'espulsione da parte del Senato di
due epicurei venuti dalla Grecia Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a;
Eliano, V.v. hist., IX, 12) e dei primi epicurei romani, che avrebbero diffuso
la dottrina di Epicuro in latino. Essi sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui
non altro sappiamo se non ciò che riferisce Cicerone. Cfr. oltre nel testo.
Durante il 1 secolo a.C. furono in Roma e nel circolo epicureo, formatosi a
Napoli e a Ercolano, Filodemo di Gàdara e Silone. Nato a Gàdara, in Silia, nel
110 a.C. cilca, morto dopo il 40, non oltre il 30 (Strabone, XVI, 754),
discepolo di Zenone di Sidone, venuto a Roma, Filodemo entrò in dimestichezza
di Pisone e con lui, nella villa di Pisone ad Ercolano, fondò un vero e proprio
eilcolo epicureo. Tra i molti libri epicurei ritrovati in papili nella casa di
Pisone ad Ercolano, molti sono frammenti e testi dello stesso Filodemo. Sono
pubblicati: L'ordinamento dei filosofi (andato sotto il nome di Intlez
Herculanensis, comprendente un Indice degli Accademici, uno degli Stoici, uno
dei Socrtllia); Su Epicwo (llcpl 'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu)
i Sugli tln (llcpl &c6iv) i Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla
musica (llcpl IJ.O~) i Sugli Stoici (llcpl -r6iv :E-rtn- x6iv) ; Sui segni
(llcpl cnJILII(c,)" X4l cnJILII~") ; .Atluersus Sophisttu. Molto poco
sappiamo di Silone, se non che avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio
cilcolo epicureo, assai vivo durante la metl del 1 secolo a. C. Di lui parlano
Cicerone che lo dice uir optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe
avuto maestro a Napoli. Su di lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal
Cronert in Colotes unti Menetlemos, Lipsia, 1906. Il Papiro ercolanense l 044
dA poi alcune notizie biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima
metl del 1 secolo a.C., morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il
quale avrebbe diffuso in Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante
il peso di ben 125 ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si
disporrebbero in terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli
Annali di Ennio. Non so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un
solo verso. Ma se il concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un
mondo, perché non dovrebbe dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno
faticose c meno complicate, come un portico, un tempio, una casa, una città? Mi
pare insomma che chi tanto infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai
get- tato un'occhiata alla meravigliosa bellezza dci cieli. Per me io rinuncio
ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione; mi basta con- templare
con gli occhi la bellezza di tutto ciò che noi affermiamo sta- bilito dalla
divina provvidenza" (De_nat. deorum, Il, 37-38, 93-94, 98: ove va
ricordato che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi stoica sostc- nua da
Posidonio nel Ilept .&e&v- Sugli dèi, - in contrapposizione alla tesi
ecipurea sugli dèi, esposta da C. Velleio sulla linea del IIept .&e&v -
Sugli dèi - dell'epicureo Fedro di Atene, nel I libro del De natura deorum).
Non solo, ma Cicerone era preoccupato anche perché il motivo epi- cureo dell'ordine
c della misura dovuti alla stessa attività umana, indi- pendentemente da ogni
legge già data e naturale, poteva portare alla rottura della legge costituita
da parte di uomini, che, avendone la capacità, tendessero ad assumere potere
personale (forse anche di qui la fama di Cesare epicureo), ed infine perché
l'epicureismo poteva dive- nire presso chi s'era nauseato della vita politica
quale si svolgeva in Roma, evasione da quella stessa politica, in conventicole
di amici, che sembravano tradire l'azione civile cui si appellava Cicerone, ma
che, per altro verso, potevano essere d'accordo con Cicerone, contro la tiran-
nide (come fu il caso dell'epicureo Cassio, che uccise Cesare). Sembra, in tal
senso, molto indicativo che Cicerone sostenga di non avere mai letto un rigo
degli epicurei latini che avevano diffuso la dot- trina epicurea tra il popolo,
affermando che sono troppo facili, rozzi, plebei (cfr. Va"o, 2; Tusc.
disp., l, 3, 6; Il, 3, 7-8; IV, 3, 5-7); ch'egli non discuta·mai a fondo le tesi
di Epicuro, apponendogli altre tesi (ad esempio l'immortalità dell'anima,
supinamentc accettata dal Pedone, il motivo dell'ordine e della legge del
tutto, dell'ordine e della perfe- zione dei moti stellari, rivelanti la
divinità che tutti accettano, consensus gentium: cfr. Tusc. disp., I, 11 sgg.;
De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli pur ammiri la personalità e l'esempio
della virtu di Epicuro ("e chi nega ch'Epicuro sia stato un uomo buono,
gentile, ben edu- cato? in queste discussioni l'indagine verte sulle sue idee,
non sulla sua condotta; lasciamo alla frivolezza dei Greci codesta moda
bizzarra di far della maldicenza sul conto di quelli da cui dissentono nella
ricerca del vero...; non solo, ma molti Epicurei furono e sono al presente
fedeli 133 nelle amtctzte,
equilibrati e sen m tutta la vita... ma...": D~ finibus, Il, 25, 80-81); e
che, infine, decisamente affermi che le posizioni epi- curee e il loro
linguaggio "dovrebbero essere proibiti da un c~nsor~ piuttosto che
rifiutate da un filosofo" (D~ finibus, II, 10, 30). Le stesse ragioni che
muovevano Cicerone a condannare le tesi epi- curee, aveva mosso nel 173 o nel
154 (a. seconda che il console ricordato, L. Postumio, sia quello del 173 o
quello del 154 a. C.) il Senato romano a espellere da Roma due epicurei venuti
dalla Grecia, Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, Var. hist.,
IX, 12). "Per avere introdotto costumi licenziosi," si legge in
Ateneo: cioè dottrine che, rispetto al costume romano, sembravano immorali.
Entro questi termini può essere significativo ricordare un testo della Bibbia,
cioè un passo del Lib~r sapientiae, composto circa in questa stessa età in am-
biente ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei
confronti dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicu- reismo
potevano essere affini per la loro inton~zione mondana - rela- tivamente, anche
se per altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione
dell'immortalità dell'anima e l'annullamento del pregiu- dizio che Dio sia
signore e legge del tutto. Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé
la morte, e cre- dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza:
perché sono degni di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente,
dissero fra di loro: breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è
refrigerio alla fine dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato
dall'inferno. Perché noi siamo nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo
stati, perché il fiato delle nostre radici è un fumo: e la parola è una
scintilla che viene dal movimento del nostro cuore. Spenta questa, il nostro
corpo sarà cenere, e lo spirito si disperderà come aura leggera e la nostra
vita passerà come la traccia di una nuvola, e si scioglierà come la nebbia
battuta dai raggi del sole e sopraffatta dal suo calore. E il nostro nome sarà
dimenticato col tempo, e nessuno avrà memoria delle nostre opere. Perché il
nostro tempo è un'ombra che passa, e finiti come siamo non si torna a capo, si
mette il sigillo, e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni
pre- senti, e profittiamo delle creature, come della gioventU con
sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e di unguenti: e non si lasci
sfuggire il fior( della stagione. Coroniamoci di rose prima che appassiscano:
non vi sia pratò, per cui non passi la nostra cupidità. Nessuno di noi sia
escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni luogo i segni della nostra
allegria, perché questa è la nostra parte e la nostra sorte (Libro d~lla
sapienza, l, l, 16, 2, 1-9). In tal senso verrà sempre interpretato, dagli
avversari dell'epicurei- smo, il "piacere" epicureo e in tal modo
verranno giudicate le lorc riunioni amichevoli e conviviali, i loro sodalizi di
amici che, sappiamo 134 si diffusero in Oriente e in Occidente. E
cosr sembra assumere un significato ancora maggiore la lotta degli ebrei di
Palestina contro Antioco Epifane, quando si pensa che probabilmente la
diffusione del- l'ellenismo in quel paese ad opera di Antioco, la sua lotta
contro. la superstizione ebraica (cfr. Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta
all'epi- cureismo cui si era convertito il re Seleucida, se diamo valore ad un
frammento in cui si dice che Filonide di Laodicea, epicureo, era riuscito a
piegare, in Antiochia, il re Antioco all'epicureismo: "piegato
dall'aggre~sione di·almeno centoventicinque opuscoli, Antioco dovette
soccombere" (cfr. V. E. R. Bevan, The house of Seleucos, II, pp. 276-7;
anche B. Farrington, cit., p. 147). Ad ogni modo sappiamo, attraverso Cicerone,
che circa nella se- conda metà del 11 secolo a. C., l'epicureismo, ad opera dei
latini Amafinio, Rabirio, Cazio, si era diffuso in Roma e in Italia,
soprattutto presso il popolo (plebs, dice Cicerone, che è termine preciso e che
ha un suo significato giuridico). Sono, appunto, i testi di questo epicu-
reismo facile, plebeo, che evade da discussioni tecniche, che non si preoccupa
di dialettica e di retorica, sono questi i testi che Cicerone finge di non aver
mai letti, e nei quali ci si sarebbe impegnati, attra- verso un'esposizione della
fisica epicurea, a liberare gli uomini dalla superstizione. Lo studio della
sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi [romani}, però
non riesco a trovare nomi da citare per il periodo ante- riore a Lelio e
Scipione Emiliano. Quando questi erano giovani, mi ri- sulta che furono mandati
dagli Ateniesi, come ambasciatori presso il senato, lo stoico Diogene e
l'accademico Carneade; essi non si erano mai occupati di politica, uno era di
Cirene e l'altro babilonese: certamente non sarebbero stati tolti al loro
insegnamento e scelti per quell'incarico, se in quei tempi certi nostri
personaggi in vista non avessero dimostrato interesse per la cul- tura
filosofica. Essi però affidavano allo scritto gli altri loro studi, chi il
diritto civile, chi i propri discorsi, chi le memorie degli antenati: ma pre-
ferirono attendere a questa dottrina, che insegna a vivere bene ed è la piu
nobile di tutte le arti, con la loro vita piu che cori i loro scritti. Pertanto
quella vera e otti~a filosofia che, iniziata da Socrate, trovò finora i suoi
continuatori nei P~ripatetici ed anche negli Stoici che sostenevano le stesse
idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici facevano da arbitri nelle loro
controversie, non è rappresentata da quasi nessuna o da ben poche opere in
latino, sia perché l'impresa era grande e gli uomini troppo affaccendati, sia
anche perché pensavano che tali studi non potevano essere apprezzati da gente
del tutto profana. Frattanto, mentre quelli tacevano, prese la parola Gaio
Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse
soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia
perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, -non
essen- 135 dosi prodotto
nulla di meglio tenevano quel che c'era. Dopo Amafinio molti seguaci della
medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e inva- sero tutta
l'Italia; e mentre la miglior prova della grossolanità di quelle idee sta nel
fatto che sono cosi facilmente apprese e approvate dagli igno- ranti, essi
credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc. disp., IV, 3,
S-7). C'è una categoria di persone che vogliono essere chiamate filosofi, e si
dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io non li disprezzo· in
quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li scrivono dichia-
rano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione e ordinata
disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di stile, io
trascuro una lettura che non offre alcun diletto. Nessuno infatti, sia pur di
modesta cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di quella tale
scuola. Perciò, poiché no!Y'si preoccupano essi stessi della maniera di
esprimersi, non capisco perché" debbano essere !ehi se non fra di loro che
hanno le medesime idee. In realtà, tutti leggono Platone e gli altri della
scuola socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi derivarono, li
leg- gono anche . coloro che non accettano o . non si entusiasmano per quelle
teorie; ma quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro
seguaci. Allo stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che ritengono
giuste tali teorie (Tusc. disp., Il, 3, 7-8). Pertanto quei tali leg- gono i
loro libri con quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in mano se
non coloro che pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo (Tusc. disp.,
I, 3, 6). Amafinio e Rabirio, non seguendo alcuna tecnica, trattano con stile
volgare (vulgari sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di tutti. Non sanno
definire nulla, nulla dividere, nulla concludere con retta interrogazione:
ritengono, infine, che non vi sia alcun'arte, né per la parola, né per il
ragio- namento... In fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito, potrei espri-
mermi con piu facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande, respinte le cause
efficienti, parlare del concorso fortuito dei corpuscoli (cosi chiamano gli
atomi)?... (Varra, Il, S-6). Ogni volta che ci penso, mi fa spesso mera- viglia
la stranezza di alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la conoscenza della
natura ed esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo vene- rano come un
dio; si proclamano infatti liberati per merito suo da gravi padroni, cioè da un
terrore continuo ed eterno e da un timore che giorno e notte li tormenta. Da
quale terrore? da quale timore? Quale vecchierella è tanto pazza da temere
codeste fole, che voi evidentemente temereste se non aveste studiato la scienza
della natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo dell'Orco, luoghi
pallidi di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp., I, 21, 48). Su
testimonianza dello stesso Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di fondo,
nella sua polemica contro un certo tipo di cultura ("lo studio della
natura non forma un tipo d'uomo bravo a van- 136 tarsi e a
straparlare e a sc10nnare quella cultura che è tanto ricer- cata dai piu":
Gnom. Vat., 45), nella sua semplicità d'interpreta- zione della natura, opposta
alla complessa interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la
censura senatoriale del 173, in Roma e in Italia, particolarmente presso il
popolo; tuttavia non abbiamo suf- ficienti testimonianze e documenti per potere
affermare il successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel
popolo medesimo in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati,
in una ribel- lione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da
chi aveva in mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche,
aristoteliche e stoiche. In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non
esisteva un popolo organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale
da dare al popolo una certa ideologia. Si capisce perciò perché, in Roma e nel
mondo latino, piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari,
piu successo l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero
costituiti a dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e
riti), alcuni aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale.
Tanto piu chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia
di fronte alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di
certo Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di Lucrezio (99-95/55-51
circa), la ·sua interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum
natura, ·in 6 libri). A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che
Cicerone, il quale pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo
meno rivide alcune parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su
proposta di Pomponio Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che
del valore della sua poesia parla al fratello in una sua lettera privata del
54, forse quando mori Lucrezio (Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt:
multis luminibus ingeni, multae tamen artis"), mai, in tutta la sua
produzione, faccia direttamente cenno a Lucrezio (anche se per sottinteso piu
di una volta), da un lato fingendo di non avere mai letto i piu antichi
epicurei latini (il che poi non è adatto vero, se in una lettera a Cassio, Ad.
fam., XV, 16, l, 19, l, poteva scher- zosamente discutere dei termini tecnici
usati da quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio dello stesso anno in
cui Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto, appunto, della sua
ignoranza di quei testi); dall'altro lato, cercando di minimizzare l'opera di
Lucrezio, non solo tacendone, ma cercando di ridurla a un lavoro scritto per
igno- ranti, non degno d'essere letto da uOmini di cultura e inutile per il
popolo, per il quale invece è necessaria la "costante guida e l'autorità
degli ottimati" (non sembra un caso che proprio là dove Cicerone cerca di
minimizzare il significato della fisica epicurea, sostenendo che 137 è tesi sragionevole e
assurda, tenga presente, mediante citazione indi- retta o chiaramente allusiva,
proprio certi passi dell'opera di Lucrezio). Tutto questo, in effetto, rovescia
la prospettiva dell'attività cicero- niana. Cicerone, in privato, poteva
benissimo condannare la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene
utilissime per ordinare lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la
carica rivoluzionaria del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il
pericolo, relegan- dolo tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da ignoranti,
insistendo sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità dell'ipotesi
fisica degli epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in ambienti plebei
non ha avuto alcun successo politico. A ben guardare, qui ci troviamo di fronte
ad altro: al pericolo rappresentato da alcuni gruppi di seguaci
dell'epicureismo, scaturiti non dal popolo, ma da certi aristocratici, in
contrasto con la politica di Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola di
sicurezza e costruendosi, insieme agli amici, mondi a parte e certo piu sereni
e meno drammatici del quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da Roma,
nelle proprie ville, potevano destare il sospetto di congiurare, in quelle loro
riunioni, contro la res-publica, contro la morale ufficiale, in una vita - era
l'accusa - dedita al "piacere" e depravata, una volta che s'erano
sganciati dall'ordine del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di Cicerone).
Entro questo tes- suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere davvero
popolare - e perciò stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che poteva
vera- mente diventare il principio di un'educazione del popolo, in maniera
assolutamente opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del-
l'equilibrio e dell'armonia legale della res-publica. Di sicuro sappiamo che
sulla fine delu e il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori
romani alcuni epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati
dai ricchi giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene
capiscuola del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco,
Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno
del giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla.
Ad Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (morto sul 79J78, ascoltato da
Cicerone, maestro di Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da
Cicerone, e da cui Cicerone riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I
libro del De na- tura deorum ), Patrone, capo del giardino tra il 70 e il 51 a.
C., e dopo il quale non abbiamo piu notizie di scolarchi epicurei ad Atene. Può
essere a tale proposito interessante ricordare che Cicerone proprio nel 51
scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio aveva dedicato il De
rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo di Fedro e
dell'amico Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi quod in
philosophia vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al fatto che
per diritto il "giardino" apparteneva alla scuola di Epicuro (cosi
suonava il testamento di Epicuro), di non fare speculazioni edilizie sul
terreno del "giardino" da Memmio stesso comperato, anche se
l'Aeropago gli aveva dato il permesso (Ad. fam., XIII, 1). Evidentemente la
Scuola epicurea di Atene andò dispersa, dopo il 51. Cicerone sostiene ch'egli
aveva conosciuto Epicuro di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di
Sidone, "corifeo" di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat.
deorum, I, 21, 59) e Fedro, anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di
Fedro e di Zenone ho seguito le lezioni, benché null'altro riuscissero a
dimostrarmi tranne il loro zelo e tutte le opinioni di Epicuro mi sono
sufficientemente note": De fin., l, 5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo
alle lezioni di Zenone che il nostro Filone soleva chiamare corifeo degli
Epicurei e lo facevo per suggerimento dello stesso Filone...": De nat.
deor., I, 21, 59). Non sap- piamo quanto di nuovo, rispetto all'originario
epicureismo, abbiano detto gli epicurei di questo tempo. Senza dubbio Zenone,
per quel che possiamo ricavare da alcuni frammenti del suo discepolo Filodemo
di Gàdara, approfondi e chiari la genesi della conoscenza, secondo la linea
epicurea, sottolineando il significato ipotetico della condizione della
pensabilità della realtà, in quanto che a porre gli atomi si giunge per
analogia prendendo le mosse dall'analisi sperimentale delle cose stesse (cfr.
Filodemo, Sugl'indizi e sul modo di servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt
01)(.LE:~~ae:Cùv). Del ragionamento per analogia, fondamento dell'indu- zione,
cosi diceva Filodemo: "Quando giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a
nostra portata sono mortali, tutti gli uomini sono mortali,' il metodo
dell'analogia sarà valido solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione
.di esserci manifesti sono, sotto tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono
alla nostra portata, sicché si deve assu- mere che anch'essi siano mortali.
Senza questo presupposto il metodo dell'analogia non è v.alido" (Degli
indizi, Il, 25). Di qui, forse, induttivamente e per analogia, l'ipotesi che
l'incontro fortuito degli atomi, donde nascono i possibili mondi e il mondo
degli uomini (gratuitamente, per cui allo stesso uomo è data la libertà di
costruire il proprio mondo umano), sia dovuto al clinamen .(sulla que- stione
del "clinamen," di cui non v'è traccia in ciò che oggi leggiamo di
Epicuro, cfr. I vol.). Certo, Cicerone, subito dopo avere citato Zenone e
Fedro, discute e critica come un'assurdità il motivo del "clinamen,"
affermando che tale motivo è l'aspetto piu nuovo - e se ci poniamo dal punto di
vista stoico-platonico, piu contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il
resto Cicerone - si come fa per l'epicureismo romano che riporta a tempi piu
antichi in cui ancora non era conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica -
tende a riportare al piu antico demo- critismo (cfr. in particolare De finibus,
I, 5, 18-20). Senza dubbio l'insistenza di Cicerone sul termine
"fato," l'insi- stenza di Lucrezio sulla "catena
necessaria," a cui si contrappone il "clinamen," fa sospettare
un'interpretazione del testo epicureo dovuta alla polemica nei confronti del
"fato" stoico, che, tuttavia, era posi- zione già implicita
nell'antiteleologismo di Epicuro (cfr. I vol.). Nulla vieta, perciò, di
pensare. che il motivo del "clinamen," nei termini in cui lo
conosciamo attraverso Lucrezio, Cicerone (piu tardi Diogene di Enoanda), sia
stato formulato, in una coerente interpretazione di Epi- curo, proprio
all'epoca di Zenone, Fedro, Filodemo di Gàdara, tutti e tre in polemica contro
il sistema stoico e particolarmente contro la fata- lità che da esso derivava.
Se i moti tutti - dice Lucrezio - fossero concatenati, se il nuovo sem- pre con
ordine fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dai primordia, col deviare,
principio a nessun moto che rompa le leggi imposte dal fato, s{ che,
all'infinito, non segua una causa dall'altra, donde, io domando, qui in terra,
donde verrebbe mai ai viventi questo libero potere, sciolto dal fato, per cui
andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra propria volontà? (Il, 253 sgg.). E
Cicerone, dopo avere esposto il tema del "fato," proprio degli
stoici, oppone ad esso, anche se polemicamente, il tema· del
"clinamen" epicureo: Ma Epicuro pensa di evitare la necessità del fato
mediante la declina- zione dell'atomo: oltre il peso e l'urto, vi è dunque un
terzo movimento [e qui è chiara la citazione da Luc:rezio: "Bisogna
ammettere che esiste negli atomi oltre la spinta e il peso, un'altra causa del
moto e che di qui, dal clinamen, ci derivi...": Lucrezio, II, 286 sgg.],
allorch~ l'atomo devia dalla verticale dello spazio il meno possibile (eltJchiston,
dice): tale declinazione, se non in termini propri, almeno in realtà, egli è
costretto ad ammet- terla senza causa, poich~ l'atomo non devia sotto l'urto di
un altro. Come potrebbe infatti urtare un altro, se sono tutti trasportati in
linea retta dal peso, come vuole Epicuro? E se l'uno non è mai spinto
dall'altro, ne segue ch'essi neppure si toccano. D'onde risulta, se l'atomo
esiste e se declina, che declina senza causa. Epicuro ha prospettato questa
dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre trasportato da un peso necessario e
naturale, che non vi fosse alcuna libertà in noi, eh~ la nostra anima sarebbe
mossa solo perch~ costretta dal moto degli atomi. Democrito, l'inventore degli
atomi, ha preferito ammettere che tutto avviene necessariamente, piuttosto che
togliere agli atomi i loro movimenti naturali (Cic., De fato, X, 22 sgg.). 140
Certo il piu noto degli epicurei vissuti m Italia fu Filodemo di
Gàdara, che, se anche in circoli ristretti, fece conoscere direttamente
Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera e propria comunità di amici
di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (il console del 58, nemico di
Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di Ercolano, ove raccolse una
non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo, nato nel 110 a.C., a
Gàdara, in Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di Laodicea, che aveva
convertito Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa una forte corrente
epicurea), proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte del suo maestro
Zenone di Sidone, visse fin dopo il 40 a. C., non oltre il 30 (cfr. Strabone,
XVI, 754). Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri della villa ercolanense
dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano costi- tuire la biblioteca di
Filodemo: gran parte sono opere dello stesso Filo- demo, di cui molti testi
sembrano, piuttosto che lavori destinati· al pub- blico, veri e proprii
appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco- lanense dei Pisoni, i suoi
Monumenti e la sua biblioteca, Torino, 1883; Ch. Jensen, Die Bibliothek von
Herculanum, in "Bonner Jahrb.," pp. 49, 61; R. Philippson, s. v.
Philodemos, in Pauly-Wissowa, XIX, 2, col. 2444-2449). Nella villa dei Pisoni,
oltre la biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di statue e tra esse
quattro busti con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro, Ermarco epicureo,
Zenone di Sidone. Anche questo è indicativo, ed è. indice della presenza di una
vera e propria comunità epicurea. Intorno a Calpurnio Pisone, illustre nobile
romano, la cui figlia fu la moglie di Cesare, s'era formato, pernio Filodemo,
un cir- colo epicureo. Ed epicureismo significava, tenendo presenti i
fondamenti della dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai pregiudizi,
trovare, eva- dendo dalla quotidiana vita politica e dagli affari, sereni
rapporti di amicizia. Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio - quando i
venti scon- volgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio; non
perché faccia piacere che qualcuno si trovi in sofferenze, ma perché è dolce
scor- gere i mali di cui siamo liberi. E dolce è assistere, senza che tu
partecipi al pericolo, agli aspri scontri di guerra in campo aperto. Ma nulla è
pio dolce dello starsene nei ben muniti luoghi, edificati dalla serena dottrina
dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua e là
vagare, e sbandati cercare la via della vita e manovrare con l'ingegno e far
valere la propria nascita e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte di
giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi menti degli
uomini, oh ciechi petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar la persona
alle· gramente tra amici, con una spesa non grande, stesi su di un soflice
prato, 141 lungo un ruscello
corrente, sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello e
primavera cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo,
indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel
ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani,
nella sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico
amante delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai
manicaretti e brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e
ascolterai discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol.
palatina, Xl, 44). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste
riu- nioni tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene,
in Siria, si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di
come in esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla
cultura ufficiale, intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della
liberazione umana,· la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il
fato divino l6gos, in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde
il prevalere della fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro queste
comunità, il culto di Epicuro. "Un dio, fu un dio...": dirà nel suo
poema Lucrezio. E lo stesso Epi- curo aveva affermato: "Agisci sempre come
se Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato scritto: "Sia
festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni anno il decimo giorno
del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il ventesimo giorno di ogni
mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in memoria mia e di Metro-
doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su testimonianza di Plinio il
Vecchio (Nat. hist., XXXV, 5) sap- piamo che ancora nel 11 secolo d. C., in
Roma, si celebravano queste feste: "Epicurei vultus per cubicula gestant
et circumfei:unt secum. Natali eius sacrificant, feriasque omni mense
custodiunt vicesima luna quas icadas vocant" (sul culto di Epicuro cfr. A.
J. Festugière, Epicure et ses dieux, Parigi, 1946; anche P. Boyancé,
L'épicurisme dans la société et la littérature romaines, in "Bulletin Ass.
Budé," Suppl. Lettres d'Humanité, 4, 1960). E già Epicuro aveva scritto a
Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli della stessa natura,
meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a te" (Lett. a
Menec., 134); e aveva detto: "l'uomo sereno procura serenità a sé e agli
altri" (Gnom. Vat., 79). Con il commento dei Libri di Epicuro, con tl suo
approfondi- 142 mento di
certi aspetti della dottrina epicurea, particolarmente per ciò che riguarda le
passioni e le condizioni della conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad
Ercolano, appoggiato da Pisone, un con- tubernium epicureo (come dirà Seneca:
piu che la dottrina di Epicuro, fu il suo contubernium a educare gli epicurei:
Ep., I, 6), una comunità di amici il "cui accordo tra loro," sosterrà
Numenio, "era simile a quello che deve regnare in una repubblica ben
ordinata" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5). Secondo il De Witt
(Organisation and procedure in Epicurean groups, in "Class.
philology," 1936; Epicu- rean contubernium, in "Trans. and Proc. of
the Philol. Assoc.," 1936), seguito dal Boyancé (cit.), anzi, il llepl.
7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di Filodemo chiaramente indicherebbe
l'attività di Filodemo volta a organizzare la scuola in forma conventuale,
costituendo un modello d'ideale vita politica, di libera vita associata, da
opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come esigenza di crearsi mondi
a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte, dall'inutile e assurdo morire,
che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva nelle lotte politiche della
Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo (Herc. vol., 1005, 4) la
coniazione del termine "quadrifarmaco" (-re-rp«<pcXp(.L«Xov:
tetrafdrma- con) - la medicina composta di quattro elementi - con cui egli
indicava la funzione liberatrice della filosofia epicurea, mediante la quale l'uomo
si cura dal timore della divinità (1. non si tema la divinità, che la divinità
non si occupa dell'uomo), dal tiinore della morte (2. non si tema la morte, ché
quando v'è l'uomo non v'è la morte, quando c'è la morte non c'è l'uomo),
sapendo che facile è il piacere (3. tieni presente la facilità del piacere), e
che breve è il dolore (4. tieni presente la brevità del dolore). Tutti e
quattro gli elementi si trovano approfonditi in Epicuro (cfr. in particolare
Ep. a Menec., 123, 124, 183), ma è senza dubbio assai indi- cativa la
formulazione in massima da parte di Filodemo, il puntare, ora, soprattutto,
sull'aspetto terapeutico della concezione epicurea della natura e sul rifugio
ch'essa offre: sia nei convivi, sia nelle libere discus- sioni fra amici, sia
mediante poesia, con cui ci creiamo dilettevoli mondi a parte. Tale il
significato dato alla poesia da Filodemo e tale l'epicu- reismo - non
dottrinario - di Orazio, che sappiamo aver frequen- tato il gruppo intorno a
Pisone, e, se vogliamo, di Catullo e di tutto il complesso dei poeti muovi.
Sembra facile ora capire cosa inten- ·desse Filodemo quando sosteneva il valore
edonistico della poesia e della musica, si come, per altro verso, di contro a
Diogene di Babilonia (cfr. sopra), la capacità mediante la retorica di costruire
mondi umani, ché non scienza è la retorica, ma un'arte pratica, cioè l'arte di
agire (prasst) in un mondo che non è già dato, ma è dovuto alla stessa atti-
vità dell'uomo, rivelantesi attraverso il linguaggio che ha, sempre, una 143 realtà storica, si come la
stessa giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi squisitamente epicurea: cfr. I
vol.). Entro questi termini sembra,' cosi, assumere non poco significato
l'ultima parte del V libro del De rerum natura di Lucrezio,6 in cui, mediante
Epicuro, riprendendo l'antica linea che risale a Empedocle, ad Anassagora, a
Democrito, a Protagora, a certe posizioni sofistiche e socratiche, teofrastee,
si sottolinea con forza la storicità della natura e del mondo umano, di una
natura che scaturita dall'accozzo fortuito di infi- niti atomi, - sottolineiamo
che Lucrezio mai usò il termine "atomo," - s1 come ha dato luogo ad
infiniti possibili mondi, ha dato luogo al mondo degli uomini. E s1 come non
v'è perché al sorgere delle cose, se non gli ipotetici atomi-spérmata e il
vuoto, il peso e il "clinamen," cui si giunge attraverso l'analisi
delle cose, condizioni non contraddit- torie che rendono pensabile la
molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e superiori principi
razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il divino l6gos) delia
umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo della vita di Tito
LucrC7.io Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse, dove sia nato, quali
le date esatte della sua nascita e della sua morte. Seoondo San Gerolamo, che
probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu di Svctonio, Lucri!Zio
sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un filtro amatorio, nei'
momenti di lucidi~ avrebbe scritto il ,suo poema; si sarebbe suicidato all'~ di
44 anni. Donato, invece, nella Viu di Virgilio, anch'egli derivando da Sv~
tonio, afferma che Virgilio, nato nel 70, prese la toga virile a sedici anni
ncllo stesso anno in cui Lucrezio mori. Seoondo S. Gerolamo, dunque, Lucrezio
sarebbe nato nel 95 e morto nel 51; secondo Donato sarebbe nato nel 98 c morto
nel 54. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al fratello, Quinto (11, 93},
che ~ senza dubbio del febbraio del 54, si legge un giudizio su Lucrezio
relativo alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che sappiamo essere avvenuta
dopo la morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone stesso. C'~ chi ha sostenuto
che Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania (un circolo epicureo era allora
fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo, cosf come non si può dire se
Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea famiglia. La gente Luac2:ia era
allora assai dillusa in tutte le classi, in tutta Italia. Senza dubbio il poema
di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto probabilmente alla•sua morte. Sulla
notizia di San, Gerolamo che Lucrczio sarebbe impazzito per un filtro amatorio
(certo tali pozioni erano molto in uso nella Roma del tempo), che avrebbe
scritto il poema nei momenti di lucidi~ alternati da momenti di cupa'
depressione c angoscia (alcuni testi del poema rivelano depressione, incubi
visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre· senti anche in Epicuro: cfr. IV,
1125 sgg.; lll, 1055 sgg.; l, 127; IV, 35 sgg.}, che si sarebbe suicidato, si ~
molto discusso c fanwticato. Il De rerum n/llura, in sci libri, formalmente incompiuto,
fu dedicato da Lucrczio a Mcmmio. Sembra che il Mcmmio di Lucrczio sia Gaio
Mcmmio, questore nel 77, pretore nel 58, che amante della letteratura greca,
non di quella romana, colto, intel- ligente, piacevole conversatore, pigro c
impaziente di lavoro intellettuale (cfr. Cice- rone, Brutus, 247}, oondussc con
sé (57-56) quando fu proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i quali
Catullo. E sarebbe quello stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi, esiliato da
Roma per brogli elettorali, ad Atene, ottenuto il diritto dall'Areopago di
costruire sull'arca ovc sorgeva la casa c il giardino di Epicuro, rifiutò a
Pauonc, allora scolarca del Giardino, il favore di non profanare quel luogo
sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone, Ad fam., XIII, 1)] scaturita nel tempo,
cosi, di fatto, ci sono gli uomini. E se ipotetica- mente gli uomini
scaturiscono da incontri e particolari disposi~ioni di "semina," per
cui dapprima si può mitizzare una certa genesi del- l'uomo ancora non uomo,
finché in una qualche organizzazione dei "semi," come sono nati certi
mondi e certi animali, nella lotta per la vita oggi estinti, ed altri tipi di
bestie, rimaste bestie (cfr. V, 773-924), nasce il primo mondo 1egli uomini,
piu che di uomini ancora di "be- stioni," viventi in istatc ferino, alla
fine, sempre per una qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali,
scaturisce la razionalità e, ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il
linguaggio, questo o quel lin- guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua
storia, il processo me- diante cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà.
Perché cosi e non altri- menti? Non sappiamo, risponde Lucrezio: "non è
possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio
ne scopre" (V, 1445). L'unica ipotesi è l'ipotesi epicurea, sostiene
Lucrezio, me- diante la quale ci rendiamo conto non solo del costituirsi
sdrammatiz- zato della realtà, ma anche di come l'uomo è uomo entro i termini
della sua stessa realtà umana (ché prima del nascere e di là dalla soglia del
morire, è umanamente il nulla, è altra realtà) tutt'uno di anima e di corpo, di
come per rispondere alle proprie esigenze sono nate le verità degli uomini,
dalle verità dell'uomo· primitivo e ferino, vivente nelle selve, alle verità
dell'uomo razionale e sociale, che ha proiettato tali verità oltre sé in cielo,
perdendo alla fine se stesso (donde poi la superstizione del divino signore,
del divino che come padrone si occupa delle cose umane, la superstizione
dell'anima immortale, che avrà premi o castighi nell'aldilà). Al modo erratico
delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nd cielo, menavano lunga
vita... Stavano nei boschi, ndle caverne dei monti, nelle foreste... Non
conoscevano l'uso di costumanze e di leggi: ciascuno pren- deva di proprio
istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere e a campare
da sé solo. Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti... Si
procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e si ridusse la donna, congiunta
all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro nascere i propri figlioli...
Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire il [loro] giusto... Ma chi
spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il
vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo stesso modo in cui l'impotenza
evidente a formulare la parola induce i bambini a gestire, come fanno quando
col dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno capisce di che si possa
servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle cose i loro nomi e che
di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo è un uscir di cervello
[cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva costui indicare tutto
con le voci, e modulare vari 145
suoni, se, nel contempo, nessun altro era in grado di farlo? E poi, da
dove a costui venne l'idea del vantaggio, da dove ebbe, sin dall'origine la
facoltà di sapere ciò che voleva e di scorgerlo perfettamente distinto, se fino
allora nessuno aveva usato il linguaggio? E non poteva, uno solo, piegare i
molti e costringerli, vinti, a imparare di buon animo i nomi posti alle cose;
non si istruiscono i sordi né si convincono con la logica a fare quanto
debbono: e poi non lo soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo a lungo ed
invano voci dal suono inaudito rintronino loro le orecchie. Infine, è proprio
cosi strano che l'uomo, in cui voce e lingua erano in piena efficienza, usasse
per indicare le cose, varie secondo le percezioni, la voce?... Se le diverse
impressioni fan che le bestie, che pur non hanno la parola, emettano voci
diverse, quanto è piu ovvio che l'uomo abbia cosi, con le varie voci, potuto
iÌidicare la varietà delle cose! (V, 930, 956, 960, 1011, 1020, 1028-1034,
1041-1059, 1089-1090). Lascia che lottando lungo lo stretto sentiero
dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino sangue, essi che parlano per bocca
d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da ciò che sentono, che dalla propria
esperienza, oggi non meno di ieri, non meno d'oggi, domani... Piu facile ora è
capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i grandi popoli, e abbia
stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a introdurre i sacri riti del
culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge fra tanto progresso e in
centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è insito quello spavento che
erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi fa correre nelle festività
tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli uomini vedevano da svegli, ma
piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito numi d'aspetto stupendo. E poi
che, a quanto appariva, essi movevan le membra ed emettevano terribili voci,
ap- propriate alla enorme forza e allo splendido aspetto, a loro, dunque, per
questo, attribuivano il senso e li facevano eterni, giacché se ne rinnovava
sempre la vista, e la forma restava sempre immutata, e poi perché giu,di-
cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza potesse agevolmente sop-
primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia la sorte, perché il
timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi vedevano in sogno -
molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse stanchezza alcuna.
Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e le diverse stagioni si
avvicendavano con successione uniforme, e non potevano conoscere per quali
cause. Ne uscivano dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che tutto fosse
guidato dal cenno divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei numi, perché
si vedono evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il giorno e la
notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne faci del cielo, e i
volanti fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i venti, i
fulmini, i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. Ah, da quando fece
dipendere dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice
umanitàl Da quel tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali
lacrime ai nostri nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare,
velato, intorno ad un sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a
terra davanti ai templi dei numi, .e alzar le palme, e del sangue di 146
numerosi quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto
pro- prio non è religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i
fenomeni. Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e
l'etere immobile sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che
fanno il sole e la luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel
cuore oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non
sia l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle:
perché ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio
generatore del mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa
loro fatica del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con
l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde
forze del tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la
paura dei numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose,
e si vede che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le
terribili scuri (V, 1130-1135, 1161-1235). Ma, prima assai che potesse foggiare
col suono politi canti e dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il
limpido gorgheggiar degli uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami
apprese ai campagnoli per primo come soffiare nelle vuote canne. Impararono in
seguito poco per volta i soavi lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano
con le dita, sonando, dal flauto che si trovò dai pastori per i boschi impervi
e le selve, e i monti e i luoghi deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano
col tempo si manifesta ogni singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del
giorno. Accarezzavano lo spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche
appreso a tenere distinti i ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne
prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i
continui sforzi dell'alacre ingegno all'uomo che progrediva passo per passo insegnarono
a poco a poco la nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di fare le
fortezze, le strade, le armi, e cose simili, gli agi e i conforti, quanti ve
n'è della vita, la poesia, la pittura e la ingegnosa scultura. Grandemente, in
tal modo, il tempo svela ogni cosa singola e il raziocinio la porta al lume del
giorno. Perché scoprivano che un vero prendeva luce dall'altro, finché con le
arti non ebbero raggiunto l'ultimo vertice (V, 1377-1389, 1406-1407,
1445-1456). Questo, sembra, il motivo chiave dell'epicureismo di Lucrezio,
questo suo appello, di contro alla filosofia teologica ed ai pericoli insiti in
essa per il libero farsi degli uomini, per la stessa comprensione della natura
(vera religione è "saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni": V,
1203), il suo appello all'esperienza e alla ragione, all'umanizzazione della
scienza, mediante cui l'uomo può creare il suo mondo, conside- rare la natura
per quello che la natura è, operando su di essa, diremmo in una libera
"inter-azione," per un fine che non è dato, ma che è di volta in
volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana, operante, con le tecniche, su
di una realtà non già preordinata, ma spontanea e feconda di tutte le
possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di Lucrezio, e perciò la sua
venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con i suoi precetti veridici,
e al desiderio e al timore prescrisse un limite e fece chiaro qual fosse il
supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale via vi si può giungere
diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i raggi del sole, non le
lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'universo con le sue
tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed naturae species
ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre ·versi tornano
nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si tenga presente
il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando certi aspetti
di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di una religio,
in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e Cicerone n;è
testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca drammatica, in
un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente presente, si capisce
bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore (" mentre l'umanità
conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op- pressa dal peso
di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle regioni del cielo,
minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo un uomo greco
[Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per primo contro
di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né i fulmini né
il cielo con il suo rombo minac- cioso ": l, 62-69); dall'altro lato l'esigenza
e il dovere di far conoscere a tutti il libro di Epicuro: Venere, stringiti a
Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo, implo- rando, inclita, per i
romani una pacifica tregua; che con la patria turbata, né noi con cuore
tranquillo potremmo attendere all'opera, né per seguir tali cose, l'illustre
germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar potrebbe se stesso alla
salt~ezza di tutti (1, 37-44)... Né mi nascondo ch'è opera estremamente
difficile esporre in versi latini le ardue scoperte dei Greci, specie perché
dovrò spesso usare vocaboli nuovi - tanto il nostro lessico è povero, e cosi
nuovo è il soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio, che mi prometto, di una
soave amicizia mi persuade che non debbo badare a fatiche di sorta, e che le
notti serene io vegli cercando con quale canto, con quali parole, ti faccia
splendere nella mente h vivida fiaccola, onde tu penetri a fondo i piu
reconditi veri. E veramente bisogna che non i raggi del sole, che non le lucide
frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'animo con le sue tenebre, ma
la razionale conoscenza della natura: sed naturae species ratioque (l,
136-148). E cosr non vanno scordati del De rerum natura due altri punti fon-
damentali. Bisogna tener presente, innanzi tutto, l'insistenza ancora 148
maggiore che non in Epicuro, sull'atomo, condizione perché sia
pensa- bile la realtl, non come atomo geometrico o .matematico, ma come centro
di vita, come seme vitale, onde in ogni cosa è insito uno speciale potere: il
che, non solo spiega meglio l'affermazione prima che "nulla si genera dal
nulla," cioè da una pura quantità che all'infinito è zero, ma anche il
fatto che le qualità si costituiscono dal modo in cui le po- tenze seminali si
organizzano e si dispongono mediante gl'incontri. Viene da questo la paura che
opprime gli uomini tutti: scorgono in cielo ed in terra prodursi vari fenomeni,
fatti, dei quali non possono scor- gere punto le cause, e che riportano quindi
alla potenza di un dio. Ma se tocchiamo con mano che non può naseere nulla dal
nulla, allora piu chia- ramente sapremo comprendere quello che andiamo
indagando: donde: ogni cosa si generi e come ognuna si generi, senza
l'intervento di un dio... Se non vi fosse per ogni singola specie il suo germe,
come si avrebbe un'origine certa e distinta per gli esseri? Ma poiché viene
ciascuno d'essi da un germe specifico si forman là, di là balzano fuori alla
luce del giorno dove sono insiti i primi corpi e la loro materia, né può
ciascuno prodursi da ciascun seme, per questo: ché in ogni cosa è insito uno
speciale potere. Perché vedremmo prodursi di primavera la rosa-, d'estate il
grano... se non perché cofluendo, al tempo giusto, certi semi, erompe quanto si
fa... dal fecondante connubio... A poco a poco crescono gli esseri tutti, da un
germe specifico... (1, 151 sgg.). In secondo luogo, bisogna tener presente la
distinzione, nell•uomo, tra la forza vitale (anima), che unisce le membra e
ovunque è diffusa, e la sua organizzazione in quella che diciamo razionalitl
(animus), o mente (III, 94 sgg.), che, insieme, costituiscono l'Anima, ch'era
il modo d'interpretare epicureamente il motivo di un tutto vitale e fe.. condo
implicito nel motivo dell•anima mundi di origine stoico-platonica. Come, negli
esseri vivi, in ogni viscere suole trovarsi un succo, un odore, un colore
speciale; ma dall'insieme di tutti si forma un solo organismo, si forma una
sola essenza, cosf,_ commisti, il calore, l'aria e la occulta potenza del
vento, aggiuntavi quella nobile forza che a loro compane il moto d'ini- zio,
donde dapprima negli organi si desta il moto del senso, che si cela riposta
nelle tenebre dell'essere, e di cui nulla piu addentro nel corpo a noi non
s'immilla, diremmo, che è l'anima stessa dell'anima tutta. E come, occulta,
è.commista nel nostro corpo e negli arti tutti la forza dell'animo e la potenza
dell'anima perché risulta composta d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di
minimi, ti si nasconde questa energia senza nome, l'anima stessa di tutta
l'anima, quasi, che domina nel corpo intero. In tal guisa il vento e l'aria e
il calore debbono, mischiati negli arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer
gli uni agli altri, e sovrastarsi a vicenda, cosf però che risulti di 149 tutti un unico tutto, onde il
calore ed il vento e la potenza dell'aria, cia- scuno per sé, non distruggano
il senso e non .lo disgreghino, cos{ distaccati (III, 267-289). L'insistenza di
Lucrezio sulla seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di
ogni seme e sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi,
questi mondi, e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come Lucrezio ha
interpretato Epicuro. Il ragio- namento è lo stesso di Democrito fino a porre a
condizione della pensa- bilità della realtà gli atomi e il vuoto (cfr. I vol.):
dalle cose visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu
divisibili, ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla
incon- cepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi (libro I);
per il resto, dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli
atomi, precisato come "clinamen," al concetto del peso e del costi-
tuirsi delle cose e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo (libro Il),
da cui comincia - perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è
natura, nella natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima,
costituita di atomi leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della
sensazione e degli éidola (libri III e IV), alla conce- zione della mortalità
dei mondi creati e della caducità del mondo, alle possibili molte ipotesi su
ciascun fenomeno celeste e al sorgere della vita sulla terra (donde poi la
storia del mondo umano, dall'uomo ferino all'uomo razionale e padrone delle
arti) (libro V), alla spiegazione dei fenomeni meteorologici e dei morbi e
delle epidemie (libro VI), Lu- crezio segue la traccia del De natura di Epicuro
(di cui, ricordiamo, s'è trovata una copia in 37 libri, ad Ercolano, nella
~iblioteca della villa dei Pisoni). Ma, dietro, sempre, rimane in Lucrezio la
meraviglia della scoperta, che dovrebbe essere chiara a tutti, che dovrebbe
definitivamente scacciare ogni alambiccata costruzione metafisico-teologica,
ogni timore in una suprema legge, negli dèi o in un astratto l6gos. Allorché si
tenga questo per verità, si fa chiaro che la natura, da sola, in tutto priva di
despoti superbi e libera in tutto, agisce in ogni sua cosa d'iniziativa
propria, senza interventi di dio (II, 1094 sgg.). Scientificamente, cioè
razionalmente, possibile l'ipotesi di Epicuro, ne vien fuori da un lato che il
fondamento della natura - natura na- turans - non è sottoposto ad alcuna legge,
ad alcuna necessità razio- nale a priori, a nessun proiettato rapporto di causa
ed effetto, ivi impli- cita la necessità di porre cause prime (efficiente,
formale, materiale, fi- nale), ma che l'ipotetico fondamento, cui si giunge
induttivamente per analogia, è una infinita ricchezza, una fluidissima
spontaneità; e, dal- l'altro lato, che la realtà quale è, quale si costituisce
(natura naturata), è ad un tempo la stessa natura naturans sempre possibile di
cangia- mento e di modificazioni qualitative (di qui il motivo del farsi con-
tinuo: II, 293-336), su cui è possibile operare (di qui l'inno a V enere ge-
nitrice, che apre il poema), ché, in effetto, atomi-semi, vuoto, peso,
clinamen, sono postulati, sono i fondamenti, ma non esistono: esiste la natura;
esistono gli infiniti mondi, le loro genesi, le loro storie, la genesi degli
animali, la loro evoluzione, la loro lotta per la vita, la loro estinzione o la
loro sopravvivenza, la genesi e l'evoluzione dell'uomo, e poi la storia
dell'uomo, da quando l'uomo è uomo, quest'organizzazione di semi che ha dato
luogo alla ragione; e ad un tempo, insieme, esi- stono i semi e le loro
connessioni e organizzazioni. Da un lato, come dietro le cose e i mondi quali
sono nelle loro organizzazioni, si vede mentalmente questo pullulare vitale,
instabile, di semi (atomi), il cui complesso. è ciò che Lucrezio chiama
"materia," i loro incontri spon- tanei e infiniti (" clinamen
"), il loro organarsi, donde questo o quel mondo, questa o quella cosa,
questa o quella specie e qualità; dall'altro lato si vedono nascere le cose
stesse e i mondi, la spiegazione naturale e razionale delle cose, dei mondi, dell'esserci
naturale dell'uomo - in- dipendentemente da ogni miracolistico intervento, - e
da quella stessa vitalità (anima), nell'uomo, la mente, !'animo, la razionalità
che è un modo con cui si è venuta organando quella vitalità. La razionalità
stessa, perciò, è "storica," positiva, si come i linguaggi e i
costumi, le tecniche, mediante cui l'uomo istituisce il proprio mondo,
costituisce quell'equi- librio di anima e corpo, quell'equilibrio tra uomini,
che non ha nulla di già dato dietro le spalle, ma è dovuto all'attività
dell'uomo. La feli- cità dell'uomo non sta, dunque, nell'adeguarsi a un ordine
già dato, ma nel volere, di volta in volta, quell'equilibrio e quella misura
(il "piacere"), che è una sua conquista, in una prosecuzione
razionalizzata dell'opera della natura, che è serenità, in una comprensione e
in un rispetto della natura ("religio"), per cui, alla fine, la virtu
sta proprio in questo comprendere la natura, in questa critica della religione
co- smica e dei miti, in questa umanizzazione e razionalizzazione della
scienza, mediante cui nella costruzione della propria società, si effettua
un'armonia, un giusto mezzo tra anima e corpo; e in tale armonia con- siste il
"piacere," di là da ogni estetizzante "eroismo," oltre ogni
edu- cazione basata sul culto della virtus, degli exempla, dei mores maiorum.
Si vede bene, cosi, come il piacere e la misura lucreziano-epicurea non siano
né la virtu eroica dello stoico, né il "conveniente," il de- coro, la
"signorilità" prospettate da Cicerone; Cicerone per il popolo, per la
plebs voleva la superstitio, l'ordine imposto dagli ottimati, m nome del divino
e delle leggi, o l'equilibrio dovuto alla ca- pacità di un uomo, di un
princeps, di cui si potesse dire che è l'incar- nazione della legge suprema,
della legge cosmica, e perciò stesso "sal- vatore,"
"correttore" dello Stato, mentre per un · verso la filosofia si
risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di edifi- cante
conforto sacerdotale-religioso. Proprio di qui il conflitto tra ciceronianesimo
e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono alcun discorso
comune, si di- verso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui prendono le
mosse l'uno e l'altro, ~ non in un punto, nella comune consapevolezza di una
disperata e drammatica situazione·storica, in un terror della morte, che rende
tutto vano, nell'un discorso risolta in u n coraggioso appello all'uomo e alla
sua razionalità, in un appello alla scienza, in un risolversi dell'uomo entro
il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso, nella speranza di un ordine
proiettato retoricamente nei cieli, che si delineerà, poi, in una salvazione
che non dipenderà neppure dalla capacità umana di adeguarsi all'eterno ordine
della legge divina, ma sarà dovuta o a forze magiche e irrazionali (certo
neopitagorismo, gnosticismo, certo neoplatonismo e ermetismo del 1-n sec. d.
C.), o ad un gratuito inter- vento dello stesso dio, della persona di Dio
(primo cristianesimo). Per secoli, certo, si è taciuto di Lucrezio, e perduto è
andato, anche, il De rerum natura di Egnazio, che, sembra, fosse un seguace di
lui. Non va dimenticato, comunque, che ciò che noi ancora leggiamo è quello che
la stessa censura della storia ha salvato. Ad ogni modo, a parte ii· rigo di
Cicerone nella citata lettera al fratello Quinto, gli ac- cenni di Cornelio
Nepote (Biografia di Attico, 12), di Vitruvio (IX, Proemio, 41), di Ovidio
(Am., l, 15, 23-24; Trist., Il, 425-26) e di Papinio Stazio (Silv., Il, 776:
"docti furor arduus Lucreti"), l'unica fonte bio- grafica è quella
celebre .di San Girolamo, in cui si dice che Lucrezio sarebbe morto suicida per
pazzia a causa di un filtro amoroso, e che avrebbe composto alcuni libri del
poema durante gl'intervalli della sua follia: "Titus Lucretius poeta
nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per
intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se
manu interfecit anno ae- tatis XLIV" (Chron. Euseb., VII, 1). Non altro
sappiamo della vita di lui, e incerte sono anche le date della nascita (99-95)
e della morte (55-51) (cfr. sopra, Vita). Sembra che Girolamo abbia usato per
tali notizie il De viris illustribus di Svetonio, il che darebbe attendibilità
alla notizia. Certo i cristiani conoscevano bene il De rerum natura (cfr.
Arnobio, Lattanzio) e di esso discutevano in forma polemica, sf come - in fondo
per le stesse ragioni - il poema lucreziano era stato discusso e minimizzato da
Cicerone, il quale non poche volte afferma che gli epicurei sragionano. Di qui
a sostenere, ricostruendo la vita del poeta all'uso dei biografi antichi, che
Lucrezio era folle, il passo è breve. Non si è forse detto (Vita Vergi/ii di
Donato), ad esempio, che Virgilio, il cantore dei campi, nacque in un maggese?
(ed anche questa notizia di Donato non è forse ricavata dal serissimo
Svetonio?). In effetto, Lucrezio sembra che non abbia avuto, sul piano della
for- mazione di una paidèia popolare, alcun successo, anche se certamente
Lucrezio fu in polemica con il suo tempo e cercò di operare almeno attraverso
certi uomini (forse Memmio, Attico) che, per la loro posi- zione, ne avrebbero
avuto la possibilità. E proprio sotto questo aspetto non va sottovalutata la
polemica di Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora una volta,
l'affermazione ciceroniana che gli argo- menti degli epicurei non vanno
discussi filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. È stato detto -
Farrington, cit., p. 194 - che "nel caso di Lucrezio, il fatto essenziale
è che in un'età in cui lo scrittore piu colto (Varrone) e lo statista piu
eloquente (Cicerone) erano d'accordo sulla utilità d'ingannare il popolo in
fatto di religione, egli rivolge le forze della sua cultura e della sua
eloquenza a sostenere l'opinione contraria. Manifestò apertamente l'intenzione
di fare quanto è possibile a un uomo per liberare la mente umana dai vincoli
della religione, e scongiurare i suoi compagni di non macchiare la loro anima
con quell'abominio." Eppure, non va sottovalutato, accanto al Cicerone
uomo politico e legislatore, la cui opzione per un certo mo- dello filosofico
e_ culturale assume un significato preciso quando lo si veda in funzione di una
certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto di Cicerone, problematico
e scettico, la funzione da lui data alla filosofia come possibilità di proporre
un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia pur per altra via, un rifugio
dalla tristezza della vana vita quotidiana. Lucrezio moriva tra il 55 e il 51;
Cicerone verrà ucciso nel 43. Quella decina d'anni fu ancora peggiore di quella
in cui Lucrezio scrisse il suo poema, ancora piu pericolosa. Si chiarisce
allora come l'influenza lucreziana, insieme a quella di Sirone e di Filodemo di
Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in senso negativo, cioè in una giustifi-
cazione dell'abbandono dalla vita politica attiva, in un rifugio in con-
venticole di amici, o nel crearsi mondi a parte mediante la poesia. Sembra,
perciò, di non poco interesse il fatto che proprio coloro che sappiamo essere
stati i maggiori epicurei romani sono morti vittime delle lotte civili, o, a
poco a poco, si sono tutti ritirati dalla politica attiva. Poco o nulla
sappiamo- dopo Amafinio, Rabirio, Cazio - dei primi: T. Albucio, ritenuto un
grecomane, che per un certo periodo fu propretore per la provincia di Sardegna,
e che, condannato per estor- sioni, si rifugiò ad Atene, abbandonando ogni
velleità politica, detto da 153
Cicerone "perfectus epicureus," (Cic. Brutus, XXXV, l) e autore
di scritti a carattere epicureo; C. Velleio, senatore e tribuna della plebe nel
91, a cui Cicerone nel De natura deorum fa difendere la tesi epi- curea; Tito
Pomponio Attico (nato nel 109 a.C.), di nobilissima fa- miglia, compagno di
studi di Cicerone'e, poi, sempre, suo amico (ad Attico Cicerone dedicò il De
amicitia e il De senectute, e a lui scrisse moltissime lettere, raccolte in 16
libri), evitò la vita politica: per sfug- gire anzi alle lotte interne, dall'87
al 65 visse ad Atene e, tornato in Roma, rimase neutrale durante le guerre
civili, facendosi editore, il primo editore romano. E cosi, lontano da Roma, ad
Atene, dedito agli studi, visse un altro epicureo, Lucio Saufeio (nato nel 110
circa), cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di
Ercolano, s'era formato il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da
Cicerone (cfr. In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge
epicureo, il suo porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che
console nel 58, censore nel 50, s'era adoperato per impedire la guerra tra
Cesare e Pompeo, e nel 43 rinnovò i suoi sforzi per impedire nuove guerre
civili, dopo il 43 definitivamente abbandonò ogni azione, rifugiandosi nella
sua villa di Ercolano, insieme agli amici epicurei. Vibio Pansa, amico di
Cicerone, tribuna e console, mori nel 43, a Modena, combat- tendo contro
Antonio; L. Manlio Torquato, pretore, console, procon- sole, senatore,
pompeiana, si uccise nel 46; Statilio mori a Filippi, nel 42 a. C.; Cassio, che
insieme a Bruto, stoico, uccise Cesare, si suicidò a Filippi; Egnazio, seguace
di Lucrezio, che tenne in Roma una scuola di retorica e di grammatica,
abbandonò Roma e, insieme a Rutilio Rufo, si recò a Smirne. Papirio Peto è
posto da Cicerone (Pro Sestio, 20-23) tra i combibones epicurei. "Ad
uomini tormentati dalle miserie di guerre civili atroci," ha scritto il
Boyancé, L'épicurisme, cit., p. 514, "dal crollo delle tradizioni
ancestrali, la vita epicurea offriva una specie di porticciolo e di rifugio.
L'ambizione scatenata faceva l'infelicità ad un tempo di coloro che n'erano
presi e di coloro ch'erano condannati a servire loro da stru- menti. Tale
ambizione era gravida di scacchi e di rischi mortali. Quanti pochi tra gli
uomini illustri di questo tempo sono in effetto pacifica- mente morti nel loro
letto! Nessuno dei triumviri del primo triumvirato, né Crasso ucciso in una
guerra lontana, ove l'aveva trascinato la sua ambizione, né Pompeo assassinato
a Farsalo da un re satellite, né Cesare crivellato di colpi in pieno Senato.
Dei due piu grandi avversari dei triumviri, l'uno, Catone, si era suicidato a
Utica, l'altro, Cicerone, do- veva esser messo a morte dai sicari di Antonio.
Si comprende che la vita non era mai apparsa piu minacciata nelseno stesso
della città e mai l'insegnamento di Epicuro sul timore della morte non era
apparso 154 piu attuale. Né tanto piu, anche, era sembrato, in
presenza delle incoe- renze e dei crimini della storia, che gli dèi si
disinteressassero degli uo- mini. O se ci s'immaginava che intervenissero nei
loro affari, quali mai dèi sarebbero stati! Quali dèi crudeli e gelosi! Il
messaggio di Epicuro si fece ascoltare in tale atmosfera, in virtu di filosofi
greci come Filo- demo o Sirone, in virtu anche di Lucrezio." Non solo, ma
se Lucrezio aveva sottolineato con forza l'aspetto rivoluzionario
dell'epicureismo, aveva anche tracciato il modello di una "vita"
epicurea, che, a parte i fondamenti dottrinari, si avvicinava non poco al
modello di "vita" stoico, sganciato anch'esso dai suoi fondamenti
dottrinari e rispondente, piu tardi, quando dopo Ottaviano Augusto e Tiberio il
principato si trasformò davvero in impero e in dispotismo, all'esigenza di fuga
dal mondo, per cui un Seneca potrà essere stoico accettando in gran parte certi
aspetti del modello di vita epicureo, mentre i circoli epicurei, in Roma,
assumeranno sempre di piu il carattere di chiese, di isole, di rifugi. Aveva,
dunque, cantato Lucrezio: E tu potresti, talora, dire anche questo a te stesso:
"O miserabile, chiuse gli occhi persino il buon Anco, che fu migliore di
te per tanti aspetti; e in gran numero di poi morirono re, principi, gente
potente che in mano ebbe le sorti di grandi popoli. Ed anche colui [Serse] che
un giorno apri per l'ampio mare una strada, e sull'acqua fece passar le
legioni... E il fulmine di guerra, lo Scipionide che fu il terror di Cartagine,
rimise l'ossa alla terra, come il piu vile dei servi. Aggiungici i pensatori,
gli artisti e quanti han seguito le Muse... Finito il lume mortale, mori lo
stesso Epicuro... Saresti dunque tu ch'esiti e che ti crucci al morire?...
Quando potessero gli uomini, al modo come nell'animo sentono il peso che con la
propria gravezza li opprime, cosi sapere da che causa ciò avvenga, e donde la
macina, direi, si grande del male ci sta sul petto, vivrebbero non come i piu
vivono oggi, che ignorano quello che vogliono e non domandano di meglio che
mutar sempre di luogo, come se fosse possibile, cosi, deporre il fardello.
Questi, venutogli a noia lo stare in casa, esce fuori dai sontuosi palazzi e
torna subito indietro, perché non trova affatto che si stia meglio fuori.
Quello, sferzando i puledri, corre di furia alla villa come dovesse salvare il
fabbricato che brucia, e già sbadiglia che ancora non ne ha toccato la soglia,
o casca morto dal sonno e cerca a letto il riposo, oppure volta e rientra di
gran carriera in città. A se stesso cosi ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a
se stesso ciascuno resta legato, al sé cui non si sfugge; e, com'è logico, lo
odia, perché non vede il malato qual è la causa del male. Se la vedesse,
ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si sforzerebbe anzitutto di penetrare
la natura, perché v'è in giuoco lo stato del tempo· eterno, non quello di
un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi, per il tempo eterno che
avanza dopo la morte, i mortali (III, 1028-1074). E proprio per questo, al
principio del.secondo libro, Lucrezio aveva detto, delineando la possibile vita
del saggio epicureo: Dolce è guardar dalla riva, quando i venti sconvolgono
l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio, non perché faccia piacere
che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è
dolce: e dolce è assistere, senza che si partecipi al rischio, agli aspri
scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è dolce piu dello starsene nei ben
muniti luo- ghi che edificò la serena speculazione dei saggi, donde è concesso
guardare gli altri dall'alto... (Il, 1-9). Tale, anche per le sempre piu gravi
vicende politiche, fu, dopo Lu- crezio, la linea su cui si posero i gruppi
degli epicurei della nuova generazione. A parte Orazio, particolarmente
interessante e indicativa sembra la doppia faccia di Virgilio (70-19 a. C.),
che, epicureo da gio- vane (almeno come atteggiamento), vicino al circolo
napoletano di Si- rone e di Filodemo, si venne poi indirizzando a una visione
del mondo e delle vicende umane (anche se non dottrinariamente) di carattere
stoi- cheggiante. Nel V componimento del Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli,
dopo il suo soggiorno a Roma, dove s'era iniziato agli studi di retorica, ed
entrato in contatto con Sirone e con quella scuola, di- chiara di avere volto
le spalle alle "ampullae rhetorum" (v. 1), a quella cultura che, in
Roma, doveva avviarlo alla carriera politica (inanis cymbalon iuventutis: v.
5), per abbracciare, contro la "natio scholasticorum" (v. 4),
gl'insegnamenti di Sirone: nos ad beatos vela mittimus portus, magni petentes
docta dieta Sironis, vitamaue ab omni vindicabimus cura (8-10). Si era nel 45
a. C. Le Bw;oliche, composte tra il 41 e il 39, se da un lato indicano ancora
l'influenza epicurea nell'ideale di una pacificante natura, in cui rifugiarsi
("Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi, silvestrem tenui meditaris
musam avena..:": l, l sgg.), dall'altro lato mostrano (cfr. IV, V, VI), di
contro alla possibile disperazione epicurea (il mondo umano lasciato a se
stesso), la speranza nell'immortalità çlel- l'anima, che porterà all'uomo una
serenità piu alta, l'esigenza di com- prendere la natura come un tutt'uno con
l'uomo (con accenti molto vicini all'anima mund; di Lucrezio, alla sua
umanizzata e vi- vente natura, ma già reinterpretata in senso stoico), onde
nelle Geor- giche (composte tra il 37 e il 30, e su invito di Mecenate e di
Augusto), e tanto piu, poi, nell'Eneide, riappare il motivo della Provvidenza,
156 della pietas, della purificazione dell'anima immortale
attraverso il do- lore e la morte, della speranza in un al di là in cui saranno
premi o pene (la descrizione dell'Ade orfico è in genere ricavata dal VI del-
l'Eneide), del destino di Roma, dell'imperium di Roma che, mediante il suo princeps
(il simbolico pio Enea), porterà pace, ordine e civiltà nel mondo, compiendo la
ragion d'essere, la legge del tutto: tu regere imperio populos, romane, memento
- hae tibi erunt artes - pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare
superbos (Aen., VI, 851-53). Se è, senza dubbio, vero, com'è stato detto e si
ripete che "il poeta partito da posizioni epicuree, attraverso la
meditazione del dolore come retaggio comune all'umanità, è giunto ad intendere
provvidenzialmente il destino e a ravvisare nel mondo la legge di una superiore
giustizia che è legge di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v. in
Enciclopedia filosofica), è altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al
potere di Au- gusto, di quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio aveva
detto: "un dio, oggi, a noi dette questi ozt" (1, 6). Se il modello
di vita, assunto da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si scoloriva
in un atteggiamento di pacato intimismo e di sor- ridente umiltà (forse la
celebre dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di
Epicuro," Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi
davano a porco, l'animale che si contenta di poco: cfr. Pla- tone, Repubblica,
372d; ma non va scordato peraltro il Carmen saecu- lare), il modello di vita
virgiliano finiva in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio
nuovo, della rinnovata pietas, della religio, voluti da Augusto, e
identificantisi in lui - in un compimento del cicero- niano ideale scipionico -
correttore e salvatore della patria, princeps della res-publica, pater patriae.
4. Politica e cultura all'avvento di Augusto Cesare fu ucciso il 14 marzo del
44 a. C. Dopo quattordici anni di nuove lotte terribili, di proscrizioni e di
gratuite morti, di alleanze e rotture, nel 30 a. C., dopo la battaglia di Azio,
Ottaviano rimase arbitro della situazione. Sembrò, certo, che solo attraverso
lui e la sua abile e privata politica fosse possibile ricostituire l'equilibrio
e l'armonia, avere la pace. Egli apparve cosi come un patrono, protettore dei
sudditi e, perciò, moderatore e princeps. Si sarà veduta, in lui, non solo la
possi- bilità di salvar(' la res-publica, ma, dando ad Augusto il patronato
uni- 157 versale, l'unica
possibilità di una pax e di una libertas, anche se relati- vissime, che pur
erano molto, rispetto al terrore di prima. Paolo Frezza, commentando come
Augusto presenta il suo potere nelle Res gestae: (l l, Annos undeviginti natus
exercitum privato èonsilio et privata i m pensa comparavi, pel" quem rem
publicam [ a do ]minatione factionis oppressam in libertatem vindica[vi]. - XXV
2. Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me he[lli], quo vici ad
Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba provi]nciae Galliae
Hispaniae Africa Sicilia Sardinia. - XXXIV l. In consulatu sexto et septimo,
p[ostquam bella civil]ia extinxeram, per consensum universorum (potitus rerum
omni]um, rem publicam ex mea potestate in senat[ us] populique Romani arbitrium
transtuli); e richiamando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani: ("la
legge ricorda ad uno a uno i poteri straordinari conferiti da senato e dal
popolo a Vespasiano: ciascuno di questi poteri o facoltà eran stati esercitati
anche da Augusto: e il documento si riferisce a questo fan. come precedente
della concessione attuale"); ha finemente sottolineato il duplice aspetto
con cui si determina potere di Augusto e il possibile conflitto tra il principe
e le magistr ture della Città Stato, donde l'esigenza da parte del legislatore
di dete minare la "costituzionalità del potere del principe: la sua
commensur bilità con la conformazione dei poteri costituiti ed attribuiti in
ser all'ordinamento della città-stato" (Frezza, Per una qualificazione is;
tuzionale del potere di Augusto, in" Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di
Scienze e Lettere la 'Colombaria'," XXI, Firenze, 19: pp. 112-3). Da un
lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del Stato-Città (e,
dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato
patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti;
dall'altro lato Augusto ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di
sua volontà, all'arbitrio del senato e del pop< romano. Solo che Augusto,
proprio perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente,
come nel caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo,
con un atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello Stato
proc mandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso Stato,
svincolava da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il
potere, essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli al 158 là del Senato
e del Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Se-. nato e il
Popolo, egli, appunto, princeps rei publicae. Con ciò, evidente- mente, la
Città-Stato cessava d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere
cittadini per divenire sudditi e i magistrati magistrati pèr dive- nire via via
funzionari dell'impero e del sovrano. " L a necessità che il principio
polarizzatore delle istituzioni dello Stato-Città, e il principio regolatore
delle istituzioni del principato, rima- nessero l'uno all'altro opposti, ed
insieme la necessità di ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le
soluzioni dei problemi in cui si pre- sentava il contenuto della nuova
esperienza dello Stato: questa è, se non m'inganno, l'antinomia da cui si
genera l'evoluzione storica del principato, ed in cui si puntualizza il limite-
della consapevolezza che gli artefici dell'ordinamento nuovo ebbero
dell'esperienza di cui essi stessi erano i modellatori. Del quale ordinamento
il carattere fonda- mentale è dunque la duplicità. Da una parte il primordiale
sistema istituzionale del potere del principe, che si riassume nella elementare
affermazione di un sol soggetto di tutto il potere di fronte ad una totalità di
sudditi, nella quale tende a scomparire la differenza fra il suddito e il
civis. Da un'altra parte il raffinato. ma non piu autonomo, sistema
istituzionale dello Stato-Città, in cui, come in un prisma, il totale e
totalitario potere del principe si scompone in una molteplicità di settori di
azione, di competenze, di limiti istituzionali all'esercizio del potere
medesimo... Lo sviluppo della storia del principato, di cui la storia giuridica
è un aspetto, si incarica di dimostrarci che, a misura che il potere del
principe si va consolidando come ordinamento, ossia come sistema di rapporti
costanti, lo Stato-Città, come soggetto com- presente nella formula
dell'equilibrio dinamico della costituzione del principato... tende a
scomparire. L'allontanamento dei cittadini dal- l'esercito, e dei senatori dai
comandi militari, l'accesso dei provinciali al trono imperiale, e l'immissione
sempre piu massiccia di provinciali nelle file della classe dirigente, la
formazione di una nuova solida gerar- chia di alti ufficiali dell'impero, ai
quali soltanto incombe la funzione di governo, agli ordini del sovrano, sono,
com'è noto, i fenomeni com- plementari del progressivo scomparire del senato e
della magistratura di Roma dalla direzione politica dell'Impero" (Frezza,
cit., pp. 139-30). Ci siamo un momento soffermati, da un lato sulla situazione
psi- cologica che ha potuto determinare l'accettazione del potere di Augu- sto,
e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della qualificazione
istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto questo possa
servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si è veduto il
confluire e l'intrecciarsi tra il I I e il r secolo a. C., - il prevalere in
quest'ultimo scorcio di secolo, e ancora nel primo quaran- 159 tennio circa del 1 d.C., di
posizioni stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con
Cicerone, e che esattamente rispon- devano e servivano a ben precise situazioni
politiche, particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere
di Augusto e con la sua linea tattica. Non sembra cosi un caso che Augusto
riprendesse il termine di princeps, che si proclamasse primus inter pares,
proprio per il motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde
il titolo di augustus) e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal
modo un potere extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei
due termini e delle magistrature, dei quali Augusto rimaneva l'egemone, il
princ~tJs. Il termine heghemonik_6n, già da Ci- cerone reso in latino con
principatum, stava a indicare, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la
ragione universale, non come principio a ~ ma come atto unificante una
molteplicità, secondo un ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni,
onde si poteva dire che la ragione del tutto (il 16gos) veniva a porsi prima
inter pares, in sé riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto
posto nell'or- dine del tutto. E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire
l'Emi- liano, Augusto, anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé,
ragion d'essere dello Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del
senato e del popolo (cui rende la res--publica), ma di ambedue cor- rettore e
principe. E si badi - anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici
(non in Roma) Augusto veniva chiamato basiléus, re, e ciò tanto piu si
chiarisce quando si pensa al significato che al re si era venuti dando nelle
monarchie ellenistiche (cfr. sopra). E cosi non è, forse, solo un caso che il
filosofo di corte, assunto da Augusto, suo consigliere e consigliere (una
specie di confessore) della moglie di Augusto, sia stato uno stoico, Ario
Didimo di Alessandria (vissuto tra il 69 a. C. e il primo decennio del 1 secolo
d. C. : cfr. Diels, Dox., 80). E qui è forse interessante riferire un estratto
dell'Epitome di Ario Didimo, riportato da Eusebio (Praep. ev., XV, ·15, 1-9),
in cui Ario Didimo, in sintesi, delinea la concezione generica dello stoicismo:
Chiamano dio l'intero cosmo con le sue parti. E dicono che il cosmo è unico,
limitato, vivente, eterno e divino. In esso infatti sono contenuti tutti i
corpi, e nessun vuoto esiste in esso. ~ chiamato cosmo non 5olo il qt~ale
costituito da tutta la sostanza esistente; ma anche ciò che secondo un'ordinata
disposizione ha una struttura di tal genere. Perciò, secondo la prima
definizione, dicono che il cosmo è eterno; secondo l'ordinata dispo- sizione,
lo definiscono generato e mutevole secondo infiniti periodi, passati e futuri.
E la qualità costituita da tutta la sostanza esistente è il cosmo eterno e
divino. Ma è detto cosmo anche l'insieme costituito di cielo, aria, 160
terra, mare e delle nature che sono in ciascuno di questi elementi. t
detto cosmo anche il domicilio degli dèi e degli uomini, ovvero l'insieme
costi- tuito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle cose che sono nate in vista di
quelli. Infatti, a quel modo che diciamo città in due sensi, come domicilio e
come insieme degli abitanti e dei cittadini, cosf anche il cosmo è come una
città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi hanno il governo e gli uomini
sono i sudditi. Tra gli uni e gli altri v'è comunione, perché partecipano della
ragione, che è legge di natura. Tutte le altre cose sono nate in vista di
quelli. E in accordo con tutto ciò bisogna ritenere che degli uomini si prenda
cura dio che governa l'universo [si confronti anche Platoae, Leggi,. 899d sgg.,
903b sgg.], che è benefico, buono, amante degli uomini, giusto,, e che ha tutte
le virtu. Perciò il cosmo è detto anche Zeus, essendo per noi l'autore della
vita (z~n). In quanto dio fin dall'eternità governa tutte le cose
ineluttabilmente con una ragione concatenata, è detto Fato. t detto Adrastea,.
poiché niente può sfuggirgli [apodidrtiskein]. t detto Provvidenza, perché ha
cura di ciascuna cosa secondo i singoli interessi. Cleante credeva che· parte
dominante [egemonica] del cosmo fosse il sole, perché è il piu grande· degli
astri e quello che massimamente contribuisce al governo dell'universo,. dando
origine al giorno, all'anno e alle altre divisioni di tempo... Crisippo·
identificò questa parte con l'etere purissimo e semplicissimo, perché è il piu
mobile di tutti gli elementi e trascina in giro l'intera traslazione del' cosmo
(Dossografi greci, a cura di L. Torraca, Padova, 1961, pp. 249-50).. Certo
bisogna tener presente che quando si dice stoicismo o plato- nismo, o stoicismo
platonico, o anche aristotelismo stoicheggiante o· platonizzante, in effetto
diciamo qualcosa di molto vago, se non inten-· diamo una vaga visione
d'insieme, uno sfondo culturale, ormai cristal-· lizzatosi ed estremamente
diffuso sia nelle scuole, sia in manualetti di. massime, sul tutto e sulla vita
pratica, circolanti presso il popolo, com'è· largamente testimoniato. Tale
visione d'insieme e legale di un universo• vivente, poteva poi servire, sia sul
piano del diritto e del potere poli- tico, sia sul piano dei singoli
insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un lato ad una morale comune e
religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali del dire (grammatica, retorica
e dialettica) e alle sin- gole tecniche pratiche (le cosiddette singole
scienze); essa risulta compen- diata in manuali che, usando cognizioni e
notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di centoni. Se ciò si vede
bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo di geografia descrittiva
e umana di Strabone (63-25 a. C.), a carattere enciclopedico e informativo, ove
non v'è piu nulla degli interessi mate- matico-scientifici che avevano mosso un
Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di Cnido, altr.ettanto
bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle testimonianze e dai pochi
frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e di Ario Didimo. Vissuti
nella seconda metà del 1 secolo a. C., il primo piu vicino a forme platoniz-
zanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero nello scolar- cato
dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea, Aristone di Ascalona, dal
68 al 51, ascoltato da Bruto e da Cicerone, e Teomnesto di Naucrati), il
secondo a forme stoicheggianti (sembra che lo stoi- cismo ufficiale della
scuola di Atene si sia mantenuto, con gli scolarchi successi a Panezio,
Mnesarco, Apollodoro di Atene, Dionisio, Anti- patro di Tiro, sulla linea di
Panezio), l'uno e l'altro hanno scritto dossografie, opere filosofiche a
carattere enciclopedico, commenti al Timeo, di Platone, alle Categorie e ad
alcune parti della Metafisica di Aristotele (Eudoro: cfr. Simplicio, Schol. in
Arist., 6la, 25; Plutarco, De anim. procr. in Tim., III, 2; Alessandro,
Metaph., 44, 23), epitomi (Ario Didimo: cfr. Doxographi del Diels). Entro,
appunto, questa concezione comune platonico-stoica, con ve- nature proprie alla
scepsi della nuova Accademia, in senso ciceroniano (cfr. sopra: e Ario Didimo
in Stobeo, Ecl.; Diels, Dox.), si determinava un tipo di cultura enciclopedica,
per cui poteva servire Aristotele (partico- larmente i libri di logica, usati
come introduzione all'arte del retto ragionare, e i libri naturalistici,
biologici, zoologici, meteorologici), sr come Panezio o Posidonio, e, in
specie, i commenti scolastici ai grandi testi, e, insieme, le dossografie, le
epitomi, le raccolte di questioni trat- tate per problemi e divise per scuole,
secondo un capostipite nella cui linea si facevano rientrare i successori (tale
metodo s'era diffuso, sul- l'esempio di Teofrasto, tra il 111 e il u secolo a.
C., mediante la Successione dei filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv cpr.ì.oaO<p(J)V,
del peripatetico Sozione originario di Alessandria, che aveva distinto due
scuole, l'ionica e l'italica, e che fu una delle fonti maggiori cui attinsero i
compilatori posteriori, fino a Diogene Laerzio). Un esempio di tali motivi è
rappresentato dall'edizione che delle opere scolastiche di Aristotele,
ritrovate nel 133 a.C., a Scepsi (cfr. sopra, I vol.), consegnate dagli eredi
di Neleo al libraio Apellico (che dal 100 circa, portatele ad Atene, le offrf
in pubblica lettura) requisite da Silla nell'86 a. C., fece, insieme al
grammatico Tirannione, Andro- nico di Rodi (scolarca dal 70 al 50 a. C.: dopo
Critolao erano stati scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo, dei quali poco o
nulla sappiamo). Basti, nel sen~ di cui sopra parlavamo, ricordare quel che
Porfirio dice del criterio usato da Andronico: "Egli divise le opere di
Aristotele e di Teofrasto in argomenti (1tpor:yjL«u(~), mettendo insieme sotto
titolo comune le specula~ioni che trattavano argomento affine (-r~Ì4;
o!x&tcxç 01to-&éaetç etç -rcxù-ròv auvcxycxyci>v) (Vita di Plotino,
24, 138); e 162 basti pensare all'ordine con cui si venne a
costituire il corpus aristote- lico (Organon, Fisica, De coelo, De genesi et
corruptione, Meteorolo- gica, De anima, Parva naturalia, libri sugli Animali,
Metafisica, Etica Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica, Retorica,
Poe- tica). Se da un lato è chiaro l'intento di volere istituire il libro della
scuola peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in quest'epoca venga
edita, a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea dell'edizione di
Aristofane di Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in tetralogie, da cui
riprese poi Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il cui Corpus
platonicum sarebbe poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è chiaro l'intento
di offrire una enciclop.edia delle scienze unificate, in un unico sistema. E
ciò non significava affatto che, a cornice del quadro aristo- telico, della
divisione della filosofia (come cultura di fondo) in logica, fisica, etica, non
potesse servire la struttura generale dell'universo, entro i termini
teologico-ontici e del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi stoici e
dell'Aristotele di alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era stato il
platonismo, il primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche, l'importanza
delle introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e, perciò,
all'astronomia; e le relative sinopsi sco- lastiche. Edizioni di testi, dunque,
introduzioni generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela tutto un
modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si pubblica,
sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il complesso
della visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per altra via
si costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che vanno sotto
l'eti- chetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è poco indi-
cativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di astro- nomia;
mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficial- mente, le altre
linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non è forse senza
interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone (detto "
peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone stoico), discepolo
di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra, alla morte di
Andronico nello scolarcato del Peri- pato di Atene. Egli avrebbe scritto una
serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle opere di
Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In Cat., 5).
Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non alto valore
scien- tifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a ql«tV6fUV«),
com- posta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria circolare dei
corpi celesti (Kux).~x1J .3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di Cleomede (1
a.C.), e, infine, il De mundo (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il nome di Ari-
stotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la seconda metà
del I secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di Andronico, e
dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (ri- sulta già noto nella
Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il 190 d.
C., ma già contro di esso avevano polemiz- zato Taziano, morto nel 172 e
Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di
alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo:
ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477
sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche al-
l'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il
tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si
resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia conce- zione
dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti
ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dal- l'Epinomide e,
probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo
di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo ha maggiori velleità, e si
presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una
specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni
aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e
ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento,
eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il pneuma,
la Prov- videnza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme del cielo
e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi platoniche (Dio
principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica, mediante cui si
po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Ari- stotele e nello stoi~ismo un
compimento del platonismo. Sotto questo aspetto, il De mundo, che si apre con
un elogio della sapienza (I), per passare quindi a descrivere la struttura
dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali elementi, i fenomeni propri
a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed eternità del Cosmo, il suo
ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la stessa divinità,
trascendente (l'altis- simo) e immanente a un tempo, che tutto governa e donde
provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio, mezzo e fine del
tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro di scuola,
ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di cui
abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festu- gière
(cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teolo- gica dei due
primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente
dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca. Gli
Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi,
moderatore e guardiano dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore
e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi
chiamarlo Destino? Non t'in- gannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle
cause. Vuoi chiamarlo Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è
provveduto ai bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli
senza ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non
è errato: da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo?
Non avrai torto: egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue
parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales
quaest., Il, 45). Aveva detto Varrone: "Bisogna tener presente che tutti
gli dèi e le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste
cose siano parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di
coloro che fanno di Dio l'anima del mondo. Tutta la vita universale è la vita
d'uno stesso Essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono po- tenze,
membri, o parti" (fr. 15 b Agahd). Il De mundo si colloca, anche
cronologicamente, tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai
chiaramente la koinè cultu- rale-politica quale si venne configurando tra la
fine del 1 secolo a. C. e la prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu
che scientifica teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di
questioni na- turali, che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano
in ma- nuali di volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe
di un sapere ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco inte- resse il
termine architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato
richiama la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato
dà il significato esatto di questa visione misu- rata e normativa
dell'universo, cui ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa
dell'uomo, indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita,
da dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi
ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie
particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola
filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a.C. e i primi
anr1i del I d. C., fondata da Quinto Sestio (nato circa nel 70 a. C.), cui
successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da
Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta-
quattro, della su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei
Sestii." Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di
essa, attraverso Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di
Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli
della Scuola, e di cui Seneca dice che non fu "filosofo cattedratico, ma
vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche
testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la Scuola come configurantesi entro
i termini del piu generico stoicismo, che soprat- tutto doveva servire da
fondamento all'insegnamento etico, alla forma- zione del cittadino, e da
fondamento all'insegnamento di materie par- ticolari: questioni naturali,
politiche, retoriche, di medicina (ricor- diamo di Fabiano i titoli pervenutici
di alcune sue opere: Libri cau- sarum naturalium, De animalibus, Libri
t:ivilium), di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cor~elio Celso della
Scuola dei Sestii. Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrisse una grande
enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume De re medica, già esso
estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richlesta (gli altri
volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla
filosofia e al diritto). Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera
origi- nale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco,
torse, secondo Max Wellmann, Celsus, in "Philol. Untersuch.,"
Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore
come fonte per la storia della medicina e delle scuole medi- che (1), è una
preziosa opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad una
preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei
sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che
farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi
chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e
delle malattie delle ossa (VIII). D'altra parte non va qui scordato il medico
Asclepiade (vissuto circa tra il 124 e il 45 a. C.), di Prusa, in Bitinia, che
nella prima metà del I secolo a. C., fbndò in Roma la prima, privata, scuola di
medicina (pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo nel 14
d. C.). Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato . in molte città di
Oriente e in Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di
Erasistrato (cfr. I vol.), ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina
epicurea degli atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose
e loro costi- tuzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi
stessi, fosse l'unica dottrina che poteva permettere al medico di ope- rare
sulla natura del corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri,
o determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando,
appunto, "mediante la stessa natura," soprat- tutto per mezzo della
dieta, s( da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri,
rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). Non è
un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in
medicina prevalse la teoria 166 pneumatica, di chiara ispirazione
stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo
discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette
avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il
nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri
a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo
rivelantesi at- traverso il battito del polso. Certo egli cercò soprattutto di
compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di
Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio (metà del I a. C.),
appar- tenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descri-
vere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro
esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d.
C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la
medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il
fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola
pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hip- pocraticum, il De
flatibus, fu fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli
altri volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume
dedicato alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra
dicevamo. E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività
degli scienziati tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno
teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei
tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano
strumenti e operano, a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone
di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di
monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Archi- tettura
di Vitruvio), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di
Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella
seconda metà del I secolo d. C.), anche se man- tenendo quella visione
d'insieme, quello sfondo culturale, quella cre- denza in un tutto ordinato e
architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura (del 25-23
a.C.) del grande tecnico e archi- tetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo
di Cesare e di Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura
delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento,
che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono
8t&.&eatc;; e dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la distribuzione
detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere adeguata
alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e civiltà, di cui
l'espres- sione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro cap. 1), d'onde,
anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica, non solo 167 perché l'architetto possa
realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui l'architetto deve avere
cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di meccanica, dei
materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia, delle acque, e
cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni scienza, s1 come di
ogni consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si accompagna a
molteplici conoscenze e a istruzioni varie... Essa nasce dalla pratica e dal
ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una continua e
minuziosa meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani, con l'aiuto
di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto al
ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione
della ragione, le cose che si eseguiscono... Né l'ingegno senza la scienza, né
la scienza senza l'inge- gno può fare un compiuto artefice. L'architetto deve
essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria; deve conoscere le
leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non
essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere
l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso agli
inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran
numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno
tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa
facil- mente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina), infatti
come un sol corpo ~composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla tenera
età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche
delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze,
donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose (1, l, 1-2, 9,
44-45). Di Enesidemo sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso,
nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio, Myriobiblon
o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo periodo insegnò ad
Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22) - il che può
essere abbastanza interessante relativa- mente alla conoscenza che Filone di
Alessandria poteva avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace
dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi
accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa
pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235, il
quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del-
l'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico
prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo
Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione
di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura
romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani
"a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita,
di famiglia illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari"
(Fozio, Myr., 169b). A parte un Tu- 2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a
Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera
intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o
Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo na- tivo d.i Egea).
Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo
noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe
vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo.
Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno
alla ricerca, Schizzo introduttivo al pir- ronismo, Elementi, Prima
introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei disce- poli di Enesidemo
(Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema
della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia
biografica. 179 berone piu
antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di
Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente
vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone,
che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che,
riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma,
occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di
pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nel-
l'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che
poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto libe- rarsi
dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. In
effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani
appare con chiarezza che la polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro
i qeo-accademici, "stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un
appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo
di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione
della realtà, ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità
umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda
della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che
viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso
la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova- Accademia,
in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente
cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo
d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di
lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica" : Pyrrh. hypot., l,
235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu
antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164),
sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi)
mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio"
(cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne clas- sificati cinque
(cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere esposto
nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo," si è di
qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una
testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i
pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e
la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32,
tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263,
un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in
dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180
o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave
allo Zeller, il.quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici Filone
di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo dedica i
Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre invece
afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si può,
d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo
al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che
discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui
Cicerone ri- prendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo
Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri
che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio
Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro- niani
potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al
"recente" di Aristocle e all'"antico" di Sesto (ma, in
fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la
conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad
altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome,
mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli
otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spie- gare le cause,
su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che
Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava
con Pirrone e antico a Sesto che lo raf- frontava con filosofi a lui
posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, p. 278). I Discorsi
pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1
secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi,
attraverso Antioco e Cicerone, in una generica con- cezione stoico-platonica,
accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente
scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una
corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione
oppone una ragione di egual valore" : Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8,
"senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma,
cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di
ricerca da parte delle scienze": Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe
mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di
Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene,
Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe
stato maestro di Enesi- demo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto,
il medico Eraclide di Eritrea?).
181 Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu
tardi, biso- gnerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse
stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e
di Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo gene- rico, contro
il diffuso dogmatismo scolastico. Egli,.tuttavia, traspor- tando questi
elementi su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad
Arcesilao che non a Pirrone, avrebbe criticamente ordi- nato i tropi (dei
cosiddetti tropi di Enesidemo in Filone ne rintrac- ciamo almeno otto),
mediante cui mostrare la necessità della "sospen- sione del giudizio"
(epochè), anche nei confronti del "probabilismo," forse praticamente
e politicamente utile, ma teoreticamente e scienti- ficamente un compromesso,
al servizio dello stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone
l'Ebreo, sarebbero stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche
se con un fine assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia
attraverso il sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia
attraverso ciò che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio),
ricaviamo che sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come
da un lato si venivano compilando le "summe" del sapere stoico,
platonico, aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni
d'in- sieme, cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso orga-
nico gli argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di con- tro
alle evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo plato- nizzante
e aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di
logica e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente
filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha
scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua
dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi
rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema;
abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta
d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di
qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di
notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica... In
origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la
tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina
dello spi- rito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo;
l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto
del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla
stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla 182
tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico
espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di
applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in
vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de
l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, pp. 553,
554-55). Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro
all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta
l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo
pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso
colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che
permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filo- sofico e in una
discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere
molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso
Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il
"criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio
siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla
giustifica l'affer- mazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla
coscienza di qual- cosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé,
né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può
avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fi- sica, -'-
nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o nega- zione di una
rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non
è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra
le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo
strutturarsi della realtà in rap- porti di inerenza. Di qui scaturisce la
critica sia alla logica propo- sizionale di tipo stoico (in cui l'uso
predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia
all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere
sarebbe dovuto ;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che
sembrano elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le
impressioni in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano
all'oggetto rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del
discorso, né in senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto
di ine- renza reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per
sé, né in senso stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo,
in tutti gli uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione
b e cos1 via. 183 Dagli
scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i
dieci modi [tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la sospensione del
giudizio [epochè], che chiamano anche, con vocaboli sino- nimi, regole [16goi]
e figure [t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota negli animali;
2) alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle diverse
costituzioni dei sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni, agl'intervalli,
ai luoghi; 6) alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni degli oggetti;
8) alla relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado; IO) alle
istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogma- tiche.
Accettiamo questa serie dandole un .valore convenzionale... Dicevamo essere la
prima regola quella secondo la quale le stesse cose non producono le medesime
rappresentazioni sensibili, in conseguenza della differenza degli animali.
Questo lo deduciamo dal modo differente del loro generarsi e dalla differente
costituzione dei loro corpi... Se le medesime cose appaiono dif- ferenti ai
differenti animali, potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'og- getto; ma
quale esso sia in realà, ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot., I, 36-78;
cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio, IX,
79-80)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si
riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli
uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla
sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono
tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo,
per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro... Pertanto è
necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare
alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 79-89; cfr. anche Filone
l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 80-81). Terzo modo è
quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle sensazioni. Che le sensa-
zioni differiscano tra loro è manifesto... Ciascuno dei fenomeni sensibili
impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci si mostra liscia,
profu- mata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa possieda,
effettivamente, que- ste sole qualità, o se possieda una qualità unica e .ci
appaia differentemente in conformità della differente costituzione degli organi
del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e alcune non
cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche Diogene Laerzio,
IX, 81)•.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle circostanze (chiamiamo
cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo ch'esso va considerato nel
fatto di trovarci in uno stato naturale o innaturale, nell'essere svegli o
addor- mentati, in rapporto all'età, all'essere in moto o in quiete, all'odiare
o amare, al versare nell'indigenza o esser sazi, all'essere ubriachi o sobri,
alle predisposizioni, all'essere coraggiosi o paurosi, addolorati o contenti...
Noi assentiamo maggiormente a ciò che ci sta davanti e c'impressiona nel pre-
sente, che a ciò che non ci sta davanti... t impossibile dirimere questa
discre- panza di rappresentazioni. E invero, chi preferisce una
rappresentazione a un'altra, una circostanza a un'altra, o lo fa senza giudicare
e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma non lo può fare n~ con
l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di una dimostrazione: in
questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà un giudizio sulle
rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un criterio. Ora
questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non meriterà fede;
se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero senza recare
una dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione. Se lo
affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una
dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia
vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per
la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? Se senza,
non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di
aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la
dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per
essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di
una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere
vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero,
se la dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e
dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra
meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da
quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né
senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rap-
presentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappre-
sentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni.
Talché, anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospen-
sione del giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l,
100-117; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX,
82). Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e
ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono
differenti... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a
una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle
rispettive rappresentazioni sensibili..., necessariamente, anche per questo
modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.;
anche Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà
questo tropo come settimo)... Il sesto modo è quello che si riferisce alle
mescolanze, per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade
sotto i nostri sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è
possibile dire quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e
dall'altra cosa insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia
l'oggetto esteriore nella sua realtà pura ... A causa delle mescolanz_e, i
sensi non percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E
nemmeno l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo
stesso intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che
viene annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio,
IX, 84-85, che dà questo tropo come sesto)... Il settimo modo è quello che si
riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente
per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia co- stretti
a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è mani- 185 festo. Per esempio, la
raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem- plicemente, fuori del
composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto del corno appare
nera... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della
realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De
ebrietate, 189 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come
ottavo)... L'ottavo modo è quello della relazione, e per esso in- feriamo che,
tutto essendo relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura
delle cose. Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce
"è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto:
"tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma
in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno
e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a
quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra
rispetto a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso
anche precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni
cosa appare cosi o cosi, relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a
questo senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce
insieme con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi
relativamente a questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a
questa quantità e posizione. Ma anche con ragio- namento proprio si può
concludere che tutto è relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto
differisce da ciò che è relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso
relativo; se differisce, poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice,
infatti, che differisce relativamente a ciò da cui diffe- risce), anche
l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a qualche cosa. Ne segue
che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h.
hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio,
IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo)... Il nono modo è quello che
concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose rare paiono
preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141,
144; cfr. anche Diogene Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono)... Il
decimo modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che
si riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e
alle opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa,
ora a ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni
Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i
Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre,
invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a
indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando
l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei
Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa,
quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli
uomini, talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di
qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo-
strazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186
uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti
sono gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri
immortale; ché per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza
degli dèi, per gli altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi
costumi a leggi; leggi a condotta; costumi a credenze favolose; costumi a
opinioni dogma- tiche, e cosi via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non
potremo affer- mare quale sia nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso
appaia in rap- porto a questo indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in
rapporto a ciascuno degli altri fatti. Anche per questo è per noi necessario
sospen- dere il giudizio... (Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo,
D~ ~bri~ tate, 193 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come
quinto). Secondo Sesto Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a
tre ("ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che di- pende
dal giudicante - i primi quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o
sensazione o si trova in una qualche circostanza - quello che dipende dal
giudicato - il settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il
quinto, il sesto, l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo:
"a loro volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché
questo sarebbe il piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi
compresi, specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non
hanno alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti
che paiono persuasivi, non per assi- curare che siano veri..., ma per condurre
alla sospensione, col fare appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi
discorsi e di quelli dei dogma- tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il,
79). Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso
che presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su
rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi,
ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. Sono sempre costruzioni e
discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso
teoreticamente, donde l'im- possibilità di un sapere assoluto. Tutta la
difficoltà - insormontabile - sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea,
che è tale in quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda
a ciò di cui è rappre- sentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso,
in quanto articola- zione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al
discorso della realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle
rappresentazioni, sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività
unificatrice e giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati),
afferrante la "verità," dovrebbero prima giustificare se stessi,
trovare cioè in sé il criterio per cui si può essere certi del "vero"
e della "verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge
al concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei
confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla
verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta
all'attività egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico,
Pyrrh. hypot., Il, 80-84). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura
della realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il
vero sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il
senso e l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti
esterni, ma, se mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque
sarà dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono
impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e
contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto
Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto all'intelletto:
donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti sentiti, non
imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la natura, ma
solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso
esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della
generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun
che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo
giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con
altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose
(Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti
aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile
(vo'l)'t'6v), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né
intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il
sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre,
invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai
singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e
certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei
singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero,
ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio,dei singoli;
solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero
non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la
visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi
anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente
con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si
conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è
intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un
assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà essere percepito comunemente da
tutti o individualmente da alcuni. Ma non può accadere che il vero sia percepito
intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni individualmente: non
può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e se compreso
individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è oggetto di
contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è, ad un tempo,
sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto
intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il
vero è affatto sen- sibile e affatto intelligibile, è cosa che non può
avvenire: i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili,
gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, vice- versa, i sensibili con
gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte
le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui,
di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia affermare che parte del
sensibile sia vero e che vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda,
infatti, se sia non contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose
false siano sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di
meno. E, cosi, ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu
l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri,
né tutti falsi. Non vi è, dunque, il vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math.,
VIII, 40, 48). In altri termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso,
che presumano significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in
e.ffetto, insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la
"sospen- sione," l'epochè). Da questa serie di argomentazioni (i
dieci tropi, le aporie sul "vero"), che Fozio (cit.), nel suo sunto
dei Discorsi pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede
bene come Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni: le prime volte
a mostrare l'im- possibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia
mediante i segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni
significanti quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la
coincidenza tra significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.),
un grosso pro- blema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto
libro Enesi- demo mette in discussione i segni delle cose oscure...": Fozio,
cit.); le seconde (che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a
sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel
quinto libro... propone argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nes-
suna cosa è causa dell'altra...": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra
serie di argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio
degli stoici dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile
all'invisibile proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già in
Crisippo la dottrina dei segni si prestava a una doppia inter- pretazione (cfr.
I vol.). Posto che l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa
nell'anima l'immagine della cosa, ma che ogni rappresentazione è una
modificazione, che ci a.fferra a seconda della sua evidenza, e a cui diamo
l'assenso, non tanto perché corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo
conoscere per sapere se corrisponda o no all'impressione). ma in quanto
fortemente presente, ogni rappresentazione è un segno, da un lato
"rammemorante" una impres- sione, dall'altro lato
"rammemorante," data quella rappresentazione, altra rappresentazione,
che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno che, osservato già
insieme con il significato, per esserci dato insieme con tutta evidenza... ci
conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora non ci si dia con
evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si dice che c'è stata
una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 97-102). Sotto questo aspetto,
la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara " logica
proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata, appunto, sui
segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo medico ~mpirico e metodico,
ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici), ove la veracità o meno
del discorso non presume affatto significare il discorso stesso della realtà.
Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma; certo, subito dopo di
lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne interpretata in quanto segno
indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante l'oggetto che ha provocato
l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso significherebbe il di-
scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione verrebbe a
significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta im-
pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a porre
cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria natura
e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i movimenti del
corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 101). È
chiaro che la critica degli scettici piuttosto che all'interpretazione del
"segno" come rammemorante, si rivolgesse al segno interpretato come
indicativo e significante da un lato la cosa per sé, dall'altro lato la causa e
la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico - non parliamo contro ogni
segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra essere state
inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102)... Il segno indicativo è
inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato e-mdatore di esso. Se
è rela- tivo deve assolutamente esser compreso insieme con il significato, come
il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc. Se invece è rivelatore
del significato, deve assolutamente esser compreso prima di esso, perché,
conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della cosa resa nota da
lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere conosciuta prima
di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere compresa: impossibile
quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore della cosa relativamente
alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire il segno indicativo...
(Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che questa già fosse stata la critica di
Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv. math., VIII, 49 sgg.) può sostenere che
Enesidemo a coloro che affermavano che la causa si coglie non attraverso i
sensi immediatamente, ma per analogia attraverso i segni indicativi, rispon-
deva che ciò è contraddittorio, posto che la rappresentazione è dall'im-
pressione, ché mai si può avere rappresentazione di ciò di cui non vi è
impressione; poiché, d'altra parte, questa o quell'impressione non modifica
tutti allo stesso modo, pur dando valore al segno rammemo- rativo, resta in
dubbio la sua universalità, su cui si fonda la pretesa ch'esso segno indichi e
significhi l'universalità oggettiva delle conse- cuzioni. In realtà - obbietta
lo scettico - il segno è solo un fatto che ne ricorda un altro di cui è stato
in passato il concomitante (passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro)
(cfr. L. Robin, cit., p. 553), senza pretendere ad alcuna verità. Enesidemo,
nel IV libro dei Discorsi pirroniani cosi dice: se le rappre- sentazioni delle
cose [fenomeni] ugualmente appaiono a tutti coloro che sono stati ugualmente
modificati e i segni indicano quelle attuali rappre- sentazioni, è necessario
che anche i segni appaiano a tutti coloro che sono ugualmente modificati. Ma i
segni non appaiono ugualmente a tutti coloro ugualmente modificati, per cui i
segni non sono segni delle rappresenta- zioni (Sesto Empirico, A d v . math.,
VIII, 215 sgg.). La critica scettica si rivolge cosi all'illusione che
l'argomentazione per analogia abbia validità scientifica sul piano della verità
oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita trasformazione di una constatata
"conse- cuzione" in una concatenazione causale risalente a ipotetiche
cause prime per sé, agenti e costituenti la realtà. Di qui gli otto tropi di
Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la possibilità di passare dai dati
dell'esperienza alla loro causa di cui non si ha affatto espe- rienza, per,
poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle cause. Come enunciamo i modi
della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche, alcuni espongono i · modi, per i
quali, dubitando delle spiegazioni delle cause particolari, si arresta la
superbia dei dogmatici, dovuta, particolar- mente, a queste spiegazioni.
Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali, confutando qualunque
dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla apparire difettosa. E sono,
secondo lui: l) quello per il quale il genere della spiegazione della causa,
aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese
dalle cose che cadono sotto i sensi; 2) quello per il quale, essendo largamente
consentito di spie- gare in molte maniere la causa cercata, alcuni la spiegano
in una maniera sola; 3) quello per il quale di fatti che accadono ~on un
ordine, adducono cause che non ammettono ordine alcuno; 4) quello per il quale,
percependo come accadono le cose sensibili, credono di aver percepito, anche,
come accadano quelle che non cadono sotto i sensi, mentre le cose che non
cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale alle cose sensibili, e,
forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto; 5) quello per cui tutti, per
cosf dire, spiegano le cause seguendo ce~e loro proprie ipotesi intorno agli
elementi primi, piuttosto che una via comunemente ammessa e accettata; 6)
quello per cui spesso accolgono quello che si spiega con le loro proprie
ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha la medesima forza di persuasione;
7) quello per cui spesso adducono delle cause che contrastano, non solo con i
fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi; 8) quello per cui spesso,
essendo ugualmente incerto e quello che sembra· apparire in un dato modo e
quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di nozioni incerte costruiscono
le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge, poi, che non è impossibile che
alcuni, nel rendere ·ragione delle cause, falliscano secondo altri modi misti,
dipendenti da quelli che abbiamo enumerali (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l,
180-184). Se mediante gli otto tropi, riferiti da Sesto come propri di Enesi-
demo, è messa in discussione la possibilità dell'inferenza dall'effetto alla
causa - ed è evidente qui la polemica non solo contro gli Stoici, ma anche
contro l'epicureismo e l'induzione aristotelica, - per cui si giunge alla
sospensione del giudizio anche relativamente alle cause, tanto piu semplice
diveniva ora la discussione che <;onduce al dubbio sulla possibilità di
spiegare gli effetti, partendo da cause che pur si sono dimostrate puramente
ipoteùche, di dimostrare che l'una causa possa pro- durre un effetto e che,
alla fine, il rapporto di causa ed effetto sia proprio della stessa struttura
della realtà e non dovuto ai rapporti ram- memorativi tra le impressioni
ricevute. Anche queste sembrano argo- mentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto
Empirico, il quale appunto cita Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX,
218-266), insieme a tutta una serie di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica
e la dia- lettica stoica (cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197;
Adv. math., VIII, 300-315, 367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp.
308-312). Veniva di qui, infine, entro i termini della sistemazione in un sol
corpo delle argomentazioni degli scettici, la problematica delineata da
Enesidemo sulla possibilità di definire l'essenza del Bene e delle con- dizioni
che permettono una vita virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu
Enesidemo parlava negli ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi
pirroniani). Secondo Sesto Empirico (Adv. math., X, 42) 192
Enesidemo avrebbe escluso l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un
bene per sé quale veniva definito dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene
Laerzio, IX, 107, e da Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 - che il
bene, non avendo una sua essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto
alla sospensione del giudizio (Diogene Laer- zio, cit.), che determina un certo
piacere (Aristocle, cit.). Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza
della realtà (tanto è possibile dire che il fondo della realtà è costituito di
atomi, quanto dire che, al limite, sono da porre una materia passiva e un
principio attivo), ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene,
teoreticamente è da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando,
piu umilmente, di non ingannare se stessi e gli altri, ricon- ducendo
l'indagine sul piano umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le
conclusioni di Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra
concezione filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale
fosse la "verità,• ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine
indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde,
contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come
"verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo
quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che
l"'indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in
quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti con- trari circa lo
stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e
gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso
oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro
esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). Sesto, e si capisce,
vede in questo una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude assolutamente
che una posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione di tipo
eracliteo, che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i
contrari, è anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non fenomenica
e perciò è una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi
pirroniani, né Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del
pensiero di Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima sepa-
rata dal corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla
Tertulliano (De anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si
trova in Filone l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione
scettica, ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo
di Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che
secondo Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal- tarsi in una posizione
dogmatica di tipo eracliteo, trovandovi un proprio fondamento ontico, e questo
sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se
arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti
contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio
'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe
essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che...": Sesto
Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per
incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda,
ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo Eraclito, Enesidemo
affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math., X, 216-217:
"seguendo Eraclito Enesi- demo disse che il tempo è corpo... Cosi nella
Prima Introduzione..."; A.dv. math., X, 233: "Enesidemo dice che per
Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX, 337; VIII, 8), alcune delle
quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che all'eraclitismo, altre come
piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte lo stesso Sesto non discute
quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol corpo di pensiero, ma,
dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di quello che poteva essere
l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non dice mai che quelle tesi
eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi pi"oniani, mentre una
volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi perduta, la Prima
Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga discussione
sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è chi ha
sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una posizione
dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato nell'eraclitismo il
fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che Enesidemo sia pas-
sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi dogmatica a. una
seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC] scettici- smo,
alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla posizione car-
neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi pi"oniane, l,
210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo scetticismo
all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp. 314-330, al
quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione delle varie
ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap- penheim,
all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard,
al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. In effetto nulla vieta di pensare
che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi
pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe
essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio
dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei
confronti dei "dogmatici," abbia raccolto e siste- 194
mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso l'esposizione che
della "sospensione del giudizio" aveva offerto Clitomaco, il
discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per non cadere nel
possibile dogmatismo della nuova Accademia - il "probabile" e
l'"ipotesi"; o l'opzione, per rendere possibile l'azione e il
discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio della
"probabilità" (dr. s<r pra), Enesidemo cosi poteva dichiarare
fallita ogni presunzione della filosofia, costretto, in effetto, a rimanere su
tutto in silenzio (afasia), in un ritorno, davvero, all'originaria posizione di
Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere una critica ed un'analisi del
linguaggio. Duplice è- l'interesse che presenta, storicamente, la posizione di
Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a. C., egli, pienamente
innestandosi nell'atmosfera_ culturale di quel tempo, viene sistemando in un
corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei problemi, propri delle posizioni
scettiche, che probabilmente s'erano'già venuti delineando con Tolomeo di
Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della posizione scettica rifacendosi ad
Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro lato, entro i termini di una
certa cultura, oramai, cristallizza- tasi, divenuta patrimonio comune, comune
concezione, dogmaticamente accettata, Enesidemo mette in crisi, proprio
attraverso la sua stessa sistemazione, quella cultura, quella coni:ezione di
fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza che viene ad avere, se
considerato entro i termini della cultura quale si er,a venut:t determinando
tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C. E ciò tanto piu
sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un fenomeno
isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci di Ene-
sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa il nome
Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea: IX, 106,
116): non piu che il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti sul
piano della posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione dei
tropi mediante cui giungere alla sospensione del giudizio, alla constatazione
che ogni proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so di essenze è
un non-giudizio, basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul fenomeno. '
Di Zeucsippo di Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis, suo
seguace, che avrebbe conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX, 106)
dice che' scrisse un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo significativo,
già usato, non a caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che testimonierebbe
un'attività simile a quella di Enesidemo, in una raccolta di ragioni pro e
contro questioni molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni pretesa di giungere
all'affermazione di un'unica verità, e che richiama la definizione data da
Sesto Empirico dello scetticismo:
195 Lo scetticismo esplica il suo valore nd contrapporre i
fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito
all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto,
alla sospen- sione del giudizio, quindi, all'imperturbabilità (Py"h:
hypot., I, 8). Di Zeucsis fu, a sua volta, seguace Antioco di Laodicea e di lui
un certo Apelle che avrebbe composto un libro, intitolato Agrippa ("Apdle,
nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea, pongono solo i feno- meni": Diogene
Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre che la fonte da cui attinge Diogene
Laerzio, per ricostruire il pensiero di Timone di Fliunte, fu il grammatico
Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX, 109), che compose un commento ai SiUi
di Timone dedicato all'imperatore Tiberio. Anche questa è una notizia
interessante, che dimostra la dif- fusione del rinnovato scetticismo sul
principio dd I secolo d.C. e che può essere indicativa dd periodo in cui
vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come sembra (dr. A. Goedeckemeyer,
Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus, Lipsia, p. 137; anche Dal Pra,
op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea furono contemporanei di
Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene Laerzio (IX, 116) subito dopo
Antioco cita Apelle autore di un'opera su Agrippa, e dice che seguace di
Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia, che, medico, rifacendosi allo
scetticismo dette un fondamento scientifico e metodico alla medicina, in un
atteggiamento strettamente empirico, riallacciandosi ai medici della tradizione
empirica, vissuti, appunto, nel I secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo
anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C. e il 150 circa. Cosi, evidentemente,
Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera entro queste date, per cui dovremmo,
anche se approssimativa- mente, collocare l'attività di Agrippa (già noto e che
deve avere avuto un'importanza di primo piano sul rinnovato scetticismo, se
Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera) sulla metà del I secolo d. C. Sesto
Empirico non cita mai il nome di Agrippa, anche se ne rife- risce i cinque
tropi, che sappiamo essere stati da lui formulati attraverso quanto ne dice
Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per altro, attinge nel- l'esposizione dei
cinque tropi, a Sesto Empirico. In realtà Agrippa - ddla cui vita, nascita,
luogo di origine, insegnamento, nulla sap- piamo - non avrebbe aggiunto niente
di nuovo alle linee fondamen- tali dell'atteggiamento scettico che tra
Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e, soprattutto, si venne costituendo in
un appello alla criticità della ricerca, in un netto rifiuto della filosofia
intesa come concezione universale, in una programmatica indagine mediante cui
la filosofia viene intesa come metodologia delle condizioni che permettono un
pos- sibile sapere. Sotto questo aspetto si capisce perché Sesto, pur esponendo
i cinque modi di Agrippa, o meglio delineando i momenti mediante cui si sono
venuti istituendo gli argomenti principali della posizione metodologica, non
faccia il nome di Agrippa, e parli, invece, di scettici piu "recenti"
rispetto ai "piu antichi," delineando l'arco entro il quale, da
Enesidemo ad Agrippa, lo scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo
critico-logico. I. cinque tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un
particolare rilievo, ché, con estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto
il lavorio di precisazione dei modi con cui rimettere in discussione le
conclusioni di una concezione, frutto di tutta una cultura e di una tradizione,
con cui rimettere in discussione ogni soluzione metafisica. "Tali modi gli
Scettici piu recenti espongono, non già perché respin- gano i dieci, ma per
confutare, con maggior verità, con questi e con quelli, la temerità dei
dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., 1,177). Gli Scettici piu
recenti tramandano questi cinque modi della sospen- sione del giudizio: l)
quello che dipende dalla discordanza; 2) quello che rimanda all'infinito; 3)
quello che dipende dalla relazione; 4) l'ipotetico; 5) il diallele. · Il modo
che dipende dalla discordanza è quello per cui troviamo che intorno a una cosa
proposta esiste una discordia insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non
essendo in grado né di preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo
col sospendere il giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è
quello in cui ciò che si reca a prova della cosa pro- posta, noi diciamo che ha
bisogno, a sua volta, di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova,
all'infinito; si che non avendo noi da dove comin- ciare un'argomentazione, ne
consegue la sospensione del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione... è
quello in cui diciamo che l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al
giudicante e al resto che insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci
asteniamo dal giudicare quale esso sia real- mente. Si ha il modo ipotetico,
quando i dogrp.atici, rimandati all'infinito, cominciano da qualche cosa che
essi non concludono per via di argomen- tazione, ma pretendono di assumere,
cosi semplicemente, senza dimostra- zione, per una concessione. Nasce il
diallele, quando ciò che deve con- fermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua
volta, di essere provato dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere
nessuno dei due per concludere l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad
ambedue (Sesto J!.mpirico, Py"h. hypot., I, 164-169). Il commento piu
pertinente sui cinque tropi di Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita
il conto di riportare, insieme ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima
dovuta sempre agli ~cettici piu recenti. Dice, dunque, il testo relativamente
ai cinque tropi: 197 Che
ogni ricerca si possa ricondUrre a questi tropi, lo dimostreremo brevemente
cosi. La cosa proposta o è sensibile o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è
intorno ad essa discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è
vero, altri, solo l'intelligibile, altri, in parte il "Sensibile, in parte
l'intelligibile. Ora che si dice? che questa discordanza è solubile o
insolubile? Se insolubile, affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché
intorno a ciò in cui v'è insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile,
domandiamo sulla bl!se di che si risolverà. Cosi, per esempio, il sensibile...
si giudicherà sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base
di un sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche
questo avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è
seJ:lSibile, a sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che la
comprovi, e cosi all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato sulla
base di un intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è discordanza,
anche questo intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di
che sarà provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente,
nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un sensibile è
stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è stato assunto
un sensibile, si induce il diallele. Se, poi, colui che con noi disputa, per
fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione, e senza
dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà capo al
modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che suppone
merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni di
fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà
sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione;
se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione sarà marcio. Che se
il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che
è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della
quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo
supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò
che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro:
sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa
sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa
maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è
irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio.
Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile,
spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al
diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né
potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché, per tal modo, si
cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile
di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per
ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma anche relativi sono
gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e
se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di
opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198 stato ricondotto ai
cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio
intorno alla cosa proposta... Tramandano anche due altri modi di sospensione.
Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si
comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono
evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e
intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né
sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non
degno di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si
possa comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà
sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se
invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso
comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per
le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179).
"Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo,
presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una mag-
giore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un intendimento
di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle maniere
tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema dogmatico,
nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il maggior numero
possibile di posizioni dogmatiche stori- camente definite, ma anche di
includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione insomma
obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non in
Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo; ha
infatti con- siderato la questione della discordanza esistente sia nella
filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo)
come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot-
tavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore
vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua
delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si
può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo
passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i
dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro
sistemi e quali tipi di giustifica- zione essi siano soliti addurre di essi;
bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico
tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo
Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente
autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo
all'infinito o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che,
rinunciando all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente
verso_ il dial- 199 lde. Se
pertanto il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi- niti
contrasti che si verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro- cedere
oltre, si troverà nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade:
processo all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre
strade conduce alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha abbozzato
una sistemazione delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non
empirici, ma universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è
quella che mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla ricerca della
strada su cui fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal
riconoscimento eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile;
la seconda tappa è costi- tuita dal tentativo di fondare il sensibile sul
sensibile e l'intelligibile sull'intelligibile (processo all'infinito per la
sostanziale omogeneità dei termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la
terza tappa è data dal tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e
l'intelligibile sul sensibile (diallele ed eterogeneità dei termini su ~ui si
vorrebbe gio- care per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal
tentativo di uscire sia dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a.
diallele, mediante l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa
quarta tappa si ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dog- matico
non ha via di uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfi- ducia nella
costruzione dogmatica, prospettando tutte le forme fonda- mentali in cui essa
poteva organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è
diventata rispettivamente: affermazione del con- trasto, vanità
dell'allargamento su terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe
d'un'affermazione che, allargandosi, non perde la sua arbi- trarietà; vanità
del cosiddetto processo logico o dimostrativo, con la persuasione che esso non
è mai altro che un circolo, senza alcun pro- gresso possibile; vanìtà
dell'evidenza e sua relatività. L'istanza critica espressa in questi termini da
.Agrippa risulta dunque piu ampia, pi6 forte, pi6 .organica e precisa di quella
espressa da Enesidemo; Agrippa è riuscito a staccarsi con maggior sicurezza
dalla considerazione con- tingente; di questa o quella posizione dogmatica, per
inv.::stire pi6 diret- tamente il dogmatismo nella sua generalità" (op.
cit., pp.. 339-41). Di non poca importanza è poi ricordare che, entro i termini
Enesi- demo-Agrippa (seconda metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.),
1'indirizzo scettico che si viene costituendo in metodo, si incontra con
l'indirizzo della medicina empirica. Certamente separati in principio
(l'indirizzo medico teorico e l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di
loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo già il significato filosofico e
metodologico che la medicina assunse proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I
vol.). Probabilmente la denominazione • medici teorici" (loghil(6t), 200
risale a un'opera in sei libri del medico Eraclide di Taranto, del
I se- colo a. C., intitolata La scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu
discepolo di Tolomeo di Cirene, con il quale, sembra, si sia, di contro
all'Accademia, restaurato l'originario pirronismo, avrebbe metodologi- camente
fondato l'indirizzo empirico della medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà
del I I I sec. a. C.), Serapione di Alessandria (fine del III, inizio del n a.
C.), Glaucia di Taranto e Apollonio il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.).
Serapione - scrive Celso - primo fra tutti professò che la medicina non ha
nulla a che fare con la scienza razionale, ponendola soltanto nella pratica e
nelle scienze sperimentali... Coloro che prendono il nome di em- pirici, a
motivo dell'esperienza, tengono conto delle cagioni manifeste, come necessarie;
e però sostengono essere ozioso disputare intorno alle cause occulte e alle
funzioni •naturali, essendo la natUra incomprensibile. Non potersi poi
comprendere è chiaro per le discordi opinioni di coloro che ne hanno discorso,
non avendosi potuto ottenere consenso in tale que- stione, né tra filosofi, né
tra gli stessi medici. Se si considerano le ragioni, tutte possono sembrare
probabili; se si considera la cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è
perciò possibile negar fede alla disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De
re medica, l, proemio). Anche se non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di
Enesidemo, di cui parla Diogene Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto,
certo è che dopo Eraclide ed Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della
medicina empirica s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due
indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che
dopo Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà
del 1 secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni
empiriche, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio
e un certo Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, p. 188;
anche Dal Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che
dell'opera intito- lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1
secolo d. C., offre Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui
"dialetticamente," d4:e Fozio; su di una stessa: questione di
medicina si avanzano cin- quanta argomenti pro e contra, e ricordando che
Diogene Laerzio nel- l'elenco dei seguaci di Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno
Zeucsis, detto dai "piedi a squadra" (goni6pus), dicendolo autore di
un'opera inti- tolata Duplici discorsi, in cui evidentemente si mettevano in
discus- sione varie opinioni con il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo
Zeucsis medico sia da identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo
certo dire. Certo è che la vicinanza tra medici empirici e indi- 201 rizzo scettico, senza dubbio
chiarissima in Menodoto, è indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto
nel I secolo d. C. dallo scet- ticismo, di contro alla filosofia verbosa, in
una precisazione di quelli che sono i limiti e le possibilità della ricerca,
che non può non svol- gersi, per essere utile e scientificamente valida, sç non
sul piano umano, nella determinazione di nessi e rapporti che si possono
cogliere solo entro i termini dei "segni rammemorativi," ragionando
sui dati del- l'esperienza, donde i tre punti fondamentali del metodo empirico
della medicina, del resto già presenti nel tripode empirico di Serapione di
Alessandria: autopsia (osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona),
historie (raccolta sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici),
mimesi o, se vogliamo, semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad
altro segno, determinare volta per volta il quadro cli- nico della malattia e
il rimedio pratico da adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause
fondate sù concezioni generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici
dogmatici), per cui poteva servire la polemica e l'appello all'autonomia del
discorso scientifico, mai chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a
nuova ricerca (sképsis), de- lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che,
pur per polemica rifa- cendosi al primo scetticismo di Pirrone e di Timone,
assume di fronte alla cultura quale si era venuta configurando tra la fine del
I secolo a. C. e il principio del I d. C~ ben altro atteggiamento piu
strettamente logico-metodologico. La conclusione sull'insignificanza e
l'illogicità di qualsiasi discorso, che voglia significare il discorso del
reale (quale ch'esso si creda dimostrare che sia), poneva in·crisi tutta una
cultura acquisita, la fiducia nei risultati di certe scienze (fisica,
astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione enciclopedica; si
rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella stessa educazione su
basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico all'ontico, richiamando
ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni istitu- zionalizzazione del
sapere. Certo, pur discusse criticamente le possibilità umane di cogliere (di
là da ciò che si presenta nella rappresentazione dei sensi e della ragione e in
ciò che mediante l'attività soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle
cose e la ragion d'essere del tutto, il discorso della realtà, negato che sul
piano ontologico si possa dire il "vero," che perciò non esistono né
il vero né la verità, proprio nella negazione di un qualsiasi passaggio dal
logico all'ontico, restava fissata e presupposta l'esistenza di una realtà,
ignota e oscura, oltre le possibilità dell'umano discorso e dell'umana
comprensione, ma senza dubbio essa, in quanto realtà, se. afferrabile,
fondamento della verità e della condotta della vita. Si sarebbe potuto, sul
piano scettico, andare piu in là: una cosa è giun- 202 gere a
negare la possibile conoscenza della realtà (il· che presuppone già una realtà:
materia, anima, Dio), altra cosa, non presupponendo alcuna realtà, vedere come
si pongono, discorrendo, le realtà. In altri termini, giunti alla sospensione
del giudizio sulla realtà, si sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi
restando gli argomenti scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si
costituisce la realtà attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il
giudizio, e la storia dd giu- dizio, si costituisce questa o quella fisica,
questa o quella matematica, questa o quella condotta di vita: non vere se si
presuppone una realtà - sia pur ignota e acatalettica, -vere se si possono
vedere, nel tempo, come costruzioni, in cui si annulla la dualità
soggetto-oggetto. Di fatto ciò non avvenne. Di. fatto il richiamo,
fondamentale, dello scet- ticismo a una piu approfondita consapevolezza
critica, si risolveva, nelle sue conclusioni estreme, da un lato in un'esatta
dimostrazione che ogni pretesa filosofica a significare la realtà è un
non-giudizio, una proposizione senza senso, dall'altro lato in una assoluta
"sospen- sio~e dd giudizio," ché, accantonando la realtà (e perciò
presuppo- nendola) e negando verità e significanza a ogni giud,izio - proprio
perché ritenuto sul piano della realtà, - portava alla negazione di
qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia ipotesi che potesse rendere
pen- sabile e costruibile la realtà (donde .anche la critica al cosiddetto
dogmatismo dell'ipotesi epicurea), .e; per le stesse ragioni, l'accanto-
namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la "sospensione del
giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde l'accettazione, in una
rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume storicamente de- terminatosi
("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si attiene all'os- servanza
della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si mantiene impassibile, e
in quelle che sono di necessità mediocremente patisce": Sesto Empirico,
Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo dimostra l'influenza del
neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso, accantonata appunto la
pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione l'essenza della realtà e la
verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino altre vie che possano
giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente ignota e nascosta, che
permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella realtà, o di es- serne
còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità, poteva benissimo essere
intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la ragione, essa stessa
fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò assoluta persona, e su
essa e per essa conformare la propria condotta· di vita (di qui il prevalere
dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le possibili vie imboccate, a
cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che ebbe poi grandissi1,11a
influenza, non si possono vedere bene, se non si tenga presente anche la
storia di Roma e dei paesi assog- gettati a Roma, particolarmente dalla morte
di Tiberio (!/ d.C.) ìn poi, soprattutto per ciò che riguarda la pOlitica
individuale e assoluti- stica dei singoli imperatori e la situazione sociale,
o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica in cui, con l'avvento
dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria, n·"popolo ebreo.•l. Cultura e
crisi politica al principio del l secolo d. C. Il corso dd 1 secolo d.C.
presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un tempo, risponde ad una piu
profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e la potenza dello Stato
romano rimangono forti, se la sua cultura istituzionalizzatasi apparentemente
risponde ai fini dd- l'Impero quale si era costituito con Augusto, in effetto,
da Tiberio in poi, i contrasti interni si fecero sempre piu drammatici. Alcuni
impe- ratori giustificarono il proprio potere assoluto mediante la propria
pro- clamazione a divinità (onde la loro simpatia per certi culti e misteri
orientali, dalle religioni di Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di
Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il loro contrasto, in particolare, con lo
Stoi- cismo, in cui si vedeva la concezione di uno Stato universale e di .un
diritto, l'opzione per una condotta di vita e per una cultura che pote- vano
minare la politica stessa dei singoli imperatori. Sono dati precisi. Già con
Tiberio fu bandito da Roma lo stoico Attalo e messo a morte, perché
repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava Bruto e diceva C. Cassio
l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34 sgg.), mentre Caligola fece
uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da Claudio, fin! poi per uccidersi
sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte Trasea Peto, anch'egli ritenuto
emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e Rubellio Plauto, accusato, come
riferisce Tacito (XVI, 57), d'esser seguace della "arrogante setta degli
Stoici, che rende turbolenti e desi- derosi di disordini." Musonio Rufo e
Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto Vespasiano, tutti i filosofi vennero
espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora insegnante di retorica,
scriveva il Discorso con- tro i filosofi, "peste della città e dei
governi," e, nel 93, Domiziano espulse di nuovo da Roma i cultori di
filosofia preoccupato per gli effetti della retorica, qualora questa non
rimanesse sul piano pura- mente scolastico, di esercitazione. Il potere,
d'altra parte, si restrin- 229
geva sempre piu nelle mani di pochi, cultura e retorica dovevano servire
ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si apriranno in Roma e nei suoi
domini le scuole, che verranno poi sempre in for~pa maggiore controllate
dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre piu povere e la schiavitu
strumento economico, mentre in tutto l'Impero schiavi e militari circolano,
provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé esperienze, culti e culture,
religioni diverse. Cosf, entro tale atmo- sfera generale, entro i diversi
sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche dell'imperatore e della sua
corte entro la quale per sorte si vive, si capisce come la filosofia potesse
soprattutto esser coltivata, da un lato come guida alla vita, rifugio,
consolazione, dall'altro lato come rifles- sione su esperienze religiose, quale
indice di salvazione, di liberazione dal guaio di esser nati uomini. Di qui,
sempre, entro l'ambiente greco romano, fin dal principio del 1 secolo d. C., la
ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo, del pitagorismo, del platonismo
stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali, il recupero di suggestioni
magiche, teurgiche, oraco- lari, di certe posizioni che si configurano nel
cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al commento dei libri del
passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici, orfici, il riapparire dei misteri,
e, infine, non ultima, la suggestione del Cristianesimo. Sotto questo aspetto,
la critica scettica, fin da Enesidemo, sembra abbia avuto una notevole
influenza e funzione. Ad esempio, proprio rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad
argomentazioni scettiche che furono poi sostenute da Enesidemo), dando a lui
ragione nei confronti dei superbi ed atei dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva
rimettere in discus-- sione il problema della verità, ma inserendosi, sotto
tutt'altro aspetto, in tutt'altra esperienza e tradizione, delineando il motivo
della "rivela- zione," mediante cui, poi, recuperare certi motivi
della vecchia cultura. Per altra via, un Seneca, in una situazione politica
cangiata, entro i ter- mini di una crisi di una cultilra, poteva, proprio
riallacciandosi alla pole- mica scettica, trovare i fondamenti della condotta
della vita in uno stoi- cismo, che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con
lo stoicismo della scuola. In certe esperienze religiose di origine orientale
si cercò, di là dalla ricerca razionale, di fronte al suo fallimento, di
trovare il fonda~ mento della vita e della propria salvazione. Pur accettando
l'istanza scet- tica, pur convinti che inafferrabile è l'essenza e la struttura
della realtà, si accantonava anche la via dell'ipotesi probabile, utile a
determinare di volta in volta, non solo una possibile fisica, ma una possibile
condotta di vita, cui convincere (com'era stato il caso di Filone di Larissa e
di Cicerone), e per cui era necessaria una retorica in senso ciceroniano. Essa
avrebbe avuto bisogno però di un foro, di una piazza, di un'assem- blea, Ove
fosse stato possibile discutere e convincere, foro e piazza che 230
non esistevano piu (non si scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esem-
pio, sotto Caligola, un Giunio Rustico, sotto Domiziano, furono perse- guitati
o condannati a morte, per certi loro discorsi pubblici). La retorica perciò si
venne trasformando di nuovo in esercitazione o in tipo di inse- gnamento
scolastico, come si vedrà bene in Quintiliano, il cui ciceronia- nesimo sarà
estremamente istituzionale (non a caso l'autore del Dialogo degli oratori,
attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di Quinti- liano, poteva sostenere
che la verace efficacia della retorica si era venuta perdendo con il prevalere
del dispotismo). E cos{ si capisce ché insieme alla retorica, entro l'ambito
scolastico, .si sviluppassero discussioni di grammatica e di dialettica; da
qui, soprattutto, il commento dei libri logici di. Aristotele, la cui
applicazione poteva, poi, essere ben lontana dai contenuti aristotelici, tanto
che il commento ai libri della logica aristotelica poteva incontrarsi,
formalmente, con certi aspetti della logica stoica. Per altro verso, invece, si
poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e l'ultima retorica rimasta: la
presentazione·di esempi, di modelli di vita. 2. Astronomia e astrologia al
principio del l secolo d. C.: loro esiti. Manilio Particolare interesse assume
ora, entro questi termini, il delinearsi della interpretazione, in chiave
stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano penetrate nel mondo
occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni
astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di
Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride,
attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C.,
in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi
magico-astrologici. Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza
facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che,
por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu
strettamente magici. Da un lato vediamo Ia linea, scaturita
dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che
risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la
sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli
astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e
che prosegue con l'interpretazione clean- tea del logos spermatikos, che, fuoco
supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con
i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e
sulle influenze delle stelle sulla terra. Dall'altro .lato vediamo la linea scaturita
dallo sforzo di rendersi conto dei movimenti stellari in ter~ini razionali,
"salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine
pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un altro piano, su di un piano
fisico in traduzione geometrico- matematica, perché fossero possibili calcoli e
misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori,
indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad
Eudosso di Cnido, Era- clide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria,
fino a .Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo
di "fami- liarizzare l'universo"). Si capisce bene, d'altra parte,
come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i
calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i
calcoli, la neces- sità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi
via, razionaliz- zava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la
necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. Anche se
indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr.
sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matema- tici entro i
termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo Simplicio (In Phys Arist.,
Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Ge- mino (Epitome dei
Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posi- donio, occupandosi del
sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movi- mento, valendosi del metodo
geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi
di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del
cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica
di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti
degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il,
34, 88: "La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico
Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al
sole, alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo:
chi dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione
perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e permetteva
calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti stessi. Biso-
gnava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a Posidonio, "muo-
vere dai principt generali delle qualità del movimento, dal principio della
7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo e degli astri"
(Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto all'ipotesi stoica,
probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion d'essere del tutto è
un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate che ovunque si
diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato, "ragione, unica
di tutti, che si svolge e vive per l'eternità," "comune ragione che
in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande [sole] e i minori lumi"
(Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno scordate le ipotesi aristotelica ed
epi- 232 curea. Se da un lato Aristotele, nella sua sistemazione
cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un primo motore immobile, dall'altro
lato Epicuro, di contro al teleologismo platonico-aristotelico, aveva sostenuto
l'impos- sibilità, sul piano sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi
generale, sottolineando, di contro all"'unica spiegazione," il valore
delle "molte- plici spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti
ce li forniscono i feno- meni che accadono presso di noi e che si vede bene
come e dove acca- dono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire
in molte maniere" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i
termini di un meccanicismo casuale si eliminava ogni necessaria determinazione,
ci si liberava dal concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in
causa la natura divina... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei
fenomeni celesti sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo
delle possibili spiegazioni caddero in vuote argomentazioni, perché credevano
al metodo dell'unica spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12).
Proprio di contro alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che
suscitò per i suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini
precostituiti, da una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e
uomini apparivano scaturiti a caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza
e di empietà di contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato
l'ipotesi del tutto animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia
universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli
ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide,
interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in
una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione
aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito
come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos
spermatik6s, che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle
stelle, cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si
vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di
Arato, interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipo- tesi valida da
potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non
sono affatto animati ("Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali
negano che gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo
Posidonio non sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le
anime son come la colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori":
Achille Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto questo aspetto,
dando ad anima il significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra
chiaro in che senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento
in sé ponendo, al limite, un 233 princip10
di vita, una forza attiva, non a caso .detta fuoco, inesistente in sé se non
appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri costituiscono
perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri sono essi stessi
fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri sono a&JL«
.&ei:ov, corpo divino, fatti di etere splendente e infuo- cato, mai in
.quiete, ma sempre in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I, 24, 5 W.),
corpi divini, come fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna la propria
ragione seminale, il proprio fuoco, la propria luce, la propria anima, sono,
sia pur ìn gradi sempre piu affievoliti, riper- cussioni e riflessioni dei
fuochi, delle luci siderali. Già qui si saldano le due linee di cui sopra
parlavamo, e..se da un lato ·si ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei
risultati geometrico-mate- matici, dall'altro lato si potevano rendere
razionali le suggestioni di certa magia astrologica, di origine sacerdotale,
che si era venuta dif- fondendo attraverso i cosiddetti Caldei, per cui, in
fine, al vecchio impe- rativo "vivi secondo natura," si poteva
sostituire l'imperativo "vivi secondo le stelle," secondo la tua
stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il riflesso di un certo fuoco stellare,
in una certa situazione e congiun- zione di stelle, assume per riflesso quel
fuoco, quella figura siderale, ha il suo destino che è destino divino,
comprensibile da parte di chi conosce l'ora (oroscopo) delta ct>ncezione e
.Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il moto delle stelle, fare i giusti
calcoli, prendere le giuste misure, ché l'istante della nascita determina
quello della morte: "Na- scentes morimur, finisque ab origine
pendet";. "Fata regunt orbem, certa stant omnia lege" (Manilio,
Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cu- mont, Les religions orienta/es, Parigi, pp.
196 sgg.). Da un lato, dunque, di contro alla libertà di Epicuro che fa l'uomo
responsabile del suo morido, lanciato in una infinità·di mondi, si tende,
"familiarizzando" l'universo, di ricondurre l'universo a una sola
unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo" nel "cosmo,"
l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione del tutto
("simpatia"); dal- l'altro lato, entro i termini di questa
concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando
la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il
costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a
delineare la possibi- lità di uria scienza della. natura e di una teologia
scientifica, che risol- veva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte
credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva
considerare la stessa divi- nazione e predizione del futuro non solo rispetto
all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero
e proprio possesso di un complesso di tecniche. Abbiamo di proposito lasciato
nel vago l'apporto delle. credenze 234 astrologiche, delle
pratiche magiche, delle superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri,
provenienti dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e
perché, in realtà, non possediamo docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo
questo, che con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal
tempo di Platone) si sole- vano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai
dalla loro ori- gine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un
lato, almeno in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese,
dall'altro lato gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divina-
zione e della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il,
29 sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni
popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e
indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da
non poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro
l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni
(pensiamo qui particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe
raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di
provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da
Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr.
Catai. codd. astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote
babilonese di Bel, autore di Babi- lonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il
280 e il 260 a. C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi.
Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è
un chiaro indice di come sia difficile distinguere provenienze e separazioni
precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si
scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al concetto dell'eternità
divina che, operando mediante le stelle e le loro influenze, è onnipotente su
cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il
primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni e gli avve-
nimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle in- fluenze
siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini sono
fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri
termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente
governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo
dell'antica autocrazia che si rico- nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad
immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di
sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in
Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di
poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciarli" (F.
Cumont, Les reli- gions orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). Sotto
questo aspetto, non vanno dimenticate le
suggestioni di certi rituali egiziani, che me- diante la precisione delle
parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato
alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti
ritroviamo in quei testi che poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll,
Sphaera, p. 372; Cumont, cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre
per altra via si poté intra- vedere la possibilità d'inventare tecniche
mediante cui operare su quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la
catena (donde, poi, nel n se- colo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E
cosi, entro quest'àmbito della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che
vengono assu- mendo, non pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem
e dì primordiali magie amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i
gemelli e cosi via) e le figure delle stelle di provenienza persiana, in un
insieme di animali fantastici (la cosiddetta "sfera
barbarica"),-donde, poi, l'aspetto mimetico della magia, l'imitazione
della figura e della ragione del proprio astro. Tutti questi aspetti, in
principio senza dubbio separati, di prove- nienze diverse, operanti in ambienti
sacerdotali, sulla fine del I se- colo a. C. vengono diffondendosi - non sembra
un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei confronti dei Caldei che riducono il
divino al complesso delle stelle, s( come non è un .caso l'ironia degli
scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle pretese dell'oroscopia, -
vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave stoica, si risolvono in una
vera e propria teologia razionale, scientifica, nel tentativo di una
spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene come l'astrologia
sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse accettata in Roma
nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio. Testimonianza precisa di
questo incontro di tradizioni diverse astro- logiche, interpretate e sistemate
entro i termini dello stoicismo, sembra essere il poema in cinque libri
(Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato tramandato della vita di
M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il suo poema A.stronomicon,
in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oonget- tusa da alcuni accenni che si
ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un chiaro accenno ad
Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel libro II, 509,
affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto uaoque. t
ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento recente.
Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto ad Augusto
(Au- gusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro, infine, sembra si accenni all'incendio
del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V libro appare
chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto, appunto, nel 22. A
proposito degli interessi per un certo tipo di questioni astronomiche occorre
qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a. C. da Nerone
Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d. C. da Tiberio
contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel 19 d. C. Uomo
di ampia cultusa, autore di contra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in un
riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità
del tutto, dell'architettura del- l'Universo e della sua razionalità (del cui
scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto,
e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero
costituirsi degli infi- niti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e
libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a
caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il
poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine
preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in
s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a
leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e
che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla
cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente
(Manilio, I, 476-479, 492 sgg.). Difficile è dire, relativamente alla
costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente
geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia
servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore,
del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia
la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter-
pretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio
è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orien- tale. In un
codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI,
p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dot- trina di Asclepiade
Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr. B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22)
sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali
costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in
Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se- condo Firmico Materno (Proemio, III
libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e
Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363)
ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla
Fortuna e l'oro- scopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i
dodekate- moria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la
sistema- medie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore,
Germanico libera- mente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del
rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in
campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento
astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei
Fenomeni, a loro completamento.
237 zione del tutto entro i termini di un ordine razionale,
di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le
costellazioni - è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In
tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della
struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d.
C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del
mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra
nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle
costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti
dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, oriz- zonte, eclittica, via
lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro
posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo,
Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro
dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e
discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi
dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi.
- III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro
combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno,
Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle
quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema
geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali;
sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei do- dici segni
(geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e micro- cosmo
(l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione
ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto do- mina una
piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul
modello dello Stato augusteo. "Non è opera del caso, questo, ma ordine che
proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa
ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della
terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana
emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del
tutto, attra- verso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi,
dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni
del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo di-
scende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo
se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui
stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio appare
consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far
rientrare tutto nell'ordine, siste- mando in unità e ragione, in un unico
impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e
l'oroscopia, ch'egli svuot~ del 238 suo mordente magico e
operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle
stelle e alla loro fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si risolva entro
i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia),
manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non
"nascosti," non "volontari," e sui quali per- ciò non v'è
alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di
modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rive- lata a chi sappia
contemplarla: Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi
aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa
essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo
costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama
alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati
essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso
di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo:
ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti
cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso
dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo
tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose;
cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo
da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma considera le
potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio
omnia vincit (IV, 920-32). Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14).
Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi,
diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stel- lari: la
stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici
e matematici. Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della
cosmologia di origine pitagorica (con particolare rife- rimento al fuoco), che
si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione
dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal sistema
aristotelico. In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia,
l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche, in una
sistema- zione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute determi-
nando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale esito è
la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità - che
sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che se
toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini, 239 senza alcuna preoccupazione
per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi
presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione),
giustificava,' per altro verso, il signi- ficato dell'impero di Augusto e di
Tiberio, di quell'impero che appa- riva realizzazione della ragion d'essere del
tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto
questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema
maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç
stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo
celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che
ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacri- fici da nessuno
mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi
questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una
terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per
cantare tema sf alto (1, 1-10). E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto
indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica
nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del
V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la
sistemazione del- l'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle
gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della
società terrena, Manilio esclama: Ma se fosse stata concessa al popolo che
costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto
l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale
necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica,
potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole
l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al
giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto
prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice
congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso,
rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione divina. E non
era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare, mentre era ancora
da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una
volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e
simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque,
ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della
classe al potere, certi riti e culti d'origine 240 egiziana, si
capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, in- terpretata in
chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione
nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva
giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente
sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile
s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le
preghiere non sono altro, per riprendere un'espres- sione di Seneca, che le
"consolazioni di un animo ammalato, ché irre- vocabilmente il fato consuma
il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il termine
diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest., II,
35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come l'imperatore
Tiberio, accantonano le prà- tiche religiose, persuasi che la Fatalità governa
tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus
mathematicae plenu- sque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66)
...Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la
gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza
chie- derle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tut-
tavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p.
218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema
meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul
destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti
d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni
magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano
dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in
forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d.
C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si
diffondono, di con- tro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei
culti e riti egi- ziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la
razionalità e la cau- salità, propagati proprio da certi imperatori (la cui
politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e
ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storica-
mènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può
essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla impo- sizione di
un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in
contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e
non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un
naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a
precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in
contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica,
come sarà per Seneca) ripropone la possi-
241 bilità di una scelta entro un complesso di condizioni
date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la
razionalizza- zione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui
linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo
scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un
serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo
presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico del- l'astrologia, in uno
sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle
con la terra, donde la possibilità della divina- zione e dell'oroscopia in
termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia
assume il carattere di un'ipotesi fisico- matematica in termini causali, ci
rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che
"l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed.
Kroll, Berlino, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia
potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande
sistematore dei risultati del- l'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia
(Tetrabiblos). A tal proposito, anzi, come indicazione del significato
scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro
influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli
geometrico-mate- matici, sembra interessante riferire le seguenti parole del
Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi,
ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli
uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati
in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte?...] non giun- sero a
dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva
provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e
provocare crudeli disillusioni. Avendo perduto un bambino di quattro anni, al
quale era stato predetto un brillante de- stino, i ~uoi genitori
"stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama
ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di
negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi
facitori di oroscopi spiegano candi- damente e dottamente come si sono
ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in
Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si lamenta
dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga
preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano
invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll).
Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza
(~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont,
cit., pp. 203-4). 242 3. Lo «stoicismo" nella prima metà del
l secolo d. C. Seneca. La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo
punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo,
di pitagorismo, ché ognuna di queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non
piu che ad evocare certi principt isti- tuzionalizzati, certe scelte e opzioni
in favore di problematiche e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad
avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche
se certi testi sono real- mente ricalcati da testi platonici o stoici)
posizioni che, se davvero vo- gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare
di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a
questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di
Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso
questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono
tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal prin- cipio del
1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute
meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro
(morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e
Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di Aurelio
Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio,
Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario
costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati,
fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri
dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di
Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio;
Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola
Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene
e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca
importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se
da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3
a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da
Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio
Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di
Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove
soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo
Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la
carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del
fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui
Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis
fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per
figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non
poco per la cagionevole salute, minacciata anche 243 esistono le vecchie scuole,
dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine
- confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in
senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò
dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio
Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute
del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una
"vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse
accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera
oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per
aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e
sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore
Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione
di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un
uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva,
Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso
confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò
allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di
Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai
volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel
41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva
sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da
farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in
·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia.
Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni
durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di
Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a
Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di
consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente
matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di
Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto
dalla madre Agrip- pina, per la successione al trono, a Britannico, figlio
legittimo di Claudio c di Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a
quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono
imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro,
prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un
piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe-
ratore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il
55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di
Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di
piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto.
Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma,
tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58
Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava
di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate
erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c
sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari.
Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di
Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da
Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito,
che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze
all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone
rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò
a vita·allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto
in campagna, dedito solo agli srudi e a scri- vere. Dopo la morte di Burro e
l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il
governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile
Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui
l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non
abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione
di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a
Scneca come 244 I rami della grande famiglia filosofica si
appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova,
non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la·tradizione e la
dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura,
molti dei suoi aderenti furono condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e
Plauzio Laterano. Anche Sencca accusato di segreti accordi con Pisone - fu
condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo
appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di
Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de
remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece
una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San
Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e
De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua
Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o
parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi
composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche
quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De
immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus;
probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata
persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu
terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel
Medioevo andarono sotto il nome di Seneca florilegi e raceoolte di sentenze (De
copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita
Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di
Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico
da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le
Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide
le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano
faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carat- tere
dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece,
ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De
constantia sapientis, De ira libri tres, A d Marciam de consolatione, D e uitll
bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m
de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San
Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca
e San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln
ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono:
Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola,
sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia,
figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per
avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si
suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati
delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò
profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del
secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia
colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (com- posto certo sotto
Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo,
dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di
Cali- gola, verso il 41; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di
cui la piu funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43,
per consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica);
Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in
Corsica, per conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe
potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello);
Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae
(sembra del 49, al ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto
dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di
Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli
uonini si 245 ma impopolare,
scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella .dei Sesti,
che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo,
è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur
minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat. quaest., VII, 32). Chi ci ha
preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a
tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri
(Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità
della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una
prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni
le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi");
De elementi~~ (indi- rizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato
scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe
stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte
si discute il valore della clemenza, particolar- mente opportuna per un
sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi- nisce la clemenza,
distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, per- dono); De
constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa
esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra
che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita
(sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non
conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle
accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi
si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del
saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e
dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di riti- rarsi dalla
vita politica attiva, qualora i casi lo .rendano necessario); De wanquillitate
animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina
dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita
contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo
periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore,
probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la questione che
il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta
dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere meglio
alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Prov- videnza, tanti
guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla tesi
che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De bene/ieiis
(dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo della vita di
Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI e il VII, che
è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so l'esame di
chi davvero sia bene- ficante e chi beneficiato, il rapporto servo-padrone);
Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che doveva contenere;
sono dedicate a Lucilio e furQno com- poste tra il 62 e il 64, il libro VI
certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei avvenuto in
quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non poche volte
Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali); Epi- stulae
morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri, scritte
all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta opera
di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di
Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae ( o Thebais), Medea, Phaedra
(o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her- cules Oetaeus. Citiamo
infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis,
l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla
deificazione, apo- theosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa
sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in
effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa).
246 delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira,
l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di
giudicare (De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla
contro il detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco possiamo farci dei comandi
di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4).- Possiamo
discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vin- cere
l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV,
2). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45,
4). - Non parlo con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni
(Ep., 13, 4; 59, 1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria
famiglia; scegli quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà
l'opzione di Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per
commosse rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la
delineazione di certe figure di pensatori, le cui con- cezioni siano state
coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un
significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni
precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e
operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico.
Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla
"filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé,
ma come cultura, come riflessione cri- cica, formatrice, attraverso la stessa
attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come "filosofia
teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa
filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria.
"La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti: forma e plasma
l'anima, dispone la vita, regola le azio9i; ... senza di lei nessuno pu~ vivere
intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur
concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non
posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né
saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili ... La sapienza sta piu in alto,
non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il
pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ra- gionevole
(non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente
passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione
scolastica anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili, impariamo per la scuola
anzi che per la vita (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione
non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e
linguistiche, ma da una continua
riflessione su esperienze di vita : dalla presenza, nella vita, del dolore,
della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente,
in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vi- gliaccheria,
dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un
insieme di linee spezzate, contraddittorie. Di qui l'impossibilità di
presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o
meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui -
ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo,
onde andrebbero lette cronologicamente - una specie di sentenziario morale,
unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca
in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei
teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi:
un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi.
Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici:
"Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può
rompere a qual- siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave
tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa
è l'uomo? Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del
soc- corso altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo
la prima volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo
avvicinando alla mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è
piu insidioso: nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data
quando non è ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22,
3). E che? Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue
prime opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il
diritto di professarmi tale direi che non sono infelice... (5, 2). Io non sono
un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non
lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia
il migliore dei malvagi: a me basta togliere qual- cosa ogni giorno dai miei
vizi e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale
e neppure vi giungerò...: io vivo spro- fondato in difetti di ogni genere (De
vita beata, 17, 3-4). La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni
singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e
condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita
del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a
quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio
cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctm- solatio ad
Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di
Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor- 248 sica,
consolandolo per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium, del 43
o 44); alla riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro
Caligola, certo dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la
disumanità dell'ira, vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~
che spezza i rapporti umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli
uomini rispettiamo l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla
brevità della vita {De brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma
dall'esilio) e su quella che può essere una vita compiuta (De vita beata,
posteriore all'esilio, quando ancora Seneca esercitava la sua funzione di
consigliere di Nerone, del 58 circa); al tentativo di delineare per Nerone lo
schema di una ideale condotta di vita politica in nome della società umana (De
clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio
fallimento poli- tico che lo ha costretto a ritirarsi dalla vita politica
attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi, De
beneficiis, De provvi- dentia, opere scritte tutte tra il 59 e il 61);
all'ultima meditazione sulla natura e sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII
o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un continuo approfondimento e
colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di sé, liberazione e
perciò stesso discorso con altre anime, educazione e liberazione degli altri:
insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo ogni volta agli inferi
della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto morale (di qui la
stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio ad Marciam,
Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De provi- dentia, De constantia
sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De brevitate
vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il suo
significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle bellissime
Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65, l'anno della morte di Seneca).
Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera sua è l'opera di un ~orno
tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca tormentata, in mezzo a gente (la
corte di Caligola e di Claudio prima, di Nerone poi) estre- mamente complicata,
di là dal bene e dal male, almeno secondo i vecchi parametri. Sotto questo
aspetto Seneca rappresenta davvero la coscienza di una certa situazione
storica, la crisi di un certo complesso di valori, dando voce, appunto, e senso
a tutta un'epoca, anche se, di volta in volta, egli ha preso le mosse da
particolari situazioni, da singolari com- promessi e dubbi. Parlando in termini
di retorica, diremmo che le "tesi" di Seneca sono la conclusione
delle "ipotesi" ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione.
Non va intanto scordato che Lucio Anneo Seneca era 249 figlio di un celebre uomo di
lettere, oratore, storico dell'oratoria, Anneo Seneca di Cordova. Oratore era
anche un suo fratello, Marco Anneo Novato,(adottato dal senatore Giunio
Gallione, ne assunse il nome), che fu console e proconsole dell'Acaia (a lui
Seneca dedicò il De ira, il De vita beata, il De remediis fortuitorum, perso,
citato da Tertulliano, Apol., 50). La madre di Seneca, Elvia, fu donna di
cultura, particolar- mente interessata alla filosofia. Ella avviò il figlio a
tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma dalla Spagna - dov'era nato nel
34 a. C., a Cordova - insieme a una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione -
prefetto per sedici anni dell'Egitto, dove per un certo periodo fu anche
Seneca, - se da un lato s'interessò vivamente per gl'insegnamenti prima di
Sozione di Alessandrja e di Sestio il giovane e poi di Attalo, di Papirio
Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro lato, spintovi soprat- tutto dal padre
- che temeva per·la salute cagionevole del figlio, il quale preso
dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva un'ec- cessiva morigerata
"vita pitagorica," e per i pericoli che in quel tempo correvano i
pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò alla car- riera oratoria
ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32, anche per aiuto della zia
("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue affettuose e materne
cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la mia elezione a questore
ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava neanche l'ardire di· parlare
e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua timidezza; né la sua vita
ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a tanta sfrontatezza
femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria, l'arrestarono: e per me essa
divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2), Seneca entrò in Senato, ove fu
ammirato per le sue capacità oratorie. "Narra Dione Cassio che nell'anno
39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo tempo ed altri molti superava
per sapienza,' corse pericolo di morte non per alcuna sua colpa, ma perché in
Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una
bella orazione. Ma il principe, pur avendone decisa la morte, lo risparmiò
cedendo ai consigli di una favorita la quale assicurava che Seneca, preso da
consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto
di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione del giovane
senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e acri- moniosa
testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla vita di
Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto criterio,
senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu ostili e con
la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è inquinata
dalla palese avversione che egli nutre per Seneca e dalla meditata ed infida
malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di Plinio,
nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera di Fabio Rustico, che Tacito
ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche
notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a
morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di
Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condan- nare a
morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un
successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo
liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la
perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di
Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e
bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10, 4; Ad Polyb.,
17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const. sap., XVIII; De
benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi, Seneca,
Messina, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante
l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo
corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella
certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione.
Sotto questo aspetto sembra chiaro in che .senso si possa dire, che, in realtà,
Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi,
fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi minuta e
concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di
una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva,
fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra
parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del
suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto di passioni,
spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a Cicerone, soprattutto
nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini
in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ri-
tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure,
dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della filosofia
salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo, senza
affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6;
Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno
sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a
volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro);
Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica
dena filosofia, ché altra è venuta ad
essere la situazione .politica, l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro
l'impegno. Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua con-
fessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di
Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e
Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone,
apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di
formare sé e gli altri come uomini: uomini che po- tessero, in un reciproco
rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste
come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione
di Seneca: da un lato una descri- zione dell'uomo - triste, infelice,
combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli
altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe
essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni,
"con-vinzione" di passioni, in una mi- sura che dovrebbe essere la
stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in
un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da
realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto.
Già in tal senso si ve- dano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad
Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al fratello Novato. Scrive
Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A ciascuno viene dato ciò
che gli era stato promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né
tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito ... Da quando
vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte. I
destini compiono la loro opera"; e nel De ira (III, 43, l, 5):
"Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla
per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in
sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle
passioni, è in realtà non uonto] ...Fin tanto che respiriamo, finché viviamo
tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento
senechiano. Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente
scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà
sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di cia-
scuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibi- lità
da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è
fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo
disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono es- sere,
nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se
già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio- 252 nevole,
da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, rea- lizzarsi
secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la
società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano
questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento
dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del presunto ordine
sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo
assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa
ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico resta avulso da
ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni
possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto
morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non
in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva,
ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale,
nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le
pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya
"nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è
filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le
spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la razionalità
della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una
"invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e
dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la
composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità
della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di
cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora
vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio,
- entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata
tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti
di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale
conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della morale senechiana. Non
solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscilla- zioni di Seneca,
sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente
all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a
giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo
di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare
non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico, in questa o quella
situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l D e ira, i l D e vita
beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia sapientis, il De otio, il
De tranquillitate animi; a Paolino, cui
è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De
beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le
Natura/es quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro
e consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia,
l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri.
Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone:
"Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la
condi- zione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a
ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata
la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia
volontà, se non per mio favore ... Caduta e nascita delle città si decidono nel
mio tribunale." Sapendo usare certe tecniche, co- noscendo la psicologia
di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società
entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica
dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche
approssimativamente, certi fini. Di qui, nel tentativo di educare all'ideale
"saggio" stoico, il trasfor- marsi del rigidismo della morale stoica,
posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla
stessa capacità (propria del- l'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per
cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza
dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura,
volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro
possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito:
"Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la
voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario
o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie
o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere
malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le
necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché
le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino
che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che da- ranno solo
ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato?
Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Per- ché in casa
tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come
viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco
specializzato?..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò
piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono
un .saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i
migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni
giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori..." "Però,"
254 tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi."
Questo rimprovero, o mali- gni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a
Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi
stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me,
e quando mi scaglio contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come
dovrei. Continuerò a lodare non la vita che conduco, ma quella che so che
bisognerebbe condurre; continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure
arrancando a una bella distanza... (De vita beata, XVII-XVIII). Di qui anche
un'altra apparente oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del
"saggio" stoico di ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato l'esigenza,
anche a costo di venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu stoica, di
operare nel mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il
compromesso, la societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che
tutto è come deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare,
il "saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non piu uomo tra
uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti,
nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è
folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio"
tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui
Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è
ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento
che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni,
in realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come
deve essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e,
perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io
stesso, siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo)
una per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas-
~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva- mente
generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci; :erto, su
di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che
quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo
amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né
mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale.
Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e
il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non
solo, ma un altro peri- colo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a
vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare
l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè
secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento
della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo
una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo
per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per
Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una
certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che
l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un
ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa
riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta
in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre
condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di
realizza- zione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso.
Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è
possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana,
scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli
altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio
della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni,
ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la
virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la
piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a
se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De
clementia, I, 1). L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi
dalle sin- gole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé
razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini,
ché vi- vere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi,
vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo,
entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può
anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto
ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che
le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in
persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza
di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è
solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche
tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché
ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro
in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né
padroni); significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il
consiglio e la parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato
terreno ad uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale
azione può diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla
vita politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello
di un'auten- tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama
Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita
politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro
che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre
insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non
ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di
farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa
intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose?
Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep.
a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se
tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno allontanato
dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio felici, chi
come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non vive per sé,
ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non vivere per
nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando Seneca
sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De
tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la
fortuna pre- vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le
spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un
luogo in cui la fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari
con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere
utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve
vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai
cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in
casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele
amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino:
adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci
siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto
dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla
virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribu- nale e ti
si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi
spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la
porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti
con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani
tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu
fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni
della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn la tua voce, e se
qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai
inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo,
con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve...
Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La
cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari,
ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle
condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non
vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di
Atene quando i Trenta Tiranni la stra- ziavano?... Eppure là, tra il popolo,
c'era Socrate, e consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che
disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni,
il lontano castigo della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande
esempio a· quanti lo volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta
despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non
seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera
di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso,
l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice
poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque
della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci
espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non
ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che,
quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli
risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la
celerà: seppellirsi non è salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando
affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è
togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un
momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu
tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti
dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te
ne staccherai spon- taneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi,
quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e
con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi,
perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo
(De tran- quillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando
davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato,
l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla
falsa politica in atto, a quell'Epi- curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6)
che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una
comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve
regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev.,
XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro
nelle 258 opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro
(De oiio; De bre- vitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio,
Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes- _sando l'enornit: impressione
che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui
fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare .:ontro i vizi, contro gli
errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere
e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si
proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a
dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la po-
vertà, e·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un
peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando
cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza
.della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili
piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del
ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli inse-
gnamenti ero andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita
cittadina, poco rimase di tanti bei propositi... Poiché ho cominciato a dirti
con quanto maggiore entusiasmo comin- ciai da giovane lo studio della filosofia
che non lo continuai da vecchio, non mi'vergognerò di confes5àrti quale amore
mi abbia ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si
astenesse dalle carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi
di tale astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per
!;altro degni di ammira- zione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo
abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle
bestie volta alla sod- disfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di
crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le
cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo
lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine
con ampiezza di argo- menti, "non credi," soggiungeva, "che le
a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte
altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o
selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un
uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di
un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per
determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e
che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini
grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema.
Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente,
se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò
tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi,
incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo
difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente
piu svelta, seb- 259 bene
oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi
quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando
i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di
alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle superstizioni
(Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22). Di Fabiano Papirio, oratore e giurista,
vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo che dalla
retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave stoica (Ep. a
Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a Luc., 40,
12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu alta di
ogni erudizione (De brevi- tale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione dell'anima,
cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altrouna sobria
eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in insegnamento
di tipo profes- sorale, ma determinarsi in una persuasione psicologica e
morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l) "f;losofo
cattedratico, ma vero filosofo all'antica." Attraverso la figurazione che
ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di
Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati pitagorici o stoici.
In realtà, ora, il termine stoico sta ad indicare piu un atteggiamento di vita
che non una dot- trina; atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione
generale che assume pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che
potevano essere desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state
effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un principio attivo e pas- sivo
(Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il co-
stituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd
divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso,
comunque, potevano essere interpretate anche certe pagine di Platone e di
Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non solo, ma entro questi
termini, poco importava essere platonici, o aristotelici, o stoici in senso
stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine stoicismo, pitagorismo,
platonismo evoca in funzione di un tipo di vita da contrapporre al comune modo
di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale atteggiamento fu l'amico di
Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti l'influenza. Demetrio,
vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu detto • Cinico." ~
stato soste- nuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato stoico, per la sua fede
in un or- dine provvìdenziale, a cui, abbandonando le cose di questo mondo
(indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta sopportazione del
dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può ricostruire del pensiero
di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su di lui, 260
cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11; Epi.rt. a Luc., 20, 9;
67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto (Dissert., I, 25, 22),
possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel senso in cui, portando alle
conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio, "cinico" era stato
Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini, Demetrio, proprio attraverso
lo studio della logica stoica, si rese conto dell'impossibilità del passaggio
dal discorso umano ad un presunto discors~della realtà, per cui la realtà,
presa in sé, resta sempre al di fuori di. noi, e per cui unica realtà è quella
umana, o meglio quell'ordine che scaturisce dall'egemonia delle passioni e per
mezzo di cui l'uomo si libera dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva,
ma.solo su di un piano indicativo, postulare, simile all'ordine che la ragione
stessa costituisce, un ordine supremo é provvidenziale, presen- tando se
stesso, di volta in volta, come esempio di saggio, di uomo libero, appunto,
dalle passioni, dalle adulazioni di quella ch'era la quo- tidiana vita della
Roma._di Caligola, di Claudio e di Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio
in questi nostri· tempi per dimo- strare ch'egli non può essere corrotto da
noi, mentre noi non possiamo essere educati da lui, uomo perfetto nella sua
saggezza, anche s'egli per primo lo nega, assolutamente coerente nel suo modo
d'agire, di un'elo- quenza adeguata ai piu forti pensieri, senza ornamenti,
senza faticosa ricerca d'espressione, ma che con superba fieqezza, nella foga
della ispirazione, persegue l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la
Provvidenza ha dato simile costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra
generazione non mancassero: il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio
offrisse a Demetrio i nostri beni in assoluta proprietà, ma a condizioni che
non ne potesse far dono, egli, certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non
mi lego ad un simile peso, di ;c.."ui non potrei sbarazzarmi, né l;lscio
che il mio essere, da tutto s~a'nciato, affondi nel profondo pantano delle
ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti? Che neppure accetterei per farne
dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe ingiusto dare... Lasciami libero,
lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,' le mie •vere ricchezze: il regno
ch'io conQsco è il regno della sapienza, grande, sicuro; io, cosf tutto
posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono avere..." (De benefieiis,
VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000 sesterzi,
li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di sublime
grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola]
abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la
sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato
affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De
benefieiis, VII, 11). Demetrio, i l migliore degli uomini, si accompagna sempre
a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di
ammirazione per quel seminudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla
gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci
riesce. 261 La via piu breve
per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla. Quanto al nostro
Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come chi ne lascia ad
altri il possesso (Epist. a L., 63, 3). Non a caso, sotto questo aspetto,
furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini come Trasea
Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della libertas della
Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone, l'altro, Elvidio
Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro Trasea Peto fu
ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un tempo i Tuberone
e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi vogliono la libertà
per sovver- tire gli ordinamenti dell'impero. Invano avrai tolto di mezzo
Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli dei Bruti ...
Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per
la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella Curia ... Egli non
attende ormai che agli affari dei suoi clienti ... Un tale atteg- giamento è
già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et pars est (Tacito,
Annali, XVI, 22). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea, alla
presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si
abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre
il pericolo di compro- mettere la propria sorte con quella d'un condannato...
Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare
il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o
giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio.
Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo
spirito con esempi di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la
lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio...
(Annali, XVI, 34-35). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto,
si vede bene l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo":
esempio di vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l
d'essere, ad un postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero,
oppo- sizione politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i
termini estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di
Seneca. Se egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio,
e per altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe
dovuto essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non
teoretica) dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni
concezione vale per quello che essa ha di successo, in certe ben precise
situazioni, cercò, finché gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale,
operando su amici, e, soprattutto, ripetiamo, su Nerone. 262
Formatosi entro i termini di un generico "stoicismo" di sfondo,
Seneca si servi di tale concezione per formulare quello che avrebbe do- vuto
essere l'"uomo ideale" e, per altra via, lo Stato e la società
ideali, indipendentemente dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari
aspetti assunti dalla posizione stoica. Se altra fosse stata la prima edu-
cazione di Seneca, egli avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della
sua polemica morale, anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si
preoccupa affatto di quella che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi
conto anzi - vicinissimo in questo a Demetrio - di come tale questione,
dibattuta nelle scuole, sia divenuta una questione logico- grammaticale, e come
proprio le analisi logiche, in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli
scettici, abbiano portato a dimostrare l'im- possibilità di ogni passaggio
dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla scolastica distinzione della
filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia via la fisica come scienza a
sé - su questo piano egli si riduce a una pura descrizione dei fenomeni fisici
e delle opinioni : cfr. N aturales quaestiones - assumendo quella
"fisica" che poteva apparire meno contraddittoria quale fondamento di
una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse conto che lo stesso ben
pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo vita logica. Seneca
rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in una mèra realtà di
parole, si pre- cludeva ad ogni significato e senso delle cose, sofisticamente.
Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo
e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano finire nel silenzio e
nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli accettava la
sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della realtà, se non
quando questi potevano servire alla formazione di una vita misu- rata. e
razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). Sia pur detto fra
parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguag- gio giuridico,
chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costi- tuisce la realtà,
e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono determinati dai
decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a lungo discusso,
molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò ISv, tradotto
in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono assumere i termini
genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di genere, specie,
quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a
Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa
possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come
un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e,
come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando in 263 quando concedere riposo al
nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche .divertimento. Ma pur questi
divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno
offrirti qualche utilid... çhe còsa meno con- tribuisce alla trasformazione dei
costumi, .::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le
idee platoniche? .Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni?
Eppure basta anche questo,. che Pla- tone nega la realt~ di tutto ciò che ·è
soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare
con fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non
hanno né stabilita né solidiù... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..;
(Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere
discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca
afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi
nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a
tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa,
invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne
trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è
fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la materia; ... le
cose tutte sono il risultato dell'elemento.paziente e della forza ·agente; per
gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep. .. U4C., 65, 2-4); discutendo
Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristo- tele: la materiale,
l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Pla- tone, poi, dtce
che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il
modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che
aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia
avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e
tenuto cos{ presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio li ha in se
.stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli
è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~
immutabili, instan- cabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause:
quella di che, quella da che, quella in che, quella su che, queU::"pr.r·
che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill).
Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle
cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed
oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e
singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che opera"
(id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è
piu comodo in simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a
nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in
siffatli problemi, che no~ 264 ti liberano da nessuna passione,
che non scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la
preferenza a quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me
stesso e soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come
credi, il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono
spezzettate, se non si disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e
sollevano l'animo... E la filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione
della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione
non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della
materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e
come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima...
Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un
paS- saggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver
comin- ciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò
stare cos( a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.). Le Lettere a Ludlio sono tarde,
di quando già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita politica e
sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd
secolo,• ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del
tutto, l'ipotesi che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel
suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione
stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò
che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur.
quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion
d'es- sere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e
molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può
parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo
neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni
naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in
quanto utile a vivere da uomini, speranza e non con- clusione scientifica, ché
su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero
anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci
lasciarono opinioni, non soluzioni defi- nitive, ma problemi da risolvere...
Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze
sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo
parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo
da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della
nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi
vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno
soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi
devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc.,
108, 24), non cavilli di parole,
265 capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto
del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere
felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio
vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo
vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una
legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza
scrupolosa, giova mol- tissi~o anche a mantenere quella piu stretta società,
che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che sente di avere molte cose
in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con
l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti
cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo
qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e
quanti signi- ficati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle
parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò costruiti
arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna
scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire
da. quello .che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a
scherzare in ma- teria cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode
il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca
a scio- gliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza?
Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola
o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia
piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba
non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a
Luc., 48, 2~. Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato
detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche
vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei
suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi
morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di
seguito. In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al
limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema
arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di
una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà
dell'esperienza si esauriva in una conclusione. E quando la via è chiusa, il
ritorno alle origini, ai principt, e la ricerca di altre dire- zioni, si
impongono... Il rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al
mondo dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni
teologiche - di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della
carità, dell'amore come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un
momento culturale ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e
veneta del secolo X V , "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il,
Firenze, p. 65). Tale, mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca,
assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo,
nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla problematica di Filone
l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di
certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se diverse furono le
conclusioni di Seneca. <:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso
nei suoi fantasmi, che sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da
questo o da quel fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle
infinite immagini che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel
terrore d'essere sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore,
disperato, determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei
propr~ fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo,
per chi appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto
("chiunque esso sia, o dio possente tra tutti o ragione incor- porea,
artefice di tante meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale intensità per
tutte le cose, le piu grandi come le piu piccole, o infine fato e immutabile
concatenazione di cause tra loro connesse": Conso- latio ad Helviam, VIII,
3), l'uomo desta un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale
degli uomini, molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse,
disarticolate sono le umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento
comune· per cui, attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso
senechiano, che non è sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come
capacità di con-vincere la passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se
stesso uomo ("difendi il posto che ti ha assegnato la natura; quale
chiederai: quello di uomo": De constantia sapientis, XIX, 4), in un
rapporto articolato con gli altri uomini, costituendo una societas, che rivela
e postula ad un tempo l'or- dine razionale del tutto, in una comune
razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è se stesso, quanto piu
misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è proprio - uguali, per
cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto dell'altro, non tanto
per ciò che egli è, ma per quello che può essere. Cosa sacra è l'uomo all'uomo.
Come comportarci con gli uomini? Quali precetti daremo? Di non spargere il
sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi dovresti giovare! porgere la mano
al naufrago, mostrare la via allo sperduto, dividere il pane con l'affamato?
Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato..., eccoti una formula del compito
dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il divino e l'umano, è tutt'uno;
noi siamo tutti mem- bra di un grande corpo. La natura ci generò parenti,
dandoci una stessa origine e uno stesso fine. Essa ci ingenerò un mutuo amore e
ci fece socie- voli... E quel verso: "Son uomo, nulla di umano ritengo
estraneo a me" 26i
(Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore e sul labbro.
Abbia- molo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale quale una
volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda e cosf si
sosten- gano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}. La riflessione su se stesso, sul
proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una molteplicità
di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà, dall'altro lato,
attravero questa, porta a com- prendere che l'uomo, mediante se stesso, in
quanto capacità di realiz- zarsi secondo ragione - cioè in una misura che è
conquista e libera- zione, - si libera da sé essendo davvero sé. Tra i molti magnifici
detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra tuttora nell'orecchio:
niente -dice -m i pare piu infelice, che colui cui nessuna avversità mai sia
capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso (De provitlmlia, III, 3).
Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai quel che avresti potuto.
Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De prov., IV, 3-7). Per non
adirarti con i singoli individui, a tutti devi perdonare, all'intero genere
umano concedere indulgenza... n saggio sa che nessuno nasce saggio, ma tale
diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo verso gli errori, non è nemico,
ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di senno odiare chi erra,
altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la norma morale che
q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà, l'umanità, la liberalità,
la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della legge?... Piu misurati ci
farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non ho forse io stesso fatto
alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io condannare codeste colpe? (De
ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato si giunge all'innocenza (De
clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa esperienza, chi ha coscienza
che l'uomo può realizzare sé non piu in forma dispersa, ma coerentemente, sa
che il suo ufficio, il suo dovere è di consolare, attraverso la medita- zione
sul dolore, sulle passioni, sulle sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo
disperato (cfr. le Consolaziont) e di avviare sé e gli altri, pro- spettando
quale dovrebbe essere il saggio, a tale saggezza, agendo, entro i limiti delle
proprie possibilità, perché si realizzi quella societtu che libera e fa
dell'uomo un uomo rispettoso ~ell'altro, della comune ragione, specchio della
postulata universale ragione di essere, mediante cui si costituisce la
res-puhlica cosmica, il cosmico Impero. Di qui la distinzione senechiana tra
sapienza e filosofia: la sapienza è un ideale, la filosofia uno strumento,
riflessione sulle proprie espe- rienze di vita e, ad un tempo, per ciò,
liberazione dalle proprie unila- teralità, convinzione e persuasione, retorica
verace e consolazione, imVC- 268 gno sociale, da distinguere
nettamente dalle arti dette liberali, utili, ma nella loro unilateralita, non
tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a L., 88). Sembra chiaro, ora, in che
senso da un lato Seneca descriva l'uomo qual è di fatto, in questo mondo, in
questa situazione politica, e, dal- l'altro lato, accanto alle indicazioni
mediante cui l'uomo può liberarsi da questo suo attuale non essere uomo,
prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di volta in volta disegni il ritratto
del saggio, del sapiente, dd- l'uomo consapevole di sé, misura, coerenza di sé
con sé (constantia tra- duce Seneca l'homologhla zenoniana), e prospetti
l'ideale rod~, l'ideale impero universale, che, a sua volta, si scopre adeguato
alla postulata ragion d'essere del tutto, per cui, infine, accanto all'uomo
quale dovrebbe essere, si pone la divinita qual è, in quanto termine di realizzazione,
dovere e impegno. In ogni suo scritto Seneca, o per accenni o rievocando
l'esempio di celebri figure o di proposito, disegna e prospetta il ritratto di
quello che deve essere l'uomo, il "saggio" - anche nelle Tragedie, in
cui il personaggio di Ercole assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Che-
vallier, Le milieu .rtoiden à Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin
de l'Association Budé," Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547).
Basti qui ricordare alcuni passi del De con.rtantia sapientir ed una pagina
della Lettera 66 che sembra riepilogare i peculiari tratti del sapiente. Gli
Stoici, che hanno scelto la via piu degna per un uomo, non si curano che essa
sembri piacevole a coloro che la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li
conduca sull'alta vetta, che si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e
domina persino la fortuna... Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle
ingiurie, rendersi capaci di ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e
staccarsi dalle cose esteriori, per non passare la vita nell'inquietudine come
fa l'uomo che teme il riso e la lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX,
3). Tale il saggio: un animo, che vede il vero, esperto nd conoscere quello che
si deve fuggire e quello che si deve cercare, che delle cose fa stima non
secondo l'opinione generale, ma secondo il loro valore intrinseco, che osserva
tutto l'Universo e ne fa oggetto delle sue meditazioni, sentinella vigile dei
propri pensieri e dei propri atti, grande e impetuoso nella giu- stizia, sordo
ugualmente alle minacce e alle adulazioni, inconcusso nella buona come
nell'avversa fortuna, superiore a tutte le contingenze e a tutti gli accidenti,
~issimo e ben regolato nella sua compostezza e nella sua forza, sano e
semplice, imperturbato e intrepido, che non si piega per vio- lenza, che non si
inorgoglisce e non si abbassa per vicende di fortuna: un tale animo è la virtU
in persona; questo sarebbe il suo volto, se si presen- tasse sotto un'unica
forma e in un insieme tutta intera si mostrasse. Del 269 resto essa offre molti
aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita e le diverse
attività. Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è concesso andare
indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli atti che sta per
compiere (Ep. a L., 66, 6). E non dire, come dici di solito, che questo nostro
sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo una gloria vana
per l'ingegno_ umano e neanche vagheg- giamo il fantasma ideale di un essere
inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo produrremo, di
rado forse e uno solo a lunghi "inter- valli di tempo: del resto io mi
domando se Marco Catone [uticense]... non superi addirittura il nostro
modello... (De constantia sap., VII, 1). Ora, come Seneca delinea due uomini,
l'uomo qual è e l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso, si
costituisce il conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta
chiaramente, parla di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini
quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva
dello Stato universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il
saggio deve lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un
saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae:
l'una grande e veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella
quale non siamo con- finati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il
sole i confini della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha
iscritto la condizione della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di
Cartagine o di qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo
determinati uomini. Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati, il
grande e il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il
grande. Questo Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e
forse anche meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie;
se siano la natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di
terre, di mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la
divinità ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da
cui nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti
di vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o
muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il
mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un
certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla
divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire
che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati
per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza
l'azione non esiste contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio
universale e meno legata all'esistenza di una certa classe che non quella di
Cicerone, di coptro alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla
paura, il richiamo di Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto
naturale, fondamenti di una res publica umana, e, nei confronti
dell 'imperatore, alla concezione stoico-platonica del monarca filantropo,
per cui l'essere imperatore è un dovere. Ma di qui anche il delinearsi del
motivo del tirannicidio; con il conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio
politico, donde la sempre maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense,
e su di un piano di diritto naturale, se non di diritto positivo, la
proclamazione dell'abolizione della schiavitu. Poche righe prima del testo del
De otio sulle due Repubbliche - ricordiamo che il De otio, insieme al De
constantia sapientis e al ·De tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno,
che dalle Lettère a Luci/io, composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto
da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano
del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua
diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio
non si accosterà alla vita pubblica a meno che non intervenga una situazione
particolare." Zenone dice: "egli si accosterà allaita pubblica se non
interverrà qualcosa ad impedirglielo." - Qui seguirò il parere degli
stoici... perché la questione di per se stessa vuole che io segua la loro
opinione: seguire sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del
Senato [nel momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata
abbastanza indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone,
se interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla
posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo
corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il
sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre- cherà se stesso senza poter
servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà,
se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in
avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un
cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di
esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e
darsi subito allo studio... In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva
agli uomini: se è possibile a molti, altri- menti a pochi, altrimenti ancora a
se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse
comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro
che avrebbe potuto giovare essendo mi- gliore, cosi chiunque fa del bene a se
stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere
che potrà riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5). È questo un
testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui
Seneca assume certe posizioni stoiche, il
significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie
esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro-
spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto
con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a
seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il
ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché
in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come
conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la coerenza
sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta il
proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la problematica
dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre, viene· a
trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica diversa. Già
dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato, Seneca fu tenuto
in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo di cultura che
avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua libera orazione in
Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di Caligola, Seneca dovette
certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu tardi nel De constantia
sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i potenti, sveliamo i nostri
sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà il non tollerare nulla:
questo anzi è un errore" : XIX, 3), se riusc{ a mantenere un posto di non
poca importanza presso la corte, particolarmente legato di amicizia con Giulia
Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Egli allora godette,
senza dubbio, come lui stesso confessa nella Consolatio .alla madre Elvia (V,
4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu proprio la sua amicizia per la
dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messa- lina, che,
nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della bellezza di Giulia, e
dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio, riusc{ a fare
sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte, e, poco dopo,
da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca montatura:
forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è .-:he Seneca, a
causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in Corsica
(•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di primavera
l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il fuoco per
l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule": Epigramma,
II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio alla madre
Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la Consolatio a
Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di farsi richiamare.
Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia di Germanico, che
da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio, Domizio.
Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi sposare, nel
49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece revocare l'esilio
di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore del figlio
Domizio. :t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far spo- sare
il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e, quindi, a
fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con- trapponendo, per la
successione al trono, Domizio a Britannico, figlio legittimo di Claudio e di
Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a far parte della gente
Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora compiuti quattordici
anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca dall'esilio, in parte
per fare cosa grata al pub- blico che riteneva ingiustamente condannato da
Messalina un uomo di gran valore, in parte perché sperava, legandolo a sé, di
averlo consigliere delle sue trame politiche e perché educasse il figlio a
seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di Claudio, fatto, forse, avvelenare
in segreto da Agrippina e note la proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54,
a 17 anni) e la fine di Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~Seneca
fu lontano da tali intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle
colpe, dinanzi <?-i sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli
attinge con preferenza alle fonti storiche piu ostili a Seneca. Seneca, che
Agrippina revocò dall'esilio per averlo consigliere delle sue trame poli- tiche
e maestro di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un
uomo in tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale fosse in quelle
circostanze il contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi,
morto Claudio e proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già si credeva
sovrana assoluta dell'Impero, dovette su- bito accorgersi che il suo ambizioso
edificio era crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit.,
p. 30). Non pare si possa essere cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è
che furono quelli, gli anni in cui Seneca, godendo di un certo ascendente
sull'animo del giovanis- simo Nerone (d'altra parte invidioso dello strapotere
della madre), avendo cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo
misu- rato ed essenzialmente onesto, in mano la possibilità di dirigere in un
certo senso lo Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone
ad essere principe nel senso stoico di moderatore, di guida, di egemonico di
una res puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro preciso
significato le pagine violentissime di Seneca contro il tiranno
(particolarmente Caligola, già chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta,
morto Claudio, contro il principe inetto, burattino, strumento di macchinazioni
(Claudio, ap- punto, cosf sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de
morte Claudii, da Dione chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio,
cioè la consacrazione della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio,
decretata dal Senato, Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la
deificazione di una zucca). Se le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca,
contro Caligola e lo scritto contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a
dimostrare quello che un imperatore non deve essere, il De cle- mentia, scritto
per Nerone, l'anno dopo la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere
politico e ministro, rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello
che l'imperatore deve essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi,
cit., p. 59), "il programma postivo di un vero uomo di Stato." Ben
consapevole di precise situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni,
in cui "si fanno cose che ottengono approvazione e che poi vengono
punite" (De clementia, l, 4}, in cui "una persona non può andare a un
pranzo con animo lieto, sapendo che persino nel brindare ha bisogno di
controllare ogni parola" (De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con
estrema cautela, ma sempre in funzione di realizzare, entro i limiti del
possibile, uno Stato armonico, ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità
di costituire una res-publica hominum, mediante l'opera politica e
riformatrice, interna ed estera, di Nerone ("Un saggio non farà
l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che vogliono passare per
compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo che fa parte agli
altri di beni comuni a tutti" : De clementia, II, 4, 2). Ciò che piu ha
colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto formale, l'apparente
adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo autocrate che,
consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene, per costituire
una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di principe - in
senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità, opera secondo il
principio del monarca filan- tropo (cfr. sopra), con demenza, che Seneca
chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia
(perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener
presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni
appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di
Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo
clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di
Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del
suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei
confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica
estremamente abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con
la pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi
cinque anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi,
accortissimo in politica finanziaria, 274 nel tentativo di
sollevare le classi meno ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere
alla proposta dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu
bocciata dal Senato : una delle poche volte che il Senato seppe opporsi,
rivendicando, per timore di perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). Non
solo, ma Nerone si dimostrò rispettoso delle pre- rogative del Senato e delle
procedure giudiziarie, mentre cercò di risol- vere, in favore dei libecci, il
problema della schiavitu. "Intorno a quel tempo (56), si discusse in
Senato"- scrive Tacito- "circa l'arroganza dei libecci e si
insistette nel chiedere che fosse data ai patroni la facoltà di revocare la
libertà a coloro che si erano resi colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i
fautori di questo provvedimento, ma i consoli non osarono prenderne
l'iniziativa all'insaputa del principe, al quale, tut- tavia, notificarono il
consensodel Senato a tale disposizione. Nerone era incerto se dovesse farsi
promotore di questa proposta, poiché discordi erano i pareri dei pochi intorno
a lui; alcuni si indignavano perché l'irriverenza accresciuta con la libertà si
era scatenata a tal punto che ormai i liberti godevano gli stessi diritti dei
patroni, ne discutevano da pari a pari le opinioni... [Ci fu chi fece la
proposta di revocare a tutti i liberti la libertà]... Altri, invece, pensavano
che la colpa dei pochi dovesse esser di rovina soltanto a loro e che non era il
caso di meno- mare i diritti di tutti, poiché era evidente che la classe dei
liberti era ormai diffusissima. Da essa in gran parte venivano le tribu urbane,
le decurie, i dipendenti delle magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti
arruolate in Roma; non diversa origine avevano moltissimi cava- lieri e
parecchi senatori, tanto che, se si fossero posti a parte i liberti, sarebbe
stata manifesta la scarsezza di uomini liberi. Ben a ragione gli antichi, pur
ponendo una gerarchia di ordini sociali, avevano conside- rato la libertà come
un bene di tutti... Poiché prevalsero tali opinioni, Cesare rispose per scritto
al Senato, ordinando di dar corso ai processi contro i liberti caso per
caso..., ma che non si prendesse alcun provvedi- mento generale di
deroga..." (Tacito, Annali, XIII, 26-ll). Tacito non fa il nome di chi
sostenne di rispettare la libertà dei libecci, sottintendendo che per natura
siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il consigliere che decise Nerone
a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune espressioni riferite da Tacito sono
molto vicine a quelle sene- chiane, che leggiamo sia nel De beneficiis sia
nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto piacere a sentire da quelli che
vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi molto familiarmente, e ciò
conviene alla tua saggezza e alla tua educazione. Sono schiavi? Uomini sono.
Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili amici. Schiavi? Compagni di
servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale potere su di essi e su di
noi... Quanti di questi 275
schiavi non hanno alla loro mercé il padrone di una volta... Va ora a
disprezzare un uomo di tale fortuna, quando .tu stesso potresti cadere in
quello stato, nel momento stesso che lo disprezzi! Non voglio cacciarmi in un
argomento troppo vasto e venire a ragionare intorno ~ modo come si debbono
trattare gli schiavi, verso cui ci mostriamo tanto superbi, crudeli, arroganti,
Tuttavia in poche parole ti dico: "Comportati verso gli umili come
vorresti che si comportassero i grandi verso di te..." Ti sbagli, se credi
che io sia per respingere alcuni perché sono a piu vile opera addetti, come per
esempio quel mulattiere o quel bifolco: non li giudicherò dal loro mestiere, ma
dai loro costumi. I costumi ognuno se li dà egli stesso, i mestieri li
distribuisce il caso... Quel che di servile può aver loro attaccato il
commercio con persone volgari, sarà corretto con la compagnia di persone piu
educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo solo nel foro o nel senato... Ma è
uno schiavo! Che importa, forse è libera l'anima sua._ Mostrami chi non sia
schiavo: uno lo è della libidine, l'altro dell'avarizia, l'altro dell'am-
bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6 è piu spregevole di quella che
si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà ora che eccito gli schiavi alla
rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei padroni per aver detto: nutrano
per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a Luc., 47). In queste ultime
parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo della seduta del 56. Senza
dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e l'approfondimento della
questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto nel 56 circa, l'anno,
appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i liberti di contro agli
interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che lo schiavo essendo tale
per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il padrone né alcun titolo di
benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo non può in nessun caso
esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto umano. Ciò che
importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di colui che dà. A
nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette, tutti
invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né per
case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore
credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta.
L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo
(De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è
piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle
buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli
alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o
oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo
qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo
comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis, III, 28). [E nella
lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto
ad un cava- liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo."
"Ma che signi- 276 fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono
parole nate o dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è
possibile slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca al sovrano,
finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di
un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel
tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi.
stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia
capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana
che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in
"Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp. 282-283). A
parte le reali intenzioni di Nerone .e i compromessi, cui, volta a volta, possa
essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di Seneca è
stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri razionali, ove per
"ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità comune a tutti,
che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze umane,
attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu
passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto
razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno
per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e
perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra
chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU
consiste nel "vivere secondo ragione" e •coerentemente,"
altrettanto chiara appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è
tale in quanto viva socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la
folla, donde, per altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che
siamo tutti schiavi e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza,
se da un lato, sia pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non
sia piu possibile vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi
compr~ messi, sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio,
dall'altro lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio
impegno umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò,
irrazionale. Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo
della vita: una servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc.,
77, 15). Pen- sare alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla
libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: è al di sopra di
ogni potere, certo al di fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per
lui? ha libera la porta (Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla
libertà? Qualsiasi vena del tuo corpo (De ira, V, 15). 277 Ma anche quando la ragione
induca a farla finita, non si deve prendere la spinta all'impazzata e di corsa.
L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla vita, ma uscirne. E soprattutto
eviterà quella passione troppo comune..., l'inconsulta inclinazione a morire,
che spesso prende anche uomini generosi e di fiera indole, spesso gl'ignavi e
gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita, gli altri non ne reggono il peso
(Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi siano cause incalzanti, bisogna,
sia pur con tormento, richiamarsi alla vita per amore degli altri... È grandezza
d'animo riattaccarsi alla vita per amore degli altri, e spesso i magnanimi
l'hanno fatto... Chi non tenga conto della moglie o dell'amico, per restare
ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc., 104, 3-4). Alcune delle proposte
di riforma sociale, suggerite da Seneca, ebbero successo, altre no. Non
sappiamo esattamente quale sia stata la parteci- pazione di Seneca nella
drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone, culminata, com'è noto,
con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59). Certo è che dopo la
morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e dopo la morte di
Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con l'inetto Fenio
Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna voce e fu costretto
a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue dimissioni e non
volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si confronti il
colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV, 53-56). "La
morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu saggi consigli
non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per cosi dire,
l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua inclinazione verso i
peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad attaccare con varie accuse
Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le sue ricchezze, che aveva già
accumulato in modo eccessivo per un privato, e dicendo che faceva di tutto per
attirare a sé le sim- patie dei concittadini, osando quasi primeggiare di fronte
al principe... e sostenendo che le cose buone dell'lmpero.erano dovute a
lui..." (Tacito, Annali, XIV, 52). "Seneca si allontanò dalla vita
politica, facendo rare apparizioni in città, come se fosse trattenuto in casa a
causa della salute cagionevole, o perché occupato negli studi di
filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). Furono questi gli anni del De otio,
del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia, del De beneficiis, delle
Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad Lucilium. In realtà Seneca,
attraverso la sua opera, proponendo se .stesso come esempio di problematica
morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur: Ep. a L., 67, 2),
proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per altra via
proseguiva nel suo insegnamento. "Anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo
saggio ha occasione di mostrarsi. A seconda della situazione politica, nel modo
che la fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi
stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo, paralizzati dal
timore" (De tran- quillitate animi, V, 3-4). Ciò che si esige dall'uomo è
che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a pochi, altrimenti
ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare interesse
assumono ora, anche relativamente alla situa- zione e allo stato d'animo di
Seneca in quest'epoca, le Naturales quae- stiones. Chi vada ripercorrendo i
vari motivi della riflessione senechiana, senza volere costruire un ben
ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre meglio conto che la ricerca di
lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un lato nel
riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di
unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro lato nel riconoscimento che
l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui
propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di rendersi consapevole di sé, di
costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle
passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e
coerenza sociali, per cui la rifles- sione medesima (filosofia) costituisce
l'uomo come misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume
sociale, come rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i
propd limiti (mora- lità). Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo,
a Seneca non interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente
scien- tifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione
dell'Universo e della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se
non perciò che l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano
servire a rendere conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi,
l'opzione di Seneca per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola -
tutta la realtà scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio
attivo e di quello passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa
assume un suo perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere
universale, la natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come
scoperta, attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi)
dell'uomo come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone
piu come ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi
stessi e che, perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso
si fa diverso da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio
e di Posidonio, - anche se ven- gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi
stoici, che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla
riflessione su se stessi, la 279
riflessione sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui
l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa
quello di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto,
quella stessa provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo,
su di un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa
riflessione etica, divenendo termini di speranza, non di dimo- strazione
scientifica. Altro è perciò il piano della fisica, altro quello della logica. E
se da un lato la riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante
cui l'uomo si libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro
lato rende consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione
estremamente infelice e determinata, consapevo- lezza senza di cui, comunque,
non vi sarebbe moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza.
Compromettere la realtà ad un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto
è già fatalmente costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della
vita morale, la possibilità di ren- dersi consapevoli di sé, di educarsi e di
correggersi; si come sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza
umana, sostenere la libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una
qualsivoglia con- dizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche
relativamente all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai,
sospende il giudizio, ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di
una quotidiana esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di
fronte all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi
nulla, tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che
circonda e schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è
un'esperienza- la consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di
costituirsi razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva
scrivere in una delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5):
'"Liberazione di ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende
l'umano dolore. Essa ci ripone in quella pace nella quale fummo prima di
nascere_, La morte non è né bene né male: quello può esser bene o male che è
qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci
rimette a fortuna: non può esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo
scriveva: '"Non v'è differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché
uno è l'effetto: non essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia
questa vita per una vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa
delle cose divine; oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua
natura e ritor- nerà nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro
lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e
la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo
l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e
credevo volentieri 280 alla opinione dei grandi uomini che di una
cosa tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi
abbandonavo a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102,
1-2). Entro questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca
un'indagine mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè
scientificamente conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura;
mediante cui liberarsi dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ
rendersi conto di quanto misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto
preso dalle sue passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione
della natura, infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo,
avvia l'uomo a scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da
un'infinita ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi
persuadere che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata,
pensa al luogo che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la
visione completa dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non
solo ha creato l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro
sorgere al loro tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto
dell'universo, gli ha dato un capo rivolto verso il cielo e un collo
flessibile. Poi, facendo ruotare i segni zodiacali (sei durante il giorno e sei
durante la notte), ha dispiegato dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispi-
rargli, attraverso la visione delle cose che gli offre, il desiderio di contem-
plare anche le altre. Infatti noi non scorgiamo tutte le cose né le vediamo
nella loro giusta grandezza, ma il nostro sguardo si apre la via all'investi-
gazione e· riesce a gettare le fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può
passare dal noto all'ignoto e concepire qualcosa di piu antico ancora del
mondo... (De otio, V, 4-5). E anche questa è una spertmza e un'esperienza. Una
speranza in quanto l'ordine e la razionalità si pongono come un bene da
realizzare; una esperienza in quanto la scoperta della presenza in sé della
propria razionalità, la capacità di porre in sé misura e armonia ~ tanto
lontano dall'essere un fatto umano, che si rivela come presenza di un valore
super umano. Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion d'essere del tutto,
del tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso stoico; dall'altro
lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere
della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti ed entro questi
del proprio impegno. Di qui, da una parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di
Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dal- l'altro lato l'appello epicureo ad
un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale
concezione di Dio, immanente e trascendente a un 281 tempo, Seneca chiaramente
giunse nell'ultimo periodo della sua medi- tazione, anche se fin dal principio
poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio),
principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime
opere, dal De bene- ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali,
sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la
stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde
le Quae- .rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di
fenomeni) che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una
suprema e provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia
un'oscillazione tra due conce- zioni di Dio: un Dio inteso come natura
naturan.r, mente dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e
custode dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome
conviene (cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14; Il, 45), sempre in atto ed
entro cui si svolgono in pro- cesso circolare tutte le vicende delle cose, il
nascere e il perire, neces- sariamente; e un Dio trascendente, esigenza e
speranza, posto oltre la natura. Certo è che la meditazione su Dio di Seneca
non è una teologia, né una rivelazione da .parte di Dio come lo sarà nel
çristia- nesimo. Si capisce, comunque, in che senso Seneca abbia avuto
un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che di lui essi potranno
dire, Seneca .raepe no.rter; mentre, per altra via, si scrisse, tra il IV e il
v secolo, una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e
San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo,"
ha scritto il Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso
con l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio
nell'abbandono della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini,
nella dot- trina di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è
la .rapientia che distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni supersti-
zione, con lo spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto
vicino al Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza
positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di
moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se
accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare
Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e
risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della
morte" (Marchesi, cit., p. 420). In realtà la problematica senechiana sul
divino è un altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale
dell'uomo. Su questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi
due testi di Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chia-
ramente appare come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica
dal tipo della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica .si fonda
sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità
di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece,
si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se
stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è
né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e dall'altro
lato consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè retorica e
politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come capace di
liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé del
divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della stessa
consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della constantia.
Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu- tendo sulla
natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene, seguace di
Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di fuoco
trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo
contemporaneo, secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la
luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete
son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio
di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico
tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di
leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché
esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... Giorno verrà che le cose
ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso
di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a
noi sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel
secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati
alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare
degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora
lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo
ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide,
IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse
e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi
navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se
avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che
l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi
guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un
prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini,
alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e
dell'atmosfera: e non è solo pazzia
283 dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la
sapienza. Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e
moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte,
è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che
fa [ove è evidente i l rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo] ...
Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia
soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa
tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere
difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{
via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i
limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro
frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è
angusto allor- ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E
cos{ Seneca esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno d'innalzare
le mani al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci accostare alle
orecchie del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te è Dio, con te,
dentro di te... Un sacro spirito risiede entro di noi, osservatore e custode
della nostra malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti meravigli che un
uomo vada verso gli dèi? .Dio va verso gli uomini, anzi, pi6 propriamente,
viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è vir- tuosa. Semi divini sono
diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit,
immo quod est propius, in homines ve- nit: nulla sine deo mens bona est. Semina
in corporibus humanis divina dispersa sunt...). Dopo la morte di Burro (62 d.
C.) e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato e terribile divenne il
governo di Nerone. Le ucci- sioni e i delitti si susseguirono alle uccisioni e
ai delitti. Si ordf allora una congiura. Capo di essa ne fu Calpurnio Pisone.
Vi aderirono "a gara senatori, cavalieri, soldati e anche donne, tanto
accesi da odio contro Nerone, quanto da simpatia per C. Pisone" (Tacito,
Ann., XV, 48). La delazione di un liberto e la debolezza di due congiurati che
non seppero resistere allo spavento delle torture - mentre la liberta Epicari,
torturata, eroicamente si uccise piuttosto che parlare - fece scoprire la
congiura. Ci fu chi rivelò che capo della congiura era Pisone - si pensava
anzi, se la cosa fosse andata, di proclamare Pisone impe- ratore - e si
aggiunse anche il nome di Seneca, "forse per procurarsi il favore di Nerone
che odiava Seneca e che cercava ogni mezzo per sopprimerlo" (Tacito, Ann.,
l.c.). Sembra, comunque, che una parte dei congiurati avesse realmente pensato
a Seneca piuttosto che a Pisone come possibile imperatore. Non sappiamo niente
di un'azione diretta di Seneca. Di fatto sappiamo che Seneca, accusato di
accordi con Pisone, fu condannato a morte, come a morte furono condannati
Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era l'anno 65 d. C. Nerone comandò di
andare da Seneca con l'ordine di morire... Seneca, impavido, chiese che gli
portassero le tavole del testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse
agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la
sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la piu bella,
l'esempio della sua vita. Se avessero di questa con- servato ricordo, avrebbero
conseguito la gloria della virtU come compenso di amicizia fedele. Frenava,
intanto, le lacrime dei presenti ora col sem- plice ragionamento, ora parlando
con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici alla fortezza dell'animo,
chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni
che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la fatalità della sorte. A
chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai
piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo
educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti queste parole ed altre dello
stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po' commosso dinanzi alla sorte che in
quel momento si com- piva, la pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e
di non lasciarsi per l'avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo
della sua vita vir- tuosa dignitoso aiuto a sopportare l'accorato rimpianto del
marito perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche a lei era stata destinata
la morte, e chiese la mano del carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse
opporsi alla gloria della moglie, sia che ,fosse mosso dal timore di lasciare
esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente diletta al suo cuore:
"Io ti avevo mostrato," disse, "come alleviare il dolore della
tua vita, tu, invece, hai preferito l'onore della morte: non sarò io a
distoglierti dall'offrire un tale esempio. Il coraggio di questa fine intrepida
sarà uguale per me e per te, ma lo splendore della fama sarà maggiore nella tua
morte." Dette queste parole, da un solo colpo ebbero recise le vene del
braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal poco cibo offriva
una lenta uscita del sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle
ginocchia, e abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio
della moglie e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai
tormenti di lei, la indusse a passare in un'altra stanza. Anche negli estremi
momenti non essendogli venuta meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò
molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di riferire con altre
parole. Pertanto Nerone, non avendo alcun rancore personale contro Paolina,
moglie di Seneca, dette l'ordine d'impedirne la morte perché non si accre-
scesse l'odiosità della sua ferocia. All'imposizione dei soldati, i servi e i
liberti legando le braccia trattennero il sangue a lei che non sappiamo se di
tutto ciò avesse o no la sensibilità... Visse ancora pochi anni,
conservando sacra memoria del marito,
nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della
vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta, pregò Anneo
Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di propinargli quel
veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli
Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché
il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all'azione
del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua, spruzzandone i servi
piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove
liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori soffocato. Fu cremato
senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva prescritto nel suo
testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della potenza aveva dato
disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito, Annali, XV, 61-64). E non
molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta in disgrazia,
quando si era ritirato da quella vita politica che non era piu politica e per
la quale non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di una verace vita
ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita politica, cosi
scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi concludendo il suo discorso, la sua
riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al momento della prova,
vtcmo a quell'ultimo giorno che deci- derà di tutti i miei anni, cosf veglio su
me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con
gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte
affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo coraggiosamente a quel giorno
in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere
se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia
la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa
è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano
gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute
filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano
la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~.
Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa
condizione: non temo il tribunale della morte (Lett., 26, 4-7). Le componenti culturali tra il I e il lL
secolo d. C. l. "Platonismo," "pitagorismo" e
"stoicismo" tra il I e il Il secolo Per chi non si affidi a
semplicistiche e nette distinzioni manuali- stiche nel delineare la formazione
della cultura nell'arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli
inizi del m secolo d. C., sembra difficile insistere su precise posizioni,
diverse le une dalle altre, chiara- mente distinguibili per èaratteristiche
proprie. Parlare di "neopitago- rismo, " di platonismo medio, di
stoicismo cinicheggiante, di gnosticismo, di ermetismo e cosi via, come di
blocchi avulsi da un comune terreno e da comuni reciproche influenze, che non
si scandi- scono nel tempo e non rispondono a comuni esigenze, è falsare il
signi- ficato di una viva cultura, di problemi concreti, niente affatto
cristallizzati, quali, invece, appaiono a noi nella noia di una tradizione
scola- sticizzatasi. Non solo, ma altrettanto fuorvianti sono le stesse denomi-
nazioni indicative: platonismo, stoicismo, pitagorismo. Tali denominazioni non
indicano nulla: se mai possono evocare uno o altro aspetto di uno o altro
platonismo o stoicismo o pitagorismo determina- tisi storicamente. Sappiamo che
se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi sono molti
Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi
e gli aristotelismi, s1 come molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per
non parlare dei modi diversi con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo
Platone e dopo Aristotele, di Platone e di Aristotele si sono andati
riprendendo, volta a volta, quegli aspetti che piu rispondevano a certe
esigenze e problematiche, in funzione di concezioni che con Platone e
Aristotele, considerati sto- ricamente, non avevano piu nulla di comune.
Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele abbiano potuto tener presenti
certi stoici e come quegli stessi aspetti di Platone o di Aristotele si siano
potuti trasfigurare, in interpretazioni che a loro volta sono venute trasfigurando le originarie
posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia profilata
da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da Antioco di
Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del tentativo -
d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere pensabile
l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere stesso in
quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio tardi, si è
potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure
geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per
altro .verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in
numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso
stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si
cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica
acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano,
portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa -
condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla
realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la
tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del
tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da Arcesilao
a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo aspetto
problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da Enesidemo
ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi scettici
presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità umane, si
vede bene di qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con
l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole,
dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici,
pitagorici, aristotelici. Cos(, renden- dosi conto della validità ddla critica
scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in
termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno contraddittorie
e piu capaci di dare una • forma" e un senso alla vita (da Antioèo di
Ascalona ad Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici e
platonici). Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno stoicismo
di sfondo, che accetta la concezione di un tutto ordinato e scandentesi in ben
fisse e precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi regolati da leggi e
cos1 via, che è oramai un t&pos, cui poteva servire certo primo Aristotele
ç> certo Aristotele fisico, interpretato in chiave stoica (si ricordi lo
pseudo aristotelico De mundo, composto appunto nel I secolo d.C.), si poteva
sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio perché
l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa verità trascendente che
scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a Filone l'Ebreo e, per altro
verso, ancora a Seneca). 288 Oppure, ancora - certo in ambienti
piu popolari, meno intellettual- mente scaltriti - abbiamo il recupero di
Pitagora mago e taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora
sciamano, egli stesso consi- derato piu che anima in senso greco (forza vitale
e unifiéatrice), anima divina, personale, trascendente, che si incarna di volta
in volta in uo- mini che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi
novelli Pitagora, si presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti.
D'altra parte va sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza
comune, non è neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un
solo aspetto dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono
assunti. A seconda delle difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e
il suo significato in funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a
seconda degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare,
delle tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a
uno o altro aspetto delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di
Aristotele. O ci si rifà all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide,
Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che
si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente
posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O
ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere
conto in ter- mini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione
plato- nico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi
do- vuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio
che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà
tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della
stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi-
cazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un
conflitto fra .i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se,
ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita
("vita pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi
misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci
(dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali
operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi-
tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di
essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di
qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo
matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico
e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche
degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr),
che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da
esercizio e introduzione, da avviamento alla visione 289 platonico-stoica, insieme
agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di
oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le
correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une
chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso
della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa,
in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità
costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto
mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la
coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C.,
che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non
solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone
l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal-
lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine
egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in-
segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel
diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle
molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il
caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da
Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I
a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato
di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma
(I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico
Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico-
simbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro),
da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.).
Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat- tutto ci renderemmo conto di
come una certa tradizione culturale, par- ticolarmente formatasi tra il 11 e il
I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi
(Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla- tonico-matematico, lo
stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi
ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una comune esigenza, ma in
un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo
dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro
autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi
limiti si possono, forse, riprendere i termini pitagorismo e stoicism in senso
molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi,
confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi
relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos( possiamo
anche dire pitagori••anli e 290 platonizzanti quelle posizioni
che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto,
sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono
il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una
simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non
ci si riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale
avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso
Platone (par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe
posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a
parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il
nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et
sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4
W.; Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in
Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a
Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di
Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che
vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti
Cicerone, Rep., l, 15 e la sin- tesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene
come, in questa direzione "pitagorismo," "platonismo,"
"stoicismo," potevano servire a rendere conto di una visione ordinata
e armonica della realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata
(razionalizzata) e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la
ragion d'essere della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico
l'astrologia e la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da
cui anche gli studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante
cui operare su quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri,
interpretati come leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e
il costituirsi delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade)
della informe materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione,
non essenza). E qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo
uno nell'unità di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna
realtà nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le
cui qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del
principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in
lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del
mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può
operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che
sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse
giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del
mondo che ha una realtà 291
temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e
pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità,
pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi
dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di
cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al
limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse
con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il
significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro
lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli
dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio,
terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe
tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte,
nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle
incanta- gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo
secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo
d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà
direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già
risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di
Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna
di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie
miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu
Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a
caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati
un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ,
Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi,
sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi
dei Detti aurei (Xpua« ~). : Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e
rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri,
agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per
quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore
di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati
a dominare le seguenti pas- sioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira...
Sii giusto nell'agire e nel par- lare... Non ti comportare sconsideratamente.
Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec.
d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs
(cfr. in Stobco, Ecl., III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr.
in Stobeo, D, 8, 24), attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte
attribuito a lpparco (Stobco, Ed., IV, 44, 81); un De virt~~~e, attri- buito a
Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed., III, l, 115); un De re publica c un De feli-
CÌIIIte (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26; IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a
Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo, Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo.
292 morire. Le riccb,ezze sappi ora acquistarle, ora perderle•••
Non si deve tra- scurare la salute del corpo, ma bisogna essere moderati nel
bere, nel man- giare, negli esercizi. Chiama misura quella che non ti nuocer~.
Abituati a una vita semplice... Ottima è la moderazione... [Attraverso una vita
ordi- nata e misurata ci si colloca] sulle orme della divina vimi: sf, per
colui che alla nostra anima rivelò la tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura...
Cono- scerai che in tutto c'è una uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile
e nulla ti sfugga... Saprai che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si
procurano: infelici, che avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e
pochi sanno come liberarsi dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu potresti libe-
rare tutti da molti mali, se a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la pro-
pria condizione]. Ma tu stai di buon animo, perché divina è la stirpe degli
uomini, ai quali la natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu
in pane apprenderai queste cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e
guarirai e libererai l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti
parlai; nelle purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo con giwti-
zia, e considera ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se,
lasciato il corpo; giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e
incorruttibile, non piu un mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto
ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è
purificazione e perfe- zione della vita umana; purificazione dalle affezioni
della bruta ma- teria e del corpo monale; perfezione in quanto restituisce
all'uomo la beatitudine propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla
divinità (7tpbç ~v .k(«V 6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante
ricordare che questo secondo aspetto della ripresa pitagorica, in funzione
educativa e precettistica, a cui poteva servire anche la CII vita
platonica" e CII stoica" - interpretata in senso
purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo nelle aree, di- remmo,
culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in quei paesi ove la
cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2. Tra platonismo e
pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello. Moderato di Gades e
NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea che risale al I
secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente razionalistico-matematico, in
una inter- pretazione di motivi platonico-stoici, in funzione di una
comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale linea - a parte il
fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui abbiamo fatto cenno -
si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto, vissuto nel 293 I secolo a. C., che compose
un'opera sui Simboli pitagorici é una Suc- cessione dei filosofi (sfruttata da
Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç -rou
1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I secolo
d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero stati
conosciuti da Platone attra- verso Acchita (è dimostrato che le lettere che
Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia
dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in circolazione proprio
tra il I a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è il voluto
accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita e Ocello). L'operetta dello
pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo dello
pseudo-Aristo- tele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di risolvere
in ter- mini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una sola unità
in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi stoici,
aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura del
Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in
atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità.
Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo
platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di
loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a
prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si
opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e
al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile,
cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto
Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra
azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza
dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi
Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio-
gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver
trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose
è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia
alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri; dai
numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure piane
le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat- tro:
fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da questi
risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro la terra
anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti uguali, e
caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è l'estate, quando
il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando l'umido l'autunno);
se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le 294 parti
piu belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è immobile e mal- sana e
tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è in eterno moto e pura e
salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò divino. n sole e la luna
e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale il caldo che è causa di
vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che l'uomo partecipa del
caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra provvidenza. Il fato
governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di anime, ritenute dèmoni
ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i segni di malat- tia e di
salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e a tutte le altre bestie.
E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici apotropaici e ogni specie
di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la sanità fisica, ogni bene e
la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è costituito secondo armonia.
Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La purità si consegue con i riti
della purificazione (Diogene Laerzio, VIII, 24-33). Nell'opuscolo Sulla natura
del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il tutto è sempre in atto e che il
nascere e il perire delle cose è interno all'ingenerato ordine dell'Universo,
in una trasmutazione degli elementi. Tutto è perciò calcolabile e riducibile a
leggi che co- stituiscono la stessa espressione in atto della Legge suprema, in
una tensione tra principio attivo e passivo, che molto chiaramente indica
l'ispirazione stoica di origine paneziano-aristoi:elica, risolta in termini
pitagorici : A me sembra che il tutto non sia stato prodotto e che sia
ingenerato... Chiamo complesso (6Àov) ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv).
l'ordine nella sua totalicl (-rò x6cr(J.OV)... Esso è l'insieme compiuto e
perfetto della na- tura e di tutte le essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se
qualcosa esiste, esiste in lui· e con lui. Comprende tutti gli esseri diversi,
gli uni come parti, gli altri come produzioni accidentali. Ne segue che le cose
contenute nel mondo hanno afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha
alcuna aflinità e alcun accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono,
avendo una natura non perfetta in sé, avendo ancora bisogno di legame con le
cose che esistono fuori di loro, come gli animali con la respirazione, la vista
con la luce... t nel tutto o nell'universo che ha luogo la generazione e la
causa della generazione... [Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài,
le quali si risolvono neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'uni-
verso e la loro opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre
da un lato attiva e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo;
sempre da un lato governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale
universoJl'uomo, in ciò che lo riguarda, deve essere considerato come avente un
rapporto diretto con la struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di
una famiglia, di una città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che
sta per venire meno, se vuole adeguarsi alla società, alla politica 295 e alla divinità... [Di qui,
in tale adeguazione alla politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la virtU
intesa come rapporto sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed.
Harder). Entro questi termini assumono un particolare inteiesse le pagine di
Sesto Empirico (Adv. math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo,
Sesto si riferisce alla corrente platonico-pitagorica di que- st'epoca, tesa a
interpretare in termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e
la ragion d'essere del tutto, per cui era neces- sario postulare l'identità tra
quelli che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi
(traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi
nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé
il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso
matematico della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno
tutto che è il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere
all'ugua- glianza divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale sembra,
attraverso i frammenti che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici
(ITu&otyopLxotl axoÀot(), in undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae,
48-51; in Simplicio, In Phys; Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo,
Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto
nel 1 secolo d. C., parente di Giunio Moderato Columella, il celebre autore del
De rustica. Molto finemente Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il
rapporto stoico, principio attivo (spirito) e principio passivo (materia),
risolvendo i due principt fisici (forze) in principi aritmetico-geometrici.
Egli cosr interpretava la ma- teria (certo aveva presente il Timeo di Platone)
non come realtà per sé, ma come spazio, .cioè come indefinita estensione
logica, condizione perché sia pensabile ogni possibile costruzione, la cui
altra condizione è la qualificazione, la misurabilità, ci~ la numerabilità. Si
vede bene cosr come per Moderato sia possibile il discorso intorno
all'ineffabile Uno tutto, solo se esso viene simbolicamente indicato come un·
numero, matrice di tutto il numerabile, esso di là dall'essere e dall'essenza,
per cui esso è potenzialmente tutto. Tale, anche secondo Moderato di Gades che
raccolse in undici libri i plaeita dei Pitagorici, il significato della
dottrina dei numeri... Poiché, con li Iberico, nato a Gades (Cadice}, vissuto
nel 1 secolo d.C., Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del
De re rustica, visse a Roma. Scrisse in greco un'opera in undici libri,
intitolata Commenti Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono
rimasti alcuni frammenti in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.},
Stobeo (Ed.). 296 il discorso, è impossibile spiegare con
chiarezza i principi primi, difficilissimi sia ad essere compresi sia ad essere
espressi, ci si rifugiò nei numeri per rendere piu esplicita la tesi
pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di geo- metria e i grammatici. I
grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e le loro possibilità ricorrono
ai segni e sostengono che questi sono i primi elementi dell'apprendere. Eppure
essi dicono, poi, che quei segni non sono gli elementi, ma che mediante quei
segni si possono conoscere i veri ele- menti. Lo stesso fanno gli studiosi di
geometria: incapaci di esprimere con parole le forme incorporee, si valgono
delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio, che questo che disegnano è un
triangolo, solo che non intendono questo triangolo qui, che si vede con
l'occhio fisico, ma quello espresso da questa figura, concepibile mediante
essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi il concetto del triangolo.
IIl medesimo esempio si trova nella pagina sopra citata di Sesto Empirico, Adv.
Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i Pitagorici in relazione alle forme
prime... Non potendo espri- mere in parole le forme incorporee e i principi
primi, fecero appello alla dimostrazione mediante i numeri. Essi cosi
chiamarono uno il concetto di unità, identità, uguaglianza, causa della
cospirazione delle cose, della loro simpatia e conservazione dell'universo, che
si comporta sempre nel mede- simo modo, secondo ·una stessa legge. Uno è,
difatti, ciò che si trova nei particolari e che esiste in quanto unità e
cospirazione delle parti, parteci- pando della causa prima (Porfirio, Vita di
Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o identità o uguaglianza
(simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non potremmo parlare di nulla
(ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza l'alterità, la
differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due), per cui ciascuna
cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad altra). Chiamiamo,
invece, due i l dualistico concetto di diversità, disugua- glianza,
divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura della
dualità nelle cose particolari... Infine, poiché esiste in natura qualcosa che
è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a tali forme e
nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse un ter- mine
medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio, Vita di
Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei
due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto,
non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé (diade),
per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la contiene- la
monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme intelligibili,
delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi sono in quanto
presenti all'anima, terza 297
unità che logicamente segue dalla prima e dalla seconda monade, e che,
perciò, partecipa della Unità prima e della unità-molteplicità (intelli-
gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa s'incentra l'Universo: volta da un lato
verso le specie e attraverso queste verso l'Uno tutto, dal- l'altro lato,
davvero coglie l'Unità prima, in quanto m'Scorre l'Uno mediante le forme, cioè
in quanto si volge alla molteplicità che, co- stituendo il discorso delle
forme, è la sensibilità, la figurazione, la cui condizione è lo spazio informe,
l'estensione pura, la materia, essa stessa dunque essenziale in quanto
nell'intelligibile, esistente non per sé, ma come riflesso (ombra) della
materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata attraverso Porfirio, sembra
ora di notevole inte- resse la testimonianza di Simplicio sul motivo
dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di Gades. Moderato,
seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è al di sopra
dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV), mentre il secondo
uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è in quanto è
definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v xatl
VO'Yj't'6v), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli sostiene
consistere nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa dell'uno e della
specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai sensibili non
parte- cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire cos{, di essi si
adorna, ombra riflessa della materia che è negli intelligibili, materia
ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui si trova ancora pi6 in
basso (~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott, Tljt; lv atÙ't'o'Lç
GÀYJt; -rou IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not; oGaY)t; axtata!L«
xatl frt ~ov ~(X ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou). Anche Porfirio, nel secondo
libro de La materia, riproponendo la tesi di Moderato, ha scritto che
"volendo la ragione mona- dica (6 b.ltati:ot; Myot;), come dice Platone,
costituire da se stessa la genera- zione degli esseri, stabiH la quantità di
tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V), come privazione di se stessa,
privandola appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato ha
chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere forma,
distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia dato piu
nomi a questa quantità, dicendola ricetta- colo informe e invisibile e
'riluttante al massimo a partecipare dell'intelli- gibile,' afferrabile a
stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di se- guito. Tale quantità, dice
Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come pri- vazione della ragione
monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è
,esempio della materia dei corpi, che, diceva Mode- rato, i Pitagorici e
Platone chiamavano quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità
intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come priva- zione, dispersione,
estensione e cos( via, come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto
fugge dal bene..." (Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels). In
realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro
i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si
possono scambiare in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due),
unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita
quantità, l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia
possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici,
costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che
possono dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano
sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due
motivi, che si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza
nella storia dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intel-
ligibili, dall'altro .Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fon-
damento e ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto
tale è al di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle
esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini,
riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri
di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide
di Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista,
Filebo) suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una
massiccia realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in
quanto discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel-
l'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel
senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della
esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide -
Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade,
sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos
spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino
uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile
(mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee
qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno,
nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente
l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di
dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione
dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità.
Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato
di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di
Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di
Alessandria (fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele
(Metafisica, l, 988a, 10-11) 299
discutendo delle cause di Platone. Dice Aristotele: "le specie sono
cause delle altre cose,. s1 come delle specie è causa l'uno" (-rcì: ycì:p
d31) 't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç, 't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo
Alessan- dro di Afrodisia (In Metaphis., pp. 58, 31-59, 8, ed. Hayduck), Eu-
doro avrebbe corretto cos1: "delle specie e della materia cau,sa è
l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds,
concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato di Gades l'origine
dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the.
origin of the Neoplatonic ((One," in "Class. Quart.," pp.
129-142). Bisogna qui aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico
nell'assoluta monade che ha in sé tutte le possibilità (il mondo
intelligibile), la stessa interpretazione della ma- teria quale si trova nel
Timeo, si imposta su di un piano diverso: anche la materia cioè poteva non piu
essere considerata come realtà a sé informe, ma come uno degli intelligibili
dell'Uno. L'essenza materia si poteva considerare come l'idea estensione, la
forma dell'informe, condizione della realizzabilità delle forme, la cui
esistenza diviene l'om- bra riflessa dell'idea materia. Che tale
interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee di Pla- tone fosse
interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili inter- pretazioni che
circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da Filone l'Ebreo, da
Seneca, che, proprio perché la riferisce con un . semplice accenno, accanto ad
altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza nota. Dice Seneca:
il mondo delle idee è "il modello che ha avuto l'artefice davanti a sé
nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare. Non ha importanza poi se
egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi fuori di sé, oppure concepito
nella sua immaginazione e tenuto cosi presente. Questi esemplari di tutte le
cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose che deve fare abbraccia il
numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste figure, da Platone chiamate
idee, immortali, immutabili, instancabili" (Lett. a Ludlio, 65, 7). Non
solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la possibile in- terpretazione della
materia intesa non come realtà a sé, bens1 come realtà dovuta allo stesso Dio
(cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16) motivo, d'altra parte, presente in
Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto, anche se in Filone sia il mondo
intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un atto di volontà di Dio persona.
E allora, la testimonianu di Simplicio, che riferisce la testimonianza di
Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato di Gades, assume una sua
prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra chiaro in che senso Moderato
possa dire che la materia esistente non è realtà per sé, non partecipa in
quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili, ma è ombra ri- flessa
della materia che è negli inteUigibili, e in che senso Eudoro cor- 300 regga la frase aristotelica,
affermando che l'uno è causa degli intelli- gibili e della materia. Entro
questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di materia amorfa, di
puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le cose (cfr. Timeo,
50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia intesa come soggetto
(u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l, 1042a, Zl), o anche
come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf., VII, 7, 1032a, 20),
sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene Laerzio, VII,
150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134) su cui si esplica
l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur mantenendosi il
concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto pensabile (non
con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non può non essere
che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile, idea di
estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che non è
tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto-
Anima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà
per sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria
introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i
risultati della matematica greca è l'Introdu- zione aritmetica,
•ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a
cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Ma- nuale di armonia cita
Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro
nel De artibus ac disciplinis liberalium lil- terarum, c. IV, Migne Patr. lat.,
vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo,
tradusse in latino la diligente espo- sizione della disciplina aritmetica di
Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su
di un piano logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri
(non a caso il titolo della sua opera fondamentale, di cui pos- sediamo due
libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu- ?:ione alfarte
dei numen). Come Euclide definisce il punto, quale con- dizione e termine di
qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipen- dentemente da ogni
raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce
tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di
numero ("numero è molteplicità rac-
BDiNicomaco,v~nellasecondametàdel1secolo,natoaGerasa,sappiamo molto poco. Della
sua lntroduaio arithmetic11 sono rimasti due libri; intero è perve- nuto il
MtmUIIle di amioni11; delle sue altre opere (Theologi11 arithmetic11,
lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio 111tronomi~~e) non sono rimasti che
frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti di PiiiiKor•, una Vitti di
Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti egisitmi. 301 chiusa entro term1ru, o un
ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di unità; la
prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr. an"tm., l,
VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della molteplicità implicita
nell'unità si determina in un perfetto giuoco di combinazioni e separazioni di
numeri, di rapporti e propor- zioni, per giungere, infine, attraverso tale
costruzione, risultante dd discorso logico tradotto in simboli numerici, a
ricostruire la realtà entro questi stessi termini, ove i principt, impliciti
nell'unico principio (unità), divengono, appunto, gli stessi principi logici,
simbolicamente assunti come numeri. L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa
consiste da un lato nella sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei
risultati, sparsi nel tempo, del sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento
deÌle sco- perte matematiche da Archita a Filolao e via di seguito, entro la
linea dei cosiddetti pitagorici, per essi intendendosi, in fondo, i
matematici;- dall'altro lato nel non indifferente sforzo di presentare un
possibile tipo di ragionamento, un tipa di logica (matematica) che poteva, in
via ipotetica e simbolica spiegare - indipendentemente dal ricorrere alle
figurazioni geometriche - le essenze non corporee, cioè le leggi su cui si
scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco risolveva in tal modo le aporie
implicite nell'Unità posta dal Parmenide di Platone, in un discorso
aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso snodarsi dal- l'Uno del
discorso del tutto in termini geometrici (sensibili), svelando cosi il mito del
Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato dato al numero
nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991d: "ogni figura, ogni
sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di tutte le rivoluzioni
astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto questo seguendo il vero
metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà quando rettamente si
apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi rifletta apparirà,
infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i fenomeni; chi altrimenti
intra- prende tali studi dovrà invocare la fortuna..."). Non solo, ma per
altra via, posta la possibilità della predicazione qualora appunto si risol-
vano in numeri le condizioni stesse del pensare, Nicomaco poteva, come
chiaramente risulta dal primo paragrafo del I libro della Intro- duzione
aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si avvicinano non poco,
nell'esser presentati come una lista di categorie, alle categorie di
Aristotele), interpretare numericamente le categorie di Aristotele,
identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd tutto. E
ciò tanto pio è chiaro quando .si tenga conto che le dieci categorie si
potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o
tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco 302
di proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1
svolge l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in
una figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per
lato .-:\ , la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf,
racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2 : l ;
quinta 3 : 2; quarta 4 : 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l;
linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le
cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie
che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L.
Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York,
1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle
essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel
poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione
geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr.
aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa,
nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della
realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione
geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il
discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco
di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione
aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è
- con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte
le possi- bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto
si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte
le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque,
Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si
dispiega nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega
nel discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena
arithmeticae - se non è di Nicomaco, sembra al- meno derivare da lui, - si
sostiene che Dio è come un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le
cose" (xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç .qj
~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v,mtep!Lat"t'U(Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh
.qjq>6ae'6V"t'at•••: Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade,
l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra,
cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso
geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico
l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro
la medesima spiegazione la tesi stoica del logos spermatik_os. Il divino 303 principio attivo, da cui
tutto deriva, poteva benissimo assumere il signi- ficato dell'unità potenza,
perdendo, certo, nella traduzione in numero- unità, il suo valore di forza
(spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni interpreti di
Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il conseguente
problema della materia, principio oppo- sto, dunque, all'immateriale Uno
divino). In realtà, platonismo (Parmenide, Timeo, Epinomide), pitagorismo
(aritmologia e geometria), stoicismo (il principio che ha in sé tutte le
possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come
forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si
venivano ad incon- trare in unico sistema, nella possibilità di una teologia
logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione,
ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musi-
cale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle
leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione
alrAstronomia). In altri termini, le vecchie disci- pline platoniche in
funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica,
teoria musicale, astronomia, venivano siste- mate, dando la precedenza
all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e
l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui,
per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della
propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica.
Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmetica-
definisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà,
concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a
fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a
sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali
(!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e
perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l,
1-2) ... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se
stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero
perfetto·e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in fun- zione di altro e
in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un
terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici
mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per
oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la
quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in
quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due
sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò
che è immobile e quieto; l'astro- nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si
muove circolarmente. Senza queste 304 è impossibile trattare con
esattezza le forme dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui
conoscenza consiste la sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile
filosofare rettamente. "Come il disegno contribuisce con la tecnica alla
retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le
rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scien-
tifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico Androcide [autore di uno
scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40.
Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I, 330 sgg.; e 1'Epino-
mide, 991 d sgg.] ... Tali studi [geometria, aritmetica. astronomia, teoria
musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che consentono alla mente
umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli intelligibili e agli
scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti infantili, fisici e
sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò che è estraneo ai
sensi (1, 3, 1-6).•• Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è
necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre,
evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre,
la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo
perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed
esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo
dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i
propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le
altre discipline, senza esserne implicata (I, 4, 1-2). Pitagorismo, educazione
e retorica. Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato di Lemno e
il trattato su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo all'aspetto
predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione scolastica in funzione
educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle leggendarie vite
di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di esempi di vita (non a caso
lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e una Vita di
Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In realtà, e ce
n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e poi,
soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni
pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti
ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere
cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che
l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla
va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i
vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli
platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate
orbite, 305 ma anche gli
animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro
cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti
sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a
prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il
richiamo ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi
(r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa
dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità
poteva essere l'ipotesi pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli
iniziati, cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica,
·la musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri
discorsi, tecniche terapeu- tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei
piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi
riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n
sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli
dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le
leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito,
le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende
"in senso volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi
immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare
tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo,
un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in
sé chi sia caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo
soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va
considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di
coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di
Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime,
di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per
natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad
esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità
umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la
fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene.
E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di
Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu
amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre
la vena cinica, ravvi- cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in
una comune oppo- sizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e
passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori
e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~ 306
viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96
al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò
realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita
di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato
a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la
dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C.,
Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di
Set- timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene
sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di
Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a
lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che
Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C.
con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la
capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del
pub- blico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden-
temente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera-
peutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi per-
sonaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento,
rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se,
come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo
biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè
la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un
saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di
gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non
fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli,
l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il
suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che
l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua
"sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le
azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da
Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo
che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché
divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive
Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della
sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce
ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico:
cfr. "Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine,
un Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13),
Oracoli, Lettere. 307 è
sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si scordi che anche Se-
neca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc., 108, 13 sgg. - ch'egli
era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando di cinici, dirà
Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto in un'epoca né
troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si conosce ancora
quale sia stata la stia filosofia... Alcuni, avendo egli avuto rapporti con i
maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti dell'Egitto,
pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe stata che una
forma di violenza. :a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli è mal
conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i maghi,
hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli adepti
della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai sacerdoti e
dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo aver preso
un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto di Platone
un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua sapienza,
oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di un
avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti bisogna
rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto spesso
prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono parecchie
predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad
attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le
sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene .-:be tutto
quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore,
divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi
sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe
azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un
essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I,
2). - "Vivrò da pitagorico," disse Apollonia, ancora giovinetto al
suo maestro Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da
dove comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia,
"la loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le guariscono."
A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si nutrf di verdure
e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro... Camminò a piedi
nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere i capelli... e
divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap., I, 7-8). Filostrato
di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di Apollonio: la
sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio di Esculapio,
la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe soggiornato
in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in Grecia, a
Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi in Spagna,
ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con l'imperatore
Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti. Allontanato da
Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe sparito sotto
Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei miracoli operati da
Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli avrebbe avuto dei
vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi presunti contatti con
tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re Vardano; in India con il
re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo sacerdote !arca; in
occidente, sotto Nerone, con Tigel- lino e con Domiziano il tiranno da cui
venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con Vespasiano e con
Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore, - Filostrato ha
costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e guaritore di anime,
di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di vita. "Egli ha
voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di Apollonia, "che, conoscendo
la nostra natura, lietamente si vada verso il fine che ci hanno fissato le
Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato che la Vita è stata scritta
da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo su di un certo ambiente, su
cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il meraviglioso e il sublime.
Entro i termini delle discussioni sulle tec- niche retoriche tra la fine del I
secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno spostamento dalla retorica
intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui fatti e sulle argomentazioni
credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della retorica oSOstenuta da Apollodoro
di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e il suo contemporaneo Dionigi di
Alicarnasso, si proclamava soprattutto l'importanza della disposizione e
dell'armonia délle parole, della metafora, in stretta osservanza e imi- tazione
dei classici), alla retorica affettiva, per cui si sa giuocare sulle passioni,
convincendo non mediante argomentazioni razionali, ma con l'entusiasmo, la
passione, l'emozione, suscitando la meraviglia, come fu il caso .della retorica
proclamata dall'avversario di Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro
l'àmbito culturale e sociale, entro i termini di diffuse esigenze morali e
religiose, proprie del I e del n secolo, si capisce come al di fuori delle
scuole e dell'insegnamento ufficiale della retorica (rappresentato in forma
istituzionalizzata e scle- rotizzata da Quintiliano) abbia prevalso
l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di un discepolo di Teodoro,
Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul sublime (nepl G~J~ouç), un
tempo attri- buito a Cassio Longino (retore del m secolo d. C.) e a Dionigi di
Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che già gli antichi non sapevano
se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si era letto che Il sublime era
di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge di Dionisio o di Longino;
sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora anche D. A. Russell,
Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la tradizione della retorica
in senso aristotelico (rappresen-
309 tata ancora da Cecilia di Calatte) il Sublime insiste
sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa come avviamento all'ordine
sociale e poli- tico in senso stoico (si pensi a Diogene di Babilonia),
all'utile morale, il Sublime insiste sullo straordinario, il meraviglioso, il
sublime ap- punto. "Veramente ammirevole è .rempre, per gli uomini, lo
straordi- nario" (35, 5). "Il fine della fantasia poetica è la
sorpresa, mentre quello dell'oratoria è l'evidenza: entrambe comunque ricercano
il pate- tico e il concitato" (15, 2), insieme alla grandezza del
discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si ottiene non "a capriccio,
procedendo anzi con metodo" (2,.2), usando certe tecniche da cui far
scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come uno dei possibili stili
retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo innamorare di ciò di cui
si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla passirme e all'entusia- smo.
Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante certe appropriate figure del
pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza dell'elocu- zirme e la scelta
di un argomento tale da costituire una composizirme ( crov&eatt.;), che,
ispirando i piu alti pensieri, vada oltre il quoti- diano vivere, creando mondi
di superiore grandezza (sublimi), velando cosi gli artifici retorici. Se il
Sublime dello pseudo-Longino rispose all'esigenza di certi retori posti·
difronte a un certo pubblico, la Vita di Apollrmio di Filo- strato risponde esattamente
all'esigenza di altri argomenti mediante cui, suscitando il meraviglioso e il
sublime, trasportare il lettore in una vita sublime, sospesa tra la realtà e il
mistero. E qui bisogna ricordare che Filostrato scrisse anche gli Eroici, un
dialogo sui geni e le ombre della guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è
il gusto per lo "straordinario," e dove, per altro verso, si
presentano gli eroi del passato, si come nella Vita di Apollonia si presenta la
figura di Apollonia. Non solo, ma è altrettanto interessante sottolineare che
l'autore del Sublime, nel 1 secolo, d'accordo con l'autore del Dialogus de
oratorihus (forse Tacito) e con Seneca, sostiene che la decadenza della
oratoria.e della letteratura, il prevalere in certi ambienti della pura imitazione,
l'aver ridotto l'eloquenza all'applicazione di fredde regole, è frutto della
situazione politica attuale, della perdita della libertà, del conformismo
generale e della mancanza di alti e nobili ideali per ·i quali battersi.
"Allo stesso modo che - se è vero quel che si dice - le gabbie in cui si
allevano i Pigmei, chiamati nani, non solo impediscono ai rinchiusi la
crescita, ma anche contraggòno loro la lingua per la museruola posta intorno
alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la piu legit- tima, potrebbe
qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di tutti" (44, 5). Di
qui, non solo l'importanza data al "sublime" come stile, ma all'arte
come capacità di chi altamente senta, di suscitare 310 mediante
immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche, rap- presentazioni di
cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento. Se entro
quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate condizioni
d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti, intesa al
"sublime," .rompendo contro la vita quotidiana, mediante il
miracoloso e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della esercitazione
retorica e romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III secolo da
Filostrato di Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto
la vita di Apol- lonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da lui
inventate, certo una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali e
sulle reali azioni di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la figura
reale del Tianeo. In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci
presenta un Apollonio non tanto filosofo di professione, quanto maestro di
vìta, maestro itinerante, che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che
abbia scritto una Vita, ed Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di
tecniche mediche e incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le
sue parole, con i suoi atti " sublimi," presenta se stesso in
"stile sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i ter-
mini di una conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità
fatta di superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per
prevenire o curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto que- sto
aspetto sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che,
si dice, Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro
con Nerone e Domiziano, e, dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come
quella di un Demetrio cinico, e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti
diverse da quelle di Filostrato, con- tro la superstizione, contro la
religiosità ridotta a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era
stato, nella stessa epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno dell'insegnamento
di Seneca. Secondo Euse- bio, Apollonio di Tiana cosf scriveva in una sua opera
tramandata sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo che si osservi il culto
conveniente alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è concesso averla propizia
e benevola in qualsiasi circostanza, se al Dio che diciamo Primo e che è Uno e
separato da tutte le cose e che dobbiamo riconoscere superiore a tutti gli
aii.ri, non si immolino vittime, non si accendano lampade, non si consacri
alcuna delle cose sensibili. Dio non ha bisogno di alcuna .cosa... Con lui
adopera solo la parola migliore, cioè quella che non esce dalle labbra, e da
lui, che è il migliore degli esseri, invoca i beni mediante ciò che in noi v'è
di migliore: l'intelletto, che non ha bisogno di nessun organo... (Eusebio,
Praep. evan., IV, 13). 311 E
in una lettera, che, tra le molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si
legge: Se gli dèi non hanno bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i
loro favori? Credo si debba avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini,
per quanto è possibile, secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi,
ma in situazioni simili, Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il
nuovo Pitagora) potevano "benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che
piu tardi, quando la figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV
secolo, !erode Sossiano di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella
sua Vita di Apoll~nio, aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era
possibile fare l'encomio della tradizione che aveva costruito la figura di
Apollonio, e come accanto all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di
Apollonio (il "Cristo pagano"), l'uno e l'altro vicini nelle stesse
intenzioni puri- ficatorie popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera
Contro i Cristiani, ad opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo,
soste- nendo che Apollonio rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i
cristiani, potevano tentare di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un
epistolario tra lui e San Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu
detto ch'era cristiano. 4. Lo Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo
Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto Interessantissima è la narrazione, da parte di
Filostrato, dell'am- biente e dell'atmosfera politica, della corruzione morale
e religiosa, in Roma, al tempo di Nerone, quando, si dice, vi fu anche
Apollonia (libro IV, 35-47). D~ questa narrazione viene fuori un Apollonia
moderatore di co- stumi, che propone se stesso quale esempio di vita misurata e
saggia, simile alla figura e all'atteggiamento di Demetrio, quale risulta anche
da Seneca. E ne viene fuori pure una delineazione della "filosofia"
intesa come riflessione morale, come avviamento a restituire l'uomo a se stesso,
alla propria dignità e libertà, alla propria razionalità, cJoè al divino, in
opposizione alla corruzione imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento
dell'imperatore. Entro questi termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la
paura che l'imperatore e i suoi accoliti sentivano nei confronti della
"filosofia": un controllo coraggioso del loro ope- 312
rato, un'azione seducente sul Senato da un lato e sul popolo dall'altro
lato, e quindi un'attività antipolitica, antistatale, antireligiosa. A parte
Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime della poli- tica imperiale, e
alla preoccupazione da parte del governo romano nei confronti di certe prese di
posizione, ritenute, a torto o a ragione, frutto di tesi filosofiche
interpretate o come magico-demoniache e distruggitrici dei culti religiosi
correnti, o, nel richiamo, particolar- mente da parte stoica, all'antico
concetto della res-publica romana in senso scipionico-ciceroniano, come
estremamente pericolose per la isti- tuzione imperiale, a carattere assolutistico-personale.
Entro questi ter- mini, in una ancor forte oscillazione sul concetto d'impero,
al suo fondamento giuridico, e al fondamento giuridico-istituzionale del po-
tere - se l'imperatore debba essere tale per discendenza o per elezione, se il
potere sia sempre del Senato e del Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se
l'Augusto è egli lo Stato, il re divino in senso orien- tale - si vede bene lo
scontro tra il lento e faticoso costituirsi della istituzione imperiale e, di
volta in volta, anche a seconda dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il
Senato, certe nette prese di posizione, rappresentate da certe concezioni, o
cinico-popolari o stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese
indicare maghi e indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche
indicare coloro che per un verso o per l'altro si opposero alla politica
imperiale, soprattutto con il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro
condotta; e questi, lo fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e
furono soprattutto personalità romane, uomini politici, gente di governo.
Ricordiamo qui, ancora una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a
morte da Nerone nel 67 d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea
Peto: Elvidio Prisco, questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56,
per il suo atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66;
rientrato in Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore
nel 70, fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di
nuovo esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non
vanno scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua
opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da
Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende
turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea
Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne
accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a
morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio
Celere, condannato a morte nel 69, da Vespa- siano. E cosf non è poco
indicativo che Vespasiano, dopo la condanna
313 di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i
filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a
Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere
Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché aveva
composto un elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e di
Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allonta- nando di nuovo da Roma
tutti i filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione, perché
aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali avvenimenti - ed
anche questo è indica- tivo - che il retore Dione di l>rusa (30-117), detto
Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi "peste
della città e dei governi," si converti alla filosofia, con particolar
propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il giovane
riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi, ammirandone il
coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in effetto, la funzione
assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d.C., particolarmente a Roma e
nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di Nerone a quello di
Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta a fondazione di
una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la pitagorica, la
cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o l'altra entro
l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole e tradizioni
precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad Apollonio, da
Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla benevolenza,
l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era divenuta la vita
politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo ricordo di Socrate (si
veda,' ad esempio, Seneca, De tranquilli- late animi, VI, 1-2). Entro questa
atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato l'insegnamento di Musonio
Rufo, tutto volto - sul piano di un gene- rico stoicismo di sfondo - a formare
l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa personalità e la problematica morale
di Epitteto. A tale proposito, per meglio intendere quella che fu una conce-
zione stoica di sfondo, merita il conto ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a
Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e amico di Musonio, maestro di Persio
Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si fece edi- tore delle Satire di lui,
e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca, nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone
nel 65), che, nella Farsalia, non poche volte rivela motivi stoici. Cornuto, insieme
a Musonio, fu esi- liato da Nerone nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di cultura,
che scrisse in greco e in latino opere letterarie, tra cui famose alcune sue
interpretazioni di Virgilio, insieme a un De figuris sententiarum e 314
a un De enuntiati011e vel de ortographia, e opere di retorica precetti-
stica, tra cui una dal titolo Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc(). Egli
scrisse anche un'opera contro le categorie di Aristotele e un Escurso di
teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv
7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di lui conservatasi. Nel suo complesso assai
prolissa, monotona e, certo, di non aÌto significato, l'Epidramè ha un suo
particolare valore come documento, da un lato, proprio nel suo essere un
manuale divulgativo e un com- pendio di opere precedenti sulle divinità del
pantheon greco - allego- ricamente interpretate entro i termini della teologia
fisica stoica, - della diffusione di quella che dicevamo la generica concezione
stoica di sfondo (certa terminologia cristallizzata è molto indicativa); dal-
l'altro lato, del modo in cui venivano recuperate le antiche divinità m
funzione della ratio physica stoica. Basti un esempio: Il cielo tutto intorno
avvolge la terra e il mare e tutto quel che si trova sulla terra e nel mare...
Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è l'Universo; anche l'Universo ha
un'anima che lo avvolge, e questa viene detta Zeus, soprattutto perché egli
vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi; per questo si dice anche che Zeus
su tutto regna, sf come si po- trebbe dire che pure in noi l'anima e la natura
ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7, ed. Lang). Da quel poco che
conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli soprattutto si volse
all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere, come cura per i
malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di una famiglia
equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque intorno al
30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito Rubellio
Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a togliersi la vita
per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66, fu, in seguito alla
congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo amico Cornuto, c
confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da Gaiba, visse
abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano, che pur
lo aveva risparmiato da una precedente espul- sione, avvenuta nel 71, Tito lo
richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu tardi del 102. Soprattutto
dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia lasciato alcuno scritto.
Del suo insegnamento orale restano appunti e frammenti: apoftegmi, brevi
trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo Gellio, Epitteto in Arriano,
Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si vedano ora raccolte da Hense, M:
Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da cui sono state tratte le
citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui, composto da un certo
Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo insegnamento orale, il
discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'inse- gnamento di Epitteto).
Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta, a quanto pare da
Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non resta alcuna
traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a Pancratide. 315 onesto (k.alol(agathos), la
cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e rispettoso di se stesso e
degli altri: "in realtà, pratica di virtuosità è la filosofia, e non
altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv bt~'t"')3euatç
xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed. Hense). Dedito al solo
insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente. Di lui possediamo
apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni: alcuni apoftegmi sono
riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole di Epitteto; altri,
insieme a vere lezioni, si tro- vano in Aulo Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La
fonte principale di tali citazioni - particolarmente lunghe quelle. riferite da
Stobeo - sembra sia uno scritto di un certo Lucio, fiorito sotto Adriano,
seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato le lezioni. Nessun
ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio, scritto da un certo
Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza dell'insegnamento di
Musonio Rufo sui con- temporanei, particolarmente su alcuni uomini della classe
superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di
Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro opposizione poli- tica,
come fu per Rubellio Plauto (Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea
Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto etico- sociale molto risenti lo
schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano
ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto
risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda
fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna),
misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco,
come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio
atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico
Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive
Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e
ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza,
solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di
espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo,
è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli
abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere
considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande
venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto,
una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande
purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e
coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correg- gerli... (I, 10). 316
Senza dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos
- esso sembra, comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale
dell'uomo per bene, per una società per bene, in un mondo piuttosto per male.
Musonio Rufo, cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini
(Bolsena), nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indo- mani della congiura di
Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola
delle Cicladi). Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché
fossero banditi Verginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i
giovani con l'elo- quenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann.,
XV, 71). La breve annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che
l'insegna- mento di Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare
ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha
da essere l'uomo, un rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato
nella delineazione di quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un
tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico
dello Stato, da opporre allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i
precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago
stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione della divina ragion
d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che sia in una necessaria
catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito alla purezza della
vita, all'amore reciproco, per- fino al rispetto di norme igieniche (in tal
senso vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità, all'astensione dalle carni
e cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo pitagorismo, o, per certa sua
rigidità, di ci- nismo), assumono un loro mordente e una loro portata di
rivolta, qua- lora si consideri l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per
i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia" è cultura e
consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle proprie
possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa attuare
pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser filosofo vuol
dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè
esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti abbiamo per natura,
cia- scuno per ciò che gli compete, la possibilità di essere virtuosi, il seme
della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo
è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale .~eme, che a tutti è ugalmente
comune, onde tutti hanno il dovere d'essere "filosofi," gli uomini
come le donne (III), i poveri come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII).
Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere del saggio, di fronte a chi,
preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una o dall'altra cosa, vive 317 nella passione, è disperso,
non è se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi
chiare le prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né
molte dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato,
l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante cui
ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che venne
poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo quello
di Ze- none di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che, entro i
termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che riflessa
- in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del realizzarsi
dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel risolvere il
rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha in sé un seme
di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a quella
necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema implicito in
una coerente posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi, di conseguenza,
il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il potere di agire,
se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale possibilità, rendendosene
consapevoli (e sarebbe già questa un'attività propria), consiste nell'accettare
lieta- mente l'ordine stesso del tutto, tutto ciò che avviene. La virtu (bene)
consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la ragione, il vizio (male) nell'esser
preso dalle cose, nel dare alle cose e ai sentimenti un valore unilaterale,
disordinato, nello sragionare, per cui tutte le cose sono indifferenti,
considerate dal punto prospettico della ragione, in rela- zione a ciò che nel
vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne deriverebbe perciò, entro i
termini del piu antico stoicismo, che ogni azione essendo positiva, la
differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo, ma nel come agiamo, o
meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol.: Zenone, Cleante,
Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce mediante la ragion
d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò, tutto è bene, o meglio
come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la natura; si ammetta
anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è passione, cioè è di
volta in volta preso da questa o da quella rappresentazione, che si accavallano
in lui, trascinandolo indifferentemente, in opposte dire- zioni, per cui l'uomo
è incoerente, e non da lui dipendono le cose, e che dall'altro lato, invece, ha
la capacità di coordinare quelle passioni, di non essere piu preso da questa o
da quella, ma di costituire sé in unità e coerenza, valutando le stesse
rappresentazioni in un ordine per cui ciascuna nel discorso si colloca dove è
bene che sia; ne segue che non incoerentemente si può concludere che la libertà
umana con- siste, appunto, in questa sperimentata capacità di vivere secondo
ra- 318 gione, o meglio in questa esperienza di una capacità di
scelta tra l'essere preso da questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur
sempre entro i medesimi dati, rendendosi conto, attraverso il discorso e un
retto ragionare, delle stesse passioni, che, in quanto comprese, ricollo- cate
nel loro giusto posto, cessano di essere passioni, in un'unica vita secondo
ragione. In tale direzione sembra si debba interpretare l'ap- pello alla
r~gione e al vivere filosoficamente da parte di Musonio, e, soprattutto, un
frammento - va detto che è un testo ricavato da un'opera Sull'amicizia di
Epitteto, andata perduta, - in cui Musonio sostiene che bisogna saper
distinguere tra ciò che è in potere nostro (~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è
(oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. XXXVIII, Hense). In nostro potere è il sapere usare le
rappresentazioni, da cui la giusta valutazione delle cose, e perciò la
liberazione dalle passioni, dalla vita dispersa, dall'amore unilaterale per
questa o per quella cosa, che, in questo senso, rimanendo incomprese e, dunque,
altre da noi, restano non in nostro potere. Sembra cosf chiaro perché per
Musonio, onori cariche e cosf via non siano beni, perché non siano beni i piaceri
immediati, tutto ciò che è dovuto alla vita dispersa, esteriorizzata, ma che
l'unico bene in cui consiste l'unica libertà possibile, e perciò l'unica virtu
e felicità, stia in ciò che dipende da noi, cioè nel saper pensare, nel vivere
secondo ragione, nel nostro modo di atteggiarsi nei con- fronti della realtà,
nel cui atteggiamento consiste l'esperienza della volontà come-intenzione. Se
in tale interiorizzazione della realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità
di valutare rettamente cose e avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere
filosoficamente, virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la
razionalità, quel seme di virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del
saggio, dell'uomo. In questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in
questo sentire l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia
degli adulti, che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini,
sono come ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di
Roma tra Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque
amma- lati gravi, per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli
ad essere razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per
l'uomo in quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sotto- linea
l'importanza che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che
come cose e strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come
"uomini," e·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma
anche un valore (XIIIh-XIV), da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli
non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una
volta). Se tali debbono essere gli uo-
319 mini, se non v'è società senza reciproco rispetto, fondato
sul ricono- scimento di una.possibile comune razionalità, tanto piu dovrà
essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo dello
Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p), sosteneva Musonio, come
appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re debbono studiare
filo- sofia (VIII). Per Musonio non si tratta tanto di delineare quale debba
essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui tale questione è
trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il sovrano giusto è il
sovrano che sia "filosofo," cioè .virtuoso sf come tutti gli altri
uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di sapere reggere bene le
nazioni o le città e d'essere degno di governare gli uomini, chi, chiediamo,
piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi piu di lui sarebbe
degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo, sarà saggio,
misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto e di ciò che
conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure fatiche"
(VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che anche durante l'esilio
nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento rivolto a tutti
coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano andati a trovarlo,
fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli effimeri governi di Gaiba,
Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano (70-79), nel tentativo di
riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo simile a quello di Augusto.
Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto certe posizioni stoiche, di
cui sembra che par- ticolarmente apprezzasse quella di Musonio, in un secondo
momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco, che pur sempre vedeva nel-
l'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un governo personale, parve
ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche, Vespasiano, ritenendo estrema-
mente pericolosi gl'insegnamenti stoici per l'unità dell'Impero, nel 71 bandf
tutti i filosofi tranne Musonio, che, tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto
Tito (79-81), che riprese la politica pacificatrice del padre, cercando di dare
all'Impero anche un fondamento ideologico, Musonio venne richiamato a Roma.
Altre notizie di lui non si hanno. Proba- bilmente morf prima del bando dei
filosofi, ordinato nel 94 dal fratello e successore di Tito, Domiziano (81-96),
che deCisamente si volse ad un ~ccentramento di tutto il potere nelle proprie
mani. Tra i pensatori e i maestri che nel 94 furono costretti ad abbandonare
Roma, vi fu il piu intelligente e solido discepolo di Musonio, Epitteto.., il
Diflicile è precisare le date della vita di Epitteto. Se nella Suda si legge
che Epitteto visse lino all'avvento di Marco Aurelio (161 d.C.), la aonologia
del suo editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un po' piu
antica. Nato nel 320 Egli non si spostò molto né dalla concezione
né dal tipo di insegna- mento di Musonio. Epitteto, come Musonio, non pretese
mai di dare ).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di
volta in volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da
chi si recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si intratteneva in
discussioni brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi,
si ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle
estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio - approfonditi nelle loro
varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto
si richiama. Specchio fedele delle con- versazioni di Epitteto, di questo suo
modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un
certo ragionamento, at- traverso il dialogo e la discussione, in situazioni
precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il
complesso degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano
di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di
volta in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso
Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio :
Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia
di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti.
Ma tutto quello che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse
possibile con le stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a
ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi,
com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per
bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in
futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà
e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im- 50 circa, a
Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane
fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor
prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di
ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di
Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre
Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai
libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma
su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi.
Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto,
fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le
sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da
Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi
pubblicati da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di
libri andati sotto il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di
summa delle massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o
Manuale. Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco
Aurelio (3), di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatribe
sulle altre possibili raccolt e dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo.
] portanza se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno,
se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che,
anche parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi
ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi
(>.Oyo~), otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei
filo- sofi: altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che, quando
Epitteto li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti ch'egli
voleva fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne sono io
la causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale titolo abbia
dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due termini:
Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato all'opera il
titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi che parlano
di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes (dialécseis), di
Hypam- némata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr. Aulo Gd- lio, l,
2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in Comm. Enchiridion,
ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl, test. III;
Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano avrebbe
scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie
(conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (dia- tribe) quale è
giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto
libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie
di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi
che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento
di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto
dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto,
dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o
do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri
titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni
diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter
essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni
e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli.
"Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa -
già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II,
Londra, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i
indicas- sero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi
assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli
antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia
stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano
322 già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la
pub- blicazione... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij,
ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono
spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se
mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri
delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo
dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto
indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero
di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo
Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di
discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare
i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte, 406a),
si allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico,
lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica, .di
matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare
(in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad
ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in
senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la
predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e
concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di
insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In
altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il luogo
di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche pensatore dal
quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di dirigere il
dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero rapporto,
anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa concezione, ma
non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una precisa dottrina.
Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli insegnamenti di
Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è accidentale,
estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi, ritornano
gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che dipende e
quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il titolo che
ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che, in effetto,
Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto insegnamento,
di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui l'uomo forma se
stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper pensare
significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto descrizione della
realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è normativa, ma
formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà contenuti, ma si
richiama al vivere secondo ragione, mediante
323 certe tecniche retoriche che 5<: da un lato si
rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si determinano in una dis'cussione
che finge il dibat- tito giudiziario o conflitti di idee tra personaggi di un
dramma (il che era proprio della diatriba popolare). Quando nel 94, costretto
ad allontanarsi da Roma per decreto di Domiziano, che bandiva tutti i filosofi,
matematici astrologi, giunse a Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro,
fondata da Augusto in ricordo della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una
nuova scuola, divenuta presto un centro di discussioni ("diatriba"),
dove moltissimi si recavano per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le
Diatribe e il Manuale rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epit-
teto aveva quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della ma- turità,
portava con sé sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano
("non è troppo sicura l'occupazione del filosofo, special- mente ora, a
Roma" : Diatribe, Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento
dell'insegnamento del suo maestro Musonio Rufo. Epit- teto era nato intorno al
50, ad Jerapoli, la città santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia
meridionale. Schiavo - c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto,
indicasse la sua condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo
un'antica iscrizione (in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu
condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone,
che faceva parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a
suicidarsi (Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle
diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito.
Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a
tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene, Gregorio Nazianzeno) che
giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà,"
avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: " T e
l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se
non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e
l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico
è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per
delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu
(cfr. Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto
meno pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai
reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza
del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato
della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va
veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba
spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto,
non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con-
creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto,
sul rapporto necessità-libertà, realtà .che è quella che è, ineso- rabile, da
cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda,
indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei
nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo
di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere
dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda
dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si
è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio
queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse
è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad
Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo.
Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte
della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a
distanza di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero,
ognuno per sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti : cosf fortemente
egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli occhi di
ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non
si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~, III, 23,
29-30). E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua medita-
zione, tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine sul
retto pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di
Crisippo (il problema del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano
all'altro aspetto del problema logico e del problema della li- bertà (essere se
stesso), impostato dai cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di
Aristone non va dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le
Diatrib~ per rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di
Cizio e Crisippo, che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna
affatto a Boeto, a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e
Antipatro, mentre non poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate,
Antistene, Platone socratico, Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle
discussioni, ai con- sigli, ai dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta
in volta da singole domande, da singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~),
Epitteto svolgesse nella sua scuola, a Nicopoli, vere e proprie
"lezioni," ch'egli cioè leggesse e commentasse testi, di Zenone e
particolarmente di Cri- sippo (dice il BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers
Epicta, p. 2, che il •libro sacro," heiliger Kod~:c, di Epitteto era
l'opera di Crisippo, 325
mentre il Bruns, De schola Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea
contro la tesi dello Zahn, Der Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum
Christentum, p. 37, secondo cui Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e
dialoghi, che i termini OCVotyLyv6laxe:LV e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu
volte usati nelle Diatribe per indicare un modo di insegnamento, non sono
sinonimi di 3~a3otL, ma significano, mantenendo il loro valore originario, la lezione,
la lettura o prelezione e l'esplicazione dei testi). Sulla linea, dunque, dello
soicismo cinico piu che su quella dello soicismo in chiave platonica, Epitteto
svolse il suo insegnamento in un impegno essenzialmente educativo.
Probabilmente sviluppo di un motivo proprio di Musonio, è l'insi- stere di
Epitteto sull'educazione come formazione dell'uomo, me- diante l'educazione a
sapere correttamente pensare, che lo riporta, appunto, a Zenone di Cizio e a
Crisippo. Tutti gli uomini, in quanto animali razionali, hanno una comune
ragione, hanno le stesse guise, gli stessi modi, che, formalmente, sono
condizioni del comune pen- sare. Tali modi, tali guise o principi, su cui si
fondano i discorsi, tali prenozioni {7tpoÀ~IjieLç, prolép,seis) o idee prime,
proprie di tutti, e su cui tutti siamo d'accordo, e sulle quali non siamo in
contraddizione, sono, in quanto non contraddittorie, rappresentazioni sempre
vere. La contraddizione, il falso, e perciò il disaccordo, nascono
nell'applica- zione delle "prenozioni" ai casi particolari. Le
prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione non con- traddice a
prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è utile, e anche
desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e seguirlo? Chi di
noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora, quando sorge la
contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi particolari: quando uno
dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro "No, ma è
dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra loro. Certo
Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che la santid
va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla questione se
è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione filosofica con-
siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai casi particolari
in maniera congruente a natura e, per il resto, nel distinguere tra le cose,
quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi (Diatr. l, 22,
1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a sé (ogni oggetto si
determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò, nel suo esser
detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che l'un nome non
evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la contraddizione,
l'equivoco e il paralogismo sofistico), rap- 326 presentazioni
anche le nozioni morali, il vero e il falso stanno nel discorso, cioè nel
giudizio. D'accordo, sotto questo aspetto, con i cinici (Antistene) e con gli
scettici, ma entro i termini della soluzione della logica di Zenone di Cizio
(che permette la predicazione: logica pro- posizionate), Epitteto può sostenere
che la "ragione" è un "sistema di rappresentazioni diverse"
(Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo," aggiunge Epitteto, "compito
del filosofo, il piu importante e il primo, è sag- giare le rappresentazioni e
distinguerle e nessuna accogliere che non sia stata saggiata" (Diatr., l,
20, 7). "Cominciamo con la logica allo stesso modo che, per misurare il
grano, cominciamo con l'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo
dapprima che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la
bilancia, come potremo piu misurare o pesare qualcosa? E nel nostro caso, se
non conosciamo con esattezza e precisione il criterio delle altre cose,
criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere qualcuna con
esattezza e precisione? Com'è possibile? ... Compito della logica è discernere
ed esaminare il resto, e, si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo. Chi
l'afferma? Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E Antistene non l'afferma? Chi ha
scritto che l'osservazione dei termini è l'inizio dell'educazione filosofica?
[cfr. Diogene L., VI, 3] E Socrate non l'afferma? Di chi scrive
Senofonte [Mem., IV, 6, l] che incominciava dall'osservazione dei termini,
quale fosse il significato di ognuno?" (Diatr., l, 17, 6-12).
Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è chi vien preso, di
volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi non sa
connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiet- tivarle
in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su questa
linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli scettici,
i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragio- namento (tutti,
sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro,
oò3~ (LWOV: Il, 11, 15), ricorrono ad un ragionamento che può convincere della
loro tesi in quanto non viene meno alle co- muni condizioni che rendono verace
un ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è
felice qualora viva non so- cialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si
servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il discorso stesso)
(cfr. Il, 20). "Le proposizioni vere ed evidenti," sottolinea
Epitteto, "le adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono:
anzi la prova piu grande dell'evidenza di un'affermazione .è, si può dire, il
fatto che sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la
contraddice" (Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono delle
condizioni comuni e neces- sarie (prenoziom) che permettono il discorso, il
discorso verace e quel discorso che, trovando il suo contenuto nelle
rappresental:ioni, connette l'una all'altra le rappresentazioni in un sistema,
ove le une e le altre rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione
con le condizioni stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare
l'educazione filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le
prenozioni, dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni
(xpljar.<; cpcxvrcxat&v ) , mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e
dalla unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle
cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata
rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette
.in grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma
anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne
altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini
(Diatr., I, 6, 10). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la
differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che
mentre l'ani- male irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo
spin- gono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno
quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6,
13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di
rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire
razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare,
bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto,
collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo
quello che ciascuna vale. E se l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé
in quanto vive secondo le sue rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé,
vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni,
costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e
gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una
che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella
ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella
com- prensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di
rap- presentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore
di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato
queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esa-
minare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per
ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare
tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene" : Diatr.,
II, 11, 24.) 3Z8 Certo, il modo come si costituiscono le
rappresentazioni, com'esse vengono sussunte dalle "prenozioni," se le
prenozioni, sia pur for- malmente, siano vere e proprie idee innate, quali
siano i modi con cui si articolano correttamente tra di loro le
rappresentazioni, tutto questo è appena accennato da Epitteto. Probabilmente,
per quel che sappiamo, tali questioni egli le doveva approfondire ed esporre
nelle "lezioni," e poiché, per sua stessa testimonianza, sappiamo che
leggeva testi di Zenone e di Crisippo, diremmo che tecnicamente Epitteto doveva
esporre la logica entro i termini di Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte
ciò che piu interessava Epitteto era, mediante la logica, avviare gli altri ad
essere uomini, a non vivere unilateralmente e pas- sionalmente. E questo fu
soprattutto il compito delle diatribe. E cos( dalle diatribe non riusciamo a
sapere quale fosse la concezione epitte- tiana dell'Universo, se non ch'egli
analogicamente, tenendo presente il fatto che la ragione è attività
unificatrice che costituisce il tutto in un unico discorso, riprendendo
l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui Zenone e Crisippo - sosteneva che
il tutto è come un unico di- scorso, retto da un'unica ragione, s( come fosse
una "città sola." Questo mondo è una città sola, come pure la
sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la necessità di un movimento
periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi alle altre: queste si
disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso posto, quelle si
muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo di dèi, poi di
uomini intima- mente uniti per natura tra loro: e bisogna che alcuni rimangano
insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni godano di chi rimane con
essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va (Diatr., III, 24, 9-11).
Tutte le cose formano un'unità... (Diatr., I, 14, 2). Uomo sono, parte del
tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come
l'ora, scomparire (Diatr., II, 5, 13). In questo senso Epitteto è molto
preciso: uno l'universo nella sua totalità, una la ragion d'essere del tutto e
la sua sostanza, il cangia- mento, il nascere e il morire, avvengono entro la
stessa unità del tutto. Mietere le spighe significa la distruzione delle
spighe, non dell'Universo, si come il cader delle foglie, o il seccarsi del
fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da
uno stato precedente in uno diverso: non distruzione ma ordinata disposizione e
amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento,
tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò che è al presente,
verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. "Non sarò piu
allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il
mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il
mondo ebbe bi- 329 sogno
(Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove? Non in luoghi terrificanti, ma
là donde sei venuto, verso amici e parenti, verso gli dementi naturali. Quanto
fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto aria in
aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito, non
Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di potenze divine. E chi è in grado
di riflettere su ciò e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto
dalla terra e dal mare non è abbandonato piu di quaDJ:o sia senza aiuto...
(Diatr., III, 13, 14-16). Dalla constatazione che la ragione è attività
unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti, Epittéto passa a poter
sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si titma la realtà è attività
unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto, tutto avviene come deve
avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso, provvidenzialmente ("di ogni cosa
che accade nel mondo è facile lodare la provvidenza, purché si abbiano queste
due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli av- venimenti e
il sentimento della riconoscenza ... Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo
soliti riconoscere che sono indubbiamente opere di un artista, e non costruite
a caso e gli oggetti visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano( ... E
la particolare struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere
semplicemente le impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare
una scelta tra esse ... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?":
Diatr., l, 6, 7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire,
nella sua sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e
una sua ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità
(ancora una volta intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del
tutto) con la ragione, dandone la stessa definizione: quale è la natura di Dio?
è intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca
l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3). Ora, se la ragione era stata
definita "sistema di rappresentazioni diverse," e se le
rappresentazioni sono impressioni che in quanto com- prese si costituiscono
come abbietti, non in una semplice recezione delle impronte, ma mediante l'intelletto
in una scelta, sottrazione, somma, composizione di esse, Dio, in quanto ragione
e intelligenza, si costituisce come "sistema di oggetti diversi," e
perciò come attività unificatrice che sceglie, somma, sottrae, compone, per cui
tutto deriva da lui, tutto in lui ha la sua funzione, e tanto piu l'uomo che
scopre sé come ragione, come capacità non solo di usare le rappresentazioni, ma
di saperle usare ("ti abbiamo dato una parte di noi," fa dire
Epitteto a Zeus, "questa facoltà impulsiva e repulsiva, desiderativa e
avversativa, in una parola la facoltà che sa usare le rappresentazioni ... 330
Solo quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto,
gli dèi l'hanno fatto dipendere da noi, e, cioè, il retto uso delle
rappresenta- zioni:. le altre cose non le hanno fatte dipendere da noi":
Diatr., l, l, 12 e 6-8). Qui, sembra, la chiave per intendere, relativamente
all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non dipende e su ciò
che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e Manuale, 1), dal-
l'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla libertà; sul non
comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni, asistemati- camente
(irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non in- tendendo, non
sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare correttamente le
prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà, liberazione
dall'errore, accantonamento di ciò che non di- pende da noi, avvicinamento a
Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno resta quello
che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto •ragione," pur rimanendo
quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o schiavo:
"quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno
fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle rappresentazioni"
(Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo deve terminare là dove
termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina nella teoria e
nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla natura" (Diatr., 1;
6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila su di esse. Non è poco
ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della lealtà, della tranquillità,
d'una condizione d'animo scevra da passioni, da dolori, da timori, da
turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e amico di Dio, s{ che gli
obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto devo acquistare, non il
corpo, non gli averi, non le cariche, non la reputazione, in una parola,
niente. E Dio, poi, neppure vuole che io l'acquisti. Se voleva, quei beni li
avrebbe fatti per me: ora, invece, non li ha fatti... Custodisci il bene che è
tuo in ogni occasione: il bene di tutto il resto, secondo quanto t'è concesso,
nei limiti voluti dalla ragione, e di questo solo contèntati. Se no, sarai
infelice, di- sgraziato, soggetto a impedimenti e a ostacoli... (Diatr., IV, 3,
7-12). Epitteto prende le mosse da una constatazione: se da un lato è vero che
l'uomo è un complesso di rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero
che l'uomo ragionando scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo
stesso svolgersi, il criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà
raziocinante, prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la
natura, la potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, -
e scopre sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue
stesse rappresentazioni; finché
331 è solo un insieme disordinato di
rappresentazioni-impressioni, l'uomo è passivo e dominato; allorché,
ragionando, ordina e sistema è egli a dominare, rendendosi conto del valore di
ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo posto, che alcune cose sono in
nostro dominio e altre no. Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro,
altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il movimento dell'animo,
l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose che sono nostri
propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i
magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le cose poste in
nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né
attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere
impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per
libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono
altrui, t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere
affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna
apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a
dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi
togli· ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e
massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero
a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non
dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non
addottrinato nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli
suoi e propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato
non darla né a se stesso né agli altri (Manuale, IV). Evidente è, per Epitteto,
che tale duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e
dominante, che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le
tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati
dagli oggetti esterni? Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è
un'esperienza- alla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no,
ad un'opzione dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto
ch'egli è ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che
non è una deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza
dell'insegnamento della logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro
coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri
termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra
l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura)
o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse
(secondo natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in
quanto discorso è or- dine, è scelta, o, se vogliamo, volontà
(7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione
del tutto, Dio è volontà in 332 quanto ragione, cwe m quanto
giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come
talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio
che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (pro- airest) che forza la
proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua
o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare
a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve... Se
vuoi sei libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto
accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28).
Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è
che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio
corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché
proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu
utile che salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è
ingannata e non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può
seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è
sviata, l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene
["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza
del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un
certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono,
allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale
realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non
dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti,
fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29,
1-3). La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né li-
bertà in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto
giudizio e obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il
fatto che l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre
e si giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come
in atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in
se stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana,
aspetto o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui
mentre tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non
il rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio
possibile quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la
loro natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l,
17), che, distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e
unilaterali, gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso
(il pensare che è ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non
è in suo possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser
nato maschio o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o
diritto, in questo secolo o in altro, ricco o povero e cos( via). E allora,
quelle ste~se cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re-
stano rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni,
per cui le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le
intendiamo divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che
sono, né beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato,
riallacciandosi a Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto
"cinico" dello "stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra
parte, tenuta presente l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza,
in quest'epoca, tra cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe
sociale, in una distinzione di "tunica" piu che di modo di
atteggiarsi: "Stoica dogmata ... a Cynicis tunica distantia" (Satire,
XIII, 121-122); e va tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle
Diatribe, in cui si delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio,
del cinico (dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che
riconosce che la sua unica posizic;>ne è appunto quella del
"saggio"), ma non interpretato secondo il clichl del cinico giullare,
di quelle molte figurine di filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione
Crisostomo ("dei cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città; ... ai
crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e
traviano schiavi e marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande
varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun
bene, ma gran male• : Dione, Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico"
che ha presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta
osservanza, l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual certa. posizione
sociale - come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se
stesso, ché altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo
modo esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono
beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai
poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua
parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la·sua parte,- che
tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino,
comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto -
uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non
propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale
prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né
condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come
Epitteto potesse dire. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di
ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso,
incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io
amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo
alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai
teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel
fanciullino, tu non abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in
maniera evi- dente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si
adirerà con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà .nessuno, non
bià- simerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi
'vuole divenire cinico non basta si metta la "divisa" del cinico
(mantello corto, bisaccia e mazza), ma deve "purificare la parte ege-
monica dell'anima e disporre una tale linea di condotta: ora la ma- teria con
cui ho da fare è la mia mente, come il falegname ha il legno, come il calzolaio
ha il cuoio: mio compito è il retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo
non ha nessun rapporto con me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando
vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono
cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la
luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo
raggiunto tale perfezione, il vero cinico non se ne può con- tentare, ma deve
sapere d'essere stato inviato da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare
agli uomini, che, in rapporto al bene e al male si ingannano e cercano
l'essenza del bene e del male là dove non è, e non badano dove è ... In realtà
il cinico è esploratore di cosa è amico agli uomini, di cosa nemico, e, quindi,
condotta un'esplorazione accurata, deve venire ad annunciare la veri~, senza
essere sbigottito dalla paura ... Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi
levare in piedi e, salito sulla scena tragica, pronunciare le parole di Socrate
[Platone, Clitofonte, 407 a-h]: 'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?';
che fate, disgraziati? V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate
per un'altra strada dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che
rasserena e rende felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che
ve lo mostra. Perché cercarlo nelle cose esterne? ... Dov'è che siamo liberi?
Nel giudizio ... Coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate
qui il bene. E come è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è
nudo, senza casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco,
Dio vi ha mandato uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi:
sono senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la
terra: non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e
il 335 cielo e un solo mantelletto.
Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza timori? Non sono
libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei desideri, quando cadere
nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo, quando ho rimproverato
qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come tratto quelli che vi
mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden- domi, non ritiene di
vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne di un cinico, eccone
il carattere, eccone il proposito" (Diatr., III, 22, 19-49). Se la
delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura
ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno,
·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti,
attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva,
ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico
di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura
stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto,
quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresenta-
zioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e
ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine
"libero" e il termine "libertà" sono usati ben 130 volte:
cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa determinazione della
libertà come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello
ad esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge
che Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che
procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti
·di questa ma- niera, è in relazione al dovere": Diatr., I, 7, 1), da un
lato la raziona- lità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di
rappresenta- zioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende
dal di dentro, si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve
essere, tutto è parte in funzione di un fine che è la stessa razio- nalità (la
divinità). Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come
razionalità, e, perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto
della divinità, può scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e
passioni, indiscriminatamente, e il vivere se- condo la sua stessa natura (che
è, dunque, un dovere), cioè razional- mente, ne deriva la doppia considerazione
epittetiana della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a compenetrarsi
in modo convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti, e tra i
primi, e che Dio ~ padre degli uomini e degli dèi, credo che nulla di ignobile
o di meschino sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della generazione
sono mescolati insieme questi due elementi, il corpo comune con gli animali, la
ragione e conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella parentela
infelice e mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono, infine? Un
misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo miserabile hai un
elemento superiore al miserabile corpo. Perché, dunque, allontanando tal cosa
ti at- tacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6). Non sai che piccola parte sei
rispetto al tutto? Questo secondo il corpo; mentre secondo la ragione non sei
peg- giore né migliore degli dèi: che la grandezza della ragione non si misura
in lunghezza né in profondità, ma in pensieri. Non vuoi, dunque, dove sei
uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr., I, 12, 26). Guarda chi sei.
Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non possiede niente piu impor- tante
della proairesi, ma a lei subordina il resto, e tale volontà possiede libera da
schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque, da chi ti distingui per la
ragione.·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui dalle pecore. Non
solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo mondo, non delle ultime ma
delle prime, perché puoi comprendere il governo divino e riflettere sulle
conseguenze. Quale allora è la funzione del cittadino? Di non avere nessun
interesse personale, di non prendere decisioni su nessuna cosa quasi fosse
isolato, bensf di agire come la mano o il piede, che se ragionassero e com-
prendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si muoverebbero o desi-
dererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben dicono i filosofi che
se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe alle malattie, alla
morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto questo gli è
stato asse- gnato dall'ordinamento universale e che è piu importante il tutto
della parte, la città del cittadino... (Diatr., II, 10, 1-5). Di fatto l'uomo,
come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che è, né buono né cattivo;
ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo, nel giudizio divino, riceve
una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo, è apparentemente un'isola
abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle passioni, per cui tutto è
vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile (in tale rappresentazione
della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è senza dubbio quello
cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni speranza, la capacità
di sperare che le cose possano essere diverse da quello che sono, libere; mondo
senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per altro verso, se
attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma un'esperienza
viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la capacità di
giudicare, cioè di scegliere, ordi- nando e obbiettivando, cogliendo ogni
rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera dalle passioni,
dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello ch'essa non è. Sotto
quest'altra prospettiva, quella stessa realtà che fino a che resta estranea,
incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura in una realtà
buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico amore per l'unità
di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle rappresentazioni" che
condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da questa o da quella
rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la salute, il corpo,
per la vita dei nostri cari e degli altri uomini, dimenticando ch'essi sono
mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e cosf via), che, appunto, per
ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà, per Epitteto non si tratta
tanto di due modi di essere, ma di due modi prospettici di considerare la
stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e considerando le stesse cose siamo
determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti (irrazionalità); nel secondo caso,
pur facendo e considerando le stesse cose, siamo, non subiamo. Nel primo caso
non ci solleviamo dalla vita di cose tra cose, nel secondo caso, obbiettando e
scegliendo, giudicando, ci solleviamo alla vita razionale, alla vita divina. Da
un lato tutto è necessario, dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario
abbiamo la possibilità (e in questa possibilità consiste la libertà) di
valutare quella. stessa necessità, per cui non la subiamo, ma riconoscendola la
vogliamo. "Tu non devi cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma
volere che vadano cosf come fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se
vuoi, sei libero; se vuoi non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto
accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si
capisce allora come, sotto que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere,
libera accettazione di una realtà che è quella che è, voluta dalla stessa
razionalità in cui consiste la divinità (sulla libertà in particolare si
confronti la piu lunga delle diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono
agitati e turbati non dalle cose, ma dalle .opinioni che hanno delle cose
(Man., IV). - L'essere zoppo s{ è impaccio della gamba, ma non della
disposizione dell'animo (Man., IX).- Quando tu vedi qualcuno che pianga o per
la morte di alcun suo congiunto o per la lontananza di un figliuolo o perdita
della roba, guarda che l'apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che
questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu
distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto,
non dall'accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro,
ma dal concetto ch'egli ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che
rampogna o percuote, non offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi
cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montare la collera contro uno,
pensa che la tua propria immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non
altri (Man., XX). Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att.,
XVII, 19). 338 Si chiarisce cosi la dottrina epittetiana della
"apparenza" (fantasia) (cfr. Man., 1), mediante cui Epitteto
sottolinea cosa significhi la distin- zione tra ciò che dipende e ciò che non
dipende da noi. In altri ter- mini, la nostra lnancanza di libertà dipende da
una comprensione inadeguata delle cose, da ricondursi ad una nostra
comprensione imprecisa. Possiamo avere una cognizione delle cose che è una
cognizione fantastica, apparente. Se, per esempio, si stabilisce un errato
rapporto causale, la nostra stessa attività, tesa a ottenere certe risonanze,
in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà in maniera errata e infelice
(cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un errore che è un errore pro-
spettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione tra esteriorità (ciò che
non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e cosi via) consiste nel
non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene Epitteto, il vero sta nel
giudizio, in una scelta per cui tutto si costi- tuisce in un sistema di
rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di tutto è nel giudizio, e
quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, esten- sivamente e per analogia,
in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi, sta nell'incomprensione, in
qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato (irrazionale) e che,
dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due nostri modi diversi
di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose comprese, proprio in
quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto perché comprese, ci ren-
diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o quel corpo, l'essere
bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora, compren- dendo, sappiamo
anche quale, nella grande commedia del tutto il cui supremo regista è Dio, è la
nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene la quale, tutti, ciascuno
per ciò che gli compete (ed in questo consiste la nostra libertà: cfr. Diatr.,
IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o donne, grandi o piccoli uomini,
socraticamente, rendendoci con ciò davvero utili agli altri e a sé. E cosi
quanto piu si ama se stessi, cioè la razionalità, tanto piu si amano gli altri,
si vuole sé e gli altri come fini. Sovvengati che tu non sei qui altro che
attore di un dramma, il quale sarà breve o lungo, secondo la volontà del poeta.
E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un medico, studia di
rappresentarla acconcia- mente. Il simile se ti è assegnata la persona di uno
zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta
solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata:
lo eleggerla si appartiene ad un altro (Man., XVII). Se il pilota ti chiama,
corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa (Man.,
VII). 339 Questi i motivi
fondamentali del pensiero di Epitteto (e questi sono i motivi che in breve, in
forma gnomica, Arriano ha riepilogato e sistemato nel Manuale, riprendendoli
dall'opera maggiore, le Dia- tribe). Di qui, d'altra parte, l'importanza data
da Epitteto all'insegna- mento, inteso come insegnamento a· saper ragionare,
mediante cui liberare gli uomini dal loro vivere da schiavi, delineando,
infine, un vero e proprio processo attraverso il quale, dallo studio della
logica e dalla scoperta del modo di funzionare della ragione, si giunga con
essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e dominio delle passioni in
cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr. Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2;
12; 26, 14; IV, 10, 13; l, 12, 24 sgg.). Innanzi tutto, per Epitteto, la
funzione della ragione è di calcolare i nostr.i desideri, s( da distinguere
quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da noi, da quelli che ci
attirano in quanto abbiamo calco- lato male, scambiando ciò che non dipende da
noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi ultimi, compresi, cessano di
essere desideri, divenendo i loro oggetti indifferenti, ché nessuna cosa la
quale non dipenda da noi, che sia, cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de-
siderata). In secondo luogo, obbiettivati i desideri, che consistono nel-
l'esigenza di realizzare ciò che dipende da noi, la ragione, mediante
l'educazione filosofica, ordinando e scegliendo, determina quale delle nostre
inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente
o meno; indicando di volta in volta ciò che conviene, quali sono perciò i
nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo come agire, come realizzare bene
la nostra parte, sia nei confronti degli altri che di se stessi ("da uomo
pio, da figlio, da fratello, da padre, da citta- dino": Diatr., III, 2,
4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà capace, dominati i desideri o le
avversioni, le inclinazioni o le repulsioni, indi- rizzando s{ che ciascuno
giuochi come deve la propria parte, di vedere sé come sistema di
"rappresentazioni," in una comprensione del tutto, che è visione
(teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste la piu
profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore storico
di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui, che non si
trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici: Epictet u. die
Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non dovremmo, mèntre
vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio? "Grande è Dio,
percM ci ha largito strumenti adatti a lavo- rare la terra: grande è Dio,
perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa crescere senza
che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre dormiamo." Questo
bisognerebbe cantare in ogni occasione e can- 340 tare l'inno piu
sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la facoltà di comprendere tali
cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la maggior parte di voi è cieca,
non era necessario che ci fosse chi tenesse questo posto e in nome di tutti
cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso io, vecchio storpio, se non
inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei la mia parte di usignolo, se
cigno, quella di cigno. E invece sono un essere ragionevole: devo inneggiare a
Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non diserto il mio posto, per quanto mi
è concesso, e anche voi esorto a cantare questo stesso canto (Diatr., I, 16,
16-21). - Mi basta poter levare le mani a Dio e dirgli: "le facoltà che ho
ricevuto da te per comprendere il tuo governo e seguirlo non le ho trascurate:
non ti ho disonorato, per parte mia. Guarda come ho usato i sensi, come le
prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono stato scontento di qualche avvenimento o
l'ho desiderato altrimenti? ho mancato alle mie relazioni con gli altri? Ti
ringrazio di avermi fatto na- scere, ti ringrazio di quanto mi hai dato: il
tempo che ho usato le tue cose mi basta. Riprendile e assegnami il posto che
vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai date" (Diatr., IV, 10, 14-16).
Epitteto mori nel 125-130 circa, a Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal
giorno del suo arrivo, esiliato da Roma (94). A Nicopoli, ove visse_ solo,
tutto dedito all'insegnamento, egli godette di gran fama, rispettato e onorato
da tutti. Solamente da vecchio avrebbe preso con sé una donna, perché lo
aiutasse ad all~vare un orfano che aveva adot- tato (Simplicio, In Epicteti
Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che il suo insegnamento sia stato un
insegnamento di vita - basato, certo, su di una precisa concezione - e non un
insegnamento strettamente scolastico, è dimostrato anche dal fatto che dei suoi
moltissimi disce- poli e ascoltatori - a parte Arriano che fu con lui per molti
anni a Nicopoli, e che probabilmente pubblicò le Diatribe e il Manuale subito
dopo la morte di Epitteto - nessuno fece professione di filosofo, se non un
certo Jerocle stoico, autore di un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i
frammenti in Stobeo, Ed.). Va, d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione
(96 d.C.) di Domiziano, la politica dei principi, relativa al fondamento del
potere dell'Impero, venne cangiando, tanto che si delineò la possibilità di
assumere a fondamento ideologico la tesi politica dello stoicismo, sia sul
piano politico sia sul piano piu strettamente giuridico. Già questo vediamo con
l'imperatore Cocceio Nerva (96-98), il quale cercò di riaccattivarsi il Senato
e con i suoi successori Traiano (98-117) e Adriano (117-136), che con l'istituzione
ufficiale del Consilium principis svuotò gran parte del potere del Senato,
avviando l'Impero ad una vera e propria unità statale, non piu esclusivamente
personale. Sembra perciò non un caso che anche l'imperatore Adriano si sia
recato a Nicopoli a chiedere consigli al celebre "saggio" Epitteto
(cfr. Spartiano, Vita Hadriani, 16, 10).Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in
Bitinia, detto dall"' aurea bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa,
morto poco dopo il 114, sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu,
senza dubbio, un grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di
quella corrente che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul-
tura, aggiornato nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta
in volta, sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione di un
suo principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura
come elevazione morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco dalle
"verità," -in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una
comprensione delle "ragioni" umane, determinare nella vita sociale e
nella stessa pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita
privata: quella misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel
40 d. C., ricco e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto
per la sua eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a
Roma. Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il
sog· giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e
peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua
patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con
gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove
piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il
Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu
niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel
114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL),
comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici,
politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui
Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i
filosofi e A Musonio. Particolarmente interes- santi sono le cosiddette
orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli
Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica
(XXXVI) e l'Euboica {Vll). 7 in volta, si concreta come cortesia e
generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr.
Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione, Dione,
quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo paese,
usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz.,
46, 8).. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini
piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo
modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e
la vita sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in
principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e
stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti
del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale,
libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di potere
attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione non
poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei perdigiorno
della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia, negli
angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano
schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà
di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di
bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di
Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto
contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al
96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure
mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia
avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi
nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra
le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali
"filosofi" ch'egli aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la
peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno,
comprese il significato sia del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione stoica
al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di governo
tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e·di Caligola,
spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto che Dione
si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel grande
avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che possono
permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e città,
sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i termini
della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile ai
sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8 di
cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male), proponendosi
conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un male o se il
male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si trovò sulla
linea, sullo axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei cinici suoi
contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e
costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla
fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma,
dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano
portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con
Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita
con An- tonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il
grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi
con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la fun- zione del principe e
la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né
un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo
magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu
ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del
Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a
uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un
organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio anto-
niniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializza-
zione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'im- pero - non
sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi
successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato
unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel vasto
organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e culturali,
nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e
nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e rinvigorendosi
di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica prosegue su scala
maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E diventa quindi
sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza dell'Italia
sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una politica intesa· ad
assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per principio o per
pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico ellenistico,
Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha pure avvertito
che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro- messo il sistema
gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma già le esigenze
della vita economica suggeriscono ai suoi sue- 9 cessori una
diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo
e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito dell'impero" (G.
Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La
Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto questo aspetto, già con
Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del n secolo abbiano
ascolato soprattutto le voci dell'op- posizione stoica, che potevano dare loro
le condizioni che ne giustifi- cassero il potere. "La maggioranza di
·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano ostili al
principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva
piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il
piu pos-sibil- mente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente
diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e
di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e
di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'im- pero, e
specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale
... Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere im- periale alle
condizioni reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica
e sociale dell'Impero romano, Firenze, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso
che, poco dopo la morte violenta di Do- miziano, Dione di Prusa sia stato
reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo
nella sua città, ove par- tecipò attivamente alla vita politica di quella
municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano,
divenendo alla fine cit- tadino romano e consigliere e propagandista delle idee
politiche del- l'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi
tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del
suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la c@nvivenza (d'altra parte
necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche
"p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche)
e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il
potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul
potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere
capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante
cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine co- smico, retto
in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto
(e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il
passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò
vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia- 10
baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale
che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di.Traiano. Padre e
benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone (
8e:<m6't"rjt; ) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo
di ragione e perciò non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del
tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere,
in un'attività che è fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in
armonia i diversi compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun
cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati,
circondato da amici e consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che
partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un
"sapiens," un "filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di
governo, personificazione della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade
di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a
meno che - e sa- rebbe ideale - il principe non si circondi, per legge e non a
suo ar- bitrio, di un organismo permanente di filosofi, costituenti un
consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il
motivo del re filantropo, e non solo certe tesi stoiche, che nella delineazione
di uno Stato ideale egli poteva sostenere ispirarsi al discorso platonico
(l'unica costituzione perfetta, ove ragione e legge sono tutt'uno, è la
politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo
suo, senza interferire nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in
funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di
sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo par- lato, quale, ad esempio,
appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente
(cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la
potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo
nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco,
ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò
che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per
ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha
da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per
analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz.,
36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella
che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali -
sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca
collaborazione, in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta
distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia
un'eucosmia. •Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un
suo discorso ai Boristeni, abitanti 11 presso il Mar Morto,
"questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole
comunità di dèi e di uomini; essa chiama a par- tecipare alla legislazione e
alla cittadinanza non tutte indiscriminata- mente le creature viventi, ma
coloro che posseggono ragione e intel- letto. Essa offre un'organizzazione
sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani,
secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta:
naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36,
38). Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su
cui si viene fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e
che ciò abbia voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle
Orazioni l e 11 di Dione (non a caso egli scri- vendo intorno al104, pur non
nominando Traiano, dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora
vige, conviene che io parli con il mas- simo rispetto"), ma anche dal
fatto che queste orazioni, dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di
Traiano siano state piu volte ripe- tute da Dione nelle maggiori città
dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano con il Panegirico di Traiano
scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa. Nel mutamento di indirizw
governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione alle reali esigenze
soprattutto delle ZQOe greco-orien- tali, e in un venire incontro
all'opposizione, ch'era poi un rafforza- mento del potere imperiale, nella
trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore
esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere
ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza.
'E la sua impor- tanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi,
coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che
se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava
certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un
significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Impe-
ratore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è
stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chia- mato Uno), ché
tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distri- buisce come è bene che
sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge,
come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa
ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il
quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita
dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può
suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero
gli imperatori da 12 Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco
Aurelio. E ciò risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via
indicata da Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide
(originario della Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due
ger.erazioni piu t:r'rdi, non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente
cerca di mostrare il valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer-
matosi, che concilia il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio
dell'imperialismo. "Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema
politico dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il
vostro impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come
il confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro
giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati.
Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia,
piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per
parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né .il mare né alcuna
vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano;
nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di
tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è
straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e
ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo
di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie
richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e
rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato
delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo,
furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire
Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi
"raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem
faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti
furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero
nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il
divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H.
Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche
Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica impe- riale,
abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa
concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli impe- ratori, che - per
politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte
(pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia,
dall'altro lato, fortemente influen- zato alcuni aspetti della stessa cultura
quale" si viene configurando nel u secolo. 13 Entro
quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico della cessazione da
parte degli imperatori delle persecuzioni .nei con- fronti dei filosofi, sembra
anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma
sia nei maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole pubbliche, ove i
maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo,
istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il
cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era
annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco
imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre
Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni
legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio,
infine, istitu( ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque
cattedre: una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica,
una di filo- sofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei
filosofi era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta-
mila). Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole,
non solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si
fece sempre piu pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin( col
divenire regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo
essere stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e
debitamente ratificato dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos., 13, 3,
11); il quale si assumeva cos( un diritto di vigilanza sull'insegnamento in
tutto l'Impero... La decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa;
ma, privata del suo spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i
successori di Giuliano, come testimonia la sua inserzione nel Codice
Teodosiano; soltanto con Giu- stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza
della sanzione impe- riale - Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403).
- Intanto, tra la fine del 1 e il 11 secolo, anche per la maggiore possi-
bilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che
avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della cul- tura sia in
Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune
concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si ritenesse che a
quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro,
recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i
luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità
motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e culture. greche,
orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale. 14
2. Plutarco di Cheronea Un'analisi delle opere di Plutarco di
Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli
stoici (Le contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli
stoici, Gli stoici si espri- 2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una
facoltosa e severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si
recò ad Atene dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone
e Vespasiano, che lo avviò al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra,
all'interesse per i misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco
farà di Ammonio l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una
conversazione avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di
Del/i, 385b). Dopo il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in
Asia, certo piu volte a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori
personalità della poli- tica e della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu
particolarmente benvoluto dall'impe- ratore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia
e in parte ne seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e
nel 107, che molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco
dedicò le Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones
conviviales); C. Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia
al tempo di Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il
platonismo e il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De
cohibenda ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo
frigido, facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come
suo scolaro Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato
presto in patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu
arconte di Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino
onorario di Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di
Lamprias (detto cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come
quello del nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera
200 opere di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute
auten- tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state
divise in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e
di un romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente,
tutto il resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere
filosofico morale a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici,
filologici, pedagogici). Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti
nelle Opere morali in ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale,
mettendo tra parentesi le opere di cui si discute l'autenticità o che sono
certamente apocrife e che vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello
Pseudo Plutarco: De educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta
audienda ratione, De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De
inimicorum utilitate, De amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio,
Consolatio ad Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem
sapientium convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata,
Apophthegmata laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata,
De mulierum virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta
parallela graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna
aut virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De
Pythiae oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute
morali, De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore
probis, Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad
infelieitatem, sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate
divitiarum, De vitioso pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam
laudando, De sera numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De
e:rilio, Consolatio ad u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius
liber, Amatoriae narrationes, Cum principibus philosophandum esse, A d
prineipem ineru- ditt~m, Anseni Res pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t
agerenda e Rei publicae , De u n i 1 1 s in Repubblit'a dominatione, populari
statu et paut"orum imperio, De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae),
De comparatione Aristophanis et Menandri Epitome, De 15 mono in
maniera piu assurda dei poat) e contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi
t1it1ere gioiosamente secondo Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce,
meglio di una lettura diretta e isolata delle sue opere piu celebri, il
significato del platonismo e del pitagorismo di Plutarco, la sua
interpretazione di un aspetto di Platone, formatasi entro i termini di una
precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una lettura isolata, e ritagliata da
tutto un contesto, delle opere piu note di Plutarco ha dato luogo a retoriche
ricostruzioni di un Plutarco che rivive in un ultimo canto del cigno il
significato piu profondo del misti- cismo e della teologia dell'antica Grecia,
in una consapevole malinconia per la sua prossima fine e per cui non a caso ci
si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove viene drammaticamente
annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu oraculorum, 419a-c). I due
gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello stoicismo e
dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima formazione di
lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria, maestro
all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che
dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto
"plutarchea,"· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È
già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente esaminati
non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul pensiero
stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero
epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di
indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali
fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse
attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a
volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non
vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non
contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro,
non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici
che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato
in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di
origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones
tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis
sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae
quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU
stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos,
Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta
vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in
vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio
Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum
libri quinque. 16 riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini
della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole
dell'Epino- mide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico
delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio
Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato
politico, mentre nella sua polemica si serve particolar- mente delle piu note
tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di
Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e
della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano compilate
antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni : ma, certo, come
risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi dei
grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni attraverso cui
Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se stessa
e che perçiò è .assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in nome
delle "comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi stoica che
una è la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito vivente, è ad
un tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per cui il divino
non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immor- tale in quanto dio e
mortale in quanto cose, che tutte si distrugge- ranno nella conflagrazione
universale e cosi via; si tralasci anche la discussione antiepicurea, che si
fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi epicurea perché
spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero, cioè non
razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce della
confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è
ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del
t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità
della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano
altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea -
vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della
natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il
male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la
ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene
accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le
due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e
antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile
d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della conce- zione
platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele interprete di Platone) si
potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e
l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra
le due posizioni (la platonico-aristotelico- stoica e la epicurea)
contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico:
Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del
giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del probabile in funzione
retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di
mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità una nella
molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica
forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con
ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che un errore
logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve essere. Egli
cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la dualità, in una
interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il
dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente di certi testi di Platone, non a
caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima
malvagia, che ancora oggi sono stati avvici- nati al dualismo iranico. Sincero
o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica
paidèia religiosa dell'ari- stocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze
religiose orientali (egi- ziane e iraniche), rimaste, se non ignote
(tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf,
sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza
egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del
male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn
funzione della reli- gione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone
egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli
aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone,
l'in- terpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egi-
ziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr.
particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della
simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nel-
l'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di
origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli stoici asseriscono che lo spirito
che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles,
quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è
Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando
con queste interpreta- zioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati
dall'astronomia, cre- dono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride
quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il
mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza.
Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale,
hanno un 18 aborrimento estremo per questo numero, perché il
numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto,
rettangolo, oblungo non equi- latero - alle quali figure soltanto accade di
avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera
tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la
proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I
Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una grande varietà di termini: per
essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il
Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade,
l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il
Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con
denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di
Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e Tritogenia, poiché esso è diviso da
tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo...
Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia... La cosiddetta
"tetraktys," cioè il trentasei, costi- tuisce, com'è fama diffusa, il
"piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo,"
poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri
dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e, 381 f-382 a). Sotto
questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola reli- gione
delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle reli- gioni di
oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa in poi fu, in
Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che certi tentativi
di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro, essere anche un
servizio reso al nuovo indirizzo della poli- tica imperiale: indicativo è che
Plutarco sia stato onorato da impera- tori quali Traiano e Adriano), sembra che
Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e allegoricamente
interpretato da un lato la religione egiziana di lside e Osiride (De lside),
dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato riposto dell'Apollo
delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu
oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi
del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla
ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra
ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto sopra abbiamo detto,
sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo nostro trattato è
inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi con questa nostra
filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di
Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito egizio va
assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali
in cui sono impegnati i suoi sacerdoti. 19 Iside è dea eletta per
sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome stesso vuole
perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu
alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è
nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per
ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la
dea invece raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati, poiché il processo
di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente
saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel
tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è
signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare,
poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio
promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome
di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci
accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della
dea... (351 f-352 a). · Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi
narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del
genere - tu, o Clea [sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a
Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti
dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella
maniera in cui viene tramandato... (355 b). Tali, a un di presso, sono i punti
capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti:
se gli Egiziani hannò tali opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che
per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere
conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di
fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero
sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354], per usare la parola
di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora
opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino
affatto a quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali gli
scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo
e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in
sé esposizione di dubbi e di esperienze, .tu lo capirai da te stessa. Proprio
come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del
sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira
dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu,
non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in
una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici (358
f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il
divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo
delfico, e il principio del male e del disordine (Tifone), l'ele- mento
titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e
conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa
del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20 (il
filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta
dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e
frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato
del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi testi - distaccati
dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi
di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in
piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi
antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo, 35a]; ma
nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non
piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando
che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma, pro- babilmente, ad
opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è
quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di
tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza,
che è una natura in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di
ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad
entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue.
Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare
appunto la credenza religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra
filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro
universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe, che non sono,
però, equi- librate esattamente,· perché la prevalenza appartiene alla forza
del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca del tutto,
dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in
gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del
bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da
guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride.
Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è
ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le
temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa
di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è
l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte dell'elemento
corporeo che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela attraverso le
cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di
luna; cos{ si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte di Tifone.
Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che
significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque,
secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità
nell'unità del principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la
quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si
nega sia il divino principio sia la realtà 21 molteplice, ché,
pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né
l'informe pura quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che
spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio
inspiegabile, irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto
da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della
pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza
forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò
causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è
anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del
male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C<?rpi
inanimati, come vogliono Democrito ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di
una materia non qualificata e non differenziata, come vogliono gli stoici,
un'unica ragione e un'unica provvidenza superna, esercitante il dominio su
tutte le creature. Fatto sta che è impossibile che qualcosa cattiva, per
piccola che sia, entri nell'esistenza, là dove Dio è causa di tutto; ed è
ugualmente impossibile che qualcosa di buono, là dove Dio è causa di nulla... Di
qui, ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori
trapassa in poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha
con sé una fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni,
si anche nei riti e nei sacrifici, diffusa dappertutto tra i b:rrbari e tra i
Greci: che, cioè, l'universo non è già librato, per sola virtU meccanica, di
per se stesso, senza un intel- letto, senza una ragione, senza un pilota; né
poi v'è una sola ragione che domina e regge, per cosi dire, con timone e con
docili redini. No. Al con- trario, la natura ci offre tante esperienze, e tutte
miste di mali e di beni, o, meglio, essa in una parola, non ci dà nulla,
quaggiu, che sia "puro"; né, d'altra parte, c'è un custode di due
grandi vasi che, alla maniera di una dispensiera, distribuisca a noi i nostri
scacchi e i nostri successi in mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due
opposti principi e di due forze antagonistiche, una delle quali ci guida lungo
un diritto cammino a destra, mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e
indietro - che la nostra vita. sia complessa, e cosi pure l'universo... Perché
quèsta è la legge di natura, che nulla entri nell'esistenza senza una causa, e,
se il bene non può fornire una causa per il male, allora segue che la natura
debba avere in se stessa la fonte e l'origine particolare, distinta, del male,
proprio come ne ha una, tutta sua, del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e
dei suoi piu nobili sa- pienti. Questi, infatti, credono che vi siano due principi
divini, quasi rivali tra loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei mali. E
c'.è chi chiama il primo, migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per esempio,
il mago ZOroastro, di cui si narra che vivesse cinquemila anni prima della
guerra di Troia. Ebbene, questi chiamava il primo Horomazes, l'altro Arimanios;
e spiegava, poi, che l'uno rassomigliava, nel campo sensibile, alla luce piu
che ad altro elemento; e l'altro, per contro, alle tenebre e all'ignoranza; e
che tra l'uno e l'altro, intermedio, era Mitra, chiamato perciò dai Persiani
"Mediatore"... 22 I Persiani poi moltiplicano racconti
favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia- rano che, tra i pianeti ch'essi
chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono benefici, due malefici, e gli
altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un tempo. Le credenze dei Greci
in proposito sono ben note a tutti... (De Iside, 369 a-370 d). Le citazioni e
le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indica- tive, molto ben collocate e
fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come, per altro verso, egli, nel
suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana e persiana - in
un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle loro credenze,
simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici da Filone
l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica, puntasse, si come Filone,
su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo, ma nella
chiara esigenza di Plu- tarco di costituire una possibile pace culturale nella
convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro al naturalismo
stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a fondamento della
realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità e l'assurdità
degli epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel loro credere
gli dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro volgare
religiosità, temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il ter- mine
tradotto con "superstizione" è in greco timore della divinità, 3etat30tt!Lov(cx:
cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche come egli si riferisse da un
lato al concetto piu generale ed elastico del divino di Platone e dall'altro
lato, invece, a certi singoli testi di Platone tratti dal Filebo, dal Timeo,
dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso, cioè entro· una linea
costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto, all'intento di
Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in quanto razionale,
a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune senso religioso
di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o nell'ateismo o nella
superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo pensare che gli dèi siano
diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano, cioè, dèi barbari e dèi greci
o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma come il sole e la luna e il cielo
e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi
in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme del culto e le denominazioni, diverse
le une dalle altre, a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre,
espressione di un'unica razionalità, che le ha tutte nobilmente ordinate, e di
un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e di potenze ancillari preordinate
su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di simboli consacrati- e chi ricorre
a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu trasparenti - guidando il pensiero
sulla strada 23 pcrigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti,
vanno completamente fuori strada c s'ingolfano nella superstizione
(3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf dire, da quel pantano che ~ la
superstizione, ma .piombano, d'altro canto, come in un dirupo scosceso:
l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre soprattutto che noi
adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla
filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni c le
liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente spirito quel che
i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti,
comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione] (De
/siJe, 337/-378 b). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica della materia,
Plutarco si ritrova di fronte alla difficoltà di opporre' all'essere che è, un essere
che in quanto opposto all'essere o è essere come l'essere, uno con esso, o è
non essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non si ricorra, in
un'interpretazione del Timeo, a porre come condizioni logiche, da un lato il
divino, principio ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità neu- tra
(materia) come possibilità di assumere tutte le forme, non logica- mente
deducibile e di cui, per riprendere l'espressione platonica, non si può
discorrere se non con un "ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi
viene accostando testi platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di
avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un
piano "'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Pla- tone
rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una
sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di
Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene
(l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e
all'Horomazes zoroastriano) : Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere
reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale?
L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di
tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo
con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibil-
mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole
consuete, il "poi," il "prima," il "sarà,"
l'"accadc" sono la spontanea con- fessione del suo non-essere.
Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato
ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere... Di contro,
dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~ quasi un
sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò
che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? -
"~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che
~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né
futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e
nell'unità del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso
esiste realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non
cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli
rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: "Tu sei" (d,e~), o anche,
per Zeus, Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei:
tale l'interpretazione che Plu- tarco dà dell'epsilon, della "e,"
iscritta sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte,
sottolineato le possibili interpretazioni che, giuocando in chiave
platonico-pitagorica si possono dare di epsilon, inteso come la let- tera,
indicante in greco, il numero cinque: i cinque accordi dell'armonia; i cinque
intervalli melodici; i cinque mondi - terra, acqua, aria, fuoco, etere; - la
pentade - punto, linea, superficie, altezza = tetrade o solido, piu anima =
pentade o essere vivente; - i cinque generi del Sofista: l'ente l'identico,
l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno, a quanto sembra, precorse
Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al dio la ~:;, segno e
simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto, Platone aveva ben compreso
che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel Filebo): prima è la
moderazione; seconda, la proporzione; terza, l'intelligenza; quarta, le
conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima; quinta, il piacere, ove mai
esista, puro e immune da ogni mescolanza con il dolore." Sintesi di tutto
ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco l'Essere Uno del dio; il solo dio è,
tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a]. "Sei Uno," poiché la divinità
non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio di
infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuoi essere uno, come l'Uno vuoi
essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro, questi, naturalmente, differirebbe
dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè nel non essere: perciò sta
bene al dio il primo dei nomi e éosl pure il secondo e il terzo: Apollo, in-
fatti, per cosi dire, rifiuta la pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi
dire .che è uno e solo; quanto a Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano
tutto ciò che fosse puro e casto... (De E Delph., 392 e-393 c). - Ma Osiride,
il dio, in se stesso, è lontanissimo dalla terra, incontaminato,
incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla distruzione e alla
morte. Alle anime umane, fino a che, quaggiu, sono imprigionate dai corpi e
dalle pas- sioni, non è dato partecipare del dio, se non rispettando quel
limite in cui sia dato loro giungere a un'oscura visione di lui, .per via di
pensiero, attraverso la filosofia (De lside, 382 f); 2. La materia, neutra in
quanto potenza (la nutrice platonica; l'Iside egiziana). Il principio attivo
come disordine (non materia, in sé né buona né cattiva), bens1 attiva (l'anima
malvagia delle Leggi di Pla- tone; Tifone egizio; l'Arimanios wroastriano):
Iside, in verità, è il principio femminile della natura ed è suscettibile di
ricevere ogni forma di generazione, in quanto è chiamata da Platone
"nutrice 25 e ricettacolo comune" [Timeo, 49e-5la], e da
molti altri è chiamata con una infinità di nomi, per il fatto ch'essa, in virtu
della ragione,' volge e rivolge se stessa, accogliendo ogni tipo di forma e di
idea. Essa ha un innato Eros verso colui che è il primo e supremo signore di
tutte le cose, il quale si identifica con il Bene, e lo brama e lo persegue
[Osiride]. Fugge, invece, e respinge la porzione che deriva dal male, perché
essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e materia, ma inclina sempre piu
facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a lui la possibilità di generare
da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di somiglianze, di cui ella
gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna di tali generazioni.
Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine dell'essere nella materia; e
il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro mito non è fuori
strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che il suo corpo fu
molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che lside andò errando
e ne fece ricerca e riuscf ,di nuovo a ricomporlo... (De lside, 372e-373a).
Platone chiama la materia con il nome di Penuria, bisognosa com'è, di per se
stessa, del bene e pregna di lui ed eternamente bramosa e partecipe di lui...
Allorché, dunque, diciamo "materia," non dobbiamo essere tratti dalle
opinioni di alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e
indifferenziato, inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi
chiamiamo l'olio "materia del pro- fumo," l'oro "materia della
statua"; e questi non sono privi di ogni difie- renziazione. Persino
riferendoci all'anima e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale
materia di conoscenza e di virt6, alla ragione affinché li .adorni e li
armonizzi; e taluni hanno dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee
[cfr. Aristotele, De anima, 429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una
immagine•della realtà intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre,
Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intel-
lettivo," IX, 1]... lside gode di una eterna partecipazione del dio
primor- diale e gli è vincolata nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e
bello, e che, pertanto, non gli resiste..., e perciò essa è sempre attaccata
strettamente a lui e sta costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue
parti piu nobili e pure (De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore
screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma
in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua,
vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura
di ombre, né screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto sem-
plice, la pura luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il
primordiale e l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il
principio, l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza
tutta in atto, non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e
qualificata che da lui si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio
stoico. Plutarco, perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, -
doveva sostenere che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma
è esistenza, potenzialità di 26 assumere forme e qualita, e in tal
senso è povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue
generazioni, nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si risolve il
"padre," che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo
di mescolanze. Dio da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i
mondi (Plutarco sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum,
423c-424h, 428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore
e piu divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il
risultato di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito
chiamare la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche
'padre'; la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede'
e 'posto' di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione
[Timeo, 50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e
spiegati certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti
il divino essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si
opera la generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le
condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il
divino, in quanto per- fezione è bene e che la materia in quanto mancanza e
neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione
dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo
le cose simiglianti a lui, resta .il termine cui tutto aspira, in un unico
amore;·oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in
cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto,
accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio,
un'attività inspiegabile e perciò irrazio- nale, fonte appunto del male. È
meglio dire con Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto,
non è stata prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la
disponesse e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia
sono possibili... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei
corpi, né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i
due principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e
i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione con- veniente,
li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto
degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla .materia e non all'anima
quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella
"infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di
difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a], come intenderanno poi
ciò che Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura,
priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i
profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli 27
come causa e principio del male ciò che in se stesso è
inqualificato, inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e
malefica" e anche "ne- cessità spesso ribelle e riluttante a Dio..."
Si tratta bensf di un principio disordinato e infinito che si muove da sé e
muove e che Platone in molte occasioni ha chiamato "necessità" e
nelle Leggi [X, 896 e-897 d] decisa- mente, "anima sregolata e malvagia
(De animae procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a)... Bisogna dunque rendersi
conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima del mondo, ma
una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e lo slancio,
senza proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e all'opinione;
e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e le proporzioni
convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di reggente del
mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque, non è tutta opera di Dio, ma
porta in sé, innata, la parte del male... (1027a). Là dove Tifone piomba ad
impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in
atteggiamento di suprema tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei
resti e delle membra sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e
nasconde tali reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose
nasciture e le fa sorgere da se stessa (De lside, 375a-b). Il timore di
Plutarco a risolvere stoicamente la divinità nel costi- tuirsi dello stesso universo,
lo porta, interpretando certi passi plato- nici, a porre la divinità come il
complesso in atto e compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e mancanze
(incorporeo) di tutto ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui, appunto,
il divino è essere: il divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto tutte le
forme (idee), in quanto la sua intellezione - egli intellezione in atto - è
tutte le passibili forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto eterno e
perfetto, è oltre l'esistere ("Pure si va cianciando di emanazioni del dio
e di trasfor- mazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l'universo
intero e poi, di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si distenderebbe via via in
terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose di viventi e
delle piante; tutto questo, anche a udirlo, è empietà!"- chiara è
l'allusione agli stoici -: "Al contrario, di ciò che entrò, comunque,
nell'esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale
debolezza corporea, che è volta, di per sé, all;l distruzione... Per dio non si
dà mai scardinamento dall'essere e trapasso": De E Delph., 393e-394a).
L'esistenza è, accanto all'essere (coeterna dell'es- sere, in quanto come
l'essere condizione del reale) la materia - la éor- poreità come indefinita
potenzialità, - che, tuttavia, non assume essere, non assume forme, se non si
definisce, se non presuppone l'essere, se non ha, quindi, per sua natura
desiderio di ciò che le manca; essa perciò tende all'essere, ad assumere forme,
per cui il divino, egli rima- 28 nendo esso stesso immobile e in
atto, è ad un tempo presupposto e termine dell'aspirazione del tutto.
Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi stoica della materia pura passività e
·senza qualità, bisognava porre, accanto all'essere - principio e fine - e
all'esistere - materia- potenza - una terza condizione, un principio vitale,
senza di cui la materia sarebbe restata pura passività. L'anima come vitalità
è, dun- que, una terza condizione, che se da un lato spiega la tendenza del-
l'esistere ad assumere essere, costituendosi come anima del mondo in quanto si
modella sull'intellegibile (razionalità), dall'altro lato può ren- dere conto
dell'affermazione di sé come individualità, che aspirando a sé e non all'essere
uno, che serra insieme il tutto intelligibile al divino, si determina come
non-essere, come ribellione a Dio, come frantumazione dello stesso Essere che è
uno, ordine e bene, si deter- mina cioè come irrazionalità (male). Il divino,
dunque, come pura intelligibilità e come essere è, ad un tempo, principio e
fine, mentre la materia, esistente e vivente, è da un lato tendenza all'essere,
al bene, e, dall'altro lato, nella stessa affermazione di sé, negazione
dell'essere, conflitto, male, in una serie di gradi viventi, che, posto appunto
il divino come termine ultimo di aspirazione, vanno all'infinito in una serie
che si scandisce da una minor somiglianza al dio (mondo ter- restre e
sublunare) a una sempre maggior somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni
buoni), per approssimazione e in un perenne conflitto.· È un fatto che il
divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza
di forze antagonistiche, che non sono, però, equi- librate esattamente, perché
la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che
la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte,
innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in
un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e
ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di
meglio, s'identifica con Osiride [il divino)... Tifone, per contro, è la parte
dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e
volubile... (De lside, 37Ia-b). Certa- mente, H, nel cielo e negli astri
perseverarono immobili le ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che
proviene dal dio; per contro, quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi
soggetti alle leggi fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si
dissolve, si corrompe, va perfino sotterra... (De ]side, 375b). Il principio
della fecondità e della con- servazione della natura è attratto verso di lui e
verso l'essere, mentre il principio dell'annientamento e della distruzione è
dissolto da lui, verso il non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome
che deriva da "slan- ciarsi" (hlestaz) con sapienza e
dall"'essere mosso," appunto perché essa consiste in un movimento
animato e sapiente... (De lside, 375c). È bene esigere che nessuna cosa
inanimata si:t superiore a ciò che è animato e 29 nessuna cosa
priva di sensibilità sia superiore al senziente... Non nei colori, né nelle
forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente il divino: tutto ciò che
non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla vita ha una porzione di
onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la natura, che vive e vede e
ha da se stessa la sorgente del movimento e una conoscenza tale da saper
distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo, ha saputo attrarre su di
sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di colui che è saggezza,
"in virtU del quale è governato l'universo," secondo l'espres- sione
di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini sembra chiaro come Plutarco
- nel suo ten- tativo di giustificare sotto il segno di un'unica concezione
religioso- filosofica gli aspetti diversi delle credenze religiose'
ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede sintetizzate da un lato
nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato nella teologia zoroastriana
- possa riprendere e giustificare, nel quadro della sua teologia e cosmologia,
le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e profetiche delle anime, in
una, infine, descrizione di quella che è, nell'universo, la posizione
dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno l'universo nella sua
totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia e tra l'uno e
l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera- zione - unica realtà
effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle forme piu basse -
all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al- l'infinito, verso
l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto della vitalità,
che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi e affermarsi è
negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere un'infinita
scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte al limite,
all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere, alla
luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno
universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle
anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua
condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo
meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora
gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che
Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che
noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi
difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà
ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi
e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci
congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai
Magi della setta di 30 Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o
dall'Egitto, o dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette
il trapasso, sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la
terra diventa acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della
sua natura, si tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel .:ampo delle anime
elette, è ammesso il passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia,
solo poche anime appartenenti al grado demo- nico, purificate dopo lungo
volgere di tempo, mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della
divinità. Al contrario, talune, non riu- scendo a dominare se stesse, scendono
dal grado superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita
senza luce e fievole come un'esa- lazione... In realtà, piu lungo o piu corto
che sia il tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la
dimostrazione voluta, attraverso testi- monianze sapienti e antiche, che
esistono, cioè, alcuni esseri, quasi al con- fine tra gli dèi e gli uomini, i
quali sono soggetti alle passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto,
secondo il costume dei padri, che noi con- sideriamo costoro dèmoni e li
veneriamo con questo nome. Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di
questa concezione le figure dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine,
l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'iso- sede, infine, al demoniaco. Il
primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo,
uguale per un verso, disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni,
che partecipa a un tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma
la natura stessa offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con
il sole e con gli astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle
cadenti...; natura mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui
rivoluzione concorda con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora
calante, ora crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar
via l'aria ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la
coesione del tutto risulte- rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe,
nell'intervallo, uno spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette
la categoria demonica toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi
e quello degli uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano
una funzione di inter- preti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a
sconvolgere e a turbare ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e
nelle cose umane e traen- dolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo
dar retta per nulla a coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la
divina compia- cenza .per le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere
che, in tali cose, il dio si giri e rigiri e si presenti direttamente e si
affaccendi lui stesso. Piuttosto, facciamo risalire tali riti oracolari a
coloro ai quali giustamente la cosa compete, voglio dire ai ministri degli dèi,
che sono, per cosf dire, i loro famuli e segretari; noi crediamo che il mondo
tutto sia percorso da dèmoni, alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e
i riti misterici, altri in funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini
[ed è su questo motivo che si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la
provvidenza plutarchea: cfr. De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli
uomini, anche tra i 31 dèmoni esistono differenze di valore,
perché in alcuni l'elemento passio- nale e irrazionale ha lasciato, come un
residuo, un avanzo ancora fievole e indistinto, in altri invece persiste in
dose considerevole e inconsumabile (De defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se
da un lato la soluzione del significato da dare ai dèmoni chia- risce quanto
sopra dicevamo, e cioè la concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in
un conflitto di forze, si scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio
razionalmente, a imitazione dell'Essere su- ,premo, puro intelligibile,
presupposto e fine; dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla loro funzione,
hanno un notevole interesse storico. Sono una testimonianza precisa non s~lo
della presenza di credenze oracolari, astrologiche, magiche, quali si erano
venute diffondendo, in particolare dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C.,
e alle quali abbiamo già sopra accennato, ma anche del tentativo che ora si fa
di rendere conto delle stesse esperienze vitali che stanno a fondamento di
quelle credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne tro- viamo
tracce in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello
pseudo-Democrito, nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride (cfr. so- pra), in
alcuni testi alchimistici che rifluiscono nei testi del corpo erme- tico (certo
su Plutarco, come testimonia anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto
una forte influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di
Osiride: non a caso Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri
riti e miti egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è
l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze
naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine
ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala
degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno
oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle
piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali,
tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si
giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello
stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e
costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dal- l'altro lato in
razionalità, in aspirazione all'ordine e .al divino (perciò l'anima non muore
con il corpo, perché la morte può essere interpre- tata come eliminazione
dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto
medesimo, se da un lato spiegano la divi- nazione, i sogni profetici ela
possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli
spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei
dèmoni stessi siano presenti, com'essi 32 operino, come servano di
mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in
Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da
parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari
secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità, indicata, sia pur in
un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel
commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il
conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se
stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione
sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a
caso lascia ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro
ai quali giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione
degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che
consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità
che non sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti,
accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si
può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo giudaico). La
nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'igno- ranza. Un
riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi,
ma anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono...
appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato
all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di
noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere
conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica
a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre
argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza, e che
essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui
trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e
desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando
sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a).
L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno,
che, se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della
metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza
delle luci stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni
modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno
alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che
viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua
aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità:
"Le vesti di lside sono 33 di colore screziato, perché la potenza
di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto
accoglie, luce e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha
sfumature di ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo,
tutto semplice, la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque,
è rappresen- tata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è
tale, esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura
luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie
di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla
luminosità pura (divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità
(corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità
(anima), da un lato affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel
suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e,
perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad
essere come lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi:
in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità
(anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi
come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come
razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina,
la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e
razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e,
perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze
vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un
amore per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui
(superstizione) o ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria
individualità (ateismo, epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume
che il dio sia presente, respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e
con la gioia si eleva sino all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non
pom: suaviter vivi..., llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di
Filone l'Ebreo: Dc cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un
essere composto, ma hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due
principi: difatti quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte
dell'anima, errano non meno di coloro che ritengono l'anima una parte del
corpo. Di quanto l'anima è superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore
e piu divino dell'anima. L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà
irra- zionale e passionale, quella dell'intelletto e dell'anima produce la
ragione; la facoltà irrazionale e passionale è principio di piacere e di
dolore, quella dell'intelletto e dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre
parti, la terra forma il corpo, la luna forma l'anima, il sole dà origine
all'intelletto (Dc 34 facie in orbe lunae, 943a). Le anime
posseggono sempre i loro poteri, ma li posseggono piu deboli quando sono
mescolate ai corpi...; tuttavia alcune anime talora fioriscono e riacquistano
quella loro potenza nei sogni e al momento della morte, sia perché allora il
corpo si purifica o subisce una modificazione favorevole, sia perché l'anima,
essendo la parte razionale e meditativa liberata e svincolata dalle cose
presenti, si dirige con la parte irrazionale e immaginativa verso le cose
future... (De defectu oraculorum, 43lf-432c). Anche se molte sono le
oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco
relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà,
vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza
disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo
l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in
una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e
operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche
il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di
contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del
reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razio-
nalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il
"padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per
la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed
in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo ap- pello a
Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in
tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annul- lando l'essere nella
esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due
forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per
imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico
e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo
volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale, che non avrebbe luogo
senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della
necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo aspetto sembra chiaro in
che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come
rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto
capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che
si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale la ragione per cui Plutarco,
interpretando un passo della Vll lettera di Platone (344b), afferma che
l'intelligibile si coglie attraverso il con- flitto, nell'atto in cui scoprendo
sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e
come dominio in unità di noi 35 stessi, m quanto molteplicità di
passioni. "L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come
un lampo che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò
Platone [Convito, 210a] e Aristotele [Alex., VII, 668a] chiamano con il nome di
epoptica questa parte della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione
hanno oltrepassato le varie_opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel
Principio primo, semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura
che irraggia da esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della
filosofia" (De lside, 382e). L'unità del discorso in cui si scandisce il
ritmo della realtà, che assume essere in quanto si adegua all'unità
dell'Essere, per cui l'Essere trascende la realtà, appunto perché ragion
d'essere in atto del tutto, unità in atto del tutto, unità in atto delle forme
- metaforicamente luminosità senza ombre, non discorribile - si coglie
intuitivamente e, perciò, subito si perde - non a caso Plutarco dice che è come
un lampo e che si vede una volta sola; - esso, dunque, resta da un lato .:ome
ricordo, e, dall'altro lato, come desiderio, come termine cui si aspira,
oggetto d'intelletto, pura intelligibilità. E allora, non risolta la realtà
nella manifestazione dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci
e come dover esser, per cui, colto l'essere, attra- verso l'educazione e
l'esercitazione del pensiero, esso diviene il bene, e poiché la realtà, e
l'uomo, momenti dell'aspirazione all'essere, nel conflitto tra la forza
organizzatrice e la forza disgregatrice, sono sgan- ciati dall'essere stesso,
nell'uomo, in quanto centro del conflitto, nel- l'atto che intuitivamente
coglie l'essere, si postula la possibilità di rea- lizzarsi da un lato come
capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere delle cose, cogliendole in ciò
che esse sono nel loro ordinarsi secondo il modello divino, indipendentemente
dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo stesso (l6gos teoretico, la cui
corrispondente virtu è la "sapienza," sofia), dall'altro lato come
capacità di realizzarsi, tenendo presente il modello divino, armonizzando e ordinando
in unità (ragio- nevolmente) le passioni e gli istinti (ragione pratica, la cui
virtu è la "prudenza," fr6nesis). L'uomo, cioè, in quanto intuizione
di sè come ragione, che lo trascende dal di dentro e che si pone come valore da
rea- lizzare, da un lato coglie sé come capacità di contemplare (vita
teoretica, scienza), dall'altro lato come capacità, mediante la ragione, di
ordinare e di indirizzare la propria animalità (anima vegetatìva e anima sen-
sitiva, corrispondenti all'anima "concupiscibile" di Platone; anima
irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come conflitto e
frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente, secondo una
giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni, non in una
negaziDne delle passioni, in cui consistono le 36 virtu etiche
(vita pratica). "La virtu morale differisce dalla virtu con- templativa in
questo: ch'essa ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la
ragione" (De virtute morali, 1). Anche sul piano etico, coerentemente, la
posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato
ad Aristotele, è in funzione antistoica, o meglio in funzione di una
interpretazione di Platone e di Arsitotele, diversa da quella stoica, e tale
che gli permetta di mostrare che la virtu è insegnabile (cfr. Virtutem doceri
posse) e che la moralità non consiste solo in un corretto uso della ragione. Vi
sono alcuni filosofi [Zenone di Cizio, Crisippo] che si trovano d'ac- cordo nel
considerare la virtu come un'affezione, come un abito della parte superiore
dell'anima, prodotto dalla ragione, o piuttosto come la ragione stessa,
invariabilmente fissa ai suoi retti principi. Essi non credono che in noi sia
una facoltà sensitiva e irrazionale, diversa per natura dalla ragione. Questa
parte dell'anima, ch'essi chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono,
vizio o virtu, a Seconda delle modificazioni che prova nelle sue affe- zioni ed
abiti. Essa non ha nulla di irrazionale... Essi sostengono che la passione
stessa sia ragione, ma corrotta e depravata dai giudizi falsi e per- versi che
la trascinano fuori di sé. Questi filosofi sembrano aver tutti igno- rato che
ciascuno di noi è in realtà un essere doppio e composto. O meglio essi parlano
di una sola duplicità, di una sola composizione; quella che risulta dall'unione
dell'anima con il corpo; ma non si sono accorti che la stessa anima è in
qualche modo composta di due nature diverse; che la sua parte irrazionale è
come un secondo corpo unito alla ragione, da intimi e necessari legami.
Pitagora, invece, sembra aver conosciuto questa seconda composizione... Platone
ha veduto con la massima evidenza che l'anima del mondo non è un essere
semplice, uno per natura, senza composizione; ma ch'essa è un mescolarsi del
principio dell'identico e di quello dell'altro [in un conflitto tra l'anima
buona e l'anima malvagia]. L'anima umana che altro non è che una porzione di
quella del mondo, formata su numeri e propor- zioni uguali a quelli dell'anima
cosmica, non è né semplice né senza affe- zioni. Essa ha due facoltà: una che
si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza, per sua natura atta a dominare
l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale, sregolata, sede delle passioni e
degli errori, ha bisogno d'essere retta da una facoltà superiore. [La parte
irrazionale si divide in concupi- scibile e irascibile]... Aristotele ha fano
un grande uso di questi principi, soprattutto della distinzione tra razionale e
irrazionale... Orbene, i costumi, per darne qui un'idea, sono una qualità della
parte irrazionale; e si chiamano cosi perché questa qualità, impressa dalla
ragione in questa parte dell'anima, è dovuta· all'abitudine. La ragione non
vuole distruggere interamente le passioni, il che non sarebbe né possibile né
utile, ma solo infrenarle entro giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu
morali, che non operano affatto l'annientamento totale delle passioni (apatia)
ma 37 le regolano e le moderano. Tali virtu sono il frutto della
prudenza (jr6- nesis), che riconduce ad una disposizione equilibrata e
giustamente misu- rata l'attività naturale delle passioni (De virtute morali,
3, 4). L'appello di Plutarco all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il
suo puntare sulla moralità come conflitto, sul bene e sul male come capacità di
sapere o meno, di volta in volta, costituirsi secondo misura oppure no,
nettamente respingendo sia l'accettazione passiva di ciò che avviene,
riconducendo ogni avvenimento ad una superiore ragione da cui tutto dipende
(fatalismo stoico), sia l'esigenza, in un mondo ove tutto avviene a caso, di
ritirarsi in conventicole di amici (epicurei- smo: cfr. De latenter vivendo),
sembra rendere esattamente conto del modo con cui Plutarco si è rifatto a
Platone, dandone un'interpreta- zione dinamica, sottolineando, appunto, tutti
quei motivi da cui pare che Platone intenda il mondo dell'Essere non come un
dato, ma come un dovere essere. Si capisce cos( perché Plutarco perfino sul
piano cosmologico - non a caso egli punta sulla natura come potenzialità -
interpreti il Timeo in termini rovesciati rispetto all'interpretazione stoica,
sottolineando che, sia pur posto il divino quale condizione dell'essere del
tutto, delle forme delle cose, non è il divino che si tra- duce ed è
nell'esistenza del mondo, ma è il mondo che, vivente di forze opposte, si
adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri ai piu luminosi, al divino, pura
intelligibilità, pura luminosità. In tale stoicismo rovesciato,
indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di realizzazione e di
amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e sull'esigenza
dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un dovere) di
dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a simiglianza di Dip,
molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici (il motivo della
simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e un principio
passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si scandisce la
realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della filantropia e,
conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da parte del saggio
l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione politica, in nome
di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle "ragioni"
mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e l'aspirazione
plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano consigliati e
ammaestrati dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare filosofia).
Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare quei semi
.di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco, De
educatione puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e delle varie
condizioni economiche, Plutarco vor- 38 rebbe fosse data a tutti
("Tutti i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu
perfetta educazione; coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno
a ciò che la loro fortuna permet- terà di fare. De educ. puer., 11). Cos(,
anche sul piano politico, l'ap- pello di Plutarco è un appello a una possibile
pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione
da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra
le tradizioni delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma.
Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la
supremazia di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni
guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta
indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici,
824c) e come estremamente limitata sia oramai la pos- sibilità di usare l'arte
politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni,
quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o
negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere
nello Stato?": Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a
mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed eticità
intesa ari- stotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini della
sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una doppia
azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in che
senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto
individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo
Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli
compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e,
dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando
nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni
politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da
istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che
richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e pru- dente; in una città vi
sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi;
e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). N o n
solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio, .si deve mostrare cosa voglia
dire essere uomo dav- vero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare
come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini
("Bene- volenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco
apprez- zava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite
parallele, ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra
ch'egli voleva che i due popoli fossero considerati comple- mentari l'uno
dell'altro, non avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero
prodotto uomini famosi nella storia": Sinclair, op. cit., p. 431). Non di
istituzioni o di regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo,
attraverso l'educazione e la filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo
salvandosi mediante la conoscenza, si pre- pari a ritrovare la propria patria,
sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra
d'esilio: •esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di
miseria; quando Empedocle parla cos1, non è per sé solo, ma per nòi tutti che
afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo" (De ezilio, 17). Retorica
e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La « scepsi" e le
scienze. Le •questioni." Medicina e metodo da Menodoto f l Sesto Empzrico
Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una
corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politica- mente si irradia
nei paesi greco-orientali dell'Impero. Sia pur ora in una situazione politica
mutata, rispetto a quella che sta a .cavallo tra la seconda metà del I secolo
a. C. e il principio del I secolo d. C., ma sempre tesa a una giustificazione
dell'Impero, ci rendiamo conto di come s; po- tesse, su di un piano scettico,
assumeado·posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico di posizioni
simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa, in una
dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni posizione,
giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile, politicamente
piu utile e adatta alla vita. Sulla linea di Dione Crisostomo, del quale sembra
sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente assunto da Favorino
Arletano (nato ad Arles, nell'S0-90 circa, morto tra il 143 e il 1.76).8 A Roma
fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine equestre, in rela-
zione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a Corinto, in Asia Minore,
dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco, che gli. dedicò il De
primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones con- viviales, am;co di
Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò soprattutto di rimettere in
discussione la coerenza dei vari sistemi filo- sofici, da un lato chiarendone
il significato, dall'altro ponendoli l'uno all'altro di fronte in dialettica
opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi moltissimi scritti, tutti in greco,
non rimangono che alcune ora- zioni e diatribe, e pochi frammenti, di cui uno,
recentemente scoperto, 8 Sulla vita di Favorino di Arles, vissuto tra 1'80-90 e
il 143-176, non abbiamo altre notizie se non quelle date sopra nel testo. Si
confronti oltre la Bibliofl'afia. 40 abbastanza esteso sull'Esilio,
- nelle sue opere si proponeva di esporre gli aspetti piu salienti delle varie
tesi filosofiche, in forma divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché
fosse possibile, difesa l'una e l'altra posizione, dimostrarne la
contraddittorietà interna.·Di qui, accanto ai Memorabili, in 5 libri, alla
Storia varia, in 24 libri (come appare dai frammenti che ne possediamo, nei
Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene Laerzio, Favorino riferiva gli
aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali filosofi del VI-IV secolo a. C.;
nella Storia varia gli aspetti piu appariscenti delle tradizioni culturali: il
titolo di due frammenti con- servati è già abbastanza indicativo: I. filosofi
che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli
accusatori dei filo- sofz), ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici
(Sulle idee, La filosofia di Omero, Su Platone, Su Socrate e la sua arte
erotica, Sul modo di vivere dei filosofi, Su Plutarco e lo stato d'animo
delfAcca- demico, Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pam-
file: compendio di uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le
opere fondamentali di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui,
appunto, si davano gli strumenti, i modi o tropi me- diante i quali dimostrare
l'incoerenza delle varie filosofie, in una ri- presa dei tropi di Enesidemo),
l'altra in 3 libri su la La fantasia cata- lettica, in cui si rimetteva ancora
una volta in discussione. la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si
fondava la loro gnoseologia, del pas- saggio dalle strutture della ragione alle
strutture della realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile
(xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è sempre una nostra
rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su di un piano
retorico la tesi neo-acca- demica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e
i contra, determi- nare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile,
praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo Favorino, nell'ipotesi
aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella
stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica, presa
come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano
retorico, in funzione politica, me- diante cui convincere a una certa
concezione, sia pur assunta come ipo- tesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro
in che sen:so lo scetticismo meto- dologico abbia avuto una funzione
preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se
da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le
concezioni di sfondo poteva ser- vire per determinare una certa visione (sia
essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in
sé) e a quella convin- cere in un abile uso delle tecniche retoriche;
dall'altro lato, entro i ter- mini di un effettivo sapere (e tale è il
significato di scienza, già molto 41 bene indicato da Seneca: cfr.
sopra), la scepsi, intesa come ricerca cri- tica, costituiva le basi delle
possibili ipotesi, non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i
fenomeni naturali. In altri termini, anche in questo campo, si presentano
innanzi tutto descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si
sono avute nel tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi,
contrapponendo l'una ipo- tesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra,
dare la soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non
contraddittorie. C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di
Plinio il Giovane in due sue lettere a Licinio Sura. Di Licinio Sura sappiamo
che nacque in Spagna nel 56 circa e che mori non molto dopo il 110, che fu
amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo all'imperatore
Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande autorità. Sappiamo,
inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu vari movimenti
cultu- rali del suo tempo si preoccupò, da un lato di rendere conto di quei
movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno studio
comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i pro e i
contra di ciascuna soluzione. Plinio, appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella
prima lettera (Lettere familiari, IV, 30), gli descrive il feno- meno
dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno
regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della
sponda orientale, nel ramo comasco del Lario .("ti porto dalla mia terra
natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda
erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipo- tesi che servono a spiegare
il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la di- scussione e la possibile soluzione
("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi
strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio chiede
all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no
("vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una
propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà
e ricevano apparenza solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie
di racconti intorno a storie di fantasmi. Partico- larmente interessante -
anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di
fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e
comoda casa di Atene nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci
si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di
ferraglia e... uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino,
quindi appariva uno spettro..." - e sulla quale il proprietario mise un
affittasi in cui si offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno,
ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla"; .la casa fu
presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo,
informatosi, aveva saputo del 42 fantasma; Atenodoro, pur cercando
di distrarsi, assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di
catene e vide lo spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro
finché, nel cortile, il fantasma improvvisamente svani; segnato il punto,
Atenodoro il giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove
il fantasma era sparito: là trovarono ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte
a spese della città, "la casa non fu piu visitata dai Mani, sepolti,
secondo i riti." Plinio cosi conclude la lettera: "Ti prego perciò di
volere aguzzare l'ingegno. L'ar- gomento è degno che a lungo e a fondo tu
l'esamini: e neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza.
E anche se tu, .come sci solito, esaminerai il pro c il contro, vedi però di
giungere a una conclusione piu decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e nell'incertezza,
poiché la ragione del mio consulto fu il desiderio che cessasse ogni
dubbio." Le due lettere di Plinio hanno un valore documentario di non poca
importanza. Molto chiaramente mostrano le due facce di un unico me- todo di
lavoro: a) descrizione di fenomeni quali si sono registrati ed esposizione
delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da discus- sioni: a tale
esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipo- tesi, base da un
lato per una preparazione culturale generale e, dal- l'altro lato, per una
discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti
ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e oucstioni naturali,
in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle v2.rie concezioni, insieme
alle isagogc, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un
ordinamento per questioni, per scuole, per di: scendenze (lavori tutti, sotto
questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è
chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite,.le opinioni, gli apoftegmi
dci filosofi celebri di Diogene Laerzio, che scrisse sul principio del m
secolo); b) sulla base dei dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico
sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e discussioni delle
varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. Entro quest'àmbito, entro i
termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel
tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di
indagine i diversi piani di feno- meni: dai fenomeni naturali e dalla
possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia,
matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura umana
(esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e
straordinari; psicologia; e via di seguito). E poiché sia per l'una ricerca che
per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella
determinazione dei pro e dei contra, si trattava di precisare le condizioni che
permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio,
l'indagine stessa di- viene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè
·"logica." Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente
determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio
sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla
corrente della medicina empirica, che trovò il suo fondamento nella tesi piu
stret- tamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure,
rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come
veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permet- tessero un
discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere
relativo a certi contenuti (si pensi all'opera medica di Galeno e
all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui anche, su di un piano piu
strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle
soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, rag- gruppate in
questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in
questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o re- spinte a
seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene, cosi:, come i
maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e so- luzioni al
commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristo- tele, degli
Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e del- l'altra
interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel deter- minare
venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche
volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e re- spinte,
cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e
concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle
esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dal- l'Egitto, dagli
ebrei come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche
come si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e
dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici,
insieme, per altro verso, alle sintesi che pro- vengono dai commentatori di
Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e
introduzione, che proviene da al- cuni commentatori della logica di Aristotele
e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il
fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha principio
la formazione del medievale "Platone teologo" e "Aristotele
logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già dalla fine del 1
secolo a. C., .con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato, di contro ad
ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento critico-metodologico, in
un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi argomentativi, dall'altro lato
delle condizioni e dei limiti del discorso, e che nell'arco di tempo che va da
44 Enesidemo ad Agrippa (metà del I secolo d. C.), l'indirizzo scettico
si era venuto incontrando con l'indirizzo della medicina empirica, finché con
Menodoto di Nicomedia, vissuto tra 1'80 e ir 160 d. C., i due indirizzi
confluirono in un unico metodo di ricerca scientifica (da Enesidemo ad Agrippa
e Zeucsis; per essi e per i tre momenti fondamentali del me- todo della
medicina empirica, autopsia, historie, mimesis, che ebbero non poca influenza
sul modo della ricerca in generale, si confronti sopra). È noto che nel campo
della medicina si sono determinati tre indi- rizzi fondamentali: l) l'indirizzo
dei medici teorici (Xoyutot), fin dal m secolo a. C., tra cui con Ateneo di
Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli Agatino di Sparta e Archigene
di Apamea, vanno posti i cosiddetti "pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo
dei me- dici "metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea
(seconda metà del I sec. a. C.), e il celebre Asclepiade di Prusa (o di
Bitinia), è proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto sotto Nerone), e Sorano
di Efeso (vissuto nel n secolo, sotto Traiano e Adriano); 3) l'indirizzo dei
medici empirici, che, ufficialmente iniziatosi con Filino di Cos (m sec. a.
C.), prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine
metodologica, con Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apol- lonia il
Vecchio (n a. C.), Glaucia di Taranto (n a. C.), Eraélide di Ta- ranto (prima
metà del I sec. a. C.) e nel I sec. d. C., con il celebre oculista Demostene
Filalete, con Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio,
Apollonia di Cizio, Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di Laodicea, e tra il I e
il u secolo, con Menodoto di Nico- media. I "teorici" fondavano la
loro filosofia e patologia entro il quadro della concezione stoica, rifacendosi
al "pneuma"; i "metodici", invece, pur rifacendosi all'esperienza,
sostenevano esser necessario, per non trovarsi di fronte a una infinita serie
di dati muti, collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale tesi fu
sostenuta da Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo
dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e sulle
malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima di
Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del corpo
umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della patologia
delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di
Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie
acute e croniche. Nella polemica contro i "teorici" e contro i
"metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella meto-
dologia scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggia- mento di
Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi
medici, forse anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come
malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp., 63-64, in Deichgraeber, Die
griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. E fu, appunto,
per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso
erano anche i "metodici," il cui atteggiamento nei confronti della
pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai
convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò
discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto
assunse le argo- mentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione
"probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione dei
"metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi
di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle
possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo
dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie.
In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano
scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o
direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati
e feno- meni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo
me- dico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezio- nali,
raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in
cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge,
per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si
rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non
interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per
cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a
quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore
polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c h e
trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di
tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei
"metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile,"
in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla
di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente,
egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che
Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico,
l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische
Empirikerschule: eine Sammlung der Frag- mente und Darstellung der Lehre,
Berlino, 1930, n. 293). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della
scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva
con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza
con questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi
simpatie per Me- nodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina
empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche
Deichgraeber, op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra
enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro serio e proficuo è non
uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato
esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione
all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo
una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni,
segni "ram- memorativi" e non "indicativi" di strutture in
sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo
la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di
simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una
"descri- zione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che
non pre- sume affatto di essere una definizione. Che tale sia stato il metodo
della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustifi-
care la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si
annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo
stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non
identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente
antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella
critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII,
32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto,
Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali
della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della
medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è
affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato
l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal
noto all'ignoto, ma un pas- saggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i
fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti
mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé,
ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40,
15). In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva
identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida l'abbiezione
dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e· definitivamente
assu- mendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza metodologica e
logico- linguistica dello scetticismo, come ben si vede attraverso Sesto Empi-
rico, vissuto tra la fine del II e il principio del m· secolo, discepolo del
medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio (IX, 116), era successo a
Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e Teodosio, autore, sembra, di un
Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di Capitoli scettici, del quale non
sappiamo altro se non che fu medico empirico e di poco piu giovane di Teoda
(cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). Scrive, dunque, Sesto: 47
Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici s'identifica con
la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta empirica afferma
reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo un dogma] né è
identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo Scettico accogliere
quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire quello che si chiama
metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici, sembra non affermi
nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza presumere di dire se
siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da questi prende ciò che
sembra giovare, conformandosi alla maniera degli Scenici... Tutto ciò, credo,
che viene detto dai metodici si può ridurre alla necessità delle affezioni,
quelle che sono secondo natura e quelle che sono contro natura. (Diciamo che lo
scettico non dogmatizza, non nel senso in cui prendono ·questa parola alcuni,
per i quali, comunemente, è dogma il consentire a una cosa qualunque, poiché
alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili
assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si aggiunga che comune ai due
indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in- differenza nell'uso delle parole
(diciamo, ad esempio, "valore" senza annet- tere a questa parola
nessun sottile significato, nel suo senso semplice in rapporto al verbo
"valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice "tutte le cose sono
false" perché insieme con la falsità di tutto il resto affermerebbe che
falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue espressioni, lo scettico
esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affezione senza osser-
vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando circa le cose che sono
fuori di lui: l, 14-15). E invero, come lo Scenico adopera, senza pre- sunzione
dogmatica, la espressione "nulla.dò per certo," e l'altra "nulla
comprendo," come ·si è detto, cosi anche il "metodico" dice •
comunanza," "si riferisce" e simili, cosi semplicemente. Cosi,
anche, assume la parola "indicazione," senza presunzione dogmatica,
in luogo di "guida," verso quelli che sembrano essere i provvedimenti
consentanei, sulla base di quelle che appaiono essere affezioni secondo o
contro natura... Congetturando da questi e altri fatti simili, si deve dire che
l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli altri indirizzi medici, una certa
affinità con lo Scetticismo, s'in- tende, comparativamente agli altri, non in
modo assoluto (lpotip. Pi"·• l, 236-241). 4. Inurpretazioni di Platone e
di Aristotele nel II secolo a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio,
Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si delinea abbastanza bene una certa
esigenza e uno dei possibili modi di interpretare alcuni testi di Platone,
anche per dare una forma e un fine all'azione dell'uomo, che, nel conflitto
delle forze che lo agitano, una volta sganciato dall'Essere, il quale si pone
teoreticamente come condizione dell'esistere, praticamente come modello da
realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o, rimanendo dilacerato 48
nel conflitto, di restare nella molteplicità, frantumato nelle proprie
pas- sioni, succubo dell'anima malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai
molti e complessi testi di Platone, un aspetto preciso, senza dubbio pos-
sibile, qualora quegli stessi testi vengano isolati da altri, e cioè quel-
l'aspetto che può appunto interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che
l'Essere, ciò che dà forma, ragione e significato alla realtà, si pone come
dover essere, come termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a
Platone si delinea nella confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e
fatalistico dello stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario del-
l'epicureismo, certi motivi aristotelici potevano, invece, essere ripresi come
una approfondita interpretazione, sul piano logico-metodologico, dello stesso
Platone (il mondo delle idee tutto in atto in Dio, forma delle forme,
condizione e principio, causa prima e, ad un tempo, fine ul- timo, motore
immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per Platone il mondo delle idee
è tutto presente nell'intellezione sempre in atto di Dio; oppure i due aspetti
della realtà fisica, il mondo celeste e intelligente :: il mondo sublunare, che
si potevano interpretare come i due termini in tensione dell'ascesa al divino;
oppure ancora l'aspetto formale del- l'etica aristotelica; o, infine, la teoria
delle sostanze seconde senza di cui non sarebbero gl'individui, che in realtà
si risolvono e si perdono in =tuelle forme universali). D'altra parte, poiché,
come sappiamo, Aristotele non si esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su
una o altra opera di lui, si poteva interpretare Aristotele come il filosofo
che nega la prov- •idenza, lo stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità
dell'anima e ma sua sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli,
il 3losofo che risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma-
lità, che .al filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una
forma alla propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle :ondizioni
che permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una raccolta
di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo veduto,
portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti dell'aristotelismo.
Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato nella ricerca di sé e
perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella crisi di una cultura,
all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in quanto valori, non dati
di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di Pla- tone, il commento,
nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a seconda della confutazione
nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo, a sottolineare certi
aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri, respingendo ad un tempo
quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto cenno; dall'altro lato,
all'esigenza scolastica di presentare in un sistema compiuto e coerente il
pensiero di Platone, suddiviso nei 49 capitoli divenuti oramai
canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali lavori scolastici
d'insieme (introduzione a una lettura di Pla- tone ed esposizione del suo
sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei dialoghi, ove
maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come il piu sistematico e
l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del Parmenide e del
Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che poche tracce, se
non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per l'anonimo
commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di Madaura.
L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4 Albino,
vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di Gaio, che
pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non le scarse
notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore del Commento
al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state pubblicate da
Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di Platone.
Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in poi. Autore
di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr. il
testo a cura del Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III) e di
una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande
influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un
certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a
causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai
convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in
tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV-VI); Teoria e
contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VII- XXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV);
Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non
maestro di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~
incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel
125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine
ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene
dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{
l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque
dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece
iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica,
astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente
le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso
rielaborò in l:itino. Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si
recò a Roma dove svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte
cause. Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si
ammalò ad Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in
dimestichezza con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane
amico conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio
maggiore di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo
stesso Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava
rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di
Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici
i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi
i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso
Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio
giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere
costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio,
trascinato in tri- bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo,
energicamente si difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa,
pronunciata, nel 158 circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio
rielaborata e sviluppata - sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia
liber. Prosciolto da ogni aceusa di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove,
per la sua eloquenza, per le sue brillanti conferenze, per la sua capacità di
parlare 50 opere di grande importanza per una ricostruzione
storica del plato- nismo nel u secolo: se da un lato indicano un preciso modo
di inter- pretare Platone, dall'altro lato chiariscono non solo un metodo di
la- voro, ma spiegano anche come per presentare un pensiero di Platone - nel
suo complesso interiormente coerente - che abbraccia tutti i rami del sapere
(filòsofìa), si sia potuto, per alcune parti (la logica in parti- colare)
ricorrere a certi aspetti della logica di Aristotele, reinterpretata attraverso
l'elaborazione formale-linguistica della logica del primo stoi- cismo, in un
recupero di Aristotele in funzione platonica. Scrive Albino, aprendo la sua
Epitomè: Ecco quale potrebbe essere l'esposizione delle principali dottrine di
Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV
't'OL«U't"7j 't'~ &v 3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è
un'aspirazione [cfr. Platone, Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla
sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se si vuole, lo scioglimento dell'anima che
si allontana dal corpo, quando ci volgiamo all'intelligibile e alla verità
[cfr. Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c]; la sapienza (O'ocp(«) è la scienza
(br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane cose... (Epitomè, l, l). E cosf
conclude l'opera Albino: Queste nostre delineazioni bastano per servire di
introduzione (daatyeù"'{'fj) allo studio della dottrina di Platone (dc;·
TY)v llM't'Cùvoc; 30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si presentano,
forse, bene articolate, altre invece mancano di ordine c di articolazione
logica; ad ·ogni modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare le
altre dottrine di Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè, XXXVI). E
dopo avere delineato la vita di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In
questo nostro trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si
direbbe in greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per
indifferentemente in latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che
ancora vivente gli furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della
città. Mori a Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono
rimaste: i Florida (un'antologia di discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi), l'Apolo6ia
(Pro se de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque dogmatis (in tre
libri), il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudo- Aristotclc), le
Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in cui si narrano le
avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che trasformato in asino per
magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc). Degli scritti perduti si
ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re rustica, Medicinalia,
Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn conviviales, De Republica,
Eroticos, Epitome historitlrum, Herma- goras. Sembra, infine, che Apuleio abbia
tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele. . 51
utilità del genere umano, in fisica, in morale, in dialettica. Cosf,
com'egli giunse per primo a coordinare tra di loro le tre parti costitutive
della filo- sofia, anche noi parleremo separatamente di ciascuna di esse,
cominciando da quella parte della filosofia che ha per oggetto la natura
(Apuleio, La Dot- trina di Platon~, I, 5, 190). Se l'intento estrinseco di
Albino e di Apuleio è evidente (presenta- zione in un ordine sistematico delle
fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione, isagoge, allo
studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro intento
intrinseco nello scrivere una "mono- grafia" su Platone: avviamento,
attraverso Platone, ad una filosofia si- stematica, tale che non
contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini
dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno,
consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa
salvare facendosi simile al divino. "La vi- sione contemplativa
(.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino con
termini aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è l'atto
di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, interme- diario il corpo.
L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui relative si
dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima è quel che
si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in altro
-consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v TL<;;
e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)" (Epitom~,II, 2).
Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di Platone divisa in tre
sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò che queste di- verse
parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e che non solo esse non
erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva all'altra. Infatti, benché
avesse attinto a diverse scuole questi elementi della scienza filosofica, e
cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la logica a Pitagora, là morale
a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli seppe tuttavia fare un sol
corpo, ed appunto in questo consiste la sua originalità ... Orbene, tale
visione sistematica ha una grande utilitl per il genere umano (1, 3, 187). Vogliate
scuotere e agitare Platone: ciascuno, onorandosi di appli- carlo a se stesso,
lo trae dalla parte che vuole" (Montaigne, II, 12). Nelle parole di
Montaigne è implicita un'osservazione storica di primo piano, e cioè che,
appunto, non esiste un "platonismo," ma tanti "platonismi,"
ciascuno, almeno in parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a
Platone, uno o altro aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo,
entro i termini di una comune problematica, l'impo- stazione delle opere
platoniche di Albino e di Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che
abbiamo delle altre opere su Platone, degli 52 altri commenti ai
dialoghi platonici che fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a
chiarire, per altro verso, il significato dei commenti a certe opere precise di
Arislotele,·da parte dei peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di
Afrodisia (seconda metà del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali
che siano le interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la
funzione data all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario
della filosofia di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e
sulle "filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del
pensiero platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele,
da quella di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di
Ascalona, di Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di
sistemazione e di enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva per le altre
filosofie, per presentare dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e
compiuto. Come durante il I e il n secolo d.C., vediamo, ad esempio, una serie
di lavori che raccolgono insieme, in un sol corpo, le argomenta- zioni degli
scettici, culminanti nella grande opera di Sesto Empirico, le Ipotiposi
pi"()fliane, e come c'incontriamo in una serie di sillogi del pensiero
stoico, particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di .stoicismo da Zenone
in poi, per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte presentano
un corpo dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col pensiero
dell'uno o dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione che dello
stoicismo farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene per
Platone, per il corpo platonico e per il com- plesso delle interpretazioni di.
lui, ove, puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti del
platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad altra
esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro, pur
usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in un
rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli
stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico
avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che
costituisse il com- plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un
certo com- plesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il
nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di
dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui
commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro
non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche il
loro intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò, ad
esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma anche
dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata
perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, 53 raccolto e pubblicato
in 9 libri da Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di
lpotiposi delle dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v
3oy(.UX-r6>v; ove va sottolineato che non è forse un caso che si dica
platoniche e non di Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo,
insegnò a Pergamo, dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel
125 circa, morto nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al Teeteto.
Attraverso il Prologo a Platone (probabilmente un estratto di un'opera
maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell. Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o
Didascalico di Albino (l'Epitomè fu ritenuta un tempo opera di un certo
Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo non è mai esistito, e che al posto di
Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu dovuto a un errore materiale, alla
confusione in scrittura minuscola tra ~ e x, risalente al IX secolo: cfr.
Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à l'Epitomè di Albino, Parigi,
1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone di Apuleio sembra si possa
precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo di interpretazione e di
sistemazione di Platone. A parte la riduzione del pensiero platonico ai tre
aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria (contemplazione dell'essere:
della. teoria, la parte che si occupa delle cause prime e immobili, di tutte le
cose divine si chiama teologia; quella che studia il movimento degli astri, le
loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il costituirsi del cosmo, è la fisica;
quella che utilizza la geometria e le altre scienze analoghe è la matematica:
cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio di quali debbano essere le regole
dei costumi, l'amministrazione di una casa, il modo di governare e sal- vare lo
Stato: la prima di queste attività si chiama etica, la seconda economica, la
terza politica: cfr. Albino, Epit., III, 3); logica (analisi dei ragionamenti,
detta dialettica, in quanto studio di come è che si deve ragionare; cfr.
Albino, Epit., III, l); ciò che piu colpisce, nell'in- terpretazione del
pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è lo sforzo continuo di
rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e per- ciò razionalmente
accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei Topici, dei Secondi
Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le tesi platoniche
esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu delle volte
mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone, ricavate, ad
un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra chiaro cosi
perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il cui oggetto
è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga strutturata con il
linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di Aristotele. Per Albino,
anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da Aristotele) sarebbe stato
il punto di partenza di Platone, per avviare a compren- 54 dere da
un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato il posto che
nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel tutto e nei
confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere esposto nel
I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia naturale" e nel
II la "filosofia morale," dedica il III alla logica ricavando tutto
ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter- pretatione di Aristotele, tanto
che si è dubitato che il libro III sia davvero di Apuleio. La questione, forse,
si fa piu chiara quando si pensa a quello che fu il lavoro di Aristotele nei
confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano state le soluzioni di
Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno in principio, una delle
possibili inter- pretazioni della tematica platonica, che - prendendo le mosse dal-
l'interpretazione metodologica del Platone del Teeteto, del Parmenide e del
Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche - essere uno e idee, idee
separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra l'impossibilità di pensare le forme
senza contenuti, e i contenuti senza forme - in uno studio sistematico di
quelle che sono le condizioni logiche che permet- tendo un tipo di discorso non
contraddittorio risolvessero quelle aporie stesse, assumendo come vera
quell'ipotesi che non fosse piu oppugna- bile. Aristotele giunse dove giunse,
ma intanto il suo metodo d'inter- pretazione e di discussione dialettica delle
ipotesi, per determinare i principi non piu discutibili da cui trarre
discorsivamente ciò che in essi è implicato, poteva servire all'analisi delle tesi
platoniche per ren- dere giustificabile, cioè razionalmente deducibile, e per
ciò stesso con- vincente, quello che sembrava l'intento fondamentale di Platone
ed in particolare il punto cruciale e piu equivoco del pensiero platonico, il
rapporto essere-idee, unità-molteplicità, che, assunto in termini aristo-
telici, si poteva ritener risolto da Platone nel Timeo. b) l commentatori di
Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia, So'Sigene,
Ermino, Aristocle di Messene. A tale propo- sito, anzi, non va dimenticata qui
l'influenza che tra il I e il 11 secolo, aveva avuto l'edizione del corpus
aristotelicum dovuta ad Andronico di Rodi,6 che dette luogo, in un progressivo
accantonamento delle prime opere di Aristotele, ad una serie di commenti e di.
introduzioni ad una lettura di Aristotele. Purtroppo dei commentatori del 1
secolo e di alcuni 6 Su Andronico di Rodi si veda sopra. Ad Andronico di Rodi,
che, successo a Erimneo, fu scolarca del Liceo, in Atene, tra il 70 e il 60 a.
C., successero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo; sotto Augusto, Xenarco di
Seleucia, che insegnò anche ad Ales- sandria e a Roma; nel 1 secolo d. C.,
Menefilo; tra il 120 e il 160 circa d. C., Aspasio, Ermino, Alessandro di
Damasco, Aristocle di Messene, Sosigene. Della loro vita non sappiamo niente di
preciso. 55 del n non sono rimaste che testimonianze e la
precisazione di quali opere di Aristotele hanno commentato. Ma sono già
indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege, vissuto nel I secolo, che
sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr. Suda, s.v.), sappiamo che
compose un commento alle Categorie di Aristotele, in cui ne sosteneva il signi-
ficato formale linguistico, assumendole quali condizioni di possibili giudizi e
fondamenti logici della po~sibilità del reale, determinando la struttura
dell'universo (e in tal senso sembra abbia commentato il De coelo). Di Aspasio
- vissuto presumibilmente nella seconda metà del I s e c o l o - sappiamo che
commentò le Categorie, i l D e lnterpretatione, il De coelo, parti della
Metafisica e l'Etica Nicomachea (di quest'ul- timo commento è rimasto un
frammento: in Commenl. in Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889). Di Adrasto di
Afrodisia, fiorito, come sembra, nella prima metà del n secolo,. ritenuto dagli
antichi uno dei maggiori interpreti di Aristotele, sappiamo che scrisse
un'opera per delineare quale doveva essere l'Ordine degli scritti di Arinotele
(cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che sosteneva
doversi porre al principio di tali scritti, a mo' di introduzione e quale
condizione me- diante cui comprendere la via metodologico-logica attraverso cui
Aristo- tele giunge a determinare la propria posizione, le Categorie e i
Topici, mentre, per altro verso, usando il metodo di Aristotele commentava il
Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol. harm., ed. Wallis, Opera malh., III,
270) e dava un quadro generale, entro questi termini, del sapere astro- nomico
fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di Smirne, Conoscenze mate- matiche utili a
una lettura di Platone, III). Di Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che
commentò la logica di Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in
termini matematico-formali, risolvendo quindi in termini geometrici la teoria
delle sfere e della visione. Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di
Aspasio, com- mentò particolarmente i libri logici (Categorie, De
lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il valore formale. Cosi,
sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre Dio motore immo- bile
e il movimento dato da esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento
alla Fisica, il dio aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto
aspira, per cui bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si
muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il
significato dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56 Su questa
linea non sembra perciò un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u
secolo) potesse sostenere, come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev.,
Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV, 1,13 e 14, l sgg.) rima- stici dalla sua Storia della
filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un perfetto accordo (cfr.
Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e che
l'aristotelismo si poteva delineare come l'in- terpretazione logica del
platonismo (del resto, pare, tesi già soste- nuta fin dal I secolo a.C. sulla
scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da
Aristone di Aless;m- dria, che commentò gli Analitici e le Categorie e da
Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle Categorie).
Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo tendono a
una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del
tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle
scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso
al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "stru-
mento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in-
teresse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la
Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. At-
traverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di
determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno
o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor-
rette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formu- lata
dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla strut- tura e
l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica
(vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il
mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in
atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia
qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per
esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto
forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo).
c) Il «platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa
chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di
cui già troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino6
ha la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di
una certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni
della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione,
analisi, induzione e sillogismo, 6 Sulla vita di Albino vedi sopra. 57 significato del linguaggio),
e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze
(aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere
ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da
cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque,
Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e
dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi,
passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e
alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter-
mine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta-
impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale,"
"nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat), sostrato
incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo
[cfr. Timeo, 50c, 5Ia, 49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria
è di ricevere i frutti di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice
che tutti li accoglie nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa,
per sua natura, sia senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per
poter ricevere tutte le forme]. La materia perciò non è né corporea né
incorporea: essa è un corpo solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo
che è virtualmente una statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma
per essere una statua [evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2;
Fisica, Il, 3] (Epitomè, VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo·
principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle
idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto
a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç .8-eòv
v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla
materia, la misura; al mondo sensi- bile, il paradigma; relativamente a se
medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le Idee sono le
operazioni eterne e perfette in sé della intellezione divina. E che le idee
siano lo si può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un essere pensante,
egli l}a dei pensieri e tali pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le
Idee sono. D'altra parte, se la materia non può misurarsi da sé, è necessario
ch'essa trovi tale misura altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non
materiale: ammesso l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque
esistono e sono misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste
in virtu di una causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche
da qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se
non l'Idea? Le Idee dunque esistono. ... Di qui anche il terzo principio che
Platone considera come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo
grazie al seguente ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono
sotto i sensi né par- tecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili,
i primi intelligibili sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli
sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue.
Dato che gli uomini sono un complesso di impressioni sensibili tanto che
perfino quando si propon- 58 gono di concepire l'intelligibile, vi
mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di
colore che essi spesso vi aggiun- gono, è loro impossibile concepire con
purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile e
concepiscono l'intelligibile in forma pura e sem- plice. D'altra parte, poiché
l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in potenza (!v
3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in
attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la causa e che
è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa agire senza
interruzione l'intelletto del cielo intero... Tale primo intelletto deve,
dunque, concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd pensieri, ed
è in tale attività dell'intelletto che con- siste l'Idea. Il primo Dio, dunque,
è eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre in sé
compiuto, cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto in
tutti i luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la
proporzione, il bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far
concepire, mediante la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è indici-
bile ed afferrabile solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non
è né genere, né specie, né differenza specifica e neppure può subire acci-
denti... Egli non è qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfe-
zione non è dovuta a una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non
manca delle qualità che possono essergli proprie; non è parte di qual- cosa né
un tutto che abbia parti, non è identico a una o ad altra cosa... esso infine
non dà né riceve movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà
una prima idea di Dio, come si giunge a concepire il punto facendo astrazione
dal sensibile, muovendo dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per
giungere infine al punto. Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo
per analogia...: come il sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere
e agli oggetti d'esser veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto
dell'anima, ma dà all'intelletto dell'anima la facoltà di conce- pire e agli
oggetti intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi
contengono. Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contem-
plazione del bello che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di
qui al bello che è nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto
oceano del bello... ] (Epitomè, VIII- X). Il testo di Albino è certo molto
chiaro per renderei conto di un tipo di interpretazione della problematica di
Platone relativa al rap- porto Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve
attraverso uno degli aspetti della logica aristotelica. Eliminando via via le
contrad- dizioni si giunge a porre come· condizioni non contraddittorie della
pensabilità del reale da un lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto,
l'essere come pensiero in atto; il cui discorso è la stessa realtà,
ripercorrendo la quale si arriva a cogliere l'atto pensante, appunto in sé
indicibile, perché sempre in atto discorso intiero, ma da cui si ridi- scende a
tUtti i nf'ssi che costituiscono la trama e il ritmo su cui si 59
scandisce la realtà, sempre in atto allorché s'intende l'Uno pensiero, e
perciò eterna, processo e tempo, in quanto se ne ripercorrono le trame su cui
appunto la realtà si costituisce. In tal!= senso Dio, la prima essenza, il ciò
senza di cui nulla è (causa, per cui grammaticalmente il verbo, l'è, la
sostanza è la condizione della predicabilità), viene a porsi, in chiave
aristotelica, come la condizione logica che rende pen- sabile la realtà, e,
appunto perciò, pensiero di pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in
atto aggettivazione (e, per questo, idee sono dette le aggettivazioni
dell'intelletto in atto, del primo intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa
è Dio, non forza fisica, ma pura intel- ligibilità. Assume qui un suo
particolare significato l'opera di Teone di Smirne,T vissuto nella prima metà
del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto, si serve del suo commentario al
Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non cita Claudio Tolomeo),
intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv lP7JcniL(a)V dc; -rljv
llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili alla lettura di
Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si muove, per
l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e di Albino. È
anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso un certo modo
di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv &ellv
61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già Gaio
diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto
quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone
indicate come fon- damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche
Nicomaco di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie
teorie svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria
piana, la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale.
Nel timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le
matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non
siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle conoscenze
necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul- l'aritmetica,
la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze senza le quali
è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice [Epinomide, 992a],
dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra- scurare le matematiche
(l). L'opera di Teone, preziosissima per una ricostruzione della storia delle
singole scienze trattate, particolarmente per l'astronomia, è pre- T Quasi
nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne 60 ziosissima anche
come indicazione della traduzione sul piano scientifico della teoria platonica
in termini aristotelici, in una sistemazione del- l'universo che permetta
calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando in un unico sapere le varie
tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a Ipparco di Nicea e Adrasto, è
l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il grande lavoro di Claudio
Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi platonici (Gaio. Albino,
Teone), sembra chiara la loro opposizione alla riduzione stoica del divino a
forza egemonica, annullante il divino nello stesso processo del mondo, anche se
sul piano del mondo e della organizzazione e qualificazione del reale, della
funzione dinamica dell'"anima mundi," del tutto vivente, il discorso
poteva essere talvolta simile a quello di certi stoici e del loro modo di
interpretare il Tim~o (cfr. Ario Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da
Albino: si veda il principio del XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo,
in Eusebio, Pra~p. ~v., XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato
sul De mundo dello pseudo-Aristotele). d) Il « platonismo"
antiaristotelico di Calvisio Tauro e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre
all'opposizione nei confronti dello stoi- cismo ontologico, da quanto è stato
sopra detto si delinea anche l'oppo- sizione ad un certo Aristotele, che
chiaramente possiamo notare in un altro gruppo di commentatori di Platone,8
facente capo a Calvisio Tauro (il quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo
di Adriano e di Antonino), e proseguitosi con Attico - fiorito nella seconda
metà del II secolo, autore di un commento al Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim.,
315a,- successo, pare, a Calvisio Tauro, ç con Nicostrato- fio- rito tra il 160
e il 170. - Se il fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia, per
quelle poche testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone agli
Stoici (Discrepanze della Stoà ri- spetto a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5,
5), ma anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta) intitolata
·TratttftO sulla diffe- renza delle scuole di Platone e di Aristotele (Aulo
Gellio, XII, 5, 5), tale opposizione risulta certa dai frammenti che Eusebio
(Praep. ev., XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13) ci ha conservati delle
opere di Attico. Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio
per poter ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano,
tuttavia,. che l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter-
8 Poco o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro,
Attico, Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico,
di cui fu discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene,
tra Adriano e Marco Aurelio. 61 pretazione ch'essi davano da un
lato delle categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i
termini dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso
formale e grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della
sostanza in senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo
l'opera di un certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie
ari- stoteliche, vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascen-
dente platonico: cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14
sgg.), si capisce come si potessero interpretare certe conclusioni
aristoteliche quali negatrici di una provvidenza, di una distinzione tra
intelligibile e sensibile, dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice
del mondo, per cui si poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica,
che Aristotele è ateo sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il
divino nell'attualità del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico.
"Platone," esclama Attico, "per non privare il mondo della
Provvidenza, dichiarò che questo mondo non è ingene- rato. Ora, noi esortiamo
quei platonici che sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone,
non è stato generato, a non met- terei nelle difficoltà... A tale tesi li ha
indotti Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in
Dio], e pér cui è neces- sario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che
imperituro è solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio
neppure il potere di fare il bene..." (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6).
"Aristotele cosi annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà
verso gli esseri superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita
umana... e supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà
morto con lui, eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli,
dunque, non ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni
relazione con gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi
decisamente ateo o che difenda la sincerità del suo atei- smo relegando gli dèi
dove li ha posti. Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi
dicendo che non hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con
questo il suo ateismo..." (in Euse- bio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di
qui, secondo le testimonianze di Proclo (In Tim., 41d), la tesi di Attico, per
il quale Platone avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa
viva da una potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in
atto nel Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra
il divino, causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite
e dispersione e perciò come radice 62 del male, avrebbe posto
Arpocrazione di Argo - commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade
Maggiore, e autore di un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico
(Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il
corpo (informità e limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il
poietès, mediante cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli -
volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità,
riflet- tendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in
quanto idea di mondo presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim.,
93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37: ed. Wach., I, p. 375,15,
e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato opportuno sottoli-
neare le molte venature con cui si presenta nel corso del n secolo ·il
cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione tra due in-
terpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non contraddittorietà,
punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di Aristotele, inteso come
attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica (e in tal senso
trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà, che·presuppone
l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende (onde immobile
e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le forme; l'altra,
viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in termini diversi,
un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il divino nelle stesse
categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si scandisce la realtà. Tale
contrasto, se da un lato sembra chiarire il significato dell'appello a Platone
e dell'interesse per la logica aristotelica, dall'altro lato è fondamentale per
capire sia gli sviluppi di un certo approfondimento nell'interpretazione di
Ari- stotele (Alessandro di Afrodisia), sia gli sviluppì, sul piano dei com-
menti a Platone e ad Aristotele, di una certa interpretazione di Platone (da
Numenio di Apamea a Platino), ove fin da ora va detto che viva rimase la
questione del come interpretare le categorie di Aristotele (ricordiamo, su tale
piano, la discussione tra Platino e il suo discepolo Porfirio; Platino, VI,
Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie, dei generi sommi, di Aristotele,
annullando l'Uno platonico; Porfirio le riprenderà dando ad esse un valore
formale linguistico e non antico), proponendo, per altro, il platonismo come
l'unica ipotesi non contrad- dittoria per spiegare la realtà in tutto il suo
complesso (non a caso Platino, in nome della tradizione razionalistica greca,
scriverà finis- sime pagine Contro gli gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo
ogni tipo di "rivelazioni speciali"). 63 e) Alessandro
di Afrodisia, il "secondo Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione
di Aristotele sembra .essersi posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11
secolo, discepolo di· Sosigene, di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr.
sopra), che tennero lo scolarcato del Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a
cui nel 190 circa successe Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici
di Aristotele (sono rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli
Elenchi sofistici: in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino,
1883-98), la Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il
De sensu (sono rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm.
graec.," l, 1891; al De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.,"
III, 1899-1901), e, oltre che nei commenti, chiari la propria interpretuione in
un Trattato sulfanima (in 2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato,
nel De mixtione e nei quattro libri delle Questioni controverse e solu- zioni
sulla fisica e sulla morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892). L'interpretazione
che Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre fondandosi sui testi,
muovendo dalla tesi basilare di Aristo- tele, che discorso scientifico è
possibile solo muovendo da principi" posti non contraddittoriamente,
Alessandro respinge ogni soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il
perché delle cose, ricorra a salti, o a inter- venti extrarazionali. Sotto
questo aspetto egli respinge l'interpretazione aristotelica in chiave
platonica, per sottolineare dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu
strettamente metodologico della ricerca in una chiara determina- zione del
retto uso dei termini (essenziali~, causa, forma, materia, sinolo, potenza,
atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso tale retto uso, dal- l'altro lato,
l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo dire - • natu- ralistico
logico" dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul motivo della
"essenzialità" come "sinolo," delle forme che sono tali in
quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come presupposto
logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua specie, onde
reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e le forme, in'
quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali, cioè come
astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la
"materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica
dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini,
appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi
aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte
dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come
al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria,
sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui
divenne scolarca alla morte di Sosigene. 64 zione, sembra
abbastanza chiara la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del
rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che
l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in
potenza, cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue
tre funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal
corpo, e ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa
all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro
puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è
mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere,
afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di
tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o
"materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84,
ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà d'intendere
se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione, dall'altro
lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la
potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali
possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una
capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui,
accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in
abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere
resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha,
tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per
acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due
aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in
questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra
condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma
dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga
gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili,
l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto
tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a
quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che "
separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro,
seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28),
in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori
(&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto
poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte
stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto
solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella
individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla
sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio
dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a
sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una 65
definitiva negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende
chiaro il senso della polemica di Alessandro sia nei confronti dei plato- nici
sia nei confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una
deduzione da principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e
gli altri al pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di
essa un aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un
particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono
esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la pole- mica di Alessandro contro
la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo
intervento del divino, non solo sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il
che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle
forme, in atto tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è
termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde
esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa
spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano
indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella
che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea
Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti
per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed
effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo-
crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato-
nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari-
stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo
Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da
Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con
l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con
il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica
(e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta
la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui
vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo,
sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e
che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl.,
l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato
da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del
commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è
impossibile ricostruirne con .certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con
una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato-
nico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66
lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla categoria
stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il tutto" ('rò
1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò predicare; niente
senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è l'essere, che, in quanto
possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile, e in tal senso è un
qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire, esso né essere né
non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità, corporeità e incorporeità,
indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione alterità). Di qui, di
deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato l'esserci dell'indivisibile,
dell'identico e incorporeo, geometricamente definibile come punto, e del
divisibile, del corporeo, la cui condizione geometrica è la estensione, ove
termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto opposti della realtà, una nel Tutto,
è l'anima cosmica. Severo, interpretando cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla
funzione del- l'anima del mondo ("Dell'essenza indivisibile, e che è
sempre identica a se stessa e di ciò che è divisibile, e che si genera nei
corpi, di tutte e due formò, .mescolandole insieme, una terza specie di essenza
inter- media, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro e
cos{ la pose in mezzo tra l'essenza indivisibile e quella divisibile in
corpi... E l'anima, diffusa dal centro in tutte le direzioni, dal centro fino
al- l'estremo cielo, il cielo stesso, esternamente avvolse tutto intorno, e, in
se medesima rivolgendosi, dette luogo ad un divino principio d'inces- sante e
intelligente vita per tutta la durata dei tempi...": Timeo, 35a, 36e),
poteva sostenere da un lato che l'anima, in quanto misura del tutto in cui il
tutto s'incentra è numero, e, dall'altro lato, in quanto termine medio tra
l'essere e il divenire, l'unità e l'alterità, essa, nesso del tutto, è immagine
di Dio, del T(, trascendente e immanente ad un tempo. Uno, dunque, il mondo,
nel T(, nel tutto che lo trascende e che n'è condizione, nel suo scandirsi in
opposti, in una serie di gradi, incentran- tisi nell'anima termine medio e
unificante, il mondo è per un verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e, per altro
verso, in quanto considerato nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è processo e
divenire. Una l'anima umana e non distinta - sottolinea Severo - come avrebbe
voluto Platone in parti, ma piuttosto aristotelicamente in aspetti, l'anima
umana, specchio dell'anima cosmica, in quanto razionalità, l6gos, unificando in
unità dialettica i due momenti in cui si distingue il tutto, identità e alte-
rità, unità-dualità, afferra in sé il T( intuitivamente, cogliendo sé cerniera
tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio, Praep. ev.,
XIII, 17). Non poco indicativo sembra adesso, per renderei conto del signifi-
cato che si dà ora al termine "pitagorismo," il passo di Apuleio10 in
10 Sulla vita e le opere di Apuleio vedi sopra.
67 cui si afferma che Platone avrebbe ripreso dai pitagorici
la scienza • in- tellettuale" (" nam quamvis de diversis officiis
haec ei essent philosophiae membra suscepta, ... intdlectualis a
Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In altri termini, come chiaro
risulta da tutti i testi (si confronti ancora Moderato di Cadice, Nicomaco di
Gerasa, Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si intendeva lo studio
della teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica e della geometria,
ma anche dell'astro- nomia e della musica), quale si era venuto determinando
nei vari tempi, "pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei
possibili esiti del- l'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica,
per cui non a caso il Platone di cui ora particolarmente si discute è il
Platone ultimo. In realtà, come già abbiamo detto (cfr. I vol.), nel Sofista
sembra che si precisi il significato delle idee che non sono Essere, ma,
appunto, forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno dei generi, ma
ciò per cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un tempo limitati,
cioè numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere i nessi e le ar-
ticolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in quanto con-
nessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui i nomi sono
simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non si scordi
l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl come uno e
molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente l'ulteriore
passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista, chiarifica il
rapporto uno-molti con i nuovi concetti di illimitato (indefinito) e limitato
(ciò che ordina e definisce) per cui la realtà ap- pare come un'infinitudine
(quantità, ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come finitudine.
(misurabilità e dunque numerabilità), cioè come proporzione, convenienza e
misura, per cui di ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia colta la
forma (id~), o meglio il numero, la sua definizione in rapporto ad altra
definizione. Evidentemente i due termini illimitato (quantità) e limitato
(numerabilità e qualificazione) sono i due termini astratti di una realtà che è
in quanto si costituisce come limite dell'illimitato, cioè come proporzione e
misura, per cui ogni cosa assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua
intelligenza, che è la causa stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora,
diviene misura e convenienza, e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si
capisce, dunque, come su questo piano (donde la concezione fisico-geometrica
dell'universo quale si delinea nel Timeo), posto l'Essere come pensiero e
dialetticità (e perciò non corporeo), esso sia visibile, cioè intelligibile
(colto dall'occhio dell'intelletto), solo in quanto tradotto in termini ma-
tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto intelligenza e attività ar-
ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono incorporei. La realtà,
invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta molteplice, disartico- 68
lata, divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo substrato
informe. I due termini, allora, in quanto distinti restano impensabili, che lo
stesso essere in quanto discorso e ordinamento e misura non è tale se non è
discorso, ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisi-
bile e indefinibile, senza forma è impensabile se non in relazione alla mi-
sura e alla' qualificazione, se non per quel tanto che sfuggendo alla pos-
sibilità della misura resta al di fuori come appunto impensabile, e, dunque,
irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto
è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse
interpretare ed esporre, in forma piu de- scrittiva che non Albino, la
concezione "platonica," entro cui, per altri rispetti, far rientrare
le piu varie esperienze filosofiche e religiose ("io," esclama
Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi dalla accusa pubblica di
magia, "ho conosciuto per amore della verità e per pietà verso gli dèi, in
Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e cerimonie varie" : Ap.,
55}, e potesse sostenere the per Platone esistono tre princip~ (" initia
rerum esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm. Pl., I, 5, 190): Dio, la
materia e le forme delle cose. Presi a sé essi sono indefinibili: non a caso di
Dio dice che è incorporeo, incommensurabile (aperlm~tros), indicibile
(arretos}; che la materia non è né fuoco· né acqua né altro demento semplice,
ma è informe, infinita, in sé né corporea né incor- porea; che le stesse idee o
forme sono non in atto - inabsolutas, in- formes, nulla specie nec qualitatis
significatione distinctas: l, 5, 190; - mentre un po' piu sotto, considerando
che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e la corporeità, intermediarie
le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta oltre, dice che le idee sono i
modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne, incorporee, appunto in quanto guise
del discorso divino, in sé uno come il pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192).
Si capisce cosi come Apuleio potesse sostenere isoltre che secondo Platone due
sono le essenze, le oòaEctL, dalla cui unione si genera il mondo: la prima è la
condizione logica che permette di pensare la realtà, e che, perciò, dice
Apuleio, è intelligibile, visibile solo all'occhio dell'intel- letto, e come
tale, in quanto principio, è sempre identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe
(perciò essa è costituita da Dio, dalla materia, dalle forme delle cose o idee
e dall'anima: "et primae quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est
et materiem, formasque rerum et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la
seconda, condizione della corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è
definibile, che. trae il suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui
crediamo perché sensibile ("la seconda sostanza non è in qualche modo che
l'ombra e l'immagine della precedente," la visione fisica dell'intelli-
gibile). In effetto, perciò, pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69
cause, princ1p10 e fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che
scaturisce dai due termini, il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile
a comprendersi in quanto tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il
resto il discorso di Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione
dell'universo e nella posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di
Albino, in un commento del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica
dell'Universo, non esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si
veda sopra Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano,
l'Universo, considerato nella sua esistenza, appaia come un complesso di forze,
come vivente organismo tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo
tra- scende, in senso stoico-aristotelico .(donde il De mundo di Apuleio),
dalla corporeità oscura, limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una
infinita serie di gradi intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime demoniche.
Esistono certe divine potenze intermedie che abitano gli aerei spazi fra la
suprema volta del cielo e le infime regioni della terra, e per loro mezzo i
nostri desideri e i nostri meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li chiamano
dèmoni... Essi, come dice Platone nel Convito, presiedono a tutte le rivela-
zioni, ai diversi miracoli dei maghi e ai ·presagi di ogni specie... Non è fun-
zione dei numi altissimi scendere in basso tra noi. Ciò spetta in sorte alle
divinità. intermedie che abitano nelle aeree regioni contigue e alla terra e al
cielo (De deo Socratis, 6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra gli dèi e
gli uomini si trovino certe potenze divine, intermediarie per loro natura e per
loro posizione, e che mediante loro vengano operate tutte le divinazioni e i
miracoli della magia. Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella
semplice di un fanciullo, può, sotto l'azione di certi canti o di delicati pro-
fumi, cadere assopita ed uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà
presente, perdere per un momento la memoria del proprio corpo ed essere
ricondotta alla propria natura, che è immortale e divina, e in questa con-
dizione, come in una specie di sonno, predire il futuro... (Apologia, 43). La
credenza nei dèmoni, entro i termini di una ormai lunga tra- dizione,
l'interpretazione del motivo del dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche
il D~mone di Socrate di Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé,
nel senso del Pitagora "sciamano," che tende a tornare alla patria
celeste donde è venuta, quando, attraverso l'ini- ziazione si purifica dal suo
imbestiamento nei corpi (cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti
della faccia retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge
in realtà, a due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico,
mediante cui egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di
Gaio, di Albino, 70 di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius
dogmate; De mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione
(cfr. Pro se de magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su
questo secondo piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica,
ricevuta a Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione
di sfondo il "platonismo," curioso di ogni aspetto culturale,
scientifico e religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò
sempre di ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di
credenze, descrivendo riti e culti, in funzione simbo- lica, sottolineando che
la magia, di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai
misteri, forme religiose di purificazione; Apu- leio si mosse costantemente
entro l'àmbito di quel suo "platonismo," di quella sua visione di
sfondo, valida a spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi
diversi, in regioni diverse, in parti- colari credenze, riti, culti, misteri.
Senza dubbio, la stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela- tiva
all'interpretazione del divino di Platone, l'interpretazione in chiave
aristotelica, o quella in chiave "pitagorica," l'accettazione di
certi aspetti dello stoicismo sul piano del mondo concreto, e la negazione
dello stoicismo sul piano di Dio, rivelano un'esigenza comune: la pos- sibilità,
o meno, appoggiandosi a Platone, di determinare la trascen- denza del divino,
in forma convincente, cioè razionale, senza ricorrere a "rivelazioni
speciali." Ora, relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti.
Tutti hanno presente da un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b,
8) in cui si sostiene che il Bene, il divino non è idea accanto alle altre
idee, ma la ragion d'essere delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre
l'essenza, condizione delle essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza
(oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~
7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro lato, i testi
platonici in cui si dice che, perciò, quell'essenza è indicibile
(&pp'r)-roc;: cfr. V I I lettera, 341), indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T
eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile (&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6},
nel senso del conoscere proprio delle altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c);
e quei testi in cui l'uno appare non come una unità massiccia, ma unità
vivente, si come il pensiero, il cui discorso, traducibile in termini mate-
matico-geometrici, è lo stesso discorso della realtà, per cui quell'unità è
trascendente il discorso stesso (l6gos, >..6yoc;), ma, attraverso il di-
scorso, afferrabile intuitivamente, con un atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr.
Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene Albino, e, insieme
ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre sono i principi: Dio, la materia e le
idee; e tanto Albino quanto 71 Apuleio proseguono affermando che
Dio, in atto tutti gli intelligibili, è indicibile (ilpptroç),
inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e perciò perfetto
(atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé compiuto
(nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose, incorporeo e
immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che rende
pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò non
questo o quello, _ma un 't'( (ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E
cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra),
Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò
che sembra comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre
l'avversità allo stoi- cismo, relativa alla concezione del divino, non a quella
del mondo), è da un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile
pen- sare la realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes-
senza, "ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione,
proprio in quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe-
renza specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire
è e non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di tutte
le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si giunge
passando dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni sensibili,
all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale nell'anima, nel
pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso pensiero in
atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso che è uno,
onde l'unità è a fondamento del discorso mede- simo, e, metaforicamente, lo
trascende, per cui lo si coglie intuitiva- mente, con l'intelletto (vouç, nus),
come unità vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui neppure si
può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie gnoseologicamente
poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel pensiero la moltepliçità della
immediata espe- rienza, oltrepassando il discorso, ed afferrando, mediante il
nus (vouç) la postulata unità, per questo indiscorribile, indicibile, non
conoscibile come conoscibili sono gli altri aspetti della realtà,
incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma, attraverso esso, con il
nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro. Egli dice: ilpp'rj't'oç
3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç lO"t'lV om e:taot;
om 3Lat~op«... ("esso è indicibile e afferrabile solo mediante
l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza specifica:
Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino, Celso,11 vissuto
nel 1 1 Della vita di Celso, vissuto, sembra, i n Egitto, nel u secolo, non
sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua opera intitolata
Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç), conservatici da Origene (185
circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ 72 II secolo, noto attraverso
alcuni testi di lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e, soprattutto, per
la sua polemica contro I"' assurdit~" della concezione cristiana di
Dio e del suo rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale polemica è, per altro
verso, un indice senza dubbio evidente del modo in cui, appunto, sulla linea
Gaio, Albino, Severo, va inteso il "platonismo" di Celso. Dice,
dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle qualità da noi
conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non è quale
l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla figura,
né al colore, né al movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte le cose
seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di lui non
si può .dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o .:h:6c;
où8' bvO!J.ot<n6c;), poiché non riceve alcuno degli accidenti che si
afferrano e si fissano con un nome (bv6!J.ot't"L xcx-r!XÀ7j7t't6v). In
effetto Dio è al di fuori di ogni accidente... Come, dunque, conoscere Dio?
Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto? Ché, per ora almeno, è
tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo distintamente. - Bisogna
rispondere: Chi dalle tenebre viene condotto alla luce non può resistere al
fulgore dei raggi [cfr. Repubblica di Platone, VII, 515c sgg.]... Solo quando
si sia chiusa la porta dei sensi, solo quando si sia dato le spalle alla carne,
e abbiate guardato in alto media~te l'intelletto (&vcx~À~~"rj'n:
vcj)), solo allora vedrete Dio (in Origene, Il vero discorso, VI, 62-66, ed.
Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene sistematicamente confutalldo il Vero
disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto, sembra, tra il 178 e il 180, al tempo
in cui Marco Aurelio aveva preso misure anticristiane, vedendo nei cristiani un
pericolo per l'unità dello Stato (non a ca.so il Vero discorso si chiude con
l'affermazione che i Cristiani verraDJlo tollerati se si deci- deranno a venire
in aiuto dell'Impero). Celso mette in discussione il Cristianesimo; egli
sostiene ch'esso non ha nulla a che fare con la filosofia, dimostrando, per
altro, che, se mai, sul piano religioso molto piu convincente c filosofica ~ la
tesi platonica, mentre illogica ed assurda ~ quella cristiana, in particolar
modo la fede in un Dio che s'incarna nell'uomo e in una visione che pretende
d'essere l'unica vera. Estremamente fini sono gli argomenti di Celso nel
confutare le tesi cristiane. Egli dimostra una buona conosc:enza del vecchio e
del nuovo Testamento e, senza dubbio, i primi tentativi di una formulazione
filosofica dell'espe- rienza cristiana (primi apologisti), filosofia ch'egli
decisamente nega essere tale. Che Celso stesso sia stato un platonico, non
sappiamo. Certo, egli vuoi dimostrare, come dicevamo, che tra le filosofie
religiose la piu convincente ·e razionalmente (non per superstizione) accettabile
~ la platonica (nell'accezione che il platonismo aveva assunto nella corrente
Gaio-Albino). Niente vieta, quindi, di supporre, su testimonianza dello stesso
Origene (Contra Celsum, I, 8, IO, 21; II, 60; IV, 54, 75; V, 3), che personal-
mente Celso fosse un epicureo, e che al Celso del Vero discorso fosse
indirizzata la dedica (a Celso epicureo) dell'.dlessandro o i l falso profeta d
i Luciano, che ~ del 181 circa, e in cui Luciano, come già ne La morte di
Pellrgrino, violentemente critica il Cristianesimo. Per atteggiamenti critici
nei confronti del Cristianesimo, in forma retorica e non in termini filosofici
e logici come ~ il ca.so di Celso, vaDJlo ricordati, oltre Luciano, Frontone
(Contro i Cristiani) e Crescente (cfr. Giustino, .dpol. Il, 3; Taziano, Contra
Graecos, 19). non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per
la quale l'intelletto conosce e l'intellezione si compie, la scienza si forma e
tutti gli intelligibili e la verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere
loro: eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera
ineffabile (ik., VII, 45). Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano
(unico, per- sona, volontà, creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un
uomo, venuto a salvare non il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui
anima non è né mortale né immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che
tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si
vede bene in che senso Celso vedesse nella concezione cristiana una concezione
assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà,
niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque,
l'idea di un Dio trascendente e Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato
da quelli che sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in
funzione simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio
"platonico," insieme ad altre con- cezioni del divino, egiziane,
ebraiche, siriache, in funzione di una teo- logia razionale, e, perciò,
universale, che trovava i suoi termini nell'àm- bito della rielaborazione in
sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto
questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del
n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che,
sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di
Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s.v.;
anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n
secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che,
semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio
cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in
questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente
noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là
testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr.
Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione
Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le testimonianze piu antiche, puntando
sull'aspetto gno- seologico di Numenio, indicano Nurnenio come
"pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu
recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior
parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di
Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10, 18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5;
XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in Tim., I, p.
303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei .frammenti c delle testimonianze
di Numcnio, il Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono,
disponendo i frammenti secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6
libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lec- mans, Numeniur van Apamea met
Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique,"
classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda inoltre bibliografia). Oltre il
De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso degli Accademici da Platone,
Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo, Dell'incorruttibilità dell'anima,
Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22 - e la sapienza mosaica - senza
dubbio Nu- menio teneva presente Filone l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla
stessa concezione ebraico-platonica era possibile riportare - come aveva fatto
Plutarco - sia la simbolica dei pitagorici, usata in funzione logico-ma-
tematica, sia i riti, i culti, i misteri delle religioni egiziane e dei
Brachmani, sia certi aspetti del Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo
vedesse un simbolo del rapporto uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV,
51), come certi motivi dello gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi
ha trattato di questo argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze
di Platone, rimonti indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia
inoltre appello ai popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le
leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali
stabilirono Brachmani, Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev.,
IX, 7, l; fr. 9 ed. Leemans, Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio
(Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone,
Del Bene, Del luogo, Del- l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen)
sono rimasti alcuni frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed
alcune testimonianze e brevi testi interpretati .da Prodo, da Calcidio, da Por-
firio, da Giamblico, da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl
T4yot&ou, e pèr la raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda
l'edizione di E. A. Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique,"
classe cles lettres, XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente,
perché condiziona il ~odo con cui è possibile ricostruire il pensiero di
Numenio, relativo, appunto, alla discussione di lui sul Bene. Numenio teneva
presente, come risulta dai frammenti, da un lato il testo di Pla- tone
(Repubblica, 509 b) in ·cui si dice che il Bene non è idea accanto alle altre
idee, ma la condizione delle essenze, dall'altro lato la tesi pla- tonica del
costituirsi dell'universo per opera del Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al
Platone e al Pitagora quali si erano venuti configu- rando nel corso del I-II
secolo, in contrapposizione al Platone proble- matico e scettico qual era stato
interpretato dalla media Accademia (da Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio
fa tesoro dell'impostazione teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e
reinterpreta in questa chiave le "religioni dei popoli che salirono in
fama," Brachmani, Giudei, Magi, Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in
realtà, poi, il metodo argomen- tativo di Numenio è. quello proprio dei platonici
razionalisti del 11 se- colo). Numenio particolarmente si travaglia intorno al
problema del rapporto tra l'uno, condizione della pensabilità del reale,
condizione 75 dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e Monade
perciò di là da ogni determinazione, e, dunque, ineffabile, indiscorribile,
invisibile al pen- siero e in tal senso incorporeo, immobile,
"inattivo" (argos, «pyoc;: fr. 21 L), increato e increante, e il
mondo della generazione che, a sua volta, implica un facitore (un poièta), un
principio che dia movimento e che perciò non può piu essere lo stesso primo
essere perfetto che, se si muove, e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire
che è mancante, imperfetto. A tale concetto del Bene, ad un tempo ragion
d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna delle singole essenze, delle
idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio, sulla scia della tradizione
plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo chiama "padre," il "primo
dio"), Nu- menio sostiene che non si giunge attraverso un salto rivelazionistico,
ma di grado in grado, dall'immediata esperienza sensibile, per via ne- gativa.
Non a caso cosi Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è ('r( 8-1) lcr·n -rò
!Sv: fr. 12 L)? risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può essere nessuno dei
quattro elementi, ma neppure la comune stoffa di cui gli elementi son fatti, la
materia (fr. 12), ché la materia in quanto inde- finibile (!Àoyoc;) e, perciò,
inconoscibile (&yv(J)cr"t"oc;), non la si può sup- porre che come
un fluire, un disordine, in ciò opposta all'essere, in realtà un non-essere,
che assume essere in quanto definita {ordinata) dal- l'essere. L'essere,
perciò, non è né materia definita (corpo) né materia indefinita. Né corpo, né
materia l'essere: senza l'essere non sarebbero né la materia, né i corpi, ché
gli stessi corpi non sarebbero se non ve- nissero definiti, se di essi cioè non
si dicesse che sono, se non subissero l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo
(-rò «cr&~!J4-rov), ciò mediante cui i corpi si determinano, assumono
forma, cioè esistono. Poiché dunque i corpi per esserci hanno bisogno di un
principio che li determini (-roti xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr.
13), tale principio non può essere corpo, altrimenti avrebbe esso stesso
bisogno di un qualcosa che lo determina (di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è
incorporeo, immobile, non si accresce né diminuisce {fr. 13), è eterno,
stabile, identico a se stesso («&t XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14).
Condizione perché la realtà sia, l'essere è perciò da un lato la categoria delle
categorie, dall'altro lato principio assoluto, assolutamente ricco, come punto
luminoso che ha in sé tutte le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza
esaurirsi nei nuovi fuochi ("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza
toglierla al precedente, ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in
esso": Eusebio, Praep ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non
avente biso- gno di nulla, immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15,
21). Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio
dell'intelletto, onde di lui si può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn)
(fr. 16-17). lntelligibile perché condizione degli stessi intelligibili e dei
visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione del discorso e unità
del discorso, trascendente il discorso medesimo e afferrabile attraverso il
discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per
analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo Intelletto e il primo
Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto
tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio
ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene),
onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in
sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé in intel- letto e
intelligibile, ove tale secondo intelletto è, metaforicamente, da un lato volto
all'uno-intelletto, dall'altro lato all'obbiettivazione di sé come
intelligibili determinantisi, che dànno cioè essere, forme alle cose, in una
obbiettivazione .visibile, figurata, presupponente perciò l'idea estensione, la
materia intelligibile. Di qui, sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere,
che in sé, intelligibilmente, resta immobile e tutto in atto, - un terzo
intelligibile, il mondo nel suo esserci, che, in quanto proiezione del secondo
intelletto, intermedio tra l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la
materia come fluidità, è da Numenio detto "intelletto pensato" (vouç 3totVOOO(J.€VOç,
nus dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una interpolazione
di testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una ricostruzione del
platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf ad avere: l)
L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere as- soluto e
tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua perfezione, non si
distingue pensante e pensato, esso condizione prima del discorso, della
distinzione in pensante e pensato (la superessenza della Repubblica},
afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza di cui, al
quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un atto
puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via occorre per
esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con vigore alle
scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che cosa è
l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli esseri che
partecipano al primo Dio, al Bene, non vi par- tecipano in nessun altro modo
che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>.-rlj) tppovci:v " (fr. 28 L.);
2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la distin- zione
pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli intelligibili sono le
ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere alla fluidità della
materia idea opposta (il "secondo Dio," il Demiurgo buono e attivo
del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il "pensato," ossia il
mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue leggi, obbiettivazioni
dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del secondo Dio, presente alla
mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque, terzo Dio, nell'intelletto
secondo, a sua volta nell'intelletto primo. "Averndo affermato che vi sono
tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il secondo Poieta, il terzo Poema:
poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio. Nella sua dottrina vi sono dunque
due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e il terzo dio. è il mondo frutto
dell'attività demiurgica (-rò 3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi
cosi, che parlare come lui, in un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov),
di figlio (~yyovov) e di nipote (&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93
a-b). Proclo, quindi, andando avanti nell'esporre le varie interpretazioni (di
Numenio, di Arpocrazione, di Attico) della pagina 28c del Timeo ("noi
diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una
certa causa; ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo
universo, e quando si sia trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo,
28c), sostiene che, per quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la
distinzioné fatta da Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che,
senza dubbio, Numenio, accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della
Repubblica sopra citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo,
nel De bono, afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e
questo dice perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di
contro, il primo Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente
ignoto. ~ come se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto
non è il primo, ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e
divino"' (in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26L.). In effetto,
per Numenio, uno solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a
caso in un frammento, accanto ai tre dèi, Dio- Demiurgo-Mondo pensato, egli
pone il mondo visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi
rimane preso nell'immedia- tezza sensibile appare molteplice e disordinato.
Invece, attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di
qui l'importanza data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci,
come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si
raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è
determinabile entro .i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare
irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa
del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da
un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78 in
sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a
un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono
l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si
costituiscono secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti
all'intelletto stesso, e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque,
nella sua totalità è natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il
ritmo della natura che è generata e che genera (Intelletto secondo;
pensiero-pensato) e la natura che è generata e che non genera (il mondo
pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo su cui si disegnano le
forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili in termini di figure
geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla determinazione e definizione
non piu riferibile all'intel- letto, per cui non è obbietto pensato, diviene
causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come anche sembra a Platone, è
principio e causa dei beni, la silva [materia] dei mali" (Calcidio, In
Tim., 296: test. 30 L.). Tale sembra anche il significato da dare a quei pochi
frammenti della lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea
che non vi sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le
anime, una razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò
l'uomo nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è
la posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto
intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto
s'incentra e attraverso questo risalire alla con- templazione mistica del primo
Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197 sgg.; Porfirio in Stobeo,
Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37; l, 49, 40 W.; Proclo, In
Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa processione dall'Uno ai molti
entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i momenti stessi
del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il limite, il
divenire, il mondo concreto, la dualità, la razionalità e l'oscurità,
l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine ultimo, già gli antichi
avevano veduto una delle piu ampie fonti della concezione di Plotino, tanto è
vero che non poche volte Plotino fu accusato di avere plagiato Numenio (cfr.
Porfirio, Vita Platini, 17). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino (detto da
Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del pla- tonismo)
ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una note- vole influenza
nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e pitagorica, e
l'uno e l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo dell'esegesi
platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie opere, II;
Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl., I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl.,
VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimo- nianze citate). S.
li Gnosi," li Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici" a) La
"gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non :rolo come
fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla que- stione
se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli
avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato
assai frammentario dei testi da .lui trasmessici e, in particolar modo, certo
suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile
"tragico," come dice Proclo (In Tim., 93a sgg.), lasciano lo storico
in non poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio
fu soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale,
puntando sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente
inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç), sosteneva che Numenio fu un
saggio "fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che
si sarebbe appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti
al servizio della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso
gli Gnostici (Norden, cit.). Studi piu appro- fonditi sia sul piano della
tradizione platonico-razionalista (Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della
gnosi, dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per
quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti
occidentali e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo
egiziano, ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una
reciprocità di scambi, che costi- tuisce alla fine una sola e comune base
culturale, ove le differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di
risolvere il rapporto tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di
cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l
diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo
cristiano, eretico nei con- fronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in
realtà, un tipo di gnosti- cismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come
lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino, a sua volta critico
di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la polemica del
Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo nulla qui che
confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio
totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si
oppor- rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;> (.L6VCf>
>.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la formula di
Albino (Epi- tomè, 10). Nessuna differenza, secondo me, su questo punto, tra
Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d'
&q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal
sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il
punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell'
lP"J(.L(ç 80 (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è lpl)!J.Oc;
(éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun concetto
finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli si
avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si può
né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor- siva].
Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci- samente, in
tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che permette di
vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation d'Hermès
Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha ragione - e
sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources de Plotin,
"Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957, Ginevra, 1960,
pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può essere
altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di certi
motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre la concezione
orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella
platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi
quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di
Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano
dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una
diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni
gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella
sua magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité
classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le
possibili solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei
rap- porti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul-
l'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un
tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva
l'orientalismo di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione
sulla relazione. del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi
è in lui, in partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del
resto, già indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio
parlai allora, nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di
influenze orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione
piu delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i
termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha condotto
Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che differenzia il
suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio, per il
platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo e il
Bene da una interpretazione sistematica del platonismo, 81
riallacciare esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti-
nuità dialettica? Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende,
nello gnosticismo, forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad
ogni modo, non v'è negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema,
d'altra parte, legato a quello della Mate- ria come male assoluto e a quello
della condizione umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del
Male. Conseguentemente si imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo,
o il Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli
arconti, degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio
della Genesi e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di
assumere la responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della
Bib- bia ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo.
In Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di pro- blemi.
Plotino, attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al
principio del trattato II 9, al capitolo l, se la prende~.come ha mostrato
Dodds, con il vou~ lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il
.&eb~ &pyo~ (l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma
la sua critica è volta anche, e insieme, contro gli gno- stici...
Evidentemente, il problema dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su
Numenio è, come quello dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare
fenomenologicamente che storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin,
Entretiens, cit., pp. 36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi
particolarmente sostenuta sullo "gnosticismo" e da lui stesso
chiaramente espressa (cfr. H. Cb. Puech, La Gnose et les temps,
"Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli
studiosi si sono oggi resi conto che lo "gno- sticismo" non può piu
essere compreso solo,come un'eresia del cristia- nesimo (posteriore e interna
al cristianesimo), come si riteneva basan- dosi sui testi gnostici trasmessici
dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene, lreneo per gli gnostici
Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in polemica con
l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un movimento, un
fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed esteso, certo anteriore al
cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza religiosa che
investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe filosofie
ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la religione
ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente, diversificandosi a
seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui venne operando.
Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo" né una
"ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehr- buch d.
Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma, 82 1907;
De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch and Gnosis,
Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla religione
egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset,
Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio
ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine persiano-babilonese;
Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia, 1904, ritiene lo gnosticismo di
origine egiziana, rintrac- ciando forti affinità con l'ermetismo, e che nel Das
iranische Erlosungs- mysterium, Bonn, 1921, sostiene la derivazione iraniana
dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello gnosticismo un mèro
sincre- tismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis, Berlino, 1911) e H.
Leisegang (Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da H Jonas (Gnosis und
Spatantiker Geist, Gottinga, 1934-1954). "Il termine gnosticismo,"
scrive il Puech, "è usato in senso molto piu lato, e il problema gnostico
si pone oggi in un modo nuovo. Lo gnosticismo appare ormai come un fenomeno
generale della storia delle religioni la cui larghezza oltrepassa infinitamente
i limiti e il terreno del cristianesimo, queste non sono eresie immanenti al
cristianesimo, ma i risultati di un incontro e di un congiungimento tra la
nuova reli- gione e uno gnosticismo che esisteva prima .di essa, che era
inizialmente ad essa estraneo. Lo gnosticismo ha rivestito in alcuni casi forme
cri- stiane o forme che, con il trascorrere del tempo, si sono sempre piu
profondamente cristianizzate, al modo stesso che in altri casi ha preso forme
pagane adattandosi alle mitologie orientali, ai culti dei misteri, alla
filosofia greca, o alle scienze e arti occulte. Per quanto queste forme nelle
quali si è manifestato storicamente lo gnosticismo siano state di- verse, esso
dev'essere considerato un fenomeno specifico, una categoria o un tipo distinto del
pensiero filosofico religioso: si tratta di un atteg- giamento che ha un
andamento, una struttura, leggi proprie che l'ana- lisi, pervenuta· alla
comparazione, può ritrovare sostanzialmente iden- tiche e con le medesime
articolazioni alla base di tutti i diversi sistemi che noi possiamo, proprio in
ragione di questo fondamento o 'stile' comune, raggruppare sotto una stessa
etichet1:a chiamandoli sistemi gnostici" (Puech, La Gnose et le temps,
cii:., p. 79). Si è cercato cosi di vedere lo "gnosticismo" come un
tipo di espe- rienza religiosa, mediante cui, di volta in volta, a seconda
degli ambienti, delle religioni o delle filosofie, si sarebbero riportati quei
miti, quelle religioni,- quelle filosofie a quell'unico tipo di
"gnosi" (conoscenza), in una trasformazione di quelle stesse
filosofie, religioni, miti: fossero questi ultimi originari del mondo
greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o dell'Iran. Presi da queste
considerazioni bisogna; per altro, 83 non vedere, ovunque, influenze
gnostiche - o, per lo meno, di un certo gnosticismo - tenendo presente che,
nonostante le scoperte piU, recenti di alcuni testi gnostici (lo
"gnosticismo" prima era conosciuto solo attraverso i testi riportati
dagli autori cristiani in polemica), le posizioni gnostiche da noi conosciute
sono piuttosto tarde e risalenti al solo periodo del primo cristianesimo (1-n
sec. d. C.) ed in relazione con esso. In realtà, sia i manoscritti manichei
scoperti a Medinet Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici papiri contenenti 48
libri gnostici tra- dotti in copto dal greco, scoperti a Nag Hammadi (Egitto),
nel 1946, piu che allargare nel tempo le nostre conoscenze sullo gnosticismo,
hanno da un lato confermato l'esattezza delle citazioni di testi gnostici da·
parte dei cristiani, dall'altro lato (in particolare gli scritti di Nag Hammadi
che appartengono alla setta dei Setiani) lo stretto rapporto tra i Setiani e la
Palestina e i Setiani e certi aspetti dell'ermetismo di Alessandria. Non solo,
ma ritrovati tra questi ultimi testi tre dei libri ricordati da Porfirio contro
i quali Plotino scrisse il suo trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio
si vedono le ragioni che mossero sia un platonico-razionalista tipo Plotino,
sia una posizione come quella cri- stiana a respingere la concezione gnostica
come assurda, l'uno vedendo nello gnosticismo l'assoluta impossibilità di una
deduzione logica del- l'universo - che per altro verso lo portò anche a
polemizzare contro la concezione cristiana di Dio - , l'altra vedendo nello
gnosticismo e nella sua interpretazione della figura del Cristo,
un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd nuovo a vecchie
posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio intendere come si venne
delineando nel I I - I I I secolo da un lato la "filosofia cristiana"
in senso stretto, dall'altro lato il movi- mento neoplatonico, interessa ora
brevemente e schematicamente - con ciò perdendo le molte sfumature - esporre la
posizione degli gnostici. Innanzi tutto va precisato il significato assunto dal
termine "gnosi" (conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche
fiorite nel II secolo. Pur mantenendosi il significato originario e comune di
"conoscenza," il termine è usato per indicare un particolare tipo di
conoscenza. Non si tratta né di una conoscenza cui si giunge mediante il
discorso, le normali vie della ragione, né di un atto intuitivo della mente,
che rivela un principio discorsivamente analizzabile, bens( di un'improvvisa
illu- minazione con cui ciò che si crede per fede viene, appunto, conosciuto e
mediante cui si salvano l'uomo e le cose, per loro natura, in quanto esistenti,
radicalmente ammalati, in preda al male. Si tratta, dunque, di una conoscenza
soterica (salvificante), assolutamente gratuita, riser- vata ai soli eletti,
agli iniziati, a chi abbia avuto, appunto, rivelata la 84
"gnosi," agli "gnostici," ai "pneumatikòi"
(spirituali: in chi t: passato il "soffio," lo pneuma divino), come
dirà Valentino, per natura supe- riori agli "psichici" (coloro che
hanno SI un'anima, ma non lo spirito, per i quali è valido il co~flitto morale
e la "fede") e agli "hylici" (i materiali: coloro che sono
per natura presi dal corpo e dalla materia, dal male). Solo tale tipo di
"gnosi," salvando, risolvendo in sé la fede, svela "chi fummo,
che cosa siamo diventati, dove eravamo, da che cosa siamo riscattati, cosa ela
rigenerazione" (in Clemente Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed.
Sagnard, 1947). In secondo luogo va detto che tale significato dato alla
"gnosi" fun- ziona quando si tenga presente il radicale pessimismo
che emerge da tutti i testi gnostici da noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio)
in quanto Essere è perfetto e tutto in sé compiuto e perciò Bene, il mondo,
tutto ciò che esiste non può essere l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe
con lui; il mondo, d'altra parte cosi pieno di mali ("avendo assistito a
cose cosi orribili, cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il
principio, chi in tal modo tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio":
Valentino, in Contra Marcionitas, in Patrol. graeca, VII), non può essere
frutto di Dio né sua emanazione, ma la manifestazione di un altro principio,
·di un principio decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che,
dunque, è il Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è
perciò male. Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è
il reggitore del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né
attra- verso il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto
il male che Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che
imprigiona nel suo costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e neces-
sarie, da quelle che regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse
che, a loro volta, determinano i destini terreni, i fati umani. "La
regolarità appare allo gnostico come una ripetizione monotona e opprimente;
l'ordine e la legge (il n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile...
Il firmamento, i corpi celesti, in particolare i pianeti che presiedono al
Destino, alla fatalità, sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori,
come il Demiurgo e gli angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme
bestiali: gli 'Arconti.' In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene
diabolico. L'uomo vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la
manifestazione del vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua
perversa origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la
"gnosi" spezzi la .catena della necessità e del fato, liberi, salvi
dal male, affranchi da ogni legge 85 (morale e fisica),
congiungendo l'uomo a Dio, e come solo gli "gno- stici," coloro che
sono stati eletti, possano essere maestri di conoscenza e siano la
"potenza di Dio," il quale Dio, dunque, resta di là da ogni normale
conoscenza, è "ignoto," "nascosto," "straniero,"
"abisso," "statico," "ozioso" (non nel senso che
è indiscorribile e inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici,
dunque, lo vedono, di una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque,
potranno insegnare agli altri come si è strutturato il mondo, in che consista
il male, quali pos- sano essere le pratiche per salvarsi, come l'anima possa
riaffiorare a Dio. Entro i termini di una concezione religiosa, nella
ricostruzione del tutto, si poteva benissimo, sia pur in un rovesciamento del
concetto di ordine e del mondo, rivelazione del divino, usare, rotti dai loro
contesti, frasi e passi di Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici,
delle tradizioni magico astrologiche di origine iranica, degli allegorismi
ebraici, di certe interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in
funzione di tale concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella
visione religiosa, a quella "gnosi," una religione, un complesso di
riti e di culti, mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno
salvatori, hanno capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del
male, sugli astri demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e
teurgia), che dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena
del mondo. Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a
questo; dal n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme
diverse di "gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto
inte- ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un
aspetto, quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come,
almeno in principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che
gnosticamente sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po-
tesse benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse
essere interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere
interpretato entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo
allo sviluppo di una corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela
chiaramente attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di
Saturnilo di Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino,
Marcione, forse Bardesane, da cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si
vennero costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia
"serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e propri,
Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti,
Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il
racconto di 86 Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il
diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E
la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo,
ascol- tandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano
spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e
zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma
un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando
la magia, e seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di
grande: e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano:
questo uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca
l'angelo dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza
dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio
che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati
con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il
regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora
anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i
segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo
stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a
Samaria Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di
Samaria lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli
Apostoli denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque
imporrò le mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo
denaro perisca con te, poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il
dono di Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton,
in Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i primi
scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe
studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si
sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di
Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca,
vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la
scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le
Ricognizioni, Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che Dositea
vi aveva fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta costituita di
trenta discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna, chia- mata Luna
o Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il supremo,
rappresentante• di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si sarebbe
recato a Roma al tempo del- l'imperatore Claudio: "Aiutato dai dèmoni,
fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu eretta una
statua, nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente iscrizione latina:
Simoni deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di altre nazioni lo
riconoscono e lo adorano come loro prima divinià; una certa Elena, che lo
accompagnava in tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un postribolo,
passa per essere la sua prima Ennoia..." Di una sua opera, La grande
rivelazione, lppolito ha con- servato alcuni testi (lppolito, Philosoph., VI, 7
sgg.). Poco o nulla sappiamo dei due discepoli diretti di Simone, Menandro
della Samaria (cfr. Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I, 23, 5) e
Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28; Epifanio,
Panar., 23, 1-2; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici, Haeres., 31). Dopo
il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme. Il racconto è
molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'in- contro con i Cristiani,
ha già in sé la "potènza di Dio," che incen- tratosi con gli
"inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi
respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette
in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristia-
nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende
rimanere cristiana e passare per tale" ( H : Leisegang, La gnose, trad.
frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il
fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi,"
par- ticolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e
dell'ebraismo elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua
vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone
l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella
rive- lazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il
Cristo, ve- nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione
"gnostica" dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si
trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi
dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi
tratti dalle filosofie elleni- stiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri
greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il
significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima,
particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri greci. Per Simon Mago
la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor
(Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio,
"tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da
tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie.
Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom),
sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome,
ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi scaturisce il
pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che
dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano
dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si
determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata
Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia
sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla
radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta
in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me- diante cui
si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen- dentemente
dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e 88
ribelli. Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a
salvare il Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel
pensiero uno di Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La
grande rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato
quanto sopra cfr. Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.;
Ricognizioni, Il, 7 sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino,
Apologia prima, 26). Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci
di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli
angeli, gli arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli
uomini, ma degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua imma- gine,
hanno, affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente
le cose e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e
demoniaci, e che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale,
ingenerato e incorporeo non si è manife- stato .come un uomo, ma come il /Ogos.
"Gli angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché
i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare
cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la
moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo..., il quale, l'ultimo
degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli
Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non
di persone, come era per Satur- nilo, tornano Basilide e il piu notevole dei
cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria,14
morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo,
Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti,
come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al
principio un Dio ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che
ha in sé tutte le possi- bilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono
degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli:
il primo figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa
da cui proviene, rimane in Dio; i l secondo figlio, che illumina le altre H
Forse discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra
il 120 e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli
avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San
Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un
Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri) restano alcune
citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di Basilide dr. Acta
Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88;
III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di
lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6. 89
semenze, ritornando quindi in Dio; il terzo figlio .che rimane a
fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un
tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra
Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un
orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera solida" (steréoma).
L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno
degli infiniti semi di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre
primi figli, ma simile al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una
serie di filiazioni intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della
luna; l'ultima di queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto,
nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina,
trovandosi al limite della materia caotica, al di sotto della luna, ha
costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato
da Dio a causa della "sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a
Dio, si riflette su tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che proclama
sé unico e vero Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la
conoscenza ("gnosis") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte,
che, convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero
Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti
rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio
eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla
terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e
mediante sé e la "gnosi," condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale,
sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in
realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/5
originario dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario
dell'Egitto, Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo
Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto,
sappiamo che Valentino fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il
vescovo Aniceto (dal 135 al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla
quale fu cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola.
Di lui si citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il
Vangelo della verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr.
sopra, il testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im- pero. .
Tra i valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore
verso il 180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui
abbiamo riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis
Theodoti; Bardesane, nato ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore,
sembra, di centocinquanta salmi con relative melodie, e di un libro Sul
.destino (ritrovato in siriaco: cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che,
in realtà, fu composto da un suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare
che gli astri non negano affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di
Bardesane. Tra i valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano:
Secondo, Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il
180, e di cui si con- servano una quarantina di frammenti, estratti da un suo
commentario a San Giovanni), 90 di Alessandria al tempo
dell'imperatore Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo
soggiorno a Roma (136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e
fondò a Cipro una propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie,
inni, lettere e i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo della
verità, nulla resta che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una
rielaborazione, forse, della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo
circa), assai oscura, composta di testi diversi, con elementi propri di altre
sette gnostiche ("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica,
in copto, scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata
dal Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della
liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi
dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda
.delle fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si
possano ricostruire vari sistemi valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza
chiara risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto
principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre
dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò
Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé
compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e
solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice
Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in quanto tutto è in sé solitario, unico,
senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito,
Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con
énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia
(charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie,
delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha
emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto -
prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche
Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa
pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che
chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia.
Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta
Ragione (Logos) e Vita (Zo~) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero
dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il
complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni],
quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da
Epifanio, Ha~u., 33, 3-7, abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla
gnosi una donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo,
Alessandro. 91 accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e Chiesa
(Ecclesla). Questa è l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto,
designata da loro con quat- tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno
di essi è maschio e femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla
.sua propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè,
Anthropos a Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo
anch'essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed
Eccle- sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione,
Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e
Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono
dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e
Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e
Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni...
taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale,
diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro
Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da
Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di
contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone
l'incommensu- rabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti,
bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella
radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade,
emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e
fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato).
Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la
grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile,
fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso,
all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui:
protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla
dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse
scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della
Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è
detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica,
ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima
Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si
distolse (cosl) da quel rapimento con- templativo. Questo Confine (Horos) si
chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore
(Karpistés)... Per mezzo suo la Sophia fu purifi- cata e consolidata e
restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthù- mesis con
l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis,
insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza
spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma
senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e
principio femminile. ... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa)
per riguardo al Padre... cioè Cristo e Spirito Santo... e mentre il Cristo
insegna [agli eonil 92 la natura della sigizìa... lo Spirito Santo
insegnò ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera
pace totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento,
tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro
comune, ... raccogliendo insieme cia- scuno degli eoni ciò che v'era di piu
bello e splendente... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione
suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto,
soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da
tutti egli proveniva...: ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua
scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui. ... Quanto poi a ciò che è
fuori del Pléroma... la Passione (Enthùmesis) della Sophia superiore, detta
Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina],
esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto...
come aborto... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non
poteva raggiungerla, impedita com'era da Horos: ... sopravvenne allora in essa
un altro intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò
frutti a somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della
scorta del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una
dall'angoscia, cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno
all'indietro, cioè l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva
generato, cioè l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa
una forma... E dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori
dall'eone, crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...;
[quest'ultimo] creò le cose celesti e ter- rene, ... foggiò sette cieli, al
disopra dei quali è lui, ·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò
anche l'uomo materiale, non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile
della materia disciolta e fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma
quanto invece fu generato dalla Madre... Achamoth... è spirituale...; l'uomo
spirituale, che era nato dalla Sophfa, semi- nato quando avvenne
l'insufBazione, rimase celato al Demiurgo... che come non aveva conosciuto la
Madre, cosf non ne conobbe il seme... Questo uomo è il loro uomo ed essi
vengono cos{ ad avere l'anima fatta dal Demiurgo, il corpo fatto di terra, la
carne derivata dalla materia, ma l'uomo spirituale deriva dalla Madre Achamoth.
Sono dunque tre realtà: ciò che è materiale... fatalmente destinato a rovina,
essendo incapace di accogliere qualunque soffio di immortalità; ciò che è
fornito di anima... posto a metà fra ciò che è spirituale e ciò che è
materiale, che sta là dove terminerà di volgersi; quello che è spirituale... e
questo... è il "sale" e la "luce del mondo" (Mt., 5,
13-14), che è stato emesso perché qui, unito a ciò che è psichico, si formi e
sia elevato con esso nel movimento di ritorno. Il compimento supremo si avrà
quando tutto ciò che è spirituale (cioè gli uomini pneumatici che posseggono la
perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio e di Achamoth) sia stato formato e reso
perfetto con la gnosi. Gli "iniziati ai misteri" sono loro stessi
(lreneo, Adv. haeres., I, l, l sgg.: dalla traduzione di F. Bolgiani, in La
filosofia medievale, anto- logia di testi a cura di N. Abbagnano, Bari, 1963).
93 Sarebbe ozioso soffermarci sulle infinite sfumature,
distinzioni, vena- ture diverse con cui si presenta la "gnosi" ·nei
molti aspetti che prese sia con i prosecutori di Valentino in Egitto e in Siria
(Axionico, Marco, Teodato, Bardesane: Bardesane, originario della Mesopotamia,
predicò ad Edessa, ritenendosi il vero interprete del Cristo, ch'egli sosteneva
non essere nato da donna, né, in quanto 16gos di Dio, avere preso forma umana:
di contro a Dio, il diavolo e il male hanno una realtà per sé e non sono quindi
eoni fuorusciti o decaduti dal pléroma; di qui l'eterna lotta tra il bene e il
male, tra la luce e le tenebre); sia in occidente con Secondo, Eracleone,
Tolomeo (di Tolomeo, conservataci da Epifane, nel suo Panarion, abbiamo una
Lettera a Flora, in cui Tolomeo inizia una donna colta, Flora, all'idelogia
della "gnosi"; esponendo la medita- zione valentiniana sugli eoni e
sulla loro traduzione in termini pitago- rici, costituendo essi una ottava, una
decade e una dodecade). Accanto- nate inoltre le molte sett~ gnostiche a
carattere popolare, cui fu dato genericamente il nome di sette
"serpentine" (ofiti o naassem), per la funzione data da tutte al
serpe (venga esso inteso come il circolo vitale che regge il tutto in unità,
stringendo il mondo nella necessità, nel male, o venga inteso come il principio
vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o che ha la capacità di rinnovarsi,
per.cui il serpente rappresenta anche il simbolo della generazione, a seconda
di vecchi miti e misteri), e, accantonata la setta risalente al mitico
Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16 non si possono qui, per la
diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da parte da un lato il
Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il Manicheismo. Marcione,11 nato
a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.C. circa, dapprima 16 Accanto a Basilide e a
Valentino, Carpocrate è ritenuto il fondatore della terza grande
"gnosi" alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di Valentino la sua
figura e · personalità sono leggendarie. Secondo Clemente Alessandrino (Strom.,
m, 2), il figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7 anni, avrebbe scritto un
trattato Sulla Giustizia. "Barbelognostiche" son dette quelle sette
il cui culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura del Barb~lo, "in
quattro è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade costituita dal Padre,
Fi~lio, Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare sotto questa
etichetta i Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i Barboriti, i
Coddiani, gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti particolarmente, Epifania,
Panarion. l T Di Marcione sappiamo che nacque a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.
C., e che mori a Roma nel 160 circa. Per il resto vedi sopra, il testo. Della
sua opera, Antitesi, abbiamo notizie attraverso S. Giustino, Sant'Ireneo, e
particolarmente attraverso Tertulliano (De fJI'~scriptione, Adv~sus Mare.
libri.V, D~ carne Christi). Per una ricostruzione del testo dell'opera di Marcione,
cfr. A. von Harnack, Mart:ion, Lipsia 1921, il quale sostiene che Marcione non
è da considerare affatto entro l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A.
C. Blackmann, Mart:ion and his lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo di Marctone
fu un certo Apelle, che dopo avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in
Alessandria. Tor- nato a Roma vi mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui
Sillo6ismi (citato da Sant'Am· 94 aderente alla Chiesa cnsuana, se
ne distaccò per fondare una nuova Chiesa, la "Vera Chiesa di Cristo."
Egli visse, predicò e costitu1 la sua Chiesa in Roma circa negli anni in cui
visse a Roma anche Valentino. Figlio di un vescovo cristiano, la sua
interpretazione del cristianesimo gli valse fin dal principio l'esclusione
dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A Roma, entrato in quella
Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad un'interpretazione del Nuovo Testamento e
al rapporto in cui porre il Vecchio con il Nuovo (di qui la sua opera
intitolata Antitesi). "Terminato il suo lavoro, Marcione si presentò
dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i presbiteri a prendere posizione
sulla sua opera e la sua dottrina. Le discussioni si conchiusero con un
categorico rifiuto della tesi di Marcione e con la sua esclusione dalla Chiesa
romana. Marcione, convinto della verità del suo Vangelo ne trae le conseguenze.
Sarà il riformatore del Cristianesimo primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa
sempre piu numerosa, composta di comunità particolari soli- damente
organizzate, la vera Chiesa del Cristo, ch'egli erige di fronte alla Chiesa
cattolica, assolutamente convinto di agire da autentico suc- cessore
dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che il Vangelo di Marcione si
estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la testi- monianza di
Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha riempito
l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma, in Egitto,
in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto eretico,
perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo, il solo a
non interpretare le Scritture .del Vecchio Testa- mento e del nascente
cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le scritture
in senso proprio e letterale..." (Leisegang, cit., p. 186). In realtà
Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai Romani e ai
Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal Cristo, Dio
ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio del Vecchio
Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e giusto, Dio di
punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non può essere figlio del Dio degli
Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il facitore del mondo, e
dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del discorso
dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di dolore,
questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio
"giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento.
Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di
Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;)
in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena,
apparte,nente alla setta marcionita. 95 figlio del Dio buono, si
rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno
predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare
che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio
del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti
buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo
non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo,
e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è asso-
lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio
atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di
suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non
ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che
Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle
lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono
apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi
un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo
significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il
Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un
Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto,
che salva . l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto
e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere"
(gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo
di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di
Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil- mente
distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di Cristo, di
contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di Cristo.
Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del-
l'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della
salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come
autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della
Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente
fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va
considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su
quello di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il
Cristo. Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della
"gnosi," tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione
cul- turale, la tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute svi-
luppando le varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita
in 96 ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone
l'Ebreo, in cui si innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur
rovesciate, ha dato risultati e costruzioni assai diverse dalla
"gnosi" che ha dovuto fare i conti con altre tradizioni e religioni,
mantenendole anche se trasfigu- rate (il che, d'altra parte, è pur
testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti in cui si formarono).
E qui particolarmente pen- siamo al Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo
aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una
zona della Babilonia meridionale, il "mandeismo" (da manda, che è
l'equivalente in aramaico del greco gnosis) si venne formando nel 1 secolo d.
C. nella bassa Mesopotamia, indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi,
respinto, una volta cono- sCiuto dalla setta mandea come falso profeta. Dal
regno della luce, costi- tuente nella sua unità il divino (detto la Prima
mente, la Prima vita, Re della luce), provengono, in una serie di determinazioni,
le anime, che, tuttavia, nel loro determinarsi ed esserci si allontanano da
Dio, assumendo, in quanto .limiti estremi, figura e perciò corporeità che pre-
suppone, quindi, una materia eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e
male, e limiti e mali sono le sue leggi. A liberare le anime Dio invi~ sulla
terra la gnosi della vita, personificata nel.profeta, che i Mandei vedono in
Giovanni Battista; egli, appunto, attraverso il bat- tesimo lava, salvandole,
le anime, che cosf si liberano dal male. E in un testo, certamente scritto in
epoca piu tarda (la letteratura mandea fu raccolta in un corpus di scritti
sacri nel vn secolo circa: le opere fon- damentali sono Il tesoro- Ginzii- e il
Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya), allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si
legge: Quando Giovanni vivrÌi. al tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del
Giordano e compirà il battesimo, allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in
umilt~, ricever~ il battesimo da Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza
di Giovanni. Ma poi falserà la parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel
Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i
popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne andranno girando per il mon'do. In
quel tempo guardatevi, voi che siete nel. vero... (in H. v. Gla- senapp, Le
religioni non cristiane, trad. it., Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa
atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e colto di
un'altra tradizione, di una religione storicamente delineatasi da secoli in
Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e interpretata
nei termini propri della "gnosi," si muove, nel delineare i motivi
fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana, formatosi in una
setta battista della bassa Babilonia, 97 ma da essa distaccatosi
fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m secolo. Abbiamo
accennato ora a Mani/8 perché, insieme al "man- deismo," il
"manicheismo" - tenuto conto della sua enorme diffusione in tutte le
direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a Tlirfan e nelle grotte di
Tun-huang vennero al principio del xx secolo ritrovati testi manichei in lingua
persiana, partica, sogdi, uighurica o antico turco, cinese, all'Africa
settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono scoperti nel 1918 testi
manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono trovati papiri
manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna - il
"manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene che
lo "gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia" sorta da
un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del Cristo,
ma un atteggiamento storicamente determina- bile, fondato sul concetto di
rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle
tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi.
b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso
(piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa
parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, probabilmente
composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C., ma raccolti e ordinati nel corso
del II se- colo d. C., che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto,
costituisce il cosiddetto "corpus hermeticum " (diciotto trattati, di
cui il primo fu intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che
Marsilio Ficino estese a tutta la raccolta - , piu un dialogo, Asclepius,
traduzione latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:,
'téM~or:,, Discorso per- fetto, perduto; piu ventidue citazioni estratte da
Stobeo, e altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou,
Pupilla del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della prima tradizione
ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi alchimistico- magici
della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi
astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes
greco, dio della parola, interprete e messaggero di Zeus, viene identificato
con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit- 18 Mani, nato nel 216 d. C.,
a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, per- siano, emigrato in
Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea,
ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un
certo periodo in India (Belucistan), 240-242, recatosi in Persia ebbe dal
sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti.
Protetto anche dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi.
Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso,
Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a Gundeshahpur, sul prin- cipio
del.277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere
stato scorttcato 98 tura, lo scriba di Osiride, del libro che
mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò
stesso della sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola
di Ermes, si pos- sono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita,
afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi
stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura.
Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che
lo studio delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde
si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, me- diante cui si
costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine
della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura
e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il
proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione,
condizione della ricerca stessa, che, pro- prio per questo, non la si raggiunge
mediante la ricerca. Simbolica- mente, perciò, si 'può dire che tale intuizione
è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un
intervento extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti (
ne:pl -r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini
celesti e i miei sensi cor- porei erano impastoiati si come avviene a· chi sia
accasciato da un pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica
fisica, mi sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni,
al di là di ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!:
"Cosa vuoi ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e
conoscere?" Ed io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose,
"io sono Pimandro, il Niis della sovranità asso- luta. So quello che vuoi,
ed ovunque io sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza
degli enti, comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai,
"desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo
intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp.
Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i
vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in .alcuni vi è un dualismo
tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è
accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione
generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si
riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica
di origine pitago- rica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf,
evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che
sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare
ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione, 99
in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione
puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come
rive- lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di
un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo
esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien
dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del-
l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine
platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di
origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la
divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno,
comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale
comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui,
alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità
e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso
nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo
d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si
conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la
conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso,
che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono
degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I
- Pimandro - , 26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto
Uno, e sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di
cogliere che l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo
può ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro
dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio,
animale degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se
fosse egli stesso un dio (Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice.
Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano
"essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del
divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano "
materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che
racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7).
Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio,
che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai
sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100
struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni-
verso nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si
capisce cos( come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è
inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio,
Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro
lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il
Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il
Niis, donde derivano gli dèi e le ,anime; che la materia considerata a sé sia
il limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male
(7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo,
abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità
l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun
salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della
divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità,
risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e
una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi"
(evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura
filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve
interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli
astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle
loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante'
la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle
profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di
tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e
l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere come
si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione,
poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un
tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto
infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia
consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore,
riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola,
è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna
malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto,
questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus
ermetico: una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza,
in cui si risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un
momento dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se
non per sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" -
scrive il Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli
101 altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto
sentito non è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella
ridu- zione logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un
allontanamento estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale
il numero e il ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge
nelle sue creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino
artista viene creando il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto
costitutivo di ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni
cosa scaturisce; perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi
estremo di un raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo
e Rinascimento, Bari, 1961 2, p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui
struttura "antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità
che lo distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità
terribile della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di
nascita, non una conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p.
299). E cosi, rifacendosi al Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato
ancora il Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una
chiara distinzione tra il Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa
una parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur
vero che non si deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea
che unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei
secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto
di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che
è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa,
ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa
nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri
accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guar- dano, e si
ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario
colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio
scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni
parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni
invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della
tecnica astrologica: cfr. Tolo- meo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII,
2)" (Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c)
Gli «oracoli caldaici." Sotto questo aspetto, entro i termini di questa
visione vitale è simpatetica dell'Universo da un lato e, dall'altro lato, della
visione di un Universo malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi che
stringono in leggi fatali (astrali) il mondo ("gnosi," 102
propriamente detta), assumono un loro particolare significato gli Oracoli
caldaici (XocÀ8ocLx<i MyLoc), composti, sembra, da un certo Giuliano, vis-
suto sotto Marco Aurelio, che fu per primo definito teurgo (&e:oupy6c; ).
Secondo il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8) fu lo stesso Giuliano a farsi
chiamare teurgo per chiarire che egli "agiva sugli dèi," li
"faceva" (nell'Asclepio si legge che "deorum fictor est
homo"), e che non era un semplice teologo, non parlava cioè solo degli
dèi. La Suda riferisce che egli era figlio di un "filosofo caldeo,"
dallo stesso nome, che aveva scritto un'opera sui dèmoni, e che lo stesso
Giuliano aveva scritto 0e:oupyn<<X (Theurghika = Libri teurgici),
Te:Àe:cr·nx<X (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc 8' È1twv (L6ghia d' epòn
= Oracolt). "Che questi oracoli in esametri fossero (secondo una
congettura del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui quali Proclo scrisse
iln ampio com- mento (Marino, Vita Procli, 26) è dimostrato, senza alcun
dubbio, dal riferimento che si trova presso uno scoliasta di Luciano a -.a
-.e:Àe:cr-.Lx<i 'IouÀLocvou & llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L, o!c; o
llpox6moc; civ-.Lq~&éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che Proclo
commenta e contro cui pole- mizza Procopio': Luciano, Ad Philos., 12, IV, 224,
Jacobitz) e dal- l'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò
degli l~ (verst) chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giu-
liano espose le dottrine caldaiche' (Script. Min., I, 241, 25 sgg.):
&e:o7tocp<X8o-.oc ('doni degli dèi': Marino, Vita Procli, 26). Da dove
li abbia davvero ottenuti, non lo sappiamo... Naturalmente, è possibile che
Giuliano li abbia falsificati, ma il loro linguaggio è talmente biz- zarro e
gonfio, il loro pensiero talmente oscuro ed incoerente da sugge- rire l'idea
dei discorsi pronunciati in stato di trance dagli spiriti guide dei medium
moderni, piuttosto che l'opera meditata di un falsificatore. Anzi non sembra
affatto impossibile, alla luce di quanto sappiamo della teurgia posteriore, che
essi abbiano avuto origine dalle 'rivelazioni' di qualche visionario o di
qualche medium estatico e che tutto il com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli
in versi come afferma Psello (Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo.
Il che corrisponderebbe alla prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la
conosciamo, e la tra- sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di
introdurre nella fila- strocca una parvenza di significato e di sistema
filosofico. Nondimeno il pio lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di
qualche spiega- zione o commento in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito
anche questo (cfr. Proclo, In Tim., 246 f, 277 d; Marino, Vita Procli, 26;
Damascio, II, 203, 27)" (Dodds, Theurg., "Journal of Roman Stu-
dies," 37, 1947, ora in l Greci e l'i"azionale, trad. it., Firenze,
1959, pp. 337-8). Anche se difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli
cal- 103 daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano,
di Proclo, sem- bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli
Oracoli (cfr. in Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol.
Abhand.," 1894) presentano una visione dell'Universo assai simile a quella
di Numenio di Apamea, del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura
religioso-filosofica in chiave platonico-stoica, in forma molto vaga e
contraddittoria nell'uso dei termini, piu che nell'intimo significato. Si pone
una triade divina, costituita di tre intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, -
di cui il primo è chiamato anche Padre, o Intelletto del Padre, mentre il
secondo è intelletto in quanto determinazione dell'Intelletto primo, il quale
intelletto primo perciò è e non è intelletto, e il terzo è tale in quanto
dialetticamente risolve in sé il primo e il secondo intel- letto, costituendo
l'unità vivente della realtà tutta (anima mundi), tutta proveniente dal primo
Intelletto, il Dio inconoscibile in sé, che inteso come forza vitale (non a
caso si dice che la sua essenzialità è fuoco), si manifesta negli intelligibili
e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé in forma compiuta tutte le cose e le ha
date al secondo intelletto (p. 14 K.), [per cui] il primo fuoco non fa
discendere la sua potenza fino alla materia con una diretta azione, ma mediante
l'intelletto [secondo]: è un Intelletto, scaturito dall'Intelletto, che è
l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.). Monade il Dio, diade è detto
l'Intelletto secondo, perché possiede i "due caratteri, di avere in sé
gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i mondi" (p. 14 K.). Tutto
il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è perciò in Dio e in tal senso
oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in atto, forza vitale, si risolvono
anche le cose, per cui, alla fine, il primo Dio è indefinibile. Esiste un certo
intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è necessario intuire con l'acutezza
dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo intelletto verso questo
intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto determinato, non riu-
scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente spada" che tutta brilla
e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile fulgore. Non è dunque con un
violento sforzo che si deve concepire tale intelligibile, né tendendo allo
estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto misura, tranne
quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per diretta visione, ma,
dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che ha volto le spalle
ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto vuoto di ogni
pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla determinazione
dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre, l'Intelletto del
Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio (~ouÀji: boulè),
emetteva le idee del suo pen- 104 siero che assumevano tutte le
forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte. Dal Padre, infatti,
veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le idee, cosi, mediante
il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in altre idee intelligenti.
SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto preesistere al mondo dalle
mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellet- tuale. E via via che il
nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di seguire la traccia del
sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza, ornato delle idee di ogni
specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee sca- turiscono rombando,
pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La prima fonte, in sé
perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie idee (&.px_ey6vouç
l8éotç) (pp. 23-4 K.). Nell'unità del primo Intelletto, dunque, si costituisce
la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine medio, che articola (auvéx_et)
i due primi intelletti, scaturisce il terzo intelletto, mediante cui il tutto
si ricollega all'unità vivente, in una tensione (anima mund•) tra i due
termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si legge che l'anima è da un lato
intelletto e dall'altro lato soffio divino, e perciò amore (lp(l)ç ),
consistente appunto nella tensione, nella ricerca della propria imma- gine
rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a identifi- carsi col
tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale, da cui scaturisce
tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla scin- tilla
dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati, l'Intelletto e
il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto amore, augusto
legame che unifica tutte le cose e le sorpassa" : p. 26 K.). La
suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una
ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un
tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente
nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della
luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si
sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricon- dotte alla loro unità dalle
anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos(
il significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto
del sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per
via di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli
dèi stessi e sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della
natura, tutta vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta
dipende la comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema
fon- damentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai
commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giam- blico, a
Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica 105
universale, poste precise relazioni mimetiche tra ,tutte le cose, di far
convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la ras-
somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, imma- gini
di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime
desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia
universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che
senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo
dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle
simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le cose, tra le
luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità;
l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale,
operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos
dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate
da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui
evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la
suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De
magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri
dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il
modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri
togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che
ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non
basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi,
uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono
un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos(
fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi,
impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo
artificialmente tutto quello che la divinità comprende in s~ per essenza,
riunendo la molteplicità delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria
efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del
modello" (da Festugière, La révél., cit., I, pp. 134 sgg.; an- che Garin,
Elezioni e problema dell'Astrologia, V Conv. Int. St. Uman., 1960). Sotto
questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli Oracoli caldaici, insieme a
quella esercitata dal corpo degli scritti· ermetici, soprattutto nell'àmbito
degli interpreti del pensiero di Plotino. Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella
sua polemica da un lato contro la visione di un dio trascendente e ignoto,
difficilmente riconducibile alla sua funzione di fonte e causa di tutta la
realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto platonismo tipo Attico) e
dall'altro lato contro la concezione di un dio persona, libertà, e volontà
(altrettanto assurdo), decisamente accolse 106 l'aspetto della
magia che dicevamo naturale o razionale, pur respin- gendo l'altro aspetto
della magia, quello teurgico, non determinabile scientificamente e irrazionale,
il peso dato, nell'interpretazione che det- tero di Plotino già Porfirio ma piu
decisamente Giamblico, alle sirni- glianze, ai vincoli, alle simpatie, può
essere l'indice della possibilità di vedere in Plotino una precisa concezione logico-naturalistica,
piu che logico-matematica, che punta su di una comprensione del tutto in
termini platonico-stoici, in una esatta deduzione logica. Gli avvenimenti
dell'Universo si svolgono non già in virtu di ragioni seminali, ma in virtu di
potenze formali che abbracciano in sé persino quelle pot~nze che stanno al di
sopra di ciò che si regola sulle ragioni seminali; perché nelle ragioni
seminali non è inerente nulla di quanto esorbita dalle ragioni seminali stesse
né del contributo che la materia apporta al tutto, né delle vicendevoli
influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto ai segni, essi non hanno il fine
prefisso e diretto di preannunciare; no, ma poiché le cose avvengono nel modo
descritto, l'una trae dall'altra il suo presagio; poiché, siccome l'universo è
uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa può ben essere conosciuta dall'altra;
dal causato la causa, e il conseguente dall'antecedente e il composto da una
delle sue parti costitutive... Ora, se è esatto questo nostro argomentare, i
dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino quello che si riferiva alle pretese
influenze maligne originate dagli dèi, per le seguenti ragioni: non sono
"decisioni" le fonti degli influssi, ma tutto che viene di lassu -
nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica vita universale - sorge
per necessità di natura; le .cose, di per se stesse, aggiun- gono un contributo
non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi, presi ad uno ad uno, non
sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual- cosa di nuovo; il vivere,
inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma in funzione del tutto e,
infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di diverso da quel che aveva
ricevuto e non riesce a dominare la influenza ricevuta. Ma le influenze
magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano, nativamente, un accordo
tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee; inoltre, pur nella loro
variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri- buiscono tuttavia all'unità
del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun ordigno magico, quante cose
sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera magia, in seno all'universo,
sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa. Incantatore primordiale e
stregone, egli è colui che gli uomini conoscono proprio bene onde ricorrono,
per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi filtri ed ai suoi incantesimi.
E, per certo, poiché essi natural- mente amano e gli ingredienti che eccitano
amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro cos{ è venuto fuori l'aiuto
dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per contatti, a differenti
persone ingredienti differenti, che hanno il potere di trarle insieme e
contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod essa annoda
un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate. E si
avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi 107 atteggiandosi
in una determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze,
appunto perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà
a voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non
potrebbe esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti
incantesimi o esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf
dire, in un luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual
via una cosa si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si
attuano quei suoi esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua
la simpatia, come in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una
vibrazione anche in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha,
per cosf dire, il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata
anch'essa a un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga
finanche in un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! - ,
ebbene, anche nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da
contrari, vero ~ ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in
tutto regna l'affinità... (Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41). Lo
"stoicismo" di Marco Aurelio. La consapevolezza profonda e meditata
che la realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo,
momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui,
umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico
come Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo,
abbandonati ogni timore e speranza, risolvere se stesso esclusivamente sul
piano umano, realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a
volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa consapevolezza portava, nella
stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio (121-180),27 imperatore romano
(dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da
M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a una nobile famiglia, che
aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi
dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far
parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt. Rimasto a nove anni
orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si occupò, insieme al
bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il nome di M. Annio
Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto. Esaltatosi per la
filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni, vivendo in forma
austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto una viva simpatia e
che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome (M. Annio Vero), lo
chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò con la figlia di L. Ceonio
Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte di
Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che
Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano
nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di
Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi
venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore. Marco ebbe il
titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel 140. Nel 145
sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con
coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con
il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se
da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da giovane aveva sentito
avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le
chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva
.preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in
questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di
non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessan- temente a
vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qual-
cuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta
malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono
persone degne di poca considerazione (Ric., I, Il), dallo stoico Giunio Rustico
(figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega nel 119
di Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a
non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione
a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per
esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla
retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta
attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato
con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In
questo stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il
peripatetico Claudio Severo (console nel 146), il giurista L. Volu- sio
Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e
Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I,
pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo 161, sali al trono col nome di
Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono il fratello adottivo, che
prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni pacifici di Antonino, gli anni
in cui governò Marco Aurelio furono estre- mamente gravi per l'unità
dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere in Oriente contro
i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni sarmatiche e ger· maniche
sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in
Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi, assediarono Aquileia e
sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio Vero mossero contro i
barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a respingere gl'invasori oltre
la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a ristabilire
ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano. Accorso
contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna) nel 180. A lui
successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può 148
accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso della realtà,
tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza significato. Le
cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a filosofi non pochi e
non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli stoici le ritengono
ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è passibile di
modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche conclusione?
Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata; ben
piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi
contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in
chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a
sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si
grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto,
quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro
entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a
qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana
vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione
tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il
principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare;
la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle
dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino;
oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17).
Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV,
33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo
seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei
tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge.
Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra
cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15).
Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro
scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V,
33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore,
sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro;
ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito
finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella;
e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece,
quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto
che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò
go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti
pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode
Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue
riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati
sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note
p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149 alla
vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che
solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un
continuo scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la
fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou:
VII, 59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante
nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo
che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo
modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa:
la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza
violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere
nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri
faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e
tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo
misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere
con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III,
1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi
stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si
rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive
sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a
Epitteto, da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8;
IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo
atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte,
in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi - , in
un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come
propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e
tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un
rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da
cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti
umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni
uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto
partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione,
!"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama,
dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto" : VI,
39). E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di
atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere
(formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso
umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e
senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano· 150
presi dalle cose, dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini -
iden- tici, finché esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se
stessi, scoprendo sé come razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo-
nico) e come misura, si comprende delle cose e degli uomini la vanità e
l'insignificanza, per cui tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume
un suo posto, un suo senso, in quanto interiorità, entro i termini della nostra
opinione. In nessun luogo piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu
facilità, un uomo può ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio
intendere disposizione di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor-
gere la volgarità e quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor-
tanti, la devi togliere via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è
signore della propria anima [l'egemonico o il divino che è in noi], per opera
del quale l'uomo non può essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato
da nessun dolore, né colpito da nessuna violenza ... ; pronto ad accogliere
amoroso, con l'anima tutta quanta, quello che accade e quello che gli viene
assegnato, tutto... Quest'uomo sa che in suo potere è soltanto la propria
interiorità e pensa senza interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni-
versale connessione degli eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno
attribuito viene portato a uguale mèta dal destino universale, e parimenti a
uguale destino procede. Tiene ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede
razionalità gode di natura profondamente affine; che è proprio del- l'uomo
prendersi cura di ogni uomo... (III, 4). Togli il giudizio della tua mente e
sarà tolto il "sono stato offeso"; togli il "sono stato
offeso" e sarà tolta l'offesa (IV, 7). Se provi dolore per qualche offesa
che è fuori di te, non questo fatto singolo precisamente ti turba, bensf il
giudizio che tu vieni facendo su quello (VIII, 47). O meglio, in sé non
esistono né un'interiorità né un'esteriorità, ma interiorità ed esteriorità
sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte alla stessa realtà :
irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter- minati, passivi,
dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella consapevolezza
che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha una sua ragion
d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando supinamente,
scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se stessi,
pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un Epitteto
- , non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice Marco
Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di simile
cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi giungere a
morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal profondo del
cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a comporre
trattati su problemi astratti, 151 a declamare pretenziosi
discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo intellettuale e studioso,
benefico solo per colpire le menti altrui; l'avversione alla retorica, alla
poesia, al parlare forbito": I, 7); ma attra- verso una sapienza frutto di
quello stesso meditare ("da Apollonia ho imparato il tono libero del mio
carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie
razionali" : l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo è pensiero,
razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé mediante lo
stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di Marco Aurelio,
che non è affatto un trattato, né una doxografia, né un'esposizione logico-
dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho imparato l'avver-
sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da Sesto ho impa- rato ad
esser ricco di dottrina senza farne continua mostra": I, 7, 9), ma la
presentazione - unica forma d'insegnamento - del proprio ripensamento, del
proprio meditare, del continuo discorso a se stesso (èis heautòn). Marco
Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo (ciascuno, meditando
su se stesso, assume il posto che gli com- pete nell'ordine sociale,
costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio posto che natura e
sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di imperator~ e della
funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene della comunità: e ciò
è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci fa tutti fratelli
("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto conoscere per mezzo
suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto far sorgere in me il
desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per tutti; informato,
questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno capace di rispet-
tare per suprema ragione la libertà dei sudditi" : I, 14}, giorno per
giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non a caso
intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in genere
tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note
personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né
secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato
composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per
primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato
imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu
gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le
piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore).
Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo
sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta
in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il
proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai 152 contro il
tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna
ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora
dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni,
conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il
suo posto...": III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente},
saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui
primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in
armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che
appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente
insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente,
ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare,
molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si
risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto individualmente,
unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque,
dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta
a se stessa, quando procede sulla retta via. E una natura razionale procede
sulla retta via quando non dà il suo assenso a immaginazioni menzognere e
oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il
bene comune; quando ricerca o evita quelle cose sole che sono in nostro potere;
quando ama tutto quello che le viene assegnato dalla comune natura. Ogni
singola natura è parte di quella comune a quella guisa che natura di foglia
partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza che in questo caso
natura di foglia è parte di una natura insensibile, irrazionale, e che può
subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una natura che non ammette
coercizione, intelli- gente e giusta, dato che distribuisce ai singoli, con
uguale criterio e secondo il merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di
attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione non isolando per ogni
fatto un singolo parti- colare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma
considerando nel loro complesso particolari di un singolo fatto e in relazione
a quelli d'un altro, pur nel loro complesso (VII, 7). Non solo, ma poiché
l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come attività unificatrice,
come ragione che è tale non in sé, ma in quanto organizzazione di sé, come
attività egemonica di un se stesso, molteplicità e passioni - non a caso Marco
Aurelio riprende il vecchio termine stoico "egemonico" per intendere
la razionalità - realizza- zione del proprio soffio vitale (pnéuma) in un
ordine e in una misura delle passioni, in cui, appunto, consiste la
razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la stessa essenza del tutto, la
sua natura, il divino, 153 sia questa stessa forza vitale che si
realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la Mente
dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~ xotvwvtx6~: V, 30),
e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un momento, un aspetto,
mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo attraverso sé
l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o l'altra:
confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine,
provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il proprio
posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo negli
altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore degli altri
(socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità steS&a,
dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità consapevole, in
cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale all'altro in quanto
capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è una scintilla
dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo è mio affine,
non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto partecipe di una
mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo unificato le
membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa funzione,
pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati in vista
di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto ti sarà
piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono membro di
una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al contrario, se tu
dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami gli
uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti,
compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di
far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali potrai volgere
intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;.
bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo dall'interiore
valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente si
mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se la ragione,
in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in quanto
imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune; quindi
anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di
wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà
nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in
tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi
intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che
ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa
riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come
attività razionale, può far porre 154 come ipotesi che, appunto,
lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e
socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo
riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come
conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si
scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale,
cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che
costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato
tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra
cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso,
ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis-
suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion
d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo
quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili
foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula...,
fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a
ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e,
successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un
istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo
oppure fuggendo, proprio convinto che .la durata ne sia eterna; ancora un poco
e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il
lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li
vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno
giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un
rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa
tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto
capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il
valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi prendere
dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una
molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra, .ma sono tutte
uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo
aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile,
dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad
altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la
comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra
parte, tu sei uomo pro- teso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana
comunità" : XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città;
qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo nel
mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti
di 155 sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura
ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri- amore
per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un
Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII, 73),
ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~
umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale
dovreb- b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le
ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV,
3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo,
sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di
sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma,
riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o
breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo
essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale
incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci
intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre,
nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui
l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che
non/si ha non si può perdere" : Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu
e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui
siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza,
nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta,
l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una
minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti
in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo,
e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre
immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del
nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel
presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti
del processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il
presente) in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo
(tale l'in'terpre- tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno,"
che da temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva
la realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur
soffren- done o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie,
per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche
in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o
negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. 156
Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni
diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da
quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in
quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lun-
ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale,
ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via tra-
scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e
nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che
non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo,
che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un
cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose
per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo
fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi
bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir
privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può
perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica'egual
cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero
piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il
mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non
costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande
città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni?... È la medesima cosa
che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro.
"Ma non sono arri- vato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto
tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono
l'intero dramma (XII, 36). Cia-· scuno vive questo istante ch'è presente: tutto
il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto
l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV,
48]. Sono formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo,
tutto riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza
alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue
operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal
suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di
quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni
sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco
Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche,
indipendentemente dai presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe
conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal
considerare la sorte a te asse- gnata nell'universale destino? In tal caso devi
ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa
o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine,
provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di
indugiare in una mescolanza 157 dovuta al caso?... Oh! verrà certo
anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io cerchi di fare.
Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro
fiducia in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi
sono gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora, se ci attende
un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di
prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza
che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno
del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché
tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in
tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da
ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in
tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e
condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci
fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è
un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso
(IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei
suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa come
razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un
ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le
cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare
un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene,
umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo,
nella nostra stessa interio- rità, nello stesso amore per noi e per gli altri,
che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio,
principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima
dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di
uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in eterno,
in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antro-
pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura
contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i
termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato
all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo
capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa
ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la
stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia
rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto questo
aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una
giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo
veduto, con Diane Crisostomo, e che si 158 venne realizzando da
Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile
di certi motivi stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della
ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in
funzione dell'unico Stato - , usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone
e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine,
non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di
Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da
Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe
tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove
l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso
essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge
abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà
di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei
sud- diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria
dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29).
Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia
di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e
il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis-
suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima
dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste
creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che
immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione
culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva,
sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo,"
che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo
dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di
Marco Aurelio, .del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa,
dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul
piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a
discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili
d'essere dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una
spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo,"
inteso come logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la
realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca
aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo
ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica
del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si
avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo
entro cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi
storica- mente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un
tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i
limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche
delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m se- colo
d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito
delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cit- tadini
dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte
di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro
lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati,
anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e
molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto
piu largo e divulgativo, rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu
vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto
Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino,
amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le
Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto
tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito
(Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte
criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una
molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo
aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricor- dare i Placita di
Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels
(Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua rico- struzione dei Dossografi
greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata
l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa- reri, o Placita),
perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso- phorum (del 177 circa),
attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -, in Nemesio - Iv-v secolo
- e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero
a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei
fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella
prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma
accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco,
non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri
delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola
teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici
(da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione,
Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome
di Plutarco, Ippo- 160 lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte
l'interesse che hanno questi fram- menti dossografici come fonti e
testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da
un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la
loro impostazione dovuta a Teofrasto, che venne determinando non solo una certa
delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi
diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè
secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi
problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo,
il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è
chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico"); ciò poteva por-
tare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata
dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo
negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con- .cezione,
se negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri.
aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione
scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni"
per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe
opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di
certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali
ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del
pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle
"successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate
dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione,
vissuto nel II secolo a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni,
e proseguitosi tra il II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate,
Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in particolare tenendo conto, via via,
del- l'ideale di vita, che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione,
e dell'importanza che per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio,
si comprende come si sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della
vita dei filosofi, che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo
del m secolo. a. C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di
Magnesia, tra il 11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo
d. C., ad un largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva,
tali raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non
indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere
perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del
tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma
sopratt\Jtto 161 come indicazioni del materiale posto in
discussione, e, quindi, degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò,
sembra, non si può dire che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi
di un pensiero originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa
delineazione che va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera
di Diogene Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare,
sempre documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il
pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle
dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e
in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche.
"Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una
esposizione della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se
si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale,
un'amo- 2 8 Diogene Laerzio visse, proba~mente, n e l l a p r i m a m e t à d e
l 1 1 1 s e c o l o : n e l IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di
Giamblico riportava nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di
Diogene; Diogene, per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino
discepolo di Sesto, sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a
sua volta discepolo di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita
Erodoto, e sappiamo che Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che,
dunque, Sesto avrebbe scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe,
perciò, dovuto scrivere la sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo
dove nacque e molto si è discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il
Wilamowitz (Epin. Gd MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~
è un signum dedotto dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de)
(cfr. 'E. Schwartz, Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it.
delle Vite dei filosofi, Bari, 1962, p. XXVIII). Da Diogene stesso sappiamo (1,
63; VII, 31; VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli
scrisse un libro di epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni
tipo), intorno a tutti gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che
riguarda i filosofi, nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci.
L'opera maggiore di Dio- gene nei codici piu ant!<h; è andata sotto il
titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di
ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di
Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri e si aprono con un Proemio di
notevole importanza poiché vi si determina il criterio dell'opera. Nel primo
libro si espongono vita e pensiero di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco,
Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel
s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao,
Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone,
Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedi- cato a
Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di:
Speu- sippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao,
Bione, Lacide, Car- neade, Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e
alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide.
Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito,
Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato
allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica,
Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta
di: Pita- gora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao,
Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito,
Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora,
Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad
Epicuro. 162 rosa raccolta delle varie notizie sparse in
innumerevoli libri, non sem- pre facilmente accessibili. In esse la filosofia
non è unicamente l'atti- vità speculativa, è un concetto piu ampio, che investe
ogni minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è
l'espres- sione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di vista
caratte- rizza già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di lunga
tradizione, verso i propri filosofi...: è una rappresentazione ideale di una
mitica società di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro-
duzione a I Presocratici, l, Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale
delle filosofie esposte particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è
detto, all'epicureismo, dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è
dedicato ad Epicuro, di cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a
cui Diogene si avvicina con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui
tesi, particolarmente l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e
precisione; forse al platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad
un'am- miratrice di Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto-
lineare, come indice di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente
valido, e rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la pre-
sentazione oggettiva di piu correnti .di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio
per quella stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di
ciascun filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi
delle possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di
qui, come chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto
dialettico della corrente scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo),
senza privilegiarne una o altra. d) Le scienze e la logica: lo
"scetticismo" di Sesto Empirico. Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già
detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica
sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane origini nel tipo di ricerca
proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a contenuto di indagine i
diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una
loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla natura umana. E poiché sia
per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie
ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei contra si trattava di
precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la
possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto,
studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe
sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che
sono state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche
nei commentatori di 163 Platone e dei libri logici di Aristotele,
l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che
permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu
alto significato sto- rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine
del II e il principio del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini
della ricerca (scepsi) a tener sempre presente, metodologicamente, il peri-
colo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di
oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le
/potiposi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e l'approfondi-
mento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus
Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è soliti
indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodo- logico, è
l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica" dell'anti-
chità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una sistemazione 29
Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato
medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math., I, 260)
appartenente all'indi- rizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo
metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math., VIII, 191),
scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat- tezza quando
visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo,
insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX, 87, 115),
di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200 d. C., che,
invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto. Poiché, per
altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli eretici, composta
tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto, si è potuto,
verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd n secolo e
il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200 e il 220
circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino: "nostri,"
tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu ad Atene, ad
Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III, 221; Adv.
Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra, cit., pp.
375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due
scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto
unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno
scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato
(Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere
pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a
trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto.
Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi
pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello
"scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello
scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro:
critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti,
intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i
matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo,
desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i
dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto
può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e,
nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro
coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai
grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai
musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno
Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo
cosa significhi (il Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n.
l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro
contemporaneo").] organica da un lato della topica e dei tropi, delle
argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che·
dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del passaggio
da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica, dall'altro
lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle singole
scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di ciascuna, e
dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la contraddit-
torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in questa
dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non nega
l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile,
bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o
l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren-
sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus- sione
dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una certa
condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente affatto
scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui appunto,
nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da parte di
Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della ricerca
medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra- verso
Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in- dirizzo
empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto
empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla
verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è
afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili
esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di
fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni
rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi intraprende
una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che
cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che la cosa
è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi, anche, di
coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb- bero
affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di
cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di
averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati
"dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono
oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come
gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano l'incomprensibilità
i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici. Continuano a cercare
gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo esplica il suo valore
(diciamo "valore" senza annettere a questa parola nessun sottile
significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo "valere")
nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in qualsiasi maniera,
per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte,
arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l, 8). Di qui, dunque,
la preliminare e fondamentale discussione sul "giu- dizio " e sul
"criterio." Mediante una ripresa sistematica dei tropi, da Enesidemo
ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio che si fondi sulla
"analisi" (implicante che i termini del giudizio siano
"inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole
significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come
per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono
rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò
non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca,
passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause
prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla
"causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al
"procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai
"segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza
extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica
aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano
scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile
alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo -
si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui
"segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità
di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte
quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere,"
màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni
rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino
il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente sostenuti};
dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro i termini
di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative delle
impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e capace di
cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per cui
appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità del
discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del discorso,
le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi ridimensionate,
dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine portavano, sul
piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una metodologia gene-
rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi ben deter- minati
di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti e validità dei
giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166
ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si era
giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da Meno-
doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot- trinari
(fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti), dopo la
pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della pura
empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo con
Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del- l'appello
all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra raccolta
di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento dell'esperienza
stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio,
nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé,
presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri
fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto
alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori
dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza
significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito,
ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa
costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni
"rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di
cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e
all'historfe, raccolta di dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal
modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di
dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una
descrizione (schizzo, ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume
affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di
indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare
certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del
sapere matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e del
sapere medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano le
opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200).
Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie,
non presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della
matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a
spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di
scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una
rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle
ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i
materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai
risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, 167
presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili,
veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e
di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere
possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve
sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici
con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che
possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo
epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di
Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò
ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo
racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni,
ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco,
rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma
appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla
linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due
piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi
precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul-
tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia
i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della
teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò
che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e l'approfondimento
in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della teoria della
rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione atmosferica dal cui
studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la rifrazione atmosferica
può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari. T ali rappresentazioni
geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui (postulata per quei
calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto sferico di
riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le osservazioni
che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della geometria sferica
delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita di Claudio
Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le proprie
osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera piu
celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle- mlllica
dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per distinguerla da una
rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la grandissima (I'CYI.a-nj,
meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba (La grandissima, .Al
maghesm}, il titolo di .Alrruwesto, vanno ric:ordate le seguenti opere
j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La pida geografica
(in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in altre parti sembra
che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore Marino di Tiro),
l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum, eanone, com'è
stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio ! dell'egemonico. 168
ad Euclide dal matematico Menelao di Alessandria, autore di
un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato in tre libri,
conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è fondata la
trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema il tutto,
sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati osservati -
molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro - , quei dati
vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto
organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini
geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di
Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia.
Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;:
Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha
determinato per secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo,
una volta assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi
(la Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per
distin- guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran-
dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto,
trascrizione araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba
dal greco meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che
meglio poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti
l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della
ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della
ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la "salvazione"
dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e la spiegazione
dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto, facente perno
sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti entro la sfera
contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre entro l'àmbito
dell'astronomia - e per gli stessi inte- ressi- va veduto il tentativo di
Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso delle
influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di
rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico
còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze
astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle
scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il
tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava,
su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal-
l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo-
meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica esposizione delle 169
diverse teorie musicali), che culminano con interessanti·
considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni
con l'ar- monia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e
aristo- teliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle
influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi
risultati del- l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129
circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno
ricevefte fin da ragazzo una buona edu- cazione particolarmente nelle
matematiche e nelle varie concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre,
che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di Asclepio, dio della
medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto coltivati in Pergamo,
dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a
diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di Asclepio." Galeno,
che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato
alla medicina da un "anatomista," da un "ippocratico" e da
un "empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole
mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia,
ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della
medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a
preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche
le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne
ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato
medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in dietetica.
Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e conferenziere
ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto a causa di
un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà .sappiamo che in. Oriente l'epidemia fu
ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e ostacolato da certi
circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre attento
osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo, vi
riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da
Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i
Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a
Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo figlio
Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono
persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato a
Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il pre- nome Claudio, non
documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del
C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della
vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti. Met-
tiamo tra parentesi quadre quelli della cui autenticità si dubita: Sull'ordine
dei proprllibri * ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri libr. (De:pl
-rwv !8(6lv ~L~À(c.)v); , (Depl L ' o t t i m o medico è anche filosofo ( 0 - r
L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi
si iniziano (De:p( Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina {De:pl
Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,; iKl
-Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii
a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL) ; DÙiposi e
cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv
hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;};
Medicina empirica ( D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi
empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)) ; Le parti della medicina (De:p -rwv
Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv) ; Introduzione dialettica o lnstitutio logica
{Elacxy6lyij 3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai
sofismi linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui -r<o>v);
Le qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura
dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a
lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle
malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v
YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippo- crate (Elt,; 'rÒ
npopp'l)-rtxòv 'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170
dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di
Ippo- crate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di
Tolomeo (i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne
diverranno gli "autori"). Dal suo lavoro, sul piano piu stret-
tamente sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in
anatomia: descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei
nervi in nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa
cranica; in fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema circolatorio,
ove si sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle
arterie che nelle vene, funzione del midollo spinale con relative ripercussioni
sui nervi cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle
paralisi; in patologia: ogni disor- dine funzionale deriva da una lesione
organica; in psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue
riflessioni, invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli
derivarono cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente
in fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria
finali- stica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del
soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro
organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato
là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo
l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico,
collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL
x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW
'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v}; L'officina del
medico (Ktlt-r' !ot-rpciov) [Le settimane: Ilcpl i()3o!Lii8c.>v]; Sull'uso
delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou
a&I(J4TL IJ.Op!c.>v}; Indagini anatomiche (IIcpl -rC..V
ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl
-rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli
elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v
a-roLxc!c.>v); Sui temperamenti (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~ naturali
(IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç}; Se per
natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt; citi(J4
ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro xa:ri.
yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl
clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;) ; Sulla buona
costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç} ; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se
llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f)
yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa
(Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou) ; Sinopsi sui polsi
(~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"} ; Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç}
; Sulle facol~ degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui·
temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l
8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v}; Sulla compotiflione dei
far- maci (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v) ; La teriaca (IIcpl Tijç
&JjpL«Xijc; l ; Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v} ;
Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v) ;
Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l ; I tumori contro natura
(IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl
q~>4o-roiJ.!«ç .&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso
dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti
possono riconoscere i simulatori di malattie]. 171 vastissima
opera di Galeno, le oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei
due piani, da un lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui
scrisse questo o quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu
sperimentali quelli scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la
grossa discussione sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra
"dogmatici," "metodici" ed "empiristi" puri. Di
Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di
eccezione, di temperamento inquieto, estremamente ambi- zioso (in un certo
momento della sua vita, clinico di moda che affa- scina non solo per la sua
bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma
anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un padre intellettuale,
l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della
matematica e del sapere in gene- rale (filosofia), ai quali, sempre per volontà
del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette anni gli studi di
medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola medica, di un
anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il padre, visitò,
nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales-
sandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole filoso- fiche.
Nel 158, a Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzan- dosi in
chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove acquista grande fama. Nel 166, forse a causa
di un'epidemia, lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in
Siria; ovunque prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca
di rendersi conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il
funzionamento del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove
riprende il suo pòsto di chi- rurgo presso la scuola dei gladiatori, viene.
richiamato in Italia, ad Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui
divenne medico di fiducia. Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a
Roma, medico celebre, dedito alla pratica medica e alla redazione definitiva
delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E
qui vanno sottolineate due cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva
diciotto anni e non fu solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie
mediche in discussione; egli, fin da giova- nissimo, venne anche formato dagli
studi matematici e dagli studi rela- tivi al "sapere" in generale,
dibattutissimi nelle scuole filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165
sembra ch'egli avesse già composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a
quelle di anatomia e di fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di
patologia, le opere piu strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di
sperimentatore, sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è
questo 172 che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia
ricostruire la personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere
alla facile etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di
Galeno è estrema- mente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi
estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva,
dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da
qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza
medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole
filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti
rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le
condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i
dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" -
fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di
come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la
stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a
determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica:
cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica,
implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza
specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi,
per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei
Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e
logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi,
istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal
nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente
vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni
fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti
riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo
discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso
modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis
libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di
delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e .perciò stesso non
solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di
quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o
provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni
formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva
certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la
costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio
logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo),
si capisce come, 173 dall'altro lato, Galeno per spiegare,
particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al
mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale,
assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine
aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità, ricorresse all'ipotesi
stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio,
che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali,
per cui il "pneuma" si realizza come "spi- rito cerebrale"
(pneuma psichico), · come "spirito vitale," o animale, vero e
proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue
nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è
il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di
questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro)
cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica - dei temperamenti (i
quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il
caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come
sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal
sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio
degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti:
sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di
soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che
esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in
un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e
la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze
vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza pre- cisa
dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi,
operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.A seconda dei
testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò
profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva e dalla dirittura
ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno
reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive
credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche,
sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai
vecchi riti, culti, misteri, l'orfico .in particolare, tutto ciò che poteva
servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al
divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio,
quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo
l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe
espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con
runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini
della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui
tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della
libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive-
nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà.
Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche
certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di
Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le
tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima,
che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette
nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia
imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa).
234 Lo stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel
233-34, detto anche di Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il
suo primo incontro con Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive:
"Nelle adunanze, Plotino sembrava uno che conversasse e nessuno vi l
Nacque forse a Batanea, in Siria, nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi
vissuto j)<'r un certo periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il
nome Basilio, essendo chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il
nome di mio padre. Ora Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi
renderlo in lingua greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe
Origene ed entrò in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la
scuola cristiana. Ad Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era
stato, in Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui
Plotino diceva: "filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio,
Vita Plot., 14), iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente,
alla retorica, in cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un
Trattato di retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è
oggi convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni
circa Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad
Amelio, uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del
regno di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di
Antonio Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da
diciotto anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali
peraltro non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno
del regno di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio,
allorché m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita
Plot., 4). Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie
opinioni, o meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica.
Collaboratore e amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola
j)<'r cinque anni, finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio
dello stesso Plotino, si recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in
salute. In Sicilia (al Lilibeo) soggiornò due anni. Nel 271 - Platino era morto
nel 2 7 0 · - tornò a Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo
l'insegnamento di Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino,
che pubblicò tra il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio
scrisse molto. Per una ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti
presenti i j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima
dell'incontro con Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di
Plotino; 3. Durante il soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte
di Plotino. Appartengono al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli
oracoli (frammenti); Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4
libri, di cui resta solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a
Empedocle, il III a Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di
frammenti); Introduzione all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di
Tolomeo (framm.); Sulle immagini (framm.). Appartengono al secondo
j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica, Commenti a opere di Platone (al
Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone,
alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una discussione sullo scritto di
Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene, Ricerche platoniche (di questi
scritti abbiamo solo notizia); un Commento a L'affermazione e negazione di
Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle Categorie di Aristotele (framm.), al
De interpretatione di Aristotele (framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII
libro della Metafisica di Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi
del De anima di Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e
notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi
categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri
(framm.); Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul
ritorno dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.);
Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a
Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r
aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci
te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o
Sentenze; Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad
alcuni trattati delle Enneadi. 2,35 vedeva affiorare, a tutta
prima, la forza della costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io
stesso, Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii
la prima volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui
tentavo di dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno
esistenza fuori dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura
finita, con un sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i
dubbi, nei quali, per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è
caduto.' Amelio scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di
Porfirio. lo scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò
ancora. Alla terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi
il loro pen- siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla
riunione. D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui
considerato l'uomo di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso
l'ambizione di articolare e di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri"
(Vita Plot., XVIII, 90-93). Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea
aveva conosciuto Origene, che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico
Longino Cassio, e ch'era stato ad Alessandria, aveva fortemente subito
l'influenza delle dottrine religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio
erano state presenti anche a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente
discusso, né risolto in una costruzione logica. È certo che Porfirio fu da
giovane attratto dalle suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un
particolare significato a ciò che si poteva desumere dalle sedute in cui si
evocavano gli spiriti, in una interpretazione simbolica di ciò che.quegli
spiriti evocati dicevano (oracolt). Di qui l'opera di Porfirio, dal
significativo titolo Sulla filosofia tratta dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv
qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che Porfirio en- trasse in contatto con Plotino,
e dai cui frammenti si ricava, appunto, che Porfirio si serviva di oracoli
dovuti, com'è stato detto, a "medium" durante sedute spiritiche, e
che l'opera era una specie di trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare
tecniche e pratiche rituali mediante le quali ricondurre l'anima alla propria
divinità. In questo stesso pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in
quattro libri dedicata alla ricostruzione piu che del pensiero, del modo di
vita di filosofi, o, meglio, di vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante
cui salvare l'anima, e in cui egli, riallacciandosi a una certa tradizione
platonica (partiro larmente a Moderato di Gades), vedeva il piu profondo
significate della filosofia: non a caso, cosi, i quattro libri erano dedicati
il prime a Pitagora, il secondo a Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a
Pla· tone. Di essi è giunto solo il primo, la Vita di Pitagora; degli altri non
sono rimasti che una ventina di frammenti. Già indicativa di un certe modo di
intendere il filosofare è l'architettura dell'opera; la Vita d1 236
Pitagora, poi, dà il metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel
rico- struire il significato del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della
filosofia nell'evocazione del proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini
simbolico-numerici di tutta la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli
Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è
ricordare che Porfirio ricostruisce la vita di Pitagora met- tendo insieme i
testi piu diversi, tratti da Cleante, Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso,
Dionisofane, Dicearco, Nicomaco, Antonio Diogene, Moderato). E cosi è
altrettanto indicativo che Porfirio abbia scritto, sempre in questo primo
periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v
<Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e un trattato Sulle immagini.
Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in Porfirio una crisi, ma piu
teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide le. proprie credenze al lume
del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il significato delle proprie
esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i termini della concezione di
Plotino, una sistema- zione logico-ontologica, mediante cui segnare le tappe di
un itinerario dell'anima a Dio, entro cui potevano rientrare anche i vecchi
misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti, intesi però simbolicamente,
assunti per ciò ch'essi potevano servire a convertire l'anima a se stessa, a
libe- rarla dalla dispersione sensibile: insignificanti, anzi assurdi, se presi
unilateralmente per sé. I frutti di tale "conversione" al plotinismo,
come dice lo stesso Porfirio, e del suo atteggiamento nuovo nei con- fronti
della elevazione morale e religiosa si vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò
a comporre dal 269 in poi, dal tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che
vissuto in Roma per sei anni, fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro
di scuola, tra lezioni, discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione
degli scritti e delle lezioni del maestro, colpito da una grave forma di
esaurimento, che lo con- dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11),
si allontanò dalla scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per
prendersi in Sici- lia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due
anni circa (dal 268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e
a Roma, divenuto il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino,
intensamente lavorò alla divulgazione e alla sistemazione del pensiero del
maestro, fino alla mortè, avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei
confronti della magia e della teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad
Anebo, sacerdote egizio, in cui criticamente si mette in discussione, appunto,
la funzione della teurgia, dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti
e torbidi riti, mi- steri, pratiche, la contraddizione di distinguere le
divinità in buone e malefiche, prestando alla divinità passioni, esigenze,
volontà umane 237 ("autentiche invenzioni di uomini e
finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49); nella Lettera a
Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da Porfirio
all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione dell'anima, in un
ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi, che è il dominio
che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché tutto dipende da
noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da Dio. Sotto questo
aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il motivo stoico
(Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da se stessa, onde
la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura ("l'intelletto segua
Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua l'intelletto; alla anima serva
{>er quanto è possibile il corpo, fatto puro a lei pura": A Marcel/a,
13; "Facciamo conto solo delle cose che dipendono da noi": ib., 5;
"l'intelletto è maestro, salvatore, nutrimento, custode e guida: esso
intende la verità nel silenzio e discoprendo la legge divina con la
contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la legge impressa sin
dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la legge naturale, da
questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di quella naturale;
ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge scritta": ib., 26-27).
La concezione di Plotino giustificava, cosi, in termini logico-intel- lettuali,
l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che particolarmente fu col- pito dalle
discussioni di Plotino sull'anima, intesa come consapevolezza di sé, come
capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori di sé, fino a giungere a
vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso Porfirio punta sempre
sull'anima, sulla "conversione" dell'anima, sull'anima entro cui è la
verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si sappia ascoltare l'anima
stessa, il nostro piu vero ed intimo "maestro" ("tu hai in te un
maestro": A Marcel/a, 9). "Raccoglierai e unificherai le tue intime
facoltà, se cercherai di articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino
Platone partendo di là ha richiamato dalle cose sen- sibili alle
intelligibili" (A Mareella, 10). D i qui, sembra, lo stesso modo con cui
Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari scritti di Plotino, pur conoscendone
l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot., 4-6), ha ordinato, nel costituire il
"libro" del neoplatonismo, i trattati plo- tiniani, cominciando
appunto dall'individuo e dal sensibile. L'ordina- mento delle Enneadi
rispecchia senza dubbio l'interpretazione di Porfirio, il quale, per altro,
vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si incentra l'universo tutto; se
l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa nell'unità vivente
dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo),
che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto
affermazione di sé, riproduce 238 la molteplicità dell'Intelletto,
dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza di sé in quanto,
limitazione di se stessa (anime singole ed empiriche), per cui l'anima dapprima
dispersa, rotta nelle cose, passiva, facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il
limite, ricondu- cendo a sé le cose stesse. Di qui proviene la distinzione
porfiriana delle funzioni dell'anima singola: l'anima è puramente spermatica
finché, inconscia, è essa stessa le cose; eidolica, immagine, allorché si
rappre- senta i corpi come altro da sé, e come limiti; logica, quando coglie se
stessa come discorso unificante, articolando il molteplice; noetica, quando
dalla dispersione sensibile, dalla coscienza del limite, dall'unità del
molteplice fuori di sé, intuitivamente coglie il tutto Uno in sé, solle-
vandosi all'intelletto; anoetica, quando perde se stessa facendosi una
nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono nell'Anima del mondo, e da essa
emergono senza che essa sia divisa, si come tutte le cose, cieli, stelle e cosi
via fino alla terra, sono nell'Anima del mondo e da essa emergono, in limiti
sempre maggiori, sempre piu corposi, onde appunto sono i corpi ad essere nelle
anime; tutto perciò può essere interpretato in un rapporto di
"simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni, in una gradualità
di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri) alle inferiori
anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua stella, mediante
una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto
questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà, alcun principio,
se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel limite, o di
guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima, nel momento
dell'imma- gine, in cui la realtà appare come altra dall'anima, avente un suo
limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta le anime
stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte
da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema del- l'anima) passato
attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando quindi
il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Partico- larmente interessante sembra
questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr.
3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di anime, di
astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del primo
momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto
all'anima nella sua attività eide- tico-immaginativa. Proprio entro questo
momento funzionano epos- sono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi
non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e
teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza
che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino,
sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato 239
per chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione
terapeutica e ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e
mediante essa sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche
agiscono. "Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale
da suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i
cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno
vivere lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di
ricevere la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in
virtu della legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri,
l'uomo si libera dalle influenze per- niciose e si sbarazza di ogni effluvio
malsano. La purificazione progre- disce via via che l'animo fa sf che in sé si
produca l'effetto della pro- pria devozione, e la pratica della continenza, che
a rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia -
renderà la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è
tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la
teurgia è sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de
Porphyre, Gand- Lipsia, 1913, pp. 91-2). Se è vero - sottolinea Porfirio - che
le pra- tiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima
pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno
dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr. De
regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal
servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni
malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli
all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De absti-
nentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae;
"Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della
teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra
parte nega che tale arte offra a chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo
vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civi- · tate Dei, X, 9, 415).
E qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a
Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano
le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e
teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si
venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale,
in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del
destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota,
profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di Commodo (180-192),
successore di Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio
Severo (193-211) a Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che
in tutto 240 l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori
di provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole
(pensiamo a Caracalla, 211-217, e in particolar modo a Eliogabalo, 218-222, che
vittorioso su Macrino, 217-218, per aiuto della madre Mesa, siriaca,
sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di Set- timio,
impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le mera- viglie ad
esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per rendersi conto
da un lato della complessità di questo periodo e della difficoltà eh'esso presenta
per intenderne le molte sfumature, richiami, allusioni, dall'altro lato per
comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo strutturarsi e il
cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri, determinanti alla fine
una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le linee della cultura
propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu, dunque, entro la
concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle pratiche teurgiche e
magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei culti, delle stesse
credenze religiose, valide da un lato come avviamento per gli uomini comuni,
dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi termini, sem- bra,
vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento agli Oracoli caldaici
(gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De regressu animae), uno
scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel primo libro dei
Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene ad essere posto
come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della tradizione del sole
platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio Bene; e quella specie di
breviario che è Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc;
-rli: V01)'t"OC) (una summa di regole plotiniane per ritornare dal
sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio, dapprima mediante una condotta di
vita ascetica, poi mediante una sempre piu approfondita meditazione dell'anima
su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono scritti per gli addottrinati, per
chi, attraverso la scuola, riceve la capacità di inserirsi nella catena degli
eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la capacità di "conoscere se
stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche un'opera sul Conosci te
stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se tessa ad essere
filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione porfiriana delle
virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che ne dette un sunto
nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla classificazione delle
virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla moderazione delle
paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla ragione nei doveri
attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano la sicurezza del
prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte razionale, la
fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e nell'armonia
della 241 parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel
dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche
("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si
eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le
civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare
con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la
temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere
il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia
si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare
resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima
intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza
consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il
compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera
conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso
l'intelligenza; la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e
che ha natura impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono
le virtu che esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima,
delle quali sono gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono
somiglianze...: qui la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce,
la temperanza è conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è
compimento del pro- prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se
stesso, nel rima- nere sempre in interiore purezza mediante le proprie
forze"). Scopo delle virtu civili è di imporre una misura alle passioni
per agire conforme alle leggi di natura; delle catartiche è di svincolarsi
completamente dalle passioni; delle altre è di agire secondo l'intelletto senza
avere neppure il pensiero di separarsi dalle passioni; delle ultime infine non
è piu quello di rivolgere il proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la
mèta cun la propria essenza. Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è
uomo onesto; chi conforme alle virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono;
chi conforme alle sole intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è
dio padre. Per questo dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer-
cando di possederle in questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu
pregevoli... Anzitutto, base e fondamento della purificazione è conoscere se
stessi... (Slanci, 32). Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando
l'anima si scioglie da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si
lega al corpo quando si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si
libera allorché non è piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente
composti al tempo in cui Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto
dell'attività scolastica, entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani,
sono i commenti di Porfirio ad 242 .alcuni testi di opere di
Platone (Crati/o, Sofista, Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone,
Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricer- èhe platoniche), ad uno scritto
di Teofrasto (Sulla affermazione e la negazione) d ad alcuni libri di
Aristotele (Categorie, ivi compresa l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De
interpretatione, ivi com- presa l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica;
libro XII della Meta- fisica; Etica; alcuni passi dell'Anima relativi
all'entelechia). Se non poco indicativi sono i dialoghi platonici presi in
discussione, altrettanto indicativa della funzione assunta dalla filosofia di
Aristotele nell'àm- bito del platonismo di Plotino e di Porfirio, è la scelta
dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII libro della Metafisica (il libro su
Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo servire da introduzione a inten-
dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno platonico, l'Etica da introdu- zione
a intendere le virtu civili, catartiche e intellettive, mentre le Categorie e
il De interpretatione, se assunti nel loro aspetto formale- grammaticale - e
qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga discus- sione e del conflitto
sulle categorie aristoteliche nel campo del plato- nismo nel n secolo,
polemizza con Plotino che, interpretando le cate- gorie contenutisticamente, le
negava, sostenendo di contro la validità dei cinque generi del Sofista
platonico- servivano come introduzione al "saper pensare," come
condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito
dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture
logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso
logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere,
specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili
predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque
voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose,
ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr.
lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice:
"lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano
semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o
posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che
per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren-
dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo
essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo,
generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente
discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne
ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il
nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea:
corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corP,O
animato sensibile; ragionevole-irra- 243 gionevole; animale
ragionevole : mortale-immortale; ,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio,
Sempronio e cosi via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua
risposta, attraverso Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo -
Porfirio fu sensi- bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando
sempre di render- sene conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto
del sap~re: da quello pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti,
nei riti, nelle pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi
scritte, a quello logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale
(Platone, certo stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente
plotiniano dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto
ha luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale
pacificazione. Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura
del Cristo (almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe
e frequentò Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua
polemica contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra,
dopo il 270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di
Celso, ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà,
creatore, che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé
centro e valore nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione .dei
corpi), sia filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni
storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità
del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e
della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le
altre pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri
di spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno),
sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la
possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e
culture'di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero
costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia
universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della
formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel
debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero
nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di
articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti,
concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad
un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non
poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di
salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a 244
proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi
dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un
tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio,
particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla,
Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura
militare capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel
periodo della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio,
Valeriano, Gal- lieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori
illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il,
Aureliano, Claudio :racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il
periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non
fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente)
quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della
città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non
ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra
imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizza- zione e
romanizzazione dei barbari. Il conflitto fu in effetto un con- flitto tra il
vecchio mondo, la vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a
quello stesso mondo che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di
civiltà diverse, di religioni e culture diverse, ten- deva ora (la
provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la Consti- tutio Antoniniana,
212-213, di Caracalla -, con la conseguente esau· torazione dell'Italia e del
Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a prezzo di un imbarbarimento,
com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e in sé risolvendo gli aspetti
piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il conflitto tra momenti in cui
si è voluto restaurare la "roma- nità" (sempre allorché vi sia stato
un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore non era italico, e Senato, o
l'imperatore sia stato senato- dale o dell'aristocrazia romana)t e momenti in
cui (allorché gli impe- ratori, soprattutto gli imperatori scaturiti
dall'esercito, o "barbari," abbiano teso ad eliminare il Senato dal
giuoco politico-militare) si è voluto determinare la possibilità di un impero
universale. Per tale impero universale, dal punto di vista legale, valeva pur
sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto natura~e (cfr. sopra), come
si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in conflitto con il
potere assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro,
Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'impe- ratore doveva essere
l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé tutti i possibili
aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso, che se piu dure
furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio: 251-252; Valeriano: 253-260),
allorché ebbe il sopravvento la politica 245 di alleanza tréll
imperatore e Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni
contro i Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire,
interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di
un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter riassorbire il
Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre religioni
(teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono
perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le
tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle
soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto
perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e
dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia
mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni
avvenute sotto Aureliano, 270-275, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305).
D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso
imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra
Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul
piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali
periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in
seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto
Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera
natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una
discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una
rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori
dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o irrazionalistico-teurgiche
neoplatoniche, e di platonici alla soluzione volontaristico-personalistica del
Cristianesimo. Un Origene, ad esempio, vissuto a cavallo tra il n e il m
secolo, discepolo, in Alessandria, di Clemente, suo prosecu- tore nella scuola
catechetica di Alessandria, maestro poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare,
ad un tempo, le lezioni di Ammonio Sacca, discutere il platonismo, interpretare
quel platonismo al lume della tesi cristiana; mentre un Longino, filologo,
rètore, platonico, poteva da Atene recarsi, insieme al vescovo Paolo di
Samosata, presso la corte della regina Zenobia di Palmira, vedova di Odenato,
che, al tempo dell'imperatore Gallieno, aveva costituito un principato al
confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava di organizzare entro i termini di
una cultura che rispondesse alle piu vive esigenze (e non solo il vescovo
Paolo, ma anche Longino caddero vittime della restaurazione romana in Palmira,
riconquistata. da Aureliano). E non a caso Porfirio, ricor- dando il suo giovanile
incontro con Origene, poteva sostenere che, se diversi erano i punti di
partenza, le soluzioni relative alle condizioni che permettono di pensare la
realtà, e, perciò anche, le conclusioni, in 246 realtà tutti,
nelle scuole di Siria e d'Egitto - fossero essi cnst1ani, o platonici, o
gnostici - erano mossi dalle stesse esigenze, discutevano e leggevano gli
stessi testi: "Origene viveva leggendo Platone; le opere di Numenio,
Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri
gli erano familiari; egli si serviva anche dei libri dello stoico Cheremone
[attraverso cui lo stesso Porfirio aveva appreso i misteri egizianiJe di
Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a questa interpretazione allegorica dei
misteri dei Greci, di cui applicò il metodo alle Scritture degli Ebrei"
(in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7). Di qui, anche, in seno alle comunità
delle varie province, un rompersi dell'unità delle varie chiese, il contrasto
con la Chiesa ufficiale, gli scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo,
il cattolicesimo della Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione,
l'unica via alla salvezza dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il
contrasto con lo Stato, il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa
(ad esempio Cipriano2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della
cultura classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova
"concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la
fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e
gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a
lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che
rispon- 2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210
circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò
retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete
Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, nel 249. alla
morte del vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio
della persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei
pressi della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette
affrontare la questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a
risol- vere; nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del
battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a
causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato
nel 258, Cipriano si presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere
cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a - morte per
decapitazione. "Lapsi" furono detti quei Cristiani che per sfuggire
alla perse- cuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se fossero
cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di
attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione,
molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave
controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propu-
gnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in
nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza.
Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il
battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi
fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256. . La maggiore
opera di Cipriano, composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei
lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano
inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl
virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore;
De mortalitate; Ad Demetrianum; .4d Fortu- natum de exhortatione martyrii; De
opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono patientiae. Importante per
la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere
scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui). 247 desse il
Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di
non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio che non
l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni
di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica, di fatto,
ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter risolvere
quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante la tesi
stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano),
ma attraverso la con- cezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero,
ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri
conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa
strut- tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne
essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni,
ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della
cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni
separati, sempli- cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu
complesso qua- dro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con
l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice
Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto
restaurare una città della Cam- pania, andata in rovina, in cui, datole il nome
di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli,
osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo
progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al
filosofo, se taluni corti- giani, per invidia, avversione o altro indegno motivo,
non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo breve
testo porfi- riano; si è parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di
una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla docu-
menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto,
di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino
avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e l'integerrima
vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma
Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi
platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita
platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso
platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è
concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una
synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della
rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro
significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso
problema dell'atteggiamento di Plotino verso la poli- 248 ca. In
dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe,"
l, 1922, pp. 7 sgg.), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig
fahre rom.-german. Kommission, Berlino, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato
che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita politica che sono in
insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono,
invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato
in senso perfetta- mente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene
al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da
quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc
(teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena,
"Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa
bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo;
protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è
suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della
virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per
cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori
(È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77). Platonopoli, in realtà, resta un
ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con
Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche."
Per le virtu civili e politiche resta que- st'altro mondo, il mondo, appunto,
dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire
base, fondamento a quella supe- riore unità, alla città dei filosofi. Sotto
quest'aspetto sembra esatta, rela- tivamente a Plotino e a Porfirio,
l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte
dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come
Porfirio e Plotino...; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia], come
Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed.,
123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente
preoccupato dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave
plo- tiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio
Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio,
o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli
preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome
da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio,
Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco
stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti
rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima
della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove,
probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si
249 retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere
stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246,
rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella
scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente,
rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola,
egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole
e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in
cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla
perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli
con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio
compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio,
Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le
differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due
riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono
al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza
di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a
memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3,
17, 18), a interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il
problema dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli
cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda
ipostasi (Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi:
l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di
sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto,
contemplando l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso
(-tòv.opwv-tot, tòn horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno,
ipostasi del tutto, in una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio,
Amelio chiariva il significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che
non è né uno né due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi,
internamente all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della
sua dimora romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si
trattenne fino al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto,
ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to
mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità
di cui dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di
Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte.
Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in·cento libri circa,
dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea"
(Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino
(perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera
Sulla differenza delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per difendere Platino
dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è
perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e
quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio,
di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep.
ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32
sgg.). 250 plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di
triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo
tutte le strut- .ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi,
intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette
divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far
corri- spondere le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Oura-
nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come
l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia orfica,
un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta
l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al
di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e tispecchianti·quegli dèi che
sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere
vivente, articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade
in triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una
divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima
universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente
l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come
avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Gio- vanni Evangelista]
occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso stesso, per il
quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato ogni essere
vivente :e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo, rivestirsi di
carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la grandezza della
sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riac- quista tutti i
caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi al corpo, alla
carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang., Xl, 19). Amelio,
dal 270, si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu
consono alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino.
Quando Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva
diciannove anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a
Calcide, in Celesiria, Giamblico fu, dopo il 270, a Roma, alla Scuola di
Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te
stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima). Giamblico, forse,
conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza. Tornato in Siria,
Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad
Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di
Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che, divulgatore di
Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che hanno fortuna o
sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da Costantino (nel
336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle Categorie di
Aristotele): 251 Giamblico abbia incontrato Amelio, al quale, per
altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per ·.un qualche
tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al
"conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu animae)
sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua molti- plicazione
degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap- piamo che Giamblico,
tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò ad Apamea,
ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola neoplatonica
siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per Giamblico, come per
Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce, dall'Vno, di
triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che dialettizza l'uno
e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,- veniamo cosi ad
avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti nell'unico circolo che
li raccoglie in una sola unità, in un solo centro, l'Uno, per ciò stesso
ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi. L'Uno, dunque,
assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si costituisce ed è in
quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità, emergente dall'In-
telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee in atto, mol-
teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà, comprese, sono a
Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio di Mindo
(alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso (morto nel
372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle
Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco
piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di
lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23
pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi anni del V secolo). Scolarca
della scuola neoplatonica di Cappadocia fu Eustazio, discepolo di Giamblico.
Altro noto discepolo di Giamblico, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio
c che ebbe, poi, notevole influenza sulla formazione delle scuole ncoplatoniche
di Alessandria e di Atene nel V-VI secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da
Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su testimoniaaza di
Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato
testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict).
Di Giamblico si sono conservate le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I
libro di un'opera intitolata Sillogc delle dottrine pitagorichc); Protrcttko
alla filosofia (è il II libro della Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico
Giamblico riporta un lungo passo di un autore ignoto, forse un sofista scettico
del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La
comune scienza matematica (attribuito a Giam- blico, avrebbe costituito il III
libro della Sillogc); Introduzione all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a
Giamblioo, avrebbe costituito il IV libro della Sillogc); Thcologumcna arith-
mctièac (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il VII libro della Sillogc)
(perduti sono i libri V, VI, VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum
(si discute se sia di Giam- blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe
inoltre scritto (di queste opere sono giunti solo frammenti e notizie):
Commento agli Oracoli Caldaici (framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di
Giuliano e degli Dèi di Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima
(framm. in Stobeo); Dc imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac
(framm.); Commento aii'Aicibiadc I di Platone. 252 molteplici
nell'unità dell'Uno intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza,
Intelletto). I tre fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo
stesso Intelletto nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;,
k6smos noetòs), le intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs),
idee rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione
dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade
intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente
intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del
tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile
(x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale
(x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo,
che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi),
costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e
molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro
l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto
in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto
come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua
somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono,
termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui
terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una
terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine
(unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette
termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via;
invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del
sensibile e della natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi,
e di qui negli altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino
alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico
moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici
dèi zodia- cali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi,
a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi),
gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità
sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e
concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni,
le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur
discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano
a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si
risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un
valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui
si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male 253 (donde
i dèmoni malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limita- zione
dell'aniii1a, che, con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo
la catena, per cui quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu
si allontana dal proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu
alla propria potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un
universo vivente, ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro,
l'uno scaturisce dal- l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti
esistenti tutti nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone
è, appunto, il rima- nere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere
nella piu vera vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo
aspetto sembra chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della
eterna armonia, Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione
pitagorica, possa sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le
cose non sono (ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee
invisibili indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una
interpretazione del Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica
ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del
luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i
limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve
collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria
unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto,
atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi
momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per
cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come
ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il
tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e
misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un infinito unico specchio,
ciascun punto dello specchio rispecchia da punti prospettici diversi se stesso,
e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma la visione complessiva di
tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono
come visioni deformi di se stesse, specchianti il proprio specchio, nel-
l'unità dello specchio. In un tutto articolato, e rispecchiante se stesso
all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non
è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani rispecchiano depo-
tenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle potenze, per cosi dire,
invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,.
nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze
del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé
discorre, rispecchiandosi in ciascun numero, 254 in ciascun dio,
dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e
cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetti- camente, ma che
nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora,
si può, traducendo il tutto in termini matema- tici e geometrici, ricostruire
da un lato mediante linee e figure, dal- l'altro lato mediante proporzioni i
necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto
questo aspetto, magia e astro- logia, se condotte su di un piano
matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei possibili
errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione delle
proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi costituente
l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la molteplicità
della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia, il segno
divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa dispersa.
Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via, entro
l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un conseguente
rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità della materia,
il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo quella dispersione,
rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può
avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità, rintracciando
l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una sistemazione che,
tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che articolano il tutto
nell'Uno, rimane sem- pre un sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato;
dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità
vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si ottiene per altra via,
che non è quella logico-matematica, che, se coglie il sistema esteriormente,
non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità divina. Per questa
seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima rifà proprie le
potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle cose,
riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una potenza
superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e con esso
diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onni- potente. Sotto questo
aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due piani
integrantisi: il piano della ricerca geometrico- aritmetica che coglie la
struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione
protrettica e necessaria per avviare ad oltre- passare il sistema, a rifare
propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo
segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa
superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della
"filosofia," intesa appunto 255 come scienza che coglie
il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione del tutto vivente, di
tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il rapporto
magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad essere
l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come rintraccio del
discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu vera
"filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il
pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma
attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che congiunge
i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi contemplativi
il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno cosf:
l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti
ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e
grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi...
Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli
(auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro
propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di
Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di
costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri
nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se
stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze
disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile,
onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal
proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il
quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le
preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono
atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç,
empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si
lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando
in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al
proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia
salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima,
infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e
opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un
uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in
cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa
ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle
passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire
che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie
di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e
impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della
generazione siamo nati passivi, esseri 256 puri ed immobili (De
myst., I, :12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp.
173-4). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL
(J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro
presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura
dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente
attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose
trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e
impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma
impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale,
proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11).
Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere
celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra
dimora mor- tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è
abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri
dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio,
il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri
togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato
che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non
basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi,
uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un
corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi
fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi,
impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo
artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza,
riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria
efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del
modello (in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles,
1928, p. 139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.;
anche Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e
Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico, la sua
interpretazione degli Oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato
da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla filosofia'Come
mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano,
quella "conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di
Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con
cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si
giunge attraverso una prima siste- 257 mazione dei rapporti
mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una
traduzione del tutto in termini geometrici e nume- rici, in un cogliere la numerabilità
dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo·
·sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da introduzione
alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica,
attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero
della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad
Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni
mathe- matica scientia, In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theolo-
gumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e
che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno
costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del
tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda che si sia puntato di
piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e operativo
(Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come "coscienza"
(Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a soluzioni diverse sia sul
piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente al rapporto
Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella "visione," sul
piano dell'interpretazione .di certi testi di Platone, considerato in fun- zione
di questa o di quella interpretazione del platonismo. Troppo scarsi sono i
frammenti che possediamo delle opere degli immediati discepoli di Giamblico e
dei seguaci di questi ultimi per potere determinare correnti precise, precise
delineazioni di quelli che furono i "neoplatonismi" tra Giamblico
("neoplatonismo" siriaco, proseguitosi, "dopo Giamblico, con
Sopatro di· Apamea e Dexippo; di Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo
di Giamblico; di Cap- padocia, con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi
nella scuola di Atene con Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e
Dom- nino, culminato con Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales-
sandria con Ierocle di Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v
sec.), autore di una serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum),
la maggior fonte per le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per
l'aspetto magico-teurgico di origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i
primi discepoli di Giamblico e di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il
preponderante motivo della teurgia, divenuto in alcuni vera e propria
ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio, for- matosi nell'ambiente
neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace di Giamblico, apri una
scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di Mindo - vissuto nel IV
secolo e del quale sappiamo che fu 258 discepolo di Edesio in
Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da
"squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno
dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi
consiglia il futuro imperatore Giu- .liano - da quel "teatrale
taumaturgo,n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474
sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a
Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita
ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit.
soph.). Giu- liano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a
Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di
procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido
di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo
[cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia : gli altri, in
confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro,
che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di
contro al prevalere della Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di
opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che
salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio
supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere
teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione
cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di
avere cospirato nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente
Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della
teurgia e della demo- nologia, approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo
studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le
divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare nelle cose
e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza di
convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli
"spiriti,n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di
Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che
poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo).
Demonologo e teurgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia,
che, dopo avere ascoltato ad Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri
una scuola (egli fu invi- tato da Giuliano imperatore alla propria corte:
Epist., 76). Continua- tore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui
poco o nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse
un'opera Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il
merito, e che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi 259
fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro
dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giam- blico fu
Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Por- lirio. Del
"grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu
soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo,
Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim- piodoro in Phaedon;
secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di
Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al lume della
ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per
via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu diverse
esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la
discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a
Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento
dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che
ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al
Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre
persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si
confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per
la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento
alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in
cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle
categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le
categorie hanno un valore formale e servono per intro- dursi a cogliere la
dialetticità dell'Essere in senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino.
Seguito o combattuto, inter- pretato sotto un certo angolo visuale (la
questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto
altro aspetto (particolar- mente quello della grazia e della redenzione),
condannato per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche"
(l'apocatastasi, la subordina- zione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o
la esasperata interpreta- zione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la
sua autorità in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica,
certo è che l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruo-
tando le ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione
cristiana. Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel
campo classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di
avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie,
le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature
concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva
precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e
una concezione irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo
aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro nel 255, in seguito alle torture
sofferte durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro-
blematica, le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che
rintracciamo in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui,
ma non certo del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la
permanenza di Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini
di Plotino. E qui pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio
Cecilio Firmiano, soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa
opera di Arnobio/1 nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa
proconsolare) tra il 255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per
lunghi anni. Oratore famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco
stupl gli ambienti cristiani d'Africa la sua improvvisa con- 272 a
Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu-
lentissimi libri adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha
un notevole significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso
andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico,
ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e
professore di retorica a Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua
·dichiarata avversione nei confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il
racconto di San Gerolamo (De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato
alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo
illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un
aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua
opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le
religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di
essere preparatissimo, ignorando, in- vece, le Sacre Scritture, è che la
"conversione" non è frutto di insegna- mento, non è dimostrazione di
una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito,
miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il
vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in
dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a
respingere con vio- lenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche
concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando
anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica
e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana -
quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contradditto-
rietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia
concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il
significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo,
"questa cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e
piange la sua condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non
per diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche
l'uomo non ci fosse, il mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini
in che cosa giovano al mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono
qualche parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero
stati aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel
295-296 circa, a causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza,
temendo una finzione, resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle
prime ammetterlo tra i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua
sincerità, scrisse i sette libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi
anni del JV secolo, che prende le moS>e dalla critica a un recente libro del
neoplatonico Cornelio Labeone, sostenitore dell'antica religione. Secondo San
Gerolamo, Arnobio sarebbe morto nel 327. 273 imperfetto? E che,
.forse se non ci fossero gli uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le
stelle non compirc;bbero il loro corso, non vi sareb- bero piu estati e
inverni, cesserebbero i soffi dei venti, né dalle nubi conden- sate e
sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare refrigerio alle aridità? (Il,
37). Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo· mia
dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a violenze
e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non solo è empio rite- nere che l'uomo
sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti ammet- tono essere il fondamento
dell'ordine e della perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è
statQ creato da divinità infe- riori, impotenti), e illusione è credere con
Platone che l'anima umana sia dello stesso genere della divinità, onde neppure
si può dire che immortale per natura sia l'anima, per cui non è dato certo
all'uomo ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino
("reminiscen- za"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della
realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse
un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità
in Dio, l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche
(Platone, Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza
dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite,
male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco
dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non
ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica
dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione,
corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò
sensazione ed ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle
sensazioni (II, 20), per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie
costruzioni, rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a
parte, un mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe-
ranza. Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza
senso, mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni
epicuree; illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni;
ben disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni,
la situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata
superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di
dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi
siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non
siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi,
respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti in sessi, come gli animali
veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il
superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II,
16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero
presunto di possedere una natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla
superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio,
solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule
geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo
senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e
c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio
sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita,
proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale,
almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è
razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in
si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione
non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di
quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla,
limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza .della
sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il
significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio
- Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rive- lazione, da parte
sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma
anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere
uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo
è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e
orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è bruttura
e malattia, ritorne- :anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato dalla
grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad esempio, al
De :ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano ·icalcate da
Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede :ristiana. Ecco
perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu
profonda ragione del passaggio di molti al :ristianesimo, in cui si salva
l'uomo; "la novità ch'esso portava con ;é era la liberazione della
personalità," è stato detto, "incatenata :lalla religione e dalla
morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per- :leva l'uomo": cfr.
Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener
presente la rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana.
L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è
frutto di un atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che
chiude l'uomo a qual- >iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male
e limite, insignifi- 275 cante, inutile, scheggia e rottura del
perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo,
natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere contro
la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa contro
natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò extraumano,
divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza
del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a salvare
l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini sembra
chiaro in che consista il senso da un lato del pessi- mismo di Arnobio,
l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la con- cezione greco-romana,
dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal- catura teologico-cristiana,
della sua conversione al Cristianesimo, .che offriva la salvazione dell'uomo
non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale.
Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr.
San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe
Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché
nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità
sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia
saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio
sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della
Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua
esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente
degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da
Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che
piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue
conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del
Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio
Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia, . presso Sirta, o
Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio,
divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da
Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel
302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio
abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in
tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione. Nel 303-304
Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311
compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono
compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne
precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320
(ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione,
composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus
persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito
(si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice). 276
è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di
volersi mor- tale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo
tentativo di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il
manuale della concezione cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua
maggiore va sotto il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce
è la sistemazione in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto,
che separati, in fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani
nel corso del II e del m secolo, e dove il signifi- cato e la funzione
dell'uomo vengono veduti in rapporto all'economia dell'universo e di Dio,
interpretando la soluzione neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della
conversione di Lattanzio sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche
di Arnobio. Le ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di
Platone, quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento
e criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non
hanno alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non
sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile"
ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di
una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon-
damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera
religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna
sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1).
"La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli-
gione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un
essere supe- riore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla
religione cri- stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli
sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende,
che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2,
secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov-
videnzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in
evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle
politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu
Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha
la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra
di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in
unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre
funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non
può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga
fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie
delle religioni, 277 rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte
possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è
la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine
erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè
l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui
tutto di- pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni
(sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo
stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha
da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla
sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la
caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la
verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una
"pia filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo
chiaramente appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di
loro. La sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed
esige il timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi
questi debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in
sé l'una e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo
amare poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non
può essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla
religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che
appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La
sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio,
in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene
sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in
realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della
sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono
divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere
né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano
gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né
quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica
di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si
rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato
dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e
che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale,
esclama non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche,
ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla
do- manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le
ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in
quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non
sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278
criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima
e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato
da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato
attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre
l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso.
E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua
stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non
può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la
risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi
biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto
di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella
cristiana (il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di
Dio, fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se
vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci,
al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è
l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri
ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli
Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a
sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità,
perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine
medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui
assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di
Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra l'universo,
tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la
spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu
opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida
il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re
dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale
possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui
consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice
Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi
mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può
reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e
padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo,
riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico-
filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la
capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura,
unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro
la natura, per cui l'essere immortale o mor- 279 tale diviene una
scelta), dall'altro lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in
sé Dio, termine ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello
stesso Dio. "Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo
per riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per
rendergli un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in
ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o
l'immortalità, s( che, divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il
padre nostro Signore, e si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il
significato piu profondo del tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del
mondo" (VII, 6). Proposta come unica soluzione alla condiziçme tragica
dell'uomo concreto - disperso e abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle
concezioni greco-romane - la fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che
si salva mediante la rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del
Cristo, può ritornare, lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel
Dio per il quale è stato fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva
sfruttare, sul piano teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti,
Intelletto-intelligibili (L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di
certi testi ermetici e, per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso
certe interpretazioni del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s( Lattanzio
tende a convincere, a persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo
e che solo attraverso di essa si dà un senso e un perché alla vita degli
uomini; senza per altro rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura
greco- romana, che, preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor-
bita nel Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla
rivelazione di Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a
illuminare, a render conto della fede cristiana, rappresentano il momento
filosofico della religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto,
esclama Lattanzio, "non so in che modo ha quasi investigato la verità
tutta" (IV, 9). Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana,
il significato del Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che
"ex se et per se ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé,
anche la materia, mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di
Dio, anche quella dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di
anima e corpo, e che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può,
attraverso il L6gos, incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst.
div., I, 6; IV, 6; Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo
ermetico e dagli Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e
pp. 258 sgg.). E cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e
Dio Figlio, forte si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo."
Uno Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché
l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità
vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da
sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e
che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la
luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci
può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio,
sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre
e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno
dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre;
né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere
generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il
padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è
come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è
come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è
fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il
raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del
sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di
Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in
una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del
Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni
significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui
il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come
redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante
cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo
essere virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue
Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera
religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo
come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a
questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun
altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1,
l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a
modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in
quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio
punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello
teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per
cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede
insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno
nell'unità morale dei Cristiani il regno di 281 Dio, in un diritto
naturale che si trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà
al Signore supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da
un lato che Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli
uomini del suo tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il
fondamento stesso dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai
depositati nella concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la
definizione data dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano."
Come Cicerone aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica,
discutendo le varie ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde
l'importanza data alle tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone
sarebbe ser- vita a dare un fondamento alla res-publica, in .un rapporto umano
fon- dato su di un diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si
ordina il tutto, cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non
tantum perfectus orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover
porre le proprie tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in
un copioso e ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità
rivelata dallo stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la
possibilità di salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città
cristiana, di cui il regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa
terra, è posto come termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta
vien posto come lo stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che
premia e che punisce. Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel
delineare l'unità di Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi
".neoplatoniche," mediante cui piu facile era convincere alla tesi
cristiana dell'uomo creato da D1o a sua sorp.iglianza (già in una sua operetta,
il De opificio Dei, scritta nei primi tempi della sua conversione, durante i
primi anni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di
contro ad Epicuro, ch'egli conosceva attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti
di Cicerone, che la considerazione sia della costituzione ·fisica, anatomica e
fisiologica, sia dell'anima dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto
all'unità, in cui ogni parte è in funzione del tutto, rivela la presenza di un
crea- tore uno, sommamente saggio e provvidente). Mediante ciò era piu facile
convincere alla tesi cristiana dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto,
ritrovando in sé il L6gos di Dio, attraverso il L6gos fattosi uomo può, se
vuole, ritornare ad essere simile a Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu
strettamente morale, di contro alla tesi sia neoplatonica sia epicurea della
divinità indifferente, impassibile, nella sua perfe- zione e necessità, si rifà
alla concezione ebraico-cristiana del Dio per- sona e signore, volontà, di un
Dio cui tutto è possibile, anche l'ira 282 (si confronti in tal
senso il De ira Dei, composto dopo il 313), il quale solo "scire potest et
revelare secreta" (De ira Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date
fondamentali, relative alla vita e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel
260 circa, rètore di fama, allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu
chiamato dall'imperatore a insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi
verso il 302 al Cristianesimo, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei
Cristiani, Lattanzio abbandonò 'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita
privata e, dal 305 circa (anno in cui ancora appare a Nicomedia), sparendo
dalla circolazione. Nel 303-304 Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il
305 e il 311 compose i sette libri delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate,
quando furono compiute, all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo,
Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò
certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori
alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei,
il De mortibus perse- cutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni
della conver- sione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore
tesa a persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del
Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato
come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e
costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica
religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo
responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava
essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto
questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle Institutiones
dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio,
rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e
di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi
romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la
Repubblica di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, -
riprospetta di contro alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e
chiara è la lotta contro Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del
diritto assai simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con
certi stoici del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende
la pole- mica contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia
si fonda sulla legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo
stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno,
attraverso cui, se in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli
compete e si pone al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il
futuro regno di Dio. Solo che il regno di Dio, 283 dopo la caduta,
con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere
dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla
religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta
la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di
cui non vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat
vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim
Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo
sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero,
potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset" :
V, 7). Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la
rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del
pro- prio destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi
abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il
significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio,
finita la persecuzione da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il
Cristianesimo (313), scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito
tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano,
Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e
moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae
fecerant receperunt." Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus
persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il
sen- tirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione,
che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere servi di Dio,
che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere
virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto,
mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e
perciò di essere giusti, a realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a
far sf che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto
posto, si rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio,
nel quale e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu
fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è
che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro,
9]": V, 15) e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio:
"nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti
ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è
povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non
chi è pieno di virtu" : V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e
non incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse
riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in 284
diritto divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi
fondamentali di Cicerone e di certi stoici. " L a giustizia civile,
obbedienza formale alle leggi stabilite nel tempo dalle città terrene," è
stato detto, discutendo della giustizia presso gli stoici, "ha valore
nella misura in cui fa proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di
comunione umana che è proprio della giustizia naturale. Il Cristianesimo, se
accentuò il tema della fraternità (il prossimo che deve essere amato come noi
stessi), non spostò i ter- mini del problema, ed anzi, approfondendo il
distacco tra le due città come conseguenza della colpa, rovesciò di continuo in
radicale diver- genza quella che lo stoicismo e il diritto romano avevano
concepito come convergenza. Lattanzio, nel quinto libro delle Divinae lnstitu-
tiones, dedicato appunto alla giustizia, la presenterà come summa virtus anche
presso i pagani, e andrà dipingendo la città giusta di Saturno come regno di
perfetta uguaglianza... Nella dttà giusta le terre e le messi non erano
cintate... e tutto era in comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli
uomini, la giustizia fuggi dalla terra, e scom- parve l'umana comunione (V, 5)
... Le leggi divennero inique; la giustizia fu termine equivoco che indicò
disuguaglianza e oppres- sione... Dio, è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi
figli, e rinviò la giu- stizia in terra, ma la concesse graziosamente soltanto
a pochi: 'rediit... sed paucis assignata iustitia est' (V, 7). La frattura tra
le due città si presenta come insanabile; lo squilibrio è radicale. S.
Agostino, che pur accoglie certi aspetti della tematka ciceroniana..., si
àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda la civitas corrotta sul
comune godi- mento di un bene... La giustizia è l'ordine, nel suo aspetto
meramente formale, che si realizza anche in una societas sostanzialmente
ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca coordinazione. La
fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo raffigurata in gruppi
ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del mondo, ove poi la divina
giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra la giustizia nel suo
aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale avevano
caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori romani, la
divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò all'idea di.una
giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da un'autorità, di
un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia, "Revue
internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è l'interesse
dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante un vero e
proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si riprendono e si
dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi teologico-filosofici
piu diffusi. che vanno dun- 285 que accolti come preparazione alla
buona novella - le esigenze e la problematica di certe classi di uomini, facendole
emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento ideologico; dall'altro
lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che spinsero Costantino
ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni dell'accostamento di Lattanzio a
Costantino -, rendendosi conto che, oramai, solo in esso avrebbe trovato la
base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano, peréhé fosse possibile -
proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano - salvare l'unità
politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu in monarchia. In
tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e sulla ricchezza e
povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né ricchi né poveri nel
regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu, tra ricchi e poveri,
ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome di Dio, rimanendo
ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in una fratellanza che
-è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una società che ha da essere
specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto scandirsi delle
classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il giusto, il
rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è diversa la
condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto allo spirito
noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li chiamiamo com-
pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione per noi, se ·non
in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro che sono poveri,
sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e non hanno
desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i poveri, i
liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la nostra
virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove Lattanzio - è
dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in proprio -
famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come ciascuno sa
usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi, il riconoscimento
d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e figli, uguali per
la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi rispecchiava
esattamente la situazione propria di molti cristiani e la struttura
economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa ufficiale al
principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato detto in
efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in una
organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che abbracciava
quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava nelle sue file
un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi proprietari terrieri, e
la schiacciante massa di popolazione artigiano-commerciale delle città.
Possedeva un potente apparato direttivo che non aveva nulla da invidiare alla
buro- 286 crazia imperiale. In'queste condizioni riconoscere la
Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era
particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un potere
solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocle-
ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro
questi termini assumono un particolare significato le parole di Costantino (306-337),
riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Con- stantini, 4, 24), ai vescovi con lui
riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla
Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei invece vescovo,
costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul
peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il
Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato
il riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento del
regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che reggono
lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato,
accettato che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato è la
Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da Dio"), è
il reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizza-
zione fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo
dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo avevano
spinto alcuni imperatori ad abbracciare, di con- tro alla "romanità"
dell'Impero, l'"interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il
fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora
Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a
volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per
la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita
la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute,
qualora di quello Stato dive- nisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce
propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed
ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di
Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che
diviene, con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al
corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione elioteistica,
con il motivo della monarchia solare, reinter- pretata e inverata al lume della
verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune
testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di
Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace
l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica,
anche i mo- numenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore
cri- 287 stiano viene presentato come il Sole di Dio, in
raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che
le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una
visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i rapporti tra
Costan- tino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio
invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano, 1960). b) La corrente
origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le "eresie." ~'arianesimo,
la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se lo studio delle "eresie"
e degli "scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come,
per altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta che, divenuta poi
ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la "retta
opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio rende anche
conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur
nascendo dalla problematica sulla vera inter- pretazione del messaggio del
Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno
etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si
ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato,
anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e
l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile con-
nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia
che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero
cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano
trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salva- zione della
propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che
la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto
secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli
elementi abbienti, il consolidamento del- l'apparato ecclesiastico,
l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo erano
inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli
strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il primitivo
spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal
pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero
e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi
'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e 295 rurale, poveri e
semiaffamati... La grande crisi rivoluzionaria del m se- colo non potrà non rispecchiarsi
anche nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi dei contrasti sociali,
manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò
anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla
aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni.
In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai
circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse
rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni,
plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città.
In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari
gruppi della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo
già veduto come fin dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si
determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle
tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli
giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici
nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi
"eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e
divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto
sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla
propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e
tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità.
Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula
fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco
or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della
regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa" : in De
praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei"
non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo
conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio,
sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione
del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro
essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali
(se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e
la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S.
Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti
dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e,
dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il
monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile
quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come
la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente
far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo"
(Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296 sente che
di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale
deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione
diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento
che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo
della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi,
per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò
tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo
sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire
sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui
pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano
che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento
della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per
le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di
contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità
della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in
personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene
nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del
Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente
opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni
dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al
tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano
ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al donatismo.
Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il montanismo,
particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome di donatismo
dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran- sigenti, finché di
contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato (non a caso alla
Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti rivoluzionari degli
schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo il fondamento
ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi, contro
l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli " agonisti,"
i combattenti per la vera fede : cosi essi pro- clamarono se medesimi, mentre
"circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla parte avversa).
Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano fiorito tra il 250
e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni personali, per la
delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il novazianismo, del
resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo morale del donatismo).
Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo, sia perché fu la prima
eresia condannata con l'appoggio del potere politico (Concilio di Nicea, 325),
in una 297 precisazione da parte della Chiesa ufficiale della
propria "regula fidei," che assume cosi un valore giuridico, sia
....- proprio in conseguenza di ciò - per la storia della formazione della
"verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori precisazioni
filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che ebbe. Nato,
sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad Antiochia sotto
il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione di una Chiesa di
Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua interpretazione sulla
natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente ispirato dagli
insegnamenti che sulla vecchia que- stione della natura una di Dio e del suo
rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da Luciano,
fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire nel 311, e dall'influsso
che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le idee di Paolo di
Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato per eresia tre volte ed
infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete Malchione. Ario,
con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e definisce la grossa
questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei "monarchisti,
" " unitaristi," " docetisti," "
sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e dei
neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e posto
che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di
"sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a
tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo
(L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in
cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo
avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere
la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul
rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal
vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono
Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima
in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico.
Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato nell'Illirico.
Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi, in nome
dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli improvvisamente
mor( nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia
(E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se
ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6,
9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una
ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad
Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr.
Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della
Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia ecclesiastica,
in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e Sozomeno
(altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in Costantinopoli,
autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al 433, compiuta
nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano la professione
di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate, Hist ecci., I,
26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298 L6gos dice Dominus creavit
me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un tempo uno e
trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa sostanza di
Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in eterno
implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana di piu
dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile e
ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç
=àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e
senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere
ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si
risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini,
ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due,
sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza
solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona
e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che
Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma
volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che
Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso,
mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà,
ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo
davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da
lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il
L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde
nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio
trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla
lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si
formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria,
all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in
quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De
synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli,
generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in
Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo
stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e
&.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio,
il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per
decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire
ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre,
in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua
perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo,
indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf
come tutte le creature, buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse,
potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha
voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo
assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato
come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da
Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è
provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo
Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò
altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa
direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli,
avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio
e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione
delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco
si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la
immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria,
Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario
si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella
città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che
con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del
suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa.
Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa,
già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non
cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro
vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica
contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325).
Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la
sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino
cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a
Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo,
nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo,
istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio
nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una volta
da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di Giuliano
(362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati esiliati, per
questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la foga di
Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una volta.
Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio
poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui,
per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da
Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse
tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano
Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~
= enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu
importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono
quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di
Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro
gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate.
Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate
et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'in- 300 cono
di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve- scovo di
Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della
consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo
niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi
conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella
ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti
dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti
pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella
salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che
nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa, veniva
ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus- sione
esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa
problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica
tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità
della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché
si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò,
forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di
Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli
ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri
(335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie,
portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della
zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente
ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai
sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno
dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i
Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove
fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere
in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino,
Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento
Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della
Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea,
mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di
carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de.
Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche:
Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del
357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l
sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re
piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom·
pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir.
ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i
edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita
l'autenticità). Molte le lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad
Alessandria, ma che, su decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove
l'arianesimo si era non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare
in esilio, poté, col favore del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare
in Alessandria nel 346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un
complotto organiz- zato dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono
imperatore Ma- gnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano,
nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne
ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto impera- tore il generale
Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era
andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi
con Vetranione, il quale rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase
unico imperatore. Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi
alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria,
tanto che in un con- cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare
Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di
Costanzo, avvenuta nel 362, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di
nuovo ad abbandonare Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed
unico imperatore Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa
cristiana e contro, particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa,
Atanasio tornò ad Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al
365, quando venne anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che,
tuttavi·a, ben presto - resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu
forte era quella di Roma - lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino
alla morte, avvenuta nel 373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a
Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino, stava per riconciliarsi
solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era
stato esi- liato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio
disce- polo di Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva rac-
colto una serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser-
vire a provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37;
Or. III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio
capo politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit.,
p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato
durante il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo
assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato
da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza
dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena. Entro
i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre cor- renti. La prima
è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile
(ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci -
, ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia
e quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica
aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel
350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una
serrata dimostra- zione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui
il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio
perciò non si può porre che come una creatura inferiore, anche se la piu
perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non
può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi
ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs., 76,
11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di
Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal poo che è rimasto di lui,
morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore
dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi
di Costantinopoli (360- 369) e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La
seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo.
la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so- stanza
(otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e
quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo
dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe
memorie teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22),
seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu
particolarmente un asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro
di Basilio il grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel
376, anche egli, sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca,
passibile di essere accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo
cui, senza approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il
Verbo è simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu
sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato
all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai
vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ul-
timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace
della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da
parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei
difensori della consustanzialità c 303 della divinità del L6gos ad
un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed
acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della
tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio
di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona),
dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura
del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al
pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398),
assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui
ad Ales- sandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon-
tico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di
Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre
"padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad
Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, soste- nitore
dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la
discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne
condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo
fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il limite,
il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a Dio e al
L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da un lato,
ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona, dall'altro
lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla natura
umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la formulazione
dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson (cit., pp.
59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero cri- stiano
dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di
Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore delle
cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un sol nostro
Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla
sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx
0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto (yevv'rj6~not
où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion) del Padre
(consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate, quelle che
sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per la nostra
salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il terzo
giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E crediamo
nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu in cui
egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o
è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato
(x-tLa't6v ), o mutevole, 304 o sottomesso al cangiamento, tutti
costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li anatemizza. d) Dalla
religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristiane- simo religione di
Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito.
Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte di
Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu
riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/0 nato nel 331,
figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l. Il padre e i fratelli di
Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari
perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a
Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore,
per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare
per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono
in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu
costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad
ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e
degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo
fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed affidato ad Eusebio
vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana
e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio
(342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove
ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da
Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi
autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio,
in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci.
:t: facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse
in tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e
proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano
(Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26
luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di
Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII:
particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla
Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli
antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII
Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt:
(furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo
Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno
358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV'
e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte
nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon;
numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di opere perdute particolarmente
interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un
sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le
Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma. 305
Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana-
tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal-
l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di
questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede
all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe
annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro
posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale
sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da
Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la
guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli
dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano
tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano,
entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore
Libanio (di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le
lezioni, passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra-
verso Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro
che lo avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo,
della religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo
di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si
approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e
teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica
di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr.
sopra). Morto Gallo, nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo-
mento dapprima di dovere affrontare la vita pratica, militare, politica
("non è affar mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una
vacca"), si dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati
gli Ale- manni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si
adoperava a sanare contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di
un'unica intesa nella coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in
discussione dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo
nel 359, preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di
Persia ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti.
Giuliano, intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che
non avrebbe mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò
una rivolta contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a
Costanzo di riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso
l'Illiria. Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio,
nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È
sembrato opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e 306
della prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno,
l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde
ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua
esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo
stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di
Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo
come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico,
Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale
razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della
tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto
piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni
sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione
degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina
(di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato dato
da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in par-
ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul
significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro
questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti
della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il
sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che
dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea
dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche
l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le
cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa causa
uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di
perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La
prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in
senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo
intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui
primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli
dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile,
le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal
Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi-
bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile
e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi
dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è
una forma di questa per cosf dire materia, che .è sostrato e segue l'estensione
dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in
certo qual modo il vertice e come il fiore. 307 E appunto secondo
l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo
splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva
del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità,
preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E
non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno
d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr.
Timeo, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità
che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella
che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta
natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede
tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi
intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina
verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria
orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due
sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo
intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A
Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai
molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da
qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa
che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in
sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo
io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un
corpo costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli
uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale
può, con le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui l'appello
di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e dovere,
in. una ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma
con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello
del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del
tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i
cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come
purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima,
riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il
significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia),
alla patria celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano negare
il Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in quanto
religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le altre,
nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i
frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di
Celso e di Porfirio con molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il
Nuovo Testa- mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le
contrad- dizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se
assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia-
lità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane-
simo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in
unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi
culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di
contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei
confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non
condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di
Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i
Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come
facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i
termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni,
nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana -
di un vero clero professionale e di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di
allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure
prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro
che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu,
in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari
i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i
templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a
comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette
da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il
loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era
un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto
ciò apparve da parte cristiana una persecu- zione, mentre molti che in
precedenza erano stati danneggiati dai cri- stiani, sentendosi appoggiati
dall'Imperatore, si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non
pochi cristiani (ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà,
l'intento di Giuliano non fu un mero ritorno al pas- sato, come troppo
superficialmente è stato detto, giudicando solo dal punto di vista della
reazione cristiana, non fu un'accademica restaura- zione di culti e religioni
morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se in termini eccessivamente
scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda, com- prensiva di una
situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica- zione di ideologie,
fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di Stato, entro cui
potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri- spondenti tutti ad
un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei 309 suoi
amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i termini
della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente traducibile
nei termini della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta lettura delle
opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare
una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il
Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento
dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so
entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per cui non poche
volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi
nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro
conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò
particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle
tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio. E
cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano intesi
come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi come
miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi e
miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso
Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul
mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza
discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione
neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici e ipercosmicz) sono considerati
come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico
Dio, causa delle cause, super- essenziale, potenza assoluta, entro cui si
scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è
decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il
"male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve
trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico
sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un
tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di
argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a
Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Im-
pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono
due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle
Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei
due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per
il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione
manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À =
~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle
Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones latinae selectee”, I, Berlino, p.
276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni presso
Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il Sallustio
autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio ch'ebbe molti
piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato alle opere
filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli dèi e del
mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G. Rochefort, ln-
troduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi et traduit par
G. R., "Les Belles Lettres," Parigi)] si come la materia, non ha
alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in- comprensione umana, all'ignoranza,
all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non esiste alcun male
positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo mancanza di luce":
Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il significato anche
politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo libro di Sallustio,
che il Murray ha definito una "sorta di credo ragionato, per fissare in
modo convin- cente le linee generali della... religione ellenica,"
rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek Religion, New York, 1955, e
a G. Roche- fort, lntroduction à Saloustios, Des dieux et du monde, texte
établi et traduit par G.R., Parigi) Il tentativo di Giuliano non rimase un mero
episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in battaglia, nel 363, nella guerra
contro i Persiani, con la nomina a imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano,
crollò subito l'edificio da lui creato di un sacerdozio professionale del- l'unica
religione di Stato. Sia pure in termini rovesciati, cioè nel soprav- vento
della religione cristiana, si giunse, necessariamente, alla procla- mazione
dell'unica religione dell'Impero (sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la
morte di Giuliano). In realtà, la stessa concezione reli- giosa di Giuliano, la
sua comprensione della necessità politica di una religione universale, che egli
vedeva compromessa dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di
quel che possa apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione
politico-sociale cui, almeno in Occidente, rispondeva la forza interna -
morale, organizzativa, economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota
decadenza politico-militare implicò una sempre piu drammatica tragedia
economica. Basti ricordare che proprio in questo tempo si venne formando un
sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi,
i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero
solo funzionari e militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio
fiscale per venire incontro alle spese militari, per evitare che le popo-
lazioni non pagassero le imposte, si venne via via costringendo cia- scuno a
non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne
estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le
poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi
proprietari terrieri, che vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello
Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già
feudale, il potere dello Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di
ciascun singolo proprietario. Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se
possibile, raccogliersi sotto la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo
mi- gliore per evitare lo Stato, che, in effetto, non esisteva piu. E intanto -
scrive Salviano nel v secolo - i poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e
oppressi erano giunti a un punto di disperazione tale che molti, pur
appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto una buona educazione, erano
costretti a cercare rifugio presso i nemici del popolo romano per non rimanere
vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si recavano presso i barbari in cerca
dell'umanità romana, poiché non potevano sopportare presso i Romani l'inumanità
barbara. Sebbene essi fossero estranei, per costumi, per lingua, ai barbari
presso i quali fuggivano, sebbene fossero colpiti dal loro basso livello di
vita, nonostante tutto risultava loro piu facile abituarsi ai costumi barbari
che sopportare la ingiusta crudeltà dei Romani. Essi si mette- vano al servizio
dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in Gallia, particolarmente contadini e
schiavi, avevano costituito un forte e autonomo movimento anti-romano: in
celtico “bagaudi” significa "combattenti," "lottatori"], e
non se ne pentivano, preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi,
piuttosto che essere schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De
gubernatione Dei, V). Chi non poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i
grandi proprie- tari terrieri. Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a
sé la sempre piu sentita esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa,
almeno in Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per
essere divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica
possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero),
dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi al
potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine, Teodosio
I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione dell'Impero
doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai
Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero
perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano
distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con
l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento
prevalere dei barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente sembra
la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero
cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la
morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno
alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un
conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per
il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni,
piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico
africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista,
sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro
contro i catto- 312 !ici, secondo cui la religione cristiana nulla
deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente
personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva
divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona-
tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta,
conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro
questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo
particolare significato il rifarsi o meno alla concezione
neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa
koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee
essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti,
il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo
"neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di
Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil-
logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica
del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di
Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua
latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la
circolazione di :lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E
qui va :nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8
Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, muore a Roma
lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica
prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una
statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al
Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni
di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai
Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui
restano: “Ars grammatical”; Commento al "De inventione" di Cicerone;
De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto maestro
di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo (337-361) in Roma, dove
ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che,
in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino,
Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa e in
parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino
a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno
vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello,
ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche
latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare
significato. Se cosi da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di
cultura, compone un'”Ars grammatical” e commenta il “De inventione” e i “Topici”
di Cicerone, dall'altro lato traduce il “De interpretation” e le “Categorie di
Aristotele”, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di
logica, il “De definitionibus” e il “De syllogismis hypotheticis”, mentre
traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere
piu grammatico-formali della logica aristotelica, rivelano molto chiaramente
che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri
dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le definizioni, sulle
quali si basa l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace,
mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al
metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dall'altro lato, al sillogismo
ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme
grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e al “De interpretation”
di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a
cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto
questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente necessarie,
costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi,
sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della
realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra
che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus;
la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre
trattati contro gli ariani (Contro Ario, del 358; Della generazione del Verbo
divino, del 358; De homoousio recipiendo, del 360); tre inni sulla Trinità (del
360); tre commenti alle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai
Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate le seguenti opere: il Commento ai
Topici di Cicerone, la traduzione delle Categorie e del De interpretatione di
Aristotele, la versione dell'Isagoge di Porfirio (ricostruibile attraverso la
discussione che ne fece BOEZIO), la versione di parte almeno delle Enneadi di
Plotino, il De syllogismis hypotheticis] del Cristianesimo dal piano logico al
piano della FONDAZIONE DEL DISCORSO su di un atto volontario e irrazionale.
Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da Vittorino, testimonia
Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare la contraddittorietà
della tesi ebraico-cristiana e per altro verso l'incontro, in Roma, con i libri
dei neo-platonici (sembra che Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone
e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino),
lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione. La retorica, valida
appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si
taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero, di contatto con il
senso della realtà. Nell'insegnamento neo-platonico si trova che LA CONDIZIONE
STESSA DEL DISCORSO si coglie in una conversione dell'anima su se stessa
rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa del tutto che
trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine, che la possibilità della
conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità del riscatto dal
limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo. Vittorino si fece
cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi anni, in Roma, nel
357 circa (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere
la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si apparta dalla vita pubblica,
dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati,
agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi neo-platoniche
sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi,
logicamente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino:
“Della generazione del Verba divino” (358), in risposta alla Generazione divina
di Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso
Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente
contraddittorio è ammettere che il Verba di lui sia ad un tempo generato e
ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre,
sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria (358); un breve trattatello De
homoousio re- cipiendo (360). La risposta a Candido di Mario Vittorino, si
fonda, rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente,
posta una certa definizione (non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo
ipotetico. Se Dio è l'Essere, la ragion
d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in
quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili
esistenze, anche l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni
esistenza, unità in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante
on, supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super
omne on et pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia
ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto,
neppure che è essere, anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse,
meglio ch'egli è non essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo
essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi
nell'essere, tutto potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua
essenza, la sua crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio,
che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione
ex nihilo. Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo
generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio
(Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est
causa. Deus ergo a semetipso et Deus est" : 18). Come poi il Figlio sia
nel Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto
all'altro, ma uno ("neque solum simul ambo, sed unwn solum et
simplex") non è, dice Vittorino, necessario ricercare. "Sed hoc non
oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp.
124-25). Sembra ora chiaro in che senso l'aspetto formale della retorica e
della logica, la dialettic~ usata in senso ciceroniano e stoico, la
contrapposizione accademica delle ipotesi, utile per tutti, sul piano della
formazione culturale dei futuri dirigenti, potesse ad un tempo servire a
convincere della validità dell'ipotesi cristiana, oltrepas- sando in una
convinzione del fondamento non razionale della ragione, la neutralità sofistica
della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo studio di come
funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e cosi via (e per
ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come certi altri degli
stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di Sant'Agostino, il cui
itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino, dal quale Sant'Agostino
stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del quale conobbe gli
scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la formazione del
curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo in particolare
a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi rapporti col
neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di Proclo, usati
in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere oltre l'es- sere,
non essere che da sé crea se stesso e il tutto (interpretazione neoplatonica
della "creatio ex nihilo" : e qui pensiamo agli scritti dello pseudo
Dionigi, a Massimo il Confessore, per giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena).
Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe nel mondo di lingua latina una notevole influenza
relativamente alla formazione di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel
delineare, insieme a Macrobio e a Cal- cidio, un complesso di discussioni
indirizzate su certi testi di Aristo- tele, su di un certo modo di interpretare
Cicerone (già Lattanzio) e 338 Virgilio (cfr. particolarmente i
Saturnali di Macrobio), sulla possibi- lità di riprendere Aristotele (relativamente
ai problemi del mondo sensibile e dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e
sensitivo), interpre- tandolo, poi, come inverantesi mediante il nooplatonismo.
Di qui, ancora una volta, sul piano dell'insegnamento scolastico e della prepa-
razione culturale, la funzione data ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni
scientifiche del sapere antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la
diffusione di certi problemi nel mondo di lingua latina e la lettura
determinante di certi testi è opportuno ricordare la traduzione in latino della
Parafrasi degli Analitici di Aristotele di Temistio, dovuta al neoplatonico
Nettio Agorio retestato, alto funzionario (fu senatore, questore, pretore,
governa- ore della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, proconsole
:lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia e dell'Illirico, designato console
per il 385, ma morto nel 384), amico dell'Imperatore Giuliano, non troppo
tenero verso l'irrazionalismo del Cristianesimo. E accanto al nome di
Pretestato va ricordato il nome di Firmico Materno. L'importanza di Giulio
Firmico Materno piu che nell'opera da lui scritta dopo la sua conversione al
Cristianesimo, il De errore profanarum religionum (una violenta diatriba contro
il politeismo, con cui iden- tifica tutte le posizioni non cristiane e per cui
chiede agli imperatori Costanzo e Costante di perseguitare e distruggere chi
non è cristiano), sta nell'opera pubblicata tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano
Mavorzio, governatore della Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli
aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri,
intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di astrologia traman- dato
dall'antichità, in una sistemazione del sapere astrologico in termini neo-platonici.
Vi si difende, contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia
come scienza. Se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e
alle illusioni sensibili, difficili sono i calcoli e le predizioni, è
altrettanto vero che, l'uomo, libe- randosi dalla sua sensibilità, in una
conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion
d'essere del tutto, ripercor- rere le trame su cui tutto si scandisce, e può,
perciò, ricostruendo l'or- dine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle,
alla terra, alle cose Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato,
vir consularis, senatore, tra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che
aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al
tempo del suo governatorato in Campania, pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia,
intitolata “Mathesis”, dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console
d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei
neo-accademici e di Carneade. I libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria
astrologia. Convertitosi al Cristianesimo nel 345 circa, tra il 346 e il 350
scrive il “De errore profanarum religionum] si è costituito, determinare i
rapporti e le influenze stellari, in calcoli e previsioni, matematicamente
esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima fino alla divinità, ci si può
liberare dai vincoli fatali, dalle influenze stellari che provocano le nostre passioni
e i nostri impulsi malvagi (libro 1). Infine, sempre sul piano della
preparazione culturale e della diffusione delle idee, merita il conto
ricordare, entro la linea della grande tradizione matematico-astronomica di
Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e l'edizione delle opere di
Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad Alessandria tra il 335 e il
400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una delle maggiori rappresentanti
del neo-platonismo logico di Alessandria, maestra di Sinesio, morta vittima
della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del vescovo Cirillo. Francesco Adorno. Keywords: Filosofia italica, scuola di
Crotone, scuola di Velia, Girgenti, Parmenide, Zenone. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Adorno” – The Swimming-Pool Library.
Agamben
(Roma). Grice: “Agamben is a terribly complex philosopher, and a
fascinating one – he has philosophised on things I did: ‘fantasma,’ as used by
Aristotle in ‘Interpretatione,’ the unsaid and the unsayable (indicible), that
Aganbem might apply to ‘il ragazzo’ – or ‘fanciullino’ – he has philosophhised
on ‘love’ (amore – eros – idea dell’amore – and semiology of the sphynx,
imagine, and imagine perverse – the use of bodies (uso dei corpi) and ‘silence’
(il silenzio nel linguaggio): lingua, iinguaggio, dialetto – verita – the
sacred dimension of language in swearing – ‘sacramgneto del linguaggio – the
logic of commands and the commandmets – the power and the glory – he obviously
enjoys in word play! Flosofo. D’antica famiglia veneziana di origine armena, si
laureò in Giurisprudenza nel 1965 con una tesi su Simone Weil. Ha scritto
diverse opere, che spaziano dall'estetica alla biopolitica. A Roma, sempre
negli anni sessanta, frequenta con intensità Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini
(interpreta l'apostolo Filippo nel film Il Vangelo secondo Matteo), Ingeborg
Bachmann. Nel 1966 e nel 1968 partecipa ai seminari promossi da Martin
Heidegger su Eraclito e Hegel a Le Thor. Nel 1974 si trasferisce a Parigi, dove
frequenta Pierre Klossowski, Guy Debord, Italo Calvino e altri intellettuali,
mentre insegna all'Università Haute-Bretagne. L'anno seguente ha lavorato a
Londra, mentre dal 1986 al 1993 ha diretto il Collegio internazionale di
filosofia a Parigi, frequentando, tra gli altri, Jean-Luc Nancy, Jacques
Derrida e Jean-François Lyotard. Dal 1988 al 2003 ha insegnato alle Università
degli Studi di Macerata e di Verona. Dal 2003 al 2009 ha insegnato presso
l'Istituto Universitario di Architettura (IUAV) di Venezia. Sempre nel
2003 ha abbandonatoper protesta contro i nuovi dispositivi di controllo imposti
dal governo statunitense ai cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti
d'America, cioè lasciare le proprie impronte digitali ed essere
schedatil'incarico di professore illustre all'New York. In precedenza era stato
professore invitato in altre istituzioni, tra cui l'Università Northwestern,
l'Università Heinrich Heine di Düsseldorf e la European Graduate School di
Saas-Fee. In seguito "si è dimesso dall'insegnamento nell'università
italiana". Oggi dirige la collana Quarta prosa presso l'editore Neri Pozza
e organizza un seminario annuale presso l'Parigi Saint-Denis. Tra gli
autori che ha studiato e proposto: Walter Benjamin, Jacob Taubes, Alexandre
Kojève, Michel Foucault, Carl Schmitt, Aby Warburg, Paolo di Tarso, ma anche
Furio Jesi, Enzo Melandri e in genere trattando temi di filosofia politica,
biopolitica (in particolare i concetti di stato di emergenza, esilio e
autorità), mistica cristiana ed ebraica, angelologia, storia dell'arte e
letteratura. Collabora con "aut-aut", "Cultura tedesca" e
con diverse altre riviste di filosofia. In occasione della laurea honoris causa
in teologia presso l'Friburgo il 13 novembre
ha pronunciato la conferenza Mysterium iniquitatis, poi tradotta in
Il mistero del male. H ricevuto il Premio europeo Charles Veillon per la
saggistica e nel il Premio Nonino
"Maestro del nostro tempo". Il pensiero di Giorgio Agamben,
benché caratterizzato da una omogeneità che copre tutto l'arco evolutivo delle
sue opere, può essere per comodità suddiviso in due momenti distinti. A fare da
spartiacque è un testo fondamentale: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda
vita, il quale si inscrive nelle tematiche e nel dibattito sollevati dalle
ricerche di Foucault attorno al biopotere, indagando il rapporto fra diritto e
vita e sulle dinamiche dei modelli di sovranità. La prima riflessione
agambeniana predilige tematiche estetiche, in particolar modo letterarie, nel
contesto di un grande confronto con il pensiero di Martin Heideggerche ha
conosciuto personalmente partecipando ai seminari estivi tenuti in Provenza ncon
quello di un altro filosofo a lui caro: Walter Benjamin, autore del quale curò
la prima edizione italiana delle opere complete per Einaudi, ritrovando anche
un discreto numero di testi inediti (tra cui quelli nascosti e conservati da
Georges Bataille alla Biblioteca nazionale di Francia e riscoperti da Agamben
nel 1981 tra le carte di Bataille presenti nella biblioteca); la collaborazione
con Einaudi si interruppe per sopravvenute incomprensioni con l'editore.
All'inizio degli anni novanta alcuni suoi allievi hanno fondato la casa
editrice Quodlibet. I suoi studi hanno riguardato varie tematiche, dal
linguaggio alla metafisica, approfondendo il significato dell'esistenza del
linguaggio e dei suoi limiti referenziali esogeni ed endogeni., dall'estetica
nella quale indaga sulle relazioni intercorrenti fra filosofia ed arte
chiedendosi se quest'ultima permetta una differente espressione del linguaggio
rispetto alla prima, all'etica che approfondisce le tematiche e gli aspetti
emergenti dal contesto dei lager nazisti. A sostegno del pensiero di
Agamben riguardo alla sua concezione della "nuda vita" vale infine
quanto scritto in un articolo pubblicato in data 17 marzo intitolato Chiarimenti: «È evidente che
gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni
normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli
affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La
nuda vitae la paura di perderlanon è qualcosa che unisce gli uomini, ma li
acceca e separa.» Homo sacer A partire dal concetto latino di homo sacer,
la sua ricerca principale si svolge nei seguenti volumi (ripresi nell'edizione
definitiva: Homo Sacer. Edizione integrale. I. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda
vita, II,1. Stato d'eccezione, 2003 II,2. Stasis. La guerra civile come
paradigma politico, Il sacramento del
linguaggio. Archeologia del giuramento, Il regno e la gloria. Per una genealogia
teologica dell'economia e del governo, II,5. Opus Dei. Archeologia
dell'ufficio, Quel che resta di
Auschwitz. L'archivio e il testimone, Altissima povertà. Regole monastiche e
forma di vita, IV,2. L'uso dei
corpi, Al cinema Ha interpretato il
ruolo di Filippo nel film del 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo
Pasolini. Opere: “Jarry o la divinità del riso”, in Alfred Jarry, Il supermaschio, trad. G.
Agamben, Milano: Bompiani (poi Milano: SE,) André Breton e Paul Éluard,
L'immacolata concezione, trad. G. Agamben, Milano: Forum, (poi Milano: ES).
L'uomo senza contenuto, Milano: Rizzoli, 1970 (poi Macerata: Quodlibet)
(contiene: «La cosa più inquietante», «Frenhofer e il suo doppio», «L'uomo di
gusto e la dialettica della lacerazione», «La camera delle meraviglie», «Les
jugements sur la poésie ont plus de valeur que la poésie», «Un nulla che
annienta se stesso», «La privazione è come un volto», «Poiesis e praxis», «La
struttura originale dell'opera d'arte», «L'angelo malinconico») José Bergamin,
in José Bergamín, Decadenza dell'analfabetismo, trad. Lucio D'Arcangelo,
Milano: Rusconi, (n.ed. Milano: Bompiani)
La notte oscura di Juan de la Cruz, in Juan de la Cruz, Poesie, trad. G.
Agamben, Torino: Einaudi, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale,
Torino: Einaudi (ristampato Einaudi) (contiene: «Prefazione», «I fantasmi di
Eros», «Nel mondo di Odradek. L'opera d'arte di fronte alla merce», «La parola
e il fantasma. La teoria del fantasma nella poesia d'amore del '200»,
«L'immagine perversa. La semiologia dal punto di vista della Sfinge») Marcel
Griaule, Dio d'acqua, trad. G. Agamben, Milano: Bompiani, 1978 Infanzia e
storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi. Contiene:
«Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell'esperienza», «Il paese dei
balocchi. Riflessioni sulla storia e sul gioco», «Tempo e storia. Critica
dell'istante e del continuo», «Il principe e il ranocchio. Il problema del
metodo in Adorno e in Benjamin», «Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe»,
«Programma per una rivista») Gusto, in Ruggiero Romano , Enciclopedia Einaudi, 6, Torino: Einaudi, L'io, l'occhio, la voce, in Paul Valéry,
Monsieur Teste, trad. Libero Salaroli, Milano: Il Saggiatore, nuova ed. Milano:
SE; poi in La potenza del pensiero, Il
linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino: Einaudi
(ristampato Einaudi,) La fine del pensiero, Paris: Le Nouveau Commerce, 1982 Un
importante ritrovamento di manoscritti di Walter Benjamin, in «aut-aut»,
(numero intitolato «Paesaggi benjaminiani»), Firenze: La Nuova Italia, La
trasparenza della lingua, in «Alfabeta», Milano: Coop. Intrapresa, Il viso e il
silenzio, in Ruggero Savinio, Opere 1983, Milano: Philippe Daverio, 1983 Il
silenzio del linguaggio, in Paolo Bettiolo , Margaritae, Venezia: Arsenale,
1983, 69–79 Idea della prosa, Milano:
Feltrinelli, (poi Macerata: Quodlibet) (contiene: «Soglia», «I: Idea della
materia, Idea della prosa, Idea della censura, Idea della vocazione, Idea
dell'Unica, Idea del dettato, Idea della verità, Idea della Musa, Idea
dell'amore, Idea dell'immemorabile», «II: Idea del potere, Idea del comunismo,
Idea della giustizia, Idea della pace, Idea della vergogna, Idea dell'epoca,
Idea della musica, Idea della felicità, Idea dell'infanzia, Idea del giudizio universale»,
«III: Idea del pensiero, Idea del nome, Idea dell'enigma, Idea del silenzio,
Idea del linguaggio, Idea della luce, Idea dell'apparenza, Idea della gloria,
Idea della morte, Idea del risveglio», «Soglia. Kafka difeso contro i suoi
interpreti») Quattro glosse a Kafka, in «Rivista di estetica», Torino: Rosenberg
& Sellier, La passione dell'indifferenza, in Marcel Proust, L'indifferente,
trad. Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino: Einaudi, Il silenzio delle parole, in Ingeborg
Bachmann, In cerca di frasi vere, trad. Cinzia Romani, Bari: Laterza,
1989, V-XV Sur Robert Walser, in
«Détail», Paris: Pierre Alféri et Suzanne Doppelt (l'Atelier Cosmopolite de la
Fondation Royaumont), autunno La comunità che viene, Torino: Einaudi, 1990
(n.ed. Torino: Bollati Boringhieri) (contiene: «La comunità che viene:
Qualunque, Dal Limbo, Esempio, Aver luogo, Principium individuationis, Agio,
Maneries, Demonico, Bartebly, Irreparabile, Etica, Collants Dim, Aureole,
Pseudonimo, Senza classi, Fuori, Omonimi, Schechina, Tienanmen»,
«L'irreparabile») Disappropriata maniera, in Giorgio Caproni, Res amissa, G.
Agamben, Milano: Garzanti, 1991 (poi in Categorie italiane, 89–103) Kommerell o del gesto, in Max
Kommerell, Il poeta e l'indicibile, Genova: Marietti, VII-XV (poi in La potenza
del pensiero, Bartleby, la formula della
creazione, Macerata: Quodlibet. Contiene: Gilles Deleuze, Bartebly o la formula
trad. Stefano Verdicchio; G. Agamben, Bartebly o della contingenza: Lo scriba o
della creazione, La formula o della potenza, L'esperimento o della
decreazione») Nota introduttiva a: René, Il testamento della ragazza morta,
trad. Daniela Salvatico Estense, Macerata: Quodlibet, 7–8 Maniere del nulla, in Robert Walser, Pezzi
in prosa, trad. Gino Giometti, Macerata: Quodlibet, 7–11 Il dettato della poesia, in Antonio
Delfini, Poesie della fine del mondo e poesie escluse, Daniele Garbuglia,
Macerata: Quodlibet, VII-XX (poi in
Categorie italiane, 79–88) Homo sacer.
Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, 1995 (ristampa 2008)
(contiene: «Introduzione», «Logica della sovranità», «Homo sacer», «Il campo
come paradigma biopolitico del moderno», «») Il talismano di Furio Jesi, in
Furio Jesi, Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, Macerata: Quodlibet, 1996, 5–8 Mezzi senza fine. Note sulla politica,
Torino: Bollati Boringhieri, 1996 (contiene: «Avvertenza», «I: Forma-di vita,
Al di là dei diritti dell'uomo, Che cos'è un popolo?, Che cos'è un
campo?», «II: Note sul gesto, Le lingue e i popoli, Glosse in margine ai
Commentari sulla società dello spettacolo, Il volto», «III: Polizia sovrana,
Note sulla politica, In questo esilio. Diario italiano 1992-94») Per una
filosofia dell'infanzia, in Franco La Cecla, Perfetti e indivisibili, Milano:
Skira, 1996, 233–40 Categorie italiane.
Studi di poetica, Venezia: Marsilio, 1996 (contiene: «Premessa», «Comedia»,
«Corn. Dall'anatomia alla poetica», «Il sogno e della lingua», «Pascoli e il
pensiero della voce», «Il dettato della poesia», «Disappropriata maniera», «La
festa del tesoro nascosto», «La fine del poema», «Un enigma della Basca», «La
caccia della lingua», «I giusti non si nutrono di luce», «Il congedo della
tragedia»). Nuova edizione (Roma-Bari: Laterza, ), accresciuta di otto testi e
con un nuovo sottotitolo: Studi di poetica e di letteratura. Verità come
erranza, in «Paradosso», 2-3 (numero intitolato «Sulla verità», Massimo Dona),
Padova: Il Poligrafo, 1998, 13–17 Image
et mémoire, Paris: Hoëbeke, 1998 (contiene: «Aby Warburg et la science sans
nom», «L'origine et l'oubli. Parole du mythe et parole de la littérature», «Le
cinéma de Guy Debord», «L'image immémoriale») Quel che resta di Auschwitz.
L'archivio e il testimone. Homo sacer. III, Torino: Bollati Boringhieri, 1998
(contiene: «Avvertenza», «Il testimone», «Il musulmano», «La vergogna o del
soggetto», «L'archivio e la testimonianza», «») Introduzione, in Giorgio
Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del '600
italiano, Macerata: Quodlibet, 1999,
7–18 La guerra e il dominio, in «aut-aut», 293-294, Firenze: La Nuova
Italia, settembre-dicembre 1999, 22–3,
poi anche in: Paolo Perticari , Biopolitica minore, Roma: Manifestolibri Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera
ai romani», Torino: Bollati Boringhieri, 2000 (contiene: «Prima giornata. Paulos
doulos christoú Iësoú», «Seconda giornata. Klëtós», «Terza giornata.
Aphörisménos», «Quarta giornata. Apóstolos», «Quinta giornata. Eis auaggélion
theoú», «Sesta giornata», «Soglia o tornada», «Appendice. Riferimenti testuali
paolini», «») Araldica e politica, in Viola Papetti , Le foglie messaggere.
Scritti in onore di Giorgio Manganelli, Roma: Editori Riuniti Un possibile
autoritratto di Gianni Carchia, in «Il manifesto» (supplemento «Alias» 26),
Roma, 7 luglio 200118 Le pire des régimes, in «Le monde», Paris, 23 marzo 2002
The Time That Is Left, in «Epoché», VII, 1, Villanova: Villanova University, 1–14 L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino:
Bollati Boringhieri, 2002 (contiene «Teromorfo, Acefalo, Snob, Mysterium
disiunctionis, Fisiologia dei beati, Cognitio experimentalis, Tassonomie, Senza
rango, Macchina antropologica, Umwelt, Zecca, Povertà di mondo, L'aperto, Noia
profonda, Mondo e terra, Animalizzazione, Antropogenesi, Tra, Desoeuvrement,
Fuori dall'essere», «») Nota, in Ingebor Bachmann, Quel che ho visto e udito a
Roma, Macerata: Quodlibet, 2002 (con Valeria Piazza) L'ombre de l'amour, Paris:
Rivages, 2003 Stato di Eccezione. Homo sacer II, 1, Torino: Bollati
Boringhieri, 2003 (contiene: «Lo stato di eccezione come paradigma di governo»,
«Forza di legge», «Iustitium», «Gigantomachia intorno a un vuoto», «Festa lutto
anomia», «Auctoritas e potestas», «Riferimenti bibliografici») Intervista a
Giorgio Agamben (sullo Stato di eccezione) in Antasofia 1, Mimesis, Milano
2003. Genius, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni, 7–18) Il giorno del giudizio, Roma:
Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni,
25–38) La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza: Neri Pozza,
2005 (contiene: «La cosa stessa», «L'idea del linguaggio», «Lingua e storia»,
«Filosofia e linguistica», «Vocazione e voce», «L'io, l'occhio, la voce»,
«Sull'impossibilità di dire io», «Aby Warburg e la scienza senza nome»,
«Tradizione dell'immemorabile», «*Se. L'assoluto e l'Ereignis», «L'origine e
l'oblio», «Walter Benjamin e il demonico», «Kommerell o del gesto», «Il Messia
e il sovrano», «La potenza del pensiero», «La passione della fatticità»,
«Heidegger e il nazismo», «L'immagine immemoriale», «Pardes», «L'opera
dell'uomo», «L'immanenza assoluta») Profanazioni, Roma: Nottetempo, 2005
(contiene: «Genius», «Magia e felicità», «Il Giorno del Giudizio», «Gli
aiutanti», «Parodia», «Desiderare», «L'essere speciale», «L'autore come gesto»,
«Elogio della profanazione», «I sei minuti più belli della storia del cinema»)
Introduzione, in Emanuele Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e
l'averroismo, Milano: Bruno Mondadori, 1995,
VII-XIII Che cos'è un dispositivo?, Roma: Nottetempo, 2006 L'amico,
Roma: Nottetempo, 2007 Ninfe, Torino: Bollati Boringhieri, 2007 Il regno e la
gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Homo sacer
II, 2, Vicenza: Neri Pozza, 2007 (nuova ed. Torino: Bollati Boringhieri, 2009)
(contiene: «Premessa», «I due paradigmi», «Il mistero dell'economia», «Essere e
agire», «Il regno e il governo», «La macchina provvidenziale», «Angelologia e
burocrazia», «Il potere e la gloria», «Archeologia della gloria» preceduti,
intervallati e seguiti da Soglie, «Appendice: L'economia dei moderni», «») Che
cos'è il contemporaneo?, Roma: Nottetempo, 2008 Signatura rerum. Sul Metodo,
Torino: Bollati Boringhieri, 2008 (contiene: «Avvertenza», «Che cos'è un
paradigma?», «Teoria delle segnature», «Archeologia filosofica», «») Il
sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento. Homo sacer II, 3,
Roma-Bari: Laterza, 2008 Nudità, Roma: Nottetempo, 2009 (contiene: «Creazione e
salvezza», «Che cos'è il contemporaneo?», «K.», «Dell'utilità e degli
inconvenienti del vivere fra spettri», «Su ciò che possiamo non fare»,
«Identità senza persona», «Nudità», «Il corpo glorioso», «Una fame da bue»,
«L'ultimo capitolo della storia del mondo») (con Emanuele Coccia) Angeli.
Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Vicenza: Neri Pozza, La Chiesa e il Regno, Roma: Nottetempo, (con Monica Ferrando) La ragazza indicibile.
Mito e mistero di Kore, Milano: Electa Mondadori, Altissima povertà. Regole monastiche e forma
di vita. Homo sacer IV, 1, Vicenza: Neri Pozza,
Opus Dei. Archeologia dell'ufficio. Homo sacer II, 5, Torino: Bollati
Boringhieri, Il mistero del male.
Benedetto XVI e la fine dei tempi, Roma-Bari: Laterza, Pilato e Gesù, Roma: Nottetempo, Qu'est-ce que le commandement?, Parigi:
Bibliothèque Rivages, Il fuoco e il
racconto, Roma: Nottetempo, L'uso dei
corpi. Homo sacer IV, 2, Vicenza: Neri Pozza,
To Whom Is Poetry Addressed?, in "New Observations", Stasis La
guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, Torino: Bollati
Boringhieri, L'avventura, Roma:
nottetempo, Pulcinella ovvero
Divertimento per li regazzi, Roma: nottetempo,
Che cos'è la filosofia?, Macerata: Quodlibet, Che cos'è reale? La scomparsa di Majorana,
Vicenza: Neri Pozza, Autoritratto nello
studio, Milano: Nottetempo, Karman.
Breve trattato sull'azione, la colpa, il gesto, Torino: Bollati
Boringhieri, Creazione e anarchia.
L'opera nell'età della religione capitalista, Vicenza: Neri Pozza, Homo Sacer. Edizione integrale (1995-),
Macerata, Quodlibet, Il Regno e il
Giardino, Vicenza: Neri Pozza, Lo
studiolo, Collana Saggi, Torino, Einaudi, . A che punto siamo? L'epidemia come
politica, Macerata, Quodlibet, Note Giulia Farina, Enciclopedia della
letteratura, Garzanti, 1997 p.9 Con il
quale progetta una rivista. Cfr. l'ultimo capitolo di Infanzia e storia,
Einaudi, Torino. Giorgio Agamben Al
quale si rivolge con L'amico, Nottetempo, Roma. Cfr. la lettera di solidarietà
di Carla Benedetti dell'11 gennaio 2004 su "Nazione indiana": la pagina sul sito della scuola. Del quale ha diretto per qualche tempo le
edizioni complete presso Einaudi, prima di abbandonare il progetto per
contrasti con la casa editrice. cfr. la lettera a "la Repubblica" del
13 novembre 1996. . Tra l'altro ha
lavorato per il Warburg Institute negli anni,grazie alla cortesia di Frances
Yates . Altri autori di cui si è
occupato sono Charles Baudelaire, Robert Walser, Paul Valéry, Antonio Delfini,
Giorgio Manganelli, Max Kommerell, Elsa Morante, Giovanni Pascoli, Victor
Segalen, Giorgio Caproni, Patrizia Cavalli, Marcel Proust, Arnaut Daniel
ecc. Paolo Vernaglione, TEOLOGIAIl
«Mistero del male» di Giorgio Agamben. Fuga dal tempo del dominio [collegamento
interrotto], in il manifesto, Lettera ad H. Arendt, 1970 (The Hannah Arendt
Papers at the Library of Congress)
Roberto Gilodi, BenjaminUno «straccivendolo» alla ricerca capillare dei
rifiuti di Baudelaire, in Alias, Roma, il manifesto, cite web
url=http://iep.utm.edu/a/agamben.htm
G.Agamben, Chiarimenti Andrea
Cavalletti, "La guerra civile, paradigma della politica" Archiviato
il 4 marzo in ., il manifesto Prima
della pubblicazione di Stasis, questo volume era numerato II,2. Thomas Carl
Wall, Radical Passivity: Levinas, Blanchot and Agamben, postfazione di William
Flesch, Albany: State University of New York Press, 1999 Philippe Mesnard e Claudine Kahan, Giorgio
Agamben à l'epreuve d'Auschwitz: temoignages, interpretations, Paris: Éditions
Kimé, Eva Geulen, Giorgio Agamben zur Einführung, Hamburg: Junius,Alfonso
Galindo Hervas, Politica y mesianismo: Giorgio Agamben, Madrid: Biblioteca
nueva, Asselin e Jean-Francois Bourgeault , La littérature en puissance autour
de Giorgio Agamben, Montréal: VLB, Calarco e Steven DeCaroli , Giorgio Agamben.
Sovereignty and Life, Stanford: Stanford University Press, 2007 Francesco
Valerio Tommasi, Homo sacer e i dispositivi. Sulla semantica del sacrificio in
Giorgio Agamben, «Archivio di filosofia », Justin Clemens, Nicholas Heron e
Alex Murray, The Work of Giorgio Agamben. Law, Literature, Life, Edinburgh:
Edinburgh University Press, 2008Greg Bird. Containing Community: From Political
Economy to Ontology in Agamben, Esposito, and Nancy. Albany: State University
of New York Press, Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical
Introduction, Stanford: Stanford University Press Alex Murray, Giorgio Agamben,
London-New York: Routledge, Thanos Zartaloudis, Giorgio Agamben. Power, Law and
the Uses of Criticism, London-New York: Routledge, (DE) Oliver Marchart, Die politische
Differenz zum Denken des Politischen bei Nancy, Lefort, Badiou, Laclau und
Agamben, Berlin: Suhrkamp, William Watkin, Literary Agamben: Adventures in
Logopoiesis, London-New York: Continuum, Vittoria Borsò et alii ,
BenjaminAgamben, Wurzburg: , Konigshausen & Neumann, Lucia Dell'Aia , Studi su Agamben, Milano:
Ledizioni, (con saggi di Witte, Liska,
Dell'Aia, Talamo, Miranda, Recchia Luciani) Francesco Valerio Tommasi,
"L'analogia in Carl Schmitt e Giorgio Agamben. Un contributo al
chiarimento della teologia politica", in L'ircocervo, /1.Jacopo D'Alonzo,
"El origen de la nuda vida: política y lenguaje en el pensamiento de
Giorgio Agamben", in Revista Pléyade, C. Salzani, Introduzione a Giorgio
Agamben, Il Nuovo Melangolo, (HR) Mario
Kopić, Giorgio Agamben, «Tvrđa», 1-2, ,
44–93. Flavio Luzi, Quodlibet. Il problema della presupposizione
nell'ontologia politica di Giorgio Agamben, Stamen, Roma . E. Castano, Agamben
e l'animale. La politica dalla norma all'eccezione, Novalogos, Carlo Crosato, Critica della sovranità.
Foucault e Agamben. Tra il superamento della teoria moderna della sovranità e
il suo ripensamento in chiave ontologica, Orthotes, V. Bonacci , Giorgio Agamben. Ontologia e
politica, Quodlibet Lucia Dell'Aia e
Jacopo D'Alonzo , Lo scrigno delle segnature. Lingua e poesia in Giorgio
Agamben, Istituto Italiano di Cultura, Amsterdam . Con uno scritto inedito di
G. Agamben (Porta e soglia) e contributi di: L. Dell'Aia, R. Talamo, C.
Salzani, J. D'Alonzo, V. BorsòColilli.
Bios (filosofia) Zoé (filosofia) Homo sacer Altri progetti Collabora a
Wikiquote Citazionio su Giorgio Agamben Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Giorgio Agamben Opere di Giorgio
Agamben, . Opere riguardanti Giorgio Agamben, . Giorgio Agamben, su
Goodreads. italiana di Giorgio Agamben,
su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giorgio
Agamben, su Internet Movie Database, IMDb.com. Catherine Mills, Giorgio Agamben, su Internet
Encyclopedia of Philosophy. L'aperto. L'uomo e l'animale. Recensione da
LiberCensor.net. Agambeniana. delle
opere di Giorgio Agamben, ferma al gennaio 2004, su agamben.web.fc2.com. Jacopo
D'Alonzo, di Giorgio Agamben (aggiornata
al dicembre ) , su filosofia-italiana.net. 9 aprile 13 aprile ). "Il frutto maturo della
redenzione", Toni Negri su Agamben Altissima povertà. Regole monastiche e
forma di vita recensione da Sitosophia Il mistero del male Traduzione spagnola
nel 68esimo numero del magazine messicano "Fractal". Agamben. Keywords: Ereignis, eye, occhio,
occhi, polifemo, argo, i marziani di Grice – la etimologia accettata – ‘porre
davanti agli occhi” – binocularismo – monocularismo – algarotti – Fjeld -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Agamben” – The Swimming-Pool Library.
Agazzi (Genova). Grice: “I like [Emilio] Agazzi; his tutees thought
he was into the ‘impegno della ragione,’ but then MY tutees thought that I was
into the philosophical grounds (as in coffee) of rationality: intentions,
categories, ends – I go by “H. P. Grice,” so surely I can find an acronym that
would NOT leave the essential “H” out – as in Speranza’s GHP – a highly
powerful or hopefully plausible version of Myro’s system G – “in gratitude to
Paul Grice.” Grice: “Agazzi is a marxist – cf. my ontological Marxism, I am
one, too – so his ‘ragione’ is Hegelian – he has also philosophised on Croce,
and idealism, but the idea that there is ‘impegno’ behind reason is tutorial –
surely reason is a natural faculty that does not require much of an ‘impegno’ –
the more impegno, the less rational you will be counted – if he means that!” --
Filosofo. Agazzi nacque a Genova. Qui conseguì la maturità classica a la laurea
in lettere e filosofia con una tesi su Il pensiero filosofico di Piero
Martinetti presso l'Università Statale. Fu assistente volontario di storia
della filosofia dapprima a Genova dal 1945 al 1954, dove fu in particolare
influenzato dal pensiero di Adelchi Baratono, ordinario di filosofia teoretica,
e successivamente, dal 1954 al 1964, a Pavia (ove in particolare collaborò con
Ludovico Geymonat e Vittorio Enzo Alfieri); contemporaneamente, dal 1949 al
1972, insegnò filosofia nei licei di Genova, Voghera e Pavia. Nel 1964 conseguì
la libera docenza in storia della filosofia moderna e contemporanea; dal 1965
al 1968 insegnò filosofia della religione nella facoltà di Lettere e filosofia
a Milano, in particolare riprendendo il suo interesse per Piero Martinetti;
mentre nella stessa facoltà insegnò dal 1969 al 1982 filosofia della storia,
ottenendo un incarico stabile dal 1973.
Dalla seconda metà degli anni Settanta si dedicò in particolare allo
studio della filosofia tedesca moderna contemporanea, accentrando la sua
attenzione sulla Scuola di Francoforte, città in cui svolse ricerche
approfondite ed ebbe contatti con docenti universitari; negli stessi anni
frequentò ripetutamente università tedesche, polacche e jugoslave. Impegno politico Da sempre attento agli
sviluppi del pensiero marxista in Italia e in Europa, accompagnò la sua intensa
attività di ricerca scientifica ad un attivo impegno politico: esponente del
Partito Socialista Italiano negli anni Cinquanta, nei decenni successivi aderì
dapprima al PSIUP, quindi al PDUP e a Democrazia Proletaria. Collaborò in varie
forme a molte riviste e quotidiani della sinistra (tra gli altri Il Lavoro
Nuovo, l'Avanti!, Mondoperaio, Quaderni Rossi, Passato e Presente, Classe); nel
1983 fondò la rivista di teoria politica Marx centouno. Dopo il 1986, gravemente ammalato, dovette
rinunciare ai suoi studi, lasciando nel 1990 l'insegnamento. Morì a Pavia il 25
settembre 1991. Archivio L'archivio di
Emilio Agazzi e gran parte della sua biblioteca sono stati do 1992 dagli eredi
alla Fondazione Turati, dove è tutt'ora conservato presso l'archivio della
Fondazione; il fondo contiene quaderni di appunti, manoscritti e materiali di
lavoro per il periodo dagli anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento. Opere: “Croce e il marxismo” (Einaudi); “Linee
fondamentali della ricezione della teoria critica in Italia”; “L'impegno della
ragione” (Cingoli, Calloni, Ferraro, Milano, Unicopli); Filosofia della natura.
Scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato); “La filosofia di Piero
Martinetti, Sandro Mancini, Amedeo Vigorelli e Marzio Zanantoni, Edizioni
Unicopli, Milano, . Traduzioni Jürgen Habermas, “Etica del discorso” -- Laterza,
Bari-Roma Note Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. 21 febbraio . Fondo Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Collezione Emilio Agazzi su Fondazione di studi storici "Filippo
Turati". 21 febbraio . E.
Capannelli ed E. Insabato , Guida agli Archivi delle personalità della cultura
in Toscana tra '800 e '900. L'area fiorentina, Firenze, Olschki, Scuola di
Milano Emilio Agazzi, su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche.Collezione Emilio Agazzi su Fondazione di studi
storici "Filippo Turati". Filosofia Filosofo Professore1921 1991 18
novembre 25 settembre Genova Pavia. Emilio Agazzi. Agazzi. Keywords: etica del
discorso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The Swimming-Pool Library.
Agazzi (Bergamo).
Grice: “[Evandro] Agazzi has all the best intentions, but perhaps he lacks a
Lit. Hum. background – he basically approaches my topic of “logica filosofica”
which he contrasts with ‘logica matematica,’ and he has a special tract on my
pont about ‘formalismo’,’ which I later called ‘modernism’ – “ragioni e limiti
del formalismo” – his essay on ‘mondo incerto’ reminds me of my ‘intention and
uncertainty’!” – Filosofo. Figlio di Agazzi, ordinario di pedagogia presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica di Milano e preside
della Facoltà di Magistero, fu allievo di Gustavo Bontadini e amico di Ludovico
Geymonat, con cui a lungo collaborò, durante gli studi di filosofia presso
l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di fisica presso
l'Università Statale di Milano. In seguito si è perfezionato all'Oxford, a
quella di Marburg ed a quella di Münster; dal 1963 è libero docente in
Filosofia della scienza e dal 1966 in Logica matematica. Evandro Agazzi
ha inizialmente insegnato Geometria superiore, Logica matematica e Matematiche
complementari presso la facoltà di Scienze dell'Genova; ha insegnato altresì
Logica simbolica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, Filosofia della
scienza e Logica matematica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano. Dal 1970 è Professore di Filosofia della scienza presso l'Genova
e dal 1979 detiene la cattedra di Antropologia filosofica, Filosofia della
scienza e Filosofia della natura presso l'Friburgo in Svizzera. È stato
professore invitato nelle Berna, Ginevra, Düsseldorf, Pittsburgh ed anche
all'Stanford; è dottore honoris causa dell'Córdoba (Argentina). Ha
presieduto numerose associazioni filosofiche nazionali e internazionali:
Società Filosofica Italiana, Società Italiana di Logica e Filosofia delle
scienze, Società svizzera di Logica e Filosofia delle scienze, Federazione
internazionale delle Società filosofiche; è stato membro del Comitato Nazionale
per la Bioetica. Attualmente è presidente della Académie Internationale de
Philosophie des Sciences e dell'Institut International de Philosophie.
Pensiero I settori ai quali Evandro Agazzi ha rivolto prevalentemente i suoi
interessi sono stati: la filosofia generale della scienza, la filosofia di
alcune scienze particolari (matematica, fisica, scienze sociali, psicologia),
logica, teoria dei sistemi, etica della scienza, bioetica, storia della
scienza, filosofia del linguaggio, metafisica antropologia filosofica,
pedagogia. Attualmente le sue ricerche riguardano per un verso la caratterizzazione
dell'oggettività scientifica e la difesa di un realismo scientifico basato su
un approfondimento delle nozioni di riferimento e di verità, con le relative
implicazioni di tipo ontologico, per un altro l'approfondimento del concetto di
persona e delle varie conseguenze che ne derivano, in particolare nel campo
della bioetica. Filosofia della scienza La riflessione di Agazzi assume
come punto di partenza la necessità gnoseologica di stabilire nella conoscenza
scientifica «la più perfetta forma di conoscenza oggi a disposizione
dell'uomo». Su questa base, anche i metafisici devono necessariamente passare
per l'epistemologia, intesa come fondazione delle «strutture metodologichedella
scienza». L'epistemologia, come la intende Agazzi, assume la scienza come un
sapere oggettivamente rigoroso: tuttavia l'oggettività in questione non è
quella metafisica delle essenze o quella fisica delle qualità, bensì
un'oggettualità e intersoggettività. Sulla base di questi due punti, come
Agazzi specifica nel suo celebre libro intitolato Temi e problemi di
filosofia della fisica, l'oggetto di una disciplina scientifica è la cosa,
esaminata da un punto di vista tale per cui il ricercatore si pone grazie a una
precisissima impostazione metodologica, tramite la quale ritaglia su una cosa
un aspetto (oggettività), condiviso dai ricercatori che accettano gli stessi
criteri di oggettivazione (intersoggettività). Il rigore scientifico cessa di
essere inteso in senso dialettico e confutatorio o in senso matematico e
quantitativo: è piuttosto inteso nel senso di dar ragione tramite l'immediato
empirico o il mediato logico. In questa prospettiva, la scienza assume la
forma di un linguaggio che parla di un universo di oggetti. La configurazione
della scienza è caratterizzata da quattro peculiarità: è realistica,
giacché fa costante riferimento alla realtà; è relativa, giacché costituisce il
proprio oggetto; è rigorosa, giacché ha una valenza che è sia logica sia
linguistica; è responsabile, giacché si pone il problema etico delle conseguenze
che da essa scaturiscono. Per Agazzi, la filosofia non deve però limitarsi a
fare queste riflessioni sulla scienza: deve anche operare un'incessante ricerca
del fondamento, sia attraverso la critica dello scientismo e dell'ideologismo,
sia attraverso la proposta di quello che Agazzi chiama, in I compiti della
ragione, un «uso costruttivo della ragione: quello che si avvale
dell'argomentazione, quello che cerca di comprendere e, al massimo, di
persuadere». Opere: “Lógica Simbólica”; “Temi e problemi di filosofia
della fisica”; “Il bene, il male e la scienza”; “Introduzione ai problemi
dell’assiomatica”; “Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria”;
“I sistemi fra scienza e filosofia”; “Studi sul problema del significato”; “Scienzia
e fede. Nuove prospettive su un vecchio problema”; “Storia delle scienze La
filosofia della scienza in Italia nel '900”; “Filosofia, scienza e verità”; “Logica
filosofica e logica matematica”; “Quale etica per la Bioetica?” “Bioetica e
persona”; “Cultura scientifica e interdisciplinarità Interpretazioni attuali dell’uomo: filosofia,
scienza, religione Il tempo nella scienza e nella filosofia; “Filosofia della
natura, Scienza e cosmologia”; Prefazione di F. Minazzi. “Novecento e
Novecenti”; “Paidéia, verità, educazione”; “Valore e limiti del senso comune”;
“Scienza”; “Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno”; “Ragioni e limiti
del formalismo”. Note Cfr. l'articolo
”Don Carlì, una vita al Seminario. Un libro per l'uomo cuore di Città Alta“, in
L'eco di Bergamo, Giovedì 20 novembre 42.
Storia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Le fonti, Volume 1,
Alberto Cova, Vita e Pensiero, Milano, 2007557.
Scuola di Milano Epistemologia Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio
su Evandro Agazzi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Evandro Agazzi
Evandro Agazzi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Evandro
Agazzi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Evandro Agazzi, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Pagina personale
di Evandro Agazzi sul sito dell'Genova. Valori e limiti del senso comune,
Evandro Agazzi, Milano, FrancoAngeli. Evandro Agazzi. Agazzi. Keywords:
significato, segno, segnato, segnante, seminarone a Genova ‘studi sul problema
del significato’ – Grice, Peirce, segno, segno e comunicazione, segno per
comunicare, comunicazione che lascia segno, tiro al segno – segno naturale --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The
Swimming-Pool Library.
Agostino. (Roma). Grice: “I
like Agostino; he has philosophised exactly about what I did: identita
personale; libero albitrio; and some of the topics that I philosophised with H.
L. A. Hart, notably ‘parole di giustizia,’ and ‘bias’: ‘violenza e giustizia’
-- Filosofo. Consegue la laurea in
giurisprudenza nel 1968. Ha insegnato nelle Lecce, Urbino e Catania. Ordinario è
professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso
l'Università degli studi di Roma Tor Vergata, in cui ha diretto il Dipartimento
di "Storia e Teoria del Diritto". Insegna altresì alla LUMSA e alla
Pontificia Università Lateranense ed è professore visitatore in diverse
università straniere. Tra i maestri che
hanno influenzato il suo pensiero figurano Sergio Cotta e Vittorio Mathieu.
Particolare attenzione è dedicata nella sua produzione scientifica alla teoria
della giustizia, alle tematiche della bioetica, e quindi alle problematiche
della tutela del diritto alla vita, alla teoria della famiglia. Nel suo scritto La sanzione nell'esperienza
giuridica, del 1989, sostiene e riattualizza la teoria retributiva della
pena. Già membro del Consiglio
Scientifico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, attualmente è Presidente
onorario del Comitato nazionale per la bioetica, di cui è membro fondatore e di
cui è stato presidente negli anni 1995-1998 e 2001-2006. Ricopre inoltre la
carica di Presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani. È membro della
Pontificia Accademia per la Vita. È
stato direttore di Iustitia e Nuovi Studi Politici; attualmente è condirettore
della Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto. Dirige per l'editore
Giappichelli la collana Recta Ratio. Testi e studi di Filosofia del diritto,
nella quale sono apparsi più di cento volumi. È inoltre editorialista del
quotidiano Avvenire. Grazie a queste cariche e alle sue pubblicazioni, oggi
D'Agostino è considerato uno degli intellettuali di riferimento del movimento
teocon italiano. Ha coordinato la
sessione "I cattolici, la politica e le istituzioni" nell'ambito dei
lavori del X Forum del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana
sui 150 anni dell'Unità d'Italia.
Polemiche sul tema dell'omosessualità Ha suscitato polemiche la constatazione
di D'Agostino per cui le unioni omosessuali sono «costitutivamente sterili»: la
constatazione fu ripresa dal ministro Mara Carfagna nel 2007 che affermava che
«non c'è nessuna ragione per la quale lo Stato debba riconoscere le coppie
omosessuali, visto che costituzionalmente sono sterili» e che «per volersi bene
il requisito fondamentale è poter procreare».
Opere: “La sanzione nell'esperienza giuridica”; “Una filosofia della
famiglia”; “Diritto e Giustizia”; “Filosofia del diritto, Parole di Bioetica,
Parole di Giustizia, Lezioni di filosofia del diritto”; “Lezioni di teoria
generale del diritto, Bioetica, nozioni fondamentali, Il peso politico della
Chiesa, Un Magistero per i giuristi. Riflessioni sugli insegnamenti di
Benedetto XVI, Bioetica e Biopolitica.
Ventuno voci fondamentali Corso breve di
filosofia del diritto, Jus quia justum.
Lezioni di filosofia del diritto e della religione Famiglia, matrimonio, sessualità. Nuovi temi
e nuovi problemi. Carfagna: "Gay costituzionalmente sterili" da La
Repubblica. Francesco D’Agostino. Francesco D’Agostino. D’Agostino. Agostino. Keywords:
ius quia iustum non ius quia iussum – iussum – iubeo, perh. ‘jus habere’ to
regard as right. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agostino” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Agresta. (Mammola). Grice: “I would hardly call Agresta a
philosopher, but then my working site was formerly a Cisterian monastery and
bore the name of San Giovanni il Battista, so who am I to judge?! In any case,
I always wondered why Loeb (in the Macmillan edition) cared to publish the four
volumes of letters of Basil (of Blackwell fame) – now I know – Agresta
dedicated his life to this saint – In a way I drew from him in my netasteousia,
i. e. transubstantatio – how a pirot-1 becomes a pirot-2 – a human becomes a
person. Pater used to say that at Oxford it’s all about Hellenism, no Ebraismo!
Yet Agresta, an Italian, of sorts -- he
was half-Greek! – is a good example, alla Basil, of how troublesome those with
a classical – i. e. Graeco-Roman – education found all those ‘heresies’ of the
Christian dogma! Three persons in one – and the rest of them. Hardie used to
tell me, ‘Lay the blame on the Christian doctrine, not on Aristotle’s theory of
the substdance!” -- Filosofo. Abate
Generale dei Basiliani d'Italia è ritenuto tra i più illustri dell'ordine
Basiliano. Nato a Mammola (RC) il 10 gennaio 1621, morì a Messina il 23
Dicembre 1695. Al battesimo fu chiamato Domenico, figlio di Giovanni Michele
Agresta e di Dianora Scarfò. Inizia i primi studi alla Grancia Basiliana di
Mammola, continua al seminario di Gerace, a 16 anni frequenta gli studi
superiori a Napoli, ma viene colto da febbre maligna e miracolosamente come
egli afferma recupera la guarigione ritornando a Mammola. Dopo due anni il 23
luglio 1639 veste l'abito di San Basilio Magno nel monastero del San Salvatore
di Messina. Abbandonando il nome Domenico prende quello di Paolo; l'anno
successivo viene consacrato sacerdote nella basilica di Sant'Apollinare di
Ravenna, ricevendo il nome di Apollinare e inizia la professione
monastica. Don Apollinare Agresta dotto
teologo, filosofo, studioso, storico e scrittore. Nel 1669 fu insignito del
titolo di Maestro di sacra teologia. Negli anni successivi il 24 luglio 1675,
viene nominato Abate Generale dell'Ordine dei Basiliani d'Italia da Papa
Clemente X, con l'incarico di riorganizzare l'ordine dei Basiliani; nel 1680
veniva ancora confermato, poi riconfermato da Papa Innocenzo XI, ed ancora
un'altra volta nel 1692 da Papa Alessandro VIII. Conservò la carica fino alla
morte. Ha rivestito incarichi
prestigiosi. Giovanissimo viene insignito di numerose cariche: è responsabile
di diversi monasteri della Provincia di Calabria e d'Italia, introduce nuovi
metodi di studio per gli studenti, procurandosi fama e onore dalle comunità
locali e religiose. Ricopre la carica di Abate al monastero di S. Onofrio,
presso Monteleone oggi Vibo Valentia, regge successivamente la Grangia di San
Biagio del monastero basiliano di San Nicodemo di Mammola (RC); ma anche fu
inviato al monastero italo-greco di San Giovanni Theresti di Stilo (RC), a
reggere il monastero di Mater Domini in Nocera de' Pagani nella Campania, e
dopo viene nominato Procuratore Generale della Badia di Grottaferrata, oggi
Monastero di Santa Maria di Grottaferrata, meglio conosciuto come Monastero di
San Nilo. RomaChiesa di San Basilio
(Stemma visibile sugli archi della Chiesa)
RomaChiesa di San Basilio (Lapide a conferma della edificazione voluta
da Don Apollinare Agresta) L'Agresta ebbe sempre a cuore il decoro nel culto e
delle costruzioni ed arredamenti degli edifici religiosi. Fu edificata da lui
nel 1682 la Chiesa di San Basilio agli Orti Sallustiani a Roma, che si trova in
Via San Basilio vicino a Piazza Barberini, come conferma una lapide marmorea in
latino dentro la chiesa. Nella Grancia Basiliana di Mammola edificò una
cappella in onore di San Nicodemo Abate Basiliano e affidatala alla sorella
Vittoria vi fece collocare le reliquie del santo (in seguito al terremoto le
reliquie sono conservate nella cappella di San Nicodemo nella Chiesa Matrice di
Mammola). Si adoperò per la costruzione del Collegio di San Basilio a Roma. Nel
monastero di Rosarno restaurò la cappella della Madonna. Acquistò campi e case
e restaurò numerosi monasteri permettendo ai monaci di vivere una vita più
comoda. Donò indumenti liturgici in tutti i monasteri basiliani. I Monaci Basiliani del Monastero di
Grottaferrata (Roma) devotamente ricordano il loro Generale conservandone, con
cura gelosa, un guanto pontificale. Marco Petta eFrancesco Russo, studiosi e
storici del Monastero di Grottaferrata, sono state le ultime due personalità
religiose che hanno scritto in ricordo dell'Abate Generale Don Apollinare
Agresta, consultando all'interno del monastero la vasta biblioteca che conserva
scritti di grande valore e importanza.
Nel Museo Diocesano di Reggio Calabria, si può ammirare un reliquario a
braccio, che conserva le reliquie di San Giovanni Thereste, donate dall'Agresta
quando ricopriva la carica di Abate del Monastero italo-greco di Stilo. Un ritratto in giovane età del monaco è
pubblicata nel libro "Mammola" di Don Vincenzo Zavaglia. Autore di
numerose pubblicazioni, i libri di Don Apollinare Agresta, a distanza di
secoli, ancora oggi vengono consultati e citati da numerosi ricercatori e
studiosi, tra le sue opere più importanti ricordiamo: “Vita di San Basilio
Magno” (Roma) -- ancor oggi pregevole per le molte notizie che ci dà dei
monasteri basiliani delle Calabrie e d'Italia --; “Vita di S. Giovanni Theristi”
(Roma); “Vita di San Nicodemo A.B. (Roma Privilegi e concessioni fatti dal Gran
Conte Ruggero al sacro archimandritale Monastero di Giov. Theristi (Roma);
Constitutiones Monachorum Ordinis S. Basilii Magni Congregationis Italiae (Roma)
Compendio delle Regole o vero Costitutioni monastiche di S. Basilio raccolto
dal Bessarione (Roma). Sono rimaste inedite alcune biografie riguardanti San
Luca di Tauriano, il beato Stefano di Rossano, San Proclo di Bisignano, la
beata Teodora Vergine, San Onofrio di Belloforte e San Fantino di
Tauriana. D. Vincenzo Zavaglia, Mammola,
Frama Sud, Chiaravalle C. Marco Petta, Apollinare Agresta Abate Generale
Basiliano, Tipogr. Italo-Orientale S. Nilo Grottaferrata 1981. Apollinare
Agresta, in Enciclopedia Treccani, 1929 Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Monastero di Santa Maria di
Grottaferrata o Monastero di San Nilo, su abbaziagreca. Santuario di San
Nicodemo, su sannicodemodimammola. Foto di Don Apollinare Agresta alla giovane
età di 24 anni, su flickr.com. Apollinaire
Agresta. Agresta. Keywords: stato laico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Agresta” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Ajello (Napoli). Grice:
“I love Ajello; bevause he was a Plathegelian, while I’m an Ariskantian; I
always found Plathegel very HARD to understand, Ajello doesn’t; there’s
something in an Italian that makes Hegel’s Dutchiness very comprehensible, even
more so than to the Dutch themselves!” Filosofo -- discepolo di Puoti, aprì uno
studio privato come maestro ma ebbe vita stentata fino a quando ottenne un posto
al ministero dell'Istruzione. Partecipa ai
moti e per questo fu licenziato in tronco. E arrestato e gli e vietato l'insegnamento pubblico e «di far uso
anche moderatissimo della stampa» , per cui dove tornare all'insegnamento
privato della filosofia e della letteratura.
Seguace convinto della filosofia hegeliana, che contribuì a diffondere
in Italia, basa la sua filosofia soprattutto sull'Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio. Opere: “Della muliebrità
della volgar letteratura dei tempi di mezzo”; “Napoli e i luoghi celebri delle
sue vicinanze”; “Discorsi di storia e letteratura” -- Enciclopedia Italiana
Treccani alla voce corrispondente Opere
di Giambattista Ajello, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. CONSIDERAZIONI SULLA
MULIEBRITA DELLA VOLGAR LETTERATURA DEI TEMPI DI MEZZO DI GIAMBATTISTA AJELLO.
Di questa operetta del signor Ajello, della quale han già tenuto parola vari
giornali del regno , sorge in ul timo luogo a dar contezza ilProgresso. Nè ciò
senza ra gione , perocchè , essendo l'Ajello uno de'collaboratori de' quali il
nostro giornale si pregia , il nostro qualsiasi.giu dizio sarebbe forse paruto
sospetto , e noi , diffidandone a ragione , abbiamo aspettato che ci avesse preceduto
quello di altri non ligati a lui collo stesso. vincolo di amicizia. Per la qual
cosa avendomi io in particolare , senza dissi- ' mulare a me stesso la
malagevolezza di giudicar l'opera di uno amico , tolto l'incarico di qui
ragionarne mi converrà avvertire che riassumerò le idee dell'Ajello non dal
solo libretto di cui è qui sopra rapportato il titolo , m a da un suo lungo
articolo ancora inserito nella Rivista Napolitana (1), nel quale , rispondendo
l’Ajello alle o b biezioni del culto giovine Stanislao Gatti (2) , ha meglio
69 (1)Anno.3.°fasc.IV. Museo di letteratura e filosofia , vol.I.° pag .
60. opera periodica compilata per cura di Stanislao Gatti,alla quale
auguriamotuttoquel suc CESSO đi che l'ingegno del Direttore ci è larga
guarentigia. 70 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' sviluppato le sue
idee e dileguato quei dubbi che per a v ventura avrebbono potuto far nascere.
Dall'uno e l'altro lavoro cercherò cogliere il pensiero dell'autore qual si c o
n viene a chiunque prenda a disaminare un'opera nell'in teresse solo del
progresso del pensiero , non già per m i serabili e grette vedute individuali ,
per le quali cercasi trovare una contraddizione in ogni pagina e far la guerra
non ai principi, m a agl'individui, privilegio di separazione alla repubblica
letteraria solo concesso. Ecco dunque la serie delle ragioni principali dall'A
jello discorse e rapportate , quanto più per m e si potrà , colle sue stesse
parole. Ogni qualvolta si porti la nostra attenzione sui versi ed opere di arte
che ci ha tramandato l'antichità ed a quelle che nel medio evo ebber vita, non
sipuò non re star colpito dalla capital differenza che le separa. Nelle prime
nate in mezzo alle culte e pulite società di Grecia e di Roma , vediamo farsi
della donna quel conto che d'ogni cosa si farebbe da cui ci provvenisser
soltanto vo luttuose dolcezze 'e vivaci e corporali diletti : laddove nelle
séconde , comunque nate in mezzo a feroci e brutali pas sioni e lotte continue
di elementi tra loro pugnanti e d i scordi , son le donne reputate quasi di
superiore e più n o bil natura e fattevi obbietto d'uno entusiastico culto e
d'un devoto e mistico amore. Vediamo la passione espressa nei versi degli
antichi esser meglio ardenza di voglie ed e b brezza di sensual godimento che
puro e indefinito desio ed abbandonevole affetto ed obblio di se stesso e del m
o n d o nell'amata persona , come ne'poeti del medio evo si o s serva. E però
campeggiar ne'primi la gelosia ,la quale in sostanza ( come bellamente si
esprime l’Ajello ) è amor proprio , è poca o niuna stima dell'oggetto amato ,
spa rire interamente dalle opere dei secondi , cantori di una passione più
dell'antica disinteressata e gentile. Questo puro e spirituale amore , questa
stima ecces siva , questo universale e presso che religioso culto fatto nel
medio evo alle donne , è ciò che si chiama dall’Ajello muliebrità della moderna
letteratura con vocabolo di cui non starò affatto a disaminar la convenienza ,
bastandomi aver significato ilpensiero che ad esso congiunge l'autore,
DELLA VOLGÁR LETTERATURA . 71 . É d i q u e s t o s i n g o l a r e e n o n m a
i p i ù v e d u t o f a t t o , il q u a l e , se costituisce ladifferenza del
Tibullo dal Petrarca in quanto ai lor pensieri ed affetti amorosi , forma un
nuovo ed i m portante elemento della nostra letteratura , che rende r a gione
il suo libro ,cercando principalmente dare al fatto un fondamento , come
l'autor dice, nella natura umana , avvalorando in tal modo e psicologicamente
spiegando quei fatti , c h e , storicamente affermati , son mutabili e troppo
speciali ed angusti perchè la Scienza della Storia debba farne un gran caso. La
qual trattazione spero non sem brerà inutile ad alcuno o di mero passatempo ,
imperoc chè se la letteratura forma parte integrante della vita di un popolo e
quindi della sua storia, nè si può senza colpa per trattar l'una trascurar
l'altra , 'e se la patria nostra si è fatta felicemente studiosa delle sue
memorie del medio evo le quali, se non sono le più liete,sono certo lepiù glo
riose (1), il libro dell'Ajelo non giunge certamente inop portuno , ed egli
riscuoterà senza dubbio il plauso di tutti coloro che rettamente sentono e
pensano.Ilche assaibe ne , nè poteva altrimenti accadere, intese lo stesso
Ajello il quale , mostrando nella sua introduzione esser quella tal muliebrità
principal differenza della moderna letteratura dal l'antica, massime
considerandola ne'suoi lontani effetti sulla vita ed il pensar delle nazioni,
ed i nuovi e signoreggianti elementi delle moderne lettere star nell'amore e la
morte ; assai logicamente concludeva doversi il lavorare intorno ad uno di
questi elementi reputare opera per la moderna critica importantissima. N o n
voglio con ciò dire essere egli stato il primo ad investigar le cagioni di
questa che con lui chiamerà volontieri muliebrità della moderna lettera tura ,
chè già , comunque per lo più senza prove e quasi dommaticamente assunte ,
varie opinioni eran corse sul l'oggetto e di reputati scrittori tutte e dallo
stesso Ajello a quattro ridotte nel seguente modo : 1.o « Che il Cristianesimo
in 'ispezialtà sia stato ca gione del devoto e più puro amor per le donne. (1)
Parole del Conte Cesare Balbo nella sua lodatissima vita di Dante . 2.o
Ch'ei sidebba alle invasioni degli Arabi,mas sime alla vicinanza dei Mori di
Spagna. 4.° Infine che soprattutto ei sia necessario e natu
ralissimo effetto delle sociali e locali condizioni in cui f u ron posti
gl'invasori , poichè presero più ferma stanza sul territorio romano , e che
ilfeudale ordinamento ebbe aqui stato alquanto di consistenza e di stabilità.
> 72 CONSIDERAZIONI SULLA MOLIEBRITA' 3.o Che sieci stato recato dalle
genti germaniche con tutti gli altri lor costumi statici narrati e descritti da
C e sare, Tacito ed Ammiano Marcellino. Or , movendo dalla prima opinione sostenuta
precipua mente da scrittori Tedeschi per una certa loro inehinevo lezza
all'astratto e più per reazione alla miscredenza del secolo passato , ecco le
ragioni che ad essa oppone l'a u tore. 1.° Essere il fatto di cui è parola
apparso al secolo undecimo e però aver dovuto la cagione aver prima ope rato. »
Or in quella sorta di tempi potea forse la Chiesa aver qualche possanza , m a
ogni buono effetto il qual d e rivasse proprio dall'indole della religion
cristiana , dovea esser contrastato e depresso fra la grossa ignoranza e lo
scompiglio e il grido di bestiali e matte passioni ». Con che non s'intende
dire il Cristianesimo non avere avuto potere a quei giorni , m a che la sua
spirituale e gentil n a tura non potea avere in tanta barbarie e in si profonda
ignoranza pieno e libero effetto, ma scarso e poverissimo. In fatti la vera e
nobil sua natura troviamo sconosciuta , e praticato solo ciò che avea di più
esteriore e formale , e d i C o n c i l i e d i P a p i c o n t r o i t o r n e
i , il d u e l l o e d i g i u dizi di Dio gridar vanamente. 2.° Aver senza
dubbio il Cristianesimoconferito potentemente a migliorar la condi
zionefemminile,ma nonperciòpotersidireche,eman cipando la donna, producesse poi
quel puro amore e reli gioso culto che nel medio evo si ottenne , essendo
questi due fatti non pur diversi , ma sino ad un certo segno in dipendenti e
slegati , di sorta che sonosi appresso s c o m pagnatisempre e fuggiti. 3.°
Esser l'amore cantato ne' tempi di mezzo gentile e purissimo, m a si profano e
quasi idolatra. Or se si rifletterà che il Cristianesimo immoto e fisamente
stretto cogli occhi al Cielo e all'altra vita , come al solo vero scopo
dell'uomo , tenga la terra un esilio e transitoria stanza di sperimento , ed
abbia sempre temuto che avesse pregio e bellezza ; si vedrà che cosa
·DELLA VOLGAR LETTERATURA. 73 dovesse pensar delle donne , di queste
possenti allettatrici de'cuori umani , delle quali non ci ha cosa che più
grande e general potere abbia sull'uomo , che meglio e con più forza il discosti
e distolga dai celesti e santipensieri. Ecco perchè il Cristianesimo , qual si
mostrò nel decimo ed u n decimo secolo , promosse il celibato , popolò di
anacoreti i deserti della Tebaide e , riferendo ogni nostra mise ria al
malaugurato potere ed alle lusinghe della donna ( di che tristi e multiplici
esempi glie ne fornivano le s a cre carte-) vide in costeimen la compagna che
la se duttrice é quasi la principal nemica di lui, ed , anzi che confortarci ad
amarla , non ha fatto , nè fa tuttavia , che distorci dal porvi affetto grande
e terreno , come dal più tenace e periglioso laccio del nostro animo. 4.° Nel
Romano impero di Levante , ove più liberamente ed ef ficacemente la Religione
Cristiana operò , quel che era suo effetto averlo avuto , migliorar cioè la
condizion delle donne , come si può veder nelle leggi pubblicate da Giu
stiniano ; m a nessuna ombra trovarsi nelle opere di quel tempo della
muliebrità occidentale , niente d' amore che almen puro fosse e gentile.La
quale ultima cosa non es sendo giunto a produrvi dopo ben dieci secoli di non
contrastato impero ,tanto meno si potrebbe tener come cagione della muliebrità
della letteratura d'Occidente quando anche si volesse concedere che qui campo m
a g giore egli si avesse.ottenuto. Il che tanto più sembrerà vero in quanto si
osserverà quel grande ed universale amore , che nei cristiani poeti de'mezzi
tempi vediamo, trovarsi a un di presso in quei paesi ed in mezzo a quei popoli
che usaron di avere più mogli e chiuse le ten nero e schiave ; e più nel
mezzodi della Francia che in Italia, ove il Cristianesimo dominò maggiormente ;
ed es serne rimase le tracce più nella classe cavalleresca e g e n tile che
nella media e popolana , sulla quale sempre di L'influenza degli Arabi sulla
muliebrità dell'occiden tal letteratura vien rigettata dall'Ajello
sull'appoggio delle seguenti ragioni 1.o Perchè non ci si poteva da essi r e
care ciò che non avevano , essendo la loro letteratura , come tutta quella
delle genti orientali', obbiettiva e sensia gior potere il Cristianesimo
fa prova. mag : 74 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA ' bile, e priva
interamente ed ignara di quel profondo ed in definibil desio , di quel levarsi
dell'animo oltre ai confini del finito e del presente in una sfera più pura e
beata che pur cosi spesso accade trovar nella nostra. La qual dif ferenza
dell'araba dalla nostra letteratura trova una giu stificazione a priori nel
clima , stantechè , secondo l'Ajello , un clima nordico o temperato farà le
donne più caste e restie , quindi più stimate e libere , e l'amore più disip
teressato e gentile che sensuale ed ardente , ed esprimente anzi il grido e il
lamento d'un principal bisogno del cuore che un corporale appetito ; dovechè
sotto meridionale e caldissimo cielo , gli uomini poligami ed , invece di dolci
e sole compagne , chiuse le donne e soggette, l'amore non rivestirà la stessa
fisonomia . 2.° Essere il fatto di cui è parola della natura di quelli che non
si possono comunicare da un popolo all'altro , nè procedere da altro che da
intrin seca e spontanea cagione. E ciò per non essere l'amore cantato nel medio
evo artifizioso o bugiardo , m a sì bene profondamente sentito e spontaneo , e
gli usi galanti e c a vallereschi ingenerati e tenuti da universali bisogni e
da affetti veraci e potenti tanto che vediamo il culto per le donne penetrato
sino nelle leggi barbare , le quali provveg gono sempre a certi e già provati
bisogni e non a quelli eziandio che si possono temere . Oltrechè le usanze d'un
p o polo possono derivare da'suoibisogni ed affetti, non questi da quelle,
massime in popoli giovani e rozzi e però di altera e disdegnosa natura ,
ne'quali le usanze non sono mai recate e tenute da capriccioso impero di moda o
da servile imitazion degli stranieri, come in più colti e vanitosi tempi interviene,
ma siderivanodaalcunbisognooopinionicheessiabbiano. 3.° Perchè la storia mostra
esser la gaia scienza passata in
Ispagna,sededegliArabi-mori,dallaProvenza,checo storo (dappoichè non se ne
trova traccia in Oriente, ne le sociali condizioni il concedevano ) ricevettero
dai C r i stiani le costumanze cavalleresche , e queste , invece di a p parir
prima in Ispagna,poi nella Francia, in Alemagna e finalmente nella remota e
divisa Inghilterra , vedonsi apparir prima in Provenza e in Alemagna e in Inghilterra
ed assai più tardi nella Spagna che,per la vicinanza dei Mori, avrebbe dovuto
prima averle. Perchè infine, se i DELLA VOLGAR LETTERATURA. 75
costumidei Mori non furono indarno pei lor vicini, 'non è da credere che grandi
eprofondi ne fossero stati gli ef fetti a cagione delle sterminatrici guerre
religiose, e della differenza di culto e di lingua. Al che si aggiunga esser
tale la diversità del genio orientale da quel d'Occidente che quel che di arabo
si trovi nelle spagnuole scritture e dicristiano nelle arabe si possa
agevolmente scorgere. Escluse in questo modo le due prime opinioniche al
Cristianesimo ed agli Arabi riferiscono la muliebrità della occidental
letteratura , viene l'autore a fermar la sua opi nione , la quale si compone in
parte dalla unione delle ultime due", di quella , cioè che ai Germani
attribuisce il nuovo culto che ebber le donne , citando Tacito e gli altri
romani storici che di loro scrissero ; e dell'altra che , negandolo , il fa
singolarmente nascere dalla vita feudale ; opinioni che , cosi sole e divise
come sono, paiono al l'autore assai ristrettive ed anguste , e per giunta
inelte a spiegar tutto il fatto. Il che , volendosi fare, soggiunge con assai
d'accorgimento , è mestieri cercarne la cagione pro prio in grembo e nell'indole
dell'età che lo accolse e m o strò ; e però bisogna con ogni studio possibile e
partita mente'esaminar quello che costituisce il medio evo , in somma quei
generalissimi fatti che mutaron la faccia di Europa,e rovesciando ilRomano
Imperio,nascerfecero é detter forma e colore alle nuove società d'Occidente .
>> Or principali elementi della nuova civiltà essere il roma no'; il
cristiano e il germanico , nè trovandosi il nuovo amor del medioevo nel primo
elemento , nè derivar po tendo dal secondo , resta che in ispecie almeno e
sopra tutto dall'ultimo derivi. La venuta infatti d'un giovine é poetico fatto
non potersi altramente spiegare che per mezzo di coloro che ristorarono la
nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro , e ci affrettarono per la
via di progresso e di moral perfezione. E poichè i Germani stanziatisi nelle
terre romane eran venuti sotto il doppio ed efficace potere della civiltà
antica e della religioncrie stiana , doversi perciò esaminar questo fatto e
questo scon tro , considerando i Germani 1.o come genti uscite di tra
1 montana : 2.o come uomini barbari , pur non selvaggi : 3.° come
bellicosissimi : 4.° come stanziatisi isolati e di visi per le campagne , indi
costituitisi in feudale ordina mento : 5.0 come popoli giovani e vigorosi
accostati al potere di una civiltà antica e grande e d’una religione mansueta e
gentile. Questo quintuplice modo di copșide rare i Germani , bello senza dubbio
e fecondo d'impor tanti applicazioni , produce la suddivisione di questa se
conda parte del libro dell'Ajello in cinque capitoletti che riassunti
contengono: 1.° Ilfreddo e duro clima , sepa rando e concentrando le famiglie ,
e impedendo la poli gamia , dar naturalmente preminenza e crescer stima alle
donne ; e facendole più schive e pudiche , e di maggior verginal compostezza e
matronal decoro dotate , render p e r ciò l'amore assai più puro e devoto ,
anzi quasi estatico e contemplativo. Con che l'autore non intende dire essere
di questa natura stato l'amore delle rozze e selvatiche genti venute sul
territorio romano , ma solo che in esse, come abitanti di settentrionali
contrade,esser ne dovea la natural disposizione e quasi il germe, il quale ,
ingenti litisi gli animi , n o n potea rimanersi luogamente ascoso, ed
infecondo. 2.° Essere i Germani venuti in Occidente genti barbare si m a non
già selvagge e , per lo contatto col Cristianesimo e la romana civiltà, nel
secolo undeci mo pervenute a quel giovine stato di coltura che è il primo uscir
della barbarie e che eroico o poetico si chia merebbe , in cui l'amore ha più
generale e grande effi cacia , a differenza dei tempi selvaggi ove la sola
parte brutale e sensibile predomina , e degl'inciviliti ne'quali la civiltà ,
aguzzando la facoltà riflessiva e scolorando l'im maginazione , toglie ogni
prestigio e possanza all'amore. 3.o Essere genti bellicosissime , presso le
quali sogliono tenersi in molto pregio le donne ; la qual cosa pruova l'autore
con l'esaminare in che mai psicologicamente con sista l'amore, e mostrando ch'è
ilcompimento dell'umana natura ; che perciò congiunge proprietà opposte , m a
leo gandole armonicamente ; che tutte le qualità virili pos sonsi ridurrre alla
fortezza , le femminili alla debolezza ; e che in conseguenza chi daddovero è
uomo ed ha in se uso e coscienza di moral fortezza , più inclinar deve ad
76 CONSIDERAZIONI SULLA MOLIEBRITA' DELLA VOLGAR LETTERATUR A. 77
amare , e a stringersi allato il timido e debil sesso ; tap topiù che i forti
son più magnanimi e di più aperto e gen tilcuore,eperòpiùproclivi all'amore.Che,natalaca
valleria , questa alla sua volta avere assai conferito a cre scere stima
edonore alle donne, le quali la storia stessa, in conferma di queste teoriche
,mostra stimate più in Isparta che nelle altre parti di Grecia , ed in Italia
più tra gl'indo mabili Sanniti ed i bellicosi Romani che altrove. 4.° A g
giugnersi a ciò la feudalità la quale , per lasciar spesso alle donne e fino in
seno alla domestica vita un alto e quasi so vrano posto, dovette grandemente
aiutare il loro svolgimento morale , e perciò di molto conferire a farle
generalmente v e nire in considerazione ed opore , non già come causa unica ,
non essendo nè cosi generale nè efficace di tanto che possa pressochè sola
bastare a rendere ragione del fatto. Nel quinto capitolo finalmente , annodando
tutte le sparse fila del suo lavoro , ecco,coine l'autore formola la sua
opinione , la quale , per essere stata assai ben rias sunta da lui stesso
nell'indicata risposta al Gatti, mi per metterò qui trascriverla. » lo stimo ,
egli dice , che nel giovanile elemento della società di quel t e m p o , così
per la natural disposizione che ne recarono i vincitori per effetto dello stato
eroico a cui dopo la conquista per vennero, dell'indole forte e guerresca che
maggiormente si svolse tra noi , e della vita feudale nata dalla conquista,
fosse il fomite , il germe, e un'inchinevolezza grande ad amare e a stimar
molto le femmine. D'altra parte , nel Cristianesimo e nella civiltà romana era
1.o un pensiero é un principio opposto ; 2.° molta gentilezza e moral col tura.
Il pensiero e il principio opposto non avea potere di contraddire a quella
gagliarda e natural disposizione di giovane società : conciossiache , quanto
all'elemento r o m a no , per esser vecchio e stanco , eoltracciò in alcun modo
corretto e purificato dalla religion cristiana , se non era in esso l'amor puro
e devoto,neppure era l'amor bru tale e la disistima delle età antiche e pagane
; e quanto al Cristianesimo , sanno i miei leggitori quanto poco in quella
sorta di tempi valgan gl'insegnamenti , e le caute e fredde ragioni in mezzo al
grido e alla forza di caldi e giovani affetti , sempre più avvalorati da tante
cagio che 78 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA ' ni,e
poidallapresaepiaciutausanza.Rimaneanell'ele mento romano e nel cristiano la
gentilezza e la moral col tura ; e perocchè queste non contraddicevapo, alla
detta natural propensione , anzi , ingentilendo gli animi e i m o di ,
aiutavanla e snodavano , furono subito accolte da quelle genti rozze ; chè è
nota la spontanea proclività nostra al vero ed al bello, massime quando paion
nuovi ed ignoti. In s o m m a , a dirla breve , ciò che nel Cristianesimo e
nella civiltà romana era contrario all'amore eccessivo e devo to , fu da
giovine e gagliarda forza vinto e depresso ;e ciò che non lo impediva e vietava
, m a aiutava e svol geva , fu spontaneamente accolto é voluto. Questa parte io
fo all'elemento romano e al cristiano; nė mi spiace rebbe di farla anche agli
Arabi in alcuna mapiera , pur chè in sostanza mi sia conceduto ch'eglino ,
ingentilendo inostri,aiutarono ilfatto,nongiàcomunicandoneilger me , o dandolo
già bello e formato ,che è la sola cosa da me contraddetta.» E più sopra lo
stesso Ajello dice « Feci vedere che il fatto che io m'ingegdava di spiegare
,mostrava chiaro uno scontro di nuovo e di antico ,di gioventù e dim a turità e
quasi una doppia e biforme natura : e che però dovea esser nato da opposti e
contrari elementi , o dallo scontro e fusione che io dissi del mondo romano e
cri stiano col barbáro'o germanico . Difatto , quanto alla parte giovanile ,
primitiva e poetica , in Achille è quello a p punto che è nel Tancredi del
Tasso ; v'è tutto il verde è la rude e virginal gagliardia di un giovine mondo.
Se da Tancredi è diverso , mancagli il :sentir delicato e gentile , e quella
fina cortesia , e quella sociale e m o ral raffinatezza'; mancagli insomma
l'elemento romano e'l cristiano che soli di tutto questo potevano esser ca g i
o n e . E d i o n e l l i b r o il c o n f e r m a i c o l l a s t o r i a , m
o s t r a n d o : 1.o che se ci ha luogo in Occidente , dove con quasi pari
forza si scontrarono l'elemento romano e il germanico , questo luogo è il
mezzodi della Francia , vero anello e temperamento fra la preminenza romana
d'Italia e il si gooreggiante spirito franco del settentrione ; e che quivi
udironsi i primi canti d'amore , quivi la cavalleria prima apparve : 2.o che a
tutti gli altri grandi ed universali DELLA VOLGAR LETTERATURA. 79
i Germani , o certo tanto inferiore a quello delle nostre genti che ne
soffrirono l'invasione fatti di quella età è comune il doppio e biforme
aspetto del nostro , e quanto alle lettere tolsi ad esempio le cro nache e il
poema di Dante , provando in tal modo che questa è la propria rappresentativa
sembianza del medio evo , e che però è necessario che ogni grave e universale
fatto dei mezzi tempi abbia la stessa impronta e natura . Ecco , se non andiamo
errati , la esposizione fedele delle cose dall' Ajello discorse con uno stile ,
del quale non potrò certamente essere io quello che porterà giudi zio ; m a che
alla universalità dei leggitori ha lasciato d e siderare concisione maggiore, e
minori proposte e promesse, massime in un libro , comunque di molta sostanza ,
picciola fare che si vcol dal dei nostri , nacque e vive sotto lo stesso Sole
naturalmente all' astratto , costretti , in non dovrà tenermi , che o pullo
esso mole pur sempre. Volendo poi dir qualche cosa della questione brevi
osservazioni sul merito alcune l'Ajello esercitato sulla nostra letteratura da
quei lurchi barbari, i quali mi pesano sull'anima peggio , nè mi par vero ai
verso la terra ladizione da loro tanto beneficio. E primamente che , per amor
belli ridenti Tedeschi natale , si piacciono gli antichi costumi di che i poeti
fan sempre descrivercene l'aurea semplicità di tutta itempi antenati sia venuta
pretensione la riforma rimotissimi, condonando che dai loro rozzi e feroci ad
essi la strana costumi; non posso comportarmi nellostessomodo con chi , la Dio
mercè di Virgilio e diDante.Inclinati , mi permetterò contro il potere
anzitratto d'una m a che siavi chi possa riconoscere , perdonando non mai
riprovevole i primi che irradiò la cuna difetto di campo , a vagare tra le
nuvole , non è maraviglia migliore si sforzino dipingerci vaghi colori.Chiunque
esser preoccupato che di quella egualmente riguarda il presente lavoro alla
donna , non temerò di affermare , il rispetto , cioè zialmente mostravasi
presso i Germani , il loro tempo non si trova nella stessa posizione che antico
adorno di tanti . E,per non parte sola de'costumi trat che più spe di
da non potersi affatto indicare quale aiuto o incitamento avesse potuto
riceverne. Già ormai tutti convengono a non prestar moltissima fede
all'opuscoletto sui costumi dei Germani, che Tacito si piacque comporre mosso
da profonda indegnazione per i pervertiti costumi de'suoi concittadini. Le
memorie dell'antica Roma sono sempre presenti al pensiero di questo venerando
scrittore , che , trasportandole là dove crede trovare ancora energia,comunque
selvaggia, di vita e mancanza di mollezza e di servitù , sperava puter far
vergognare i suoi compatriotti della perdita di quelle virtù cheu n tempo
formarono la loro gloria e potenza , ed eran passate ad abbellire la vita di u
n popolo ta nto ad essi per intellettual coltura inferiore. O che iom'iną ganno
, o certo quanto di buono attribuisce Tacito, ai Germani s'appartiene ai primi
tempi della romana virtù. Dimostrarlo importerebbe oltrepassare ilimitidel
presente articolo , nè per fermo varrebbe molto alla soluzione della questionecheho
peroratralemani.Pure,ammessoche i Germani pensassero essere nelle donne qualche
divinità re e provvedenza e che tenessero conto de loro consigli e sponsi , non
saprei facilmente comprendere come possa ciò aver contribuito, per quanto
sivoglia menoma parte, a quello spiritualismo d'amore che nel medio evo ebbe
vita. Quella stessa opinione che Tacito attribuisce aiGer mani la storia ha
segnalato ne'selvaggi dell'America e n e gli antichi Galli e nei Romani stessi,
presso i quali le Sibille e le maghe e le facitrici di sortilegi, femine tulle
e credute inspirate , dimostrano la generalità della stessa credenza figlia,
come par sia chiaro,del Paganesimo.Ne questa credenza stette meno in compagnia
d'uno amor tutto materiale , anzi presso di alcuni popoli colla disistima delle
donne , come massimamente presso i Germani ,.i quali , staudo allo stesso
testimonio di Tacito , in nes suna considerazione civile le aveano . M a di
questo così lontano ed Oscuro tempo sarebbe inutile cosa occupar ci, potendo gli
stessi Germani essere considerati più da vicino , quando , cioè , si son fatli
vedere in mezzo di noi , fuori delle loro selve natie : tanto più che lo stesso
Ajello conviene esser quell'asserzione priva d'ogni psico logico e scientifico
fondamento, nè bastare fermarsi a' 80 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA'
1 soli Germani , ma esser necessario venirli seguitando noi
conquistati paesi , e vedere e notare come vi simutino e sfigurino per il poter
della romana civiltà ed anche della religione che vi trovano già stabilita e
potente. Nella qual trattazione progredendo ,l’Ajello ba poi,come bo disopra
fatto vedere , lasciato una parte molto importante ai G e r mani sul mutato
aspetto d'amore, poggiandosi a ragioni le quali non mi sembrano tali da non
poter meritare ós servazione alcuna in contrario.Esse infatti si presentano a
prima vista sfornite di qualsiasi appoggio storico , e ri vestono un carattere
a priori , di che l'autore stesso pare si compiaccia e faccia pompa a disegno.
Il suolo romano , egli dice , era occupato da genti venute di tramontana ,
barbare non selvagge , bellicosissime e giovini accostate al potere d'una
civiltà antica e gran de , e d'una religione mansueta e gentile , stanziatesi
iso late e divise per le campagne e poi costituitesi in feudale ordinamento. Or
se in mezzo ad esse poste in tali con dizioni muta sembianza l'amore e di
passionato e caldo si fa più puro e quasi contemplativo , fa d'uopo ad esse
genti in quel m o d o considerate recarne la cagione . C o n ciossiacchè gli
uomini del settentrione, ove ledonne sono naturalmente più che altrove libere e
stimate , amano d'uno amore più modesto e divoto , benchè non irrequieto e tor
bido ,,e giunti sul territorio nostro si trovarono non solo in uno stato di
eroismo in cui l'amore ha più generale e grande efficacia , m a forti
abbastanza di tutta quella fortezza che è madre di generosità e magnanimità,
produttrici esse sole di vero e nobile amore. Queste ragioni, comunque con
tanto ingegno e forza di ragionamento dall'autore discorse , non m i sembrano
gran fatto ammessibili. Ed in vero parmi che dopo aver con inolta giustezza
l'autore osservato non doversi pene trare nelle selve dei Germani per ispiegare
i costumi che essi mostrarono in tempi a noi più vicini , siasi poi di questa
verità dimenticato nel corso del suo ragionamen to. Or se la nuova letteratura
cominciò dopo più secoli da che i barbari si erano stanziati sul nostro
territorio dopo che l'invasione era da lunga pezza compiuta , ed il medio evo
si andava già luminosamente svolgeodo , non so DELLA VOLGAR LETTERATURA.
81 6 che abbiano a fare con noi gli usi, anche dati per veri, della
Scandinavia o della Pannonia , le abitudini di po poli nomadi e feroci con
quelle di società costituite e ci vili. Già molto tempo prima che venissero a
stabilirsi tra di noi , i barbari aveano subito tutto il potere della nostra
civiltà , e quando poi lo stabilimento fu fermato e cessò l'opera delle arsioni
e delle rapine , essa li dominò c o m piutamente e di quel che era proprio
dell'antica vita nulla potevano più ritenere , nè ritennero. Che si dirà dopo
più secoli passati in tale nuovo e tutto opposto ordinamento e condizione di
vivere , il quale delle loro selve restar non dovea nemmeno la reminiscenza ?
So che l'Ajello vorrebbe solo gli si concedesse essere ne'Barbari la natural
dispo sizione e quasi il germe il quale , collo ingentilirsi degli animi ,
produsse poi il suo frutto. Ma per i primi venuti quella disposizione , anche
concedendosi , dovea restare bene annullata e sparire nel caldo dei
combattimenti e delle stragi e d'una conquista assai fresca. I loro figli
doveano nascere ,e naquero infatti , romani , nè quindi poteva passare in loro
una disposizione tutta propria dello stato selvaggio di cui non aveano
cognizione , massimamente che quel rispetto della donna non era in essi la
conse guenza del sagro principio dell'uguaglianza dei dritti trai due sessi , e
che , non avendo una tradizione a custodi re , poco dovea restare o nulla si
conservò tra di loro delle antiche memorie. 82 CONSIDERAZIONI SCLLA
MULIEBRITA' Nella quale opinione sempre più mi vado confermando quando
contemplo più da vicino icostumi di colesta gente . Chi non conosce la poca
pudicizia di Basina madre di Clodoveo , di Fredegonda moglie di Chilperico, e
di B r u nebaut regina di Austrasia ? « Basterebbero , dice il chia rissimo e
dotto Cesare Balbo , i fatti di Rosmunda e di Romilda amostrare
lanativaferociade'Longobardi,come quelli di Gundeberga e di Teodora ad
accennare tal b a r barie alquanto ingentilita e dalla principiante cavalleria
e forse anche dal loro conversare cogľ Italiani » (1). non sa che nel più
antico poema dell'Allemagna , quello dei Niebelungen,» l'amore vi prenda poca
parte nelle azio (1) Vita di Dante. (1). Chị DELLA VOLGAR
LETTERATURA. 83 ni , i guerrieri s'interessino a passioni diverse dalla g
a lanteria , le femine poco compariscono , non sono l'og getto di culto veruno
e gli uomini dalla unione con loro non sono nè inciviliti, nè resi più mansueti
» , che gli antichi Germani vi compariscono furbisfrontatamente , mancatori di
fede e bugiardi ? Chi sa in s o m m a quanto erano pessimi i costumi di queste
genti ,o che si consi derino sul loro suolo , o nel primo contatto con noi ,
potrà dire se mai poteva essere in loro disposizione alcuna al culto della
donna , ed ad uno spirituale e puro amore . Al qual proposito mi si permetta
appoggiarmi all'autorità, di uno storico riputato di nazione Tedesca , e pero
poco sospetto , il quale , cominciando dal riconoscere che la sola
trasmigrazione operi un rivolgimento in tutta la maniera di essere , rompe
quasi tutti i legami della vita domestica, nè a riparare questi mali offre il m
e n o m o rimedio , onde l'anarchia ed il mal costume si dilatino per ogni dove
e da per tutto recano il disordine e la devastazione ; finisce col mostrare lo
sfrenato e terribile disordine in che , quan do posero stanza in Italia , si
trovarono i Longobardi , miscuglio di generazioni racimolate da tutte le parti
del mondo, popolo di rotti costumi e stato però di pernicioso impero sui suoi
disgraziati vicini (1). E questo che il Leo dice dei Longobardi dicasi pure dei
Franchi , la discesa de'quali in Italia fu per questo bel paese, come sempre,
la più terribile sventura che la provvidenza nell'abisso del suo consiglio gli
abbia giammai preparato. Dopo le quali osservazionituttenon
sipotrànonconchiuderechesemai in quelle genti originariamente germane si mostrò
qual che cosa che sentisse di rispetto alla donna o di spiritua- lismo d'amore
, fu perchè la nostra civiltà le investi c o m piutamente , perchè
sispogliarono del primo uomo , e non più Germani,ma
RomanioItalianituttidiventarono.Chè lo spiritualismo non si alimenta nell'amore
se non collo sviluppo dell'intelligenza , e spirituali,e mistici veramente non
furono nel medio evo che Petrarca e Dante , i più grandi uomini di quei tempi e
de'posteriori. Si vegga dunque se in quei petti di bronzo dei barbari poteva
mai (1) Leo , Storia d'Italia. conservarsi nascosa e risplender poi
una fiamma che sola a cor gentile si apprende , e da rozzi e disleali uomini
maravigliosamente rifugge. Posso però dispensarmi dal con futare quella
generosità e magnanimità che loro l'Ajello attribuisce , poichè se mai possono
dirsi quei barbari forti di quella specie di fortezza che è di generosi sentimenti
produttrice, lascioal lettore pensarlo. E qui parmi il luogo di far notare il
poco conto te nuto dall' Ajello degli effetti prodotti sui barbari dalle loro
trasmigrazioni , errore essenziale , perchè la società ger mana , come è stato
ben detto , fu modificata , spatura ta , disciolta dall'invasione , ed il suo
organizzamento so ciale peri come quello dei popoli invasi , gli uni e gli
altri non mettendone in comune che gli avanzi. Oltrechè ( colla profondità sua
solita osserva ilTroya ) « la grande trasmigrazione di genti dovè
necessariamente nel corso di più secoli trasmutare la faccia ed i parlari della
Germania di Tacito. Negli ultimi anni di Attila gli ottimati degli Unni eran
divenuti Romani pel lusso , e l'intera nazione in Europa godeva di stabili sedi
che le facevano aver men caro il suo antico viver da pomadi . . . . Le antiche
razze celtiche della Pannonia si eran confuse da lunga stagione coi Romani , e
quella provincia feconda sempre d'impe ralori avea fin dai tempi di Diocleziano
pressochè rimu tata la popolazione con le moltitudini sempre crescenti de'nuovi
barbari sopravvenutivi. La lingua tuttavia e le discipline romane prevalsero
per molte età nella Pannonia , e quando i Longobardi vi entrarono , già molti
discen depti di quei nuovi barbari eran divenuti romani. Pur non credo che gli
Unni ed alcuni altripopoli , de'quali ho toccato fin qui, avessero perduto
l'interaloro natura dopo Attila, sebbene abitassero nell'imperio. Ma il tempo
ed il vivere sul suolo romano cancellarono finalmente anche in tali barbari
l'impronta della loro indole natia » (1). (1) Storia d'Italia. Uno dei più
profondi e coscienziosi layori usciti alla luce in questo secolo. 84
CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' Dopo le quali osservazioni non riusciranno
molto ef ficaci tutte le ragioni desunte dal clima c h e l'Ajello p r o duce in
sostegno della sua opinione. Volere infatti assu DELLA VOLGAR
LETTERATURA. 85 mere che nei paesi meridionali sieno più bramose e sfac ciate
le donne , e sotto freddo cielo più schive e pudiche, non mi sembra possa
essere appoggiato dai fatti. Chè l'ot timo autore non potrebbe certo asserire
più delle fioren tine e milanesi donne essere schive e,pudiche le tede sche ,
più delle napolitane o greche giovinette le donne di Francia , o d'Inghilterra
; la pudicizia non dipendendo totalmente dal clima , m a nella massima parte
dall'edu cazione , dal principio morale e buon senso più o meno sviluppato di
ciascheduna nazione. Naturalmente le genti di un clima meridionale sono dotate
di una sensibilità m a g giore di quelle che vivono a settentrione , m a la
posizione de'due sessi è relativamente uguale nelle due contrade. Se le donne
del nord sono poco sensibili, per far sentire i maschi bisogna scorticarli ;
quindi la diversità del clima importerà a spiegare la maggiore o minore ardenza
del l'amore ; ma in quanto a quel misticismo o , mi si la sci pur dire ,
platonismo dell'amore , pon saprei ben v e dere in che ilclima vi possa
contribuire , essendo una cosa tanto poco del corpo che tutta nella regione dello
spirito risiede. È in questo senso che io trovo giustissima l'interrogazione
del Gatti.- Come può un fatto che ha per condizione naturale le nebbie ed i
ghiacci del nord trasportarsi e fruttificare ugualmente sotto il sole del m e z
zogiorno ? Alla quale interrogazione non è certo adequata risposta dire che il
fatto non era indigeno dei Germani, m a che questi ne portarono con loro il
germe , il quale sbucciò poi per opera dello scontro e della fusione dei vin
citori coi vinti. Questo germe portato da un clima lon tano e freddo in uno
meridionale, e che aspetta quisilen ziosamente per più secoli per poi
finalmente , cessati gli urti dei barbaricon uomini civili e compiuta la
fusione, uscir fuori come la ranocchia dopo la tempesta , io m'inganno , o è troppo
malagevole cosa a comprendersi. Nè posso ancora convenire coll’Ajello che
il freddo e duro clima faccia di sua natura libere e più stimate le donne ,
quindi più divoto e rimesso l'amore , parendomi la storiacontraddir del pari a
tale asserzione tanto che non mi sarebbe difficile mostrare la miglior
condizione delle donde essere stata in ogni tempo in ragione inversa
della (1)Non inviderunt,èlabellaespressionediLivio,laudessuasmu
lieribus viri romani , adeo sine obtrectatione gloriae alienue vivebatur ;
monumento quoque quod esset, tcmptum Fortunue muliebri aedificatum dedicatumque
est. 86 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' freddezza del clima . E per non
dilungarmi di troppo , io non so se mi si possa negare l'importanza da esse
olte nuta presso il popolo Ebreo , e la continua bella mostra che vi fanno , e
se possano mai obbliarsi ibei caratteri di Debora e di Giuditta , della
profetessa Olda , di Rut , di Sara , di Rachele , della moglie di Tobia é
d'innumere voli altre , e la venerazione di che gli Ebrei le circonda vano , ed
il purissimo amore di che furono l'obbietto , e tutta finalmente la
legislazione Ebrea che in tanta con siderazione , a preferenza delle altre
genti,le avea. Chiaro argomento che n o n le nebbie ed i ghiacci , non la fero
cia brutale delle orde vaganti producono stima alle donne e danno purità
all'amore , cose poste naturalmente nella ragion diretta dello sviluppo del
pensiero e dell'incivili mento , e della migliore organizzazione individuale
d'un po polo. Ecco perchè la donna fu sempre in Italia più che altrove , avuta
in pregio e stimata. Senza parlare della scuola antica italiana o pitagorica ,
che dir si voglia , e degli antichissimi costumi Etruschi, presso i quali le
donne aveano molta importanza , Enea fonda una cillà e dal nome disuamoglie
lachiama Lavinia.SonledonneSabineche s'interpongono frai combattimenti del
Capitolino e riducono gl'inferociti guerrieri a concordia , ed il nome di esse
è imposto alle curie di R o m a . Fra il duello degli Orazii e de'Curiazii
comparisce lagrimosa la sorella de'primi, e b a sta la morte di lei a
sospendere il gaudio pubblico della città. In tutti gl'intrighisuccessivi del
regno (come sem pre in Italia )le donne figurano. La libertà di Roma è
consolidata col sangue di Lucrezia , come più tardicon quello di Virginia , e
l'ardire e magnanimità di Clelia viene eternato con una statua equestre.
Veturia respinge le armi parricide di Coriolano, è cosi tanti e tanti altri
racconti che conservatici dal canto delle tradizioni mostra no potentemente la
verità di ciò che assumemmo di sopra. Fu a Roma innalzato un tempio alla
Fortuna muliebre (1), e fu dato il primo esempio di onori pubblici alle donne,
1 DELLA VOLGAR LETTERATURA. 87 le quali vi sentivano in tanto alto
grado la propria dignità e tanto vi aveano d'importanza che spesso si dovettero
le pubbliche assemblee occupar di loro che vi si presentavano con petizioni e
di tumulti l'empirono . In R o m a aveano le donne il passo per le vie , non si
poteva fare o dir cosa disonesta in loro presenza , i giudici capitali non
potevano citarle e coloro che le citavano in giudizio non potevano toccarle ,
ut , dice bellamente Valerio Massimo , inviolata manus alienae tactu stola
relinqueretur. Chi non conosce le sorprendenti prerogative delle Vestali ? Camminavano
pre cedute da u n littore ; incontrandosi con loro i consoli ed i pretori
abbassavano , in segno di riverenza , i fasci; a n davano in cocchio anche
quando gli altri per legge nol potevano ; avevano distinto sedile negli
spettacoli ; la loro dichiarazione in giudizio avea forza di giuramento , ed u
n reo di morte , che avea la fortuna d'incontrarsi con lo ro , rimaneva
assoluto. Tanto la verginità era in onore ! Ecco perchè quelle che eransi
rimase contente d'un sol matrimonio , corona pudicitiae honorabantur , e Spurio
C a r vilio, comunque per tolerabile cagione , dice Valerio M a s simo ,
avesseripudiato sua moglie , non fu meno segnato di reprensione come colui che
avea la fede coniugale al desiderio di figli posposta. Il matrimonio era la comunione
di tutt'i dritti divini ed umani , ed era veramente bella l'istituzione della D
e a Viriplaca , nel cui tempio i coniugi in discordia concorrevano. Dea , dice
lo stesso autore , coși chiamata perchè placava i mariti , degna veramente di
essere onorata e riverita anzi adorala quanto altro I d dio , utpote
quotidianae ac domesticae pacis custos , in pari iugo charitatis ipsa sui
appellatione virorum maiestati debi tum ac feminis reddens honorem . Tralascio
di ricordare co m e usciti dell'infanzia i fanciulli eran dati in educazione ad
una donna rispettabile del parentado , e come sino alla età di quattordici anni
aveano essi comuni colle fanciulle gli studi della puerizia , e la esțesa
coltura delle donne romane , massime negli ultimi tempi , come di cosa ormai
troppo vulgare. Si che possiam dire col Michelet che par v tendo
pressogl'Indianidall'amormistico,l'idealedella o donna riveste presso i Germani
i tratti d'una verginità » selvaggia e d ' u n a forza gigantesca , presso i
Greci quelli » della grazia e della scaltrezza , per giungere
presso i R o v mani alla più alta moralità pagana , alla dignità virgi ne nale
e coniugale (1). Ma , per venire a tempi più vicini » in mezzo allo universal
degradamento , dice uno storico, ilcui nome sarà pronunziato sempre con
riverenza, le dame romane non aveado perduto l'avvenenza e l'in gegno delle
antiche matrone ,e d erano perciò assai p o tenti. Anzi non ebber mai le donne
tanto credito presso alcun governo , quanto n'ebbero le romane nel decimo
secolo . Sarebbesi detto che la bellezza aveasi usurpato i drittidell'impero »E
qualèilpaese,esclamailLeo,ol tre l'Italia , dove la bellezza delle donne non
dirò che accese, ma solafecerisolvereipopoliallaguerra?dovele donne hanno più
lungo tempo dominato, non pur ne'negozi temporali , m a in quelli che
appartengono alla coscienza ? » Nè questa tradizione è stata,o potràessermai
interrotta, chè vive e spira ancora nelle donne d'Italia tutto ilsor riso di
questo cielo d'incanto , tutta la maestosa dignità di chi sentesi nato a grandi
cose , ed esse inspireranno per sempre l'ingegno dei poeti e degli artisti,e
saran nostra guida e consiglio nel periglioso progresso della vita. Esclusa
cosi qualunque specie di potere dei Germani sulla mutata sembianza di amore ,
penso doversi dire al (1) Histoire Romaine. Cito con tanto più di piacere
questo scrittore in quanto che egli è uno de'pochissimi serittori di Francia i
quali dotati di molto ingeguo e buon gusto si giovano delle cose degl'Italiaui
rendendo loro giustizia. 88 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA ' Si vegga
dopo di ciò se ilfreddoe duro clima renda più stimate e libere le donne , e
quindi rimesso e più di voto l'amore. Al mio modo di vedere, se l'amore può
essere ardente e bramoso senza che perciò abbia nulla di spirituale e di
contemplativo , quest'ultima qualità non può star però senza la prima.Petrarca
e Dante non avreb bero sublimato a tanta spirituale altezza i loro amori se
'amato non avessero ardentissimamente. È la storia di tutti gli amori nel medio
evo. Come dunque il fatto in parola o la muliebrità potea venirci dai freddi
amori dei fred dissimi uomini del nord ? DELLA VOLGAR LETTERATURA.
89 trettanto della feudalità , opinione sostenuta da uno scril tore di Francia
troppo sventuratamente conosciuto , e dal l’Ajello modificata con quel buon
senso a lui proprio , e sull'appoggio di ragioni che a m e sembrano sufficienti
per escluderla del tutto . » N o n solo ( son parole sensalissime dello stesso
Ajello ) perchè a și grande effetto ella è trop po scarsa e lieve cagione , ma
e perchè non è cosi ge nerale , nè efficace di tanto che possa pressocchè sola
b a stare a render ragione del fatto » È di vero ( è lo stesso Ajello che
ripete queste già conosciute ed indubitabili v e rità ) in Italia non è stata
mai o pressocchè nulla , per chè le città conservarono l'antica preminenza
sulle c a m pagne , e gli uomini vissero anzi raccolti nelle prime che divisi e
sparsi per il paese , per non dir che proprio in quelle parti , dove pria
vigorosa ed ardita levò il volo l'italiana poesia , furon tosto i signori o
invogliati o co stretti a lasciar le castella e a venirne ad abitar le città.
Anche in Ispagpa ( per la subita invasione , o per non essere stato m a i quel
paese fuor che in picciola parte s o g getto a Carlomagno )o non furono feudi,
o almeno in quel modo che in Alemagna in Francia e inInghilterra. Eppure non si
potrebbe dire che le donne italiane o spa gpuole fosser molto meno stimate che
le francesi , nè che la poesia in quelle due meridionali contrade mostrasse uno
amor manco devoto e gentile » Ciò posto ,trovo chiaro che non si debba sul
fatto in parola attribuir potere alcuno alla feudalità , conciossiacchè, per
potersi un fatto chia mar legittimamente causa dell'altro, è mestieri che siasi
mostrata trai due una connessione necessaria e continua, e , dove apparisca o
manchi l'uno , l'altro apparisca o manchi delpari. E questi requisiti abbiam
veduto non convenire alla feudalità , perchè non stata in quei luoghi ove la
letteratura ebbe più notevolmente quel che l ' A jello chiama muliebrità . Si
perdoni quindi a chi , con u n m o d o di giudicar tutto francese , crede
spiegare ogni cosa con una causa sola , comunque non apparsa d a d dovero che
sul territorio di Francia , e che , non v e dendo al di là della Senna , cerca
con quella miseria di fatti che gli colpiscono lo sguardo metter fondo a tutto
l'universo. Il buon senso d'un Italiano non poteva m o strarsi
impacciato ugualmente , massime in riguardo alla feudalità , la quale tra noi o
non fu mai , o certo non vi si mantenne che come una eccezione , in guerra
continua col nostro modo di pensare e di sentire, senza importan tanza , senza
metter mai radice nei costumi. ciò che in ogni tempo ha segnalato il
carattere degl'Italiani , o m a g giononall'uomoma aiprincipi,battersinonperun'in
dividuo ma per una idea e che è stata la causa della loro grandezza
intellettuale e debolezza politica. Pure nel viver disgregato e locale dei
barbari con stituiti in feudale ordinamento crede l’Ajello essersi svolte e
rafforzate le domestiche affezioni ed aiutato lo svolgi mento morale delle
femmine , ed aver quindi molto contri buito a dar loro pregio e riverenza. Alla
quale opinione io non posso soscrivermi ,perchè non mi pare che nella vita
isolata dei castelli e di continua guerra possano raf forzarsi le dome stiche
affezioni , e molto meno aquistarvi pregio le donne , ed avere impero
sull'animo d' un signore assoluto e brutale e costretto a trattar continuamente
le armi , nè d'altro bramoso o sciente. Chè in una vita tutta di sospetto e di
disgregazione fisica e morale , la donna lontana dal consorzio delle genti , nè
conosciuta che dal solo feroce obbligato compagno della sua vita, non è altro
d'un fiore che non olezza, o a cui non giungano gli sguardi delle innammorate
giovinette. Ora dicasi se ne'costumi feudali poteva rattrovarsi in uno stato
tale da trarre i caldi sospiri degli amanti e i teneri passionati versi degli
erranti trovatori. Certo la privazione eccita il desiderio e il fa più che mai
bramoso ed irrequieto , m a egli è pur vero che n o n si desidera l'ignoto , e
le donne racchiuse nei feudali castelli erano appunto uno ignoto che non può
desiderarsi. Quindi , se ci ha luogo dove le donne potevano aquistar pregio ,
erano per fermo le città italiane o i c a stelli de'Signori nel modo come
stavano in Italia, 90 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' ne' quali le donne
erano si custodite, ma non sottratte agli sguardi degli amanti. A ciò si
aggiunga l'estrema ruzione dei costumi feudali cor nella lettera tura di quel
tempo le tracce più capaci di fare arrossire la gente ; la violenza e le rapine
che essi concedevano largamente si più a lungo durarono in Germania , e pochis
, che lasciarono DELLA VOLGAR LETTERATURA . 91 simo , come è chiaro
, in Italia. Nè si potrà fare a meno di conchiudere che la feudalità nè per se
stessa , nè in concorrenza di altre cause poteva dar gentilezza all'amore , nė
vi contribui in realtà , perchè l'amore fu veramente gentile e purissimo in
Italia , dove la feudalità non ebbe vita , o almeno fu preminenza della vita
cittadina che p o g giava sopra principi di opposta natura. Oltrechè non do
vrebbe dimenticarsi che il principio della esclusione delle femmine dalla
successione dei loro congiunti,almeno in con correnza coi maschi , fu un
principio tutto feudale e ri messo in vigore tra di noi dai Germani , poichè
già nella legislazione giustinianea era per opera , come par Ed a questo luogo
mi si permetta osservare quanto poco al vero s'appongono coloro i quali
sostengono averci i barbari trasfuso il sentimento della indipendenza perso
nale , e la feudalità aver fatto valere in Europa ildritto della personale
resistenza. Chè non so se quelsentimento si trasfonda mai negl' individui
distruggendoli o rendendoli schiavi , e se ottimo mezzo possa essere la scimitarra
dei barbari per coloro che sventuratamente ne sentivano il peso , ed erano in
quel modo conci che tutti sanno , sostituendo alla maestà dell'imperio la forza
brutale ed il governo ditantipicciolitirannotti.Nè sosequalsentimento e dritto
possa svolgersi in tale sorta di tempi , ne' quali l'uomo era considerato come
proprietà dell'altro uomo, e l'uno dominava sull'altro , non in forza d'idee
comuni ad e n t r a m b i , m a p e r s e s t e s s o e d il s u o c o m p a g
n o , il c a p r i c cio. Certo ove mi si dirà coll'Ajello che i barbari » ri
storaron la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro , che ci fecer
quasi nuovamente bollire e correre per le vene il sangue , che a colpi di aste
e di spade ci scos sero e ci affrettarono per la via del progresso e di moral
perfezione » , è questo un linguaggio che intendo , ma quando si dirà che gli
stessi barbari ci trasfusero il sen timento della indipendenza individuale ,
non mi verrà fatto d'intenderlo ugualmente. Conciossiacchè l'indipendenza non
si sostiene che in forza d'una idea,ed ibarbari non ci portarono alcuna idea
puova. Al che mi pare avere splendidamente supplito il Cristianesimo ed in
particolarità . ro , del Cristianesimo , all'intutto scomparso . sia chia
e 92 CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA', ECC. la Chiesa Romana (1).Fu
questa che sola in quei tempi si oppose al soprastanteimperio della forza bruta
con tutta l'energia della sua gioventù , cheproclamò altamente l'in dipendenza
del pensiero e dell'opinione, e svegliò quindi negli animi quel nobile
sentimento di dignità personale che i barbari avrebbero suffocato chi sa per
quanto tempo e stette in quel mar burrascoso del medio evo come ter ribile e
continua protesta contro le usurpazioni della for za. Fu ne'municipi d'Italia
che il dritto di resistenza si svolse ed, attulito solo per poco tempo ,
primamente ri surse con più forza a vita novella. Cosi è a questa Niobe delle
nazioni che l'umanità dovrà esser grata della sua civiltà presente , a questa
veneranda vestale che non ha cessato mai di vegliare per mantener sempre vivo
il fuo. co sagro dell'incivilimento. ( Sarà continuato ) ( 1 ) E c c o c o m e
u n u o m o d i c u i il n o s t r o p a e s e si o n o r a , L u i g i B l a n
c l ı , s'cspriineva nell'antecedente fascicolo di questo giornale a proposito
dello stabilimento dei Normanni in Inghilterra » Or la conquista e lo stabili
iento dei Normanni inInghilterra , non ostante che ilCristianesimo avea
proclamalo il rispetto dell'uomo indipendentemente dalla sua condizione o dellesuecircostanze
accidentali,ma perchè dotatod'intelligenza,di li bero arbitrio e di
risponsabilità , non tenne conto di questo alto e salutare principio , e
considerò l'uomo vinto come cosa e non come persona ,fatto peresserpossedutoe
nongovernato».DicasilostessodeiFranchi,deiLon gobardi , in riguardo ai quali
l'opera su cennata del dottissimo Troya ha p o r tato una luce immensa. Ogni
buono italiano farà voti che lunga basli li vita a questo nostro concittadino
onde possa menare a fine il suo cosi bene incominciato lavoro.
DELLE VICENDE DELLA STORIA DELLA DIVERSA FORMA CH'ELLA TOGLIE IN
TUTTO IL SUO SVOLGIMENTO Gli uomini prima sentono senz'avvertire ; Primachè
l'io cominci a distinguersi dal non -me e dall'assoluto,e a governare e
correggerelasensibilità,e secondo sua volontà far uso della ragione, ci ha un
tempo ch'egli pressochè ignoto a sè stesso se ne sta avviluppato e come un
ascoso e tacito osservatore dei fatti sensitivi e razionali , che indistinti e
confusi gli si vengon mostrando nella coscienza . Abbagliato e vinto dalla
sensibilità e d o minatodallaragione,egliama,afferma,crede,enon
sadiamare,dicredere,diaffermare:permodo chesi direbbe ch'ei sia tutto passivo,
se in lui non fosse una spontanea attività, certo involontaria, ma ad ognimodo
un'attività , una forza insomma che in sè stessa ha la ra g i o n e e 'l p r i
n c i p i o d e l s u o m o v i m e n t o . M a a q u e s t o p r i m o periodo
della vita intellettuale , secondo che noi dicevamo , un altro succede di
veramente opposta e contraria natura. Perciocchè , svoltasi a poco a poco la
volontà , in che pro priamente è posta la personalità nostra , cominciamo a
scorgere che ci ha alcuna cosa che lecontraddice ,e però che non deriva o
dipende da lei; che infinein mezzo a tanta successione e mutabilità di fenomeni
( che sono i v o lontari e i sensitivi ) ce ne ha di così fatti, che non m u
tan viso come gli altri fanno , che in mezzo a quel m a Ma perchè
siavi riflessione ( e si ponga ben mente a questo, chè molto ce ne gioveremo) è
mestieri che osservando d'una in altra cosa si passi , che prima un lato se ne
consideri , indi un altro , e cosi sempre segui tando ; è mestieri , a dir
breve , della successione degli atli,non sipotendo ben disaminare un
obbietto,senza che gli altri si lascin da un canto ', e si dimentichino al
menoperunmomento.Ilperchètralaspontaneitàela riflessione tra l'altro è questa
differenza , che la prima ha un veder largo , istantaneo e complessivo , e la
seconda un guardar lento, e uno scrutar succedevole e parziale. E peròse
riflettendononabbiamtutteadunaadunacon siderato le parti dell'obbietto , se
giunti non siamo a quel supremo gradodellascienza,chepossonsiallaperfinerag
gruppare e riunire le parti slegate e divise , e ricostruirne quel tutto stato
già scomposto e notomizzato , non cene viene che scienza incompiuta, e
l'erroreeziandio,sete ner vorremo per l'intero quello che sia parte soltanto.E
difatto pressochè sempre avviene che la riflessione tulta quanta in un obbietto
affisandosi, cosi trascurane e di mentica gli altri , che anzi tempo si tiene
in possesso di quella verità di cui non ha contemplato e conosciuto che un solo
e povero lato. Per ilchenellariflessione(eildichiareremoinnanzi più largamente
), come in quella che per isvolgersituta ha bisogno della successione degli aui
e però del tempo, possonsi determinare tre periodi o momenti che sivoglian
dire. Nel primo il me e il non-me e i loro rapporti son
quellichemegliofannoinvitoesolleticoalla nostraal lenzione : nel secondo ,
sviluppatici dal contingente, tro viamo l'assoluta nelle eterneverità che
sonoci rivelate 244 DELLE VICENDE reggiare , a quel continuo trasformarsi
, stan saldi: ed allora finalmente asceverar cominciamo e distinguere dal per
sonale l'impersonale, dal me ilnon-me e un certo che d’im mutabile e costante,
che è quanto dire l'assoluto. E pe rocchè sceverare, distinguere, recar
l'osservazione d'una in altra cosa è propriamente analizzare e un far uso della
riflessione; questo periodo ben è stato dai filosofi ad dimandato di
riflessione e di analisi in contrapposizione del primo che han chiamato della
sintesi e della spontaneità. DELLA STORIA. 245 dalla ragione , e ne
scopriamo la indipendenza dal me e d a l l a n a t u r a : n e l t e r z o f i
n a l m e n t e , c h e è il s u p r e m o g r a d o della scienza , attraverso
a quelle idee assolute traguar diamo l'assoluta Sostanza , di cui quelle non
sono che m a nifestazioniedapparenzealcortoe debolesguardodella specie umana .
Dalle quali cose è manifesto che la rifles sione, come quella che è molto lenta
nelsuo lavoro, e che per l'intera cognizione di un obbietto è necessitata di
guardarne ciascun lato partitamento , terrà un periodo i m mensamente più lungo
della spontaneità , la quale di sua natura ha un'assai corta vita e fuggitiva.
Spontaneitàeriflessione,questidunquesono idue necessari periodi e le
inevitabiliforme del nostro pensiero. Nel primo ci son rivelate dalla ragione ,
comunque al quanto confusamente , tutte le verità prime ; nel secondo
null'altro in sostanza aggiungiamo al giànoto;ma ,per ciocchè entra in giuoco
la riflessione, distinguiamo , a n a lizziamo , scopriamo i rapporti e la
generazion delle cose , e d o v e c h e p r i m a t e n e v a m o il v e r o s
o l t a n t o , p o s c i a a b biamo la scienza: e , per dar alcun che di
sensibile alle espressioni , nella spontaneità la ragione svolgesi come in
linea retta ; nella riflessione ella si rifà su propri passi e conosciutasi
alla perfine, sopra sé stessa si torce e si ri piega. Ancora , se nella vita
spontanea,tutto è congiunto nel pensiero inuna inviolata e vergine unità , ed
avvi vatoevestitodaglisplendidicolorid'una giovaneevi gorosa
immaginativa,cuiquellasminuzzatriceelentadella riflessione non è ancor giunta a
sturbare ed agghiaccia re; se in quel tempo trascuriamo e quasi ignoriamo noi stessi,
e ciecamente credendo alla ragione , ci diamo a tut to che ci paja bello, vero
o buono e ilseguitiamo abban donatamente nel caldo d'un amore
vivissimo;èmanifesto che quello è tempo di poesia , di canto , d'ispirazione ,
come il periodo che gli tien dietro è tempo di fredda e severa analisi, di
riflessione, che è quanto dire di filoso fia : la qual cosa bene fu antiveduta
ed espressa dal Vico quando scrisse che tanto è più robusta la fantasia,quanto
è più debole il raziocinio. Però siccome nel primo periodo per quel potere che
dicemmo dei sensi e della fantasia , non chiediamo e non adoriamo che il bello
, o il bene > e'l vero in tanto che belli; nell'altro ,
fatti più rigidi é spassionati, al solo e nudo vero spezialmente ci inchiniamo,
avvegna che non potessimo mai più intutto distorci dalla bellezza. Del
rimanente ognun intende che questi due pe riodi , spontaneo e riflessivo, non
si limitano in maniera chequandol'unovengaamancare allorasolamente l'altro
cominci. Non ci ha mai in natura un limite e un taglio cosi netto tra le cose
succedentisi , che non ci sia nel digradare un cotal innesto,in cui lo spirar
della pri ma e'lnascer dell'altra vadansi percosidire sfumando, in quel modo
che nell'iride quei vaghi primitivi colori. E sul proposito notisi la bellezza
delluogo del Vico che abbiam voluto mettere innanzi a questo lavoro: nel qua le
oltre che in due righe è detto quel che altri han poi stemperato in tante
parole, scolpitamente è indicato quel l'inpestarsi che dicevamo dei due
periodi. Perciocchè tra l'etàdelsentireodellaspontaneità,equella del riset tere
, u n ' altra è frapposta dell' avvertire perturbato e c o m mosso , che è il
primo apparir della riflessione quando an cora in noi è grande ilpotere dei
sensi e della fantasia. Tutte queste cose (le quali verremo di mano in mano
applicando)volevano esserdettealquantopiùdistesamente e tratto tratto
avvalorate e dimostrate con una esatta e scrupolosa osservazione dei fatti di
coscienza ; ma le son cosìnote oggidi , che sarebbe stata operavana e fastidio
sa ; spezialmente dopo che quello stupendo ingegno del Cousin le ha esposte con
tanta efficacia e chiarezza in più d'una sua
scrittura.Ilperchèabbiamsolovolutotoccarle, per mostrar quali sieno in fatto di
filosofia le nostre opi nioni, per fermare almen brevemente le teoriche da cui
intendiamo dipartirci , e procedere in questo nostro ragio namento il più che
sapevamo ordinati e seguiti. PERIODO SPONTANEO Poemi o storie artistiche. Or
che abbiamo esposto brevemente e fermato quelle teoriche onde avevamo biso gno
, accostandoci e stringendoci al nostro 'subbietto , di ciamo che il primo
apparir della Storia è veramente nel poema , e nata che sia la prosa , nella
storia paramente 246 DELLE VICENDE 1 DELLA STORIA. 247
'ammirazion delle genti quel grandioso spettacolo ch'ei oon sa bastevolmentea m
mirare e magnificare. E qui è da notare che se la Storia nasce poetica , questo
avviene pel subbietto e per l'obbietto, vale a dire che non pure avviene per lo
stato dell'intel ligenza degli scrittori, chein quei primi egiovani tempi
ètutta spontanea e immaginosa, ma eziandio per le con dizioni sociali di quella
età ; essendochè le antiche società , quanto alle moderne , eran semplicissime,
siccome quelle in cui non era contrasto di opposti elementi o principi , ed un
solo , come il teocratico nell' Indie e nell'Egitto , tutti gli altri arsorbiva
e signoreggiava:la qual cosa non è a dire quanto più armoniche e poetiche
lefacesse.Sen zachè sebensièintesochesiaspontaneità,echevalga
quell'involontario e irriflessivo svolgersidel pensiero;è chiaro che l'amore ,
il disinteresse , la gloria , il patriot tismo, e tanti altri affetti
tuttiespansivi,generosi e gran di , sono a quei tempi le cause e gli stimoli e
le occa sioni alla più parte degli avvenimenti , e molti altri v a gamente
adornano e illegiadriscono ; dovechè nei tempi posteriori è un venir su di
tanti piccioli e privati interessi, di tante passioni misere e vili, di tante
cupe frodi e in fami tristizie, che è uno sconforto. Onde assai andrebbe lungi
dal vero chi pensasse che Erodoto , per esempio , o Tucidide , sceverassero e
scartassero dalla narrazione tutti quegli avvenimenti che prosaici lor pareano
e indegni delle loro nobilissime istorie.Di prosaico poco o nulla vera nelle
prime società, e quel poco eziandio facea su quelle vive e immaginose menti dei
Greci assai diversa impressione che sulle nostre non farebbe. Quegli storici
adunque non sceglievano fatti da fatti, come ultimamente è stato scrit to , e
che sarebbe opera da Boileau, ma abbracciavano, od almeno credevano di
abbracciar l'intero, il quale alle lor menti si porgeva tutto fulgidamente
colorato ed in vaga artistica, o vogliam dire che altro più diretto scopo
non abbia che la bellezza. Percosso vivamente l'uomo dai fatti maravigliosi e
grandiche glisuccedonointorno,olicanta e li celebra nel primo impeto della sua
maraviglia , o li narra agli avvenire, non gli soffrendo il cuore che se ne
porti iltempo si care e belle ricordanze, e che abbia a toglier per sempre alle
lodie all > 248 DELLE VICENDE e nobilissima mostra . Se non che
costoro tutti intenti come sono alla bellezza delle loro istorie , saran poco
solleciti dispogliarla verità delle tante favole statevi aggiunte dalla
immaginazione e dall'ignoranza della gente,e per chè il racconto se ne faccia
più maraviglioso e attratti vo, assai ve ne introdurranno. Ed infatti seessile
narra no , nondimeno il più delle volte non mostrano di aggiu starvi fede,
secondo che fanno i nostri creduli e semplici cronisti. Il signor Manna ,
giovane, per dir poco , di acuta e squisita intelligenza e carissimo amico
nostro , scrivendo non ha guari delle vicende , non della Storia moderna ma
della Storia in idea, ha detto che la Cronaca e la Ştoria filosofica son da
tenere idue punti estremi di tutto il suo svolgimento. In questo, a dirla
schietta , non pos siamo affatto affatto accordarci con lui,e poichèquicade in
acconcio, vogliam fare un po'di contrasto a questa sua opinione , e , cel creda
, per solo amore alla verità , edancheperfermarquiunpensiero,chenoncièin
contrato finora di trovar sostenuto da alcuno. Che la Storia filosofica sia
l'ultimo estremo da un c a n t o , il p e n s i a m o e d i c i a m o a n c o r
n o i , n è p o t r e m m o a l tramenti;ma
chelaCronacal'altrosia,questorisoluta mente neghiamo. E qui preghiamo il
lettore che non si è stancato di venirci seguitando , che voglia alquanto cre
scere la sua attenzione ; dappoichè dovendo farci da alto ed in fretta toccar
di molte cose, forse che il postro pen siero non si mostrerà così chiaro come
noi vorremmo ; e temiamo non si annebbi la verità col dir disordinato ed Oscuro
. Comunque le società dei tempi di mezzo , per le in vasioni e leoccupazioni
dei popoligermanici,che per cosi dire le rinnovarono e rinvigorirono , una
sembianza aves sero di freschezza e di gioventù; nompertanto si grande era in
loro la parte antica della caduta società,o vogliam dire l'elemento romano ,
che molto dal vero si scosterebbe chi le stimasse società semplici e primitive
, e quei fattie quella sembianza ch 'ei vi trova , volesse recare a ciasc un
tempo di nascente coltura : per non dire che all'elemento romano e al germanico
si aggiungeva l'ecclesiastico di . Or se noi troviamo la
Cronaca nel Medio Evo , non per questo dobbiam credere ch'ella sia d'ogni tempo
di nascentecoltura,echeaquelmodolaStorianascaosi r i s v e g l i. N o c e r t o
, c h ' e l l a n a s c e p o e t i c a , t u t t o c h è d i s o r dinata e
incolta.Nasce neipoemi delNiebelungen,delCid lla , e ardita mente poetica
; e se quella ci dà epistole,sermoni, eglo ghe , cronicacce ed altra merce cosi
fatta ; questa ci of fre e novelle e poemi senza fine,e versidiamore eprose di
romanzi. DELLA STORIA. 219 niente inferiore, e cresceva la contrapposizione e
la guerra . Questo fece che accanto ad una cotalbarbara selvatichezza stesse
una cortesia e una gentilezza di tempi assai colti e politi; ad un soverchiar
della forza e ad una sfrenatezza senza confine , un'austera virtù ed un'idea
assai svolta della moralità e della giustizia, e al volo amoroso e spontaneo
d'una giovane e bella poesia , lo strisciar lento è vile di tanti scritti
insipidi e senza vita. Di contraddizione c'era
dappertutto,finotraifattieleopinioni;ma inniente meglio si manifesta che nella
letteratura,spezialmente per quell'uso contemporaneo delle due lingue, volgare
e la tina, ch'eran come rappresentanti di due letterature, e che valsero a
meglio tenerle disgiunte e distinte. La la tina non era propriamente che un
po'di luce trasmessa, un povero barlume riflesso da tutto ľ antico splendore,che
non si era potuto interamente spegnere per quel soprav vivere e durar della
Chiesa dopo il misero cader dell' I m perio. Pertanto ell'era tutta vecchia ,
squallida e scompa gnata dalla vita ; e dovea essere : perchè gli scrittori la
tini ( oltre ch'erano frati la più parte, viventisi,a quei giorni assai
ritirati e divisi dal mondo )per quel loroim. maturo e sciocco legger negli
antichi ,ebber della barba rieilmaleenon ilbene;n'ebberoadirbreve,lagrossa
ignoranza senza il verde , la vita , la spontanea vigoria. Dal che provenne
ch'eglino desser poi fuori di quelle smorte eanfibie scritture, barbare a un
tempo,e fredde e scolorate ; le quali solo il Medio Evo poteaci dare , e di cui
per mala ventura ci ha fatto si ricco e grazioso pre sente. Con due lingue adunque
nel Medio evo son due let terature d'indole e di forma differenti: una tutta
smorta, scarna e prosaica , l'altra tutta fresca e bella , La
Cronaca dunque è merce da mezzi tempi, per ciocch'ella nacque dalle condizioni
di quell'età , è veduta in altro tempo d'incivilimento che spunti e ger mogli.
Onde il signor Manna , per la troppafretta forse, si è lasciato andare in un
errore simigliantissimo a quello del Vico , che pensò la Cavalleria potersi
trovare in ogni tempo primitivo , e sconobbe ch'ella fu ingenerața 250
DELLE VICENDE } tra i crociati in Levante, cosicchèvideroco'propri lor oc
edellaTavola Rotonda;ecompostasi'escaltritasilaprosa, nasce in Villehardouined
in Joinville che certo cronache non sono ; od almeno in Guglielmo di Tiro , in
Alberto d'Aix,inRaimondod'Agiles,inRauldiCaen,enegli altri entusiastici e
vivaci storici delle Crociate. E non si dica che tra costoro parecchi eran
frati, e che questo fatto in certo modo contraddica al nostro pensiero ;
dappoichè anzi il riferma assai bene , mostrando che tostochè essi usci ron di
quelle condizioni che dicevamo , altramenti scrissero le istorie loro. Basti
dire che di quei monaci altri furon ehi quei mirabili fatti che ci han narrato
; ed altri furon sospinti in mezzo al mondo dall'improvviso turbinė che a quei
giorni sconvolse l'Europa , e dal vivissimo entusias mo che vi accese tutte le
menti Imperò vivendo eglino meno divisi dalla società , dettero finalmente alle
lor nar razioni quel colore e quella rappresentazion della vita e dei costumi del
tempo , che nelle cronache indarno cercherem mo , e che sarebbero affatto
perduti per noi, se non ci fosser rimase della volgar letteratura tante opere
bene rap presentevoli ed esprimenti, come sono, sebbene alquanto posteriori ,
le novelle del Boccaccio e del Sacchetti, e le istorie del Villani , del
Compagni e del Malespini. enonsi tali cagioni , che son tutte proprie del Medio
Evo , e che in altre età indarno si cercherebbero. Ci mostri il sig. na non
dico una Cronaca Man ,maunsolframmentodiCro naca prima d'Erodoto.Quanto a
noi,fermamente pensiamo che se potessimo avere tutto quel che in Grecia si
scrisse nanzi a costui,non troveremmo ip mente che storiemaravigliosa poetiche
, comechè ordinate con manco d'arte , e quel che è più sicuro , poemi , e canti
guerreschi polari. Veramente ci fa maraviglia e po ingegno del Manna che
quell'avveduto non abbia scorto,che avendo eglidi DELLA STORIA. 251
viso tutto lo svolgimento storico in artistico e filosofico, era necessità che
quanto più si ascendesse ai primi tem pi,piùdipoesiaed'artevisitrovasse.Orcome
può trovarvi egli quelle insipide ed agghiacciate cronache m o nacali? In esse
, se ne togliete l'ignoranza che è vera mente degna d'una cultura bambina ,
ilresto ci sa più d'avanzo dispenta e grave letteratura,che di comincia mento
d'una nuova e leggiadra;e a dirla in due parole, non ci vediamo che elemento
romano ed ecclesiastico. E quando si pon mente che per lo più furon monaci i
lor compilatori, quasi intutto, come dicemmo , segregati dal mondo , e quel che
è più , non d'altro conoscitori che d'al cun latinoscrittore;quando sipon mente
a questo,non sappiamo chi possa far lungo contrasto e non accostarsi alla
nostra opinione. Il sig. Manna adunque , scambiando un fatto con lo svolgimento
dell'idea,'equel che accade con quelcheé, ha creduto logico un antecedente
meramente storico efor tuito.E sipotrebbedirech'eglicredaalricorsodellena
zioni, se per divinare un fattoprimitivo ha toltoesempio non da nascente, ma da
rinascente coltura.Perciocchè vo lendo egli parlare dei napolitani storici, e
non trovando nei primi tempi che i cronisti longobardi, se n'è lasciato
ingannare,ed ha stimato che la Storia a quel modo na scesse;eche
inquellesueteoricheeipotessefermareche la Cronaca e la Storia filosofica
fossero gli estremi di tutto lo storicosvolgimento.Sei volevatrovare
nellanapolitana letteratura ilprimo apparir della Storia, almeno cercar lo
dovea in Guglielmo di Puglia , e in quel poema che serisse, allorchè le ardite
e fortunate imprese dei Nor manni fecer maravigliare questa estrema parte
d'Italia. Per lequali cose,conchiudendo diciamo ,cheleprime istorie sono i
poemi ,indi le narrazioni puramente artisti che ; che questo avviene pel
subbietto e per l' obbietto vale a dire , per lo stato dell'intelligenza dello
spetta tore , e per quello della società ch' ei ritraenei suoi rac conti :
infine che la Cronaca è scrittura propria dei m e z zi tempi, e quanto alla
Storia moderna , ella è storico e non logico antecedente. 252
DELLE VICENDE PERIODO DI RIFLESSIONE . Ilme,ilnon-me
eilororapportichiamandunque i primi e sforzano la nostra attenzione: e se
questo è vero Storia morale o Secondo che detto abbiamo , corta durata ha
S. 1. Momento del MB e NON-MB. politica. quel periodo di spontaneità , e tosto
nasce e si educa la ri flessione per aver vita assai più lunga e meglio
svolta.Ve ramente ch'ella con quel suo analizzare e sminuzzare ogni cosa,con
quel suo lento e sospettoso procedere, or in
questoorainquell'obbiettopartitamente affisandosi,to glie ardire
allaimmaginativa, ed or ne soffocaeimpedi sce, or ne scolora ed agghiaccia ogni
spontanea creazione: nompertanto induce lo spirito umano , non certo in più
belle,ma inpiùgraviesodecontemplazioni,cheapoco a poco e come per mano il
trarranno a quella compiuta e ordinata scienza , che è l'ultimo obbietto , e
insieme la pace e 'l riposo della sua irrequieta intelligenza. Or noi dicemmo
che la riflessione di sua natura è parziale e suc cessiva , e che tutto ilsuo
svolgimento potrebbesi distin guere intrepartiomomenti,ondeilprimoèquellodel me
edelnon-me.E difatto,chivogliaun trattoprofon darsi nella coscienza, vedrà che
se ci son fatti che più chiamino e sforzino l'attenzione , certo sono i
sensibili, indiivolontario personali.Isensibilicomequellicheson manco intimi e
profondi,e quasi esterioriall'animo,sono i più vivi ed appariscenti, e imeglio
osservabili;eivo lontari o personali vengonsi lor mostrando allato tenace
mente, perciocchè l'impersonalità della sensazione indica subitamente e rivela
la personalità nostra , e quell' assi duo tramutarsi e succedersi dell'obbietto
ci reca al senti mento d'alcuna cosa che duri attraverso a quella indefi nita
varietà delle sensazioni, che è l'identità delsubbietto. Quanto
aifattirazionali,questiinverosono imenoap parenti, perchè non simostrando che
in mezzo allamu tabilità e alla determinazione dei sensitivi e dei volontari,
tolgon sembianza mutabile e determinata , e ci ha mestieri diaccorta e ben
ammaestrata osservazione per poterneli sceverare , e svestire di quella falsa e
mendace apparenza. DELLA STORIA. 253 ( come vero è ) , ecco qual
nuova faccią prenda la n o stra intelligenza, e di quanto questo primo momento
della riflessione si discosti dalla spontaneità. In questa ilme non si
scorgendo ancoradistinto da quel che lo inviluppa e nasconde , e lasciandosi
intutto andare a seconda della ra gione e della sensibilità, senza mai volgersi
indietro e por menteasèstesso,èchiarocheseogniattoalloraèfe de , amor vivo e
caldissimo, ed estatica contemplazione ha da essere altresi pieno e bello di
nobile disinteresse ; doveché nel primo momento dellariflessione,per quel ne
cessario mostrarsi e dintornarsi della persona , per quel considerar la natura
solo in tanto che ne dia pena o di letto , come pressochè tutto è dubbio , amor
proprio , e sospettosa e lenta osservazione , cosi pure le opere nostre la più
parte generate da personali e interessate cagioni ; e se prima moveaci il
bello,e il bene e ilvero intanto che belli, muoveci dappoi l'utilità. Dicevamo
che la Storia si farà a cercar l'utile; poi con un tal rude passaggio alla
moralità sola il riduceva m o , come se niente altro esser ci potesse d'utilită
, quivi tutta si raccogliesse. Per voler soddisfare a questo dubbio, e farci
incontro a parecchie altre objezioni che ci sipotrebberofare,dichiareremoalquantomeglio
ilno stro pensiero, e il rafforzeremo in fretta almen tanto che basti. Tolto
via l'utilità fisica, che in verun modo non ci potrebbe venire dal racconto dei
fatti delle nazioni,l'uti Jità non può veramente esser posta , che nel giovare
al l'uomo o come agente morale, o come creatura intelli gente; perocchè non si
potendo allettare la sensibilità , alla Storia non resta che correggere la
volontà , o svolgere e saran per Però la Storia , dopo che si è mostrata
puramente artistica , vorrà avere uno scopo che le paja manco vano , e che dia
più pronti e certi frutti; vorrà insomma esser utile , ed eccovi apparir la
Storia morale , la quale , se più non guarderà la bellezza siccome unico ed
immediato suo scopo , se ne gioverà nondimeno per ornare ed avvivare i suoi
racconti, essendochè l'uomo , come dicemmo , po scia che l'ha un tratto
conosciuta , mai più non si di stoglie dalla bellezza. © costantes
generi , contumax etiam adversus tormenta servo rum fides. Ond'iomi maraviglio che
ilsignorMannaabbiapo tuto sconoscere questo si manifesto intendimento di
Tacito, dandogli uno scopo meramente artistico, com'ei si da rebbead Erodoto. E
mi pare che in questosbaglioeisia caduto , per aver troppo semplicemente diviso
tutta la vita storica inartistica e filosofica,nonbadando che seconla
riflessione si può dir che cominci l'amor del sapere ola filosofia, non per
questo ella è filosofia, intesaintuttala determinazion della parola , cioè la
scienza già ordinala formata ; e per dir più chiaramente , che innanzi all'ul
tima forma sua ben può la Storia esser riflessiva , e non esser pertanto ancor
filosofica. Il perchè non potendoegli di buona fedetrovare in Tacito la sua
Storia filosofica ha dovuto di necessità trovarvi l'artistica,quantunquela
Storia avesse in lui cangiato natura , essendochè l'artedi primo scopo e
signora ch'ella era , è divenuta istrumento ed ancella.
S.II.Momentodelleveritàassolute.- Storiapositiva– Per affisarsi che faccia la
riflessione al subbietto e all'ob bietto e ai lor rapporti, verrà tempo alla
perfine ch'ela sarà percossa da quella strana immutabilità e indipendenza dei
concetti della ragione ; che anzi quello stesso atten dere ed osservare i
fenomeni sensibili e volontari sarà ca gione che le si dimostri l'assoluto ;
essendochè di due o più cose non pur dissimiglianti ma opposte sieme e confuse
; più pensando ed osservando ne distrigate e dintornate l'una", più
l'altra vi si porgerà chiara edi stinta. L'osservare che sopra una sorta di
fenomeni non ha potere la volontà , e che lo stesso non-me non sipuò sottrarre
a certe.leggi immutabilissime e salde , fa chesi vadano sempreppiùdistinguendo
e sceverando ifatirazio pali, e apertamente se ne vegga la indipendenza dalsub
bietto e dall'obbietto. Oltre diche,inquellaguisachela impersonalità dei fati
sensibili rivela e determina la per sonalità dei volontari, cosi la mutabilità
, la contingenza, la naturafinita e dipendente dell'animonostroe delana
tura,distintamente cisvelal'immutabile,l'infinito,l'as soluto; l'essere, in una
parola , il quale non che dipen 236 DELLE VICENDE e strette in
DELLA STORIA. 257 dere da altre cose , a tutte anzi è sostegno e
fondamento. In questo secondo suo momento adunque la rifles
sione,disviluppatasidal contingente,separaepone l'asso luto,o vogliam direl'eterneveritàrivelatecidallaragio
ne.E peròch'ellasuole,dimenticandogliantichi,tutta a'nuovi obbietti
abbandonarsi,e massimamente dopo che ha scorto, che ilme e ilnon-me non son poi
gli ultimi termini della scienza , e che ci ha alcun più degno e nobile obbietto
intutto indipendente da quelli,e che anzi abbrac cialiecomprende,e
ponloroelimitieleggi,da'quali, tramutinsi pure a lor posta , mai uscir non
possono , o sottrarsene.E megliovedràl'importanzae ladignitàdel l'assoluto ,
quando si sarà avveduta che non ostante la caducità e l'impersetta natura del
contingente , le verità nondimeno stanno e sopravvivono.Di questo procederà che
alle personali vedute del primo momento altresuccederanno impersonali e
disinteressate, e seprima chiedevasi l'utile, il vero poi soprattutto si
chiederà. Eosi la Storia che abbiam veduto correr dietro al l'utile,volgerassi
a più nobile scopo escientifico,enon vorrà che il vero ; e purchè il trovi e
narri, le parràdi aggiungere l'ultimo e naturale suo scopo. Vero è , che non si
essendo anco giunto a tale con la scienza, che basti e valga a ricongiungere e
riferire alla prima Sostanza quelle assolute verità , e a considerare il vero
come rive lazione dell'infinita Intelligenza ; vorrà la Storia il vero , ma
senza sapere iltrovarlo infine che importi;e conside randolo partitamente nei
fatti in tanto che esistenti e a v venuti , scambierà il reale col vero , e
solo vedrà negli avvenimenti la vicina dipendenza di cause ed effetti, non si
elevando mai a più larga e lontana connessione. Per tanto degli Storici di
questa età , sola e prima cura sarà trovare i fatti e accertarli, mostrarne le
immediate o poco lontane cagioni , o almeno le occasioni e i rapporti , e solo
che dieno una tal quale narrazione di importanti e certi fatti , nissun pensiero
si prendono del rimanente, e par loro adempiuto ogni ufizio eche
laStoriasiafatta.E non pen sate ch'ei sipiglino affanno di virtù e di vizi,di
giusto edingiusto,diquestaoquellacredenza;evidanno a divedere una freddezza e
un'indifferenza , che c'è da scon 17 solarsene, per modo che vi
sembra non abbian cuore,o senso morale , e sien tutto pensiero e intelligenza.
Il qual morale indifferentismo stimiamo sia tra l'altro ingenerato dai
costumidiquelleetàch'essersoglionoassaiguastie dissoluti:onde avviene che
disperatosidelmiglioramento, appoco appoco l'animo vi si adusa , e dopo di
averli con siderato come un necessario male e durissima legge del l'umana
natura,finirà colvenire in quella tristae scon solante indifferenza , di che
non è stato che sia peggiore. Anche questa maniera di Storia vediamo adunque
inrap porto manifesto con l'obbietto e col subbietto , con lo svol gimento
progressivo dell'intelligenza , e con le sociali c o n dizioni dell'età in cui
suole apparire. Se non che , acció che non ci si dia non meritato biasimo ,
vogliam qui fare avvertire che se noi riferiamo la Storia al subbietto e al
l'obbietto, questo facciamo per guardar la cosa da più lati, e non perchè ci
sembri che quelli in sostanza sien diversi rapporti : conciossiache limitando
noi l'obbiettività al solo Mondo civile , il quale , come ha detto il Vico , è
fatto dall'uomo , ci avvediamo che il riferirvi la forma che vien prendendo la
Storia ,egli è come riferirla un'al tra volta allo svolgimento della nostra
intelligenza. Questi sono gli Storici , che abbiam chiamato positivi. E molti
potremmo indicarne che più o meno van com presi in quel numero ; ma ci piace di
nominar soltanto il Davila e il Macchiavelli, come assai vivi esempi di que
stageneraziondinarratori.Solovogliamo quiricordare che se in molti di questi
storici alcun che ci ha di arti stico, morale o politico, non per questo non
son da te nere per positivi, quando loro intendimento sia stato il narrare
ifatti che veri stimavano senz'altra briga.Dap poichè se nell'ideale e nella
scienza tutto è ben distinto e determinato , nella realtà per contrario tutto
intrecciasi e confonde , e mai non si ha il fatto cosi nudo e segre gato dagli
altri che gli stan dallato , o che lo han pre ceduto o seguiranno , secondo che
la scienza lo ha de scritto. Cosi questa famiglia di Storici è a parer nostro
assai numerosa e comprensiva ; e risolutamente vi chiu diamo e 'l Guicciardini
e l'Hume e'l Gibbon e 'l Gian none e 'l Robertson , avvegnachè di costoro , chi
voglia 258 DELLE VICENDE solo un lato considerarne, alcuno
dirà artistico, un altro forse chiamerà morale o politico , e in quegli ultimi
per avventura gli parrà già di vedere l'ultima forma della Storia, che è la
filosofica, e di cui or passeremo a ragio nare . Per ilche,quando perassaisecolisièveduto
un sorgere e fiorire, e un cader d'imperi e di nazioni , una catena lunghissima
di successi grandi ; quando in somma il dramma storico dell'umanità di tanto è
cre sciuto,che sene può avereun'assai larga e svariata esperienza;èforzacheavedersicominci
allaperfine e un tal ritorno di avvenimenti al tornar delle stesse ca gioni , e
certi costanti rapporti e lontanissime dipendenze , e una certa comune natura
delle nazioni sotto alle dissi miglianze grandi che son tra loro. Oltre di che
al rovi nare e mancar di tanti regni potentissimi, di tanti vasti e s p l e n d
i d i i m p e r i , c h e p a r e a n o n o n d o v e r m a i f i n i r e ',
e 3 239 DELLA STORIA. Storia filosofica. S.III.Momento
delleveritàassolutecomemanifestazione La riflessione di sua natura , quanto più
va innanzi nel suo lavoro , della prima Sostanza.
tantopiùvisiaddestra,edacquistadiacumeedi pro fondità, e noi tratto tratto più
incontentabili cifacciamo e vogliosi di sapere. Dopo di aver separato e
distinto il meeilnon-me,siamocielevatialquantopiùsu,edat traverso alla vicenda
ed alle permutazioni del contingente , abbiamo intraveduto e scorto l'assoluto
in quelle immu tabili verità, che son come le leggi del pensiero e della
natura. Ma giunti che siamo a questo punto di conoscen za , veggendo che quelle
assolute verità non derivano o dipendono di sorta dal subbietto e dall'obbietto
; qual sia dimandiamo la lor sorgente e derivazione , di qual sostanza essi
fenomeni sieno manifestazione nella nostra intelligenza. E questa
interrogazione torna inevitabile e necessaria per quei due principi disostanzae
dicausalità, che non ci lascian mai , eche ad ogni fenomeno,ad ogni cosa che
cominci,a trovare o pensar ci sforzano una so stanza e unacagione.Le
veritàassolute adunque noi ri feriamo e leghiamo all'assoluta
Sostanza,all'Essere crea tore e intelligente, e quivi soffermasi la riflessione
niente altro chiedendo , vi si appaga e riposa. e 260 DELLE VICENDE
tutto in loro accogliere e stringere il futuro destino dei p o poli ; non può
la disingannata intelligenza non distorsi da q u e l l' a n g u s t o e c a d u
c o s p e t t a c o l o , e n o n e l e v a r s i a p i ù larghe esublimi
considerazioni. E scorgerà che iregnie gl'imperi non son poi che apparenze
peculiari e fuggenti, è che fra tanta vicenda e permutazion di fortuna,duran
nompertanto le umane generazioni e governate da costan tissime leggi;e da tanti
sanguinosi elacrimevolicasi,da tanti mali e miserie incredibili, risorgon
sempreppiù a m maestrate e possenti,come se cavasser benedalmale,e a
simiglianza d'un nobilissimo fiume, il quale non che scemare e impaludarsi tra
la rena e i sassi e i dirupi , sempre crescendolesue
acque,alteramenteprocedeverso l'infinito mare che l'attende. Pertanto a quel
modo che riferiamo le leggi del pensiero alla prima Intelligenza , e le abbiamo
per un suo apparire e rivelarsi nella ragione ; così pure quelle discoperte ed
osservate leggi dellaStoria riferiamo al primo Essere, e le consideriamo come
forma visibile dellamente e del disegno di lui sopra il destino degli uomini ,
che è quanto dire come la stessa Provvi denza divina. Quando adunque dalla
mutabilità , dall'incostanza e dalla contraddizione del reale , elevar ci
sappiamo insino all'idealeeilconsideriamocome espressionedellamente di Dio ;
quando più non vediamo nella Storia una for tuita o capricciosa
successionediavvenimenti,ma losvol gimento di un'idea nel tempo, e
l'adempimento sopradi noidel provvidodisegnodelCreatore;sorgeràquellaSto ria
che detto abbiamo filosofica ; e , conciossiachè la ri flessione non vada più
oltre, questo è l'ultimo e più n o bile grado a cui possa ella giungere. Or
questo supremo pensiero,questo provvido disegno di Dio sulle umane generazioni
, certo in niente meglio si dimostra che nella Storia della religione ; e se
aggiun gete che solo il cristianoincivilimento poteaci dare una cosi fatta
Storia ; che , dalla nostra infuori, niun'altra religione non ha avuto un si
chiaro e non interrotto cam mino attraverso a tutte le età; che la scienza
infine non avea a cominciar da capo e far tutto di per sé, percioc ehè ella
potea lavorare per un sentiero ch'or silascia in DELLA STORIA. 261
travedere , or profondamente è segnato nei Libri Santi ; non è dubbio che dei
cinque elementi della Storia , che sono l'industria , lo stato , l'arte , la
filosofia e la reli gione , dovea quest'ultima prima costringer l'attenzione
dei nostri scrittori , e , lasciatisi da un canto gli altri quat tro ,
informare a suo modo la Storia ,e invadere a prima giunta e assorbire tutta la
vita delle nazioni. Di qui av verrà che questa prima e incompiuta Storia
apparirà anzi teologica che filosofica ; e tale infatti è quella del B o s suet
, per essersi quel dottissimo Vescovo tutto chiuso e raccolto nel Cristianesimo
, e fattolo centro , scopo e m i sura a tutta la Storia dell'umanità. Ad
ognimodo quello è il primo passo verso la Storia filosofica , e il primo n a
scere e incarnarsi di quella idea , che dopo meno di un secolo vedemmo tanto
allargarsi nell'Herder , che in quel suo stupendo lavoro tutti abbracciò ed
avvinse gli elementi della vita delle nazioni. Se non che la Storia
dell'umanità non si sarebbe per a v v e n t u r a a t a n t o a l t o g r a d o
e l e v a t a n e l l' H e r d e r , s e q u e l maraviglioso e potentissimo
ingegno di Giambattista Vico non avesse prima , con lo scriver la Scienza nuova
, fondata . ne la filosofia. Di quest'opera straordinaria assai volentieri
parleremmo , ch'ella è primo vanto e gloria nostra,e Dio sa quantoci gode il
cuore in pensare che abbiam noipure il nostro Dante ; m a sarebbe un varcar
quei limiti che ci siampostiinquestolavoro:dappoichènon abbiam vo luto
intrattenerci intorno alla scienza della Storia , m a solo indicare una
opinione che avevamo del suo progressivo svolgimento,cavandolo daquellodelpensieroumano.Non
però di meno vogliam mostrare che quell'idea che d'una vera e compiuta Storia
filosofica osservando e ragionando ci siam fatta , quella stessa aver partorito
e fecondato la Scienza nuova.Infatti, poichè il Vico dallo studio psico logico
dell'uomo ebbecavato quella sua Comune Natura delle Nazioni, vale a dire le
leggi universalissime della Sto ria, andò fino a riferirle alla prima Cagione,
e le tenne espressione visibile del Consiglio divino ; ond'ei medesimo
scrisse,l'operasuadoversiriputareuna Teologiasociale e una storica
dimostrazione della Provvidenza. E concios siache per potersi elevare , sccondo
che dicempo , dal . reale all'ideale , ei bisogna che il
primo ci sia noto, as sai giovossi ilVico della filologia,che al dir del Miche
let,èlascienzadelreale,odeifattistoriciedellelin gue ; e sull'ale poi della
filosofia cacciossi in quella po tente e lontana astrazione. La filologia
adunque e la filo sofia , cioè le scienze del reale e del vero ( ch'è l'idea le
) , son le due fecondissime sorgenti a cui ha attinto la Scienza nuova ; e una
storica dimostrazione della Provvi denza è l'ultimo e proprio suo obbietto. Ma
se grande nella Scienza Nuova è la parte del l'uomoediDio
chefuungranpassodopocheilBos suet in Dio solo s'era affisato ), la parte del
non-me o della Natura è nulla , o incerta e poverissima ; la qual cosa poi
tanto crebbe e ingigantissi nell'Herder per sual filosofia di quel tempo ,che
l'uomo ne venne presso cheschiavoallaNatura,ev'ebbeaperdereilsuoli bero
arbitrio. Perciò questo elemento tra l'altro devesi aggiungere alla Scienza
Nuova;essendochè l’Uomo,Dio e la Natura sono i tre obbietti alla filosofia , e
questi stessi entrar debbono,e in bell'armonia legarsi nella Storia,
sesivorràch'ellasiacompiutae perfetta,echearrivi a quell'idealesupremo cheil
progresso della scienza ci promette,e cheledotteedoperosefaticheditantichiari
uomini del nostro vivente ci fanno sperare non lontano Raccogliendo ora tutte
le coseche inquesto secondo periodo abbiam toccato ,diciamo che la Storia dopo
di es ser nata artistica vuol esser utile , indi vera , ed ultima mente
filosofica; che questoavvieneperl'obbiettoepelsub bielto , secondochè abbiamo
or detto espressamente , or sol tanto lasciato intravedere. Quanto alle vicende
e al progressivo cammino della Storia ,questo è il nostro pensiero. E qui
porremmo fine al nostro lavoro se tutti i lettori così fossero , li vorremmo.
Ma ci ha di tali uomini , che non san ve dere nei fatti che dissimiglianze e
contraddizioni, e non si elevando più che tanto, stringer non sanno più di due
cose insieme, e 262 DELLE VICENDE e non diciamo porre un po' d'ordine e
d'armonia in quel caos d'avvenimenti, ma nemmanco innalzarsi a un sol pensiero,
a un qualche men che vi la sen gran fatto. come noi DELLA STORIA . 263
cino rapporto. Costoro certamente vorranno che tutta la Storia vadasi per cosi
dire a adagiare nel disegno che in fino a qui siam venuti delineando, e che
d'ogni Storico subito e chiaramente si possa diffinir la natura e 'l tempo del
suo venire ; e perocchè questo , non potendo essere non viene lor fatto,
eccoveli gridar tostoall'errore e al sistema : come se i casi valessero a
romper le regole , e come se negli uomini non fosse libero arbitrio , ed oltre
alla ragione non fosse la personalità del volere, la quale di quanto conturbi ,
e modifichi , e arresti e affretti al l'idea il naturale e logico suo
svolgimento , non è chi non vegga. Per non dire che in alcuni storici la stima
e l'imi tazion dell'antico , in altri l'indole o le false opinioni o la povertà
del sapere son cause che sovente essi dienci parti fuori tempo ; e che ifatti
talvolta sembri che vadano a ritroso con le idee. E valga l'esempio delBotta
venuto troppo tardi per esser , com ' egli è , storico morale e p o litico.
Oltre di che alcuni , venuti nella intersezione di due periodi , e però
accogliendo quel che cade e quel che sor ge, hanno in quei loro scritti alcun
che d'indeterminato, il q u a l e c o s i n e a s c o n d e e s f o r m a l a v
e r a f a c c i a , c h e n o n sapreste a quale specie di storici li dobbiate
propriamente riferire. Cosi in Livio vediamo a un tempo l'artistico e'l
patriottico o politico e anche un po' del morale , ed era mestieri per i tempi
in che scrisse ; in Sallustio ancora l'artistico, ma il morale più determinatamente
; in Sveto nio quasi intutto il positivo. Del rimanente il reale o quel che
accade può ben rifermare , ma non ha potere di con trastar l'ideale o quel che
è: laonde se la nostra osser vazione psicolologica è stata accurata,esatta e
compiuta non ci si avrà a contraddire , e le vicende della Storia quelle
saranno , che abbiamo fuggevolmente descritto.Giambattista Ajello. Ajello.
Keywords: Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Ajello” – The Swimming-Pool Library.
Albergamo (Favara).
Filosofo. Grice: “Albergamo is a fascinating author – a very Italian
philosopher who can teach Lucrezio and the classics at the ‘gym,’ as they call
it, and yet survey the ‘storia delle scienze essate’ and the ‘storia delle
scienze empiriche.’ Alla Bridgman, he is into ‘the logic of the science.’ But
he can also define the ‘spirit’ in terms of ‘freedom.’ He has also analysed,
vis-à-vis- his interest in Galieleo and science, the very Italian idea (already
in Cicerone) of ‘super-stitio’ and magic – his approach to these matters is
phenomenological, which coming from Favara as he does, is understandable!”
-- Filosofo. e un pioniere della
filosofia della scienza in Italia. Nato a Favara, in provincia di
Agrigento, da Giacomo e Giuseppina Butticé. Suo nonno era un ricco proprietario
di una rinomata pasticceria di Favara. Il padre, ferroviere, fu trasferito
prima a Messina e poi a Palermo, portando con sé la famiglia. A causa di questi
trasferimenti, svolge gli studi liceali da autodidatta, conseguendo poi la
laurea in filosofia presso l'Palermo. Nel 1931, vinto il concorso a
cattedra di storia e filosofia, si trasferisce a Trapani, dove insegna al liceo
classico Ximenes, e dove sposa Maria Carmela Rizzo, da cui avrà quattro figli.
Insegna poi a Benevento ed infine a Napoli presso il Liceo classico statale
Vittorio Emanuele II, dal 1936 al 1967. Pressoché tutta l'attività
filosofica e didattica di Francesco Albergamo si svolge a Napoli, ed è
caratterizzata dal clima culturale molto vivo nella città di Benedetto Croce. Come
filosofo, si dedica a due principali linee di attività. La prima è dedicata
all'insegnamento ed alla didattica della filosofia, l'altra allo studio del
rapporto tra filosofia e scienza. In entrambe le linee, il suo lavoro ha avuto
una grande caratura culturale, e la sua personalità fu considerata, nella città
di Napoli, di grande spessore etico, per la generosità e l'impegno che hanno
contraddistinto la sua vita. Circa la prima linea, il ricordo della sua
attività didattica è rimasto a lungo nei tantissimi giovani che hanno ricevuto
una solida formazione filosofica di cultura laica, razionale, liberale. Vero è
che a Benevento, dove aveva insegnato per soli due anni, gli è stata dedicata
una strada che, significativamente, parte da Piazzale Benedetto Croce per poi
ricollegarsi a Via Francesco de Sanctis. Al Liceo Classico Vittorio
Emanuele tra i diversi allievi che si sono distinti nel campo della filosofia e
della cultura ricordiamo in particolare due delle figlie di Benedetto Croce. Il
suo nome è ricordato in una lapide dedicata alle più illustri personalità che
vi hanno insegnato, tra cui Giovanni Gentile. Oltre all'insegnamento nei licei,
è stato libero docente di filosofia teoretica presso l'Napoli, dove ha svolto
una intensa attività di corsi e conferenze. Con i suoi manuali di storia
della filosofia, e con numerose pubblicazioni dedicate ai licei, FA costituisce
un importante punto di riferimento nella didattica della filosofia a livello
nazionale, prima per il classico e poi anche per lo scientifico. Una notevole
attività è anche dedicata alla formazione dei docenti di filosofia, con
numerosi articoli, pubblicazioni, corsi e conferenze. L'altra linea di
attività, quella dedicata allo studio del rapporto tra filosofia e scienza, si
snoda lungo un arco di tempo molto vasto, che va dall'inizio degli anni '30
fino alla sua scomparsa, nel 1973. I risultati sono confluiti nella
pubblicazione di importanti saggi filosofici (vedi ). Di formazione
idealistica e kantiana, appena trasferitosi a Napoli, nel 1936, instaura un
rapporto stretto con Benedetto Croce, con frequenti visite e colloqui nella sua
abitazione a Palazzo Filomarino, guardata a vista dalla polizia. Dalle
sue lettere a Croce (73, 74, 75), si evince un chiaro riconoscimento di Croce
come suo Maestro, oltre a forti sentimenti di devozione e di sincera
amicizia. In particolare, alla caduta del fascismo, esprime al Maestro la
sua "profonda gioia" perché "finalmente l'Italia comincia a
incamminarsi per la via maestra che le avevate additato", e prosegue poi:
"Gioiamo della gioia vostra e dei vostri cari: della gioia che ora, dopo
tutto quello che voi, giusto, avete sofferto, aleggia sulla vostra casa"
(73). Questo rapporto si affievolisce a partire dai primi anni '50,
quando più che la filosofia fu la politica a provocare un allontanamento di
Francesco Albergamo dall'ambito crociano, per aderire progressivamente agli
orientamenti ed alle ideologie della sinistra e del marxismo. Già agli
inizi degli anni '50, aderisce al movimento dei "Partigiani della Pace",
nato a Parigi nel 1949 sotto il simbolo della colomba della pace, appositamente
dipinta da Pablo Picasso,stringendo una forte amicizia con Lucio Lombardo
Radice, Maurizio Valenzi, Renato Caccioppoli, Ambrogio Donini e altri.
Nell'estate del 1952 partecipò ad una delegazione in visita alla
repubblica democratica tedesca, assieme a Giancarlo Pajetta, Renato Guttuso,
Francesco Flora. La visita era, naturalmente, finalizzata a diffondere ed
esaltare le "conquiste del socialismo". Di ritorno dal viaggio, il
Ministero dell'Interno dispose il ritiro del passaporto, e quello della
Pubblica Istruzione gli comminò una ammonizione, come se avesse abbandonato il
servizio senza autorizzazione, mentre il viaggio era stato fatto nel periodo di
chiusura estiva delle scuole. Fu forse questo episodio, che Francesco Albergamo
considerò una manifesta soperchieria di stampo scelbiano, che lo indusse l'anno
successivo ad iscriversi al PCI, salutato da Togliatti con un cordiale
telegramma di benvenuto. Nel corso di tutti gli anni '50, partecipò
attivamente alla vita culturale e politica della città di Napoli, che in quel
periodo era in grande effervescenza. Il movimento culturale della sinistra
napoletana non si riconosceva pienamente in una ideologia, come afferma Gerardo
Marotta, "ma si fondava su un dibattito filosofico che traeva i suoi
succhi da un corale sforzo di comprensione del proprio tempo" (80). Il
dibattito raccoglieva e valorizzava l'eredità culturale degli illuministi e
degli hegeliani napoletani del secolo precedente, attingendo alla lezione
storicistica meridionale che va da G.B. Vico a Croce, passando per F. De
Sanctis e G. Salvemini, e collegandosi poi al pensiero di Antonio
Gramsci. L'Albergamo partecipa con conferenze che venivano organizzate
dalle associazioni culturali napoletane tra cui "Cultura Nuova" ed il
"Gruppo Gramsci", ed accetta, sia pure a malincuore, una candidatura
del PCI alle elezioni comunali di Napoli. Il problema del rapporto tra
filosofia e scienza viene visto in termini di nuovi modi e nuovi contenuti per
la didattica delle scienze e della filosofia. Tra i primi in Italia, ed in
aperta polemica con la scuola crociana ed il clima dominante, Francesco
Albergamo avverte i rischi, per lo sviluppo della società italiana, di una
cultura prevalentemente classica: "Con la seconda rivoluzione industriale
che è in atto in tutto il mondo, noi italiani non ci possiamo permettere il
lusso di rimanercene ancorati ad una cultura prevalentemente classica ed
umanistica." L'Albergamo lavorò con la passione di una intera vita,
fino a pochi giorni dalla sua morte. L'ultimo suo scritto uscì postumo su
"Critica" marxista"(69). In seguito alla sua scomparsa, avvenuta
il 14 ottobre 1973, il quotidiano comunista L'Unità dette notizia della sua
scomparsa con un lungo articolo (79). Il pensiero filosofico Possiamo,
per semplicità di esposizione, dividere l'opera dell'A in tre periodi. Nel
primo periodo, il pensiero dell'Albergamo si muove nel quadro di una concezione
filosofica di tipo idealistica, dominata in Italia dal pensiero di Benedetto
Croce e Giovanni Gentile. Tuttavia, più che alle tematiche tipiche
dell'idealismo, è interessato ai problemi nuovi che si pongono al pensiero
filosofico a causa dello sviluppo impetuoso della scienza nel novecento, in
particolare nei settori della fisica relativistica e quantistica, della
matematica, e della biologia. Francesco Albergamo precorre, in una prospettiva
idealistica, la necessità di un dialogo costruttivo, osmotico, della filosofia
con le particolari discipline scientifiche ed empiriche. Nel primo lavoro
scientifico (1), richiamandosi all'insegnamento di Kant, sostiene che la
scienza, come esperienza dell'attività dello spirito, è resa possibile dalle
forme trascendentali. Tuttavia, sostiene l'Albergamo, gli sviluppi più recenti
della matematica (geometrie non euclidee, matematiche non archimedee, gli
iperspazi, ecc.) e della fisica ( teoria della relatività di Einstein,
meccanica quantistica, principio di indeterminazione di Heisenberg) provano la
contingenza di tali forme trascendentali, . Affronta anche il problema,
fortemente dibattuto, dell'alternativa tra determinismo ed indeterminismo, e
perviene alla conclusione che anche l'alternativa indeterministica sia
egualmente legittima: la conoscenza scientifica può essere costruita anche se
si ignora il principio di casualità e si finge che i fenomeni si succedano a
caso, secondo le leggi matematiche della probabilità. Queste tesi originali
furono apprezzate e commentate , all'epoca, da diversi filosofi italiani, tra
cui C.Ottaviano (76), Aliotta (77), ed altri (78).fino a pervenire ad una ampia
esposizione della problematica filosofica connessa alla scienza del novecento.
Il saggio La critica della scienza nel novecento"(10), pubblicato in prima
edizione nel 1942 e poi più volte ristampato fu giudicato "assai
pregevole" da Benedetto Croce (73, 74, 75). Di questa opera, Guido De
Ruggero scrisse che essa "offre una delle più efficaci sistemazioni
speculative che io conosca delle vedute pragmatistiche della scienza, compresa
quella del Croce alla quale più strettamente si connette"(74).
L'ambizione dell'Albergamo, che traspare chiaramente nei diversi spunti critici
nei confronti dei limiti dell'idealismo nell'affrontare il problema della
logica della scienza, è quella di "costituire una confutazione
dell'idealismo per via dell'idealismo stesso"(81). In altre parole, vuole
in qualche modo superare la concezione che relegava la scienza nel limbo degli
"pseudoconcetti", per dare piena legittimità ai processi conoscitivi,
sia delle scienze esatte che delle scienze empiriche, restando comunque
ancorato all'idealismo. Benedetto Croce in qualche modo accetta e
favorisce la ricerca di A, giudica "assai ben pensato e ragionato" il
suo lavoro, ma rimane rigido nell'accogliere la storia della scienza come parte
integrante della storia della filosofia (73, 74). Finito il periodo
bellico, l'attività dell'A si sviluppa poi in una serie di opere in cui
sistematicamente, ed in un quadro storico, vengono trattati i problemi della
logica delle scienze esatte (23) e della scienze empiriche (32). In
questo periodo A, dirigendo per l'editore Laterza una collana di scrittori
di teoria delle scienze, propone alla cultura italiana la conoscenza di
importanti pensatori d'oltralpe, come Poincarè (24, 26), Bergson (40),
Bachelard (31) ed altri. Il secondo periodo dell'attività di Francesco
Albergamo può datarsi attorno ai primi anni '50, ed è caratterizzato da un
progressivo allontanamento da Croce e dalla sua scuola, dovute alle difficoltà
dell'Albergamo a trovare un pieno accoglimento delle sue tesi sulla scienza, ed
anche, in qualche misura, a diverse valutazioni politiche. L'esigenza di
Francesco Albergamo era quella di dare piena legittimità filosofica alla logica
del pensiero scientifico. Per raggiungere questo obiettivo, era necessario
operare un "capovolgimento" dialettico nel rapporto Natura-Spirito
della filosofia crociana, allo stesso modo in cui Marx aveva operato nei
confronti di Hegel. Per Albergamo infatti "spiritualismo e materialismo
costituiscono in realtà una opposizione dialettica, nella quale di continuo
ognuno dei due deve vincere la resistenza opposta dall'altro... come già nella
dottrina hegeliana, così anche quella del Croce esige… un
"capovolgimento", in maniera che il suo oggetto…trovi proprio nel suo
opposto la condizione per vivere e svolgersi" (29). Nel terzo
periodo di attività, a partire dal 1967, quello della massima maturità ed
originalità, affronta una analisi sistematica delle forme di "pensiero prelogico",
inteso come "pensiero che, spontaneamente, senza alcuna riflessione
logica, veniamo indotti a formulare per una suggestione tanto irresistibile
quanto inconscia che inibisce la nostra intelligenza" (61). Analizza
con grande attenzione tali forme di pensiero, sulla base dei risultati e delle
osservazioni di etnologi ed antropologi (da Frazer a Levy-Bruhl, Levy-Strauss,
H. Kelsen, ed altri), oltre che dei risultati della scuola psico-analitica, da
Freud a Cesare Musatti. Analizzando questa poderosa base di osservazioni
sperimentali, perviene ad individuare i principali meccanismi della prelogica:
automatismo associativo, intuizione animistica, inibizione dell'intelligenza ad
opera del sentimento. Vengono così portati alla luce della consapevolezza
quei processi inconsci ove si generano mito e magia. Le molteplici e
diverse credenze mitiche e magiche, con la loro uniformità di struttura e le
loro coincidenze spesso sorprendenti, sono interpretate come il risultato di un
automatismo psichico inconscio, che persiste pur attraverso le situazioni
storiche più diverse. La tesi dell'Albergamo è che tali forme prelogiche,
che sono alla base dei miti, dei riti, e delle pratiche magiche dei popoli
primitivi, lungi dall'essersi esaurite con il progredire del pensiero scientifico
e filosofico, sono presenti in maniera diversa, non solo in età infantile ed in
alcuni soggetti psicopatici, ma anche nelle stesse persone colte, nonché in
alcuni ambiti dello stesso pensiero scientifico e filosofico (62).
Accanto a questo nuovo ed affascinante filone di ricerca, si intensifica
l'opera di educatore, con decine di opere destinate alla scuola, manuali ,
antologie , trattati, nonché da studi e pubblicazioni sulla didattica delle
scienze e della filosofia. degli
scritti di Albergamo. Opere: “Saggio di
una concezione filosofica della scienza” (Napoli, Loffredo); “Disegno storico
della filosofia ad uso dei licei classici e degli istituti magistrali” (Milano,
Sig.); “La tesi finitista contro l'infinito attuale e potenziale” in Atti della
Società Italiana per il Progresso delle Scienze; “La filosofia di Spir”, in
Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli); “Critica del concetto di
infinito”, in Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, “L'Italia di Augusto
e l'Italia oggi” in Augusto. Celebrazione nel bimillenario augusteo, a cura del
R. Provveditorato agli studi di Trapani, Trapani); Cura di I. Kant, Prolegomeni
ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza” (Bari, Laterza);
“Il criticismo kantiano e la scienza moderna” (in Atti della Società Italiana
per il Progresso delle Scienze); “Kant e la scienza moderna, in Archivio della
Cultura Italiana, “Le basi teoretiche della fisica nuova” (Padova, Cedam); “Filosofia
e biologia, in Sophìa; Recensione di A.V. Geremicca, Spiritualità della natura,
Bari, Laterza, «Sophia», “La critica
della scienza del Novecento” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Lo spirito
come attività creatrice” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Il concetto di
realtà e le scienze empiriche”, in Ricerche filosofiche. Rivista di filosofia,
storia e letteratura, n. unico; “Vitalismo e meccanicismo nel secolo XX”; in
Rivista di Fisica, Matematica e Scienze naturali; Versione, studio introduttivo
e note di G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana” (Verona,
La Scaligera); “La matematica nella critica della scienza contemporanea, in
Sophia, L'ordine nel mondo degli oggetti, in Logos, Recensione di A. Marzorati,
Spiritualismo, Milano, Bocca «Sophia», La
natura: Saggi filosofici, Verona, La Scaligera); “Croce critico della matematica,
in Rassegna d'Italia; “Storia della logica delle scienze estate” (Bari.
Laterza); “Traduzione, studio introduttivo e note di H. Poincaré, Il valore
della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “La scienza nell'antichità classica,
in A. Padovani (a c. di), Antologia filosofica, Milano, Marzorati); “Traduzione,
introduzione e note di H. Poincaré, La scienza e l'ipotesi, Firenze, La Nuova
Italia, Cura di La scienza nell'antichità classica. Antologia filosofica, Como,
Marzorati); “La scienza nel Rinascimento, in Grande antologia filosofica, XI Scienza,
natura e storia in Gramsci, in Società; Introduzione a S. Laplace, Saggio
filosofico sulla probabilità, Bari); “Cura e introduzione di G. Bachelard, Il
nuovo spirito scientifico, Bari, Laterza (Nuova ed. riv, L. Geimonat eRedondi,
Bari, Laterza). Storia della logica delle scienze empiriche, Bari, Laterza); Le
scienze naturali nella filosofia di Croce, Bari, Laterza Il pensiero
scientifico contemporaneo. Antologia storica; Le scienze esatte e le scienze
fisiche; Le scienze naturali, Firenze, La Nuova Italia); Il pensiero
scientifico nell' 800 e nel Questioni di storia contemporanea); “Il millesimo
anniversario della morte di Avicenna, in Rinascita, Il valore teoretico della matematica,
in Atti del Congresso di studi metodologici, Torino, Torino, Introduzione a J.
W. Goethe, Scienza e natura. Scritti vari, Bari, Laterza); “presentazione di
A.V. Geremicca. Prefazione a A.M. Frankel, Le scienze naturali nella filosofia
di Benedetto Croce, Bari, Laterza); “Cura di E. Bergson, L'evoluzione
creatrice, s. i. t., Mazara (Trapani) Le
scienze nella dottrina crociana delle categorie, in E FLORA (a c. di),
Benedetto Croce, Milano, Malfasi Editore, La critica della scienza oggi in
Italia, Roma, Perrella); “Il dogmatismo religioso contro la libertà e
l'autonomia della scienza, in Il Calendario del popolo, La vita nella
dialettica della natura, in Società, Recensione
di S. Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, con una avvertenza
di Sebastiano Timpanaro jr. (Firenze, Sansoni
«Belfagor»); Recensione di C. Luporini, La mente di Leonardo, «Belfagor»,
La geometria di Euclide non è la sola possibile, in Il Calendario del popolo, Scienza
e filosofia di Einstein, in Rinascita, Recensione di H. Reichenbach, I
fondamenti filosofici della meccanica quantistica, «Società», Introduzione alla
logica della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “I rapporti tra la filosofia
e le scienze nel liceo scientifico, in Convegno nazionale di studio sulla
didattica della filosofia I Licei e i loro problemi, Intuizione e ragionamento
nella matematica, in Atti del Convegno Nazionale "La didattica della
matematica nella scuola primaria", Roma, Matematica e realtà, in Società, “La teoria dei quanti nelle interpretazioni fenomenistica:
del Reichenbach”; in VIII Congrès International d'histoire des sciences, Florence
Milan, I, Paris, Direzione della sezione ‘Scienze’ del Dizionario Bompiani
degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature e redazione delle voci:
Albert Einstein, Luigi Galvani, Hendrik Anton Lorentz, Edme Mariotte, Carlo
Matteucci, Emile Meyerson, Hermann Walther Nernst, Julius Robert von Mayer
Storia della filosofia per i licei scientifici, voll. 3, Padova, Cedam, Sopravvivenza
della prelogica nel pensiero scientifico e filosofico, Stabilimento Tipografico
G. Genovese, Napoli, estr. da «Atti dell'Accademia di Scienze morali e
politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli», Cura di A. Einstein, Filosofia e relatività,
Palermo, Palumbo, Pensiero e attività educativa nel loro corso storico, va.
Palermo. Palumbo; La natura: Saggi filosofici, Bologna, Patron); Fenomenologia
della superstizione, Roma, Editori Riuniti); Mito e magia, Napoli, Guida); L'educazione
scientifica, Milano, Vallardi, estr. da La pedagogia. Storia e problemi,
maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento,
diretta dal Prof. Luigi Volpicelli, La ricerca umana. Storia della filosofia,
Palermo, Palumbo Problemi del pensiero.
Guida interdisciplinare per lo studio della storia della filosofia, Palermo,
Palumbo, La teoria dello sviluppo in Marx ed Engels, Napoli, Guida, Lo
strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, in Critica marxista; Lo sviluppo
dell'Antropologia culturale, in Genus, La "Storia del pensiero filosofico
e scientifico" di Ludovico Geymonat, in Critica marxista, Il pensiero
filosofico e scientifico nell'antichità e nel medioevo, Napoli, La Città del
Sole (rist. del testo del 1963, con aggiunte di A. Gargano). Il pensiero
filosofico e scientifico in età moderna, Napoli, La Città del Sole 2006 (rist.
A. Gargano). Il pensiero filosofico e scientifico nell'età contemporanea,
Napoli, La Città del Sole (rist. A. Gargano). Fonti Fondazione Croce, Napoli
Lettere tra Croce e Francesco Albergamo e di Albergamo a Codignola, Gentile,
Ottaviano e Sciacca, In Giornale critico della filosofia Italiana settima
serie, XIV anno XCVII, fasc.I gen. Apr. Due lettere inedite di Croce a
Francesco Albergamo,in Rassegna Storica Salentina, N.41, XXI.1, Giugno
2004, La Veglia ed. Carmelo Ottaviano, Recensione al Saggio di una concezione
filosofica della scienza, in Sophia, a.V n.3, luglio –sett. 1937, pp300–303 A.
Aliotta, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in
Logos, R. Mck, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza
, in Journal of Philosophy, 3Profondo
cordoglio per la scomparsa del compagno Albergamo, L'Unità, G. Marotta, Renato
Caccioppoli, la Napoli del suo tempo e la matematica del XX secolo, Napoli, la
città del sole, Lettera di F.Albergamo a M.F. Sciacca, 2Centro Internazionale i
Studi Rosminiani, Stresa, citat . Francesco
Albergamo. Albergamo. Keywords: il finito e l’infinito, idea de la scienza, Scientia,
la scienza italica – la scuola di Velia – la scuola di Crotone – la scuola di
Girgentu – scienza naturale – scienza fisica – fisica – fisica filosofica –
scienza umana – scienza esatta – scienza empirica – anti-finalismo –
meccanicismo – galelei – il liceo classico – parmenide -- zenone – la scuola di crotone – girgentu –
empedocle e i fenomeni – l’entita matematica alla scuola di Crotone -- disegno della storia della filosofia ad uso
dei licei classici – liceo classico – liceo scientifico – Benedetto Croce –
carteggio Croce/Albergamo – la logica della scienza – la non-sicenza, mito –
superstizione – animismo – l’italia nei tempi di Augusto ed oggi – la critica
della scienza in Italia oggi – lo spirito – lo spirito come liberta creatrice –
meccanicismo e vitalismo – il kantismo – la filosofia della scienza – la
metafisica – la filosofia nell’eta fascista – saggio filosofico sulla scienza –
la natura – saggi filosofici -- saggio
su una concezione filosofica della scienza – scienza della natura – pitagora e
la scienza della natura – fisicismo – naturalismo -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Albergamo” – The Swimming-Pool Library.
Alberti (Bologna).
Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his claim to
fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is deemed
the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which was
vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has echoes
with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about the
senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine fiorentina,
fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista Giovanni Garzoni.
Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e filosofia con
Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare con il Garzoni
i propri interessi umanistici e storici. De viris illustribus,
Bologna 1517 Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che egli diede,
in soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis Praedicatorum
libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il Castiglioni, il
Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna. Nel 1521
tradusse dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto
Tenuto al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè
compagno nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso
De Vio e del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse
tutta l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes,
il 19 settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte
al capitolo generale nel giugno del 1530. Negli immediati anni successivi
rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le
decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i
bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città
dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione
scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici
Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la
Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata nel 1539 ed ebbe
altre edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi. Il 20
gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un
incarico che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché dal 1538 è
sempre documentato a Bologna. Fu anche inquisitore di Bologna probabilmente dal
1550 al 1551 o al 1552, anno della sua morte. L'opera più importante
dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de' Medici, è
senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna nel 1550. Ad
essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e due traduzioni
latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono per la prima
volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella del 1568 è arricchita dalle
incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di storia, ricalca
in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo, ampliandola e
migliorandola nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma mostrando
scarso spirito critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi antichi o, per
la parte storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia attendibilità come
Raffaele Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando vengono a mancare testi
precedenti ricorre a elementi di più diretta esperienza [...] parimenti nella
critica storica preferisce riferire insieme le differenti versioni, anche di
tempi e di valore molto diversi, senza prendere posizione». Opere: “De viris illustribus ordinis praedicatorum
libri sex in unum congesti” (Bologna); “De divi dominici calaguritani obitu et
sepulture” (Bologna); “Historie di Bologna”; “Libro detto Strega o delle
illusioni del demonio”; “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene
il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella” (Bologna);
“De incrementis dominii veneti et ducibus eiusdem” (Lugano); “De claris viris reipublicae
venetae” (Lugano). Universal Short Title Catalogue, Scheda delle opere di
Leandro Alberti. Così scrive egli stesso: De viris, c.A. L. Redigonda, “Liber
consiliorum conventus Bononiensis, Archivio del convento di San Domenico,
Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la Riforma religiosa in Bologna,
Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di Leandro Alberti, in
Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele L. Redigonda,Dizionario
biografico degli italiani, 1, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Descrittione di tutta Italia in Il Genio
Vagante, Bergamo, Leading Edizioni, Massimo
Donattini , Il territorio emiliano e romagnolo nella descrittione di Leandro
Alberti, Bergamo, Leading Edizioni, Michele Orlando, La Puglia nell'odeporica
domenicana di fra Leandro Alberti, in Rivista di Studi italiani, ora al sito
rivistadistudiitaliani La Puglia, introduzione e note al testo dalla
Descrittione di tutta Italia, Michele Orlando, UNI Service, Trento, Liber
Liber. Opere di Leandro Alberti, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Leandro Alberti, Leandro Alberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Descrittione di tutta l'Italia su culturitalia.uibk. ac.at. LA STREGA;
OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO. Dialogo composto dall’illustre e molto dotco
Prencipe Segnore Giovanfrancesco Pico della Miradola, segnore e conte della Concordia,
volgarizzato dal Ven. P. F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine de predicatori.
LE PERSONE PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA . APISTIO. FRONIMO.
Dimmi do juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove vendon sil herbe
tanta moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche noi un puoco, accio
intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco di no potra esserela
perduta di puochi passi. APISTIO. Noi in ver un luogo. FRONIMO. Di
quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO. Tu giuog h i he
Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per givo con e
periscrizzo, ma da dovero Conciosia che
debbia esser molto aggrado a ciascun huomo, ma maggiormete alli gentili e curiosispiriti,
di conoscerequello, loqualeno hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque
tuteaffas tichi diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque
il timitacheiovogliammi persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute
conseffarede haue r e intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha
a veranno inteso non appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO. L.oaugello
Strega. Béchegiahabbia lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E coficonfeffadino
sapere, di qualeger nerationedeucceglistalastregha. FRONIMO. Affaimi meraueglio
chefendo tu molto dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai lettocomeeraconsuetudinenellitem
pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte & uscileftreghe cosa che seraanoi
aggradeuole, perche sepuotra comput: tare in uecediuiuandenel
pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto piu utile cosa chenon
sapiamo, intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che am e pa
te,etragioneuolmére istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre peruederla
tantamoltitudinedipopolo.mesco T a t o c o n li fanciulli. APISTIO. Habitano in
questi luoghi le streghe? O cercamente non mi serebbe grave di caminare
diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor su, sea dunque non m a i uedeftiueruna, forfihora
fara satisfacco alla tua cu. riosauoglia. APISTO. sepur accadesse cheiopoteffi
ci trovare coteftoaugellodam e contantodesiderio cerco,eno giamai citrouato
Meftitia augurio infaufto edanno efpresso Peggio chel bubo annontia porge, etlega.
Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi
nalalaStrega.Machecofasiaquella ediqual naturanon
ficouiene.EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello cheers scritto deltelitreghecioe
che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli fanciulli Da
uiciaticorpiaforzaegreffo. Er egliecoteftoluto offeruato pinsino dalli Heroici
tempi.' Quellecosemimoueno che sono venuti nellithalamieca. mere delli Proci, o
siano delli lascivi e molto libidino f i b u o , m e n i cosidicendo Ouidio .
Procàildimostraqualesiaqueftoangue Chere-laceratoda questoanimale,
Aforbeilsanguelaftregainfelice, Delle Streghe gia preda fortelangue, Puoco
iluagitofanciullefcouale, Et chi ederspello agiuto allanodrice. bb ii conuna
uergadispinobianco,ecome hannoqueda natu. ra,chesonobråminosiucceglicon ilcapo
grandeliocchi fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie
rampinate,eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha n o confuetudine di Atridere
nella spauenteuole norte. Hor tu uediilnomela cagione diello,lanaturadiquella
&ancho talafigura comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo
quelloturaccolima forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi
differente natura,c o n cioliachefedice,comenon fuccianocollelabralepopedi
fanciullini, ma ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai fanciulliniuola
spesso Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto conlalinguainfatiabile,
Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o
paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe,tanto diuer Se
nontidimoftranouaria& anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano
ragioneuolmente da efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali faceuano
Ifficiodellanudrice, ma quefti sonodaesserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni
dalli quali sono occisi li fanciullini havendoli bevuto il sangue.FRONIMO. Iotediro'ilueroaniipaionopiupre
ftociascunadiquestecosefauolė,che altro.Mapurseuisiri trouaqualchecosadiueronellafauola
iopenso chenosias nonatiquelliaugelline anchor che se ritrouano nell’inerf.
Chalquinto giorno depuo fuo natale Perche quelli fallititolieuerfifiguranola
uecchianelliuc.. celli.Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe.
moniiiniquiemalederti cio echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma
della nodrice ethora dellainlidia triceE. questomaggiorméte am e lofa credere percheildi
monio insegno il gioueuolerimedio contro delleincantas
tioniemaleficii,perliqualieranoligatelementi delli huo . mincio n inganni,econ
bugie,dicédofeefferGiano,uuole
uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödaleporteetuscii
cioeconlafrondadeunoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon dettafronda
le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata con l’acq ua
, e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano sagre, ma
anzi a b o m i n e u o l i s a c r i l e g i i e p o rtéri, B é c h e a n c h o
r d e q u e l leconfedica. Se poilinfantiperlanocteoscura Vesla ecilsangue
elucca con l’esperti Labrila Strega,etintalmodo leindura. Cosine
tempinoftrihannoconsuetudinedifare le streghe, quando se narra che sono portare
al giuoco di Diana. Guaftas no nellecune lifanciullininuouamente natiche
piangono, dipoiincontinentiledanoligioueuolirimedi.Liquali, co m e
ainepare,fonoinloroarbitrioepoßianzadi doucrlida re. Imperhomeritamenteegliederiuatoquestonome.Ca
ciofia che queste crudeli e bestiali femine lequali cometter no tanta
scelerita,anchorda noi cosicome dalliantichi có. uenientemente sono chiainate
streghe. APISTIO. Hammi parccute inganni Fronimo pariméte inlieme con
moltialtri,cte dendo efferuero,quello chescioccamentediceiluolgo,cio eche
fononoloche feminuzze,lequaliuolanonellamezza notte alliconuiti, etallideletteuolipiacericarnali
delle L e muriofianodellispiritidellaoscuranottee che coteftefer minuzze
guastinocon incantilifanciulli.F R O N .Meglio potreste parlare Apiftio.Conciosia
che non mai fe debbe di re checoloroerrano,liqualiapertamenteracontano quello
che hanno con locchio dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben docci, &
amaeftraticólacõținuaprati 1 caet . sa
etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto
cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper fuafo queftoche tu di percoralm o d o che
lhabbia creduto. FRON.Per qleragione,no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. P e r
q u e f t ca ,i n e c h e p a r e u n a c o s a d a ridere, come fiapoffibicleh
e fattoun cerchio etuntoilcorpoconno fo che unguento,in un'certo m o d o
erdettepoicecceparole coun no fochemormorio fecógiúganodettefemenuzze
incontinéte colli demonii infernali e che caualcanodinot. te
souradiunolegnodettoGramitaconilqualesifuolecal fecrareillino,elacanoua
oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano portateper
aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie ballidi
Diana,ediHerodiade,E cheiui giocano,mangio no beueno,epiglianolasciuipiaceri-Puruoglioanchorago
giungereunaltracosa cioechenonseaccozzanonelparla. re,ficomeho inteso
conciofiache alcune dicono efferpors tatemoltoinalcoperaria,eraltrediconoappo
diterraalcu ne confeffanodiandaruifolamente con la imaginatione e noncon ilcorpo,epoifermarsisouradellagodiBenacoo
Hadi Garda,nellialtiffimimonti,uero e chemolto m i m e raueglio
chenondicanodiefferefermatefouradellacima delmõte Micalainsiemecon Thalete overo
sula cima del Mimante siano poste a caminare con Anaslagora, Ilquale c -u n n o
n t e n o n guar i d i s c o s t o d a Colophon e da continue neuiaffediato,
dacuifeconoscelatempeftadebbe venire. Altrecacótano de esser portate allo albero
di Beneuétodet tolanuce,rebême arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto
nelterritoriodi Arpino piuuicino(fico/ me iopenso) alla nostra regionecoueroportatealla
Quer zadi Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß costo perchenon sono
portateperinfinonella Cheronea alla Querza di Aleflandro Dicesianchorache
hannoamo rosipiacerecolli demonii che non sono congiunticollicor p i r e i o
n oerro. Ma d i m mi un puoco Apistio,
che toccame cipossonoessercotefti?Chepiacerisouerinche modo poffo no
haueceamorosisolazziconqueftauana,efintaimagine, efeminedicarne: Ho letto
come le larve oʻsianolenuo's ceuoliombre dellanorię e dellinferno pigliano
piaceri colli' morti etche combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO. Dimmi
Apistio, seiosciorco tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO. Io
ti prometto di cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo ragioneuole,
e di sano intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni
effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento
confermate,edipoi quiuifermarsi ma moltomaggiornéte-eropera di coluicheedigradeinna
gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome
ni.Donqueseiocolletueragioniticonduceroa cosentirea quello
decuihoratenemenibeffe,chefaraipoi? APIST. Che faro:Vimetterolemani.FRON
.Pensocheancho , sauiinetteraiipiedi.APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO. Deh
non hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece
desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione,collipiedi,e cole
mani,ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello
chesperi,edesideri,sefaraiquelloche tudietprometti. FRON.A m e
pareperilragionarehauemofattocaminan
do,chetuseimoltodottonellipoetidelliGentili,etanchora affai siaornato
dePhilofophia. APISTIO.Il mio Fronimo diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche
beninte dali Poeti et fia dotto nelli parlari . C o n c i o f i a c h e e g l i
e m o l tomaggiorelacognitioneadouereintéderequelliper co ialmodo
chesouerchialeforze decoluiloqualearrogáte? mente alcunauoltaselauoglia
attribuire, hauendopuoco ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica. Ilpercheegliegra
demente necessarioa coluiauoleintendereefli poeti e philosophi, diconoscereetintenderenon
triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e latina. E t a n c h o r e g
l i e b i s o g n o d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti extratti fuori delle
crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue ftitili poeti
emaggiormente Homero. De cui,ho udito che fuillustratoetaddobbatocon
grandiCómétariidaAristo. tileetanchora dallialtriPhilofophidelladottaschuola.
Anchor c h o r h o i n t e s o c h e s e sforzo il Plutarcho con
uno molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente
ognicosadiuinaethumana,aquellociecoHomero.Ilperá cheionegoeffereinme
quellacognitione perfetta,sicome tudi,m a no nego pechoesfermiessercitatoalcuna'uolta
per piaceredellanimomio inleggere quelli,licomeiocercaffi
lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo qualchi
amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli riputato ignorante,
fra li amici e compagni , o c curendola occafione.Cosi senóho beutalargamétela
philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti a u t h o r i a l m a c o
(l i c o m e d i r e si s u o l e ) I h o t o c c a t a e g u f t a t a con l a
l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credochetusiaconduttonon dalla arrogantia
ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita.Laqualeuertu
ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii.Imphoche dimostri di n ó
effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj
dettodellanotitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita. CóciosiachePlatoneetAristorelesonopieniditer
ftimoniidiHomero,diHefiodo di Simonide, Pindaro,E u
ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia molto dottonella
philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E cosiho
istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con
gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti,lequalidi. mostrihoradino sapere.
APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare
dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come
prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamiaoppenionem a
anzihaitu posto inme maggioredubitationeconcoreftatuarisposta.APII
STIO.Chehaicudetcos'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno
Philosopho.Vero eiche meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio
imi perho da quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a
quellecose,dellęqualiho desideriode interrogarti, perlequalihauemo
comenciatodiparlare.ĄPISTIO.Io DELLE STREGHE 8 to
matrimonio prometto de responderti liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO.
Dimm i il mio Apistio, hai tu giamai letto in Homero che anda li e V l y f f e
alli Cime r i i s. APISTIO. Si. Et anchora ho lettoinchemodo andodaquella gére
chefa ua nellaariacaliginofa.cioe che erasenzauiada poceruien
trareiraggidelsole.FRON .Dimmeseltepiace,checol lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON
.Nó leggiamoquel leparolediessoingreco,lequalihoraledicoinnoftrouolga' re
cosi.lo fu quello che cauai fuora allhora allhora ilcoltello
dellacosciasecominciaidicauareconilscarpellounafofla, allamisuradiun
gomito,indiequindiincerchioetancho
rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbresAPIS. Tu hai molto egreggianiétedechiarato
il sentimento,eno manco ageuolmente isposteleparole. FRONIMO. Credo habe
bilettono una uoltam a louéte ligiuochidiDiana,eliballi collecompagne
Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON
.Anchoriopensochetuhabbiri, uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi
ragionamenti, erlafciuisembiatide Anchiseconlaimpudica Venere eco 1 ·me
fufferogeneratimolti Baroninellitempiantichidicote
AtifallacietingánatoriDei.APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO. Tu
debbisapercome queftimal uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi
huominicheerano deditialleopererufticaliepastoralisico me eracommunamente
lauitadi quelliliqualifurono rie trouati nelli tempi Heroici.CosianchoraingannoilD
e m o nioPeleo pastorepadrede Anchise,conciolia che effo fico me
diffecoluilaffolagreggedelli porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna
ombrosa ualle forto laimagin ne dellaThetide dea marina.cosiiftimatadalle
genti.Et ac ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento
demonio uno delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There
madre de Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno
altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere
commettere iltupro, n e a n c h e l o a d u t l e r ' o , ma fi n s e d i u g o
l e r e c o n t r a h e r e i l l e c i. di quelli to matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere
carito Hesiodo, ficomeseuedenellescritturede Greci.Ilpchepra babilméte
dicemoeffer da quiui deducto ,cioedallo effem . pio diHefiodo,loEpithalamiodi
Catullo.Ilche anchorr dimoftrailtenoredelverso,chiaramétedemostradoquella
ancica facilitaetquestodechiarailcontinuo e sollecito ftu diodi
CatulloiseguitareliGreci,pcotalmodo che ispreffe
leintegreElegiediCallimacho,alcunauoltarendedoilsen timentoetaltreuolteisprimendoleparole.Anchora
inganno per co t a l v i a il demonio facilmente Paride, focto figura di quelle
ore Dec. Il quale fi come scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresadi Helena, nosolamentepafceualeper
corelle del suo padre,ma anchorliTori,eptalmodofeue
ftiuadelleueftimentechepareuàunrozzopaftore etigno
fantebifolco.Lequalicose,ampiamentecon sue scritture
quellolerecita.InquestomodofeceinuisibileilDemonio quello Lidio paftore
regale,con lainuersapaladelloanel lo.cioeconquellapartegiacesottolagemma,epretiofapic
tra,ma ciuolta,conlaquale Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina.Il perche
pigliauono liDemonii uariee diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano
uolgate,altreuokic leformaucnoineffigiadelleterrestreNymphe efouerere presentauenolefiguredelleDeemarine.Epercheeracredu
c o c h e s e nascondessino, con il suo ingegno sotto le unde del e tacqua
accio puotessino effer ucdure etpiu fortemente abr bruggiare
licuoridellimiserie ciechj huomeni,ftauanoa p po delliprofondiluoghi dellacqua
doue dicontinuoper driuoltarediquellacuisiritroualacandidafpumaet iuipa
teuafussero appodellenodrici,doue eranonudrigateda güelletAnchora
appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m e fauolefcaméte raccontano
appareffe Giunone ad Tin one,De cuifingononascelliilsuppositiCoérauro . Cofifin
g o n o d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p p i e t a d i G i o u e f u
f f i t r a s f e r i t o necieli,efussifattosecretariodiqllo,etpõstoufficio
hauefli ardireditécareGiunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando adIlioneunanuuolaafimilitudinediGiu
donc.conlaqualegiacedoIrionc,ecredendosi dipigliare co amorosi piaceri con
Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i demonii apparecchiaueno
prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie incantarioni,collequaliiogannauenolegenci,
popoli, etinescaueriocondoppiafrodeilcozzouolgo,ecan
choralidorcihuomeni.Ecosinonlaflauauerunocoloreet imagine della diuinita (la quale
con diuerse menzogne e bugie sifforciava di usurparlaetafeattribuirla)conlaquas
le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo,afarsiadora
re,etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee to che anchora eglivergognasseDiana,laquale
fugeuadi amare lauerginita accioforfitirassiasesllihaueanoiodio la fozza
libidine. I dl e c u i gioco, havemo scoperto in di forccio del demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale
senza uetun dubbio chiamauefli Diana )raccótaueno fuffi fuergognata da
Endimione,eda Hippolyto licome dimot AtraFirmiano,fotto il nome di Dianailqualepensava
pers r e n e s e a q u e l luogo. E il nome di V i r b i o c i o e d i t r e u
o l t e huomo elaleggemolto diligétemente cercata,doue fedo ueffe
ponere,elemani medicheuolidiEsculapiocheporr Sino agiuto alle piaghe debbost
credere fuffero tutte queke lecose fauole etillusionidelliDemonii,epurfeuifuffe
qual che cosache pareffeinuero fuffiftara iltuttofedebbe pene
Sareesserefattoperartemagica delDemonio.Vero-e-che
Efculapioalfinefupoipremiatoconlamercede epremia
delliincantadoriche/elamiserabilemorte.Concioliache eglienarrato da tuttiliantichiauthori,qualmente
fuoce cisodalfulguro,benchefianouarieoppenioniperqualecat. gione,e per quale sacrilegio,
fufficosi crudelmente Occio. I APIST .Dice Vergilio
checosifufliocciso,percherefufciso Hippolycodallamorte.Nonfajcu
cheduolendoHippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca
uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodallamadregna
Phedraetsendofalitosouradellacarretta e(pauêtatilicat
ualliperlimoftrimarini,ficomenarra Seneca,cadėdofuoci
delcarroploimpito,etracciatoemorto,sendoitoneline ferno fu resuscitato,efanato
da Esculapio Veroie-chedice Plinioche cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r
cagio nediCastoreedipolucefigliuolidiTjidareRe di Oebalia q u e l l o chescriue Tertulliano,cioechefur
& arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente hauea
effercitatolamedicina.E cosiritrouiamomolto maggior us
dietanellanarrationedicotefta cosa chenellamorte diR o molo.Maegliebenvero
checiascunodiloro,e-ftatoreferi, 20c computato fra gli Dei,benche coftui fuffe
uno ladrone, e quellaltroun mago erincantatore.Vero -e-chemoltopiu mimaraueglio
digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe che nó ben
péfaflılifattisuoiquelgradehuomo,ilğleerasoftēta toetenatocórâreifperedaun
certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le ubrigaua di far .
FRONIMO . I n altrom o d o scriffero Panaiaso,Poliantho, Phylaccho,eThelefarcho
Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure Esculapio.
APISTIO. Deh n o ti siag r a u e d i r a m é t a r e il cutto, i m p e r h o
felti p i a c e e t u ti ricordi.FRON .Io son côtéro.Furono
alcuni,liqualilcriffe tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscitoTyn
daro eno lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da
Esculapiom a ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada
Troezeneecofipquacaufa, fufli percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyanthoscriue
che cosi fuffiuccisopchelibero lifigliolidi Pretodallasciochezza. E p u o l e P
h i l a r c h o e f f e r l i c i o i t e r u e n u t o p c h e a g i u r o li
figlio bdiPhineo.Ma fraquelli cħ háno voluto refufcitaffeimorci
alcunidilorodicono cheresuscitomoltidiquelliche furo noucefinellabattaglia
eguerra diTroia. Etaltriscriueno che resuscitaffede qlli chemancarono
nellaguerra de T h e bani.Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho,chedice c o m e
fuffe in tal m o d o percoflo ,perche se fforzaua di r i u o careallauitaOrione
nolorefuscito imperho.Anchoreglie moltomanifefto uedere la guerra etan chor la battagliade
Ilio, e di Troia, e tuttilimodi delcome batrer ioisefece.E cosi designado
ilcerchio ,accio demostra Bidouiandarono,ecobarteronoThelamone e Peleo figlioli
di Eaco.c doue Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De: monio ,egiapiunó
cóparfe inuerun luogo.APIST .Turac contimarauigliose cose.FRON .Sono certaméte
marauia gliose etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi: CC cuaniluoghie
paeli,etanchora'per infino nellaGermania etanchoradiroequefto
etdouenonmandoépercercare guelhuomo:Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono
Aroeccellete Caftello uno dellsiuoi discepoli,chelaffoliues ftigiidelle sue
malgradeuoli e diabolice opere perinfinoallo
noftrigiorni.Concioliachedesignaualaimaginediquella
chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano
Aatorobbarelesuerobbe,nellaincheftaradiacqua,osianel
kaamola,cocertifacrilegii.e fuperftitioni,etiujlefaceuauc dere la figura
iueftimenti con tuttiim o d i erano fucoserua.
tiinrobbarequellacosa.Joconobbiunodaluimanifeftato,
ilqualehauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon
troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa
casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel
tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego lartemagicaS. e caminaffis mo
insiemediecegiorni,pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare
quellecose,lequaliho osferuar to enotatodellemanifefteinfidicdelDemonioneanchor
ferebbonosufficientidipuorerenarrarelimodi,cheofferus
elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che
sempre fu,e,et fara nemica dellhumanageneratione,cosiincuttelealtre cose,come
in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quantoalmodo
chedimoftradipigliarecarnalipiaceriio l e d i c o c h e q u e l l o l o v u o l
e n e g a r e ( si c o m e c o n t r a r i o a t a n u vidottiefauiihuomeni
Jiquaidiconobauerloconosciutoda quellichelhanno isprimentato,etanimosamente
teftifica no dihauerloudito)e-riputatoftoltoepazzodafanto.Ago itino il qualescrise
con ieftimoniidi coinufa a m a nel quintodecimo libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro.
HatifouentedelliSelaaniepergersiFauni faftidiofialledon
De,chiamatidaluolgoIncucbbiioe chesefforcianodico
metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori
trouatidiquellichehannohauutoilsuodesiderio,pigliado. ne amorosi piaceri con effe.
Et anchordiceche sono alcuni alori demonii chiamati da Galli Dusiiliqualidi
cótinuoco g r a n d e i m p o r t u n i t a t e n t a n o le d o n n e p e r h
a u e r e l a f c i u i p i š ceri, efouêtenedcuenenoalcocentodellilorobrimatid
e fiderij,ecotetidanoifonoderijFolleti. APISTIO.Tiprie 80,feguitapur olera,
FRONIMO . Horquantopettenne aluiaggiofannoper aria credocheanchor habbia udito (cc
c e t o se tu non l’hauer a j letro) co me n e u e n n e A b b a r e n e l l a
Italiafouradiunavolátefaecada Pythagora, perinlinodal lo HyperboreoTempiodiPhebo.APIST.Ne
ancheque fto-e dame narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo
Philosopho Platonico. FRON. Se bentutiramenta taiqueftecole, facilmerecrederaile
altri.Ilperchetu debbi Sapere qualmente comenciaffe cutiaquella Necyomátia di
Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor pi morti.E
cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa
nuouaqueftifigmenticfittionidifarelicerchi,m a anzifos no
antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di seguitare li Poeti
Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c a u a r e c o n il f e r r o l a c a u a
t a t e r r a a l t r e ,etutte qucile cose che
seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto alliragio namenticolleombreo
sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi che fufferoritrouatida
Homero .Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere, liqualiconoscono fufferorj
trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m e H o m e r o h a s e g u
i t a qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora ha imparato
essi nomi congranfole lecitudine econnonmenore offeruatione.Ilpercheferiue
GiustinoMartyre,come furon composti escrigriliprimiuer fidella Iliade ad
esempio delli primi uersi di Orpheo , liqua Jiera noi ntitulaci di Cerere. E
coliconuarü riti, costumiciof
feruationiogniunodesiderayaecercauadihauercópagnia familiarita
eragionamenticollimorti,per cotalmodo,che dipojera detto come quelli scende vanto
giu nellinferno . che narrafi interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo Orpheo
etHomero ,edicesicome uedessejuinelloinferno JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran
tormentateper quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete
honoratoe reueritodalli Croroniati,etancho sa molto piuperche racconto dihauere
ueduto efferui gran 1 demente cruciati,e martoriati quelli,che
refiutaueno di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere.M a q u a n to
atrapassare per ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c c h
e t u li m a r a u e g l i. Con c i o l i a c h e a m e parc non importa,febene
misuri lepenne delliuenti con una laeta o con uno scanno ,ouero con una caura.
Non fe dice in qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle, neinluunocarrodaduerote,oda
quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni,oda Olori,accio seguicaffeVes
nere,Medea ouerofulficondottoconduiserpentisottoil giouo comecòduceuano Circe,ocollilioniamodo
diCya bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in
altosouraEuropeelaterra Asidafecondo lacoluetų dinedi
Triptolemeo,acciochequellofusliportato lauorato redelle fructa, e questo coltore
della philofophia, m a inueco furono amenduoiingannati da Pallade cioe dalla astutia
e melitia del demonio. APIST. E c i o m i r i c o r d o d i h a u e r e u d i t
o narrare feno meingāno ,diSimonemago ,ilqualeebbe are diméto
diuuolereandareperaria imperhoinsuamalhora. Conciofiachedesidetandodivuolersaliresouralaria.c
fina gēdodiuuolereascederenellaltocielo,ecosisendogiapore catomolto inalto
dalliDemonii,percomandamétodiSan toPietroapoftolfou
laffatouenireconrátaftetagiu interra d a dettimalegni fpiriti,chrópedofi tutte
loffa,fu Ioétedella, uita.FRON.Ě forlianchehai udito dinon so che Ethiopili
quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe labrigliaalla Dragoni, edipoiseggédosouradellaloro
fchinaueneuano inEuropa.Cosisediceeffernarratoda Ruggeri Bacchone. Ma
purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa accio tu n o pens
uoglia ramétare liuoli di D e , dalo , liquali se n o s o n o s e m p l i c e
menzogne, sono al m a c o c r e duticomefrodiet inganni del demonio eta nchorajotaci
in che modo sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano Cesare. Oltro
dicio fetu confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e succubi,cioe
che si d i m o f t r a p e n o i n f o r m a e f i g u r a d i m a s c h i e d
i f e m i n e d, o n a n d o amor tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo
allimiseri mor Y tali
c o n certiunguéti, accio appareffe a led vero alli altri che
fufferotraffigurate e c o n uerfeinunaaltrafiguradiffimiledallaprima.Ebenche,co
teftohuomo dotto,fingeffediessere trafinutato,non perho dicefufficóuersoinuno
uccello benchehaueffeufato quel® lamędememedicina. Ma bugiardamente narrafufftramu
tatoiunoasino. Anchor dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina, dubitandoperloerrorehauea
fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano inunoAlino.Il perche
dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a
lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfettoche fendodiuenuto
Asino, hauearetenutolame te,elintellettodiLucio.Etanchotanó edaistimarechegli
ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a
c h i a r a f a m a c o m e c o t e s t e c o s e e r a n o m o l t o
inufanzaappodiquelledonnedi Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno
letefsercitauenoineffe.Non lo con fermoanchora quefto, quello Platonico Apulegio,chepoi
boseguito:fingendo diessereprimaitoin Theffaliaauanti tali perquale
cagione non uoi credere chesiano anchora
fimilifpiricipenoftritempiscóciosiachecotestosecôferma có
tálietátiteftimoniicliqualiioglicamétaro,feltipiaceras Quanto
allunguento,iocredolosappi,perchediffusamen tenehascrittoil Syro Luciano el africano
Apulegio, uno in greco e l’altro in latino, Eco s i s e ha queste cose i
scritte da l u i. Dunque cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te
buffelette equellooliodiquelladoma p u o c a iftima nella sua conuerfatione : D
i p o i esfo m e d e m e authoreledichiara dicendo.Incontanentefuunta delluny
guento,fufattaageuole dauolare.Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo
non douento altro cheuno cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali
guardaueno,00€ tofingeuano diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. I o n o n m
a i c r e d e r e i, c h e u e r u n o f e p o t e f f e t r a f f o r m a c e
d i una specie dicreatura in una altra osiaper uirtu de alcuno unguento overo
per incanto magico. No dimenoy uoleuano quelle sreghe effecuedute ungersi decuine
fatto fingeffe diefferueftito diuna nuoua forma sendo priuo del
laprimarSedricamenteioreferiscoleparolediquello cosi
diče.pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c. Et assai alcrecosescrissenelle
quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto seguitare ilSamosateno. Cóciosia
cheha fato tomentionedelloThebalicomormorio dellolio trasforma
uadiunaformanellalera edelliremediidellecosecontrodi quegli
incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima
figura.APIST.Perqualcagionecreditusiafattomentione diquellemedicinedicose lequalieranoinagiucorio,econ.
traquelliincanti,efrodimagicedFRON . Segliepurcosa uera egioueuolein
questemedicine,penso siapreso daAri. fotele.Nelleoperedecuiholettcohe e
ripostofralemera uigliosecosecomee cosuetudinechemuoionofacilmeteli
Aliniperloodoredelle rose.IlchesapendoLucianoeLucio finseno di mancare dallaformadellalino,de
cuiprimaha? ueano fintiessernefigurati.Oueroforse egliequiui nascosta
unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemens t e e r a n o infamate le
donne di Thessalia e d i Thressa, che fa . ceflino delliueneficii e dell’incanti,
et anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a
colli u e r sida quelle, e chiamatelefiffeftelledelcieloilche anchora
cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio , etokro di cio diceuasifufferoinspiratedaBaccho
eteranochiamateMis mallonecioeseguacidiBacchoporradolecornasicomefa ceua
ello,etanchoraeranodecreAdonidee furiauanocollo complicate ferpefrali Thyrliconillusioni
magice, etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore e veneratione che
uuolsiintrare nella compagnia di quelle la Reina Olympia madre delgrade
Alessandro.loistimoforseche quelle cose paionobugie
Quotrebbenohauerpresoprencipiodaquale c h e fimilitudinee colore deluero.Pare
anchor cosa piu pro babileche haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi
güemerauiglioseopere de demonii non senza qualcheue rofondaméto
dellauerahistoriacoloratoer adombratoco molteuanitatie
fitrionichedallifonniilicomee scrittoda . Synelio ilqualeuugleua
haueffonohauutolefauoleantedit 1 tecCOG m i ricordo il
qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo do haueffonolamaggiore
partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria
etanchorafforzofididimoftrarecome dipoi fufferofuco fouente ampiate in maggiore
cose effe fauolefondarefouta dieflaueritadallafalrafamadelcozzo vuolgo.E
coscredo iofcriuefleVergilioquelperso: L a dotca carta teftese di Palephato
. 1 ilSole confinteparoleeconaflạipersuafioni,dauaad inte.. derealledonne
di Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco. 1 ! 1 fimilifinteopere,ouero
dagrande aftutiae faggacita.Ilper che fu uno Greco chiamato Palepharo fe beu
teecofilialtii,daeflisonnü.Ecertamentenon sarebbe itaa to alcunäcánto brammoso
di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero hauute e uedutenefonnii,licome
ueduce fuoridel somnio collequalifufferotantotirauefforzatilhuo
minidimerauigliarsi. O quátofonoliueneficii,maleficiiec
incantationiramércate,iscritte, enátrate coli dalli Greci.co me dalli Latini, Percia
da Vergilio-e-dettodiquellaantifti teefacerdotessadellastirpedeMafsilli,laqualeprometteua
disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi come lepiaceua, etdifarefermare
lacquane fiumi,difareci tornareadietrolipianetiedichiamare,etfareuenireafelc
notturnemani cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto senarranolemedicineerincantidiCirce,diMedea
diCar nidia,equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco. no
lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si cilianoPhiltre di Simetha
ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo pensare
che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver
toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe
segacicaritrouaradiAganice diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia
laLuna. Ma cosi era la verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta,
ethorapiuno seue deua, perlainterpositionedellaonibradellaterrafraeflaet
facomelecoduceuainquel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Ecosidiconohauefferoprincipio
lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro qualmenteochelhuomeni
eranotramutaticolliincaptieueneficiiindiuerse figure sig c o m e bugiardamente
et anchora scioccamente parlaueno
alcuniouerocheappareuonocosi.Ilpercheparenonsepose finegare
senzaqualcheAtoltitiachealmancoquellinonpa refsonoaleoadaltriefferefimilecofa.Non
tiraccordidi quello che tanto chiaramente se dice delle figliuole di Prei t o
cioe che impieno con falli m u g i t i e u o c i d i animali li c a m pifet
hauer havuto paura dello aratro, eta nchora hauer,cer cole cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas
uola;Come furonotrefigliuolediPreto,lequalisendogia :
nelfioredellagiouentueconoscédoseefterbellissimeintras.o nel Tempio diGiunone,spreggiarnolaDea
Giunone, cipucandosieffer piu belle diquella perilcheadiratala Dea ai miffe
tale folia inesse che le pareua fulsero diuenute in
formadiuaccheilperchehauendopauradiportaree con ducereloaratro
fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, c o n i l testimonio di Homero, ma Ovidio
dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus
dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli
haueanofurato alcuni animali dellar) mento di Hercole. Lequalidipoifuronoreduttease,etui
suilluminatalafantasiadaMelampo, ficomefuLucio con la rosa,m a dicono alcuni
altri che furono fanatee ritornare allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi uoglia,
cosiegtie narrato uariamente.Vero e-oche intraffinoin fimilifurie pazzie, o
fufli per ira opera del demonio, overo pe t qualche corporale infirmita ritrouolantichita
a quelle gios ucuoliediuerficimedii.M a tu debbe faperecome bebbero
liDemoniiuariie'diuersimodi,eranchoracótinuideingan narelihuomeni, in
quellitempi,nelliqualiteneuano loim perio quali ditutto ilm o n d o ,e non
solamente per lifacerdo dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido
lictimagini,m a anchora ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole
inspiratedalfalsoPichia,et fraudolente Apollinc.E
cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare
ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi et ins. uiluppauono
YA ma non gia con quello il quale seguito Varrone nelle Satire. Conciosiache
quelloLitio-e-moltopiu anticodicoteftoálcro Menippo. Be n c h e s o c h e t u i
n t è d i q u e l l o s i g n i f i c a L a r u a p u r a n c h e io i uoglio
ramentare,per parere disaperlo,etanchora per raj zentarlo lecosihora horanon te
occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre dello inferno,ouero ispauenteuole scon
bodellanoue ele Lamieeranochiamarealcuneimagini
efpiripimoltibrammosidelafciuiamorie fozzipiaceri,es mche grandemente
desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi
nonpaionoatecotestecoseche hauemo narrato s o p r a molto similia quelle
delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe dellanoftra etades APISTIO J
n neticaame paionoquasisimili.Iiperchehoraoccorrono a me
quelleparoledellanticafauola cioeLaruaLamia etIn cubicongutellodiersodi
Ausonio. a l a p p a d o n o quelli nelle precipitanti rouine delle
scclerita , defotto colore della sagrata religione.E perciopigliauono Qaric
formeediuersefigure.Colisepuouedere econsider rue Protheo figliuolo dell’Oceano
appo de quasituttiipoet p.loquale ledemoftro in formadiuariifimulacri efigure,
ficomediceVergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche fubitosufatrohorrendoporco
efuriosa Tigre, squammolo dragone,et una Lioneffa con lafuluante egialda
ceruice molte altre coseramentanodilui,che lafloperbrcuita'. mente appareueno
quellieccellentiBaroniche furono oce siliad Ilio alVinicore.Coli anche
liramenia in che m o d o agparessead ApollonioTlaneouna fantasmaouetoappal
tente figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o
fiaspauenteuoleimagine auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee
conuertonseinuariefi gure etalcunauolcaincontinétechesisono rappreferiate
fpareno,epiunon feuedeno. Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna
Larua,ofiaLamia,forrocoloredị hono . Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd
Dimofte bomio, Nora e-la stregain cunede fanciulli, con
quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor piuolcre, ramentiamo purdelaltrecose, a
c c i o f e possa donare egual giudicio e g i u i t o senz pa u n t o di
menzogna.Credo chetu fappi,qualmente sonoscrittiiu finitiuersidelliueneficii,et
incanci,dellilicquorie beuande delli Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate
fauole fchedociele Nenie Marsice cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come
sono iscritte e cantar ce o n una certame Laphora e similitudine quelle cose
che cosi leleggono ,cioè che lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci,
perledonneche lusinghe e chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa
eche fufferoinstillasili amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful;
secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza
enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio tuintenda,come
non erano imperhodetci incantine anchora detre representatio
nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no, epauentaueno
quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente OliffeasfaltoCirce incantatrice
non con ildolcebaso,m a siconlagutocoltello.Jlqualecosi comená fu presodal
ciecoamore ,cosianchor nó fu inuiluppato dalli incantamenti: Li quali non nuocenosenza
malegna sottilita delli demonii. Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi leno
ufano uariearti, e diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza
libidine,ecolli deletreuoli,etlafciuipiacerie
giranoasequellichesonodeditiallauita ciuilecollericchez ze,econladouicia
epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche puochi con lepromiffioni,econ laesca
dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli chese sono dati allistudi della
philofophia. Ma quátopertenealliconuitiattédiben. Sedito, come quelli
inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non
perhofarodiscoftonedisconueneuole dalli antichi scrittori. ConcioGache
ritrouiamoiscrittoda Herodor." todellamenfa del Sole eda Solino
essere-istimata quella unacosadiuina.CosiritrouiamonellauitadiApollonio Tia
teo neo , il convito della spora di quello, la quale era riputata una
dell’antidette Lamie o delle Larve, o delle Lemire, eLeg.
giamoiui,coine'sparbinoliyasipareuanodioro,ediariento cheeranofulamenfa. Etincoralmodo
appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini e figure chiamate da
PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie,ofianoLate ue.Gia puocoavantihauemodechiarato
checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto alleLamieritroviamoin Esaia
dicono.co m e raprefentanouna certa beftialefigura:AlcuniHebreial
trimentescriueno,dicendo come seintendeper leLamie alcune ombre e fpiriti furiosi,benche
siafattamêtione nelli Treni di Geremia propheca dellem a m m e ouero p o p e
della Lamia. Ma altriistimano fia deriuato cotefto nome dal lapiaree spaccare
etalquantidallaLama cheuuoldirenok sagine,oispauenteuole pronfondita .E
dequindicredono sia derivato quel detto di Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta,
Lamia deluentre. AnchornarrafifusserogiaconduttinelspettacolodaProbo Cesare
molte Lamie.lu qual m o d o e figurafufli quella che inganno Menippo,non
lipuofacilmentecofidaaltroluogo conoscere quanto da Philostrato. Ilqualenarracomefu
ingamnatoeffo Cinicoda quellaLamia,quandoellafinger ua dipigliarloper marito, edipigliare
amorosi piaceri con quello. Parimente i o i s t i m o fulfi u c c e l l a t o e
s c h e r n i r o Apollonio, quando
erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera
ingannato,percheiftimauaefferele Lal miemoltofacileadouereamare
Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente brammasino dehauere amorofi piaceri
coneffi,enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat ni humane. Ma il mio Apistioio
techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle brammofe uoglie d eamorosi
pia propheta il luogo delle Lamie, doue famentione del
fcontrodelliDemonii incubicioede quellichefedimostra no
allhuomeniinfiguradifemine, ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano
coftoroche siano leLamie dihur mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin
giu c e r i n e condutti da desiderii libidinosi, ma sono c o d u t
t i dalla malgradeuole invidia adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso
emandano nelprecipitiodelli peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella
infernale dannatio ne doue efli sonoconfinatiinperpetuo.Etacciobenintens di
infiamniano cotestisceleraci spiriti,limiferi mortali,cioc
quelliimperhochefilaflinoingannare conunacerrafiam m a occoltam a non sono
efiinfiammarida quelli ilche ini teseilpoeta
Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto fuogo. Conciosiachemi
arricordochefunariatodallaStre ga che quando se appresentata il demonio allisentimenti
suoi in diuerse e uarie forme haueainu sanza diconoscerlo e
didiscernerlodalliueri animali delliqualiello hauea pigli ato la forma in questomodo.Lepareua
che uiintraffenel pettouncertocalore,etuna certafiamma,per laquale era
certificatacome quelloerailDemonio.Anchoranarraua qualmenteera apparechiata alla
fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua nelgiuoco, douc conueniuano
tuttiauantila Donina,olaauktidelDemonioche seprefen cainformadiornatiffimaReina
con la quale fiammadice uache incontinentesecocceuanolecarni femagnono ren dolemoftrateadeflafiamma.NonbrammanoliDemoni
ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper managiare , m a il t u t t o o p e
r a d o e p r o c a c c i a n o , a c c i o c o n d u c h i n o lanimee corpi dellimiseri
mortali nellisempiternitormen" ti.Laqualcosaiofocheegreggiamente
inrenderai,quando udiraiparlareDicafto.Ilqualefebenuedoenonme ingan
palocchioperillongospatio,ame pare gia fiaallemani,a combattere con la strega. APISTIO
. Benben Fronimo. Tume haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno degnoe nobile
caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet
egreggieueftimente,ecintodiuna moltoornata {pata manon
credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto eccellentemente linascoffi
sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi etanchora delliChriftianiTheologi.
Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu per talm o d o adaptare
in cotefta parte che ciretta deluia, gio , gio,chepuoffi
seguitareitgia comenciato ragionamento , et anchor puoffi dimostrare dellaltre
cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime con il prino,ficomese
fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e dechiaratione
chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f h a u e f f e i o b e n p o
i m a f t i g a r e H o r n o p e r d i a m o t e m p o ,m a te priego seguita
lagia comeciara disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e ,et
anchor sarebbe necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in
douere fatiffarealletue humaniffime petitioni N o d i m e n o pur mifforzaro
disatisfare a tequáto porro.Cerraméte farebbeuilan,eprivodiogniciuilita,feionon
efsaudillele gratioseetanchor honefte addimandedicoluide cuihogia
conosciutoperlesueresposte chegrádemetedesideraebrå ma
deintéderelauerita.Dunqueseguirolagiacomenciata difputatione,eramétaro
quellecosepaionosianoaccómo date aquelloauãtidiceuamo,quáto imperhociconcedera
ilbreue spatiodel uiaggio.Giahauemodettomolte coseet hora uoglio rispóderea
quello tu dicesti cioe che pare nale
accozzanoleStregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe dal Demonio,eparenó
fecóuieneno inreferire quelle cose delloro sceleratogiuoco,ma
cheunadiceinunmodo elal t r a i n a l t r o m o d o .I o ti r i s p o n d o c h
e c o t e f t o p u o i n t e r u e n i r e . o dalla paura o d a m a c a m ē t
o dim e m o r i a ,perche c o m u n a mēte fonogroffe de ingegno,ecôradinedella
uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia del demonio ilqual
inganamano tuttoiunmedemomodo.E questofacilme. te lepuo conoscere
nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione
dejucătationinello Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella
Italia E fében consideraraj conoscerainon esserfimiletotalmen re quella
PharmaceutriadiTheocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede
ueneficii et incanta, menti unacon altra.Anchorpareinteruenisseilfimilenel li
oracoli e responsioni. Perche altre eranole respofte date
perlefemineinspiratedallimalegniDemonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture
e coragini della terra, et altreanchoraquellecheeranopigliate
dallhuomeniper lifonnii nelli Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem
piadiPaliphea,elmiedici Calabresianchora essihaucano confuetudine, con& Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi
Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora
emanifefto comesoleuanogia Geceaffaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon
solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di Antonino.
De cuiraccontaHerodiano chean doa Pergamo perlanti decta cagione.Anchoraleggiamo
q u a l m e n t e h a u e u a n o c o n s u e t u d i n e li O r a c o l i d i
d a r e r e f p o n f i o n i p e r il m e z z o d i intier esta r u e , e t a
n c h o r a p e r m e z e zestatue,emediante anchoralecolombe,ofufferoquelle
neriaugelliofusserofemine disimile nome non loro,m a benfoperdetci modireuelaueno
lecoseocculte etannon tiaueno quelle doueanouenire .Anchora assai auttori narra
n o c o m e e r a n o f a r t e f i m i l i c o s e n e l l a I n d i a p e r
il mezzo del Jalberi, et in Dodone,ficomeracconto Aleffandro Magno, Erano
anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo furore narrauano
marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni
ficoteitietaltrimillimodi,ediuerfiJunodallaltroda reuela re
lisecret,etannonciare le coseda uenire.E come erano di uersespecie
egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi del
fceleratorico,damanifestarelecoseoccoltee da aluontias rele cosedouéano
uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora
diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano
diuersili incantamentidelliantichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon
manco sonofatticon altrisceleraticoftumie modi
chesoleuanofarequelliantichiRomani.Sononarra tealcunecosedallanticoCacone
nellilibridella agricoltu raditátasciocchezzache retrouansipuochile poffonoleg
gere senza gran riso etischerno.Nondimeno furono imper r h o i s c r i t t e d
a u n o h u o m o R o m a n o , i l q u a l e fu C e n f o re, e rriomphatore. Ma
quantoalmoto.cioeinchemodo fiano portatedalDemonio ,equanto alluogodoue fono
ferma te tunon tidebbimerauegliare.Concioliachequellacosa che e
conåfuoingegno.bugiardafallace,etingannaterigcel i e quellafouentdee
piumodi,ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaallasemplicita.Ecorefto
efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora se puo
conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola
fedariietanchorcótrarii.Etanchefpeffeuol
tequelloferitrovanellenarratehistorie.Ilperche fouente seritrovauna
cosascriccainduoietremodi,etanchorqual che uoltaipiuan o
cótrarioallalto,esepurno seranocorra tii alm a n c o seranno diuerse uarii.lisimile
intecujene anche nelleoppenionide philofophi, enellerefponfionidelli(auii
(ureconfolti,edoctoridelleleggicosipontificalicome imps riali conciolia che se
citrouano varieoppenioni circauna medema cosa,Manon maiimperhoseritrouaquea
cofa, nelle(criteurede Theologgi,eccettoche inquelle cosel e quali sono communi
coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle
cose,lequalipropriamentepertengonoadeffs TheologgiciocnellicomandamentideIddio
ecosinella! He cose, che pertengonoallafedecatholica,etaliicoftumi,
chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a
fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia etinunomedesimomodo.Ve
to-e-chelDemoniomalegno amicodelladiffenfione,con c o m e -e-bugiardo et
ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio.Ilquale uocabolo
segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle fauole delle quali
gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai Thuomeni
nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio
ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della
dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti
modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari)ecosicomeanchoragia
tirauaafede donneciuoleconilmangiarebeuere,imbriagaree con lila sciui e
carnalii piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e
donniciuole c o n fimili piaceri,liquai c o m e chiaramente sevede furono
sprezzati da moltiPhilofophi. M a quelliPhilosophiconduceuaconmoldimodiafarliado es
tare cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti
cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e
per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialliOracoliquero
all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione dellecose
chedoucano uenire,etanchor pareuali diotteniredicflereportatiperariaindiuersi
luoghi.E coj fendofatięquestecose con loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano
ad una certa cosa diuua,che pareua fufli 11€ dettihuomeni.Inchemodo
altramentehauerebbonopor furouedeteli discepolidiPichagoraestofuo
precettoredif. putarehoranelTaucominiodiSicilia erhoranelMetaponto in cosi
puoco spacio di tempo. Per quale via f e r e b b e camminato per aria Empedocle
et anchora in che modo cofi
prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia maco Acrobares Coluigrandementeseinganna,chicrede,
che Apollonioconosceffeaffaidellecose doueano uenireet
icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per
paurahauciserodiluiFengeuaiDemonioaftutoemalus gio diesseremartoriato da
luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della
finta diyi nita,dipoipiuforcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente
rouinalenellipeccati.Ilche facilmente,fel apiace. i puotrai conoscere dal fine
che seguicaua .Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e
dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco loqualehaneacoduttoatantasciocchezza
checrede ua dihauereortenuto ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom
pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu h u o m o mortale
m a douentarebbe Dio i m m o r c a l e . I m p e r h o c o f i f c c i f f e q
u e l l o in g r e c o ,m a i o l o u o g l i o e
mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io f o n o a u o i Dio
immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte, quero di quella
decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello pendeouaucto
Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda pensare
chelipaffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel
Demonio.Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche
diceua come gia erapassatalanimafuaperdiuerficorpicon questepar role
grecelequale uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun
fanciullo.Ecolialfinefuconducoallamor le colleuocidelliDemonii,econilfpiandore
dellefiaccole ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof
lonionelTempiternosupplicio con tanima insiemecoilcom p o . L a q u a l e m o r
t e n o p a r e c h e h a i n d e g n i a alli n j a g h i e t i n c a n t a t
o r i . C o n c i o l a c h e u a r i a m e n t e e g l i e n a r r a t a la m
o r t e dieffo,perchesonoalcunichedicono comemoriin Ephefo
ultriscriuenochemoriinCreta,et alquanti alttiuuolero mancale
inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose polcrodiquellonerempidi Philoftraco.Benchefuffyadors
toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale scelera to costume ficomelaltri
frodidelDemonio manico etheb befinefrapuocoTpatioditempo.Cofianchoraporloayeni
m e n t o d i M e f f e r Giesu Christo pero Imperadore di tutto il modo mancarono
tutti li oracoli respofte, edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei. Nelliqualierainusluppa.
toe strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello, dquale
apercaméte,epublicamentedauaresposteperliora coli per liIdoli,eper lialtrim o d
i hora fcioccamente parla
perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono
uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares
Dignate Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin
piacerigloriofredigrar d e r e p u t a t i o n e n e t é p i H e r o i c i ,m a
a n c h o r n e l l a e r a d i A l e s a Gandro e d i Scipione .Alliquali fu
attribuito cotefta gloria, che eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E
questomolto maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia
raccontare cioe cheera credutoche il D e . monjo chesefaceuachiamareGiouein
figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio
ne,econOlympiamogliere delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte
checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che
erano la f c i u i libidinosi e carnali, m e s c h i a n d o l i i m p e r h o
a n c h o r a ce ii LIBRO PRIMO qualche coloredi
supexftnione.Anchor cofiinelengaquelli, liqualidefiderauenoebrammauenola
gloria,eteccellencia dellihonorimondani,liqualitendofralimortalijeshauédo
proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia cicacontinuahaueano
hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce
pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidiOrpheo comesendouiuofu riputaco
profeta. et dipoisendomorto fedice comedauaanchorresposte.È dicefle
anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando
effocaponelLelbono ;etiuihabito in unaspauenteuoleruppeuaticinando
edandarefpoufioni perliIpiracolietaperturedellaterra.Portauanoanchora in
yoltali oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina
torifendoancheegliuiuietilfimilefecerodoppolamorte, Ilche
forsigrandementedefidero Empedocle quidouuol. fiefferciputatoDio
immortale.Fauolosamente anchorrac contano
comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte efaceuanobattaglia,ecombatteuanoa
cheandauanoacacciarelianimali,e luccellietcayalcauay
poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca, uainRhodope. Oltradiciodiceuano
comenosolamente fc eccicauano,etferappresentauenoleanimede quelli con
lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora
spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo,
ficomeseriuePhiloftrato,leappresentarsiAchillealTianeo, etal Vinicore
Protesilao,collaltri Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche lafaccia
juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli,perchefonodialtra maniera emolto
diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor
diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio
ediDittoCreteseteinsegnanoquantosianolijnganoi delliDemoni
elebugiechehannopoftonellacognitione
etanchortidimostranolinoceuolideliramenitiepazziem e
fchiatecollibuonicoftumi.PerilcheseilDemonio hauccel
laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise iftimauerosauiiedotti
credendo lecose contrarie e total, m e n t e d a l rl a a g i o n e d i s c o f
t e q, u a l e c i l a c a g i o n ce h e t anto grandemente tuti marauegli diuditezediuedere
molte co feuarie, diuerfe collipiedilaconfegratahoftia.E cosiinquestomodo
comanda quellofceleratonemico deIddioachiunqueuuo leentrarenellasuaprofana,maledetta,eperfidecópagnia,
che abbandonino, preggino,etischetniscanolanoftra fan:
ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare
neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon laueritanellete n e b r e et oscurisa c o
n la luce n e a n c h o r la fuperftitione c o n lareligione.Io credo ilmio
Apistio,chehormaitutifiaaffaj certificato e chiarico cosipian pian caminando di
quello decuihauemocóferitoedisputatoetanchordi quellodel qualemi
addmandasti.Deh pertuafedeuediuedicolala Strega,che eagrandiragionaméticonildotto
Dicafto,ne) p o r t i c o a u a n t i d e l f a g r a t o T e m p i o . A P I S
T I O . D i o u i f a l u i. DICASTO.Siatie benuenuti checosa ci e dinuouoil
no sciocchee pazze econtrarielunadellakira nelleStreghedenoftritempirM a
anzimaggiormente cu tidebbimerauigliarediquellaeccellentesapientiaepoffan
zadiChrifto,laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto ilDemonio malegno
eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tantiReggi,Oratorie Philofophi delle
genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni sapientia hora a
pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e donniciuolecioeche lo adorano
loreuerisco Do Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu
odebbemacauegliarechequello chegiaerafatropublicamenteintuttoilmondo,etfratutte
le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli
picciolie Atretti c a n t o n i d a p u o c h i s e c r e t a m e n te,e
conignominia eaergogna.Ma uoglioche tuben consi deriunacofade diuina gloria
frale altricioeche glie,tanto
fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede de Chrifto chenon uvole
ilDemonio peruerfo emalegno niuadinoallesuefcelerate
congregarioni,eradunamenti, neanchorauuole che conuersino con luile
Streghe,fepris manop reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar
nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano Kro Apiftio
APISTIO. Loaddimandamo ate.Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti quiaccio
udiama imperhosettipiace.STREGA .Heime doue fon giuntai DICASTO.Non hauerpauraM
a ftapurdibaonauoglia eparlasenzauerunpauéto.E nodubitaredi meconiciofia
cheiotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata feliberamente
manifeftarai iurre letue maluagic opere
lequalinonpoffonopioefferpalcofte,perchegiaho liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato
etanchot fulhai cófeffato ficomeiográdemenre desiderauo .S T R E GA.Deh
heime.Gialhodetto.Per qualecagionedonque m itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora
inten; dere? DICASTO ,Perche e bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente
inantidi duoiu e r ditre teftimoniim s anchoraauantidipiu
etalfineanchedavantidituttoilpo polo fedesideridiIchifarelapena
tassatadalleleggiea voi che setidi questa'maledetta compagnia,per
tantifacrilegii, e t ā r e f c e l e r a t e o p e r e c h e u o i f a c t e . V
e r o - e - c h e g i a h a i a m e promessodi
faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso
seruandotulepromiffioniantidectedinon confo gnartinellemani delGiudice
ilqualeincontanentetifareb b e brugiare.cosi sendoli c o m a n d a t o dalle
leggie.H o r a noir tic o m a n d o altro eccetro che tu ramêti unálıca uolta
quelle c o s e c h e t u h a i f a t rco o l i demonii n e l g i u o c o o s t
a n e l c o r s o come fedice uolgarmente. STREGA. O maladerco giuo co, O
giuocoinfelicepme, mala fortemia.DICASTO . Nonbisognanohoralagrime,non
piantineanchegridi. STREGA.Deh perquellahumanitaetgentilezzachein uoi
leritroua,priegouinon mi uogliateperhora piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi
concedermiun puoco fpatio di tempo ,etun puoco diriposo narta
tantochemiramentiiltutto ecolidipoiuinarraroognicosa chehofatto:DICASTO.
Piacédouigli cöcedero,quellochele piace,etaddimanda. Conciosia
chepoiraccotarajl tuttoconmegliore animo,
conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia namenti perinfinoadomanc.Doue
haueromolto ápiace re,felno uifera graue uiritrouiacipresenti.APISTIO.NO
parui Pauigraueaquellihuomeni desiderosididottrinadiparz
cicledesuoipaesia andarperinfinoaGnosocittadiCreta allaspeluncae
tempiodiGioueperudireleleggiualiee di Puiocomomento di Minoffe,ediLicurgo,etferaame
dun que faftiddioi caminareunmiglio,accioimparqiuellecose lequalinfeo
sonovere,almancopaionouerifimilipladispu tationediFronimor F R O N I M O .Hora
mi callegromolto perchetiucdotantoiftimareiionm e nialauerita, puran choraseben
nolhai certa cu faialmaco contodellafupility dinediefi.IIperchenoseraanchorame
grauedicitornare quidalnostroCaftelloperessercitiodelcorpo.DICASTO
Cofi.dunqucretornareridanoi,etioue aspettaro con gran
difio,Andatidunqueinpace,E tu guardianodellacarcere ritorna colala Strega,etu
Strega pensa benil turco ,accio il polli
ordinatamente,efenzauerusiabugianarrare. IL SECONDO LIBRO DEL DIALOGO DETTO S a
r e g a d e l S i g n o r e G i o u a f r a c e s c o P i c o d a l l a M i r a
d o l a &c . molgariggiatodalVeń.P.F.Lcadro delliAlbertBiologuese.
LEPERSONE RAGIONANO. DICASTO ,APISTIO,STREGA.FRONIMO, DICASTO . O fiatreeben
uenuti.Atempo fecigiúti,con Icioliachehorahoraseracondutto fuoridella
pregionelaStrega esecamenataauktidinoi. APISTIO . martoriare quel lachegiahacófeffatorAPIST.Deh
buonadónano-e-ita to portato quiuerunacosa da sormérarti Vero e cheFroni moetio
Gamouenutiquisolamétcp uedertietudirtietan chor p aiutarti quáto
potremo.FRON.In Heritacosi-e c o m e ha detto Apifio.STR ,Deh quäto grauemetemi
mars torianocotestemanettediferro,ecotefinodiegroppidelle legatureDeh cheioho
pauran o mi siendatimaggiori tor menti. F R O N .TipriegoDicafto,comanda
chelasciolta. D I C A S T O . I o son cöteto.O caualiere supresto sciogliela. S
T R E G A Hormai cominciaro'un SNN DELLE STREGHE 10 Ecco coco che
e-menata legata. STREGA.Eime,cime.Inquestomodo ferua sile p r o m i s s i o n i
P e r q u a l c a g i o n e u u o l e t i p o c o diripigliar lispiriti
DICASTO.Sta purdibuonauogliaperchetipromettodi n o n m a n c a r e i n u
e r u n a c o s a d i q u e l l o t i h o p r o m e f fp o u t
chetuserualepromiffionididireiluero senzabugia edi narrareognicosaa punto
diquelloferaiinterrogara.Siche racconta iltuttointeramente. Vi prometta di
feruarequello cheajho promessoliberamétefenzaalcuna menzogna.DICASTO .Dunque
comeciadinarrarequel lecoselequalilaltrogiorno,etalichorahierifuiltardoam e
folo cöfeffaftiscriuendoleilNotaio.STREGA.Seuoilerar mencarete,elereducerete
amemoria,colleuoftré intercon gationirefponderocon quelordine,cheuoreti.DICASTO
AddimadatiuoiApiftioeFronimo,concótentolepofsetiin terrogare
cócioliachehoggifarauoltroquestospettacolo, cotesta impresa.Ma eglie be uero
che uoglio'effecuipresente acciola ammonisca
leusciffefuoridellacarreggiataçlıcome fifuole dire cheritorniallauiadrita. APISTIO.Hor
luStre g ad i m m i a n d a f t i m a i a l g i u o c o d i D i a n a o u c r o
d i H e r o d i a d e r S T R E G A . Si sono bene andata al giuoco m a chel
fia o diDianao diHerodiadenon il-fo.Conciosia chepia non houditoramentare
quelligiuochi.FRONIMO .Gia tedif Si b i e r i A p i f t i o c o m e i D e m o n
i o i n g a n n a u a s h u o m e n i i n d i uersimodi. Il perche in
queltempo,nelquale era adorata Diana dalle genti,etera molto honorato e
glorioso iln o m e d i q u e l l a p e r ilm o n d o , p a r e u a u n a e c c
e l l e n t e c o s a d i p o t e r
uiessereannoueratofralecompagnedieffaDiana.Benche
inpechofufferodetteuergininondimento eranochiamare Nimphe cioespore, ecofilepiaceuadieffereaddimandate
f p o s e, m a m a g g i o r m ē t e l e a g g r a d i u a l o e f f e t t o e
t o p r a ,b e n chenon fuffecercatacon legitimorito,ecostume.Concia. siache
erano iui continuiftuprietadulterii. Perilche serie ueHomero
nellisuoiuerfifouentequellacolgata sentens tia,Nellamefchiaraamicitia.Imperho
fauolescamentedi cano comely Dei falsioueroquelli antichiBaconiebbero
amorosipiacericonlacompagniadiDiana,ouero diunal traNimpha,odiNapea
odiOreade,odiDriadeFengrua noefferleNapeeleDee
dellefelue,dellicolliemonticelli, dellifiori,ficomediceuano esserele
OrcadeNimphe delli monici I monni,eleDriadeNimphedelli alberi, Anchora
credeuang li Gentili,etilgozzouolgo,chefufferoinamoracęleN i m
pheMarineedellifiumiE. Colifouenceleggerai di Cirene
LeucotheafintadallantichieffeclaDeaMatutacioelauro ta c h i a m a t a D e a m a
r i n a p c h e e r a s o u r a s t ā r c a k c e m p o m a i s mino Et anchor
ritrouacaiscrittodiCimgdecene cioediquel laDea,laquale faceua acque care le onde
marinesche, secondo le loro fauole, nomanco uederai iscritto molte cose del
laltrefinte Dee odelmare,odellifiumi.E percheglipareua efleremolto piu sicuro
diconuersareperlim o n i,che som mergersi nellonde delacque
etanchorpareuaeffercosa pia aggradeuole.dimitromettersinelle
cacciagionidiDiana,che inuilupparfinelliprocellosiflutidi Tritono enelleondema
r i n e s c h e, in p e r homaggio r m é t e se d e l e i t a r o n o n e l
giuoco di Diana, ene balliesalci di quella ficome cosepiuaggrade uoli,
gioconde,e piaceuoli.Anchora tico dapoi molti altri conlusingheuolimodi sottolafiguradiHerodiadeIdumea
laqualegrandementesedeletrauanelliColazzeuoliecraftu. Fattamentionedicotefto giuoco
di Diana, ouerdiHerodia debelleleggiedecretidePonteficidouifiramécanoleleg.
gifuronocófermateper ilConcilio .Nelqualfu fatto quel l o f t a t u t o , c h e
si d o u e f f e r o s c a c c i a r e l e m a g h e e t i n c á r a t r i c i,
FRONIMO.Deh ptoafededimmiDicafto,iltimitueffere cotefto quelmedemo giuocode
cuinefattomemoria juic DICASTO .lote dito ilmio Fronimo.Sono uarieoppenio
nidiquestacosa,conciosiachesonoalcuni,chedicodnoe 6, etsonoaltriche uuoleno
siauna noua heresia.FRONIMO Dirolamiafancasia.Iocredochequelloinparcefiaantico
etinpartenuouo,cioenuouoquantoallenuouefuperftitio niceerimonie
iuihorsaesatino,ficometudicefti,parlando da Philosopho,chelfüfliantico quáto
allaesseruia,etsiuouq quanto alliaccidenti. DICASTO .Ben ben Fronimo,cerca
mente tuhaiiniaginatouna eccelletedistintione;conlaqua
keaffaicofefesciorånochehannodependentiada quelluo 8o, dacuihannopigliaioalcunigrandeoccasione
dierrore Iftimadochecotestedonnuzzesianosempreportatealgiuo . RAZO . BIBLIOTECA
EMANUELE LOORIO ) ff co solamente con la fantasia enoni con
ilcorpo. A P I S T I O I D u n q u e ru istimiche le Streghe F a n o sempre
strafferrite e portatealgiuococon ilcorpo DICASTO.Nonfongiadi quefta oppenione
che sempre fano portate cola al giuoco c o n il c o r p o ,p e r c h e a l c u
n a v o l t a f o n o f u s e r i t r o u a t e p c o c a l e m o d oa c c o f
t a t o f o u r a d i u n t r a u o c o n t a n t o p r o f o n d o s o n o
chenofemiuanocosaalcuna benchefufferofortemērebuf
sate,etelledipoicredeuonodiefferstateportatealgiuoco, é nondimenoeranojui. Anchora
altreuoltesonostateuedo tefralegambe de aleurie,efra lecoscie,esserui delle
feope feratecon tanta fermezza chen o sepuoreuano cauare fuori rida c h e
fouente sono portare al giuoco e con ilcorpo e con lanima,et altre uolte pur
credendo di efferportateinquelmodo,folamentesono iuipresentecon
lafaritafiaetimaginatione: DICASTO.Eglie alcunauolr ta preftigiodelDemonio
ouerofalsademostrationeetuna aftura delusione etaltreuolte efecondo che
uoglionolestre ghe.Imiricordodihauerelettonellilibridifrate Artigo,e
difrateGiacoboThodeschiMaeftriinTheologia dellordia ne de
fratiPredicatori,qualmenteeglienarraro diunaftee, ga laquale pensitu
occorca questo quellechedormiuano,collequalecofe
credeuanoeffe dieffereportate al giuoco.APISTIO.Per qualcagione pafsaua
quellispatiiintuttiduoi e modi fecon . do che le piaceua,cioe con ilcorpo
uigilando etanchor (per fe uolte folamēre con lafantasiacioe quâdo le
rincresceua i uiaggio.Ilpercheallhorafedendonelletto ethauedodetto a l c u n e
d i a b o l i c h e p a r o l e , r e g l i r a p p r e s e n t a v a n o t u t
t e le c o m fe!delgiuocoi una uerdanuvola etoscuracome lacqua det mare
ficomeuifufferorealmentestatepresente.FRONT M O .Che cosa responderefti
alliaduerfarii<DICASTO . Primieramentecosiglirispondereicheiomi maraueglio
come uoglianomisuraretuttilimodidellisacrileggidelle fuperftitioni edelle
magiche uanitadi,con uno folom o d o delviaggio
alcunauoltaferuatoinunaregioneepaesedel mondo dauna certafcelefte
compagniadidonne profane e rubelledinostrafede ecosivoglianoiftéderequestacosa.
atuttelepartidelmodo.Et anchordireiche pěsanoforfidi Capere
scrittore di maggio te autorita dicoluilo racconta.Conciosa che fano
aflaicore daGratianoaltrimenteiscritteerivolte,enarraremolto di nerfeda quelle
chefuronopublicate nellicöcilii,edallion teficiIperche credoche coteftafussiuna
cagione fralaltre perlaqualeironfußlipercoralmodo approuatalacompilaa
tionedelDecretodaluifatta,dalliVenerabiliPadri della cose cheseucdeano in
quella regione,lequale sonod a n nate perilConcilio .Nondimeno se fanno imperho
affat core dellequalinonseleggefufferofattejui I fapere táto che glipäre
di potere coftrēģere tampiao f á n za
delDemono,laqualehebbedalprincipiodellasuacrea
tioneinunomoriario.Dipoianchoradireichecostoronon polionopatire che siaispofto
quelcestodellalegge co ilgiu diciode altrui,liqualicertameresonodi maggiore
dottrina acciachecauano fuoriquelle egiudicio,dieffi, coselequali pertegono
allanatura,da quellechesonopertinentiallafe de catholica.Anchorfefforzatiodi
dimoftrarelaperiamente cfenza uergogna chenon siaquellacosa,laqualenó poffor n
o negare chenon sipossa fare etanchorache non siafatta qualcheuolta,eccetto
senonlauuolenonegarecon suagiá de profomprione,etignominiacioe negando le
migliara deteftimonii.Mafotlianchoruno dimaggioranimodime direbbediuuoler
uedereun piufedele effempio delle leggi delConciliochefuffiramentatoda un
Chiefa, chefullofferuatainuecedileggiedallaquale non
fuffilicitoauerunodiappellare.Horlupuranchoragliuud côcederequelloche diconom a
consideraben cheglisiaan choraferratolaboccaad effraduerfariiconlatuaottimadi
Aintione,ficomeam e pare erinueroegliecos.Perlaquale facilmentefepuo
conoscere,qualmente ilcorso ofiailgiuo co dicotefte donniciuole
ethuomiciuolineconuienein •parte con quello giuoco ,etinparte euarioe diuerfo
da quello .Conciosiache nonse dice quichese creda Diana
effereDeadelliPagni,neanchoraseuedonoquiui quelle c h e sono pur impercio
communi collealtrifuperftitionidelliGentili Pagani, etanchorafansiaffai
schernieuituperiode Dio,c 2 & ola i bialimeuoliofferuationqi, uariiritiemaladettichefonofino
insegnatidallimalignifpiritie Demonii a questimiferih u o miciuolie donniciuole
licomenellidannariunguéti da un gerfi,nella deletratione difpargere ilsangue
innocente del lifanciullininella offeruationedelcerchio,nellimagichijn
cantamentinellaltrimoltidiabolicimaleficii,eneluiaggio) e discorso grande per l
a r i a c o n il corpo. C o l u i c h e n e g a l s e , che ilDemonio non
puotessemaggiormente mouere licor,
pi,chenópoffonoruicilhuomeniinsieme,parládoimperho,
naturalmente,equantoalliprencipiinaturalidiciascunodia
effiiopenso,cheferebbedaefferreprouatoedánatocome Heretico,perchediceilfan&iffimolobbo
chenonepoffan, zafouradellaterrada egualareaquelladelDemonio.Ants
choraritrouianoneluangelioqualmente fuportato Miffera
GiesuChristonoftrosignordalDomoniosouradelMonte eranche foura delpinnacolodel
Tempio.E tenuto indubin tabilmėteuero dalli Theologgi c o m efonoubbedienti
cugi licorpi allefortarize separate o fiano alli spiriti ispogliati del corpo, quátoperteneimperhoalmouereda
luogoaluogo, ecoli effifpiritinaturalmentelepuonomouere afuopiacess te purnon
sianoimpediti daIddio prima causa di tuttele creature ecosi quefta euna
disputationedellalegge natu rale cioefepoffonolispiritiignudie priuidimatermiao
u e te licorpilo no,m a chesianoportatida luogoa luogo questihuomenicdonne
inucritae senza menzogta,eglie, dispurationedel fatto cioe
fecost-e-ueramenteIlperchetu debbisapere chgeuadore-certochelepossafareunacolae
chetuuuoiintéderedapoieconoscerelee -fattaofefaci, i nólefacialtrimëreno
lopuotraiintendereeccettocheper boccadelliteftimonii,ochelhauerannoeffifatto,oueroIba
ue r á n o u e d u t o c o l i essere; ouero l h a y e r a n o u d i t o d a q
u e l l i 1. che lhauerano fatto cheferanostatoueriet certie fidelihuo meni.E
cosihora quanto apertene a noi cioeche siano por : tatialmaledetto
giuoco,queftirebelliidnoftrafantiflima fede, M a u e m o fermoechiaro eper cofa
indubitabile peril mezzo de gran numero di testimonii, liqualilhannomolto
largamente narrato. FRONIMO. Non /ermaraueglia se quelli
ghellisciocchezzanoinan tefto,cociofiachecoficompren dono
laueritacollialtri.I]perche ficomeilgloriosoIddione wahe ilben dalmale
cofilhuomenidimalo animo,edima laopeniojie,sefforzanodicauareilmale
dalbene.Écolipa rimente perlamalignitadellicatriuihuomeni sonoftateca uate
tutteleHereniedallesagre litterenonperdifettoecol pa dieflifagratissimilibri,efantissime
littere,m a per la p e r uerfamalitiadellhuomeni.APISTIO.Deh peramore de
Iddioaipriegononuogliateinterromperelemieinterroga t i o n i. B e n c h e g i a
h a b b i a d e l i b e r a t o d e i n t e r r o g a r u i p o i d e dettecore
purnon parehorailtempo,fiche ui priegonon m i datiadeffo noglia m a laffatimi
seguitare. D I C A S T O . Tu hairagioneilnostroApiftio,Seguitapur oltreer
addis manda aleiquellochetipiace. APISTIO.Su Stregadimy m i , A n d a u i t u a
l g i u o c o c o n l a n i m a i n s i e m e c o n i l c o r p o ,o s pur con
uno senza laleros S T R . Viandaga e con lanimae con ilcorpoinsieme. APISTIQ.Come
e chiamato quefto. uoftrogiuocor'Eglie chiamato dallinoftriCom , pagniil
DELLE STREGHE, 13 giuocodellaDonna.APISTIO .Inchemodoane d a ui tu col a r D e
h c h e nogli andava, ma ben gli era portata. APISTIO. Conchecofa: Con una
Gramicadacascetareil Lino. APISTIO. Comefiapoffibi lequesto
chesiaportataquella,non la portandoueruno STREGA.Má beneraportatadalmio
amoroso. APISTIO.Chi-e-coftui STREGA. Ludovigo. APISTIO .
EglieforsiunoqualchehuomocosichiamatoSTREGA .. Nonhuomono,ma
ilDemonio,chesepresencauainfor ma dihuomo,loqualecredeuofuffiDiaĀPISTIO. Mima
raueglio assai certamenteche il demonio ingannatore del Ihuominihabbipigliato
questo n o m e de Chriftiani. FRONIMO .T u si marauegli che colui habbia
pigliato quelto nome deriuatodalliGentiliePagani,ilqualefefuoletraffi, gurare
nello Angiolo della luce. APISTIO. Tudici molto gagliardamente
cheegliederiuatodalliGentili. FRONIMO. Anchoraildicoche
ederiuatodalliGentili.Concio wachenonmairetrouaraiinuerunoluogone inGrecone
ipLatino osiaconefsempio,ocon origine(senonme ingå
noimperho)dondefiaderiuato.Vero -e chemiricordodi h a u e r e letto solamente n
e Commentarii di Giulio Cesare r Litauico, da cuidipoiun
puoco-e.ftatopiegatoerecortonel lá lenguaFranciefaer-e-dettoLuilo
eriuoltatoanchor poi nel Latino,e-scrittoLodouico doui quello se referrisée.
APISTIO.Nonuogliopiuoltrediqueftacofadisputare, maggiormeieperhora,percheho deliberatoinqucho
tem po divuolerragionare con questanoftraStrega. FRONIMO
.IlmioApiftio,hodettoquelloame pare,sempreim )
perhoapparecchiatodiudireleoppenionidepiudottiepia prudentidime. APISTIO .Non
piu.HorfSutrega.dehnó cisiamolesdtoi scoprireameinteramentelicuoilasciuipia
ceti. STREGA. Dimmi de checosahaitudelideriode ing. Tédereç. APISTIO.Pareuaateunohuomo
queftoruoamor roso: STREGA.Sipareuahuomoi tuttelemembrá cecet
tochenepiedi.Liqualisemprepareuano piedidiOcchari uoltati a dietro e riuerfatip
e r cotal m o d o c h e era riuolto'm dietroquellosuoleesseredauanti.APISTIO
.Per quale ca gionecredituDicafto chefinga,ilDemonio tuttelaltrem e bra dahuomo
elipiedidaOcchasDICASTO.Setulegt geraituttiliproceflidicotefteStreghefatti
dalliInquisito titu ritrouaraiinefliqualmente ilDiavolo osia ilDemo nio,o
periluoglichiamare Saranaqffuo,a n d o secangiain cffigiadi huomo,sempre
apparecontuttele membrada huomo,eccetto checollipiedi.Dilche inueritatidico
cheso uentemenesonomoltomarauigliato ecoliframe hopen f a t o c h e forfi q u e
f t a e la r a g i o n e.C i o e c h e I d d i o n ó p e r m e s
techeelloisprima,e fingatuttalauerafimilitudinedellbuo
mo,acciononingannieslohuomo conlaeffigiahumana. E
laragioneperchenóhafimiliipiediallaltriniembradel ta finta EFFIGIA de llhuomo
credopossaessereperche-e-con fueto
diefferelignificatoperipiedinellimisticiparlaridella fcrittura leaffertionie
desiderose uoglieet imperho gli pore tariuoltiadietro.cioe cheha
lisuoidefideriisemprecontra de Iddio eriuoluicontrodelbenfare.Ma perchecagione
p i u p r e f t o h a u u o l u t o f i n g e r e li p i e d i d e O c c a c h
e d a l t r o a n i maleio confeffochiaramente di non sapere,ccettofelnoix
1 ui fuffi DELLE STREGHE 24
ulfuflequalchenascostaproprietanelloccha,la qualsee poi feffe ageuolmente
adaptareallamalitia.Ve r o -e-che hora nonm i arricordodihauereuedutoin
Ariftotele che siaftai M offeruatafimile cofa da quello,m a anzipiu presto
dice; che-e-quella generatione di uccelli molto uergognosa,fe ben m i r a m e n
t o . F R O N I M O . Diro dua parole Dicafto .
Puorrebbeessereanchorachelnoftronimico hauelliuolu to anchoraspargerealcune
occoltereliquiedellaantiqua SuperftitionedelliGérili.A
cuieranogiafagcificateleocche fotroilfallofimulacroe fintaimaginedeInacho ede
Ina chide.Jlperchecosileggiamoin Ouidio. se N e g i o u a i l C a p i r o g l i
o p e r 'w a O c c a - e x f t a t o , $11.Turo,chelfeganon dia Inacho in lance
Ma sicomeuuoleno altricofifedebbe dire Inachide ioilfeganon traggiin piattor
DicePliniocome eraconsuetudinedipresentareilfigato
dellocchaadInachoDiodelloArgiuo fiume.Ilqualeuccel bo dilettaflimolto di
praticare perleacque.M a c h e fuflifa . grisicatoad Inachide
parqueltofacilmenteseproua,cong cioliachefeuedeperlebiftoriedi Herodoto
comehauea. nouranzaliSacerdotidelliEgipriidimangiarelecarnidel l e O c c h e ,
et e r a i u i r e c e r i c a e t a d o r a t a c o n g r a n d e s u p e r f
t i s tioneIfiacioeDiana.Anchora-emoltopiufaggialaOcca. chenon-e
ilCanericomediceello etchefacilmentecomo p e c o n m e r a u i g l i o s i m o
d i il filentio della n o t t e e c o n t u r b a
ilteporo.AllaqualenottecredeuantoefferefourastanteDia
na.IlpercheforsipigliailDemonio lafiguradellipiedidi coreftouccello,peruuoler
dareadintenderallisuoiprofani esceleratiseruitoridiquestariaemaluagiacompagniache
debbianoseguitarequellouccelloin ftareuigilanti,enon dormirecome quellofa
ilquale eruigilanteedipuocofone no,e quando ,etpigliare piaceri,equel tempo
cósumarlo nellisceleratiediabolicigiuochi.Anchor
raccontasappodalcuniscrittoricome egliequalcheparte di detto aagello
bisogna farelaguardaemoltopreuifta enon dorme etcofidebbono efferquelliche
uanoalgiuococioe essereuigilanti et ftarefuegliati c h e
prouocaeteccitalefeminea libidines Puo effereanchesegnodequalche
occolto,epazzescoamo te,conciosia che fernroga iscritto qualnienceb r a m m a r
o n g leOcche dipigliarelasciuipiaceri con altragenerationede
animali.IlpercheritrouiamoscrittodaPlinio,comeseina? m o r a r o n o le O c c h
e d i O l e n o fanciullo di Argo, e di G l a u c o fonatorediCetradelRePtolomeo.Ma
egliebenueroche credo chemalefeacicordaffePlinioinquestoluogo,Cócio fia c h e q
u e l l o f a n c i u l l o n ó b e b b e n o m e O l e n o ,m a A m p h i
locodellapatriaOleno ficomeramientaTheophraftonelli broamatorio.E non fuquellacosacoralmentefuoridiragio
ne,perchegiafurono annoueratele palmedellipiedi delle Ocche
fraledeletteuolietaggradeuoliuiuandedellameo fa.E penso per quefte de
efferesignificatole pretiofiflime ui uáde
elaggradeuolicibidellaDeliamensa,cioedellamen sadelSole,cheeranoperlaloroeccellentiadamettere
auã tiruttiquellicibicheerano dellamensa delSole di Ethio pia.Nellaquale non se
legge;ui fuffero posti soura de effa.
auantiliconuitati,lipiedidelleOcche,conciosiacheanchor nonhauea
penfatoMeffalino Cocta,didoverliarrostire.Par ionoa m e cotestecosemolto piua
proposto che quello dico n o a l c u m i ,c i o e c h e l e O c c h e h a b b i
a n o p r u d e n t i a p e r c h e s e
narrachedomefticamétecóuerfauenonellibagnicon Las cido Philosopho, Ilpercheioiftimochequestomodo
dicon uerfationcedibeneuolentia,piupreftofuffifimileaquello, c o n i l q u a l
e c o n u e r s a u a A i a c e L o c r e s e c o n il d r a g o n e . E c o s
i anchora pensonon fuffimolto discosto daquesta cosa,quel
lafamiliareuoce,laqualeudiua Socrate,etanchora iftimo
fuflimoltosimilequellaltrauoceper laqualediuinaua leca seoccolteetannotiaua
quelledauenire Atridea Laomea dontiade,sicomenarranoquelli
Versi,fccitcidaOrpheo con iltitolo dellepietre,ficome sedice.Non -e-anche total
'mente discostodaogniragioneloproprietadellanaturadi questo uccello ,quäto alla
uelocita del caminare che fanno nel uiaggio ,laquale uelocita e'molto fimile a
quella del giuocodelleStreghe.Ilperchenonretrouiamochefulsigia maiuerunoaugello
ilqualefaceffeapieditantolongouiag gio,quantoleOccheLequali uenerodalliMorini
lipopoli ( cioedal etancho fada
Ciceroneilqualenonerauedutodaalcroeccettoche dalai.DICASTO.Nonsolamente
qucftointeruieneinuc derelispettacolietfinteimaginidelDemonio m a anchors
nelliprodigiietapparitionidiuine,cioeche quellecosesono alcunauoltadapupchịuedute.Et
dimoftrate siano acciolas Gli altrisolamente ioramentato di quell u m e che era
soura delcapodifantoMartinozilquale fuueduto dapuochifico me
narraSeueroSulpitio etanchorpurdirbediquelaltro lumecheilluminauaSantoAmbrogiochi
padaua,loqualso JamérévedeuaPaulino.Ma chequeltaimaginedelDemor i n i o ,f o l
a m e n t e l i q u e d u t a d a l l a S i r e g a , i o d i r o l a m i a o p
p e lipopoliBelgicichesonoliultimidellhuomeni,licomedice Plinio,etcaminarono
colliproprijpiediperinfinoaR o m a APISTIO .Dimini Strega,Dimoftrauelo mai
altrafornia delli piedi,quando ueniua da te,eccetto chedi Occa : S T R E G A N
O maidiniostroe alıcamente.APISTIQ.In chemodo
ueniualodatesSTREGA.Alcunauoltaaddima datodame etanchefouentedaseisteffo.APISTIO.Neue
n i y a m o s e m p r e in f o r m a d i h u o m o : S T R E G A . S i s e m p
r e fedimostrayaineffigiadihuomo quando pigliauaamorosi piacecimeco,APISTIO.Q
quegliconuna rugosa egia grinzafemina STREGA.Eie me Eime,OimeOime.DICASTO .Dichehaitupaura
Chi-e-quello che cifpauenta Vedetile,uedetile
DIGAS.Doui,douirSTREGA.Colti,cofti,almuro alm u to.DICASTO
.Informadecui?STREGA,Di Passece. DICASTO. Dehbémicati
comehorahapigliatolaeffigia diun molto libidinoso aụgello non contrasio
alcagioname codellamiala femina,laquale fouerchja conlasua infaçiabir
lecifrenatauogliaturcisimoftridellafozza libidite.APIE
STIO.Hoquantomimaraueglio chenonsiaverundinoi, cheuediquestafintaPafferă
eccecto,chiella.DICASTO . Ben iopoffomirare,m a gianonlapoffo yedete,e cosipara
menon siauérundiuoichelaueda.APISTIO.O certame marauigliolacosa.FRONIMO .Deh
uedetiinchemodo semarauegliailnostro Apistio.Matunonsimaraueglidello
anellodiGigeLidiopaftore,ramétato daPlatone, che piaceri yuoreuano eßerç gg 0
el 70 CO 21 el al di no del Tagnione, lo penso posla interuenire questofacilmereperlami
citia,egrande familiaritahacon quello. E cosioccorre per
janridettafamiliaritache-eportataefanellamantocioein
quellocherätoamanonsolamente conliocchima anchor confla poffanıza imaginaria. E
t anchora ilconosce e distize
guedallialtciuccellietanimali,quandoseglirappresenta,
ineffigiadiquegli,sicomehoudicoda effa,percheleparë una fiammaardente
glijmpinganelpetro,ilcheno leinter nienenelscontrodellialtrianimali.Giafolio
tregiorniche raccontotuttaspauentata dihauere uedutolantidettofuo amoroso
informadiunatortuofaserpecjuolainmododi un cerchio. FRONIMO.Cosi haitu letto
Apiftio,qualmen te apparelli ilD e m o n i o alliGentilii n effigia diserpe,et
ant chorainfimilitudinediaugelli.Nontiricordidihauerueda tonellilibricome
guidarcizoli CoruiAlessandroalloOrae culo eTempio diHamone,doui,egliandauas
APISTIO . Siholetto etanchorahorixouato,(febenmiricordo)com me
fecerolimileufficiopur ancheliDragoni.FRONI M O
,Chenedicudiquestecosemarauigliore?Non istimie f u c h e f u f f e r o q u e l
l i li demonii im a l u a g i i ,i n f o r m a d i C o r u i t Etanchor non
creditu fufferofimilmente liDemonii quel l i d u o i C o r u i a n n o v e r a
t i fra le g r a n d i m a r a y e g l i e d a Arifto tele,chestavanoin
CariacircailTempio diGioues D u n g perchetantonimarauegli conciolia
cheritrouiamoinPli nio come fufle usanza diuscire fuoridella bocca diAci
fteaProconesiolauaga anima di Hermolimo Glazomeno in fimileeffigiadeCorui.De
cuisediceua fauolofamence chiquellafullanimadieffo,non datuttiuedutam a Sola:
mente daalcunihuomeni. Mamancotutimarauegliaretti se tu fapefliquello
che-e-raccontato daAriftoteleetanchor dapiualtriscrittori,diquellohuomo
Thalio.APIST.Deb p e r t u a c o r t e s i a r a c o n t a q u e l l o g l i i
n t e r u e n i f f e . F R O GN l. i interueneuache
gliandauainantiedietrolaboccaunalimi le figura,laqualenon era ueduta
dallalecihuomeni.APIST. Dunquesenzaleggerezzadianimofepuo crederéaleuna
uoltachequellimuoiono,ficomediconoalcupniorkojjoue
derelibuoniereifpiritinelliassumpticorpiliqualinon fon ueduci geduti dallaltri&
FRONIMO. O fi fi,questa-e-cosacerta. Conciofia che e creduto questo a tanti
prodi,et eccellenti huomeni,liqualinarranocotefto etanchoraeglieda molti dotti
authori suco scritto.APISTIO . D i m m i b u o n a d o n n a , feļanchora
parritala paura,che haueuis S T R E G A .Si ben
feparte.coliperiluoftroragionare,come anchoraperlauo ftraprefentia. APISTIO.pEoflibile
chetuhaggicançapau ra del tuo amorosos Qime.Gia non lo temeus, M a dipoiche
sono condutta nella prigione,et haggio con : tra suauogliaconfeffato
linoftrilasciuipiaceri,grandemen te,etoltrodiquellofiapoffibilediraccontaremi
spauéta.E qualche uolca se fermaaquellousciuolodellaprigione,eta quella
feneftrella,reprehendomiedimoftrandosimolto for
teturbatocomeco.Edipoimiprometteogniagiutorioper cauarmifuoridi quiui,purche
ioftiaquerae tacciperloaue nire,epianoconfeffiuerunacosama anzinieghiquelloche
gia ho confeffato.A P I S T I O . T e spauentauelom a i quando tuandauialgiuocorSTREGA.No
certamente.APIŞTIO Andauicu quiui ogni giorno,o pur inqualche tempo deteira
minato :S T R E G A .Viandauanella secondanotredopod giorno dalSabbato,edipoida
quindi nellaquarta notte, cioe'nellanottedelLune edellaZobia.APISTIO.Glian
daftimaidigiorno:STREGA.Nomai.FRONIMO.De quindi sipuo anchorconoscere
lereliquie dellamica super Aicione,fetutiramentarailj
ululatiuoci.egrida,fattiad He cate,altrimentechiamata Diana,eLuna,nellinotturni
Teja u i p e r l e C i t t a d e. A c u i f o l e u a n o f a r e o r a t i o n
e le d o n n e f i c o m e scriue Pindaro ,quando limaschi separati,secondo la
lo to usanzasoleuanoancheeglifareorationealSole,per con ikeguire liloroamorosi
piaceri.Ijpercheeradedicatolanoki " re a c o r e f t i r a g i o n a m e n
t i et a p p a c e n d o il g i o r n o , i n c o n t a . nientierano terminati
esiparlamenti.E percio leggiamo quel uerfo. M i h a fiato laspro oriente
collieqai anheli. APIS.Forhgiacesottodiquesuton a cosamoltopiuascoffa
FRON.Chicosa APIST. QuellochediceilgrecoPoeta Menandro.M a iolodicoinuolgare
quelloieringreco cofi. Com O
nortererbisogno a tedi affaicaénalipiaceri.D I C A S T O . Cerraméte ciascun di
uoidotcaméte,m a humanaméte par l a . M a i o u o g l i o r a c c o n t a r e u
n a d i u i n a fetentia e n o n c o s a d i paocomomento
neanchoraproceduradalloinganneuole o r a c o l o d i A p o l l i n e ,m a d a q
u e l l a s o p r a n i a u e r i t a d e I d d i o . APISTIO.N o n
bisognatanto proemio,fu di presto,selti piace. DICASTO.Ioildiro,nonhauerepauca.
Cofidice C h r i f t o n e l u ä g e l i o . C o l u i c h i m a l e o p e r a
h a in o dio la luce. FRONIMO. Certamente tuhairamentato quello chi e
veriffimo.APISTIO.Horlu dimmio bona Strega chivuol direche non andauati a
questi balli e giuochidiDiana,odi Herodiade ouero ficome le chiamatia
quellidella D o n n a , nellaltrinortif Maaccio iodica piu chiaraméte, perche
non erauativoipresentelealtrinottiallimal gradevoli prestigii, e b j a r m e g
o l i i l l a f i o n id e l D e m o n i o r o u e r p e r c h e n ó p a r e u
a a teuifuffipresentes STREGA . I nollo fo.APIST .Te appa recchiauicu,ouero
loafpetrauicheteportaffe STREGA : C o s i f a c e u a f a t t o il c e r c h i
o m i u n g e u a , e f a l i u a a c a u a l l o d i un fcanno, etincontanenteeraportataperariaper
insinoak giuoco.Anchota alcunauolaconculcauacolli piedilah o Atia
fagratanelcircolo,conmoki ischerni,etallhoraallhora
sepresentavailmioLudouico,con ilqualepigliauaamorosi
piacerifecondochemipiaceua.APISTIO . Dichecofare. composto quefto uoftro
maladetto unguento :S T R E G A Fra laltticose, epermaggiorparte
fattodifanguedefanciul kini.APISTIO IncheparteteungeuitisSTREGA.Eime
Mivergognodiraccontarlo.APISTIO.Dsefacciataetim pudica
meretrice,tutiuergognidinarrare quellocheto nonseivergognatodifare?ŠTREGA .E
coreftamocofi gran merauigliar APISTIO.Sutielenara ferpe gera fuori I u e l e n
o . V i a u i a d i fu i n c h i l u o g o u n g e u i t u r S T R E G A .
Giachefiabisognolodicahor fuildiro.Vngenammiquel lifuoghicolliqualimi pongo
asedere. APISTIO .Dehuer deticonquantahoneftaibadetto.M ahograndesideriode
intendere inquantofpatioditempoeri túportatada cafa tuaperinfinoalgiuoco.STREGĂ
.In puocospatio.API STIO.Quátomo puocor STREGA.Inmanco dimezza: 1
hora. APISTIO.Quanto eritu discostoda terraquando te
eriportata?STREGA.Tátoquanco-e-laltezzadiuna gius ftaforre.APIST.Ho pur gran
defideriode intendere quello che sifain questo uostro sceleratogiuoco.Iperche o
buona Strega se desideriche fa quiuenuro per douertiagiutare, de no
tirecrescadi narrare currequelle cose che iuisefanno per cotal modo
ficomelerappresentaffitotalmentea noi.Il faro sendo dunque giuntaal fiume
Giordano. APISTIO.Aspettaun puocoluSiregama dimme Fronimo;Che cola odiť
llfiumeGiordanos FRONIMO , Credo que ftaefferuna bugia del demonio cioechesefacci
tanto uiaggioperiosmoalfiume Giordaso in cofipuocofra tjoditempos Perilchepensocheellodica
queftinocabuli eccellentiluoghiaquestedonnuzze acciomaggiormente leucceglie
leinganniemoltopiu'letegalegalecollilega m i delin o m i d eprimi e magnifici
luoghi.. nore da creder t e c h e sia p o r t a t o u n o h u o m o in m e z z
a h o r a d e l l a I t a l i a n e l laAlia.Ma forfihapigliatoSathanafloda
quindiilcolore della fauolapchehabitauacola Herodiade.Veroc chemol
tomimarauegliononfingachesianporcate nellaScithia alTempiodiDiana.
Ilcheforsfiengerebbe quello fraudu tente nemico dellhuomo,fefufficoli domestico
e familiare il n o m e d e l l a S c i t h i a , q u a n t o q u e l l o d e l
Giordano: L o g u a leconosce ciascunchi ha udito recitareiluangelio nellia
grati Tempii. Dipoinon -e-molto conueneuole quefto fute m e a quello fcelerato
giuoco,m a fiben ferebbe a propofto quello Taurico,non sagro m a facrilego
perle crudeliffime a c c i f i o n i e f p a r g i m e t e d is a n g u e . M a
f o r s e l e c o n d u c e a d u n altro fiuineiui uicino,efa parere alloro,
che siano altroui. Benchesianodella trilequaliconfeffanodinon esserepor tate
allacqua ouero alfiumem a fiben foura delle fomitati
dellimonti,etiuifermate.DICASTO .Non pareameim possibileche possonoefferportate
alGiordanealmanco per fpatiodi due hore,ficome quasituttele streghe fra fecouie
neno, edicono.FRONIMO.Iftimitu chequellepoffong
misuraretantospatio,quanto/e-fraquestanostra patria ela Siria,elaPheniciaincofipuocotempor
DICASTO .Dimmi Fronimo. Non puo il Demonio mouere li corpi afuopia cece FRONIMO
.Si.Manon seguita pecho cheglimuor uaincofipuocotempo
cioecheleconducaosiasouradella terra,uerloloIlluciohora chiamata
SchiauoniaOuero alla finestrauersola Ibracia,quero alladestraper lAfrica odero
passandoilmare lonio eloEgeof,ouradiCorcitadelPelo ponesfloo,u r a
leCiclade,guardando Rhodo eCipro,ecosi leggendofiano porte foura della rippa
del G i o r d a n o . D E CASTO.Chi prohibiffecoteita cufarFRONIMO .Lituoj
dottori.DICASTO. I n che m o d o ilprohibisconosFRONI M O In quelmodo
cheuieraSantoThomafo.deAcquino come
nonpuoeffermoffatuttalagrandezzadellaterradal
Demoniodaluogoaluogo,facendoliresistentialagranmae
Atranatura.Laqualeuierachefiarouinatoetotalmentegua ftoloimegroordinedellecreature
e delli elementi.Eglic c o n t r o l a n a t u r a d e lc o r p o h u m a n o d
i e f f e r p o r t a t o c o n c a n ta celerisa con laquale insiensefe
conferui et fi guasti.Ilper che uiueno quellecose cheferebbe neceffario
perloimpi todellaria chemancallino,perchenon effendo in ueruna cosamutata
lanaturadiquello gliferebbegrandeoftacolo e grande contrariera.M a
lepurfimuralie diuentaffipiura do facilmenteseabbruggiarebbeedouentarebbe
fuogo,er anchora sedouentaffepiuspeffoefodo,maggiormentei m pedirebbe la
uelocita,etageuolozza delcorso.Anchoraiosi uogliodire piu
chelecumoueflituttalariacon latuafantam Sia ficomefermoilcielo Ariftotele conla
sua etappodelki Greci feceancheilsimulePhilopono,efimilmenteScotoap podelli
fuoiseguaci anchora serebbe cotto dite,sendouiin oppositol a intrinsecanatura f
i a d o , e d e l l i u č c i, o d e l l a r i a l e c ó s u m a r e b b e p i
u t e m p o a s s a i diquellochediconointerporui.APISTIO Vipriego,lagi
cötenti,dilasare a dechiararequefte sottilitadead uno altro
giorno.HorsuStregaseguitaparoleo. S T R E G A .Sendo dunque cola giuntivediamo
federelaDonnadel giuoco 1 d e l l a quätita.Perlaquale bife
gnachesiaportatounapartedopo laleradieffo corpoper quelgrandeuacuo
dinullaariariempiuto.Iperchedaqui uiin Afiatoleo uiaogni impedimento della
resistencia del insieme 12 20 .Eglie staro Berno molto conos al la
10 OL ud NI 10 Hal insiemeconilsuoamoroso:APISTIO Chie/coluie S T R E G A. N o
n lo so.M a soben questo che è uno belliffie m o h u o n o d i u n a r i c c a
u e f t e d i o r o m o l t o b e n a d d o b a t o . APISTIO .Seguita
pur.STREGA.Quiuiporrauamoal. sembianti receuendole,lecomanda chesiano pofte
rouradiunoscanno,edipoicicomandalidiamoindi sprégiodeIddio
dellipiedifoura,edipoianchoracúole che gliurinamo foura eche lifacia motuttiliuituperii
poffemo. APISTIO. O Diobuono,oimeche odidire?Chifu quele Jotantomaluaggio huomo
chetidequestesagradehoftie daportarea coteftomaledetto,etiscommunicatogiuocot
sciutoinquesto Caftello DICASTO.O scelerato.O inico operuerfohuomo:fouidicoche
credosiastatouno delj p i u s c e l e r a t i h u o m e n i c h e m a i fi r i
c e o u a f f i n o a l m ó d o . I l p e t che hauendolo ritrouatoimbratato in
mille sceleritadelo giudicai fulli primieramente degradato,cioe priuato della
compagnia delli miniftri di Chrifto e dipoi ilconsegnai al Podefta,etello
incontenente,segondola ordinatione delle
leggi,lofecebrugiare.APISTIO.DehStreganon laffareil comenciato ragionamente. Poimangiamo,be
temo,ecidiamo amorofipiaceri.Hormaicheuvoletipia intendere?APISTIO.Voglioche
raccontiaparteper par teiltutto.Ma primadimmichecosamangiatic STREĠA .
Dellacarne edellialtricibi,chefifuolenousarenellicon
uiti.APISTIO.Dondebaueticotefteuiuande :STREGA . Vecidemo dellibuoim a eglieben
uero,che dipoi resusciz Tano. APISTIO. De chisono&STREGA.Sonodellinor
ftrinemici etanchora cauamo deluino fuoridelle uegge e
delliuaffelliacciopossiamobere.Et dipoichehauemomant giatoe benbeuutcoiascun
addimanda ilsuoamoroso,cioe Demonio informadihuomo'perfatiffareallasualibidino
fa uogliae con huomenichiedeno lesuc amorose, anche el 3 D i m o n i i i n e f
f i g i a d i b e l l i s s i m e p o l c e l l e , e g i o v a n e e in t a l
modo ciascunpigliaamorosipiaceriefatiffaallefireffrena, an del Tai pi na 5ell
ap Tin adi 60 laDonnadellehostieconsagrate.E quellaconallegrafaca oli cia e
gratiofi 36 teuoglie.DICAS.Paiono am e illusioni efauole quelle che diconio
dellibuoi.FRO.Sonosimiliaquellecosedellequali narrafauolescamente colui. APISTIO.Chicola:FRONIMO.Conosco
chetuvuoilodicainuolgare,quello che e scriccoin greco,Hor fucosidice. Vápoje
caminano e cuoi,ç muggislenolecainidellibuoi.APISTIO .Vetaméte fono
simili.Chedifferentiaechicaminafouradellaterrailcuoio del buc,e che moto libra
m u g g i f f e n o e ftridano le carni m e z z e cotte, da
queftoprestigioefincaimaginatione,cioechepiegatala p e l i e d e l b u e g i a
m a n g i a c a , f a l i l c a f o u r a li p i e d i : F R O N I K
MO.Gócederonoli antichichemandaffelauocelanauedi taggio di Argo ,etanchor
diflenoche diuinosu cauallo di Achille.MacoluichinonnjegaparlafsıXanho
cioeilca. HallodiHettore,iltimamochenegara ilPegaffo,cioeilca
uallocollealidePerfeo oilDedalo,ouero coluiloquale ci
portomarauigliosefpogliedelmoftrodiLibia,ilqualeAtrac ciaualatenerellaariacolle
ftridentialitAPISTIO.Masetu c r e d i c h e u o l i e f f a Strega, Per c h e f
o r r i d j e t u n e s a i b e f f e q u a d o c u l e g g i, q u a l m e n t
e le P a r c h a l i e p e i n e p o r t a r o no Perseo: FRONIM O . N o mirido
fe tu ftimichesianofacceque ItecoseconactedelDemonio,mafibenmi rido,etmene
fobeffefecuctedichesianofacteperopera etingegno del thuomo lopensochenone
/similemoftro,cioe difingere che l’huomo o ilcauallohabbialepenne
peruolare,odifins gerecheilcauallohabbiaintalmodo lalenguachelapossa
tiuolarlaepiegarlaperproferireleparole.cócioliachemol
siaugelletrisenzaalcunomiracoloperopera egradeactifs,
ciodellhuominiapuocoapocoimparanodiprofericemol
teparoleecofifendouiulaiileproferisconoS.e dunquese inlegna dirivolgerela lengua
acoteftiaugеlletiper cotale m r t che proferisconolhumane parole,quanto
maggiore menteseporradire chelopossanofarelefoftantieseparate osjano buoni
oreifpiritiecioe di poter riuolgere la lengua per labocca
dellianimalipercotalmodo che proferiscano dritamenteleparolesAPISTIO .Tu dichequestofępuo
fare. FRONIMO. Anche ilconfermo conciolia che solo
ciascundeeffifpiritidinaturaeguale.APISTIO Ilpuoise ftiprouarecon
qualcheeffempio: FRONIMO. Molto ben i pollo prouare,M a h o t a ne baftiano
raccontato nel fagta libro d e i N u m e r i,cioeche la Afina di B
a l a a m parloe.E dit conoeTheologgicheparloeperoperadellangiolo concio fiache
effanon fapeua c o s i lendoli quelloche dicesse, rivol tae conduta
lalenguaadire quello cheera commodo er ageuole per loeffercito delliHebrei.D e
cuine hauea gouee noe curailbuon Angiolo;sicomeraccontalascritturaecosi b o
narrato quefto effempio solamente accio io tacci quelle historiegia'narratede
quellibuoidelliGentili,che parlaro 00, APISTIO .DedimmiStrega.Noisapiamocomenon
hranno liDemoniicarneneoffadunque come mangiano, b e u e n o , e l u f f u r i
a n o r S a r e f p o n d i p r e f t o . S T R E G S A i c o n . me ame pare, fonosimiliq,uantoallepartiuergognosealla
carne,APISTIO.Patreftidarciuneffempio diqualcheco fa c h e sia f i m i l e a q
u e l l i suoi corpi. STREGA. N o lo so
ben Ma purpaionoaffaisimilialla ftoppaouecoalbambagio, quando
e-coffrettoinsiemee condeniaio.Cosipaionoquel lineltoccare,miasempre
sonoimperho freddi.APISTIO . H o r seguica piu a u a n t i . STREGA . P o i e r
a u a m o satiatidelli carnali piaceri erauamo portatiallenoftrecase.APISTIO .
N o n tiueneuam a i quiuiaúisitare: STREGA .E fpeffeuola te.Anchor qualche
uoltaquando andaua almercato,eritor naua accompagniauammi.E ricordammicome
ritornando acasaungiornofuiltardodalCaftello effendoegliinmia compagnia,tre
uolte pigliaffimoinsieme amorosi piaceri auantigiongeflia casa.APIS TIO.Quanto
-e-discottola tua casadallemura delCastellorSTREGA.Circadiun mi gliaro. APISTIO.Danque
non emarauegliafelfimoftro effomaluagio Demonio informa dellamolto libidinofa
paf feratM a pur Fronimo,iotedicoiluero,anchora non posso capirceon ilmio
ingengno cheuoglionosignificarecoretti
tantosozzipiacericarnali.FRONIMO.Tidirolamiaopi pênione Iopenso
chefaccicotestoeslo ingánatoredellhuor menipersatisfacealleffrenateuoglie
diqueste facciate et impudichemeretricilequalinonhannoiltimore'de Iddio, Chi e
quellofienochefacaminarelhuomosecondoilraa gioneuole appetito
egiustodifio.Ilperché remofio tantideta t o f r e n o d e l l a r a g i o n re
i m a n e l h u o m o c o m e u n o a n i m a l e hh LIO 10 Eté 11 1 TO
xrationale, efi comeunabeftia, ecosidipoidesidebraram. ma et anchora cerca
le cose da bestia ,etineffefedeletra. APISTIO.Ne
anchepercioeglieposibilechepoffacapite con lanimo donde poffono hauere tanti
lasciui piaceri DICASTO :Chehabbianograndipiacericredochelpoffa
interuenireperpiu cagioni,dellequalialcuneneraccontato
Jarrelaffaropermaggiorehonefta. Conciosiachehauemo a parlare sempre in cotalm o
d o ,eprencipalmente incolga k cheanchorlapudica orecchiauipoffaftare.Puodunque
guestointeruenire,almiogiudiciopercheseglidimostrail Demonio
maladettoinunamolto aggradeuole figura,cioc belladifaccia colliladrjocchiecon
ilgiocondo uolto con ciofiachepuocoimportaalDemonio difingeree difigura. Re una
formadiariaofozzao veramente bella, ecosifigura te
formeficomeparepoffonpiacereaquellicheuuoleinga nare
Ilperchecofilosinghaetiraquellemeschinelledonni ciuolea fecon effa
fintabellezzaecolliocchicosifigurati, etconlafciuifembianti.Etanchoraacciochemaggiorment
tele ingannano fingonodieffereinamotatidiloro.11fimile fannouerfodiquelli
sciagurati huomeni,diinoftrandosi in forma di belle damiselle,ecosi uifanno
apparerecuttele proporcionidellemembra,etuttelebellezze,etuttililasci.
uisembianti che desidarano accio che meglio glipoffono ingannare. Dipoianchorgli
fannoparerequellipiaceriche hannoconqueftefinteimaginisianomoltomaggiori che
poffonohanerecolli'uerihuomeni,econ leueredonne: Hor pensacome sono
inganriati,etuccellatidalDemonio.Ecoh n a r c a u a quello scel e r a t o , e
(maledetto incantatore di Don Benedettoauantinominato.IIqualeraccontauaqualmeno
tegliparcuadihauerehauutomaggioredelectationecon il Demonjoiqueftafintaimagine
chiamatadase Armelina checon tuttelalaifemine,collequalihaueamaihauutolara
uipiaceri.Etaccionon pensaftiche con puochefefuffii m pazzatio o
tiuogliodireche questafozza bestia,piu presto cofilo chiamaro che h u o m o
anchora hauea hauuto uno fie gliuolodella propria sorella.Ionon dicocosache sia
secreta cóciosiachetuttequeftecosecheraccoratosonoiscrittenel ljgrocelli U p r o t e f l i f a t t i d i lui. Era tan t
o i m p a z z i t o d e t mt o i s e r o h uomo in queftodiabolico
amore,epercotalmodo beftialme t e brugiaua di cotefta fua Armelina. cioe del
Demonio in do ficomefannoduoicompagni insieme benchenonfuffo ucduta
dalcunoaltro. Ilperchefendouditocosi ragionare, n o n sendo ueduta quella
pensaua chiunque ludiua chefufti doucntatopazzo.Debuditelescelerateopete
checostuifa ceuaperamoredicotestasua Armelina nonbattiggjaua fanciulliniquando
glierano portati fecondo la conluetudi medeChristianiperdouerebattiggiare, ma
hauendo fino de battiggiarliconliremidadaacasasenza battesmno, o n consacrauale
hoftic quádo diceualam e s a benche fengeffe diconsegrarleecolligefti,econ un
certomormorio,perna fcondere lisuoifrodi,ecosifaceualeadorare alpopolo,non
fondoconsegrate.Veco-e-chesepur qualcheuolcadritame t e h a u e f f e
consegrate, alzando la sagrada hostia in alto per dimostrarla al popolo ci o e
ilcrocifissooaltrafu gura collipiedi riuoltiinsuinuituperioetiscerno de Iddio
edallasuafantiffimafede.Dipoileconseruauaperdarlealle
fccleratefemine,etallimaluaggihuomeni,accioleportaffe
toalmaledettoetiscómunicato giuoco.E coliquellodiabo tico ebeftialeamore era
causa dicantipeccati. Anchora -e nellam e d e m epazzia unaltroftoltoe
pazzo,chiamato ilPi heao ilqualetantopazzescamente amaunodiauolodetta dalui
Fiorinache seglidimoftraiu forma de femina,che fouente hămidettoiftaminandolo
piupreftodiuuolerepa. siteognimartorio,che abbandonaretantabelligimafer mina
conlaqualehahauutotantiamorosipiaceriquarant taanni. Eper
cotalmodo-erdivenutoatantapazzia chenå eredeefferaltroIddicohe
quella.Vedetiquantosonoinui, luppati costi meschinelli h u o m e n i nelle reti
del dem o n i o . Etanchor non pensati chesolamente commettano cotefti
fceleratispreciatori dellafantiffima c triomphacifima fede 1 formdai
femina,chesouentelhaueainsuacompagniaspas leggiandoper
lapiazza,ecosiandauanoinsiemeragionan f i c o m e sisuolela alząua con lafigura
luie-figurataridottaalcontrario 11 1 hh ii f el
diChristo,dellipeccaticircalasagrahoftiaereffagloriofiff m a f e d e f e
n d lo e g a t i d a q u e s t o p a z z e s c o a m o r e , m a a n c h o c o
m m e t c e n o dellaltri male opere senza numero . C o n c i o Siache cobbano
lecose dealiruiimbrattano ogniluogo col lisuoimaleficii esouradelcurto
sonosommerli coralmente n e l l i a d u l t e r i i, n e s t u p r i i n c e s
t i e f o r n i c a t i o n i. N o n h a n n o c o spettodicommettere lipeccati
con pacenti,sorelle,fratelli et altrepersone.Vccidenoli fanciulliasciugano
ilsangue di quellifannouenireedescendece dalcieloacerbiflimetemi p e s t e g u
a s t i n o li c a m p i e l e f r u t t a c o n l a g r á d i n e, e g r a g n
u o s la con tanta ruina, che pare se ferebbono portati piu m o d e l Atamente
quelliche anticamente incantauano le feutta
controdelliqualidipoifufattalaleggeescrittanelledodeci tauole.APISTIO. Dunquenon
folamente sefforzano di daredannoallefrutta,etallealtrecose cheproducelaterra
ma ancheracercanoperogniuiadinuocereanoicon ilcic loe con laria checi copri:
Caccio so. DICASTO .Addimandalotua dei, APISTIO. HaigiamaicuStregacommoffolituonice,
Catto balenare laria? Sifpeffeuolte. APISTIQ . Hai tu guaftele biade con la grandineouerotempeftas
STREGA. Nouna voltamalouentefi. APISTIO. Inchi modorSTREGA, Fatto chehauea
ilcerchioeccocheinco t i n e un u ei n i u a i l m i o Ludovigo , m a n o n i n
f o r m a di bu o m o mainfigura di fuoco. Allhoracomençiquenodiscedere del lariafulgore,efenteuasituoni,ebalenaua
il cielo edipoicas Scauala grandineetempeftasouradellicampie prencipal
mentesourade quellicheeranonoftrinemici,delliqualide
fiderauafufferotouinatie.guafti.APISTIO.Deh dimmi,
peramore:decuifaciuicucantarouina:STREGA.llface uaperodio,enon
peramore.FRONIMO.Miricordodi hauerlettoneuersi comeeDemoniifaceuanoli
ftrepiti,co fidicendoloingegnosopoetaOuidioinquestomodo nos minádolisottoilnome
delliDei,oueroquellimaleficiiicuc.. cedella persona dieffo.
Perqualagiutoquandouolfaftrenfor: Ifiumiinfoncisuoitornare e mosh
Inftabelcofe,ftabelfompreuenfi, Regietto,euenci echiamo
quandopiacemmi. Ma questanoftraSirega,piupotentechMeedeaeccitoan
thoralatempeftae grandine elaconduffefouradellebia de. Anchora tirano gli animi
dellbuomeni'ne peccati colli fuoilafciuipiaceri,perchelosinghanolisentimenticon
effi. Ilperchehomai-e-qualirinouatoquel detto diLucano in queftonoftroCastello
cosidicendo, Ārfenoiuecchi dillicitafiamma Netantola bevanda nofsia uale 1.
Quanto la modella caua l l a e r e t t o Ri f a t o i n f u c c o, l a m e n t
e f e i n f i a m m a: E perisce incantata,né piu fale Deluelen haufto pura del
defetto. Eraquelmaluaggio Don Benedetto,decuihauemo ragio nato de annisettanta
duoi,quando gliscacciaflimolafiami niadelfceleratoamore con laqualetanto ama
quella sua Armelina,o quellofuoDiavolo,informadifemincaon una altra
grandiffimafiamma uscitadiuna granftipadi legoed E cosiromaseturcoincenere.E
questo-e-ilmodo dascaccia re u n fuogo con laltro.Vine-unalcroin quefto fcelera
s a m o te rommerfochibaoltrodisettanciqueanni,etanchoruno altrocheha
vedutooccanta folfitü,Liqual andauano aldet toprofanoetifcommunicatogiuoco
delDiauoloottouolre m e s e l e c o s t -e f t a t o c o n o s c i u t o pe r t
e f t i m o n i o e c o n f e f f i o n fiede molti dieffriniquiemaluaggihuomeni,chenon
sono folamenteunao due puero treStreghe,m a sonoingrande moltitudine,ecofiche
non sono solamente ute o quatro stre gonierscelecacimaschi,liqualiuannoa questo
indiauolato giuoco,ethannoquestiprofanipiaceri colliDemoniiinefli gia
difemine,m a egliesutotitrouatopercerto comeuiuar noingrannumero ecin
granmoltitudinpeercotalmodo che credono secondo la loro iftimatione che ui si
ritroua a quefta maledetta congregatione oltro di due migliaradi persone
APISTIO. Oh chefenteio diceslaantiquitasola,
mentebalaffatoinscrittoditreouetquarto Maghe digrå Caccioconlamiavoceilmalfe
fpiacemmi Carco dinebbie,enebbiealseren genero m a ame parechenenoftri
fama, giorniseritrouanomolte Medee,no puoche Candie, nó una sola Ericho. FRONIMO.
Tu cinaraucgliiche se ritrouano-secento M e d e e con cijoria chetusaibecn h e
son inuna Citra della lialiadodece
migliaradiCircecioedimeretrici,lequalisonotenuefora lenondimenotunon
timeraueglidieffe.APISTIO .Ben bente intendo.I percheperbuon rispetto,no
bisognaalati mente cercareouero inueftigareil sentiment dellpaarabo la
perlinascostiluogbj. FRONIMO. Diroe anche due pa role.loistimo chehabbiaIddio
con sua gran prudemtia uos lutofermareestabilirelasuafanciffimafedenelliapimi
del lifideliindiuersimodiperfarecrescerepiu ampiamentein ogni canto la christia
n a r e l i g i o n e in q u e s t o infelice tempo, Helquale
pareuadiognicoladimale in peggio. APISTIO , Inchemodo FRONIMO. Prencipalmėteincemodi.E
primaperilfucceffodellecosegiapredetteetannunciate,de poiper
limviracolifattidiuinamente epoianchoraperillco prireche ha
fattoladiuinaprouidentiadellescelerirade de de corefti indiauolari riti,e
maledetteopere dellantidecco molto bialme uole giuoco. Giahauemouedutouenireapun
tole sanguinolenti guerre la crudele fame e carifteia lahore tenda peftilentia
licomegia auantjerano state annontiate diuinamente permoltjarniHauerebbono
forsipoffutocre derealcunifacilimenteper cotalmodo oppreflidallagrans dezza di
queste tribulationi che fusseroproceduteo casual menico fatalmentedate
calamitadi etribulationifelnon fuffisutonuouamente
fuegliaraeteccitatalafedeinquesto
noftroCastellocontantimiracolifattidallagloriosaVecgie ne Mariamadre
deIddio.Lequalicofeficomedaseconfer m a n o ,efortificanolafede Chriftiana,cosianchora
per acq denslaconfeffionedicotesteAtregheglida uigoria eforza Per la quale confeffionee
per il gran numero delli'teftimos nud i a m e n d u o i li f e f f i c i o e c
o s i d e l l i m a s chi com e d e l l e f e y mine,cognoscemoapettamentequalmente
liDemonijco donemicietaduerfariidellafedeChriftiana Laquale e di tanta forza
chequanto maggiormente e con ognisuafor za,aftutia p e r fare
dipoidello unguentod a ungere di luoghiuergognofiquando uogliameoffereporcati algiuos
co. DICASTO. Acciononiftimatieffercoteftefavole eche fano sonniio
imaginationiechefianosolamenteillusioni, e non
siainverita,erealmentecioèdiandareper lecase di q u e f t o e d i q u e l l o a
d u c c i d e r e l i b a m b i n i, u i d i c o q u a l m e n t tefono
ftatoritrovatidellifanciullini,ben certamenteinfen
ci,cheanchorpigliauanolapopa,etillatte,liqualihaueano ledita forate,elepiagheebucchisottoleunghini.
APISTIO. RefpondiStrega.Aflaimimaraueglio chenon greffino,eche cridaslinodetti
fanciullini,quando uoili trag tauatitantomale,echelipungeuati.S T R E G A . Sonoal
Ihora per coralm o d o indormentatic h e n o n feiitino. M a dipoiquando sono
fuegliaticridanoad alta uoce e piango no e Aridono ,efeinfermano,etanchoraalcunauoltamon
teno. APISTIO. Perche non muoiono tutti. Perchelifanamo.Conciosiacheglidiamodelligioueuo
/ lireniedi,ecofilikberemo.Hiperchenetiramograndiguza dagni. APESTIO . Chi uiha
infignato questi cemedii STREGA . E demonii. APISTIO. Questo a meno n p a s
teverifimile.FRONIMO.Eperche.Non faitucomeit Demonio conosceleuirtudedelleherbe
,lequalianchora za aftucia,etingannilacercato di rouijare e di ofcurare,
tantomaggiormente se alza erefpiandeperognilato. APISTIO. O quáto ben lhai
codutto questo tuoragionaméto . M a horfu dimmiobuonaStrega.Vccideftigiamaiuerun
fanciullorSTREGA:Non un folo,m a simolti.APISTIO . Conilcoltello
oueroconlamazza.STREGA.Con laagus gliaecollelabra.APISTIO fucbimodor STREGA.Ine
trauamodinottenellecase denoittinemici,perle porteet usci cheeranoapertia
noi,dormeudo e loro padriemadei cpigliauamoi fanciullini,econducendoli appo
delfuogo , forauamoconlaaguglialortoleunghi,dipoiponendowic
fabraasciugauamotanto sangue,quantone puotevamote n i r e n e l l a b o c c a .
E p a r t e d i q u e l l o n e d e g l u t i u o , c i o e ilm a n
dayagiùnelRomaco epartene riseruauoinunabuffua o inuno uafetto piaa
comeptatitis hanno conosciuto lhuomenisanchortudebbifaperecome
giafuconoscrittemolteregoledamedicare nel Tempioda
Esculapio,lequalidipoilecolse Hippocrate,ele Scriffenelli suoi libcisicome
citrouiamo.Anchor sono fccicci molti g i o ueuolireinediciosialle
piaghe,efedice,come contro delli geleni,nellehistorie che furonoritrouatiperlifonnii.
E puf anche leggiamo qualmente soleuano dormire nel tempia diPasipheaenelláltri
Tempiidelliifimati DeidalliGentils ficomegiapiu auanti diceflimo,quellichi
cercauauo li res mediicontro delliinfirmitade,sapendo chegliserebbono
reuelatiperilsonnio.Ilperehetunon tidebbimarauegliaro
seanchoranerempipresentiglireuela ilDemonjoliremes diiaquestariaemaluaggia
generationedihuomeni,edifc mine lequalifrequêteméreconuerfano con lui,APIS TIO
Dichecosauidannospecáza,douiatihauerdaloro:S T R E GA.Longa
uita,Grandedoujtiaericchezze,econtinui pia cericarnalilequalihauemo,ene
pigliamo delettatione. APISTIO.Deh dimmiperquella fede chenonhai.Ti dok nologia
maidelli danaris Gia m e nc donoe ale quanti ucro'e che disparfono .Pur seruai
alquanti puochi quatrini.APASTIO.Veramentesonograndiricchezzeco
tefte.Dehpensachecosapoi serebbe felteprometteffeli T h e s o r i d i C r e s o
q u e r o ci promett e s s e m a g g i o r e d o u i r i a d i quella di
Alessandro Magno ,cóciosia che era portato lo ora. diquellodaquarantamigliara
denuli,five-uero quello che scriueCurtio,quero ficomediceilPlutarchoin
Greco,ilqua lecosidicoinuolgarepersatisfarea ciascuno eraportatolo
orodieffodadiecemigliaradigiogatiOrichiisulecarrette erdacinquemigliarade
Cameli. FRONIMO.Paredicon tentarsicoteftauilee fozza fecedihuomenie di
donnesele d o n a t a n t i p i a c e r i q u a n t o n ó h a u e a S a r d a n
a p a l l o ,n e S m i n dre,ne Stratone.E cosipiuolicanon cercanopurhabbiano,
queftipiaceridiabolici.APISTIO .Almáncoquelleerano h u m a n e e u e r e , b e
n c h e u e r g o g n o s e e b i a s m e uoli , m a q u e ftedelleStreghesono
coseda ridere,eda fars-beffe,esono: menzogne finteeuane.FRONIMO. Tunondirai che
quellesianowane,setu ben considerarai questo uocabulo pi 10 nie lo comentátitieecimaginarie cioe
parte finte,epartenuoue. DICASTO.Iftimo chequelle siano inparteuere cioe fon
dareinquellacosache-e-erinparcesianofallaciefinte,enó firmate
inuerunuerofondamento,emaggiormente circa diquelle coke,dellequalenarranoalcunicomesecangiano
in forma diGatteetinaltre figure di animali,Ihuomenic d o n n e di questo
maledetto giuoco,etche resuscitano libuci che
hånomágiato,sendolipoidatodellauerga dalladonna o dal Signore del giuoco, fouradellapelledouiuisonoposto
d r e n t o To f f a d i d e t t o b u o mangiato. I p e r c h e f i a t i c e
r t i c o m e tutte quefte cose sono imaginacioni illufioni,etcose che
cosifaapparere ilDemonio Icelerato,et aftuto chesiano,
mainueritanonsononeanchoraessolepuofare.Ma che fianoalcunauokaporcatiperariaetchefouentemangiano
beueno,etdianslibidinofipiacericolliDemoniicofiin for
madimarchicomeinformadifeminenon e-danegare, neanchordariputarecosa
falsanecontrariaallauerita.Puo trebbi narrare afraicose confermate da
digniffimi testimo nii fe v o n hauefli paura che poi ui lamencafti di m e ,d i
c e n do cheuihauefliingannatorobbandouiiltempoconcefloa uoi da douer udire la Strega.APISTIO
. Ti priego,fiacona tento di riferuare cotefta curiora disputacione per infino
a d o m a n e . D I C A S T O . G i a -e-diputato quello ad altriragio
.namenti,purmolticuriosi.Vero.e-fetu purtanto brammi deintendere questo,fiaticontétodidisinarehoggiconmieco,
benche fiamonella uilla non mancarano imperhotandi cibiquantoseránoneceffariida
iftinguerelafame. FRONI M O .Non -e-darifutareilconuitodelloamico,douisiritroj
u a n o a f f a i d o t t i r a g i o n a m e n t ib , e n c h e p u o c h i c
i b i. C o n c i o fiachere-moltopiuaggradeuoleallifpiritigentili,etaquel l i c
h e s e d e l e t t a n o d e l l a d o t t r i n a il c o n u i t o o r n a t
o d i c u r i o l i parlamenti chede uariera edi moltitudine di uigande.
APISTIO.Piacémmi assaiciascunadicorefte cose.Perche c o n u n a si p a s c e il
c o r p o e c o n l a l t r a J a n i m o . D I C A S T O , HorchiederipuruoidallaStregaquelloche
vipiace,laffal. to coftuiquiVicarioetinmioluogo,perinsinoritornaroda noi.Perche
uoglio impore alsopraftäte della mensa,quello c h e d e b b i a f a
r e. APISTIO . S u S t r e g a d i . H a u e a il t u o a m o r roso'uerunsegno,con
ilqualeaddimandatodateuenesse n e l c e rchio : STREG A . S i h a u e a in q u
e s t o m o d o . c h e o g n i uolta chemi fuffidiscostatadalli altri,ecosi
sola due uole Ihauesichiamato incontanenteuiueniua. APISTIO .M a per quale
cagione non treouero quatro uolte. Non loso.Coferaammaestratadalui.Maanzimolto
for teme ammoniua nólochiamassetreuolte.APISTIO .Chi ne pensitu di questa cosa
Fronimos FRONIMO. Questi pattidel demonio daluipendeno,esonoin fua dispositio
ne,enon solamentequestipattimanifefti,m a anchor li occulti . D e l l i q u a l
i il n o s t r o f a n t o D o t t o r e A g o s t i n o i n s i e m e c ó a l
c u n i altri D o t t o r i n e h a n n o scritto . N o n d i m e n o p u r io
c t e do chenon sianaturalecaufainquesto numerodi duoine a n c h e p e n s o c
h e u o g l i a dimostra r e c o t e s t o il m i s t e r i o d e l l a
Diadeosadelladualita,dimostrato da Zarera Caldeo,per Pithagora alli Platonici. O liacoftuida
chiamare Zareia, frcome diceOrigenenellibrodelliPhilofophimenoni,o fa da
scriuereZarata ilcheulaPlutarchoCheroneodesignano doilMaestro di
Pithagora,dechiarando una parricoladel Dialogodi Timeo oueroanzisiada dire
Zaradaconciosia chenellibrodelleleggi,lanominatodaTheodorito Theo logo ZaradonM.ache
cosaimportaalDemoniodidisputa rediquestacosaediquestonome loistimochequiuigia
ce nascosto qualche inganno,equalche aftuta frode delD e m o n i o m a l u a g
i o. O u e r a n c h o r i o p e n s o c h e il f a c c i a c c i o n ó se
accordi con lavoce della santiffima Trinita,e cosi uuole
pareredinonapprouarequella.LaqualeeDio uiuentein sempiterno.O
forsianchorailfaacciotiraetauertiscamag. giormenteThuomodallaconsuetudinedellecerimonie
del la nostra religion e Christiana, A n c h o r a il puo fare per quale che altro
ingannoetfro de il quale noi non sapiamo ritrovato dalli antichi Gentilie Pagani
sottoilnumero pare.Loqua
leuuoleuanofufficonsegratoalliinfericioeallispiritierano giu nel profondo elo
dispare allisuperi,cioe allispiritihabir tauano Touradellicieli.APISTIO
.Aftaisonfatiffatto.M e dimmi Strega.Conosceuitudiesser ingánatada questotuo
amoroso STREGA.Non mai.APISTIO.Come-e-posli! b i le cotesto: Quando tu vede u i d e s p a r
i c e l i d a n a r i , c h e c o s a ittimauiturSTREGA.In chemodo de
parefsinonon con, Sideraua,Vero-e-cheeglidame ritornaua,etmicompara
uaconmolciamorofipiaceri,epercotalmodomi legaua, chenon
pensauaaltcochedela.APISTIO .Che cosaaddi mandaua che uuoleflida tequando
tiprometteua ianitecol se,quandocidayatantipiacericarnali,echefingeuadiesser t
a n t o g r a n d e m e n t e i n a m o r a t o d i t e s STREGA. N o n a d i.
mandauaaltrodameeccettocherenegasselafedediChri/ Stoenon
uuoleffehauersperanzapiuinello,ma cheme ilu genocchjassealuieloadorasse
eloteneffeper Div. FRONIMO . O iniquiilimo,o fpurcissimo,o fceleratiffimofpiri
to detto ueramente dalliHebrei Sathanaflo ouero aduerfä rio,edalligreci
Diauolo,edalliLatiniCalunniatore.Se puo pensare maggiore calunnia,emaggiore
ingiuriacontrade iddio quáto eche faccicanta forza questo fcelefto colle fue
maluagie parole diuuolerlirobbareladiuinita,echelauor
gliaattribuireasecontantaatroganza,econ tante bugies
IlpercheforsihaamatoquestonomediDemonio osiaper dimostrarechehabbiala scientia
ouerper daretimorealle creature.Eglie uero cheecosasupremante aluipropria efa
miliare ditessere ordinaree comporre le isisidie et ingani,
Coliparimenteingannoilprimohuomo,sottoilnomedelli Dei donde-e-uscitoiluocabulo
del Calumniatore,ficomedi ceGiuftinophilosophoemartire. APISTIO .Sa Stregadi,
Inchemodo erasu discernuraeconosciutafralialuribuoni Christiani:STREGA.Non
uierauerunadifferentiaframe elialtri.AndauaallaChiesa,miconfessauaneltempo
della QuaresimaauantidelSacerdote decurtiemia peccatieco cerco che diquefto
Dipoi andauá collalori a comunicarmi alloálcare.E cosinon eradifferenciaalcunaframe
elaltre donne.Non uierauaane coteftecoreilmio amoroso.Sola. mente eglimi
comádaua che douessedirealcune cosepian pian,enafcoftamentefacessealcuni
arcilequalicosedetree faite altro da nienon uuoleua. APISTIO :Racconta iltur to
aparteperparte.Sendo nella Chiesane giorni delle feste,comandauaame
cheleggendoilSacerdote lamessa adaltauoce(sicome;Tesuole)diceffeiopianpian ii
ii Hon euero,tunenientpierlagolaequandoleuauaquel lola hostia
consagrara soura del suo Capo per dimostrarla atuttoilpopolo
acciochesiaadoracae reuericamoleus cheioriuoltafi liocchialtrowe,enon
laguadasse, etanchor micomandauarivoltafsilemani dopo lespallee piegaffele deta
sottoleueftimente incotestomodo ,sicome uoi uedeti io facio.cioecheglifaceffele
ficca.Dipoianchoramidiceua.
nondouesliscoprireuerunacosadellinoftriamorofipiaceri, al Confeffore n e
anchora di quelle cose che pertengono al giuoco.Egli iftimaua poiche non
importafle cosa alcuna se ben uuoleffedirealConfefforelealtrecoseoueronon ledi
ceffe.Voleuaanchora,chesendoandataa communicarmi, fecondolausanza incontinentisendonimipoftal
hoftia consagrata nella bocca, la giraffi fuora fingendo di asciuca r mi la
bocca e laconferuaffenelfacciuoloperportarlaalgiuoco, accioilbeffalimo, etischernissimoconquelli
fceleratim o di,sicome disopra disse,etanchora perche il conculcassimo
collipiedicon quelliuituperiigiaauantiraccontati.Dipoi portauadicontinuo due
hoftieconsagratenella miaueste culite,percheellome diceuache
uieratālauectuineffefen dole portate in quel m o d o senza riuerentia,m a
anzicon uie tuperio,chemainonpuotrebbe confeffarelinoftripiaceri,
neanchoraaltracosa delgiaoco,benchefußiancheinterro gata dallo Inquisitore n e
con tormenti,ne con altrimodi. N o di meno aftreggendommi imperholo Inquisitore
em e pacciandommidiuuolermgirauemente martociarefenon confefauaquestenostrescclerate
operemi commando quel demonio maluaggio, legetraßein queluafo,loqualehai uea
portato a m e ilGuardiano della pregione per farele mie necesitati.APISTIO. Facefti
questoiscómunicato.com mandamentos STREGA. O me mischinella, et infelice's
bubbidi.Ma non ui rencresca diudire una cosamolto hori rendae pauentosa
cheoccorse.Rompendoioinfeliceescia gurata quellesagratissimehoftienelfterco,con
unuaerga, vide uscire da quelle il vivo sangu e. FRONIMO. Che odi dire hoggi: Puoesserequesto
Credocercamentechemai piuno udiranolemie orecchie finilioperefcelerate etis
communicate. DICASTO. Andiamo un puoco nel giardino ecosiforsicaminandoefpasseggiandouiritornara
lo a ppetito. H o r f u r a m e n a la strega nella pregione. APISTIO. Inueritauidicochenómaihauerebbecreduto
che fe poteffino,non dico fare,m a pur penfare tante fceleritade,
tantemaluagioperee tante ifcomunicate cose,quante ho udito hoggidalla Strega.Ilperche
avanti facilmenre haverebbe perdonato acoteftagenerationedihuominie didon ne
credendo chefufferocondurrida qualche leggierezza o ueroda qualchemancamento
diceruello adintrareinque fto errore etanchora iftimaua che
fusserocotefteStreghe e Stregoniingannati dalle apparentiuisioni e illusion e
fittio nidelDemonio etanchora(iodirolamiaoppenione)non giurarebbichenon
sianoingannati, ma hora11comebuono e fedele Chriftiano c o m e sono itato eth o
creduto quello, che debbe credereciascunuero Chriftiano, non mai con
fentirebbifedouessedare uenia,neperdonareacoresti ini. quifcelerati
emaluagginiolatori,efpreciatoridella nostra fantiflimafede. DICASTO. Se
tidimostraroche cotestoap pertenne alla Religione Christiana di douer credere
che sia noinuerirafattedaqueftifcelerarihuominialcunemaluag gie opere etseiɔti
conducero tantiteftimonii, ilperchne o n puottaifaredinon credere efferemolte
cosenellantidetro giuoco chesonouere,enonfintene ancho imaginate,m a Li come
siamo consue t i d i parlare che siano reali io penso che dipoinon
farajostinaraméter efiftentia. APISTIÓ. Ancho ranon sepiegailmio animopiuinunaparte
che nellaltra. DICASTO. Dimmifettepiace,Vedeftimairefuscitare
municate.APISTIO.Anchora iosondicoteftaoppenione
dinonudiremaipiufimilisacrilegginesimilihorrendeope te. FRONIMO. Dehperamore deIddiopartiamocidi
quietandiamoincontrodi Dicafto, feltipiace,cheritorna danoi. APISTIO. Moltomipiace
Andianio. DICASTO Hoben comeuafecifatiffattir Vi-e-anchorarimastaalcuna cosa da
dovere intendere. FRONIMO. D e h il n o f t r o D i cafto,iotedico chepercotalmodo
siamostomacati cheno hauemopiubisognodipranso.Iotesoben direchesiamo per una
uolta sariati uerunmorto. APISTIO. Non maihoueduto tantomira, colo.
DICASTO. Creditu che possono resuscitare e mortis FRONIMO. Non lonegara no. Conciosache-e-quefta
cofamoltocancataefouente ramentaca dalli Poetietand chora-e-scrittadalli Philosophi,
e maggiormente da Platone. Liqualinarrano come resuscitarono limorti,etusciros
no dell’inferno. APISTIO. Ne ancho per queste cose m i
acqueto,incoteftaoperachi-e-ditantomomento. Ecolino
credoalliPoetinealliPhilofophidicioma libenaluange lioDICASTO.Io
tiuoglioproporreanchordelliefsempii dialtracosade cuinonlefamentionenella
fagrascrittura, Dimmi credi tu siano uscite le naui dalle Gad i cioe da quelle due
Isolecheso non elfinedella Bethicanellaetremita della terra noftrauersolooccideniedouife
diuide la Euro padallaA fricaretanchorchesianouscirefuoridelportode
VlissiponadiLusitaniaosiaPortugalljareche quelleriuolte versiol Zephiro siano stato
portate da circauentimigliara di ftaggi,o piuomanco fiacome
silioglia,perinsinoa quel larantoampiaterra(lagrandezzadecuianchornon fecor nof
c e) e cosi portando le hora il Zephiro
per il mare atlantico siano giunte allo Indico feno. APISTIO . Si lo credo .
DIGASTO.Tu locredi. MadimmiacuilocreditAPIST. A tantimercatapti
liqualiraccontanoin che modo hanno fattotaluiaggio souradellelarghespaledelmare
colle 11o dantinaui. DICASTO. Haicu maiparlatocon quellis. APISTIO. Non ho gia ragionato
con quelli ma pur alcunayol ia ragionando di cotesta cosa curiosacon quelli
liquali h a uerano udito daquelliche hannonauigato per detti luoghi lo diceuano,etconfermauano
che coli era. DICASTO. Il mio Apistio dimmi non ti hauerebbono poffuto
ingannare quegli. APISTIO. Deh, no chi serebbecoluichi dubi tal, che l’huo m e
n i gravi e gia maturi di conseglio si d e l e tra s s i n o d i favole e di
menzogn e s DICASTO. e dunque io producero quiuinelmezzo non menore numero
ditestimonii dinon manco grauica:edinon manco.oppenioneet istina tione,de
quellituoi liqualihanno cófermato con giuramer to come. Sono portate algiuo
cole streghe e li stregoni, come li demonii danno amorosipiaceriállhuomini
in effi g i a d i donne et alle donne in figura di huomini, e cotesto Thanno
havuto dalla bocca dies li stregoni e streghe conil 20 line old od sagramento
costretti chene dirai esera tu poi fatiffatto. FRONIMO. Se potrebbedire
ueramenteche coluinon fussiin talmodo satisfatto,fuffioscioccoo pazzoouero
oftinato. APISTIO. Deh pertuafede di'per quale cagione. FRONIMO. Percio
chequando sono moltidiunamedeme voce, 11on pare c o n u e n i e n t e c h e sia
u e r u n la d e b b i a n e g a r e eccettosilnofussida qualchebuonaragioneper
cotalm o po costrettolaqualehabbiatåraforzacheportagettareal baffo
quellaoppenionecosiconfermata ditantihuomeni. Jlchecredotunon
habbi.APISTIO.Questatuaragionc h a puoca forza in quelle cose che paiono
louerchiare lefors ze dellanatura,m a ben affaine ha in quelle cose ne ueneno
nellulodellhyomo.Ilperche non ho fattodifficultadi crede requelviaggiodellenauidiSpagna
nella Indiaetaquella terranuouaecofiaquellialtriluoghima benfogran diffisculta
in credere il giuoco di Diana. FRONIMO. Puo' esserre uno molto maggiormente contrario
a quelli che raccontano il viaggio della India che aquelli che narrano I givo;
codellanotturneHecare cioediDiana.Concioliache dets.
touiaggiononfugiamaipiùperuerun modo conosciuto dalla antichita,m a solamente
furono ritrovatialcunipuochi segnali con liqualidicono gia giongeffe non soche
naui dal JaIndiaal litto di Spagna. M a hora senauigadella Europa per il mare di
Ethiopia nella India. Eco si hora gia f o r o s r o
gnatiiporti,etilittinellecauoledepinte.Anchoraalpresen Refono ftato
ritrouatealcune Isoledi marauigliosa grandez za chemai non furono conosciute
dalli antichi.Et anche nonfumai ramentata nescrittaquellaampiaterra,emol to
marauigliosa per lasua grandezza retrouaraquesti anie ni
paffatiLaquale,fefusiAtataconosciutadalliPhilofophi,
liqualiseimaginauanoesserepiuMondi nellordinedella natura,forsicon maggiore
ragione hauerebbono dimo, Atratolaloropazzia.Delle qualicofeinouamétecontantefa
ticheritrouare'non hanno fattopur uno puoco dimentione o Strabone,o
Ptolomeo,quero anchora quellialtri;che for no suco
reputatipiufauolatoridiefli.M a delle Streghe ne fattochiaramentione
nellilibridelliantichietanchor delli moderni.APISTIO.Io lento, m a nó
foimpechoin chem o do,apuocoapuocomouersilanimomio accioconsentialla
quaoppenione.Vero-e-cheuolétieriudireieteftimoniipro mellida Dicasto
diconducerliauantidinoinelmezzo,ec a n c h o r a d i s i d e r o d e i n t e n
d e r e d e l l e r a g i o n i se ne ha della l e tri,olcro di quelle che ha
detto. FRONIMO. Deh il mio Apiftio tu debbefaperecome-e-fegnodipuoca
Atabilicadi animodiuacillare,erdipiegarsimoquiidimo riuolgerli indimo
fermarsiedipoimouersidalluogodouieraferma, to. Conciosia che quelle
cose,dellequaliauanti diceuamo. Senonpareuanoateuerepurpareuano imperhomolte fi
milialuero dapoianchoracontradiceuie dicenichemeri tamente era da
esserecontradetroda tea similicose,m a ho ta c o n una certa inclinatione di
anim o confeffi dieffere tirar
toesforzatodidouercósentireallanostrafentétiaetoppeni one. llpercheame
pare(perdonamiperho)chemeritame tepuotreffieffernuotato diinstabilita
eccetto,setunon ha) ueffiusato iconia ,ouero simulatione,e ficcione. E cotefto
n o serebbe meraueglia, perchetuseiusatonellifintigiuochide gli Poeti
etanchoraseitumoltoeffercitatonelliDialoggidi Socrate.Perilche interujene che
lepersone sono usate in der tilibri, onon maio uero con gran difficulta
sepossono rimo ueredallidettimodi.APISTTO. Fronimo mio io non fingo in cosa alcunane
anche giudico che fiabi sognofra teem e de Ironia ouero simulatione, ma io te
dico il vero, che non quorejcofi prorontuosamente credere una cosaditantom o
mento.Ilperchepaream echedamegliodidubitare pur che modestamente
sefaccietanchoradiscoprireetidi e quindiledubbitationidellanimomio,cioemoa
temoa Di cafto,ficomescopreloinfermolesue infiaggionie piaghe. Al Chirurgico,checrederefacilmente
senzaragione.Cone ciofacheiersententiadiungrandehuomo(fiben miricor do )come
sedebbe andarepian pian,edipaffoin passo in quellecoselequalipaionoche
Couerchiano lepoftre forze accioche se inconcanéti fufferosprezzate n o s a m o
da nasco ftoinuiluppatinellifrodi, epelcontrario,seincontanétefuf
ferocredutedanoi 1100siamopresinelleceticollesuspicior ni delle
fcioccheuecchiarelle.In uero'fisonftato dubbioso nell’animo mio, c o s i m i p
a r e u a d i d o u e r dubitare N ó h o i m perhomai contraftato
conlaninoostinaco.FRONIMO. Secolie-echetusiadiquestobuonanimo cioeche uogli in
coresta cosa usarelintellettoenonla uolonta ,certaniente possemo havere buona
speranza dite . M a t i u o g l i o d a r e u n buonricordocosiinquesta cosa
decuihoradisputiamo.co m e n e l l a l t r i c h e p o r t a n o p e ricolo, e
sono de importanza (si o m e si s uole
dire) c i o e c h e p e r c o t a l modo fa c c i c h e n o n u a
diauantilauolontaallointelletto cosiuogliodire chenon uogliuna cosa seprimanon
hauetaibenintesa econosciu ta.M a sono alcunichecaminano pel contrario
nellordine delliftudiidelladottrinacioeprima diffiniendo,e concludendo con l a s u a uolonta, ouero secondo il suo u
uolere che cosasiailuero auanriben consideranoconlointelletroeffo vero .APISTIO.
Hogran seredintendere che cosa ha da direinqueftonoftro caso
Dicasto,Joqualeuedo ritornare d a noi. Certamente non puotrano essere(almio
giudicio ) eccettechedegneeteccellenticose,purcheluuoglia ferua tele
promisfioni. FRONIMO. Bisogna primeraméte iftin guere lanostra fame
edipoisifatiffaraallacuasete. DICASTO. Andiamo perche-e-apparecchiatoilpranso.Dehpec
noftrafedenon tardiamo piu conciosia che affailongamen tehqucmohoggidisputatofichenonbisognapiu
dimota re.Equando poihaueremoinkaurato ilfarigatocorpo di
quelloeglieneceffarioperla continuarouinadelnaturale caloreintraremo poi nel
giardino della disputationec h e cirimane.fando fram e fe-e-uero imperho quel
lo che ha narrato la strega. DICASTO. P i a c i m m i,a d d o manda lantis
dettiuitiiesceleritade,cioeche spesieuoltefacionola penin tentiapelliufernodopo
lamorte etiuisianomartoriatigrai uemente.Non ferebbemegliocheleprohibiffeIddio
non si faceffino,che dipoi lhauerano fatte didarli la penitentias
DIÇASTO.Meglio certainére ferebbe felsereferisceque, Hoa
coluichihafattolemaluagieoperepercheselnonhain uefleoperatomale hauerebbe
fattoben per fo.APISTIO . DunqueperchenonleprohibiffeIddio.Non ferebbemag giore
cosa epiudiuina,lefusserodiuinamente 'uietare& DICASTO. Sono b e n u i e t
a t e c o n la l e g g e m a n o n c o n l o p e t e ra
CioeIddioļeprohibiscemediantelalegge,m a nowole per forzateniceIhuomo non
operia suo piacere.A P L S T I O Perche épermeņa da Iddiolamalgradeuole
operatione, et il peccato cioeperchepermettechelhuomo facciopecca to
DICASTO.Perchere liberolhuomo,er-e-infuoarbi. trioe volunta elibertadioperare
ficome alai piace,oilben oilmale.APISTIO.Nóferebbestatomeglio chenófufli
mainatocoluiloqualeconosceuaIddio,chedouea fouina rcin. APISTIO . JIP OICHE
HAVEMO SCACCI a t o l a f a m e c o l l i c i b i e u i u a n d e t i p r i e
t. g o Dicafto Inquisitore delliHeretici uoglieffer concento,chepossachiede
reinantidituttelaltrecele,una certa m i a dubitatione Laquale ha granden mente
feditolanimomio ,no con uno scrupulo niacon una agura láza,pen pur quelloche tu
uuoi.APISTIO.Non guarimi sa tiffanoquellecosechediconoalcuni della
pena,chi-edata da Iddioacoteftibiafimeuolihuoineni e donne, 3 e,per
teinquefe grandisceleritadeetiniquitade&DICASTO. Si
Terebbestatocertamentemeglio chenon fuffimai apo paruto almondo
coluichiperfeuerane peccatiper infinoal f i n e d i s u a u i t a , m a c h e f
u f f i m o r t o n e l u e n t r e d i sua madre. APISTIO. Maremainonfuffeftatoperuerunmodo
peii fituchelfuffemeglioperquello DICASTO.Perchi: APISTIO .Per luj.DICASTO
. Perdonamiilmio Apistio Tu parli moltoscioccamente. E poffibiletunoucoulideri
che questaje,unapazzescaquestionesConciofiachetanto ifrasesonocorrarij,elloreniente
cheuno-e-rouinatodallalt t r o : N o n f a i t ü c h e n o n p u o i n t e r u
e n i r e u e r u n a c o s a o sia p r o fperaouerfineftraa niente
chediinaginamorAPISTFO . PerqualcagionedunquehacreatoDio coluiloqualecono fceua
douefte andare allieterni fupplitii DICASTO. Per sua
fommaetinfinitabönta.APISTIO .Come fiapoffibi. de coteftor DICASTO. Cofve-poffibile.Perche
non sia for uerchiata lainfinitabonra di Iddio dellaperuersa malitia
dellhuomeni.E cosisenarra cherespondeflesamo Pietro Apoftolo a Simon M a g o
,rendointerrogato da quello quali di fimile cofa feben referisceClemente
ladisputationefatta f r a ' e f i. D i m m i u n p u o c o A p i s t i o ti p a
r erebbe fuffi b e n c h e ceffafliIddiodacantogranbeneficio cioedicreareleante
m e pedrespettodellhuomo chel doueffe dapoimale ufarec conciosia
chereioperadifomina bontae de infinita poteny tia
Anchorasebenconsideraraiconlameitėtuatuttele uercudeetopere
dilddiodimostratealmondo tu uederái che secauafuorila Giustitia dasemedeme,folamenteftren
gédo quelliliqualipiuprestohanno puolutofuggire fabori t e la benignita di
quello che receuerla .N e anchora per questoseiftingue ouero se diminuisce
lamisericordia cory cioliachemanco punisce quellicherechiederebbeilrigo
redellagiustitia.Efouenteuseissequalche cosa daeflafcelel tagine
perpetratapfreie carciuiliuomeni edonne cauata d a I d d i o p e r q u a l c h
e m e g l i ore fine. De cui dice farito Agosttino, che etantobuono,chenon
permetterebbeueniffe ueruntmale fenonvuoletteda quello trarne maggior ben.
Ilche spefeuolte,li1100fempre,elftátoüeduto uscirnede kk ii la
cariftiadellauixuaglia.Etanchot conoscono
qualmėteseguicaronoperdettaingiustauendu ta
moltiegrandimisterilliqualiramentano con gran ciuerentia. Anchor per i tormenti
et occisioni, e crudelta de che feceroi Tiranni contro delli secui de Iddio, cispiandelauercia
egloriadicflimartiri.MachepiudirorPerlacrudelemots te e durissimapaflione
etuituperofamorte dimiffer Giefu
ChristoueroDioethuomo,apparuilainfissigabuontadeId dio riscuotando,eredimendo
tutta lhumana generatione dalla eternal morte, etaprendo
laportadellamilericordia ec anchordellaGiufticia.APISTIO .Dob quantoben hanno f
a t i f f a c t o a m e c o r e ft e tue ragioni. Cos i a n c h e p a r e a m e
c h i fiailueroquellochituhadetto.Ma horasendoiofatiffatre da re quanto
aquestedubbitationi pregoriuoglifeguicart il giacomenciato ragionamento auanti delpranso,ciodi
narrarecomeegliecoreftogiuoco cosavera enon finta ti Titrouatnaelle
fauole,sicomeprometteftįdidouer dimotta re.FRONIMO.Vuotucredereatuttelhistorie
APG STIO.No.percheseritrouanodellefauolenarrate con co lorede historia,licome
equellafauola Samofatenacioe di
Luciano.Anchorasonomoltealtrehistoriepercoralmodo incertee
scritreinduoimodi,efouenteancheinpiu,tanto uarieediscopueneuolifrafediuna
medeme cosache paio n o ellernon guari discosto dallesemplicifauole. FRONIM O. Certamenteturespondibenenonmancobeninten
di.Ilperche ficome alcuna uolta rispiande fralletenebreet maliilben, dallidottihuomeni,
feben forsinofiafutócon fiderato dalrozzo uolgo. E per dimostrare che colisia
ftato uoglio narrare alcunipuochi effempii,benche sepuotrebi
boiioramentareintiniti.Leggiamo qualnientefuflivendu -to ilgiusto Giosepho da
frategli,con graue loro peccato.Il rozzo uolgo non pensa piuolaa,m a solamente
eglieag , gradevoleihistoriam a lhuomenidottiedigranfpicito,pici
tofamenteconsiderandoauertisconoqualmenteperdetta iniqua
emaluagiamercantia,interuienechedipoifufatto Iosephoquasisignore,eRe
dituttoloEgittoecheliberoil padre efiategli etuccalafameglia dallamorte ,che
glifey rebibneteruenura per ofcurita dellefauoleun puoco
ditumedellauerita.colifral denarrationidellehistorieche sonofra le
contrarie,forfaucie ritroueraiunauera,ecosisendo Jaltce false,eneceffario dian
nouerarlefrallefauole.Conciofia chenon fie poflibile,che
combarrijlaueritaconlauerita. Mao Dicafto,amepare dintendere quello chiuorebbe
Apiitio . DICASTO. Chi cosa s. FRONIMO. Vna historia da molti teftimoniirappro
uataa cuinoferitrouaffealtranarrationecontrariadimag
gioreouerodiegualeauttorira.APISTIO. Jaueritatuhai dettoquello chedesiderauo.DICASTO
.Iuiprometiodi dimostrareche ficomepertenealli Chriftiani didouercrede reche
fifacciquestomaladetto e iscómunicatogiuoco.com fianchegliapertene didouerlo
iftirpare esuelgere,erouina re. Ecofruipramettodiparcareaffaihiftorienon
contrarie frafe, mafjben moltoconcordeuolie fimili.Anchor uoglio farecodacui qui
auanti la Strega, elacostregnerocon ilgiu
ramentoaccioconfeffiiluero.Suoguardiano della carces
tepreftoconducequivilaStrega.Efapiatiqualmére testi monii,che uiproducersoo n o
molti,esonopigliatidaquel di che fono ha u u w i dall’huomeni costretti colli
giuramenti et anchora sono iscrittipermemoriadequelliseguicaranodie tro anoiet
anche per approuarelauerita:APISTIO .Core ifto ho a piacere deintendere. Horfu
dunque comenza. DICASTO. Benche uipotrebbimádare a leggere li-libriferic
tidiqueste cose congransollecitudineefochecotestonon fpiacerebbe a Fronimo, ilqualemoftra
dihatere ftudiatoin tuttelegeneracionide scrittoriperquelladegnadifpurcacio ne
che hafacto,purno mi parephoradi farlo perche cono fcoche Apiftio non
remanerebbe contento ,ilquale dechias facon il suo parlare tanto elegante di hauer
gran pracicanel lilibriscritticon ilpolitoetersoftilo,etanchorpacedilettat fi
grandemente dequelliscrittoripolitietben accommoda tinelparlare etornatidiun
certofaufto,epompadieloqué
tia,ecosiparechenonlipiacerebbonoquellialtrilibripriui dedetta
policita,edidettaelegátiadidire.APISTIO.Puo effer Dicasto che tu condanni quesse
figure di rhetorica hi uit Ea nico Zio U <ouero cheforecilornatoparlarecofidellidersi
come della prosa o fia sciolta oratione DICASTO. No. Non maillofatto
ne anchorfonperfarlo.APISTIO .E pur imperho usanza de
alcuniliqualiquandoharannointeleladoctrina dePaci
secioequellachire-scrittaperquestjúcellediuuolerilehet nire,ebeffate
lacontinuata oratione,ben ordinata ediftit tamentecomposta
collicoloriefigurerechorice,benichean
chotapurhoueggiutodellilibriiscrittiaPacifedaeflıBarn bacielegantemente
etornatamere compofi. DIGASTO . Vuoreftimai cuchefufliunodiquelliche sono
amouerati frallirozzietinelegatirconciosiachefocome colielegante
mentefecissecoSanGiovanniGrisostomo,ilmagno Baglio, Tee Gregorii in Greco, et
in Latino san Geronimo, Agoftino Ambrogio, Cipriano conmoltialcisAPISTIO
cioefodaefenzaerroree senza fauple, laela quentia non solamente debbe
efferecondemnata eciproua. ta,ma anzidebbeefferdacuctilodataficomeeccelétebud
non fralliinortali,chi-e-approvatoconlaragione etauttori
tadelliantichiefapientidoctori. APISTIO. Chelibrifono coteftisetinchetempofuronofcrircis.
DIGASTO .Sono molti.Veto echealcunidieffifuronoscrittigiafesantaany
nifactunoui-e-chifucópoftonellanoftraeta. APISTIO. Chi furonoliauttoride
dictilibri. DICASTO.Credo chi f u f f e r o Belgici o e Galli, over Germani e
Thodeschi. Ma di que h o ultimo de cui h o det o Furono li scrittori duo i Thodeschi.
Liqualilif forzaron odispaccaree rompere limaghi incantatori, e le Siregheconunmaltello,
emolto piu'forter menteeconmaggiore giustitia,chenonfeceNicocreonc ciránodi
Cipro ad occidere collimaltelliAnaffarco Abdeci de philofopho.APISTIO. De
chiftillosono. DICASTO. Di quello chiuolgarmétesechiamaPacifinocioeperque
ftiuncelle Dimmi Scrifferoanche egliikerli:DICASTO .Sialquátidiloco,ac
ciolaffanoalcunididire comeeraconuenièrenellantidetti sempidiscriuereinquelmodo,conciosiache
anchoracom batteuanocollinemicidellafededi Cbrifto colliuerft.Non mancano anchoranenoftritempidi
quelli liqualifacilme tesonoriratiallefagre cosedellasantiffimafedediChrifto,
conloelegåteftilo econ loaccomodato parlare.Purchesia calta,e fobria EN 0
0 1 1 2 lo Y li libri . Et anchor la strega la quale gire appropinqua a n i c i
condutra dal Guardiano della prigione forsiramentaradel laltrecofe altro diquellecha
racco:ato che nófono anche elleiscritrein uer un libro.DICASTO. Son contéto
difare horacome uuojparimpechochiedédoniperdouăzs,ledi toequalche cosa chenon
fiaticonfueri diudire. Cosiciofia fiqhcelle,m a fono (crittecon molta
sottilira,quanto fiapof fibileascriverediessamateria,decui parlano, ficomeimpe
sho h a m m ipareet anchorsonofermati con la verita delle
teftimoniidefantihuomeni.E non folamentepareame co teftoma
anchoraamolijeccellentiTheologgi.Ilprencipio diquefto ultimo uolume comencia dal
Pontefice Maximo, ecil fin-erapprouato con la auttorica di Cesare.Gia ho chiai
ramenteefermamenteintefecome landdettolibrofu publicamente approvato dalli
dottori di sagra Theologia del Juniuerfita di Colonia Agrippina. APIST10.Vuorej
Dicaa ftochetuminarraffiquellecose lequalituhaipromeffodi narrare al propofito
noftro ofiano di quelle da quei luoghi cavate, overo de altri luoghi accio le
possam o meglio intendere con il cuo parlare concio sia ch e meglio le
dechiarara i narrandole tu.Tlperchefendo anchorquiuipresentealladi
fputationeilnoftroFronimo credocheanchealuinófera grauediramentare
dellalırecosecheforfinonfiritrouano Icricce,ficome p suagétilezza hieriethoggi
non liparuigra medinatraremoltecose degue ,chenon fonoscritteinquel che de ben
h o apparato le littere Grece e Latine, non di meno imperhonionm i fono con
menore Audio effercitato fralli Theologgi. Liqualiłassanolapolitiaerornamento
dellino caboli etanchora tantatersitudinedi parlare folamente se
fforzanodiconoscerelecosecome inueritafono. FRONIMO. Eglie menoredanno quello delleparole
che quello delia cognitizione delle cose. Mare-ben neto cheioiftimo,
chccoluidebbeellereffaltatoelodato fouradellaltriilqua
Jehalornarodelparlarecongiuntocon la cognitionedelle cofe cioefoura di quelli
chi hanno solaméte o lungoialtro. Vero
echesepurnonliposloviohauereamenduoi,iftima shec'megliodịhauere lacognitionedellecose
chelparla re polito,et ornato ,dieloquentia.Benche ficome ho poflur
coconoleereperiltuoragionare,pofseuilafare ftacediad. domandare questa uenia
eperdono. DICASTO. Io diro latinamente al meglio puoco. Hor sucomenciaro. Auanti
diognicosauoidoueresaperecome egliechiaroemanife.
fto,chicolui,chinegaffeesserelaDemonii,meritarebbedi
eserschacciatofuoridellacatholicaChiefia,licome grádea.
meiitecontrarioallasagra scrittura,e maggiormetre aluanı: gelio.APISTIO.Concedo
cotefto effer uerissimo sanza ver un dubbio. FRONIMO . Anche meritarebbe di
essere Scacciato coftuidisinileoppenione cioeche diceffenó effer
iDemonii,fuoridella Accademia edalLiceo.cioe fuoridel
JaschuoladiAriftotele.Concioliacheappo diPlatone e di tutiie Platonicie fationon
puoca memoria delli Demonii, acuinone-contrarioAristotele,m a
anzifouentenefamen tione non solamente nella Ethica, Politica e Rethoricama
anchor nell’altri luoghili qualihoranóscrivo. DICASTO. E ben vero che ne faniioricordo,
ma sonoimperhoinques Sto differentiate dalli nostri dottori cioechequelliistimano
aisianodelliDemonü buoniedellimaluagieperuersi.Ma noi diceno che cutri i
demonii sono perversi, iniqui, e malegni. Liquali benche li nominamo sotto
dicotetto nome Sat canasio e di diavoli pur piu chiaramente anchora sono
SIGNIFICATI per questo nome “demonio”. Il perche dice il Propheta David, tutti
li dei delle genti sono demonii e lo Apostolo Paulo anche egli scrive. Non
uuoreidouentafticompagni del i demonii e in uno altro luogo dice, Credono e demonii,
e tremanodi paura. Non fugia maiuerun huonofa uioche dubitaffe,chequandolimalificiincantadori,eStre
gheeStregonirouinanolefruttacollisuoimaluagiincana elegano edipoisciolgono a
suopiacerelibeni del cagioni ? matrima nio,cioeche fannopermodo che licôgiugatinel
matrimo nionon poffoliohauerehonefti piaceriinsieme,edipoiqui dolepiaceglidanno
facultadipuoterli hauere,etche an. chora tormentano
lecreaturefuoridelconsuetomodo del lanatura
chenonsianofattedettecoseconpattieconuen tionidellDemonii.Boperqueftoetanche permoltealtre cagionisonofateordinatemolte
altrecosecontradicotefti teretiniquihuomenje donine dalliTheologgi cosi antichi
c o m e moderni etanchora dalla facra scrittura, edalleleggi Canonice della santa
Romana Chiesa etanchordalleleg giImperialt.Imperbo
cheritroviamoilcomandamentode Iddio nelDeuteronomiocome fedebbonoucciderelima.
leficietincantatori_ilfimilecomanda nellLeutico,cioeche SranolapidatiliAriolie,
quellichihanno ilfpitico Phitonico, dioe lidiuinatori. E Gratiano
radunaaffaicosenella vigesima festa causa de decreti contro dicoteftifcelerati
malefici. Anchora sepoffonouederequelle cose chescriue SantoAgostione
libridellaCittadiDio;edelladottrina Chriftiana diqueftamaladetragenerationed
/perchefepor fon piu p u o c h e cose raccontare oltra di quello , che h a esso
fantiffimoe doctissimo huomo scrittoinquejluoghi. Iocacı giolimoderni Theologgi
liqualinon puoco hanno scritto contra dellimaleficietincantatori,eparimente
anche con trodellimaleficiter incantamenti sono anchora constituce leggicontradieffumaleficiemathematicinelleCiuilileg.:
gicioenel Codigo di Giustiniano Imperadore: FRONIMO. Anchor se vedono
affaicolene libride moderni philosophi.colide Platonici come de Peripatetici, cioedilambli
co di Proclo, e di Porphinio, lequali poffoneffer'moltoapro pofito. APISTIO.
Sicomeiononnegoche siano e demonii e
chepoffonfareaffaicofeconlafuaperfidamaliciacosián theio defidecochemifano
dechiarate quellecose, chipro, priamentepentengonoa quefte Streghe, cioesedannoal
giuoco ouero uisiano portate con ilcorpo enonfolamente con la uolontao con una
imaginatione, e finta reprefenta tione. DICASTO.Suole dare gran faftidioquefta
queftio. ne ecagionaregrandubioinmoltepersonetragendoneof calionedalleparole del
Concilio dell equaline faicoquanti mētione. Lequaliparoleleggonfinellaquintaquestiondel
LaurigesimafefaCausa.Ilperchecredonoalcuni noefferui presentialli
dettigiuochiqueftedonnuzze ehyomuzzicon il corpo,una solamente con
lainagniatione.M a alcuni altri diconoeffercocefto giuocounanuouafpeciediHereliadi
versa da quella antica superftitione. Anchorà altrinuoletto chelafiatotalmente
quellamedememacheiuifiafatiofo lamételaquerellaetimpoftalaperda
quellicheistimano essere Diana Dea overo Herodia, ferebbediuerfanaturadelcapro
dadiuerfopeco cipiouscita.Vero echesonoportatialliballieconuiti,etal
<lilafciuipiaceridellanorteuuolendo euigilando. Il perchie Fronimo e dame
approuata la tua diftin&ione della disputa rionedihieticonlaqualeconchiudefticontecoteftogiud
codelle streghee malefiche e antico quanto alla essential e oftantiamare nuouo
quanto alliaccidenticide quanto - lecerimonie. FRONIMO
.Sehoritrouatonellantichefu, pecftilionidej Demonio ilcerchio,lounguento !, lincanto,
il caminare de lcl iorpi humani per il spacio dell a r t a , li conviti
apparecchiati di piaceri carnali donati all’huomeni e donne dalli demonii in figura
de maschi e di femine chi cosa ci manca piu accionoiftimamoessereantico ilcommertiot
familiarita dellis piritimaluagie scelerati colliperuerfiet in quihuomini?M a percheseritrovano
alcunecofe in questo vituperoso etis communicato spettacolo di demonii hora da
moltinarrate; lequalinon fileggono fussero anticamente dimostrate ho detto
lacagione, cioecheiltuttoseattribuiffe allagrandiffima afturia emalignita, delsceleratoeperuerfo
n e m i c o dellhuomo.ilquale in diuersitempi a diuerfiordim e gradidi huomini haue
apparecchia tomoke aru, e modi dingannardi accio che cosicondettiuarii
coftumiecondi uecli ingannie piaceritrageffe efli huomeni delle precipito
ferovine delli peccati. DICASTO. Per cotefta ragione assai
ouerochicredonochi.fi cangianoe trasformanoe corpi humaninęlicotpidi Gatge ode
alorianimali, per opera del demonio e anchoraquel liche affermaucnodiefferforfipentalmodo
difcetuto il rapto della mente quando sefachefeipuo bên conoscereic
reconoscerepereffofel fia portato il corpoinquelluogodo Disalisselamente
consciosiachedicaSanpauloapoftolodi n o n sapere cotesto:M a quefte Streghe q u
a n d o sono portál te con ilcorponon sonorapitecom låninocioe ficome G
fuoledirenon sono in fpirito, ma purse. Fussero rapite in questo modo ami
al 01 tel do od th que Ich til che ON efto ad LO me ol fal ad cit ced era din
hadi ad 20 il a m i e piaciuto quello chehaidetto APISTIO. D u g uoi
cerdetechesianoportaticolaconilcorpo DICAS Sicre dochesiano portatialcunauolraconilcorpo
etalcuirauol ta che cosi facilmenre posson esser ingannati cioe che rendo
naadamente illurae schernitala imaginaria potemiase pene fano, e gli parediessere
portati corporalmente oltro di Carr gatacheier nodelli colli del Morite idea, et
anchorglipa reditraparfareloAscaniolagodi Frigia,etanchodiandare oltro dello
ululatodelloaltiffimoMonte Caucaso dellai n diacollarmi delle Amazoni. E
péfano,diuolare colle penne di Dedalo sicome lepare nel sonno. Ma per queste coseno
fono perseguitatineprelidalli Inquisitori neanchorefsami nati, ne
tormentacinecondentatiouero giudicati.MAPer Questonoicerchiamoconogni diligentiacocesti
STREGONI E e Malefic iperche hanno renegato lafede di Chrifto chipigliatononiel
fantiffimo battesimo,e promiTonodiferuaria.eranchorperchehanno ischernicoc
beffaro Wlagraniéti della santa Chiesa, et hanno sprezzato Christouero dioeuerohuomoredétoredelmodo
ethino adorato il nefandissimo e spur i f li mo demonio invece de Iddio,et anchora
permoliialtrimaleficii che hannofarro liquali serebbono troppo longhida
douerliraccărare. PER Quelle cose Et Altre fimilifatte contro de Iddioe
dellasua trionphantillima fede noili perseguitamo,elieffaminamo e facciamo
liprocessi e cosidipoiretrouati e conuinri nelle lorofceleritadepertalmodo che
non lopofson negare, dia moli nelle mani delli Reggi, Signori, PrencipieBaronio
gerodelliloro ufficialiaccioli puniscano egli diano la penitentia secondo che
comandano non solamente le leggi an . sichedella Chiesama anchoralenuoue
etanchorane no. ftrigiornirinunuate,primeramenteda Papa Innocencio Otrauo, ed a
Papa Giulio secondo.Vero-echetiammonia sco che ben auerufle da iftimare,che non
sianoporrato al giuoco corporalmente la maggiore parte di coreftirei huomini. FRONIMO.
Il nostro Dicasto hieriammoni Apistio egli feci intédere.comne n o doueffe
fprezzare e farfi beffe di I. quellochịe creduto da tutti o uedr’alla maggior
parte probabile cioechelepoffa fareintaleeralmodo. Concioliachg ersententiadi
Aristotele, come non erin tutto falsoquello chi-e decto da tutti. Il che
intendendo quel Glorioso Thomaso Acquistato annouerato frallisanciper lasua
bonta e piet ta ,&anchor p lasuaegreggia dottrinarepucato frallieccel
lenriffimidottoriiftimoefferedelliDemonii,liqualidaua
nocarnalipiaceriallhuomeni& alledonne ineffigiadima .
fchiedifemine:dertiIncubi esucubi equestomaggiormés teconfermonelsecondo libro delle
sententie, percheuiera. No molti saggi, prodi, & anchordorti
huomenidicotefta oppenione. I perche o Apiftio,non vuole contradirea quello
chive-statorenuroueroconiantapublicafama,& anchorap prouato con
ilcosentimientodicanti eccellenidottori.DICASTO.Ben etottimamentelhaiammonito
.M a anchor accio se posta haver maggior certezzadicotefta cosa,uien qui dame stregae
giura allisantiu angelii de Dio, liq uali ho posto fo r c o l e r u a m a n i
come tu vedi , di racontare, e di respondere il vero di quello ferai interrogata.
Esappiqualme tefeiubbrigara atalegiuramento chesetune mentiraiedi raipur unam e
n o m a bugia,no ritrouaraiperdono,ne remis fione; appo dinoi,&
anchorpurpensa dinonritrouarlanel Jaltromodo appo de Iddio. Ho giarato, E
cosisia ricerticheno uiingānaco;neanchorm i.DICASTO Dunn que
dimmieratuportara'algiuococonilcorpo,ouerofajn lamente con lanima o sia con la
imagination. Con ilcorpoinsiemecon lanima.DIGASTO .Come puotu saperedieffereftataportataperariacola
con il corpo congiunto con l’anima Perchejo toccava con que mani il demonio detto
Ludovico. DICASTO. Deh, chi co s a t o c c a u i t u r Il corpo di quello. DICASTO. E m o quel tale, quale
e ciascun delli nostri. E porpiumolle. DICASTO .Vieranoquiuidellialtri colli
corpi r O l i fi in g r a n moltitudine. DICASTO. E cosi diconotuttilaloricheho
giamai essaminato, anchor sanza darlinerunmartorio & il simile anche
diconodi Inquisioridelaleriluoghi,cioechieframinando quellidi questamaladetra
compagnia comesimilmentehanno di [posti,vo discostandosi da quello cheh a
mconfessatoquel liinquesto medememodo. BENCHE SAPÍAMO checo teftanone la cagioneperlaqualedebbianoeffermartoriati
e puniti, ma anci per havervi o l a t a e t o t a l a fede promessa nel facto
battesimo non dimeno imperho tuttie maschi e le femine di queftafceleratiffimaradunanzae
compagnia.co fidiquestoCaftellocomedellaltriluoghidelmondo,coli dellicaliacome
fuori di essa dicono inqueftomodo etcone fermano esser il vero di esservi
portati corporalmente con quell’altre cose, delle quale ne ha detto la strega.
Et a c c i o maggiormente lo poffeti crederevi voglio narrare unahifto siachenó
fu favola ne anchorae cosaancicamangoua,Gia puochi mesi paffari eta porcato
nelle brazza della madre un faciulito maschio, fi comesifuole aquella
fortiffimaroc ca diquesto nostro castello chi'c circodata di larghiffime
fosseet incorniata di fortiffimeetanchoraaltiffimemura, hora vedendo detto fanciullinoquello
fceleratiflimo Don Benedetto Bernio ,ilqualefudipoibrugiaroperle suemale
magieopereficomeauanti diceflimo) che parlava all’hora copil Castellano della coccafuo
parente, gliuieneincontinente una brammosa e bestiale voglia di asciucarli il
sangue. Al perche moltogliparuipiulongoquelgiorno che non pa
reaquelliJigualidebbono receuere lamercededellesue
Atentarefatichepertantobeftialeappetitoe desiderioham uça diguftare
dellinnocente sangue del destofanciullino. Hor sendo pur alfinegiunto laoscura
notte dellescelerira. de madref, efeceportarperaria al demonio efermarfinel Ja
casa doue giaceua ilmischinello fanciullo nella cuna.Et asciugotantsoangue
daquello infelice bambino,cheroma Sefi comeunatrasparente ombra,che preko
preftopalla, non hauendoeffigiahumana.Ma nomaiimpo faconosciu itala cagione dellinfirmitadieffone
della pallidezza perin finochenon fugiudicatoecondannatoeffomaluagiohuo. m o al
fuogo. Perche allhoraelloaddimaudo perdonanza al padre del fanciullino, per il
male havea farco. Ecosiandoe ri cornoperariapassandofouradiquellealtemura
dellanuje detta rocca
laqualeuedericola. Vadimo auantarfilantiqui cadelli antropophaggicive de quelli
popoli di Scithia chi magnaveno le carni dell’huomini, et anchora purmaraue
gliatlilanottraetadiquellihuominįhoraritrouatinelle110 de detmare Eoicide
orientale che ancheessisecibano colle carnihumaineconcioliachenelmezzo
dellaItaliain una regiunemoltohabitataefrequeritatadalli mortali, discolo da
ogniferitae bestialica, fi-e ritrovata una gradiliima c o m pagtira d’huomim
cosi maschi come femine laquale/e-par sciucapinftigatione del demonio disanguehuinano.
M a ritorijateStrega.Che piacerihaueuitunclloprelafciuccó un corpodiaria
STREGA. Non soc on chi corpo. Malo ben questo che havea molto maggiori piaceri
con lui che con il mio marito: DIGASTO Non faueuiumai paura,et horrore efpauonto
conoscendochi quello era il demonio, icon ilquale cu haueui questi
iscommunicati e sceleracipira c e r i : No. C o c i o sia che n o u e d e u a a
l t r o c h e una figura di huono. cccettochenepiedi,liqualinon pareuano am
eficonelafacciailperco, el altre membra. APISTIO. O chi figura o chi aspetto o chi
effiggia di finuto animale, er di finta bestia. FRONIMO. Eglie imperho taleche
nascon de lacrudeleaetasprezza edimostraunagentileforma,et fuauemolilia con
altribeltadedallequalif.noquellidol cemente tiratielusengati.Fingono
lantichiche essercitarse Venere lufficio dicacciatrice cercando per le Selve li
lasci uti piaceri di Adono, ac c i o n e t r a g g e f f e à fe il cacciatore.
H perche dicelo ingenioso poeta. Noda il gignocchio al modo di Diana Cintralauefte,ecaniellanimali.
Della predafecuraadhorta, e inganna. Et anchora non alorimére inganno ilpaftore
Anchise,eccet t o c h e in q uel modo, che e’aggradevole ad un huomo che
habitasse nella villa. Cohanchorcalitafsiinun cerco Hii Hio da Homero
inchemodoferapresentopuressaVenereaus tididetto Anchiseineffiggia
egrandezzadiAdmeta uergi nie.llpcheiuisiritrouano quelleparole greche lequali
hora Jetaccio. DICAS. Dehpertuafedeegentilezza,fiacontéto di Simile
a Adameta fanciulla pura. DICASTO. Chicora pensi tu uuolefli SIGNIFICARE quellasimi
Jitudine del Poeta: FRON .Non puo coildimoftranoquel le coseavanti precedono,&
anche quelle che seguitano. Conciofiache addomando coluichi caminaua solo disco
Ato dallisuoi buoi eloeccito efuegliocon ilsplendore e con Na gratiae lotiro a
douerfi inarauigliare, fingendoff mors ditrafferricleinbolgaré. APISTIO. Horfudilleinquel
modo che face f t i h ieri, quando tu dice f t i q u e l l altri p u t greche
nel nostro volgare. FRONIMO. Non semprese accorda
talacerra,ficomefisuoledireperdouerefuonarene anche
Temipresuccedennapiacevolmenteesecondoildifioleco Yefatte allaf provedurae prefontyofainéte,
Cojneltrasferim t ë i patlare greco in latino et in volgare n o n sid e b b e
face enzabuonpenserb esageublezzaditempo. DICASTO. Priegoti cheluoglihoratrafferiregiustamente
fepuoi,feair choranonpuoifarecome uuoi,faalmegliotifiapoffibile. FRONIMO.Io son
contento,pernonparere diefferofti. nato. Cofiuuoledire. Dar Sre Venere nata
delconante Gioue. Avanti di Anchifein forma e figura,
taleecosidipoihauendoliraccontarolageneratione,esuc ceffionedelli fuoi antichi
con longhe fauole ,lo conduffe alfineallilasciuipiaceri. APISTIO. Holettocome
feciA n chise la meriteuole penitentia per dette cose,conciosia che f u p e r
cof f o d al fu l g u r e e cosi ritro o che gli fu a nnonciato qualmente
cofiglidouea interuenite.Ilperche ritrouiamo queluerso scritto in greco, loquale
hora hora cofi lo dico it? nolgare perchefo uiferamoltoaggrado.LoadicatoGioue
fediffecon lardente fulgure.E benche dimostra chiello d o ideaefferpercoffo con
talepena epunitione perrefpettodel peccato chi era manifeatato, non dimenoanchora
inanji fignifica c o m e colui ferebbe punito dalli dei, il quale d e
fideratebbe diuuolerehauere amorofi piaceri elibidinofe
deleteationicoeffiDei:Penichecôigegnofee maravigliose fauole
fingonolantichiqualmėte per simili cofe fuffjuccisa Semele
figliuoladiCadmodallo fulgure.N e anchorasong cótrarioa Callimacho,inquella cosa
che se narra di Tiresia at . ce che 710 qui Erg hon havuto figliuoli, conciofiache
foué tefe leggi delli figliuoli delli Dei. Anchemi ricordoqual méte
giadoidifadicellicomeerapurqualchefondamento delle favole. Pe č i l c h e s e g
l i c q u a l c h e fondamento d e c h i Cortijslono. Thebano
cioechisupriuatodesuederedallaDea Giunone perchehaueahauutoamorofipiacericon
Pallade,oalman cohauea cercatodihauerlibenchealtramenteloracconi
taCuidio.Vero-e-chi Callimacho,finge questa cosacon
'piuhoneftoparlaredicêdochecofigli interueneffe, perche uide Pallade ignuda.
FRONIMO. Chicosa ne hauemp per queata facola? APIS IO. Io te lo dico. Havemo
questo al mio parere chejopensoo al manco dubitochehanocge te quefte cose
efimulateefinite. FRONIMO. Ifimatuche apparefseno li Demonii in
quelliantichitempidiquelliB a Toni di Troia e di Grecia Li quali demoniic redoche
tufen do Chriftiano sianofermamenteda tetenuti effere una ria emaluagiaschiattae
generatione de spiritie APISTIO. O si. fi fermamente lo credo. FRONIMO. De b n
o n ti r i n f cresca di rispondere. Da chi procede che pare tu non uogliccedere,
chequellimaluagiTpiritidefideraffino,etanchecers cassinodidarelafciuipiacerialledonne
informa dihuomi ni & allhuominiineffigia didonnecAPISTI0.Doh cbi e'beni gran
cosa questa da doverti rispondere. Io te lo dico. Per ciono locredo, perche non
sapiamo qual menrenolonjo i demonii di carnenedioffa, comenoi.Ilperchenon
sipossono delentareincoresticarnalipiaceri. FRONIMO. Egliepur una gran cosa Api
f t i o che tu n o n ti u u o i r a mentare di quello che f o u e n t e h a u e
m o d e ciall perche se tute lo ricordafi, noti maraueglia restine anchor direfti,
quello che horadi. Gia fpeffeuokre-e-ftatodetto, comedannoeflimaladeeti nemici
de Iddio erdellihuomini coteftifceleratipiacericar naliallihuomeni,er alle
donne n o n per delectatione,chi habbianoeflireispiriti ma
solamenteperingannaregli huomeni e conducerlinepeccati eralfinehell inferno
dove efli sono confinatii n perpetuo. APISTIO. Il mio Frenimo ti pregono t i
turbare, Pur anche io ho un dubio, Se l n o fussiperaltroeccettochep
qirarelhuomeninellipeccatino se ditebbe che haueffero . l fono dong
figliuoli quelli detti figliuoli delli Dei, pche lispi ricisenza carne &oftanópoffono
generare: FRON. Core Atanó epuoca dubitatione, cociolia che facendo Moises, mer
moria nel Genesisdelli figlioli didioedellifigliolidell’homi ni furono alcuni che
istimarono fuffero SIGNIFICATI peili alli piaceri carnali hauutifralli demoniie
le donne, & altci,uno Jenofianosignificatililibidinosipiacerichehaueano
lhomj. Nidellagiustagenerationeeftirpedi Sech:collefeminedel
laingiuitagenerationedellaschiatadiÇainIlperche seale
cunauoltafeleggediqualchuno,chefulle decto figliuoloo di Gioue o di Apolline
non perhosedebbecrederechecoftui ueraméte fianato delsangue
delliDemonii,cóciohache nó hanno sangue,m a sedebbe iftimare chelsia nato del
semç di qualche huomo, dacuilhaueranpigliaro. Serebbonoass Saicosedar accontare
delmodo de cuipaiono esse regenerati gli figliuoli dalli demonii che hanno libidinosi
piaceri colle donne :m ape c non aggravare le orecchi e del pudico lettore
paream etitacerlene parlar volgare. Anchorpuo effe rche qualcheuoltaquellichesono
ftaroreputatifigliolidellidei odelleDee:ssanoftatocubbati fendofanciullioidalle
loro madre,peri Demonii,sendoanchoressenelparto, etoccul, taméte
postisottodiquelledóne.che ingánauano etledaua n o libidinosi piaceri facédole
parere cħefli lhaueffono gene ratidiquellee cosico doppia le st mm De 70 li al
frode leingånauano,cioe pri mieramenre facendole parere che glicócepiffeno e
parcuri scenoedipoifacendolinudrigareinuecede suoifendo de altrui. Ma se p r f
u f f i q u a l c h u n o che vuolesse dice che in verita fuffero faci generaci
quelli chiamati dalla antichita fi gliuolie figliuoledelliDei,edelleDee,enon
efferstarafro deinportarli,ma checosifufferogeneratidalli Dei e dee (ben che
credo che sia il falso conci o s i a che conosco come sono alfaicose
fauole)direicome furonogeneratidelseme del JiuerihuominiportatodalliDemonii nel
tempo della concettione, quando dauano lasciui piaceri aquelle,E cosi in
questomodo sedefenderebbedaefliilnascimentodiEnea nellAsia e quello
diAchillenella Grecia, li quali furono digniffimi huominine tempi heroici, o
siadiquelli eccellenti Baroni,cosidiTroiacome dellaGrecia: Alichorfepúotreb:
bedirequalmentein questo modoconcepilaReinaOlim p i a m o g l i e d i Philippo,
Alessandro Magno, nella Macedonia e nella Italia lainadre del grande Scipione
Africano. DICASTO. Il nostro Fronimo cercamente paiono corefte cose che tu hai raccorato
molte semiglianti a quelle che narra santo Agostino. FRONIMO. Dirotti anchor
molto piu quanti come non solamente tirauano a fe li Demoni t i n i q u i e
fceleraci le femine collilasciuie carnali piacerim a anchor tentaueno l’huomini
del'maladetto uitio della sodomia, colli maschi. Il perche facilmente era
persuaso alli mortali cotesto sozzo e uergognoso amore de fanciulli coll’essempio
dequel lili quali erano tentati dalli demonii dicendo che pigliaua. no il fioredies
li fanciulli. Hebbe questo vergognoso e seele rato uicio di contra natura
primieramente origine dell’Asia, e' deindi nella Grecia e nella Italia, e poi i
puoco spatio dite po introperinfino nelli Celti popoli della Gallia. Per il che
non e dubbio che la captura e presa di Ganimede in Troia non sia antica e non solamente
e manifesto lo molto antico incendio e ruina con il fuogo di Sodoma, di Gomorra
,edi quelle altreCitade della āfia, appo delli Christiani e delli Giudei,m a
anchoreramentatodalliGentili.Fu primo au thore appreffodelliThracicosidi
questopuzzulentouitio, come delculto& honoredelliDei, Orpheo sendo andato di
Asia nellaThracia,Veroe che sonoalcuni altrichiuuole no fuffiilprimo
inuentoredieffofcelerarissimopeccato,np Orpheo,ma Thamira. Fugiapercotalmodouolgatoemãe
nifeftatoqueftotantofceleratiffimo uiio,che eracredutb
dallireiemaluaggihuominichelfuffilicito. E cosi'pareja appreffo
delliCeltichelfuffefatizauerun punto dipeccato, ficome dice Ariftotele.Veroeficomecrediamochesiaistin
to eruinatoinquellipaesiperilbeneficiodellafantissimafe de diChristo, cosimaggiormente
uie-ftacoinconsuetudine appodelliPerfi,perlagiaanticasceleritae perchenon uie
ftarafermalaleggedimefferGiesu Christo perlaquale fan tiffimalegge conoscemo
quellochie bono,eche sedebbese guitareeparimêreintédemo quello chiemaloepeccato
e chi fedebbe fugire.E costilDemoniorio eperuersonon sol laniente ritrouo
quelli maladetti giuochi e quelli scelerati piacericarnalipertirarealecosimilipiaceri
quellefemine erano inclinate alla libidine & anchoriquicandole alla ge.
neratione dellifigliuolilanatura ,m a anchora ritrouo questa abomizatione dellasozza
esporçalibidine contra natura. E non contento anchor di hauerla solamente
ritrouatam a facciomaggiormente ne tiraffiIhuomeni,anchorprometre? jua
diuersipremii,aquellichesefusserográdemetedelletrati &
efferciratiinefa.llperchepromesse adalcunila perpetua
vita,cioelaimmortalita,sıcomefeceaGanimede De quira scontano liibri qualmente crederonolantichi,uonmácoim
piamentechescioccamétechelfullportatojucielo.Ad al
trianchorpromesseloindiuinare,ficomeaBranco pastore, D e cuidiconocolle fue
faliole che glifuinspiratoilu perche loistimocheben sipuo
suonarelarecolta,(licomecomuna mentefedice quandosehaueratrascorsodallitempi
Heroi cicioeda quelli temp iquando furono quelli Baroni e huoi miniriputaci Dei,ecapitaniiforciflimipecinsinoaScipione,
perchecredonon hritrouanochesianopiuftatesimilecofe. DIGASTO. Chi
cosaditurTudebbe sapere comesonoin teruenuteinognitempo,& inognieta
qualchenotabilico ke.APISTIO. Ma perchenon losano DICASTO, Affaibe
fonomanifeftemanoimphotutte.APISTIO.Da chipce de chenosianomanifeftate DICASTO.
Perhora occorce noa me duaragioni.Vnaeche sendo fcagiato ilDemonio malegno
nemico dell’huomo dalla segnoria del mondo p forza del sanguee dell atrjófantemortedimeßer
Giesu Christo non cofi importunaméte epublicamétecollesueillusioni
ingánalhuomo,Percheficomefcacciatoebaditobabitanel Jiluoghinascostiedeserti,m a
anticamente era adorato sot tospeciedidiuinita.Laltraragioneeperche
giaistendeuale retidello amore lafciuoatuttele generationi dellbuomini, Ito 1 di Appolline APISTIO. Io ti priego non
parcarepiudicote fecofelequalesicomefonomanifesteam e colifonomnara uigliofe, Ma
uoreiintéderedi quellechesonooccorse peral tritëp Ci, óciofiachecredosianopocheroseoccorse
Haticinio . 1 te $ mmi ma horaforzasigrandementedipore
lilaciuolifolamente perpigliaredue generationidhuoniinicioeliottimieliper limi
. lo ad domando ottimi que gli che se sono dedicati e cosegrati ad Iddio con
tutte le sue forze havendo conculcato
esprezaroturteledelectationiepiacerianchor boneftidi questo mondo. Efa
continuamente a q u e s t i aspera e crudele guerra. M a sendofactaquesta
guerra danascostoetoccul tamente nosimanifestauerunacosadiquelle,eccettoche
alcuna volta per essempio e per salute delli altri. Poi io chiamo quell’altra
generatione pellima, cio e quella delle becer ghe edelli Seregonidelliquali
hora parlamo,Ta sai ben quanteminacie,equantitormétifienobisognoper cauatı
lifuoridellaboccaquellifuoiindiauolatiamori efceleratiffi mi
piaceri.Ilperchenon parlanoliberalmentedi quelli non liraccoranocome
fonio,eccettochecollisuoinefandiffi micompagnidelgiuoco. APISTIO.Dung anchor
iftéde J a r e t e d e l l a s c i u o amore il demoni o alli f a n t i huomini
e t a figura della ingainatrice Venereshauendosi pinto le guan c i e e le l a b
r a c o n la c e r u facio e con un bello colore, e c o n il
quellichitotalmentesefonoaugotatiaDior DICASTO . fetu hauefli cognitionedelleuiteedelloperediquelliiscrit
tenellilibrinon hauereftipuntodi dubitatione.M a accio tu ne
conosciqualchepartesepiunó lhauerai conosciuto,a uogliopurraccontarealcune
puoche cofe diquesti ottimi huominie fanti, cioeinchemodo sefforzasse il
demonio di doverli pigliare con lareteelaciuolodellalibidineelasciuo amore. Narra
Sufpitio Seuero, come fece ogni forza esso nemico dellhuomo per ingánare quello
gloriofifsimouescouo santo Martino in figura diGiouedi Mercurio,diPallade,e di
Venere,Dimmiilmio Apistio non iftimituchequando fefingeuade esser Giove no gli
promettesse delli Reamie dellelignoriere che quando sedimoftrauaineffigiadi Mercurio
chegliprometesselaeloquentia eladottrinaecogni tiondei tuttelescientiehumane
equandoseappresentaua in sunilitudine diPallade che non glioffereffela
fapientia,e laprestancianellartemilitarelaqualegiahaueuasprezzato e renunciaror
Chi cosa puo tu pensare gli promettestesottola purpuriffo con lo quale tingono le
femine le maffelle con il bomagio, eccetto che diletteuoli elasciui piaceri N o
n penso tuchelfingefsediesserueftirodericcherobbe eueftimétidi
diuerficolori,ethauesse anche fintoin questa imagine liua
ghielusingheuoliocchipertirarlonellasciuo amoreset an chorchel ragionale
delasciui & libidinosi piacerisTi dira Athanafiosanto,conquantiuariinodi
tentoilmalegno spi ritoquellogloriofoabbate.S.Antonio nel deserto ,ilquale
Athanafiofcriffelauicaecostumidiquello.Anchore buon teftimoniolafreddaneue
diquátofuogodilibidinetentaffe ilserafico Franciefco nella quale accio
iltingueffeloincen / dio dieffo,segligeto dentro ignudo.Te inligaara anchor il
cespugliodellepungenti spinne quanta delicatezzadiamoro fipiaceri presentaffe
auantidellocchidellamente del pudi coe cafto santo Benedetto ,collequaleritrouo
ilgioueuoleri medio controditanta Cozzacosacruciandolapropria pelle
delsuodelicatocorpo. Non crediariimperhochelmanca di punco
anchehoradicicarealcunidellaturba emoltirudire nello pazze s c o a m o r e é
volgari piaceri carnali, pur che veda di possere, ma anzi di continuo grandemente
cerca con milli modi e con mille arti percoducerlinellasuamaluagia eriauoglia. FRONIMO.Vi
voglio narrare una cosa intervenuta ne nostri giorni a comfermatione di quelloche
ha detto il nostro Dicasto. Ho conosciuto uno huomo molto essere citato nella militia,
a piedi il qualehammi dico fovente di haver havuto piaceri libidinosi o n il demonio,
*credendo che* lfuffs una vera femina. E fu in cotesto modo sicome egli narrava,
chi era huomo semplice e senza malitia. Sendo ello nella Toscana e caminando
peralcune sue occurrentie verso Pisa e venendo da un castello pur del Pisano,
dovi havea perduto nel giuoco de dadili danari, eco si molto di mala voglia lamentandosi
dellifanti& anchor ed Iddio per la per dutadielli, ecco rivede seguitare dopo
lui dui a cavallo che parevano mercatanti, e parevano che cavalcaflino molto
infretta, doue adietro diunodjeflisedeuaingroppadelcas uallo una femina la quale
dimostrando dinon poterepiyol troftarea canalloperlagran fretra che facevano paruiche
3 scendeffe interra. Hor costuiuedendola bella & anche sola
pigliandola per la mane caminauano insieme e la inuito allo allogiamente seco quando
serebollo a Pisa, e cofi parupi che quella gratiofamemreaccecai se l’invito. Eco
si pur oltca caminando insieme e anchor piacevolmente ragionando, canto colui se
in siammo di amore di lei, che senza ver un freno della giusta ragione, ec iecamente
chiedendola de piaceri dishonnestie quella consentendo linediuiénea quello che
tanto pazzescamence bramata. Ma' uditi cosa meravegliosa, come hebbe havuto li
suo i s c e l e r a t i d i s u r e i s
c o s t i da ogni ragione di huomo, ecco che incotenenti quasi tramortie diurene
tanto manco di animockegiacque nel campo dovi la vea comesso il fozzo peccato dalejhore
come mezzo morso.Vero eche foura giungendo e suoi compagni chi ne venevano dopo
lui d a longhi e ritrovandolo in coral modo giacere fanza forze corporali, il
portarono alla citta e fusei meti infermo, e gli cascarono tutti gli pelli dalla
persona e narrava come per tal modo vi fussero brugiate le calze nella
soperficie disoura comme selfulfiftatoil fuogo vero l’havesse brugiare. Dipoi
diceva comesericor dava che quella femina, ma piu presto quel diavolo in forma di
femina l’havea molto pregato cheldevesse getare a terra una haftateneuaiimane
douiuieranel Ja cima un ferro in forma di croce, cioe un pedo, li corne noi diciano
promettendoli di darli una molto piu bella lanza segliubidiua. APISTIO. Molto
mi ritrouo fatisfactoquae toallipiacericarnaliprocuratidalli Demonii
dalprincipio dellaniquita. FRONIMO. Hor voglio chetuintèdicome ha
ilDemonioquestausanzaperdouerpigliareThuomini, di ufare ogni frodo nel
conuerfare collhuomirificome iften desseuna reteperinuilupparli.Ilperchenon
solamente usa queftonelli piaceri carnalim a anchor intutte le altre fami:
liaritade. Etacciotupoffi conoscerechelfia vervooghioh o racomenzare dalle bataglie
di Troia. Che penfitu uuolefle SIGNIFICARE quell Dragone di altezza di fette
gomiti canto dia mestico chibeueuacóAiaceLocrese& andaualiauantinel
liuiaggi demoftrådoltlauiarecoliftaua tantodimefticame teconlui, ficomefuffiftatouncagnuolo.
Che cosauogliono dimostrare le penne diDedalo:e lealidelPegafloretuttel .
laltcicose,annouerate frallimoftri delle fauole Et anche quelli tapti prodigii
emiracoli delli Philosophi C h e crediçu uuoleffe direquellotantoaceleratouiaggio
che fece Pythagora andando e ritornando per u n aviam o l t o longa d a (t a .
Jiaperinsino nella Isola de Sicilia in cosi puoco tempo.Cor m e pensi tu puotesse
caminare tanto spario di paese cosiuelo cementeri come uno uccello Empedocle
inchemodoisti mitucheandaffecon tanta uelocitalicomelaborea Abaro
fouradiunafaetadi Appolline a vificare Pythagora. Di che luogo creditu uscisse
quella voce, che refiro Socrate, ma non losforzor Ghi vuol dire quel genio e familiare
spirito di Plotitro: Che significaquella Occa che habitava tanto dimesticamente
con Jacy de philosophore fic ome fono puochie philosophi in comparatione dellaltci
huomeni,cosianchor questoperuerfonemico dell’huomo tirauamolto piu delli
mortali nella uoragine precipitosa della sporcha libidine che litentaffidi vanagloria.
Enonfolamentelitencauaisteriormente e visibilmente, ma anchor f o u e n t e
interiormente e invisibilmente. E se tu pensarai che puoco importa siano tentati
l’huomin idal demonio dilasciuiaedi. Carnali piaceri o interriormenteo veco isteriormente,
te lasaperadire que itadifferentia Santo Geronimo Il quale chiaramente scrisse
ledicedi quelli fantiheremite,doujraccontale grandi ten tationipatirononeldesertodalliDemonii,ecoteftofeceper
ammonitione di quelli doueano uenire,Atchor 11on m a n
coeglifcriffequellegranditentationichelfuftene,dicendo qualmente inuna carne
quasi morta solamente bugliua. noliincendii& asperifuoghi della fozza libidine.
APISTIO. Dung feaffatico anchor Venere, cio e il demonio di u u o l e r
combatare con Santo Geronim o colli dardi del a puzzolente libidine? FRONIMO .E
bensefforzo difaretutto quello puote & anche non fece manco cru delleguerra
con ilglorioso Pontifice.SantoMartino,sotto questo n o m e di Venere ficome racconta
Severo doveder scriue li laciuoli e itele retida quello nemico in effigia di Venere.
Ma chelfedimoftrafiea santo Geronimo vi fibilmenteoueroiltentaffe interiormente,
non Ihaveto chiaro.Vero echecredotuhabbilettonelliantiquissimiau
thoridelliGentili,come hauea consuetudine Venere dim o were lhuomini
interiormente & ancoisteriorméte.Ma eglie ben ueroche quando
serapresentaalliocchicorporali,efaci lecoladadouer conoscerem a quandosolamentesedimo
A t r a nella imaginatione, & e c c i t c a e m u o u e li sentimenti i n t
e riorinonsonocosi facilmenteconosciutidaogniunolisecre
*titradimentietaftureinsidiediquella.Ilpercheeglie detto pellihinnidiOrpheo
Venereuifibileet inuisibile. Et anchora e detto che li amori u s c i f f e n o
d i quella f e c i s c o n o l a n i m e colle intellettualisaete. Imperhodice Orpheo
in quell altro himo greco coli in volgate noftrohorada me trasferito, aparente
e non aparenteo vero paiono e non paiono. E pur ancheinun altrohinnocosiscriueingreco
quello che hora diro volgarmente uuolendo dimostrare che sianopercorso lanime
colliintellecualidardi,queste fedissenolanime colle intellettualisaete. Anchor
feuedonoquelliuersi di Procolo Platoniconellhinnofatto alla licia Venere in
Greco uiauia da me co f i i n volgare tra dotti acci o si manifestano le intellettuali
nozze. Hauendo INDICIO delle intellettuali nozze edel liincelletcualihymenei, cio
e delli intellettuali Dei delle nozze. APISTIO. Dice Apulegio che qlo spirito
ilquale couet s a u a t a t o d i m e s t i c a mente con SOCRATE era dio e no
il demonio. FRONIMO. Ma pel contrario scrive il Plutarco & a n Co Massimo
Tirio chiamadolo il demonio. Decujunodieffi ne hascrittoun libro,elalcrodui. Perqualcagionefedicech
unaltro demonio pigliafféilpatrocinioegouernodiplatone o di Zenone ouer di Diogene
Perche fu un altro demonio inolto domestico di Plotino s9i veriraui dico che questo
fa ceuanope ringanarli. Sono tutte menzogne quellechedie cono alcuni
comesonouarielenature del Demonio , cioe che alcuni dieslisedeletranodigouernare
le Cittade, ele co sedomeftice, efamiliarieraltriuolentierifeoccupanonelle
coferufticaneedella uilla,etalquantiallegramente se in tromettono nellopre
della terra,et anchora fono reputati molti che habbino cur adelle cose marinesche.
Sono tutte coteste cose & aliri ale loeffercitarsi
nellarmi della battaglia. Ilperche fauolescame tenarrauano, cheinspirasseperlifomnijlamedicina
Esculapio e Podalicio, e che fussero T o u r a f t a n e i a l l e p r o c e l
l o s e o n d e etépeste delmare li Dioscuri, cioe Castore e Poluce figliuoli di
Gioue, et anchor dicevano che essercitasseno le opere della guerra dopo la morte
Rheslo & Achille, & in antichi tempi di Troia, Theseo. ueroecheraccotauanochequelliprimi
nascostamenteeffcrcitauanolarme,m a questoultimoaper tamente enellampio campo. Racconialianchor
perfama checombatreffenellicampiepianuradi Marathono laeffi giadi Theseoper li Atheniefi
contradelli Medi, equeftoan che scriffe il Plurarcho. Deh vedi una gran pazzia.
Credeuano foftoro che li demonii fuffero lanime separatedallicorpill., gerche
diceuano che Asculapio medicaua, Minone e Rhal damáto giudicaua,Scacciaua le
gragnuole etépefteli Dioscurio sia Castore e Polluce, Diuinaua Amphilocho, Mopro,
Orpheo, eT rophonio,elebattaglie eguerre trattaua Rhei fo, Achille,e Theseo
.Ditutte coteste cose era authore ilD e r monio,Ecacciolifuffero
preftatelorecchie edato fede,ecoli
maggiormentefusserotiratilhuominieglifaceffinolifagri ficiilicomeallanime delli
Baroni signori & eccellenti huomini con una cerca vana speranza f , ing e
vano tutte queste cose. Dalle quali superstiitioni e inganni, non furono contrarii
Platone et Aristotele, e maggiormente scrivendo li libri delie publice leggie
disputando delle institutioni & artici uiliecittadinesche. Anchor e cosa publica,comene
noftri giorni son ftato tenuti e portati delli demonii nelle guasta , deo
sianoualidiuctro enelle annelli,& inaltrecose, & anie
chorcomequellineinici dell’huomini hanno dato resposte
perilgérre,perlacosta,&altrimembri dellimortali ficomie dalspiritodi PythiaodiApolline,acciopoffemofacilmente coteste
cose elalorisimilisonniidellisciocchiepazziGecilie pagani,propriamente semilia
quelli narrati daalchunifa uolescaméte,qualmente alquanti diquellifeeffeccicauano
nella medicina,& alirihaueano cura e gouerno delli naui. Gheuolilegnie delli
gouernator idieffi, & chealquantierat no sourastantialdiuinare,enon
puochialleleggi, cono s c e r e come il f c e l e r a c o nemco de
Dio e dell'humana generatione ha pensato in diuersi tempi diverse vie e modi de
ingannare Ibuomofouo specie di familiarita. APISTIO. In uerita cosiancheioistimo,
DICASTO. Nó dubitarem a siapurdibuona uoglia,cóciosiacheapuocoapuoco ne ue.
rainella nostra ferma oppenione e vera sententia. APISTIO. Ma nongiain
questomodo.Maegliebenuerochemilasto coducere dalleragionie dalliteftimonii. DICASTO. Vieni qui Strega, esappiacome fei
coffretracon quelmedeno giurainento cheeriauanniesappia qualmente in brieuisem
raipunicaconilnostrofuogo,edipoiincontinenciconquell altro che mani o n mancara:
fe tu mentirai in pun to d i q u e k locheteinterrogarodeluoftromaladecco
giuoco, I doso,enon houerun dubbioin questa cola. DICASTO. Dimmi. Magirali e
beueti cola al giuoco uostro scele ratorVero
echequantoallipiacericarnaliaffaisiamofacil fatto.E cosipiu non bisogna
diaddimandartine. Simangiauadainquelmedemomodo ebeueua comeera cófueto
dimīgiareincasaconilmiomarito ,econlimieifir gluoli. FRONIMO. HieritipropofiApistio
iefsempio quel lamensadelsole cotanto noininarae iamentara da Heroi
doro,edaSolino,& anchordaPomponioMela.Ilperchetu debbe (appere qualmenteil
Demonioastuto ne cira affai dellipoueri e delcozza uolgo collipiaceri della
gola olico dellasperanza lo chiariffeneanchor dicecheufcisfenoledittecarnifuo
kidellaterrane che saliscenosouradicffamesa béchelodi
caHerodoco.VeroechePomponioMelae, GaioSotivo dicono
cheeranodiuinaméteportatedittecarni.Machies coluidi cosicozzoingegno chinon
adaerciscacome fussero quelleuiuandeecibilusingheuoliingamida ingannareil gufto
dellaignoranteturba,Et anche chi'e-coluidicofipuo R e
promissionidelledelettationicarnali.Che cosa pođemo istimare
uyolessunosignificare quelle carni poste souradellapridettamensadel Solerde
cuilefameir tione fanto Geronimo fcriuendo a Paulino,ficomedi una cosamolto
uolgata,emolto marauegliofarMachicofa fuffe nó co discorso co
discorso, il quale veda Solino contrario ad Herodoto, et il Mela contrario di Solino
chenon coilofcacomeuariament tee dimostrata quefta fuperftitioner cóciofiache
quello fcri ua qualmente eranoiuiportelecarni nelpratoappo della
citadalmagiftratonellaoscura notte,chesemangiauano nelgiorno,echedipoieradetto
daquellidel paesfeu,ffero uscitefuoridellaterrasEgliebenuerochediceSolinocome e
quellaméfainunluogodellombre,etiersempreapparec chiata abondantemente di
lauri,dolei, etaggradeuoli cibi, et uiuande,dellequaline
puomágiareciascunchevuole et atuetasuauoglia,ebenchenefianomágiatein grancopia
da quellicheneuuoleno,non dimeno imperho non mai mancano, ma sempre iuicresconodiuinamente.
Ma Pomponio non dicepurunamejionaparoladoue fifa questa mensa,o apreffodellaCittaouernoellaoscuracarcereeca
cetto che dice com e divinamente iui nascono li cibi. E ben o che cotetti Scrittorinon convienono
insiemein ogni cosa, purimperho eglie fermamentedacuttiquellicenuto feno za
contrarierac,omeèunamarauegliosacofa,&anzidiuis nalantidetto conuito del sole.
Ilchere-molto conueneuol le conquesto di Diana, sorella di Phebo o del Sole
sicome egli dicevano. Anchora istimono essere puoco a noftro proposito quello che
racconta PomponioMelanelladescricio, niedel Mondo cioeche seritrovaunluogodoni
continua mente tilpiandono grandi fuoghinellaoscuranotteetpaio
noefferiuiquafieffercitidi soldati chi occupano ampiopa ose eriuifiano fermati
suonandocimbalitamburini,fiauti, e trombeche paionomoltomaggioredequelli
cheusano Thuomini. Dimoftrauano anchora una fimilitudine diC o n uito
lincantamentiemagicheopere deOliffe,sendofpar foilsangueintornointorno. Nelqualeluogo
ui ueneuono li demonii, e t f i demostravano in diverse et varie figure. In
qual modo diceva il Vinitore, che conuerfaffi l’anima di Olisse cauata da Homero
collombre &imaginidi Pro tefilaoedellialcriBaronificomedicePhiloftrato.Ma
hora lescelerateemaladetteStreghee Stregonidenoftritempi, TI ro fir Tiel
TOY MU feron ii be KTOV DIO I cavano il sangue
dalli fanciullini, epermaggiorpartelocon servano nelliuafiperfarequelmaladettounguento,
E bep che paiono coteftecoseaffaisofficienci, per hauernarrato il detto convito,
non dimeno imperhouoglioanchorloggiun gere la mensa di Achille. APISTIO. Che
cosa s e c a m o g u e. fta fiammo pucadudire. FRONIMO. Non ti marabigliare E t
anchorari pricgonon uoglisprezzare quello ,che uoglio nafcare conciosiachenon
fingouerunacosa Ipera che senonmivuoicredereaddimadalotua Maflimo Tirio, Il che
fe f u f a r a i, te l o raccontara, ma anzi te lo dimostrara colle suecatre
scritctei o e iinarrara dimia certecosaiferittapermo lu i secoli, ci o e avant
i d i mill e s a n n i c o m e a c f u o i tempi fiz manifefta la Mensa di Achille
che eramolto simile a quella delle ftreghedouidicono chehocauiseggiono mangiano'e
beueno APISTIO. Il mio Fronimo io creda alle tue parole. FRONIMO. Puc quando anchornonmiuuolesti
credere, ioti moftrarebbi il libro dell’antidetro authoree Greco e anche latino
cbieapreffodim e. Nelquale anchorvie foritto di unacerta isoladelmare
Euffindouie il Tempio di Achille Nella quale Cove n t e e f t a t o u c d u t o
d a l u i, esso Achil e ch e ha fatto conuiro a quellihuomini iuiandauano &
che ha cono sciutoP atroclo figluolo di Thete e altri demoni (& fico
meeglidice) lichoridelliDemonii.cio elemoltitudinidief ft& anchobaneucduto
di Dioscurichedannoagiatorioal., lenani
chepericolquotio,accioiolascidiramentarequello cheeffofcriffc.comeera
confuetudine diefferueduto nello Ili o le forze di Hertore. Ma co r e f t e c o
s e n o n p e r t e n g o n o a l conuito delleLemuri.APIST.Nó pareno
queftecolemol. todiscosto dalconuito diNereo edelloceano,delliqualine
fannomemoria diuerst-poeti.FRONIMO.Réfo I lmaligno Saftuto
nemicodellhuomocoreftivelenatiConuiti,accio priuaffeIbuomodelloeccellentifmocouitodiChristo
che: ha apparecchiato f o u r a d e l l a mensa s u na e l suo R e a m o. M a h
o r a, u r voglio raccontare, non un convito finto e scrito dalli poeti ma w a
maraveglosa cosa gia puochi anni passati ha mi narrata da un grande huomo
ornato cosi di eccellentedi gnitacome didouitiae di ricchezze. Fuunbuonfacerdote
nelle nelle Alpi Rhetie cioe di Germania gia dodicianni fa ilqua
le dovendo portareilfagrosantouiarico del corpo di Messer Giesu Christo adunogravementeinfernio:
&efTendolimola to discosto, eaedendo dinon poterlo cosiprefto portare ca
minando apiedi,sicomeerailbisogno,falisuilcauallo e le goflralcolloinona
affaihonoreuolecaffetta dilegnos fan , tiffimosagramento, e comenzoaffaiinfreta
di caminareper f a c i s f a r e a l d e b i t o f u o. H o r s e n d o a l
quanto caminato f e g l i f e r ceincontrauno che loinuitoascienderegiu del cauallo,
et andare cô luiper uedere uno marauegliofo fpetracolo.Ilche imprudentemente
eglifacendo per uedere cotefta curiosa cofacome fufcielo, ecco incontenentisentidiesserportato
perariainfiemeconcoliche Thauea inuitato, & in puoco spacio d itempo feue diporre
foura la cima diun akiflimo monte dovie rauna molto ampia & ameneuole
pianura, in/ c o r n i a r a da altissimi alberi e con pavente voli ruppi se
trata . Nel mezzo de coi ui fiue devano diversi e varii balli, & an c h o t
u t e le maniere de g i u o c h i c o l l e n i e n s e apparecchiate dilautirdiuecficibi,
& ancheseudiwanotutre le generationi de fuoni e di deletteuoli canticono gni
dolcezzaetrastullo cbrieuemenite semteuasi & udeuafitutte quellecose, lequali
suolenorallegrarelianime dellhuomiui.Dilchenjoliomara
uegliandosiilbuonefemplicefacerdotee purnonhauendo ardimento
diparlareperlagrannjaraueghia,& sendomez zo fuoridi feifteffo
glifuchiedutodal copagno, che lhauea condotto
quiuifeuvoleuaadorareefarerinerentiaallaM a donna cheera jui, &
ufferitliqualcheduono,fecondo che fa ceuanolaltriEraasederenelmezzo
unabellissimaReinari c a m e n t e u e f t i t a f, o u r a d i u n a r e a l e
f e g g e , a c u i l e p r e f e n t a u a ciascunaduoiaduoioaquattroaquattro
conuarioordine areuerirla & ad adorarla presentandolidiuerfi duoni. Horudendo
costuitainentare la Madonna e uedendola ornata
ditantofpiandoriedatantisergentiferuita istimochelafus filagloriofamadrediDio
eReinadelcieloedellaterra,cô ciofiachenon sapeva
checotestecosefufferoinaencioniere trouidelli Demroni ilpercheselohaveffeiftimato,novaise
rebbeandato.Horafrafeben pensandochecofaglidouelle presentareperifdoi
non puoterleoffericepiuaggradeuole presenteallamadre che ilcorpo
fagratiffimodelluounige n i c o figliuolo, e c o l i a n d o d o u e f e d e u
a q u e l l a e t a d o r o l lia n ginocchiadoli alli piedi; edipoileuádolidalcollolacafferra
doueerail-fagrauiffimocorpodi Misser Giesu Christo, divotamente u i l pa o f e
n e l g r e m i o. O di cosa meravigliora, ecco che incontinenti, come la hebbe
poftasoura del gremio di quellaReina,coliprestofparuilafeggedi oro elaReina
erauifu con tuttaquella moletudine,etcon ognicosa che
pareuaiui,epiunonfuuedutopurun puoco diueftigiodi quellinedelļicóukinedeli giuochi,
neapparui quelloche fuffe fatrodelcompagnio. Hor conoscendo ilfemplizzotro p r
e t e come full e stata quest caos a opera del demonio tutto smarrito e mezz o
fuoridife fteffo comentio di pregare Ido dio che non lo abbandonasse in
quellifilueftri luoghipriui diognihabitationedemortali.Ecosigirádohorindiequin
dilocchi,eandadomo qui,noliperquelliaspriluoghiper uedere sepuoteuaritrouare
qualcheueftigiodihuomini ac cioplotesse intenderedove fuffe, eritrouandofi
sempre in maggioriruineeboschie feluealfinpurranto caminoper quelle precipitose
ruppi, che dopo molto longa fatica, edoi po longospatioditempo con
grauiaffanniritrouo unpaz Atoredacuiintese,comeeradiscostoda quelluogodoue
andaua a portare ilcorpo di Christo da circa cento miglia , Poi che fu
ritornia:o con gran strache zza alla fuahabitatio ne andodalMagistratodiMassimiliano
Imperarore,erae coiolíiltuttoper ordineficome horaio honartaro. Ma che coteste
cosepoffoirefferfattedal Demonio telo dirano Hi Theologgiliqualimostrano
comelanatura dellicorpieub bediente alla uolonta delle foftantie separate dalla
materia quanroimpechó pertene almouere daluogo aluogo.A n chora
puotraiintêdereallaiessempiidellicorpihamanipot tatiperaria da
luogoaluogo,seryutoraidallilibridiFras teArrigo,etdi FrateGiacopo Thodeschi
eccellenti Theo Soggi dellordine'de Frati Predicatori chiamati il maltello,
loquale fecero,confirmandolocon affaiteftimoniodimoke cole che effi uideno
colliproprii occhi .Loquale maltello puotrai hauere,fetulouuoraiusarecontrodiquellicheso
noduri,enon uogliono credereiluero acciochetu lipieghi à douer crederequellochesono
abbrigaci ouero lilpacchi in cento migliara de pezzi. APISTIO. Cenamentehoudij
tounamarauigliosa cosa, laqualenon puooffuscare la sera nottene anchose puo
direche fusseun fomnio nechesalu ta cófeffataper paura,ouero
permatrocio,operqualche al trafintacagione.Ma uorebbiintenderedachepuotepros
cedere che sparislinotutte quelle cosenel toccare diquella hoftia fagraca, concioliache
li demonii, non solamentete m a n o il toccare d i quella ma ancho cercano . e
c o m a n da no che siano portate assai di quelle al giuocoe di poi le fa m o
gettare in terracon grādi scherni e lifanno dare foucadelli piedi elifan
faretuttequelle uergogne siposson fare,fico m e disouraha parrato la Strega.
DICASTO. Tunáti deb biper questomarauigliare conciofiachefapiamo come se
(pauentanoeDemonii perilsegnodella santissima Croce,e nondimeno anchora qualche
uolta apparisconoinfiguradi Chrifto crocifisso accio piu facilmére posson
ingånare lhuol. mini.Inueritatidicochetunon timacauegliarestisetu ha. Yefli Jettoleopereelauicadi
santo Martino e di. S. Francesco di molti altri santi eseancho. tuhauefliben
effaininato come Messer Giesu Christo sendo anchor in questa mortale
CarneilqualescariaualiDemonii silasciotétatead esso De monio
eglipmeffecheloportafferouradelpinnacolodel
Tempio,edeindipoi'sourdaelmonte,& anchepermesle maggiorcosa,cioeche
fuffemalerattato da quelliperfidi Giudeiferui del demonio e tormentato, et ultima
menrecrocifico. Olcrodecio tupresupponichelaStreghenarrano
cheliDemoniiconculcano,ediano dellipiedisoucadelle hostie consegrare, ma non e c
o l i, con c i o l i a che non fanno corefto li Demonii m a/elbenverochelofa
questo lamay legnita dell’huomini asuggestione dieffiDemonii.Anchos
racredochecosicomefalafedeinsiemecon lariuerentia che fanno l’huomi in essa santissima
Croce,enella fagrolan (a hostia consagrata che il maladecto demonio se ne fugge:
cos ianchor uifaccifaretantiuituperiieffoperlagranmalistia de essi, eper
ilricuperio lifanno. Ma quanto al semplice u coprere. Credo chefuflila semplicita
diquello cagioneche sparefsinotutti quelli apparecchiamenti, etuttequellalerico
fé,emaggiormiére la forzadellafedefecechenon solamente non f u ingannato in suo
danno, ma anchor fece c h e f u p e r e serunoacciopuotes le narrare allialorie
dechiarare come quella cofa dequihocą parlamehepareua effermoltodu biofa, cioelele
streghe e STREGONI vano al giuoco con il cor poouero solamente con la fantasia &
imaginatione ouero se vi possono andare punefleruera, & e verae non una
imaginatione. Auchar permette alcuna uolta la possanza de id
dio,chesiaschernitoilsagramento elaCroce,ellaltricose diuine, &alcunavoltano:segondochealuipare.E
perchela fa,sepuosempredarequalcheragioneingenerale,mianon re puo imperhosempre
isplicarein particolare, conciolia chi e tanto rozzo e grosso l’occhiodell intelletto
poftro, a dovere INVESTIGARE li secreti della divina magiesta. APISTIO. Hormai
son satisfattocon queste ragioni, ecitrouomi conten to
rendouscitodellenere& ofcurecauernedelledubitatio pi.FRONIMO.Ben uedisetuhaialtrodubbio,efupresto
chiedelachiarezzaa Dicasto, perchegia glimolto poffenti euelocicaualliquasi hannotiratoilcarrodelsoleappo
del suo SEGNO, quabto al nostro hemispherio, accio non bisognali poi remanere quicoteftanotte,
sendo ferate le porte del castello. Il percheftareffimomolto
maleagevoli,questanotte delfinuerno,in cotesto Monastero a pena comenzato doui
non stritrouaanchor uerun letto. APISTIO. Hamnipare. che non cifiaaltroda
chiedere eccetto che delliueneficii o fano incanti. DICASTO. Di che cosa dubith.
APISTIO. Se fouofatti veramenteo purchepaionoesserfacti solamente con la
imaginatione. Conciona che affai ha manifeftato la forza
delladiuinaGiusticiasempregiustaenon sempre co: nosciuta perche Iddio alcuna volta
permetta, fepursefallo, & alcuna volta il prohibisca. FRONIMO. Non te ricordi
di: Lucio Samofateno, e di Lucio Madautefo. APISTIO. Si ben. Et ancho mi ricordo
di hauere alcunauoltaletto dette 5 cose, & anchegiaduoigiornifaleho
uditoramentarea te. Ma egli e ben vero che dubito affainon fianofauolee che in
ueritanó fufferofattecofiquellecoseche se narrano in quel asino greco et anche latino.
FRONIMO. Coli come iono dubito che siano assai cose finte
emoltopiudiquellochelo Etanchor sepurcoliuuoi che sianotutte quellecose che for
n o ne detti libri fauole et imaginationi, cosi anche credo che dett e favole e
f i t c i of n i i a n o c a nate da qual che vero fondamento.Conciosia che il
nostro Divo Aurelio Agostino iftir mo chequelle trasformacioni e tramutationiiscritteda
Varrone cio edelliaugelli di Diomede, delle bestie di Circee delli lupi di
Archadia pigliaffono origine e principio da qual, che cofa uera. Et anchor
raccontanel decimo otcauo libro della Citta di Dio, comeerausanzanetepi' suoi difaremol
te coseaffaifimilia quellechenarraouerofingea pulegio. Veroe che dice, come gli
demonii non possono fare ver una cora con la forza della sua natura se non la
permette Iddio. Lioccolti giudici di cui, fono infinitie non uisiritrouaimpe
tho verun dieffiingiufto. IIperchesepare che li demoni fa ciono qualche cosa
similea quelleche ha creatolomnipo. tente euero Iddio, eche pare chemutano una
speciedi uno animaleinunaltra:ouerotramutanouna creatura in unal tan,on
euerochecofi,fia,maebenuerochecosifaappare teouero imprimendo dettefpecieefigurefintenellimagi,
natione e fantasia, overo mettendo avanti li occh i corporali un altraf inta specie
e figura. E cosi io ile di 5 lui che ha conturbata la fantasia, diesser una
cosa in luogo di analera & il simile parera allaltci. non dimeno fera
imperho quel medemo, overo gli prepora una similitudine auktiloco chi la quale di
continuoglifaraparereefferecofi, ecosicre. deca dieffer veduto anchedall
altri.E coteftanon egramel raueglia,percheseun corpo puo ingannarelifeptimeci
corporali e farli parere una cosa altrimento di quello che e-fico m e vediamo che
failuietro, il quale imprime quell suocolore nellocchio percotalmodoche fa parere
tuttelaltrecosefimi leaTenelcolore, benche fianoaltrimentoinsecolorate,quá t o
maggior mete i spiriti ignudi da ogni corpo, cio e li demo qualche uolta pareraacoi
nit Quotrano conturbare la fantasia er
ingannare l’occhi elal trisentimenti delle creature inferioris E coliin cotéfto
modo iftimaraifuffero quelle operediquei Almi, e di quella specie di quello
prestance cauallo, chiporcaua li gradi pesi ladispu tatione del philosopho, chdiifpucaua
senza corpo le cose di Platone le astute opere delli lupi di Arcadia, e liuerfi
di Circe che trafformaronoli compagni di Oliffe. Ecosituttecol tefte cosefedebbono
attribuire al spirito imaginario, ouero alla fantasia. che cosi era ingannata a
cui pareua essere quel la cosa che non era. Il simile anchor diremo della cerva
in uecede Iphigenia, e li augelli i uece delli compagni di Olisse, cioe chefufferoposte
simili imaginie figure dalli demonii auktilocchidellhuomini,opur
ancheforliuifuffipoftauna uera cerua,etancheueriaugellinóuiapparëdoIphigenia
nelicompagnidiOliffe,o sendoiuipresente,oueroportati in aloriluoghi. DICASTO. O
quanto ben , e quanto brieueme tehaicuraccontatoquellecosdei
santoAgoftino,enóman co uere ficomeio iftimo.Eglie ferma cóclufione tenuta dal
li theologgiqualmente sono soggietti naturalmente i sentimenti dell’huomini e la
imaginatione e fantasia alla poffanza delli demonii, perche sono essi
sentimenti e imaginatione inferiorie manconobili di dettefoftārie separate
eprine di ogni corpo eco si sendo piunobili,glisonosoggietrequei Accosemen
nobili,Iipercheanchor uoglionarrare alcune verissime coseacoteft opposito per
confermare quello che havemo detto Eglietaccotatonelleuitedesati Padri come
fuacconciataunagiouenenper incanti incoralinodo ch epare g a u n a sfrenar a
cavalla. I perche sendo presentata avanti di santo Machario, perle orationi dieffu
fuleuato d avanti l’occhi diciascun quel prestigio, equellaillusione del demonio,
eco si pareva in quel modo sicome era in verita. Puote il demonio commovere li
interiori sentimenti a molti, alliqua lipareuafufli altrimentequellameschinagiouine
di quello che eram a non puote mouere imperhoeffisentimentiinte tioridisanto
Machario fortificati principalmene con loadiu torio di Iddio aface parere quello
che non era Anchor non aftregnega la finta figura di quel huomo, che paceua uno
asino nella Citta di Salamina della Isola di Cipro,liocchi
diciascuncheloucdeuadaiftimarecbelfuffeun Alino.eca cetto di quella donna m a g
a el incadratrice laquale glih a . uea per talmodo conturbato la fantasia colli
suoi maleficii, che anchealuipareyadi esser douentato uno asino, ecosi portaua le
legna in vece di giumento.Vero erchefaugiutato per prudentia dialcuni
niercatanti Genoueh, liquali ue: la Chiesa perfareriuerétiaetadorare Iddio
iftimaronoche quello non fufleuna vera bestia, eco si cercarono di agiutar. e difareportarelamerite
uole pena alla incantatrice. In verita ui dico che possono fare li m alegni demonii
appare temoltecose altrimente di quello che fono,epossonom o
ueremoltecoseerappresentarlenella fantasia,efareparece u n a cosa in altro m o
d o di quello chi-e-et anchora fare i li mile nelli corporali senrimenti in un
medelimo huomo. Oltro dicio occorre che fono ingannati liocchi di quelli che
vedono, et ancho e conturbato l’occhio della mente, fendomoffa la imaginatione.
Anchorsıcome,giaauantidi ceffimo,puo esserportatoilcorpo per diuerfiluoghi.Ilger
cheinteruiene che quelliliqualinon ben e sollicitamente ellaminanoquestecosea
parteaperparte facilmente sono ingannati ecosi non ben chiaramentec onsiderando
lilibri delli doreielitterati huomininon possondcitta mente giudicare quanta differentia
e fralle cose create, equelle che uscis seno da qualche natura delle creature
efra quello chi e intiero, e quello chilerparte,efra iluero,e quello che
erfimile aluero,equellochedimostra lasuaimagine,equello che
dimoftraquelladaltrui.Enon ben pesanocon la giustabio y lanza la forza di tutta
la natura nelaportanza delli demonii Er alfineanchonon confiderano ligiudiciide
Iddio,liquali speffe uolte sono occultissimi anoi,ma impho sempresono
fatlicolomma giustitia. FRON. Hormaise appropinquala fera egia comencia di
apparere la oscura noite il oche l’hora tarda ciinuita di ritornare a casa. Siche
Apistio se non seifatis Gattopģīta nostra longa disputatione n ó poflo piu
ueder che. Chi inginocchiare e prostrare in terra aukti la porta del coradobbian
fareacciopollieffercôtéto.Cöcioliachetuhal poffutoconoscere come
queftomaladetto eriscommunica to giuoconon efictionene fauola. coliperli libri
dell’antichi, con e per l’opere fatte ne tempi nostri, e come egli e in sostantia
antichissimo e nuouo per molte conditionier che e Atato mutaro secondo la maligna
e perversa volonta delli demonii, eforsianchorlomutara, percheetantalaasturiaelucili
tadieffoiniquo inganrratoredell’huomini che continuamen e cerca nuovi modi
daposferingannarenoi. Ho dimoftrato a te li Cerchi li unguenti, le parole
magiche et incanti liu i a g o giperligrandifpatidellariali lascivie libidinosi
piaceri del li demonii che sisonoritrouaricosi' ne tempi nostri, comene tempi
delli Baroni antichi. E tho dimostrato qualmente pen Saronolipecaerfi demoni di
douer calonniaree uituperare l’humana
generationedallaprimaantiquitacioedalprimo huomo perinfinoadhora.E
comehaingannato Ihuomo collesueresposte,colliragionamenti con lafamiliarita edi
mestichezza,ecome ha cercatoperogniuiaemodo di ingå nare
ognifeffo,etognieracollifimulacri euarie imagini,et che
seesforzatodiufurpareladiuinita,e farsiadorarecome Dio,etche ha fatto
nuoceuoliconuitiallimortali,etcheliba portatoasimilitudinediun giumento
chehabbialeali, eco me hadesideratodihauer lisceleratiffimipiacericarnalicolo
lihuomini.M a perche iotiueggiohoramolto Atracco per tantouiaggiochehaifactocon
lanimotuoin diuerseregio nie paesi della [calia della Sicilia,etiolcrodel Ionio
mare e dello Eulino e tan cho r perche te ho codoico colli mei ragionamenti nell’Africa
nell'Asia, e perinsino alli Hiperborei Mode dovi non ci ho condotto. Il perch
es e ra h o ma i tempo ne debbicitornaremeco acasa. APISTIO. Tudiiluero, liben
hormaiehora.E cositecone uengo,emolto satisfaco. DICASTO. Se i tudung content di
quello chehauemodetto: Ec in uericaneuieninellanoftra oppenione. APISTIO. Si
certamente son contento, et inueritauidico, che credo quello che e statodetto. DICASTO.
Dicupurdado vero o pergivoco. APISTIO. Puo effer quefto Dicasto, che tu
iltimiche io dica quello per iscrizo e giuoco che ha creduto tutta l’antiquita
e tutta anchor la pofterit ad Io dico quello che ancho confermano colli
isperimenti & efsempii, li Poesi, Oratori, Hiftocici leggitti, philosophi,theologgi,
Ihuominipruden tili soldati lirufticie contadini, beniche le ritrouano alcuni
Sauioli, liqualiripucandosi piu dotiefauiiditurcilaltri,che queftoniegano, DICASTO.
Dung ficome io uedo tu hai mutato oppenione. APISTIO. Che bisogna piu affirmarlo,
Gia te l’ho detto, Eco sipercheioho uefitolanimomiodi un altrohabitocuesta, epareame
dihauerritrouatola verita di quello cheprima non credeuo in questa cosa
giacendo nella nera et oscura tenebradella igriorantia e della fallita,
desiderograndemetediunutareilnome edipigliarneuna tro conueneuoleaquefto nuovo
habito, de cui hora son vefito. DICASTO. Molto mi piace , Eco li per fatiffare
alla tu honesta voglia cidarounnome conuenientesicome
addj mandi. Dug perlo auenire serai chiamato. PISTICO. APISTIO.O. quantohammi
piace queftonome.Horacoliper ognimodouoglioefferchiamato. FRONIMO. Se piu non
cirestacosa alcuna de cuitu habbi desiderio de intendere. egli e hora che ci
partiamo con buon al i centia del Reverendo padre Inquisitore e che presto retorniamo
al castello, Il perche Vale Reverende padre. DICASTO. Ite tan in pace. Leandro
Alberti. Alberti. Keywords: diavolo, satana, mefistofele, angelo caduto,
demonio, eudemonico. Refs. Luigi Speranza, “Grice ed Alberti” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Alberti (Genova). Filosofo.
Grice: “I like [Leon Battista] Alberti; of course he is from Genova – Liguaria
being the heart of my Italy, or the Italy of my heart!” – Grice: “I like
Alberti’s ramblings on love to his lawyer friend – a full page without a p.s. –
and it’s none of the Kantian conversational maxims or Ovidian tactics, but just
a prohibition to mingle with the ladies!” -- Italian philosopher, on ‘aesthetics.’ Cf.
Grice on sensation. Grice: “No one can fail to
be enchanted by Lusini’s great likeness of Alberti at the loggiato of the
uffizi! Ah, if we had the same at Oxford!” -- Genova-born essential Italian
philosopherGrice, “I love his “De statua”it’s more philosophical anthropology
than aesthetics!” «Ci è un uomo che per la sua
universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti,
pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato» (Francesco de
Sanctis, Storia della letteratura italiana). Filosofo. Una delle figure
artistiche più poliedriche del Rinascimento. Il suo primo nome si trova spesso,
soprattutto in testi stranieri, come Leone. Alberti fa parte della
seconda generazione di umanisti (quella successiva a Vergerio, Bruni,
Bracciolini, Francesco Barbaro), di cui fu una figura emblematica per il suo
interesse nelle più varie discipline. Un suo costante interesse era la
ricerca delle regole, teoriche o pratiche, in grado di guidare il lavoro degli
artisti. Nelle sue opere menzionò alcuni canoni, ad esempio: nel "De
statua" espose le proporzioni del corpo umano, nel "De pictura"
fornì la prima definizione della prospettiva scientifica e infine nel "De
re aedificatoria" (opera cui lavorò fino alla morte, nel 1472), descrisse tutta
la casistica relativa all'architettura moderna, sottolineando l'importanza del
progetto e le diverse tipologie di edifici a seconda della loro funzione. Tale
opera lo renderà immortale nei secoli e motivo di studio a livello
internazionale da artisti come Eugène Viollet-le-Duc e John Ruskin. Come
architetto, Alberti viene considerato, accanto a Brunelleschi, il fondatore
dell'architettura rinascimentale. L'aspetto innovativo delle sue
proposte, soprattutto sia in ambito architettonico che umanistico, consisteva
nella rielaborazione moderna dell'antico, cercato come modello da emulare e non
semplicemente da replicare. La classe sociale a cui Alberti faceva
riferimento è comunque un'aristocrazia e alta "borghesia" illuminata.
Egli lavorò per committenti quali i Gonzaga a Mantova e (per la tribuna della
SS. Annunziata) a Firenze, i Malatesta a Rimini, i Rucellai a Firenze. Presunto
autoritratto su placchetta, (Parigi, Cabinet des Medailles). Leon Battista
nacque a Genova, figlio di Lorenzo Alberti, di una ricca famiglia di mercanti e
banchieri fiorentini banditi dalla città toscana a partire dal 1388 per motivi
politici, e da Bianca Fieschi, appartenente ad una delle più nobili casate
genovesi. I primi studi furono di tipo letterario, dapprima a Venezia e
poi a Padova, alla scuola dell'umanista Gasparino Barzizza, dove apprese il
latino e forse anche il greco. Si trasferì poi a Bologna dove studiò diritto,
coltivando parallelamente il suo amore per molte altre discipline artistiche
quali la musica, la pittura, la scultura, la matematica, la grammatica e la
letteratura in generale. Si dedicò all'attività letteraria sin da giovane: a
Bologna, infatti, già intorno ai vent'anni scrisse una commedia autobiografica
in latino, la Philodoxeos fabula. Compose in latino il Momus, un originalissimo
e avvincente romanzo mitologico, e le Intercoenales; in volgare, compose
un'importante serie di dialoghi (De familia, Theogenius, Profugiorum ab ærumna
libri, Cena familiaris, De iciarchia, dai titoli rigorosamente in latino) e
alcuni scritti amatori, tra cui la Deiphira, ove raccoglie i precetti utili a
fuggire da un amore mal iniziato. Dopo la morte del padre, avvenuta nel
1421, l'Alberti trascorse alcuni anni di difficoltà, entrando in forte
contrasto con i parenti che non volevano riconoscere i suoi diritti ereditari
né favorire i suoi studi. In questi anni coltivò soprattutto gli studi
scientifici, astronomici e matematici. Sembra si sia tuttavia concretamente
laureato in diritto nel 1428 a Bologna, o forse a Ferrara, nonostante le
difficoltà economiche e di salute. Tra Padova e Bologna intrecciò amicizie con
molti importanti intellettuali, come Paolo Dal Pozzo Toscanelli, Tommaso
Parentuccelli, futuro papa Nicolò V e probabilmente Niccolò Cusano. Per
gli anni 1428-1431 poco si sa, benché debba escludersi che si sia recato a
Firenze dopo il ritiro del bandi contro gli Alberti, nel 1428, e sia del pari
assai poco probabile che al seguito del cardinal Albergati abbia viaggiato in
Francia e nel Nord Europa. A Roma Nel 1431 diventò segretario del patriarca
di Grado e, trasferitosi a Roma con questi, nel 1432 fu nominato abbreviatore
apostolico (il cui ruolo consisteva per l'appunto nel redigere i brevi
apostolici). Così entrò nel prestigioso ambiente umanistico della curia di papa
Eugenio IV, che lo nominò (1432) titolare della pieve di San Martino a
Gangalandi a Lastra a Signa, nei pressi di Firenze, beneficio di cui godette
fino alla morte. Vivendo prevalentemente a Roma ma spostandosi per
periodi anche lunghi e per varie incombenze a Ferrara, Bologna, Venezia,
Firenze, Mantova, Rimini e Napoli. Le prime opere letterarie Tra il 1433
e il 1434, scrisse in pochi mesi i primi tre libri de Familia, un dialogo in
volgare completato con un quarto libro nel 1437. Il dialogo è ambientato a
Padova, nel 1421; vi partecipano vari componenti della famiglia Alberti,
personaggi realmente esistiti, scontrandosi su due visioni diverse: da un lato
c'è la mentalità moderna e borghese e dall'altro la tradizione, aristocratica e
legata al passato. L'analisi che il libro offre è una visione dei principali
aspetti e istituzioni della vita sociale dell'epoca, quali il matrimonio, la
famiglia, l'educazione, la gestione economica, l'amicizia e in genere i
rapporti sociali: l'Alberti esprime qui un punto di vista "filosofico"
pienamente umanistico, che ricorre in tutte le sue opere di carattere morale e
che consiste nella convinzione che gli uomini siano responsabili della propria
sorte e che la virtù sia insita nell'uomo e debba essere realizzata attraverso
l'operosità, la volontà e la ragione. A Firenze Statua di Leon
Battista Alberti, piazza degli Uffizi a Firenze. Alberti visse prevalentemente
a Firenze e Ferrara, al seguito della curia papale che fra l'altro partecipò al
Concilio, ossia alle sedute ferrarese e fiorentina del concilio ecumenico
(1438-39) che dovevano riappacificare la chiesa latina e le chiese
cristiano-orientali, in particolare quella greca. In questo periodo
l'Alberti assimila parte della cultura fiorentina, cercando (invero con
moderato successo) d'inserirsi nell'ambiente intellettuale e artistico della
città; sono verosimilmente gli anni in cui nascono i suoi interessi artistici,
che si traducono da subito nella duplice redazione (latina e volgare) del De
pictura (1435-36). Nel prologo della versione in volgare, dedica l'opera a
Brunelleschi e menziona anche i grandi innovatori delle arti del tempo:
Donatello, Masaccio (morto già nel 1428) e i Della Robbia. Intorno al
1443, al seguito del pontefice Eugenio IV lasciò Firenze, ma con la città
continuò ad avere intensi rapporti legati anche ai cantieri dei suoi
progetti. De pictura Magnifying glass icon mgx2.svg De pictura. Del 1435-1436 è il De pictura,
scritto verosimilmente dapprima in latino e tradotto poi in volgare; se la
redazione latina, senza ombra di dubbio la più importante e ricca, sarà
dedicata al Gonzaga marchese di Mantova, per quella volgare l'Alberti redasse
una dedica al Brunelleschi che, trasmessa da un solo codice strettamente legato
al laboratorio personale dell'Alberti, forse non fu mai inviata. Il De pictura
rappresenta la prima trattazione di una disciplina artistica non intesa solo
come tecnica manuale, ma anche come ricerca intellettuale e culturale, e
sarebbe difficile immaginarla fuori dallo straordinario contesto fiorentino e
scritta da un autore diverso dall'Alberti, grande intellettuale umanista e
artista egli stesso, anche se la sua attività nel campo delle arti
figurative—attestata (benché in modi non lusinghieri) già dal Vasari—dovette
essere ridotta. Il trattato è organizzato in tre "libri". Il primo
contiene la più antica trattazione della prospettiva. Nel secondo libro
l'Alberti tratta di “circoscrizione, composizione, e ricezione dei lumi”, cioè
dei tre principi che regolano l'arte pittorica: la circumscriptio
consiste nel tracciare il contorno dei corpi; la compositio è il disegno delle
linee che uniscono i contorni dei corpi e perciò la disposizione narrativa
della scena pittorica, la cui importanza è qui espressa per la prima volta con
piena lucidità intellettuale; la receptio luminum tratta dei colori e della
luce. Il terzo libro è relativo alla figura del pittore di cui si rivendica il
ruolo di vero artista e non, semplicemente, di artigiano. Con questo trattato
Alberti influenzerà non solo il Rinascimento ma tutto quanto si sarebbe detto
sulla pittura sino ai nostri giorni. La questione del volgare Pur
scrivendo numerosi testi in latino, lingua alla quale riconosceva il valore
culturale e le specifiche qualità espressive, l'Alberti fu un fervente
sostenitore del volgare. La duplice redazione in latino e in volgare del De
pictura manifesta il suo interesse per il dibattito allora in corso tra gli
umanisti sulla possibilità di usare il volgare nella trattazione di ogni
materia. In un dibattito avvenuto a Firenze tra gli umanisti della curia,
Flavio Biondo aveva affermato la diretta discendenza del volgare dal latino e
l'Alberti, ne dimostra genialmente la tesi componendo la prima grammatica del
volgare (1437-41), e ne riprende gli argomenti difendendo l'uso del volgare
nella dedicatoria del libro III de Familia a Francesco d'Altobianco Alberti
(1435-39 circa). Da qui deriva la significativa esperienza del Certame
coronario, una gara di poesia sul tema dell'amicizia, organizzata a Firenze
nell'ottobre 1441 dall'Alberti con il più o meno tacito concorso di Piero de'
Medici, una gara che doveva servire all'affermazione del volgare, soprattutto
in poesia, e alla quale va associata la composizione dei sedici Esametri
sull'amicizia da parte dell'AlbertiEsametri ora pubblicati fra le sue Rime,
innovative tanto nello stile quanto nella metrica, che costituiscono uno dei
primissimi tentativi di adattare i metri greco-latini alla poesia volgare
(metrica «barbara»). Nonostante ciò, l'Alberti continuò a scrivere
naturalmente in latino, come fece per gli Apologi centum, una sorta di
breviario della sua filosofia di vita, composti intorno al 1437. Ritorno
a Roma Chiusosi il concilio a Firenze, ritornò con la curia papale a Roma.
continuando a ricoprire il ruolo di abbreviatore apostolico per ben 34 anni,
fino al 1464, quando il collegio degli abbreviatori fu soppresso. Durante la
permanenza a Roma ebbe modo di coltivare i propri interessi propriamente
architettonici, che lo indussero a proseguire lo studio delle rovine della Roma
classica, come dimostra la stessa Descriptio urbis Romae, risalente al 1450
circa, in cui l'Alberti tentò con successo, per la prima volta nella storia,
una ricostruzione della topografia di Roma antica, mediante un sistema di
coordinate polari e radiali che permettono di ricostruire il disegno da lui
tracciato. I suoi interessi archeologici lo portarono anche a tentare il
recupero delle navi romane affondate nel lago di Nemi. Questi interessi
per l'architettura che diventeranno prevalenti negli ultimi due decenni della
sua vita, non impedirono una ricchissima produzione letteraria. Tra il 1443 e
la morte compone una delle sue opere più interessanti, il Momus, un romanzo
satirico in lingua latina, che tratta in maniera abbastanza amara e
disincantata della società umana e degli stessi esseri umani. Dopo
l'elezione di Niccolò V, l'Alberti, come antico conoscente, entrò nella cerchia
ristretta del papa, dal quale ricevette anche la carica di priore di Borgo San
Lorenzo. Tuttavia i rapporti con il papa sono considerati piuttosto controversi
dagli storici, sia per quel che riguarda gli aspetti politici che per
l'adesione o la collaborazione dell'Alberti al vasto programma di rinnovamento
urbano voluto da Niccolò V. Forse venne impiegato durante il restauro del
palazzo papale e dell'acquedotto romano e della fontana dell'Acqua Vergine,
disegnata in maniera semplice e lineare, creando la base sulla quale, in età
Barocca, sarebbe stata costruita la Fontana di Trevi. Intorno al 1450
Alberti cominciò ad occuparsi più attivamente di architettura con numerosi
progetti da eseguire fuori Roma, a Firenze, Rimini e Mantova, città in cui si
recò varie volte durante gli ultimi decenni della sua vita. In tal modo
dopo la metà del secolo l'Alberti fu la figura-guida dell'architettura. Questo
riconosciuto primato rende anche difficile distinguere, nella sua opera,
l'attività di progettazione dalle tante consulenze e dall'influenza più o meno
diretta che dovette avere, per esempio, sulle opere promosse a Roma, sotto
Niccolò V, come il restauro di Santa Maria Maggiore e Santo Stefano Rotondo o
come la costruzione di Palazzo Venezia, il rinnovamento della basilica di San
Pietro, del Borgo e del Campidoglio. Potrebbe forse essere stato il consulente
che indica alcune linee-guida o, ma ben più difficilmente, aver avuto un ruolo
anche meno indiretto. Sicuramente il prestigio della sua opera e del suo
pensiero teorico condizionarono direttamente l'opera di progettisti come
Francesco del Borgo e Bernardo Rossellino, influenzando anche Giuliano da Sangallo.
Morì a Roma, all'età di 68 anni. Il De re aedificatoria
Frontespizio Matteo de' Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti. Magnifying
glass icon mgx2.svg De re aedificatoria.
Le sue riflessioni teoriche trovarono espressione nel De re aedificatoria, un
trattato di architettura in latino, scritto prevalentemente a Roma, cui
l'Alberti lavorò fino alla morte e che è rivolto anche al pubblico colto di
educazione umanistica. Il trattato fu concepito sul modello del De architectura
di Vitruvio. L'opera, considerata il trattato architettonico più significativo
della cultura umanistica, è divisa anch'essa in dieci libri: nei primi tre si
parla della scelta del terreno, dei materiali da utilizzare e delle fondazioni
(potrebbero corrispondere alla categoria vitruviana della firmitas); i libri IV
e V si soffermano sui vari tipi di edifici in relazione alla loro funzione
(utilitas); il libro VI tratta la bellezza architettonica (venustas), intesa
come un'armonia esprimibile matematicamente grazie alla scienza delle
proporzioni, con l'aggiunta di una trattazione sulle macchine per costruire; i
libri VII, VIII e IX parlano della costruzione dei fabbricati, suddividendoli
in chiese, edifici pubblici ed edifici privati; il libro X tratta
dell'idraulica. Nel trattato si trova anche uno studio basato sulle
misurazioni dei monumenti antichi per proporre nuovi tipi di edifici moderni
ispirati all'antico, fra i quali le prigioni, che cercò di rendere più umane,
gli ospedali e altri luoghi di pubblica utilità. Il trattato fu stampato
a Firenze nel 1485, con una prefazione del Poliziano a Lorenzo il Magnifico, e
poi a Parigi e a Strasburgo. Venne in seguito tradotto in varie lingue e
diventò ben presto imprescindibile nella cultura architettonica moderna e contemporanea.
Nel De re aedificatoria, l'Alberti affronta anche il tema delle architetture
difensive e intuisce come le armi da fuoco rivoluzioneranno l'aspetto delle
fortificazioni. Per aumentare l'efficacia difensiva indica che le difese
dovrebbero essere "costruite lungo linee irregolari, come i denti di una
sega" anticipando così i principi della fortificazione alla moderna.
L'attività come architetto a Firenze A Firenze lavorò come architetto
soprattutto per Giovanni Rucellai, ricchissimo mercante e mecenate, intimo
amico suo e della sua famiglia. Le opere fiorentine saranno le sole
dell'Alberti a essere compiute prima della sua morte. Palazzo
Rucellai Facciata di palazzo Rucellai. Forse sin dal 1439-1442 gli venne
commissionata la costruzione del palazzo della famiglia Rucellai, da ricavarsi
da una serie di case-torri acquistate da Giovanni Rucellai in via della Vigna
Nuova. Il suo intervento si concentrò sulla facciata, posta su un basamento che
imita l'opus reticulatum romano, realizzata tra il 1450 e il 1460. È formata da
tre piani sovrapposti, separati orizzontalmente da cornici marcapiano e ritmati
verticalmente da lesene di ordine diverso; la sovrapposizione degli ordini è di
origine classica come nel Colosseo o nel Teatro di Marcello, ed è quella teorizzata
da Vitruvio: al piano terreno lesene doriche, ioniche al piano nobile e
corinzie al secondo. Esse inquadrano porzioni di muro bugnato a conci levigati,
in cui si aprono finestre in forma di bifora nel piano nobile e nel secondo
piano. Le lesene decrescono progressivamente verso i piani superiori, in modo
da creare nell'osservatore l'illusione che il palazzo sia più alto di quanto
non sia in realtà. Al di sopra di un forte cornicione aggettante si trova un
attico, caratteristicamente arretrato rispetto al piano della facciata. Il
palazzo creò un modello per tutte le successive dimore signorili del
Rinascimento, venendo addirittura citato pedissequamente da Bernardo
Rossellino, suo collaboratore, per il suo palazzo Piccolomini a Pienza (post
1459). Attribuita all'Alberti è anche l'antistante Loggia Rucellai, o per
lo meno il suo disegno. Loggia e palazzo andavano così costituendo una sorta di
piazzetta celebrante la casata, che viene riconosciuta come uno dei primi
interventi urbanistici rinascimentali. Facciata di Santa Maria
Novella Facciata di Santa Maria Novella, Firenze. Su commissione del
Rucellai, progettò anche il completamento della facciata della basilica di
Santa Maria Novella, rimasta incompiuta nel 1365 al primo ordine di arcatelle,
caratterizzate dall'alternarsi di fasce di marmo bianco e di marmo verde,
secondo la secolare tradizione fiorentina. I lavori iniziarono intorno al 1457.
Si presentava il problema di integrare, in un disegno generale e
classicheggiante, i nuovi interventi con gli elementi esistenti di epoca
precedente: in basso vi erano gli avelli inquadrati da archi a sesto acuto e i
portali laterali, sempre a sesto acuto, mentre nella parte superiore era già
aperto il rosone, seppur spoglio di ogni decorazione. Alberti inserì al centro
della facciata inferiore un di
proporzioni classiche, inquadrato da semicolonne, in cui inserì incrostazioni
in marmo rosso per rompere la bicromia. Per terminare la fascia inferiore pose
una serie di archetti a tutto sesto a conclusione delle lesene. Poiché la parte
superiore della facciata risultava arretrata rispetto al basamento (un tema
molto comune nell'architettura albertiana, derivata dai monumenti della
romanità) inserì una fascia di separazione a tarsie marmoree che recano una
teoria di vele gonfie al vento, l'insegna personale di Giovanni Rucellai; il
livello superiore, scandito da un secondo ordine di lesene che non hanno
corrispondenza in quella inferiore, sorregge un timpano triangolare. Ai lati,
due doppie volute raccordano l'ordine inferiore, più largo, all'ordine
superiore più alto e stretto, conferendo alla facciata un moto ascendente
conforme alle proporzioni; non mascherano come spesso si è detto erroneamente
gli spioventi laterali che risultano più bassi, come si evince osservando la
facciata dal lato posteriore. La composizione con incrostazioni a tarsia
marmorea ispirate al romanico fiorentino, necessaria in questo caso per
armonizzare le nuove parti al già costruito, rimase una costante nelle opere
fiorentine dell'Alberti. Secondo Rudolf Wittkower: "L'intero
edificio sta rispetto alle sue parti principali nel rapporto di uno a due, vale
a dire nella relazione musicale dell'ottava, e questa proporzione si ripete nel
rapporto tra la larghezza del piano superiore e quella dell'inferiore". La
facciata si inscrive infatti in un quadrato avente per lato la base della
facciata stessa. Dividendo in quattro tale quadrato, si ottengono quattro
quadrati minori; la zona inferiore ha una superficie equivalente a due
quadrati, quella superiore a un quadrato. Altri rapporti si possono trovare
nella facciata tanto da realizzare una perfetta proporzione. Secondo Franco
Borsi: "L'esigenza teorica dell'Alberti di mantenere in tutto l'edificio
la medesima proporzione è qui stata osservata ed è appunto la stretta
applicazione di una serie continua di rapporti che denuncia il carattere non
medievale di questa facciata pseudo-protorinascimentale e ne fa il primo grande
esempio di eurythmia classica del Rinascimento". Altre opere Il
tempietto del Santo Sepolcro. Attribuito all'Alberti è il progetto dell'abside
della pieve di San Martino a Gangalandi presso Lastra a Signa. L'Alberti fu
rettore di San Martino dal 1432 fino alla sua morte. La chiesa, di origine
medievale, ha il suo punto focale nell'abside, chiusa in alto da un arco a
tutto sesto con decorazione a motivi di candelabro e con lesene in pietra
serena sorreggenti un architrave che reca un'iscrizione a lettere capitali
dorate, ornata alle due estremità dalle arme degli Alberti. L'abside è ricordata
incepta et quasi perfecta nel testamento di Leon Battista Alberti, e fu infatti
terminata dopo la sua morte, tra il 1472 e il 1478. Del 1467 è un'altra
opera per i Rucellai, il tempietto del Santo Sepolcro nella chiesa di San
Pancrazio a Firenze, costruito secondo un parallelepipedo spartito da paraste
corinzie. La decorazione è a tarsie marmoree, con figure geometriche in
rapporto aureo; le decorazioni geometriche, come per la facciata di Santa Maria
Novella, secondo l'Alberti inducono a meditare sui misteri della fede.
Ferrara Il campanile del duomo di Ferrara. L'Alberti fu a Ferrara a varie
riprese, e sicuramente tra il 1438 e il 1439, stringendo amicizie alla corte
estense. Vi ritorna nel 1441 e forse nel 1443, chiamato a giudicare la gara per
un monumento equestre a Niccolò III d'Este. In tale occasione forse dette
indicazioni per il rinnovo della facciata del Palazzo Municipale, allora
residenza degli Estensi. A lui è stato attribuito da insigni storici
dell'arte, ma esclusivamente su basi stilistiche, anche l'incompleto campanile
del duomo, dai volumi nitidi e dalla bicromia di marmi rosa e bianchi.
Rimini Tempio Malatestiano, Rimini. Nel 1450 l'Alberti venne chiamato a
Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta per trasformare la chiesa di San
Francesco in un tempio in onore e gloria sua e della sua famiglia. Alla morte
del signore (1468) il tempio fu lasciato incompiuto mancando della parte
superiore della facciata, della fiancata sinistra e della tribuna. Conosciamo
il progetto albertiano attraverso una medaglia incisa da Matteo de' Pasti,
l'architetto a cui erano stati affidati gli ampliamenti interni della chiesa e
in generale tutto il cantiere. Tempio malatestiano sulla medaglia
di Matteo de' Pasti. L'Alberti ideò un involucro marmoreo che lasciasse intatto
l'edificio preesistente. L'opera prevedeva in facciata una tripartizione con
archi scanditi da semicolonne corinzie, mentre nella parte superiore era
previsto una specie di frontone con arco al centro affiancato da paraste e
forse due volute curve. Punto focale era il
centrale, con timpano triangolare e riccamente ornato da lastre marmoree
policrome nello stile della Roma imperiale. Ai lati due archi minori avrebbero
dovuto inquadrare i sepolcri di Sigismondo e della moglie Isotta, ma furono poi
tamponati. Le fiancate invece sono composte da una sequenza di archi su
pilastri, ispirati alla serialità degli acquedotti romani, destid accogliere i
sarcofagi dei più alti dignitari di corte. Fianchi e facciata sono unificati da
un alto zoccolo che isola la costruzione dallo spazio circostante. Ricorre la
ghirlanda circolare, emblema dei Malatesta, qui usata come oculo. Interessante
è notare come Alberti traesse spunto dall'architettura classica, ma affidandosi
a spunti locali, come l'arco di Augusto, il cui modulo è triplicato in
facciata. Una particolarità di questo intervento è che il rivestimento non
tiene conto delle precedenti aperture gotiche: infatti, il passo delle
arcate laterali non è lo stesso delle finestre ogivali, che risultano
posizionate in maniera sempre diversa. Del resto Alberti scrive a Matteo de'
Pasti che «queste larghezze et altezze delle Chappelle mi perturbano».
Per l'abside era prevista una grande rotonda coperta da cupola emisferica
simile a quella del Pantheon. Se completata, la navata avrebbe allora assunto
un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare e sarebbe stata
molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio, anche in rapporto
allo skyline cittadino. Mantova Chiesa di San Sebastiano,
Mantova. Basilica di Sant'Andrea, Mantova. Nel 1459 Alberti fu chiamato a
Mantova da Ludovico III Gonzaga, nell'ambito dei progetti di abbellimento
cittadino per il Concilio di Mantova. San Sebastiano Il primo intervento
mantovano riguardò la chiesa di San Sebastiano, cappella privata dei Gonzaga,
iniziata nel 1460. L'edificio fece da fondamento per le riflessioni
rinascimentali sugli edifici a croce greca: è infatti diviso in due piani, uno
dei quali interrato, con tre bracci absidati attorno ad un corpo cubico con
volta a crociera; il braccio anteriore è preceduto da un portico, oggi con
cinque aperture. La parte superiore della facciata, spartita da lesene di
ordine gigante, è originale del progetto albertiano e ricorda un'elaborazione
del tempio classico, con architrave spezzata, timpano e un arco siriaco, a
testimonianza dell'estrema libertà con cui l'architetto disponeva gli elementi.
Forse l'ispirazione fu un'opera tardo-antica, come l'arco di Orange. I due
scaloni di collegamento che permettono l'accesso al portico non fanno parte del
progetto originario, ma furono aggiunte posteriori. Sant'Andrea Il
secondo intervento, sempre su commissione dei Gonzaga, fu la basilica di
Sant'Andrea, eretta in sostituzione di un precedente sacrario in cui si venerava
una reliquia del sangue di Cristo. L'Alberti creò il suo progetto «... più
capace più eterno più degno più lieto ...» ispirandosi al modello del tempio
etrusco ripreso da Vitruvio e contrapponendosi al precedente progetto di
Antonio Manetti. Innanzitutto mutò l'orientamento della chiesa allineandola
all'asse viario che collegava Palazzo Ducale al Tè. La chiesa a croce
latina, iniziata nel 1472, è a navata unica coperta a botte con lacunari, con
cappelle laterali a base rettangolare con la funzione di reggere e scaricare le
spinte della volta, inquadrate negli ingressi da un arco a tutto sesto,
inquadrato da un lesene architravate. Il tema è ripreso dall'arco trionfale
classico ad un solo fornice come l'arco di Traiano ad Ancona. La grande volta
della navata e quelle del transetto e degli atri d'ingresso si ispiravano a
modelli romani, come la Basilica di Massenzio. Per caratterizzare
l'importante posizione urbana, venne data particolare importanza alla facciata,
dove ritorna il tema dell'arco: l'alta apertura centrale è affiancata da setti
murari, con archetti sovrapposti tra lesene corinzie sopra i due portali
laterali. Il tutto, coronato da un timpano triangolare a cui si sovrappone, per
non lasciare scoperta l'altezza della volta, un nuovo arco. Questa soluzione,
che enfatizza la solennità dell'arco di trionfo e il suo moto ascensionale,
permetteva anche l'illuminazione della navata. Sotto l'arco venne a formarsi
uno spesso atrio, diventato il punto di filtraggio tra interno ed
esterno. La facciata è inscrivibile in un quadrato e tutte le misure
della navata, sia in pianta che in alzato, si conformano ad un preciso modulo
metrico. La tribuna e la cupola (comunque prevista da Alberti) vennero
completate nei secoli successivi, secondo un disegno estraneo
all'Alberti. I caratteri dell'architettura albertiana Le opere più mature
di Alberti evidenziano una forte evoluzione verso un classicismo consapevole e
maturo in cui, dallo studio dei monumenti antichi romani, l'Alberti ricavò un
senso delle masse murarie ben diverso dalla semplicità dello stile
brunelleschiano. I modi originali albertiani precorsero l'arte del Bramante. I
caratteri innovativi di Alberti furono: La colonna deve sostenere la
trabeazione e deve essere usata come ornamento per le fabbriche; l'arco deve
essere costruito sopra i pilastri. Il De statua Il trattato, scritto in
latino, è relativo alla teoria della scultura e risale al1450 circa. Nel De
statua, l'Alberti rielaborò profondamente le concezioni e le teorie relative
alla scultura tenendo conto delle innovazioni artistiche del Rinascimento,
attingendo anche ad una rilettura critica delle fonti classiche e riconoscendo,
tra i primi dignità intellettuale alla scultura, prima di allora sempre
condizionata dal pregiudizio verso un'attività tanto manuale. Nel
trattato che si compone di 19 capitoli, l'Alberti parte, sulla scorta di
Plinio, dalla definizione dell'arte plastica tridimensionale distinguendo la
scultura o per via di porre o per via di levare, dividendola secondo la tecnica
utilizzata: togliere e aggiungere: sculture con materie molli, terra e
cera eseguita dai "modellatori" levare: scultura in pietra, eseguita
dagli "scultori" Tale distinzione fu determinante nella concezione
artistica di molti scultori come Michelangelo e non era mai stata espressa con
tanta chiarezza. Il definitor, lo strumento inventato da Leon
Battista Alberti. Relativamente al metodo da utilizzare per raggiungere il fine
ultimo della scultura che è l'imitazione della natura, l'Alberti distingue:
la dimensio (misura) che definisce le proporzioni generali dell'oggetto
rappresentato mediante l’exempeda, una riga diritta modulare atta a rilevare le
lunghezze e squadre mobili a forma di compassi (normae), con cui misurare
spessori, distanze e diametri. la finitio, definizione individuale dei
particolari e dei movimenti dell'oggetto rappresentato, per la quale Alberti
suggerisce uno strumento da lui ideato: il definitor o finitorium, un disco
circolare cui è fissata un'asta graduata rotante, da cui pende un filo a
piombo. Con esso si può determinare qualsiasi punto sul modello mediante una
combinazione di coordinate polari e assiali, rendendo possibile un
trasferimento meccanico dal modello alla scultura. Alberti sembra anticipare i
temi relativi alla raffigurazione 'scientifica' della figura umana che è uno
dei temi che percorre la cultura figurativa rinascimentale. e addirittura
aspetti dell'industrializzazione e addirittura della digitalizzazione, visto
che il definitor trasformava i punti rilevati sul modello in dati
alfanumerici. L'opera fu tradotta in volgare nel 1568 da Cosimo Bartoli.
Il testo latino originale fu stampato solo alla fine del XIX secolo, mentre
solo recentemente sono state pubblicate traduzioni moderne. I sistemi di
definizione meccanica dei volumi proposti dall'Alberti, appassionarono Leonardo
che approntò, come si può rilevare dai suoi disegni, dei sistemi alternativi,
sviluppati a partire dal trattato albertiano e utilizzò le "Tabulae
dimensionum hominis" del "De statua" per realizzare il
celeberrimo "Uomo vitruviano". Il Crittografo Alberti fu
inoltre un geniale crittografo e inventò un metodo per generare messaggi
criptati con l'aiuto di un apparecchio, il disco cifrante. Sua fu infatti
l'idea di passare da una crittografia con tecnica "monoalfabetica"
(Cifrario di Cesare) ad una con tecnica "polialfabetica", codificata
teoricamente parecchi anni dopo da Blaise de Vigenère. In The Codebreakers. The
Story of Secret Writing, lo storico della crittologia David Kahn attribuisce
all'Alberti il titolo di Father of Western Cryptology (Padre della crittologia
occidentale). Kahn ribadisce questa definizione, sottolineando le ragioni che
la giustificano, nella prefazione all'edizione italiana del testo albertiano:
«Questo volume elegante e sottile riproduce il testo più importante di tutta la
storia della crittologia; un primato che il De cifris di Leon Battista Alberti
ben si merita per i tre temi cruciali che tratta: l'invenzione della
sostituzione polialfabetica, l'uso della crittanalisi, la descrizione di un
codice sopracifrato.» Tra le altre attività di Alberti ci fu anche la
musica, per la quale fu considerato uno dei primi organisti della sua epoca.
Disegnò anche delle mappe e collaborò con il grande cartografo Paolo
Toscanelli. De iciarchia Iciarco e Iciarchia sono due termini usati
dall'Alberti nel dialogo De iciarchia composto nel 1470 circa, pochi anni prima
della sua morte (avvenuta nel 1472) e ambientato nella Firenze medicea di
quegli anni. Le due parole sono di origine greca ("Pogniàngli nome tolto
da' Greci, iciarco: vuol dire supremo omo e primario principe della famiglia
sua", libro III), e sono formate da oîkos o oikía "casa,
famiglia" e arkhós "capo supremo, principe, principio". Il
nome stesso di iciarco vuole esprimere quello che secondo il parere dell'autore
è il governante ideale: colui che sia come un padre di famiglia nei confronti
dello Stato. Secondo le parole dell'Alberti, "il suo compito sarà (...)
provedere alla salute, quiete, e onestamento di tutta la famiglia, fare sì che
amando e benificando è suoi, tutti amino lui, e tutti lo reputino e osservino
come padre" (ivi). Questo ruolo di "padre di famiglia" del
governante ideale era finalizzato, nella sua visione politica, ad una
stabilità, in definitiva "conservatrice", che permetterebbe di
governare senza discordie che, dilaniando lo Stato, nuocerebbero a tutto il
corpo sociale ("Inoltre la prima cura sua sarà che la famiglia sia senza
niuna discordia unitissima. Non esser unita la famiglia circa le cose (...) che
giovano, nuoce sopra modo molto., ivi). Il termine iciarco, nato
coll'Alberti e strettamente legato alla sua visione "paternalistica"
del governo dello Stato, non ebbe comunque alcun seguito e non risulta che sia
mai più stato impiegato nel lessico politico. Opere: “Apologi centum”; “Cena familiaris”; “De amore”; “De equo
animante (Il cavallo vivo); “De Iciarchia”; “De componendis cifris”; “Deiphira”;
“De picture”; “Porcaria coniuratio”; “De re aedificatoria”; “De statua”;
“Descriptio urbis Romae”; “Ecatomphile”; “Elementa picturae”; “Epistola
consolatoria”; “Grammatica della lingua toscana” (meglio nota come
Grammatichetta vaticana); “Intercoenales”; “De familia libri IV”; “Ex ludis
rerum mathematicorum”; “Momus”; “Philodoxeos fabula”; “Profugiorum ab ærumna libri
III”; “Sentenze pitagoriche”; “Sophrona”; “Theogenius Villa” -- Opere
architettoniche Palazzo Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Loggia
Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Facciata di Santa Maria Novella, Firenze,
Santa Maria Novella Abside di San Martino, 1472-1478, Lastra a Signa, Pieve di
San Martino a Gangalandi Tempietto del Santo Sepolcro, Firenze, Chiesa di San
Pancrazio Tempio Malatestiano (incompiuto), iniziato nel 1450 circa, Rimini,
Tempio Malatestiano Chiesa di San Sebastiano, 1460 circa, Mantova, Chiesa di
San Sebastiano Basilica di Sant'Andrea, 1472-1732, Mantova, Basilica di
Sant'Andrea (Mantova) Palazzo Romei, Vibo Valentia Manoscritti Liber de iure,
scriptus Bononiae anno 1437, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti,
Trivia senatoria, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti.
Cecil Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki, L.B. Alberti, De pictura, C. Grayson,
Laterza, 1980: versione on line Copia archiviata, su liberliber. Christoph L.
Frommel, Architettura e committenza da Alberti a Bramante, Olschki, 2006, Bernardo Rucellai, De bello italico,
Donatella Coppini, Firenze University Press, De re Aedificatoria In tale occasione manifestò il suo interesse
per la morfologia e l'allevamento dei cavalli con il breve trattato De equo
animante dedicato a Leonello d'Este. De Vecchi-Cerchiari, cit.95.
De Vecchi-Cerchiari, cit.104 Rudolf Wittkower, op. cit. 1993 Rudolf Wittkower,op. cit. 1993 Leon
Battista Alberti, De statua, M. Collareta, 1998
Mario Carpo, L'architettura dell'età della stampa: oralità, scrittura,
libro stampato e riproduzione meccanica dell'immagine nella storia delle teorie
architettoniche, 1998. Simon Singh,
Codici e Segreti45 David Kahn, The Codebreakers, Scribner. Il nome deriva dal
fatto che il libello, di appena 16 carte, è conservato in una copia del 1508 in
un codice in ottavo della Biblioteca vaticana. Lo scritto non ha epigrafe,
pertanto il titolo è stato assegnato in seguito: fu riscoperto infatti nel 1850
e dato alle stampe solo nel 1908.
viviamolacalabria.blogspot.com,
viviamolacalabria.blogspot.com//09/esempio-tangibile-di-palazzo-nobiliare.html?m=1.
Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Argentorati, excudebat M. Iacobus
Cammerlander Moguntinus, 1541. Leon
Battista Alberti, De re aedificatoria, Florentiae, accuratissime impressum
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nella città del Quattrocento, Skira, Milano, Leon Battista Alberti architetto,
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Simonetta Bracciali, presentazione di Antonio Paolucci, Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, Stefano Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli, Polistampa,
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"Camaleonta" e l'idea del Tempio Malatestiano dalla Storiografia al
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Tempio della Meraviglia, F. Canali, C. Muscolino, Firenze, 2007 “Il mito dell’Egitto
in Alberti”, in Leon Battista Alberti
teorico delle arti e gli impegni civili del “De re aedificatoria”, Atti dei
Convegni internazionali di studi del Comitato Nazionale per le celebrazioni
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Cesare Vasoli, Firenze, Olschki, Alberti e la cultura del Quattrocento, Atti
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Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino della Società di Studi
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a Napoli: morfologie architettoniche e tecniche costruttive. Un univoco
cantiere antiquario tra Donatello e Leon Battista Alberti?, in Brunelleschi,
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Canali, V. C. Galati, Leon Battista Alberti, gli 'Albertiani' e la Puglia
umanistica, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino della
Società di Studi Fiorentini», G. Morolli, Alberti: la triiplice luce della
pulcritudo, in Brunelleschi, Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino della
Società di Studi Fiorentini», G. Morolli, Pienza e Alberti, in Brunelleschi,
Alberti e oltre, F. Canali, «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», Christoph
Luitpold Frommel, Alberti e la porta trionfale di Castel Nuovo a Napoli, in
«Annali di architettura» n° 20, Vicenza leggere l'articolo; Massimo Bulgarelli,
Leon Battista Alberti,Architettura e storia, Electa, Milano 2008; Caterina
Marrone, I segni dell'inganno. Semiotica della crittografia, Stampa Alternativa
&a mp;Graffiti, Viterbo ; Pierluigi Panza, “Animalia: La zoologia nel De Re
Aedificatoria", Convegno Facoltà di Architettura Civile, Milano, in Albertiana,
S. Borsi, Leon Battista Alberti e Napoli, Firenze, . V. Galati, Il Torrione
quattrocentesco di Bitonto dalla committenza di Giovanni Ventimiglia e Marino
Curiale; dagli adeguamenti ai dettami del De Re aedificatoria di Leon Battista
Alberti alle proposte di Francesco di Giorgio Martini in Defensive Architecture
of the Mediterranean XV to XVIII centuries, G. Verdiani,, Firenze, , III. V.
Galati, Tipologie di Saloni per le udienze nel Quattrocento tra Ferrara e
Mantova. Oeci, Basiliche, Curie e "Logge all'antica" tra Vitruvio e
Leon Battista Alberti nel "Salone dei Mesi di Schifanoia a Ferrara e nella
"Camera Picta" di Palazzo Ducale a Mantova, in Per amor di
Classicismo, F. Canali «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», S.
Borsi, Leon Battista, Firenze, . Roberto Rossellini gli ha dedicato un film- documentario
per la TV nintitolato "L'età di Cosimo dei Medici" (88'). Architettura rinascimentale Rinascimento
fiorentino Rinascimento riminese Rinascimento mantovano Medaglia di Leon
Battista Alberti.TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
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Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista
Alberti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Leon Battista Alberti, in Dizionario
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Alberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. La
aggiornata degli studi albertiani dal 1995 in poi, e le informazioni più
recenti sulla ricerca albertiana, su alberti.wordpress.com. Il sito della
Société Internationale Leon Battista Alberti, su silba-online.eu. Biografia
breve, su imss.fi. Fondazione Centro Studi Leon Battista AlbertiMantova, su
fondazioneleonbattistaalberti. Momus, (testo in latino, Roma 1520), facsimile,
progetto Europeana agent/base/
Identitieslccn. Que' che affermano la lingua latina non
essere stata comune a tutti e' populi latini, ma solo propria di certi dotti
scolastici, come oggi la vediamo in pochi, credo deporranno quello errore vedendo
questo nostro opuscolo, in quale io raccolsi l'uso della lingua nostra in
brevissime annotazioni. Qual cosa simile fecero gl'ingegni grandi e studiosi
presso a' Greci prima e po' presso de e' Latini, e chiamornoqueste simili
ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza corruttela, suo nome,
grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra, leggetemi e
intenderetela. I. Ordine delle lettere. i r t d b v n
u m p q g c e o a x z l s f ç ch gh
concordanze II. Vocali. Ogni parola e dizione toscana finisce
in vocale. Solo alcuni articoli de' nomiin l e alcune preposizioni finiscono in
d, n, r. Le cose in molta parte hanno in lingua toscana que' medesimi
nomi che in latino. Non hanno e' Toscani fra e' nomi altro che masculino
e femminino. E' neutrilatini si fanno masculini. Pigliasi in ogni nome
latino lo ablativo singulare, e questo s'usa in ogni casosingulare, così al
masculino come al femminino. A e' nomi masculini l'ultima vocale si
converte in i, e questo s'usa in tutti e' casi plurali. A e' nomi
femminini l'ultima vocale si converte in e, e questo s'usa in ogni caso plurale
per e' femminini. Alcuni nomi femminini in plurale non fanno in e: come,
la mano fa le mani. E ogni nome femminino, quale in singulare finisca in
e, fa in plurale in i: come la orazione, le orazioni; stagione, stagioni;
confusioni, e simili. E' casi de' nomi si notano co' suoi articoli, dei
quali sono vari e' masculini da e' femminini. Item e' masculini, che
cominciano da consonante, hanno certi articoli non fatti come quando e'
cominciano da vocale. Item e' nomi propri sono vari dagli
appellativi. Masculini che cominciano da consonante hanno articoli simili
a questo: 1. SINGULARE. EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo
O cielo DAL cielo. 2. PLURALE. E' cieli DE' cieli A' cieli E'
cieli O cieli DA' cieli. Masculini, che cominciano da vocale, fanno in
singulare simile a questo: 3. SINGULARE. LO orizzonte DELLO
orizonte ALLO orizonte LO orizonte O orizonte DALLO orizonte.
PLURALE. GLI orizonti DEGLI orizonti AGLI orizonti GLI orizonti O
orizonti DAGLI orizonti. E' nomi masculini che cominciano da s preposta a
una consonante hanno articoli simili a quei che cominciano da vocale, e dicesi:
LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e simile. Questi vedesti che sono vari da
quei di sopra nel singulare, el primo articoloe anche el quarto; ma nel plurale
variorono tutti gli articoli. Nomi propri masculini non hanno el primo
articolo, né anche el quarto, e fanno simili a questi: Propri masculini,
che cominciano da consonante, in singulare fanno così: Cesare DI Cesare A
Cesare Cesare O Cesare DA Cesare. Nomi propri, che cominciano da vocale,
nulla variano da' consonanti, eccetto che al terzo vi si aggiugne d, e
dicesi: Agrippa DI Agrippa AD Agrippa, ecc. In plurale non
s'adoperano e' nomi propri, e se pur s'adoperassero, tutti fanno come
appellativi. E' nomi femminini, o propri o appellativi, o in vocale o in
consonante che e' cominciano, tutti fanno simile a questo: rdanze 5.
SINGULARE. LA stella DELLA stella ALLA stella LA stella O stella
DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O aura DALLA
aura. PLURALE. LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O
stelle DALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aure DALLE
aure. E' nomi delle terre s'usano come propri, e dicesi: Roma superò
Cartagine. E simili a' nomi propri s'usano e' nomi de' numeri: uno, due,
tre, e cento e mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e
simili. E quei nomi che si referiscono a' numeri non determinati come
ogni, ciascuno, qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi,
molti, e simili, tutti si pronunziano simili a e' nomi propri senza primo e
quartoarticolo. E' nomi che importano seco interrogazione come chi e che
e quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori,
come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e' propri nomi,
pur senza primo e quarto articolo, e dicesi: Io sono tale quale voresti
essere tu; e amai tale che odiava me. Chi s'usa circa alle persone,
e dicesi: Chi scrisse? Che significa quanto presso a e' Latini Qui e
Quid. Significando Quid, s'usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi?
Significando Qui, s'usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che
scrissi. Chi di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo
sono, sei, è, serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua
sposa? Chi fu el maestro? Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone
e pospone. Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e' Latini
Quid e Quantum e Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti
costa? Che, posposto al verbo, significa quanto apresso e' Latini Ut e
Quod, come dicendo: I' voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai. E'
nomi, quando e' dimostrano cosa non certa e diterminata, si pronunziano senza
primo e quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move.
Tu mi porti amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata,
allora si pronunzianocoll'articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el
dotto. E' nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a
questo verbo sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e
dicesi: Tu fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto,
elprimo, el secondo, ecc. Uno, due, tre, e simili, quando e' significano
ordine, vi si pone l'articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l'uno. Il dua è
numero paro, ecc. Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio
s'usa come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio. Gli articoli
hanno molta convenienza co' pronomi, e ancora e' pronomihanno grande
similitudine con questi nomi relativi qui recitati.
Adonquesuggiungeremogli. De' pronomi, e' primitivi sono questi: io tu
esso questo quello costui lui colui. Mutasi l'ultima vocale in a e fassi il
femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo io e tu, in una voce, serve al
masculino e al femminino. E' plurali di questi primitivi pronomi sono
vari, e anche e' singulari. Declinansi così: Io e i': di me: a me e mi:
me e mi: da me. Noi: di noi: a noi e ci: noi e ci: da noi. Tu: di
te: a te e ti: te e ti: o tu: da te. Voi: di voi: a voi e vi: voi e vi: o
voi: da voi. Esso ed e': di se e si: se e si: da se; ed Egli. Non
troverrai in tutta la lingua toscana casi mutati in voce altrove che in questi
tre pronomi: io, tu, esso. Gli altri primitivi se declinano così:
Questo: di questo: a questo: questo: da questo. Quello: di quello: a
quello: quello: da quello. Muta o in i e arai el plurale, e dirai:
Questi: di questi: a questi: questi: da questi. E il somigliante fa
quelli. E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli in singulare;
ma in pluralecostui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di coloro, a coloro,
coloro, da coloro. Questo e quello mutano o in a e fassi el femminino
singulare, e dicesi:questa e quella; e fassi il suo plurale: queste, di quelle,
a quelle. Lui, costui, colui, mutano u in e e fassi el singulare
femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In plurale hanno quella
voce che e' masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di costoro, a costoro,
ecc. Vedesti come, simile a' nomi propri, questi pronomi primitivi non
hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa similitudine fanno e'
pronomi derivativi, quando e' sono subiunti a e' propri nomi. Ma quando si
giungono agli appellativi, si pronunziano co' suoi articoli. Derivativi
pronomi sono questi, e declinansi così: El mio, del mio, ecc., e plurale:
e' miei, de' miei, ecc. El nostro, del nostro, ecc. E plurale: e' nostri,
de' nostri, ecc. El tuo. Plurale: e' tuoi. El vostro. Plurale: e'
vostri. El suo. E pluraliter: e' suoi, ecc. Mutasi, come a e'
nomi, l'ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso in e,
fassi el plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue. In uso
s'adropano questi pronomi non tutti a un modo. E' derivativi, giunti a
questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano senza
articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc. Mi e me, ti
e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come di
sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si dice
mi, ti, ci, ecc.; come qui: e' mi chiama; e' ti vuole; que' vi chieggono; io mi
sto; e' si crede. Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro
pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi. Si al verbo
non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome si dirà: -i, come qui: aspettaci,
restaci, scrivetemi. Lui e colui dimostrano persone, come dicendo: lui
andò, colei venne. Questo e quello serve a ogni dimostrazione, e dicesi:
Questo essercitopredò quella provincia, e: Questo Scipione superò quello
Annibale. E' ed el, lo e la, le e gli, quali, giunti a' nomi, sono
articoli, quando si giungono a e' verbi, diventano pronomi e significano
quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le biasimi: Chi gli
vuole? Ma di questi, egli ed e' hanno significato singulare e plurale; e,
prepostialla consonante, diremo e', come qui: e' fa bene; e' sono. E, preposti
alla vocale, si giugne e' e gli, e dicesi: egli andò; egli udivano. E
quando segue loro s preposta a una consonante, ancora diremo: egli spiega; egli
stavano. Potrei in questi pronomi essere prolisso, investigando più cose
quali s'osservano, simili a queste: Vi preposto a' presenti singulari
indicativi, d'una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due v, e
simile in la seconda persona presenteimperativa, come stavvi e vavvi; e ne'
verbi, d'una e di più sillabe, la prima singulare indicativa del futuro, come
amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose
più particulari diremoaltrove. III. Seguitano e’ verbi. Non
ha la lingua toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere elpassivo,
compone con questo verbo sono, sei, è, el participio preteritopassivo tolto da
e' Latini, in questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E
simile, si giugne a tutti e' numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo
porremo qui distinto. 1. INDICATIVO. Sono, sei, è. Plurale:
siamo, sete, sono. Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e
savate, erano. Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti, furono.
Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano
stati. Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno. Hanno
e' Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo, si dice
così: Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati. E
dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli. ndere i link alle
concordanze 2. IMPERATIVO. Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate,
siano. Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc. 3. OTTATIVO.
Dio ch 'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi,
fussero. Dio ch'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano
stati. Dio ch'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi,
fussero stati. Dio ch'io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate,
siano. 4. SUBIENTIVO. Bench'io, tu, lui sia. Plurale: siamo,
siate, siano. Bench'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo,
fussi, fussero. Bench'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate,
siano stati. Bench'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi,
fussero stati. Bench'io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo, sarete,
saranno stati. E usasi tutto l'indicativo di questo e d'ogni altro verbo,
quasi come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni: se, quando,
benché, e simili. E dicesi: bench'io fui; se e' sono; quando e' saranno.
5. INFINITO. Essere, essere stato. 6. GERUNDIO.
Essendo 7. PARTICIPIO. Essente Dirassi
adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò
lodato; tu sei reverito. Hanno e' Toscani certo modo subientivo, in voce,
non notato da e' Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei,
saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero. E dirassi così:
Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori dellapatria, e' sarebbero
più felici. IV. Seguitano e’ verbi attivi. Le
coniugazioni de' verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino,
levatone le ultime tre lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona
singulare indicativa e presente. Ecco l'essemplo: amandolevane ndo, resta ama;
scrivendo resta scrive. Sono adonque due coniugazioni: una che finisce in
a, l'altra finisce in e. Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e
fassi la prima personasingulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi
la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in
questo esposto: 1. INDICATIVO. Amo, ami, ama. Plurale:
amiamo, amate, amano. Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate,
amavano. Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono.
Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato. Amerò,
amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno. In questa lingua ogni
verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione
prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativadel preterito. Ma
ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del
presente lo fa o breve. 2. IMPERATIVO. Ama tu, ami lui.
Plurale: amiamo, amate, amino. Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo,
ecc. 3. OTTATIVO. Dio ch'io amassi, tu amassi, lui amasse.
Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero. Dio ch'io
abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noi abbiamo, abbiate, abbino
amato. Dio ch'io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che
noi avessimo, avessi, avessero amato. Dio ch'io, tu, lui ami. Plurale:
amiamo, amiate, amino. 4. SUBIENTIVO. Bench'io, tu, lui ami.
Plurale: amiamo, amiate, amino. Bench'io, tu amassi, lui amasse.
Plurale: amassimo, amassi, amassero. Bench'io abbia, abbi, abbia amato.
Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato. Bench'io avessi, tu avessi, lui
avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato. Bench'io arò,
arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato. 5. ASSERTIVO.
Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero.
6. INFINITO. Amare, avere amato. 7. GERUNDIO.
Amando. 8. PARTICIPIO. Amante. Vedi come a e'
tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per
questo si composero simile a' verbi passivi: el suo participio co' tempi e voci
di questo verbo ho, hai, ha. Qual verbo, benché e' sia della coniugazione
in a, pur non sequita la regola esimilitudine degli altri, però che egli è
verbo d'una sillaba, e così tutti e'monosillabi sono anormali. Né
troverrai in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei:
Do; Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti. Ma, per
esser breve, notiamo che e' sono insieme dissimili ne e' preteritiperfetti indicativi,
e ne' singulari degli imperativi, e nel singulare del futuroottativo, ne' quali
e' fanno così: DO: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti,
dettero. FO: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero.
HO: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero. VO: andai,
andasti, andò. Plurale: andamo, andasti, andarono. STO: stetti, stesti,
stette. Plurale: stemo, stesti, stettero. TRO: tretti, traesti, trette.
Plurale: traemo, traesti, trettero. In tutti e' verbi, come fa la seconda
persona singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti,
desti, leggesti. DO: da tu, dia lui. FO: fa tu, faccia lui.
HO: abbi tu, abbia lui. VO: va tu, vada lui. STO: sta tu, stia
lui. TRO: tra tu, tria lui. DO: Dio ch'io dia, tu dia, lui dia.
FO: faccia, facci, faccia. HO: abbia, abbi, abbia. VO: vada, vadi,
vada. STO: stia, stii, stia. TRO: tragga, tragghi, tragga. V.
Seguita la coniugazione in e. Questa si forma simile alla
coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa.
Mutasi in i, e fassi la seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte,
resta legge, scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia
dalla coniugazione in ain que' luoghi dove variano e' monosillabi. Ma questa
coniugazione in e varia in più modi, benché comune faccia e' preteriti perfetti
indicativiin -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que'
verbi che finiscono in -sco fanno e' preteriti in -ii per due i, come esco,
uscii;ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella
linguatoscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si
eccettuano cresco ed e' suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali
finiscono, a' preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi. Item,
nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que' verbi che finiscono in mo fanno
e' preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in do fanno
e' preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo
fa vidi; odo, udi'; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono
in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi;
eccetto vendo fa vendei e vendetti. Sonci di queste regole forse altre
eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui
diletterà ornare la patrianostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi.
Dicemo de' preteriti, resta a dire degli altri. 1. IMPERATIVO.
Leggi tu, legga colui. 2. OTTATIVO. Futuro singulare:
Dio ch'io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi
impersonali si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e' modi e
tempi, giuntovi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole
trasporlo innanzi al verbo, giuntovi e', e dicesi: e' si legge; e' si corre; e
massime nell'ottativo e subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e'
s'ami; quando e' si leggera', e simile. VI. Seguitano le
preposizioni. Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono
queste: oltre, sino, dietro, doppo, presso, verso, 'nanzi, fuori, circa.
Preposizioni che caggiono in composizione e ancora s'adoperano seiunte,
sono di una sillaba o di più. D'una sillaba sono queste: DE: de'
nostri; detrattori. AD: ad altri; admiratori. CON: con certi;
conservatori. PER: per tutti; pertinace. DI: di tanti;
diminuti. IN: in casa; importati. Di, preposto allo infinito, ha
significato quasi come a' Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d'essere
amato. Quelle de più sillabe sono queste: SOTTO sottoposto
SOPRA sopraposto e dicesi ENTRO entromesso CONTRO
contraposto Preposizioni quali s'adoperano solo in composizione:
Re, sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e
circumspetto. VII. Seguitano gli avverbi. Per e' tempi, si
dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai,
sempre, presto, subito. Per e' luoghi, si dice: costì, colà, altrove,
indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si
dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro
ivi. Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno. Negando,
si dice: nulla, no, niente, né. Affirmando, si dice: sì, anzi, certo,
alla fe'. Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto.
Dubitando: forse. Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così,
bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto. Usa la lingua
toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntovi l'articolo, e dice: el bene,
del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere,
del leggere. Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in
principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e
dicesi: el tuo buono amare mi piace. Item, a similitudine della lingua
gallica, piglia el Toscano e' nomisingulari femminini adiettivi e aggiungevi
-mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente.
VIII. Interiezioni. Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma,
do. IX. Coniunzioni. Sono queste: mentre, perché, senza, se,
però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic). E
congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a' nomi e agli infiniti. E
dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano indotti;
o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione. E questo ne ha vario
significato e vario uso. Se si prepone simplice a' nomi, a' verbi, a' pronomi,
significa negazione, come qui: né tu né io meritiamo invidia. E significa in;
ma, aggiuntovi l, serve a' singularimasculini e femminini; e senza l, serve a'
plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri plurali, masculini e
femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla consonante, pur si dice:
nello spazzo, nelle camere, ne' letti, nello essercito di Dario, negli
orti. E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome, significa di
qui, di questo, di quello, secondo che l'altre dizioni vi si adatteranno, come
chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene. E questo ne, posposto al verbo,
sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e più, o significa
interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l'indicativo
monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due
n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va' ne tu?
vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne,
danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi
monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e
dicono: fonne, vonne, honne. Se sarà el verbo di più sillabe, la
interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e' tempi, eccetto la
affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera' ne
tu? porteronne. E questo sino qui detto s'intenda per e' singulari, però che a'
plurali siscrive quello ne sempre per uno n, come andiamone. Non mi
stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e' principi
d'investigare lo avanzo. E' vizi del favellare in ogni lingua sono o
quando s'introducono alle cose nuovi nomi, o quando gli usitati si adoperano
male. Adoperanosimale, discordando persone e tempi, come chi dicesse: tu ieri
andaremoalla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato alieno,
come chi dice: processione pro possessione. Introduconsi nuovi nomio in tutto
alieni e incogniti o in qualunque parte mutati. Alieni sono in Toscana
più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo militò in
Italia, come elm, vulasc, sacoman, bandier, e simili. In qualche parte mutati
saranno quando alle dizionis'aggiungerà o minuirà qualche lettera, come chi
dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno come chi dicesse:
replubicapro republica, e occusfato pro offuscato; e quando si ponesse una
lettera per un'altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco, inimisi pro
inimici. Molto studia la lingua toscana d'essere breve ed espedita, e per
questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma
questivizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più atta, come chi,
diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l'ultima vocale, e dice papi, e
Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s'usa che a tutti gl'infiniti,
quando loro segue alcuno pronome in i, allora si gettal'ultima vocale e dicesi:
farti, amarvi, starci, ecc. E, mutando lettere, dicono mie pro mio e mia,
chieggo pro chiedo,paio pro paro, inchiuso pro incluso, chiave pro clave. E,
aggiugnendo, dice vuole pro vole, scuola pro scola, cielo pro celo. E, in
tuttotroncando le dizioni, dice vi pro quivi, e similiter, stievi pro stia
ivi. Si questo nostro opuscolo sarà tanto grato a chi mi leggerà, quanto
fu laborioso a me el congettarlo, certo mi diletterà averlo promulgato, tanto
quanto mi dilettava investigare e raccorre queste cose, a mio iudizio, degne e
da pregiarle. Laudo Dio che in la nostra lingua abbiamo omai e' primi
principi: di quello ch'io al tutto mi disfidava potere assequire.
Cittadini miei, pregovi, se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, abbiate a
grado questo animo mio, cupido di onorare la patria nostra. E insieme,
piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in parte alcuna ci vedete errore.
Que’ che affermano la lingua latina non essere stata comune a tutti e’
populi latini, ma solo propria di certi dotti scolastici, come oggi la vediamo
in pochi, credo deporranno quello errore vedendo questo nostro opuscolo, in
quale io raccolsi l’uso della lingua nostra in brevissime annotazioni. Qual
cosa simile fecero gl’ingegni grandi e studiosi presso a’ Greci prima e po’
presso de e’ Latini, e chiamorno queste simili ammonizioni, atte a scrivere e
favellare senza corruttela, suo nome, grammatica. Questa arte, quale ella sia
in la lingua nostra, leggetemi e intenderetela. Ordine delle
lettere I r t d b v n u m p q g c e o a x z l s f ç ch
gh Vocali a ę ẻ i o ô u ę è é ę Coniunctio ể Verbum ẻ Articulus el
ghiro girò al çio el zembo. e volse pôrci a’ porci quèllo chẻ ể pẻlla pelle.
[p. facsimile1] Tavv. 1-2. Roma, Bibl. Vaticana, Cod. Vat. Reginense Lat.
1370, «Della thoscana senza auttore», cc 1r-v (cfr. p. 361) [p. 178] Ogni
parola e dizione toscana finisce in vocale. Solo alcuni articoli de’ nomi in l
e alcune preposizioni finiscono in d, n, r. Le cose in molta parte hanno
in lingua toscana que’ medesimi nomi che in latino. Non hanno e’ Toscani
fra e’ nomi altro che masculino e femminino. E’ neutri latini si fanno
masculini. Pigliasi in ogni nome latino lo ablativo singulare, e questo
s’usa in ogni caso singulare, così al masculino come al femminino. A e’
nomi masculini l’ultima vocale si converte in i, e questo s’usa in tutti e’
casi plurali. A e’ nomi femminini l’ultima vocale si converte in e, e
questo s’usa in ogni caso plurale per e’ femminini. Alcuni nomi femminini
in plurale non fanno in e: come, la mano fa le mani. E ogni nome
femminino, quale in singulare finisca in e, fa in plurale in i: come la
orazione, le orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e simili. E’ casi
de’ nomi si notano co’ suoi articoli, dei quali sono vari e’ masculini da e’
femminini. Item e’ masculini, che cominciano da consonante, hanno certi
articoli non fatti come quando e’ cominciano da vocale. Item e’ nomi
propri sono vari dagli appellativi. Masculini che cominciano da consonante
hanno articoli simili a questo: singulare EL cielo
DEL cielo AL cielo EL cielo O cieloDAL cielo Plurale
E’ cieli DE’ cieli A’ cieli E’ cieli O cieli DA’ cieli. Masculini, che
cominciano da vocale, fanno in singulare simile a questo: [p. 179]
Singulare LO orizzonte DELLO orizonte ALLO orizonteLO orizonte O orizonte
DALLO orizonte Plurale GLI orizonti DEGLI orizonti
AGLI orizontiGLI orizonti ⟨O orizonti⟩ DAGLI orizonti.
E’ nomi masculini che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli simili
a quei che cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e
simile. Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel singulare, el
primo articolo e anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti gli
articoli. Nomi propri masculini non hanno el primo articolo, né anche el
quarto, e fanno simili a questi: Propri masculini, che cominciano da
consonante, in singulare fanno così: Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O CesareDA Cesare.
Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da’ consonanti, eccetto
che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi: Agrippa DI Agrippa AD Agrippa,
ecc. In plurale non s’adoperano e’ nomi propri, e se pur s’adoperassero, tutti
fanno come appellativi. E’ nomi femminini, o propri o appellativi, o in
vocale o in consonante che e’ cominciano, tutti fanno simile a questo:
Singulare LA stella DELLA stella ALLA stella LA stellaO stella
DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O auraDALLA aura. [p.
180] Plurale LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O
stelleDALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aureDALLE aure. E’
nomi delle terre s’usano come propri, e dicesi: Roma superò Cartagine. E
simili a’ nomi propri s’usano e’ nomi de’ numeri: uno, due, tre, e cento e
mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e simili. E
quei nomi che si referiscono a’ numeri non determinati come ogni, ciascuno,
qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi, molti, e simili,
tutti si pronunziano simili a e’ nomi propri senza primo e quarto
articolo. E’ nomi che importano seco interrogazione come chi e che e
quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori,
come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e’ propri nomi,
pur senza primo e quarto articolo, e dicesi: Io sono tale quale voresti
essere tu; e amai tale che odiava me. Chi s’usa circa alle persone, e
dicesi: Chi scrisse? Che significa quanto presso a e’ Latini Qui e Quid.
Significando Quid, s’usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi? Significando
Qui, s’usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che scrissi. Chi
di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo sono, sei, è,
serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua sposa? Chi fu el
maestro? Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone e pospone.
Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e’ Latini Quid e Quantum e
Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa? Che,
posposto al verbo, significa quanto apresso e’ Latini Ut e Quod, come dicendo:
I’ voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai. E’ nomi, quando e’
dimostrano cosa non certa e diterminata, [p. 181]si pronunziano senza primo e
quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi porti
amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora si
pronunziano coll’articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto. E’
nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo
sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu
fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, el primo, el
secondo, ecc. Uno, due, tre, e simili, quando e’ significano ordine, vi
si pone l’articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l’uno. Il dua è numero
paro, ecc. Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s’usa
come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio. Gli articoli hanno
molta convenienza co’ pronomi, e ancora e’ pronomi hanno grande similitudine con
questi nomi relativi zs qui recitati. Adonque suggiungeremogli. De’
pronomi, e’ primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui.
Mutasi l’ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella,
essa. Solo io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino. E’
plurali di questi primitivi pronomi sono vari, e anche e’ singulari. Declinansi
così: Io e i’: di me: a me e mi: me e mi: dame. Noi: di noi: a noi e ci:
noi e ci: da noi. Tu: di te: ⟨a te⟩ e ti: te e ti: o tu: da te. Voi: di voi:
a voi e vi: ⟨voi e
vi⟩: o
voi: da voi. Esso ed e’: di se e si: se e si: da se; ed Egli. Non
troverrai in tutta la lingua toscana casi mutati in voce altrove che in questi
tre pronomi: io, tu, esso. Gli altri primitivi se declinano così:
Questo: di questo: a questo: questo: da questo. Quello: di quello: a
quello: quello: da quello. Muta o in i e arai el plurale, e dirai:
Questi: di questi: a questi: questi: da questi. [p. 182] E il
somigliante fa quelli E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli
in singulare; ma in plurale costui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di
coloro, a coloro, coloro, da coloro. Questo e quello mutano o in a e
fassi el femminino singulare, e dicesi: questa e quella; e fassi il suo
plurale: queste, di quelle, a quelle. Lui, costui, colui, mutano u in e e
fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In
plurale hanno quella voce che e’ masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di
costoro, a costoro, ecc. Vedesti come, simile a’ nomi propri, questi pronomi
primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa similitudine
fanno e’ pronomi derivativi, quando e’ sono subiunti a e’ propri nomi. Ma
quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co’ suoi articoli.
Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così: El mio, del mio, ecc.,
e plurale: e’ miei, de’ miei,ecc. El nostro, del nostro, ecc. E plurale: e’
nostri, de’ nostri, ecc. El tuo. Plurale: e’ tuoi. El vostro. Plurale: e’
vostri. El suo. E pluraliter: e’ suoi, ecc. Mutasi, come a e’ nomi,
l’ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso in e, fassi el
plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue. In uso
s’adropano questi pronomi non tutti a un modo. E’ derivativi, giunti a
questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano senza
articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc. Mi e me, ti
e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come di
sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si dice
mi, ti, ci, ecc.; come qui: e’ mi chiama; e’ ti vuole; que’ vi chieggono; io mi
sto; e’ si crede. Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro
pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi. [p. 183] Si al
verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome, si dirà: -i, come qui:
aspettaci, restaci, scrivetemi. Lui e colui dimostrano persone, come
dicendo: lui andò, colei venne. Questo e quello serve a ogni
dimostrazione, e dicesi: Questo essercito predò quella provincia, e: Questo
Scipione superò quello Annibale. E’ ed el, lo e la, le e gli, quali,
giunti a’ nomi, sono articoli, quando si giungono a e’ verbi, diventano
·pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le
biasimi; Chi gli vuole? Ma di questi, egli ed e’ hanno significato
singulare e plurale; e, preposti alla consonante, diremo e’, come qui: e’ fa
bene; e’ corsono. E, preposti alla vocale, si giugne e’ e gli, e dicesi: egli
andò; egli udivano. E quando ⟨segue⟩ loro s
preposta a una consonante, ancora diremo: egli spiega; egli stavano.
Potrei in questi pronomi essere prolisso, investigando più cose quali
s’osservano, simili a queste: Vi preposto a’ presenti singulari
indicativi, d’una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due v, e
simile in la seconda persona presente imperativa, come stavvi e vavvi; e ne’
verbi, d’una e di più sillabe, la prima singulare indicativa del futuro, come
amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose
più particulari diremo altrove. Sequitano e’ Verbi
Non ha la lingua toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere el passivo,
compone con questo verbo sono, sei, è, el participio preterito passivo tolto da
e’ Latini, in questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E
simile, si giugne a tutti e’ numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo
porremo qui distinto. [p. 184] Indicativo Sono, sei,
è. Plurale: siamo, sete, sono. Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo,
eravate e savate, erano. Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti,
furono. Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate,
erano stati. Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno.
Hanno e’ Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo,
si dice cosi: Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati.
E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli.
Imperativo Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate, siano.
Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc. Ottativo
Dio ch’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.
Dio ch’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati. Dio
ch’io fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.
Dio ch’io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate, siano.
Subientivo Bench’io, tu, lui sia. Plurale: siamo, siate,
siano. Bench’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi,
fussero. Bench’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati.
[p. 185] Bench’io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi,
fussero stati. Bench’io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo, sarete,
saranno stati. E usasi tutto l’indicativo di questo e d’ogni altro verbo,
quasi s come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni: se, quando,
benché, e simili. E dicesi: bench’io fui; se e’ sono; quando e’ saranno.
Infinito Essere, essere stato Gerundio
Essendo Participio Essente Dirassi
adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò lodato;
tu sei reverito. Hanno e’ Toscani certo modo subientivo, in voce, non
notato da e’ Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei,
saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero. E dirassi così:
Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori della patria, e’
sarebbero più felici. Sequitano e’ verbi attivi Le
coniugazioni de’ verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino,
levatone le ultime tre ·lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona singulare
indicativa e presente. Ecco l’essemplo: amando, levane ndo, resta ama;
scrivendo, resta scrive. [p. 186] Sono adonque due coniugazioni: una che
finisce in a, l’altra finisce in e. Alla coniugazione in a, quello a si
muta in o, e fassi la prima persona singulare indicativa e presente; e mutasi
in i, e fassi la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la
similitudine qui, in questo esposto: Indicativo Amo, ami,
ama. Plurale: amiamo, amate, amano. Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo,
amavate, amavano. ⟨Amai,
amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono⟩. Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno
amato. Amerò, amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno.
In questa lingua ogni verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in
questa coniugazione prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativa
del preterito. Ma ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o
longo, e quella del presente lo fa o breve. Imperativo Ama
tu, ami lui. Plurale: amiamo, amate, amino. Amerai tu, amerà colui.
Plurale: ameremo, ecc. Ottativo Dio ch’io amassi, tu amassi,
lui amasse. Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero. Dio
ch’io abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noiu abbiamo, abbiate,
abbino amato. Dio ch’io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio
che noi avessimo, avessi, avessero amato. Dio ch’io, tu, lui ami.
Plurale: amiamo, amiate, amino. [p. 187] Subientivo
Bench’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino. Bench’io, tu
amassi, lui amasse. Plurale: amassimo, amassi, ⟨amasse⟩ro.
Bench’io abbia, abbi, abbia amato. Plurale: abbiamo, abbiate, abbino
amato. Bench’io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: avessimo,
avessi, avessero amato. Bench’io arò, arai, arà amato. Plurale: aremo,
arete, aranno amato. Assertivo Amerei, ameresti, amerebbe.
Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero. Infinito amare, avere
amato. Gerundio Amando. Indicativo Amante.
Vedi come a e’ tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano
sue proprie voci, e per questo si composero simile a’ verbi passivi: el suo
participio co’ tempi e voci di questo verbo ho, hai, ha. Qual verbo,
benché e’ sia della coniugazione in a, pur non sequita la regola e similitudine
degli altri, però che egli è verbo d’una sillaba, e così tutti e’ monosillabi
sono anormali. [p. 188] Né troverrai in tutta la lingua toscana verbi
monosillabi altri che questi sei: Do; Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque
qui sotto distinti. Ma, per esser breve, notiamo che e’ sono insieme
dissimili ne e’ preteriti perfetti indicativi, e ne’ singulari degli
imperativi, e nel singulare del futuro ottativo, ne’ quali e’ fanno così:
Do: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti, dettero. Fo: feci,
facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero. Ho: ebbi, avesti, ebbe.
Plurale: avemo, avesti, ebbero. Vo: andai, andasti, andò. Plurale:
andamo, andasti, andarono. Sto: stetti, stesti, stette. Plurale: stemo,
stesti, stettero. Tro: tretti, traesti, trette. Plurale: traemo, traesti,
trettero. In tutti e’ verbi, come fa la seconda persona singulare del
preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti, desti, leggesti.
Do: da tu, dia lui. Fo: fa tu, faccia lui. Ho: abbi tu, abbia lui.
Vo: va tu, vada lui. Sto: sta tu, stia lui. Tro: tra tu,
tria lui. Do: Dio ch’io dia, tu dia, lui dia. Fo: faccia, facci,
faccia. Ho: abbia, abbi, abbia. Vo: vada, vadi, vada. Sto:
stia, stii, stia. Tro: tragga, tragghi, tragga. Sequita la
coniugazione in e. Questa si forma simile alla coniugazione in a. Mutasi
quello e in o, e fassi la prima presente indicativa. Mutasi in i, e fassi la
[p. 189]seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte, resta legge,
scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia dalla
coniugazione in a in que’ luoghi dove variano e’ monosillabi. Ma questa
coniugazione in evaria in più modi, benché comune faccia e’ preteriti perfetti
indicativi in -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que’ verbi
che finiscono in -scofanno e’ preteriti in -ii per due i, come esco, uscii;
ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella lingua
toscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si eccettuano
cresco ed e’ suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali finiscono, a’
preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi. Item, nasco fa
nacqui, e conosco fa conobbi. E que’ verbi che finiscono in mo fanno e’
preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in dofanno e’
preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo fa
vidi; odo, udi’; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono in
ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi; eccetto
vendo fa vendei e vendetti. Sonci di queste regole forse altre eccezioni,
ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui diletterà
ornare la patria nostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi. Dicemo de’
preteriti, resta a dire degli altri. Imperativo Leggi tu, legga
colui. Ottativo Futuro singulare: Dio ch’io scriva, tu
scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi impersonali si formano della
terza persona del verbo attivo in tutti e’ modi e tempi, giuntavi si, come:
amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole trasporlo innanzi al verbo,
giuntovi e’, e dicesi: e’ si legge; e’ si corre; e massime nell’ottativo e [p.
190]subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e’ s’ami; quando e’ si
leggerà, e simile. sequitano le preposizioni Di queste
alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre, sino, dietro, doppo,
presso, verso, ’nanzi, fuori, circa. Preposizioni che caggiono in
composizione e ancora s’adoperano seiunte, sono di una sillaba o di più.
D’una sillaba sono queste: De: de’ nostri; detrattori. Ad: ad altri; admiratori.
Con: con certi; conservatori. Per: per tutti; pertinace. Di: di tanti; diminuti.
In: in casa; importati. Di, preposto allo infinito, ha significato quasi come
a’ Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d’essere amato. Quelle de più
sillabe sono queste: Sotto sottoposto Sopra sopraposto e dicesi Entro entromesso Contro contraposto
Preposizioni quali s’adoperano solo in composizione: Re, sub, ob, se, am, tras,
ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e circumspetto.
Sequitano gli avverbi Per e’ tempi, si dice: oggi, testé, ora,
ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai, sempre, presto, subito.
[p. 191] Per e’ luoghi, si dice: costì, colà, altrove, indi, entro,
fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si dice: Io voglio
starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro ivi. Pelle
cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno. Negando, si dice: nulla,
no, niente, né. Affirmando, si dice: sì, anzi, certo, alla fe’.
Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto. Dubitando:
forse. Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così, bene, male,
peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto. Usa la lingua toscana questi
avverbi, in luogo di nomi, giuntavi l’articolo, e dice: el bene, del bene,
ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere, del
leggere. Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in
principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e
dicesi: el tuo buono amare mi piace. Item, a similitudine della lingua
gallica, piglia el Toscano e’ nomi singulari femminini adiettivi e aggiungevi
-mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente. Interiezioni
Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma, do.
Coniunzioni Sono queste: mentre, perché, senza, se, però, benché,
certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic). E congiunge; né
disiunge; o divide; senza si lega solo a’ nomi e agli infiniti. E dicesi: senza
più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano indotti; o piaccia o
dispiaccia questa mia invenzione. E questo ne ha vario significato e
vario uso. Se si prepone simplice a’ nomi, a’ verbi, a’ pronomi, significa
negazione, come [p. 192]qui: né tu né io meritiamo invidia. E significa in; ma,
aggiuntovi t, serve a’ singulari masculini e femminini; e senza l, serve a’
plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri plurali, masculini e
femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla consonante, pur si dice:
nello spazzo, nelle camere, ne’ letti, nello essercito di Dario, negli
orti. E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome, significa di
qui, di questo, di quello, secondo che l’altre dizioni vi si adatteranno, come
chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene. E questo ne, posposto al verbo,
sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e più, o significa
interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l’indicativo
monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due
n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va’ ne tu?
vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne,
danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi
monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e
dicono: fonne, vonne, honne. Se sarà el verbo di più sillabe, la
interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e’ tempi, eccetto la
affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera’ ne
tu? porteronne. E questo sino qui detto s’intenda per e’ singulari, però che a’
plurali si scrive quello ne sempre per uno n, come andiamone. Non mi
stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e’ principi
d’investigare lo avanzo. E’ vizi del favellare in ogni lingua sono o
quando s’introducono alle cose nuovi nomi,o quando gli usitati si adoperano
male. Adoperanosi male, discordando persone e tempi, come chi dicesse: tu
ieri andaremo alla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato
alieno, come chi dice: processione pro possessione. Introduconsi nuovi
nomi o in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte mutati. Alieni
sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo
militò in Italia, come elm, vulasc, [p. 193]sacoman, bandier, e simili. In
qualche parte mutati saranno quando alle dizioni s’aggiungerà o minuirà qualche
lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno
come chi dicesse: replubica pro republica, e occusfato pro offuscato; e quando
si ponesse una lettera per un’altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco,
inimisi, pro inimici. Molto studia la lingua toscana d’essere breve ed espedita,
e per questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma
questi vizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più atta, come
chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l’ultima vocale, e dice
papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s’usa che a tutti
gl’infiniti, quando loro segue alcuno pronome in i, allora si getta l’ultima
vocale e dicesi: farti, amarvi, starei, ecc. E, mutando lettere, dicono
mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo, paio pro paro, inchiuso pro incluso,
chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuolepro vole, scuola pro scola, cielo
pro celo. E, in tutto troncando le dizioni, dice vi pro quivi, e
similiter, stievi pro stia ivi. Si questo questo nostro opuscolo sarà
tanto grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el congettarlo, certo mi
diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare e raccorre
queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle. Laudo Dio che in la
nostra lingua abbiamo omai e’ primi principi: di quello ch’io al tutto mi
disfidava potere assequire. Cittadini miei, pregavi, se presso di voi
hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare
la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in parte
alcuna ci vedete errore. Della Thoscana senza auttore; cc. 55r-94v: Ant.
Galateus de Sìtu Iapigiae; cc. 95r-104v: Ant. Turcheti Oratio; cc. 105r-108v: Iusti
Baldini [Oratio]; cc. 109r-113v: una rassegna delle regioni di Roma antica,
attribuita a Paulus Victor. Per la descrizione e la storia del codice vedi
l’ed. del 1964, pp. xi-xviii, cit. qui sotto. [p. 362] Firenze
Biblioteca Riccardiana 2. Cod. Moreni 2. Cod. cart. sec. XV, contenente tre
opere dell’Alberti precedute da un foglio di guardia in pergamena, ora num. I,
al cui verso:figura l’abbozzo autografo dell’Ordine delle Lettere,
corrispondente con alcune varianti all’inizio della grammatica nel cod.
Vaticano. Per la descrizione del cod. vedi vol. II, pp. 405 sgg. della presente
edizione e cfr. C. Colombo, L. B . Alberti e la prima grammatica italiana, in
«Studi Linguistici Italiani)), III, 1962, pp. I76-87, e la nostra ed. cit. qui
sotto, pp. vi-viii. edizioni 1. C . Trabalza, Storia della
grammatica italiana, Firenze, 1908, pp. 531-48. 2. L. B. Alberti, La
prima grammatica della lingua volgare, a cura di C. Grayson, Bologna,
Commissione per i Testi di Lingua, 1964. B) LA PRESENTE EDIZIONE Il
testo della presente edizione è in sostanza quello medesimo da noi pubblicato
nel 1964. Ci siamo limitati a correggere alcune sviste ed errori tipografici e
ad introdurre qualche lieve emendamento in seguito alle osservazioni fatte in
recensioni a quella edizione del 1964, tra cui l’attento esame
particolareggiato di Ghino Ghinassi in «Lingua Nostra», XXVI, pp. 31-32. Quanto
scrivemmo allora intorno alla data del cod. Vaticano andrebbe ora qualificato
seguendo il giudizio del compianto Roberto Weiss, cioè che si tratta di copia
fatta più tardi di un manoscritto, ora perduto, copiato nel 15081. Tale precisazione
però non incide sulla costituzione del testo né cambia i criteri adottati nella
presentazione della grammatica quale figura nel cod. Vaticano. A parte qualche
correzione e integrazione, di cui diamo ragione nell’apparato, abbiamo
[p. 363]seguito fedelmente il manoscritto, ritoccando soltanto la grafia nei
casi seguenti: distinguendo u da v, togliendo e aggiungendo h secondo i casi,
livellando in doppia qualche scempia inerte smentita da doppia corretta (e
viceversa). Abbiamo pure rammodernato la punteggiatura irregolare del codice, e
modificato gli accenti salvo nello specchio delle Vocali, dove è indispensabile
rispettare l’originale. Riguardo a questo specchio, perché il lettore possa
apprezzare pienamente le varianti col frammento del cod. Mor. 2, riproduciamo a
p. sg. il facsimile dell’Ordine delle lettere pella lingua toschana, che
dovette rappresentare una prima stesura dell’inizio della grammatica quale
appare nel cod. Vaticano2. La scoperta di questo frammento autografo,
aggiunta alle prove interne, soprattutto di carattere linguistico, da noi
esposte minutamente nella edizione citata, hanno reso oramai certa
l’attribuzione di questa grammatica all’Alberti. Non occorre qui insistere su
un problema già risolto definitivamente; basti rimandare per ogni ulteriore
informazione alla introduzione a quella edizione. Né avremmo altri elementi da
aggiungere alla ipotesi ivi formulata che l’Alberti abbia steso questa
grammatica durante il quinto decennio del sec. XV, o comunque non più tardi del
nov. 1454, data in cui scrivendo a Matteo de’ Pasti (vedi pp. 291 sgg. di
questo volume) adoperò lo spirito aspro greco per distinguere è verbo da
earticolo, proprio come nella grammatica. Per l’importanza di questa
innovazione e per la piena illustrazione del testo della grammatica, si veda
l’edizione citata. L’opera è priva di titolo nei codici. Le diamo qui quello di
Grammatica della lingua toscana, fondandoci suglì accenni interni, nel 1°
paragrafo per la «grammatica» e passim per la «lingua toscana». C) APPARATO
CRITICO p. 177. 14. Alla forma particolare del g per significare il suono
gutturale sostituiamo, sull’analogia di ch, gh(cfr. facsimile Cod. Mor. 2) rg.
Cod. giro giro alcio(ma cfr. Cod. Mor. 2). p. 179. 6. Il copista avrà saltato
per sbaglio il vocativo. p. 180. 25. Cod. sono e sei e serve. [p. 364]
firenze, Bibl. Riccardiana, Cod. Moreni 2. Foglio grammaticale autografo di L.
B . Alberti (cfr. p. 177-78). [p. 365] p. 181. 15. Cod. similitudini com 25-26.
L'analogia delle altre serie consiglia le integrazioni. p. 183. 2. Cod.
aspettoci, che potrebbe anche correggersi in aspettati (come propone il
Ghinassi) 16. Accogliamo l'integrazione già proposta dal Trabalza, op. cit., p.
540 19. Cod. quasi s'osservano30. Cod. si giugni. p. 184. 18. Cod. fussimo
fussir fussero stati. p. 183. 3. Cod. saremo, sarete, sareste stati 6. Cod.
questi. p. 186. 9. Cod. amàvamo, con l'accento sulla terzultima, dopo aver
cancel- lato l'accento sulla penultima (sono d'accordo ora col Ghinassi che
sarebbe difficile sostenere che l'accento sulla terzultima risalga senza dubbio
all'originale) 10. Introduco le forme del preterito, sal- tato dal copista (ma
se ne parla subito dopo alle r. 16-17) 28. Cod. Dio ch'io ami tu lui ami (cfr.
187, 3). p. 187. 11. Cod. amerai. p. 188. 2. Nel marg. del cod. il copista ha
scritto So, per indicare l'omissione di questo verbo nella serie di verbi
monosillabi 4. Cod. notamo, che non può valere come perfetto qui, e perciò va
corretto in notiamo 26. Cod. tragga traggi tragga. p. 189 7-8. Cod. anigittisco
anigittii 19. Cod. forsi. p. 190. s. Cod. sine 23. Cod. quale. p. 191. 3. Cod.
verrovi (ma sarebbe contro la regola già stabilita a p. 183) 6. Cod.
affirimando 24. Cod. ne osegi, da cui si deve staccar l’o per quel che si dice
subito appresso, lasciando un segi problematico (forse errore di trascrizione
per e.g. o per etc.?). p. 192 s. Cod. camemere 10. Cod. preposto, ma, come
osserva il Ghinassi, deve essere un errore 17. Cod. lezione incerta tra siane,
diane 36. Cod. Vulase saceman; correggiamo il primo in vulasc per conformità
con la serie di 'nomi barberi' tutti terminanti in consonante, senza però
poterne spiegare il significato; il secondo (p. 193, I) in sacoman anziché
supporre una forma sachemanaltrimenti non attestata. p. 193. 11 . La lezione
papi è chiara nel cod. ma difficile a spiegare (si è pensato a pabbio, papeo,
papiro). ↑ Vedi «Italian Studies», XX, 1965, pp. 109-10. ↑ Per la discussione e
illustrazione del foglio autografo del cod. Mor. 2 vedi l’art. cit. sopra di C.
Colombo. InFirenze,tragliuomini di studio,educati cioèaglistudi
umani,sidistinseroaquestopropositogl'ingegniliberida ogni abito di
pedantería,che non s'erano allontantanati con superbo fastidio dalla fonte di
quelle vene, soprattutto gli artisti e gliuomini d'azione.E tra questi,chi
meglio conobbe ilvalore di questo luminoso mezzo che il suo popolo gli offriva,
e insieme intravide il lavoro che la mente e la volontà fanno nella formazione
e nell'uso della parola, fu l'antico grande cittadino nato in esilio, l'umanista
architetto, l'abbreviatore · moralista della famiglia, il raccoglitore e
innovatore della ·F. TORBACA,Rimatori napoletani del secolo X V ,in Discus
sioni e ricerche letterarie, Livorno, Vigo,1888,pagg.166 e 135 eseguenti.
217 tradizione formatasi a Santa Maria Novella?,cioè Leon Bat:
tista Alberti. Egli primo, o più preparato e franco di tutti, si mosse a difesa
del « volgare idioma »,che sentiva « degno d'onore » con « vere ragioni », « in
diverse maniere » pro vando 2 : e una di queste maniere fu probabilmente quella
di far riconoscere nella lingua che per lui era paterna, l'ordine grammaticale
; che cioè l'uso di quella lingua è ordinato e legittimo non meno del latino,e
che si può raccogliere in « ammonizioni atte a scrivere e favellare senza
corruttela »; che insomma in quest'uso comune e stabile sono applicate leggi di
ragione. Intendo che probabilmente a lui si devono quei Primi principij della
grammatica o della lingua toscana, cioè quel geniale « saggio... d'una
grammatica dell'uso vivo di Firenze 3 » che i Medici conservarono a noi, e che
ora Le prime linee del suo trattato della Famiglia l'Alberti le tolse
dall'opuscolo di Giovanni Dominici a Bartolomea Obizzi negli Alberti,noto col
titolo Regola del governo di cura famigliare. V.lo nell'ediz. SALVI, Firenze,
Garinei, 1860. 2 Queste parole sono di Michele del Giogante.V. FR .FLAMINI, La
lirica toscana del Rinasciniento anteriore ai tempi del Magni.
fico,Pisa,Nistri,1891,pagg.8-9.Cfr.O. Bacci,op.cit.,pag.86.
*L.MORANDI.LorenzoilMagnifico,Leonardoda Vincie la prima grammatica
italiana;Leonardo eiprimi vocabolari:ricerche: Città di
Castello,Lapi,1900,pag.146. Ma cfr.F. SENSI,Ancora di L. Alberti grammatico, in
Rendiconti del R. Ist. lombardo, Serie II,vol.XLII (1909).L'opuscolo è
pubblicato in appendice alla Storia della grammatica italiana di C.
TRABALZA,Milano, Hoepli, 1908. Propongo qui l'opinione che mi par più
probabile,anche dopo che il Morandi ha difeso la sua nell'articolo Per Leonardo
da Vinci e per la « Gramatica di Lorenzo de' Medici », nella Nuova Antologia 1°
ottobre 1909. Il titolo,che la copia vaticana dell'opu. scolo ha,non esemplato
dall'originale,e nel foglio di guardia da altra mano che quella dell’amanuense
segnato,DELLA THOSCANA SENZA AUTTORE,mi pare si possa desumere qual era nella
mente di questo autore dal ringraziamento finale (c.16a):«LaudoDio che in la
nostra lingua habbiamo homai e' primi principij; di 218 1
dimostra in chi l'ha dato l'antico cittadino italiano e il filo logo
moderno. Così Leon Battista dette primo alla patria sua,fuori della quale era
nato, la corona della lingua: e da lui n'ereditò la difesa ilgiovanetto figlio
di Piero dei Medici (cioè del fautore di lui in quest'opera) e di Lucrezia
Tornabuoni : il quale, seguendo il suo genio nativo,che lo conduceva all'acquisto
della grandezza, cercò esser popolare 1 »; e de'suoi grandi intendimenti,e
delle cure che gl'imponeva ilprincipato nella sua città, voluto e mantenuto ad
ogni costo, non credeva nu trito », « aggiungendosi ... prospero successo ed
augumento al fiorentino imperio 2 » si estendesse e diventasse comune ad altre
città e province, come Roma avea fatto della quello ch'io al tutto m i
disfidaua potere assequire ». Ch'egli poi le ammonitioni » di quest' a arte »
anche « in la lingua nostra » chiamasse «suo nome,Grammatica » lo dice
espressamente nel proemio ; e quest'esempio ci dà facoltà d'argomentare per a n
a logia, che anche l'Alberti indicando un suo lavoro con le parole De litteris
atque coeteris principiis grammaticae abbia potuto intendere aquesta arte... in
la lingua nostra ».Del resto, una annotazione
assaisimileadaltradellaGrammatichetta,traquelle del Colocci, nel vatic.4817
(c.68a;sotto iltitolo aLingue de variiBarbari »),mi fa supporre ch'egli
conoscesse quell'opuscolo, perluiprezioso,cheeranellaLibreriadeMedici
«senzaauttore»; egli che,in Roma,quella libreria frequentava, come prova, se
non altro,l'indicazione che sitrova nell'altrosuo ms.,ilvat.3217 (c. 329 b): a
Bapta Alberto in libreria de medici de Rythmis ». A proposito della quale opera,altrove
(4817,c.139),dice che stima facesse dell'autore: «Leon Alberto huomo alli tempi
nostri di dottrina et d'ingegno a nullo inferiore ». Questo sia detto col
rispetto dovuto all'autorità di Luigi Morandi, nel comune amore del vero. 1
GINO CAPPONI, Storia della repubblica fiorentina, Firenze,
Barbèra,1875,t.II,pag.191. Cfr.0. BACCI,Op.cit.,pag.69. 2 Commento del Mco L.
DE M. sopra alcuni de'suoi sonetti, nelle sue Opere,Firenze,Molini,1825,vol.IV.
ultima questa, che la lingua « nella quale era nato e 219 220
latina. Allo stesso modo poi il figliuolo suo Giovanni, che venne veramente,
come allora si diceva, a capo delle cose del mondo col nome di Leon X , voleva
tenuta in onore diffusa la lingua latina serbata nella ecclesiastica e allora
restaurata secondo l'esemplare augustèo 1: inter caeteras curas, quas in hac
humanarum rerum curatione divinitus nobis concessa, subimus, non in postremis
hanc quoque habendam ducimus, ut latina lingua nostro Pontificatu dicatur facta
auctior . Così dunque Lorenzo raccolse l'eredità dell'antica lingua fiorentina
da Leon Battista e dagli altri generosi custodi e difensori di essa della
generazione anteriore, e ne fece la lingua dotta della sua corte popolana, uno
strumento di regno. Quanto il suo esempio fosse efficace sui prìncipi con
temporanei, lo dice un cortigiano della generazione a lui se guente,Vincenzo
Colli oda ColledettoilCalmeta,chedisegnò e difese l'ideale della lingua
cortigiana : « La vulgar poesia et arte oratoria, dal Petrarca e Boccaccio in
qua quasi adulte . rata, prima da Laurentio Medice e suoi coetanei, poi m e
diante la emulatione di questa et altre singularissime donne di nostra etade,
su la pristina dignitade essere ritornata se comprehende2».E
questadonnaeraBeatriced’Este,lagio vane sposa di Ludovico il Moro, e le
principali tra le altre erano la sorella maggiore di lei sposa del marchese
Francesco Gonzaga,Isabella,ed Elisabetta Gonzaga sposa di Guidubaldo da
Montefeltro duca d'Urbino. Breve a Franc.De Rosis scritto dal Sadoleto,citato
dal PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del M. evo,vol. IV,p. Nella Vita di
Serafino Aquilano in fronte alle Rime di lui, ediz.cit., (Leon X
),trad.Mercati,Roma,Lefebvre,1908,pag.410. I e 1 pag.11.. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice ed Alberti," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Albertini (Pavia). Filosofo.
Grice: “H. L. A. Hart calls Albertini a Proudhonian!” -- Grice: “I like
Albertini; like me, he has dedicated his life to ‘fides,’ or ‘una federazione
di due,’ “a garden of Eden just meant for two” – fiducia, fedes – what Remo
asked from Romolo, but failed!” Filosofo.
Insegna a Pavia. Sostene un progetto di
unione federalista per l'Europa alla guida del Movimento Federalista Europeo e
della Unione dei Federalisti Europei. Adiere al Movimento federalista europeo. Di
idee liberali, lascia tuttavia il Partito Liberale dopo la decisione di
quest'ultimo di appoggiare la monarchia nel referendum. Dopo la laurea in
filosofia divenne docente di Storia contemporanea, Dottrina dello Stato,
Scienza della Politica e Filosofia della politica a Pavia. In seguito alla
sconfitta sul progetto di Esercito Europeo, la CED, e alle dimissioni di
Spinelli, lo sostitue alla guida del Movimento Federalista Europeo. A Milano
con un gruppo di militanti del Movimento federalista europeo fonda Il Federalista
che si occupa del dibattito sui temi di fondo del federalismo. Diresse il Mfe italiano. Presidente
dell'Unione dei Federalisti Europei. È poi rimasto come figura di riferimento e
d'indirizzo all'interno del Mfe. A livello teorico, fin dalle pagine taglienti
e polemiche su Lo Stato nazionale, sostene, sulla scia di Einaudi, che a furia
di voler custodire una sterile sovranità, lo stato italiano e ridotto a
"polvere senza sostanza". Da lì l'esigenza di guardare
all'unificazione europea come alla medicina d'urto indispensabile. Maestro di
federalismo, articolo di Arturo Colombo, Corriere della Sera, Archivio storico. Lo Stato nazionale, La politica, Giuffré, Il
federalismo e lo stato federale, Giuffré, Che cos'è il federalismo,
L'integrazione europea, Proudhon, Vallecchi, Tutti gli scritti, Nicoletta
Mosconi, Il Mulino, Movimento Federalista Europeo Unione dei Federalisti
Europei Centro studi sul federalismo:
perspectives on federalism , su on-federalism.eu. Il Federalista: "Mario
Albertini teorico e militante" di Nicoletta Mosconi su thefederalist.eu.
Centro studi sul federalismo: Opere di Mario Albertini, su csfederalismo. youtube:
1985 Mario Albertini commenta la manifestazione federalista di Piazza Duomo, su
youtube.com. V D M Logo MFE.svg Federalismo europeo Flag of Europe.svg. E’ per
me un grande onore essere stato invitato a fare una relazione a questo convegno
per ricordare Mario Albertini, un uomo che ha fatto tanto per noi federalisti,
per l’Europa e per l’umanità intera. Questo onore è particolarmente
significativo per me perché egli, come Altiero Spinelli, ha fatto del pensiero
della scuola inglese degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, insieme a
quello dei Padri fondatori americani, la base del suo pensiero federalista.
Albertini spiegò che mentre il pensiero fondato sulla fonte inglese ha dato una
risposta alla domanda “perché creare la Federazione europea?”, quello fondato
sulla fonte americana ha dato una risposta alla domanda “come crearla?”[1].
Quanto alla domanda “quale forma di federazione?”, la risposta, per Albertini
come per gli inglesi, era contenuta nella Costituzione degli Stati Uniti
d’America. Il problema che oggi voglio affrontare riguarda il modo in cui
il pensiero di Albertini ha sviluppato queste due tradizioni federaliste. In
generale si può dire che egli è stato il massimo esponente del pensiero
hamiltoniano della seconda metà del Novecento, oltre che il creatore della
scuola federalista italiana. Egli è stato non solo un esponente, ma anche un
innovatore, spesso illuminando il pensiero di altre scuole, in altri casi
differenziandosi con contributi originali. Quale forma di
federazione. Per Albertini, come per Spinelli e per la scuola inglese, la
questione centrale era la trasformazione di Stati a sovranità assoluta in Stati
federati in uno Stato federale. Per loro il federalismo di Althusius o di
Proudhon – considerato da Albertini come “una tecnica… per il decentramento del
potere politico”[2] – non era di grande rilievo. Albertini sosteneva che
Proudhon “era rimasto, quanto alla concezione dello Stato, un anarchico”,
benché egli lo abbia definito anche un “grande presbite” che “ha previsto quale
sarebbe stato il limite tragico della democrazia nazionale qualora non avesse
trovato i suoi correttivi nella democrazia locale e nella democrazia europea”.
Albertini affermava inoltre che il federalismo richiede “la creazione di orbite
di governo democratico locale ad ogni livello di manifestazione concreta delle
relazioni umane”[3]. Ma egli concentrò il suo pensiero sulla creazione di una
federazione tra Stati sovrani, essenziale per garantire la pace fra loro.
Mentre gli scrittori della scuola inglese si erano attenuti ad un’esposizione
classica della forma di una tale federazione, Albertini ne fece la migliore
rielaborazione della seconda metà del Novecento[4]. Sia la scuola inglese, sia
Albertini, condividevano la preferenza per il sistema europeo basato su un
esecutivo parlamentare piuttosto che quello presidenziale americano, pur
accettando per il resto gli elementi principali della Costituzione americana.
Albertini riteneva cioè più valido un “governo responsabile di fronte al
Parlamento europeo… come istanza di controllo democratico dell’attività dell’Unione”[5].
Egli arricchì il pensiero federalista anche con la sua analisi della relazione
tra nazione e Stato[6]. Secondo lui, lo Stato nazionale, con il suo dispotismo,
danneggia la vita dei cittadini, ponendo restrizioni allo sviluppo economico e
provocando la guerra[7]. I suoi limiti si manifestano anche nella
“contraddizione tra l’affermazione della democrazia nel quadro nazionale e la
sua negazione nel quadro internazionale”, che pregiudica anche l’affermazione
del liberalismo e del socialismo a livello nazionale[8]. Lo Stato nazionale
dovrebbe essere sostituito con uno Stato federale plurinazionale; la
Federazione europea sarebbe “un popolo di nazioni, un popolo federale”, e non
“un popolo nazionale”; il federalismo prevede una struttura di Stati democratici
plurinazionali fino al livello mondiale[9]. Il pensiero della scuola inglese su
questo tema non era diverso, ma l’analisi di Albertini è più
approfondita. Negli anni Trenta, la scuola inglese indicò nel federalismo
la soluzione alproblema della guerra. Dal punto di vista logico, l'obiettivo
finale non può che essere una federazione mondiale, ma essa è realizzabile solo
nel lungo periodo. Parecchi, quindi, sostenevano la proposta di Clarence Streit
per una federazione di quindici democrazie, Stati Uniti inclusi, per impedire
una guerra provocata dall’Asse. Ma l’America isolazionista non era disponibile
e nel 1939 i leader della scuola inglese si indirizzarono verso l’ipotesi di
una federazione delle democrazie europee, in attesa dell’adesione degli Stati
allora fascisti dopo il loro ritorno alla democrazia. Questo fu
naturalmente il punto di partenza per Albertini che, dopo il rifiuto del Regno
Unito di partecipare alla Comunità europea, prefigurò, per cominciare, “una
Federazione europea comprendente almeno i sei paesi che hanno preso la testa
del processo di unificazione”, e poi la sua “estensione graduale a tutta
l’Europa”[10]. Quando il Regno Unito entrò nella Comunità, egli aggiunse che
“bisogna attendere che l’adesione alla Comunità dia i suoi frutti”[11].
Attendiamo ancora questi frutti – e speriamo bene! Kenneth Wheare
indicava “la somiglianza di istituzioni politiche” fra gli Stati membri come
una condizione della formazione di una federazione[12]. Albertini fu più
preciso, affermando che era necessaria, sia nella federazione che negli Stati
membri, “l’attribuzione della sovranità al popolo nel quadro del regime
rappresentativo, con la possibilità di sdoppiare la rappresentanza mediante la
doppia cittadinanza di ogni elettore”[13]. Questa condizione è divenuta
particolarmente rilevante per quanto riguarda le nuove democrazie candidate
all’adesione all’Unione, e rimane un problema cruciale per la creazione di una
federazione mondiale. Perché la federazione. Nel 1937 Lionel
Robbins pubblicò il libro Economic Planning and International Order,
analizzando le ragioni per le quali il quadro di una federazione internazionale
era essenziale per il buon governo di un’economia internazionale. Nel 1939, in
The Economic Causes of War, egli spiegò perché la causa della guerra non fosse
il capitalismo, bensì la sovranità nazionale, e concluse con un appello
appassionato per una Federazione europea[14]. Albertini ha ricordato che questi
libri furono le più importanti fonti federalistiche per Spinelli, quando era al
confino sull’isola di Ventotene[15]. Per la scuola inglese del
dopoguerra, come per Robbins nel1939, la pace era lo scopo del federalismo. La
pace era il “valore centrale” e “l’obiettivo supremo” del federalismo anche per
Albertini[16], la complessità del cui pensiero era talvolta nascosta dalla
semplicità delle sue formulazioni. Egli ha ricalcato il pensiero di Lord
Lothian definendo la pace non come “il semplice fatto che la guerra non è in
atto”, ma come “l’organizzazione di potere che trasforma i rapporti di forza
fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri”[17]. A partire dal 1981,
Albertini riconobbe che “con la lotta per l’unificazione europea si sono
ottenute le prime forme di politica europea e la fine della rivalità militare
fra i vecchi Stati nazionali dell’Europa occidentale”[18]. Cioè, per quanto
riguarda i rapporti reciproci fra questi ultimi, l’obiettivo della pace era già
stato raggiunto, mentre per alcuni Stati dell’Europa orientale, e soprattutto
per il mondo intero, esso rimaneva l’obiettivo supremo. Per i cittadini
dell’attuale Unione, dunque, altri obiettivi sono diventati più importanti.
Albertini ha citato dal Manifesto di Ventotene l’affermazione che la questione
di chi controlla la pianificazione economica è la “questione centrale”[19] (lo
stesso quesito che Robbins aveva proposto nel 1937), ma ha anche individuato
altri valori essenziali del federalismo contemporaneo: la sicurezza
ecologica[20], il rifiuto dell’egemonia (vedi le preoccupazioni di Carlo
Cattaneo e dei Padri fondatori americani)[21] e la democrazia negli Stati
nazionali, che la loro interdipendenza sta indebolendo sempre più[22]. Mi pare
che questi costituiscano gli elementi per spiegare i valori federalisti ai
cittadini dell’Unione europea di oggi. Per quanto riguarda alcuni Stati
dell’Europa centrale e orientale, invece, e soprattutto per il federalismo
mondiale, la pace rimane l’obiettivo di maggiore rilievo. La
Federazione mondiale. Nel suo libro The Price of Peace, pubblicato nel 1945,
William Beveridge spiegò che la sovranità nazionale è la causa della guerra, e
la rinuncia ad essa in una federazione mondiale il metodo per abolirla[23].
Benché egli riconoscesse che questo obiettivo era lontano e che nel frattempo
solo una confederazione sarebbe stata realizzabile, questo libro mi fece
avvicinare al federalismo come risposta alla terribile esperienza della guerra.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, la federazione mondiale sembrava una necessità
urgente a milioni di persone, di cui circa mezzo milione comprò Anatomy of
Peace di Emery Reves[24]. Nacquero movimenti per la federazione mondiale,
soprattutto nei paesi anglosassoni e in Giappone, leader politici come
l’ex-primo ministro Clement Attlee ne diventarono sostenitori, e si sviluppò
una letteratura mondialista. Ma il clima della Guerra fredda scoraggiò la
maggior parte di coloro che caldeggiavano quell’obiettivo e il pensiero
federalistico quasi lo abbandonò. Albertini fu un’eccezione. Egli era più
coerente, più tenace, più risoluto di altri nel confrontarsi con i fatti del
potere e con le sue conseguenze. Per lui, “il rischio della distruzione del
genere umano” legato alla bomba atomica era “assolutamente inaccettabile”[25].
Ma egli riconobbe, come Beveridge, che le condizioni per creare la Federazione
mondiale non erano presenti e che la lotta per un’Assemblea costituente,
fondamentale per la sua dottrina per quanto riguarda la Federazione europea,
non era ancora praticabile. La sua strategia per il federalismo mondiale era
dunque simile a quella dei federalisti anglosassoni: “il rafforzamento
dell’ONU”, insieme ad altri “obiettivi intermedi” nel “processo di superamento
degli Stati nazionali esclusivi”, processo che aveva “già raggiunto uno stadio
molto avanzato” nella Comunità europea[26]. Tipica del suo pensiero
federalistico era l’enfasi sui militanti federalisti, sulla necessità “di
costruire… un’avanguardia politica mondiale” per la creazione di una
Federazione mondiale[27]. Come creare la Federazione.
Albertini e la scuola inglese erano generalmente d’accordo sulla forma e sul
perché della Federazione. Ma le loro idee erano diverse sul come crearla.
Gli inglesi cercavano di influenzare il loro governo, negli anni Trenta e
Quaranta, perché adottasse una politica federalista per dare l’avvio ad una federazione,
e in seguito per costruire elementi pre-federali nelle istituzioni e nelle
competenze della Comunità. I principi fondamentali di Albertini erano invece
l’Assemblea costituente e il fatto che i federalisti dovevano rimanere estranei
alla lotta per il potere nazionale. Spinelli ha scritto che nel periodo
che va dal 1947 al 1954, egli aveva “lavorato sull’ipotesi che i principali
ministri moderati si sarebbero accinti alla costruzione federale”[28]: un
metodo assai simile a quello dei federalisti inglesi. Poi, dopo il fallimento,
nel 1954, del progetto per una Comunità politica europea, egli avviò il
Congresso del popolo europeo e lanciò la campagna per dar vita a un’Assemblea
costituente attraverso “una protesta popolare crescente… diretta contro la
legittimità stessa degli Stati nazionali”[29]. Quando diventò evidente a
Spinelli che la campagna non aveva il successo da lui sperato, concepì la
proposta che i federalisti acquisissero il potere in un numero crescente di
municipi importanti, come base per una successiva campagna. Albertini non
poteva accettare questa idea, che contraddiceva tutti i fondamentali principi
federalisti, e il Movimento federalista europeo fu d’accordo con lui. Spinelli,
infastidito, scrisse nel suo diario che per Albertini, “tentare di preparare
l’evento (della lotta finale) era sporco opportunismo, occorreva preparare sé
stessi all’evento”[30]. Spinelli era un politico geniale, capace di concepire e
condurre campagne d’azione culminate nello straordinario successo della sua
ultima battaglia, quella per il Progetto di Trattato per l’Unione europea al
Parlamento europeo. Ma egli non restava all’interno di regole stabilite, e la
sua tendenza ad iniziare successivi “nuovi corsi” e a impostare nuove strategie
presentava troppe difficoltà per un Movimento come il MFE. Albertini era
assolutamente convinto che bisogna rispettare certi principi fondamentali, che
egli seguiva con una coerenza e una tenacia eccezionali. Queste caratteristiche
furono cruciali per la sua posizione nella storia del pensiero federalistico,
mettendolo in grado non solo di sviluppare la propria opera intellettuale, ma
anche di fondare la scuola italiana del federalismo hamiltoniano. Una
differenza fra Albertini e gli inglesi era legata alla sua concezione del
pensiero storico, basata sul metodo weberiano secondo il quale, nelle sue
parole, “non ci sono conoscenze storiche senza quadri teorici di riferimento
specifico per ordinare i fatti e completarne il significato (‘tipi ideali’)”,
anche se “l’elaborazione teorica deve esser condotta solo sino al punto nel
quale essa rende possibile la conoscenza storica e non oltre, perché al di là
di questo punto essa si convertirebbe nella pretesa di sostituire la conoscenza
storica… con la conoscenza teorica”[31]. Alla tradizione empirica inglese non
manca la capacità di sviluppare teorie. L’evoluzione darwiniana e il
liberalismo sono testimonianze di questo. Ma mi pare che nella tradizione
weberiana lo sviluppo della teoria precede il suo adattamento ai fatti, e forse
questo approccio fu una causa delle differenze fra Albertini e gli
inglesi. Lo sviluppo della Comunità europea e del pensiero di
Albertini. Benché gli inglesi abbiano sviluppato la loro democrazia
attraverso un processo riformista, senza un’Assemblea costituente, l’idea di
una tale Assemblea era ritenuta accettabile da molti. Nel 1948, Mackay, un
importante federalista membro del Parlamento inglese, ottenne il sostegno di un
terzo dei membri del Parlamento per una risoluzione che chiedeva un’Assemblea costituente
europea[32]. Ma mentre per gli inglesi un processo riformista, a iniziare dalla
CECA, sarebbe stato utile, il punto di partenza per Albertini, nel 1961, era
soltanto “il conferimento del potere costituente al popolo europeo… o tutto o
niente”; bisognava rifiutare “pseudostazioni intermedie… sino a che non si
riusciva ad ottenere tutto il potere (ossia quello costituente)”; la soluzione
della Comunità “ispirata dal cosiddetto ‘funzionalismo’ (la geniale idea di
fare l’Europa a pezzettini…) era sbagliata” e le Comunità economiche erano
“parole vuote”[33]. Ma da buon weberiano egli era disposto ad adattare la
teoria ai fatti, e nel 1965 scrisse che la CECA aveva stabilito una “unità di
fatto… così solida da poter sorreggere l’inizio di un processo vero e proprio
di integrazione economica”, la quale “fu un fatto capitale per la vita
dell’Europa”[34]. E un anno dopo scrisse che “l’integrazione europea è il
processo di superamento della contraddizione tra la dimensione dei problemi e
quella degli Stati nazionali”, cioè “i fatti dell’integrazione europea” minano
i poteri nazionali esclusivi, “creando nel contempo, con l’unità di fatto, un
potere europeo di fatto”, che i federalisti possono sfruttare
politicamente[35]. Nello stesso saggio egli individuò il trasferimento del
controllo dell’esercito, della moneta e di parte delle entrate dai governi
nazionali a un governo europeo come elementi cruciali del trasferimento della
sovranità[36]; e nel 1971, considerando la prospettiva delle elezioni dirette
del Parlamento europeo, egli scrisse che una tale situazione “può essere
considerata pre-costituzionale perché dove si manifesta l’intervento diretto
dei partiti e dei cittadini si manifesta anche la tendenza alla formazione di
un assetto costituzionale”[37]. E’ interessante, perfino commovente, osservare
come, mentre gli inglesi, nella loro situazione diversa, trascuravano l’idea
della Costituente, Albertini stava modificando la sua teoria alla luce dei
fatti, cioè del successo crescente della Comunità europea. Questo lo ha
condotto verso un contributo molto importante al pensiero federalistico: una
sintesi dell’approccio di Spinelli e di quello di Monnet. Verso
una sintesi di spinellismo e monnetismo. Le sue idee sulla moneta
forniscono un altro esempio dello sviluppo del suo pensiero. Nel 1968 egli
scrisse che “non c’è mercato comune senza moneta comune, e moneta comune senza
governo comune, dunque il punto di partenza è il governo comune”[38]. Ma
quattro anni più tardi egli affermò che l’Unione monetaria avrebbe potuto
“spingere le forze politiche su un piano inclinato” perché, impegnando qualcuno
per qualcosa che implica il potere politico, può accadere che finisca “per
trovarsi, suo malgrado, nella necessità di crearlo”. Sul terreno monetario,
sarebbero stati possibili “dei passi avanti di natura istituzionale, tangibile,
europea, ad esempio nella direzione indicata da Triffin”, cioè un sistema
europeo di riserve, che sarebbe stato scambiato dalla classe politica “per una
tappa sulla via della creazione di una moneta europea”; e si poteva prevedere,
dunque, “un punto scivoloso verso una situazione che si potrebbe chiamare di
‘Costituente strisciante’ “[39]. Albertini stava “preparando l’evento”,
anche se non nel modo approvato da Spinelli, il cui progetto era allora diverso
e che scrisse nel suo diario che Albertini aveva ridotto il MFE in “sciocchi
seguaci di Werner”[40], nel cui Rapporto erano indicate le tappe verso l’Unione
economico-monetaria. Ma la riconciliazione fra i due non era lontana, grazie
alle imminenti elezioni dirette del Parlamento europeo e al grande Progetto di
Trattato per l’Unione europea elaborato da Spinelli. Già nel 1973
Albertini, nella sua analisi dell’Unione monetaria, aveva individuato le
elezioni dirette come punto decisivo “perché riguarda la fonte stessa della
formazione della volontà pubblica democratica”[41]. Le elezioni del Parlamento
europeo sarebbero state una delle chiavi, dunque, insieme alla moneta e
all’esercito, per il trasferimento della sovranità. Nel 1976, il Consiglio
europeo decise le elezioni e Spinelli si imbarcò nel suo quinto e ultimo nuovo
corso[42]. Albertini osservò che era “iniziata la fase politica – per
definizione costituente – del processo di integrazione europea”, e concluse che
la Comunità sarebbe stata la base della Federazione europea, attraverso
“singoli atti costituenti che rafforzano il grado costituente del processo
rendendo possibili ulteriori atti costituenti e così via”, e che “solo con una
prima forma di Stato europeo (da istituire con un atto costituente ad hoc) si
può avviare il processo di formazione dello Stato europeo per così dire
definitivo”: cioè bisogna accettare “il paradosso di ‘fare uno Stato per fare
lo Stato’”. Egli rese esplicito il ruolo della Comunità in questo processo,
nella “costruzione graduale, e via via pari al grado di unione raggiunto, di un
apparato politico e amministrativo europeo”: un processo che “si può in teoria
considerare finito solo quando lo Stato iniziale europeo (con sovranità
monetaria, ma non in materia di difesa), si sia trasformato nello Stato europeo
definitivo, con tutte le competenze necessarie per l’azione di un governo
federale normale”[43]. Il cammino weberiano di Albertini conduceva,
dunque, verso una sintesi feconda fra lo spinellismo e il monnetismo attraverso
“l’idea di sfruttare le possibilità del funzionalismo per giungere al
costituzionalismo”, perché “l’unificazione europea è un processo di
integrazione… strettamente collegato con un processo di costruzione degli
elementi istituzionali a volta a volta indispensabili…”[44]. Egli era pronto
per spiegare in termini teorici l’ultima opera di Spinelli, cioè il Progetto di
Trattato per l’Unione europea del Parlamento europeo. Dal progetto
di Trattato alla Convenzione di Laeken. Albertini riteneva che il
progetto fosse realistico, perché proponeva “il minimo istituzionale
indispensabile per fondare le decisioni europee sul consenso dei cittadini”. Il
“pregio maggiore del progetto” stava nel fatto che “affidava al Parlamento a)
il potere legislativo”, detto oggi codecisione, in modo che “l’attuale
Consiglio dei Ministri… per questo rispetto, funzionerebbe come un Senato
federale”, e “b) il potere che risulta dal controllo parlamentare della
Commissione, che comincerebbe ad assumere la forma di un governo europeo”. Il
progetto era “ragionevole”, perché “solo quando l’Unione avrà dimostrato di
saper funzionare bene, sarà possibile disporre della grande maggioranza
necessaria per attribuire all’Unione la sovranità anche in materia di politica
estera e di difesa”[45]. Esso conteneva, dunque, l’idea accennata prima di
“fare uno Stato per fare lo Stato”. Il genio politico di Spinelli,
manifestato nel progetto di Trattato, non solo ha favorito la riconciliazione
fra lui e Albertini, ma ha anche portato a un esito concreto un elemento molto
importante del pensiero federalistico di Albertini, cioè la relazione fra
l’azione politica e la filosofia di Monnet e di Spinelli. E’ tragico che
Spinelli sia morto credendo che il progetto fosse fallito perché l’Atto unico
era un “topolino morto”. Albertini è invece sopravvissuto finché si sono
manifestate conseguenze veramente significative. In un documento pubblicato
sull’Unità europea del dicembre 1990, egli ha potuto affermare che, “salvo
catastrofi”, il potere di fare la politica monetaria sarebbe stato trasferito
al livello europeo, e che dunque bisognava adeguare il meccanismo decisionale,
“facendo funzionare la Comunità come una federazione nella sfera dove un potere
europeo, in prospettiva, c’è già (quello economico-monetario con le sue
implicazioni internazionali); e come una confederazione nella sfera nella quale
un potere di questo genere non c’è e non ci sarà per un tempo indefinito
(difesa)”. Il “Trattato-costituzione” del Parlamento – prosegue il documento – porterà
ad una “evoluzione naturale delle istituzioni (il Consiglio europeo come
presidente collegiale della Comunità o Unione, il Consiglio dei Ministri come
Camera degli Stati, la Commissione come governo responsabile di fronte al
Parlamento europeo, il Parlamento europeo come istanza di controllo democratico
dell’attività dell’Unione e come detentore, insieme al Consiglio, del potere
legislativo)”[46]. Si può registrare un progresso significativo di questa
“evoluzione naturale” negli anni Novanta. Il voto a maggioranza qualificata è
già applicabile nel Consiglio all’80% degli atti legislativi; il Parlamento ha
un diritto di codecisione per più della metà degli atti legislativi e per il
bilancio; la responsabilità della Commissione di fronte al Parlamento è stata
clamorosamente dimostrata. La Comunità non funziona ancora “come una
federazione nella sfera dove un potere europeo c’è già”, cioè in quella
economica e monetaria; ma la Convenzione di Laeken apre la porta al compimento
del processo. La questione non è più se ci sarà un documento chiamato
costituzione. Questo ora appare accettabile, oltre che per gli altri governi,
anche per quello britannico. La questione cruciale è se le istituzioni saranno
veramente federali, completando l’evoluzione prevista da Albertini, compresa la
codecisione e il voto a maggioranza per tutte le decisioni legislative, insieme
alla piena responsabilità della Commissione come governo di fronte al
Parlamento. La lotta federalista non è divenuta meno ardua, perché i sostenitori
della dottrina intergovernativa includono, a quanto pare, non solo i governi
britannico, danese e svedese, ma anche quello francese, e persino quello
italiano. Bisogna persuadere i cittadini, le classi politiche, e infine i
governi, che una costituzione basata sul principio della cooperazione
intergovernativa sarebbe sia inefficace che antidemocratica. Grazie all’opera
di Spinelli e di Albertini, e ai contributi di tanti altri, il MFE è senz’altro
pronto a far fronte a questa sfida, in particolare per quanto riguarda i
cittadini, la classe politica e soprattutto il governo italiano.
Albertini e la sua collocazione nella storia del pensiero federalistico.
Spero di avere dato qualche indicazione del ricco, ampio, profondo e colto
contributo di Mario Albertini al pensiero federalista della sua epoca.
Forse è stata la scelta soggettiva di un federalista britannico l’aver
sottolineato l’importanza particolare, per la storia di questo pensiero, della
sintesi fatta da Albertini degli approcci dei due geniali federalisti della
seconda metà del Novecento: Jean Monnet e Altiero Spinelli. Oltre che con
le sue opere, egli ha dato un contributo al pensiero federalista come fondatore
della scuola moderna italiana. Al tempo stesso, dopo che Spinelli ha fondato,
ispirato e guidato il MFE con un carisma eccezionale, Albertini ha creato e
sostenuto il Movimento che è stato capace di organizzare la grande
manifestazione di Milano, con la partecipazione di circa mezzo milione di
persone, nel giugno del 1984, per chiedere al Consiglio europeo di sostenere il
Progetto di Trattato di Spinelli; e, cinque anni dopo, di ottenere il consenso
dell’88% dei votanti nel referendum italiano su un mandato costituente per il
Parlamento europeo. Come e perché un solo uomo ha fatto tutte queste cose
diverse? Forse l’impressione di un osservatore esterno potrebbe
interessarvi. Albertini nei suoi scritti ha messo in evidenza sia la
ragione, sia la volontà[47]. Egli era orientato da entrambe e operava sulla
base di entrambe, con enfasi sulla ragione per la sua opera intellettuale, e
sulla volontà come Presidente del Movimento; e metteva entrambe al servizio
della sua fede profonda nel federalismo come priorità essenziale per il
benessere e per la sopravvivenza stessa del genere umano. Egli espresse questo
atteggiamento in un modo non molto conosciuto fuori del MFE, sottolineando che
servono “delle persone che fanno della contraddizione tra i fatti e i valori
una questione personale”, in un contesto nel quale “il distacco tra ciò che è,
e ciò che deve essere, è enorme”[48]. Albertini dedicò la sua vita
all’impegno per risolvere questa contraddizione e aveva la capacità di
persuadere altri a fare lo stesso. Egli era un oratore ispirato e, benché i
suoi scritti fossero talvolta complicati, era anche capace di formulare
concetti in modo semplice e appassionato, come quando ha scritto che “la
federazione… ha realizzato istituzioni molto sagge, capaci di trasmettere a
molte generazioni una forte esperienza di diversità nell’unità, di libertà, di
pace”; che “soltanto la politica e solo nel massimo della sua espressione, può
risolvere i problemi delle relazioni internazionali”; e inoltre che serve
l’avanguardia mondiale “per il grande compito mondiale della costruzione della
pace”[49]. La sua capacità di ispirare gli altri era basata sulla sua
fede nel valore di ciascuno, nella fiducia che ogni persona avesse sia la
capacità che la responsabilità di dare il proprio contributo[50]. Le sue idee
sugli apporti di diverse persone e organizzazioni sono state una parte del suo
contributo al pensiero federalista. C’era posto per quelli che accettavano
passivamente il federalismo e per i leader occasionali. Ma la sua predilezione
era per il nucleo duro dei militanti, la cui opera in particolare era basata
sulla percezione della contraddizione tra fatti e valori. Egli trasmise un
messaggio speciale agli intellettuali, ai quali ricordò la necessità dell’
“uscita nel campo aperto degli uomini di cultura per completare la politica
come arte del possibile – la politica in senso stretto – con la politica in
senso largo, cioè l’arte di far diventare possibile ciò che non lo è
ancora”[51]. Per questi – per voi – l’enfasi era sulla volontà come sulla
ragione. Nel maggio del 1956 Spinelli scrisse nel suo diario: “Ho lanciato
ad Albertini l’idea di costituire un ‘ordine federalista europeo’. Che sia
questa una buona idea?”[52]. Spinelli era un grande innovatore, con notevole
capacità di intuizione. Albertini aveva le caratteristiche per realizzare
quell’idea: sincerità, integrità, coraggio, coerenza, devozione. Mi pare che
egli abbia davvero creato una specie di ordine federalista. La sua opera
era un processo continuo di costruzione; e ora voi, i suoi colleghi e amici,
avete la responsabilità di proseguirla senza di lui, considerandolo non come un
monumento di erudizione e di impegno eccezionale ma come una tradizione vivente
che voi dovete continuare a sviluppare. Quanto a me, benché non sia
d’accordo con tutte le sue idee, ho un tale apprezzamento per la sua opera e una
tale convinzione della sua importanza che sto lavorando, con l’aiuto
dell’Istituto Altiero Spinelli, su un’antologia in lingua inglese dei suoi
saggi, perché queste idee siano meglio conosciute dal pubblico dei lettori che
leggono, non l’italiano, ma la lingua che Albertini designò, nel primo numero
del Federalistapubblicato anche in inglese, come la lingua universale
necessaria nella sfera politica[53]. Spero che questa antologia non solo sarà
utile per i federalisti non italiani, ma favorirà anche un giusto riconoscimento
del contributo di Albertini nella storia del pensiero federalista[54]. E’
con grande piacere, in conclusione, che esprimo la mia ammirazione e
gratitudine per la vita di Mario Albertini, e per la sua devozione esemplare
alla nostra causa suprema del federalismo. Nelle parole incomparabili di
Shakespeare: “He was a man, take him for all in all, (we) shall not look upon
his like again”. * Si tratta dell’intervento al convegno di
studi organizzato l’8 aprile 2002 dalle Università di Milano e di Pavia e dal
Movimento federalista europeo sulla figura di studioso e di militante di Mario
Albertini a cinque anni dalla sua scomparsa. [1] Cfr. Mario Albertini,
L’unificazione europea e il potere costituente (1986), in Nazionalismo e
Federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 302, 304. (Molti degli scritti di
Albertini sono stati ripubblicati, con l’indicazione delle rispettive fonti, in
due antologie: Nazionalismo e Federalismo e Una rivoluzione pacifica. Dalle
nazioni all’Europa, da cui sono state tratte le citazioni. Si è posta tra
parentesi, dopo il titolo, la data del saggio originale per aiutare i lettori a
valutare il contesto e tracciare cronologicamente lo sviluppo del suo
pensiero). [2] Mario Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea (1961),
in Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 184. [3] Mario
Albertini, La Federazione (1963) e Le radici storiche e culturali del
federalismo europeo(1973), in Nazionalismo e Federalismo, cit., pp. 99, 114,
128. [4] Mario Albertini, La Federazione, ibidem. [5] Mario
Albertini, Moneta europea e unione politica (1990), in Id., Una rivoluzione
pacifica. Dalle Nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 323. [6]
Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, ristampa delle
edizioni precedenti del 1960 e del 1980. [7] Mario Albertini, La nazione,
il feticcio ideologico del nostro tempo (1960), in Id., Nazionalismo e
Federalismo, cit., p. 22. [8] Mario Albertini, Le radici storiche (1973),
op. cit., pp. 126-7; Id., L’integrazione europea, elementi per un inquadramento
storico (1965), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 235; Id.,
Qu’est-ce que le fédéralisme? Recueil des textes choisis et annotés, Parigi,
Société Européenne d’Etudes et d’Informations, 1963, p. 32. [9] Mario
Albertini, Per un uso controllato della terminologia nazionale e supernazionale
(1961), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 30. [10] Mario
Albertini, La strategia della lotta per l’Europa (1966), in Id., Una
rivoluzione pacifica, op. cit., p. 59. [11] Mario Albertini, Il problema
monetario e il problema politico europeo (1973), in Id., Una rivoluzione
pacifica, op. cit., p. 185. [12] Kenneth C. Wheare, Federal Government,
Londra, Oxford University Press, 1951 (prima edizione 1946), p. 37; in italiano
in Kenneth C. Wheare, Del governo federale, Bologna, Il Mulino, 1997, p.
92. [13] Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente
(1986), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 296. [14] Lionel
Robbins, Economic Planning and International Order, Londra, Macmillan, 1937, e
Id., The Economic Causes of War, Londra, Jonathan Cape, 1939; alcuni capitoli
di ambedue in italiano in Lionel Robbins, Il federalismo e l’ordine economico
internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985. [15] Cfr. Mario Albertini,
L’unificazione europea(1986), op. cit., p. 302. Cfr. anche John Pinder (a cura
di), Altiero Spinelli and the British Federalists: Writings by Beveridge,
Robbins and Spinelli 1937-1943, Londra, Federal Trust, 1998, p. 46. [16]
Mario Albertini, Qu’est-ce que le fédéralisme? (1963), op. cit., p. 32; Id.,
Cultura della pace e cultura della guerra (1984), in Id., Nazionalismo e
Federalismo, op. cit., p. 151. [17] Mario Albertini, Le radici storiche
(1984), op. cit., p. 114; Lord Lothian, Pacifism is not Enough (1935),
ristampato in John Pinder e Andrea Bosco (a cura di), Pacifism is not Enough:
Collected Lectures and Speeches of Lord Lothian(Philip Kerr), Londra, Lothian
Foundation Press, 1990, p. 221. In italiano: Lord Lothian, Il pacifismo non
basta, Bologna, Il Mulino, 1986. [18] Mario Albetini, La pace come
obiettivo supremo della lotta politica (1981), in Id. Nazionalismo e
Federalismo, op. cit., p. 185. [19] Mario Albertini, L’unificazione
europea(1986), op. cit., p. 304. [20] Mario Albertini, Cultura della pace
e cultura della guerra (1984), op. cit., p. 161. [21] Mario Albertini, Le
radici storiche (1973), op. cit., p. 140. [22] Mario Albertini, La
strategia (1966), op. cit., pp. 63-4. [23]William Beveridge, The Price of
Peace, Londra, Pilot Press, 1945. [24]Emery Reves, The Anatomy of Peace,
New York, Harper, 1945; in italiano: Anatomia della pace, Bologna, Il Mulino,
1990. [25] Mario Albertini, La pace come obiettivo supremo (1981), op.
cit., p. 184. [26] Mario Albertini, Verso un governo mondiale(1984), in
Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., pp. 203-4. [27] Mario
Albertini, Verso un governo mondiale, op. cit., p. 207. [28] Altiero
Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia, a cura di
Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 18. [29] Loc. cit.
[30] Altiero Spinelli, Diario europeo, I, 1948-1969, a cura di Edmondo Paolini,
Bologna, Il Mulino, 1989, p. 417. [31] Mario Albertini, L’unificazione
europea e il potere costituente (1986), op. cit., pp. 293-4. [32] Cfr.
John Pinder, “Manifesta la verità ai potenti”: i federalisti britannici e
l’establishment, in AA.VV., I movimenti per l’unità europea 1945-1954, a cura
di Sergio Pistone, Milano, Jaca Book, 1992, p. 125. [33] Mario Albertini,
Quattro banalità e una conclusione sul Vertice europeo (1961), in Id.,
Nazionalismo e federalismo, op. cit., pp. 226, 228, 229, 232 n. 7. [34]
Mario Albertini, L’integrazione europea(1965), op. cit., pp. 249-50. [35]
Mario Albertini, La strategia (1966), op. cit., pp. 69, 71. [36] Ibidem,
pp. 66-7. [37] Mario Albertini, Il Parlamento europeo. Profilo storico,
giuridico e politico (1971), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p.
216. [38] Mario Albertini, L’aspetto di potere della programmazione
europea (1968), Id., in Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 262.
[39] Mario Albertini, Il problema monetario(1973), op. cit., pp. 184, 187,
191. [40] Altiero Spinelli, Diario europeo, III, 1976-1986, p. 186.
[41] Mario Albertini, Il problema monetario(1973), op. cit., p. 192. [42]
Altiero Spinelli, La goccia e la roccia, op. cit., p. 18. [43] Mario
Albertini, Elezione europea, governo europeo e Stato europeo (1976), in Id.,
Una rivoluzione pacifica, op. cit., pp. 223, 225, 226. [44] Mario
Albertini, L’Europa sulla soglia dell’unione (1985), in Id., Nazionalismo e
Federalismo, op. cit., pp. 274, 276. [45] Ibidem, pp. 283-5. [46]
Moneta europea e unione politica. Un documento del Presidente Albertini in
vista del Consiglio europeo di dicembre, in L’Unità europea, n. 202 (dicembre
1990), p. 20. [47] Per esempio in Mario Albertini, Verso un governo
mondiale (1984), op. cit., p. 205. [48] Mario Albertini, La strategia
(1966), op. cit., p. 72; Id., Le radici storiche (1973), op. cit., p.
136. [49] Mario Albertini, La federazione (1963), op. cit., p. 100; Id.,
L’integrazione europea (1965), op. cit., p. 252; Id., Verso un governo
mondiale(1984), op. cit., p. 207. [50] Mario Albertini, La strategia
(1966), op. cit., p. 59. [51] Mario Albertini, Il Parlamento
europeo(1971), op. cit., p. 204. [52] Altiero Spinelli, Diario europeo,
I, 1948-1969, op. cit., p. 297. [53] Mario Albertini, un governo
mondiale(1984), op. cit., p. 202. [54] Non ho menzionato finora nessuno
fra i federalisti italiani viventi, perché non sarebbe giusto individuare
alcuni fra i tanti che hanno fatto cose importanti per il federalismo
contemporaneo. Ma in questo contesto sarebbe del tutto ingiusto non menzionare
il mio debito nei confronti di un federalista della nuova generazione che ha
avanzato la proposta dell’antologia, per cui ha fatto una selezione di saggi
(materiale eccellente anche per la preparazione di questo mio articolo), cioè
Roberto Castaldi, che ha preso questa iniziativa quando studiava per la sua tesi
di master sull’opera di Albertini all’Università di Reading. Mario Albertini. Albertini. Keywords: federale, italia
federale, politica federalista, filosofia federalista, stato italiano, gli
stati uniti d’America sono una repubblica federale. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Albertini” – The Swimming-Pool Library.
Alderotti (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Alderotti; but then his
favourite treatise was Aristotle’s little thing to his son, Niccomaco – which
Hardie instilled on me like a leech!” “Alderotti was what we would call a
Florentine-Bologne-oriented Aristotelian; he thought, with Aristotle, that the
heart trumps the head -- Grice: “What I
like most about lderotti is his archiginnasio – no such thing at Oxford! So, as
Speranza says in “Colloquenza all’archiginnasio,” Alderotti knew what he was
doing, even if his pupils did not!”Scienziato e filosofo erudito, scrisse per
l'amico e protettore Donati, uno dei primi testi di medicina in lingua volgare,
il Della conservazione della salute. Il più conosciuto medico del Medioevo,
tanto da meritarsi una citazione nel XII canto del Paradiso – v. 83 -- di
Dante, insegna a Bologna, applicando, durante le sue lezioni di medicina, un
innovativo metodo scolastico. Iniziava la lezione con una lectio o expositio di
un passo tratto da un testo autorevole (di Ippocrate, Galeno, ecc.). Procede
poi per quaestiones con riferimento alle quattro cause aristoteliche. La causa
materiale (la materia della trattazione), la causa formale (la sua forma
espositiva), la causa efficiente (l'autore dell'opera), lacausa finale (il fine o lo scopo
dell'argomento prescelto). A questo punto il maestro formula una serie di
dubia, cui facevano seguito i momenti euristici della disputatio ed, infine,
della solutio. Alighieri lo cita in modo dispregiativo nel Convivio (I, x 10):
“Temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido
fatto parere, come fece quelli che transmuta lo latino de l'etica ciò e
Alderotti ipocratista provide. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere. Tra i primi volgarizzatori
toscani è maestro Taddeo, il famoso medico fiorentino, pubblico professore di
medicina nell'Università di Bologna, uno dei personaggi più notevoli del suo
tempo ; egli è pure il primo traduttore italico della morale a Nicomaco , che
volgarizzata entra oramai a far parte della cultura generale. Di traduzioni
della Nicoma chea,c'eran ledue greco-latinedell'Ethica uetus edell'Ethi ca
noua,frammentarie,e quella del liber Ethicorum com pletaletterale;ma
ilvolgarizzatorenon poteacertamente servirsi di un testo incompleto o di
traduzioni letterali che avrebbero evidentemente lasciato Aristotele
oscurissimo nel volgare come lo era nell'originale greco e nelle traduzioni
latine. C'erano le traduzioni arabe : quella del commentario di Averroe ; ma
come si sarebbe potuto presentare per la
primavoltaa'laici,incapacidicomprendereunvastosi stema filosofico, Aristotele
con tutto il bagaglio delle sue dottrine logiche e metafisiche che servono di
base all'Etica ? Restava il compendio alessandrino-arabo , e questo difatti
ammesso alla facile diffusione del volgare divenne il testo morale aristotelico
di moda più recente (1). Al principio della seconda metà del decimoterzo secolo
maestro Taddeo ridusse in volgare toscano ilcompendio ales sandrino-arabo della
morale a Nicomaco ; poco più tardi (1)Ho in un lavoro precedente trattato
dell'Etica volgare e fran cese ; a quel lavoro modesto richiamo il lettore il
quale , trattandosi di una questione già molto controversa,voglia con sicurezza
accogliere le nostre conclusioni; giacchè ora alle conclusioni sono costretto
dalle necessità e dall'economia dell'argomento. (C. MARCHESI, Il Compendio
volgare dell'Etica Aristotelica e le fonti del VI libro del Tresor in Giorn.
Stor.della lett.it.,vol.XLII,pp.1-74). 116 IL COMPENDIO ALESSANDRINO
-ARABO IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 117 Brunetto Latini , nella
seconda parte del Tresor accolse il volgare di Taddeo,modificato secondo il
testo originale la tino ch'ei conobbe e a cui portò contributo di novissime m e
ditazioni. Sicché tra i due compendi è una notevole diffe renza : una
differenza che va tutta a favore di ser Bru netto il quale ebbe il vantaggio di
lavorar dopo in un secolo in cui, per quella energia naturale delle letterature
novelle, si progrediva assai rapidamente nel gusto e nella cultura . La
traduzione di Taddeo in gran parte fedele al conte nuto, nella forma è condotta
con una notevole indipendenza rispetto alla frase latina, e non di rado si vede
la sicurezza ch'è nell'intendimento del traduttore e la buona conoscenza
ch'egli ha del linguaggio filosofico: spesso compendia lam a teria, d'altra
parte allarga tante volte la frase o ilconcetto e diluisce nel volgare il testo
latino per bisogno di ripeti zioni e di esempi o di ampliamenti, servendosi,
come fa in principio,di qualche altro rifacimento,e aggiungendo dichia razioni
proprie. Taddeo non è un traduttore letterale che si preoccupi dalla frase e
voglia mantenersi fedele alla pa- ! rola o al tenore dell'esposizione; egli è
solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole spesso acconciare dal
lato espositivo nella maniera più rispondente,secondo lui,a'bisogni della
chiarezza e della semplicità. General mente palesa una certa libertà nel compendiare
e nel ren dere il concetto con espressioni diverse dall'originale,come quando
per es.traduce uita scientiae et sapientiae con uita contemplatiua ; delle
parti più confuse e difficili a inten dersi fa una parafrasi invertendo anche
l'ordine delle idee e disponendole in maniera più agevole per la intelligenza
finale, seguito in questo naturalmente da Brunetto. Ecco un esempio :
118 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO Rerum quedam sunt co
gniteapudnosetquedam sunt cognite apud natu ram .Oportet ergo ut a m a tor
scientie ciuilis promtus sit ad res eximias et sciat opiniones rectas. Opinio
nes autem recte sunt ut in arte ciuili incipiatur a re bus apud nos cognitis,et
in consuetudinibus pulcris et honestis facta sit assuetu do,principium enim
estet inceptio a qua res est. Ex manifesto existente suffi cienter quia res
est,non indigeturpropterquid res est. Indiget autem homo ad promtitudinem
habita tionis veritatis rerum bo narum aut aptitudine bone instrumentalitatis
ex qua sciat uerum ,aut forma per quam accipiantur princi
piarerumabeofacile.Qui za. uero neutram babuerit h a rum aptitudinum audiat
sermonem Homeri (corr. Hesiodi)poete ubi dicit: quidem bonus est,hicau tem
aptus ut bonus fiat. Qualche volta invece il concetto è più largamente defi
nito per l'aggiunta di qualche breve dichiarazione che serve a chiarirne il
contenuto e a precisarlo di più rispetto alle considerazioni precedenti; cosi
il testo dice che l'uomo ri fugge dai luoghi solitarî o deserti o ermi,e Taddeo
aggiunge: «perchè l'uomo naturalmente ama compagnia »; altrove è detto che
beatitudine è cosa completa che non abbisogna Sono cose lequali sono
manifeste alla natura,e sono cose lequalisonomani feste a noi ; onde in questa
scienza si dee cominciare dalle cose lequali sono manifeste a noi.L'uomoloqua
lesideestudiarein questa scienza ed apprendere, si dee ausare nelle cose buone
e giuste e oneste ; onde gli conviene avere l'a nima sua natural mente disposta
a quella scienza : m a quello uomo che non hae neuna di queste cose,è inu tile a
questa scien Iliachosesquisont connues å nature et sont choses qui sont
conneues à nos ; par quoinosdevonsence ste science commen cier as choses qui
sont conneues à nos,car qui se vuet estudier å savoir ceste science, il doit
user des choses justes,droites et bon nes et honestes,où il li covient avoir
l'ame natu raument ordenée à ceste science : mais cil qui n'a ne l'un ne
l'autre regarde à cequeHomerusdist: Se li premiers est bons,liautresestap
pareilliezàestrebons: mais qui de soi ne set neant, et qui n'aprent de ce que
hom li en seigne,ilestdoutout mescheanz. IL COMPENDIO
ALESSANDRINO-ARABO 119 d'altra cosa ; e Taddeo chiarisce « di fuori da sè ,.
Altre aggiunte , come quelle di aggettivi, tendono solo ad accre scere
l'efficacia del concetto ; d'altra parte ilvolgarizzatore coordina spesso le
frasi sciolte e le considerazioni staccate dell'originale latino nella
continuata semplicità di un solo periodo. Brunetto riempie le lacune : molte
espressioni trascu rate da Taddeo o tralasciate a dirittura per difficoltà d'in
tendimento sono supplite nel Tresor ; per es. il testo fa una triplice
divisione delle arti: « quedam habent se habitu dine generum et quedam
habitudine specierum et quedam habitudine individuorum»:Taddeo omette
quest'ultima ca tegoria delle arti,notando solo le generali e le particolari;
Brunetto, traducendo anche con finezza letterale ed etimo logica,completa «et
aucunes sont sanz deuision ».Altrove sono interi brani del tutto omessi nel
volgare che Brunetto restituisce alla esposizione del compendio aristotelico.
Dia mone un esempio. Arsciuilisnonpertinet La scienza da La science de cité go
pueronequeprosecuto- reggerelacittade ridesideriiatqueuicto- non conviene a
fantneàhomequivueille rie,eoquodamboigna- garzonenèauo mais Taddeo non vide nel
compendio alessandrino il legame tra le due considerazioni,e omise
l'ultima;difatti il com pendiatore o il traduttore latino butta giù una frase
fuor di senso che non ha rapporto alcuno con l'originale; Aristotele dice:«non
è acconcio l'uditore giovane perchè èinesperto delle azioni che riguardano la
vita, e i discorsi della nostra verner ne afiert pas à en 1 risuntrerum
seculi, mocheseguitile cequeanduisontnonsa neque proficit ipsis. Non son
ensuirre sa volonté, por tem . que ilse torne me, enim intenuit ars ista
scientiam sed conuersio . nem hominis ad bonita- suevolontadi,pe- chant des
choses dou sie rò che non cle : car ceste ars ne qui savi nelle cose del ert
pas la science de l'o secolo. à bonté. 120 IL COMPENDIO
ALESSANDRINO -ARABO scienza da queste si tolgono e intorno a queste si aggirano
(οι λόγοι δ'εκ τούτων και περί τούτων). Non pero tutte lelacune sono supplite
da Brunetto : la omissione di qualche concetto importante nel volgare e nel
francese , è giustificata dal fatto ch'esso si trova altre volte
particolarmente espresso e dalla facilità di richiamarlo alla mente nei luoghi
ov'esso è ripetuto ; cosi avviene per il principio più volte enunciato della
eccellenza del bene voluto per sé , rispetto al bene voluto per altro. Brunetto
elimina pure qualche ridondanza del volgare ; cosi « ars directiua ciuitatum ,
che Taddeo traduce «l'arte civile la quale insegna reggere la cittade » 1 è
resa nel Tresor « l'art qui enseigne la cité à governer »; altre volte invece
la espressione è più estesa in Brunetto , come quando traduce con «principaus
et dame et soverai n e » il semplice « princeps » riferito all'arte civile,
mentre più sicuro intendimento dell'espressione : dice il testo che la
beatitudine , come l'uomo che dorme, non manifesta al cuna virtù quando l'uomo
la possiede in abito e non in atto , e Brunetto aggiunge « ce est à dire quant
il porroit bienfaireetilnelefaitmie»;epocoprimaalladefini zione della potenza
razionale ch'è più degna quando si è in atto, aggiunge « chè il bene non è bene
se non è fatto (car se il ne le fait, il n'est mie bons)».Talune espressioni
proprie del traduttore francese vanno oltre i bisogni della chiarezza e la
necessità dell'intendimento ; laddove il testo latino dice del bene dell'anima
ch'è il più degno di tutti, Brunetto inserendo il concetto della divinità mette
di suo la ragione « car ci est li biens de Dieu » , evidentemente per il
bisogno di ribadire il principio che pone in dio il sommo bene e di asservire
il trattato aristotelico alle idea il volgare dice solo « principale e
sovrana ». L'aggiunta * comunemente è fatta per maggiore precisione e per
un IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO 121 c o n « colui che sta nel
travito » ; il francese si riconduce all'esatta interpretazione « li sages cham
pions et fors ». Nello sfrondare le ridondanze del volgare e nel ridurre la
materia alle proporzioni dell'originale la tino,Brunetto non sempre riesce a
cogliere l'esatto inten dimento della parola , e riducendo smarrisce l'idea che
vi èracchiusa;ilt.ha«quemadmodum peritiagonistaeatque « robusti coronantur
quidem et accipiunt palmam apud actum agonisetuictorie»;Taddeo
traduceaėsomigliantedi quello che sta nel travito a combattere ; chè solamente
quelli che combatte et vince , quelli å la corona della vittoria », e fa vera illustrazione
della frase finale «e se alcuno uomo sia più forte di colui che vince, non à
perciò la corona , perch'egli sia più forte, s'egli non combatte, avvegna che
egli abbia la potenzia di vincere >; Brunetto si ferma alla prima parte « si
comme li sages champions et fors qui se combatetvaintemportelacoronedevictoire
trascurando il significato particolare dell’apud che qui sta per post. Pure
nellaintelligenza della parola latinailtestofran cese è generalmente più fine
del volgare (1), nel quale tal volta si trova sconvolto l'ordine delle frasi e
delle idee , (1)Un esempio:t.difficile:Tadd.impossibile,Brunet.dure chose; t.
in omnibus artificibus, T. nelle cose artificiali, B. choses de mestier et de
art. lità contemporanee della fede. Generalmente Brunetto ha m a g g i o
r i r i g u a r d i p e r il t e s t o , p e r c i ò c h e r i g u a r d a i c
o n cetti semplici e le singole espressioni. Cosi egli corregge la frase
talvolta malamente resa o ingiustamente compendiata e confusa da Taddeo .
Questi si restringe talora a molto s e m plice espressione, impropria, che mal
si adatta al concetto latino,come quando traduce « periti agonistae atque ro
busti > 122 IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO per deviazione dal
retto intendimento del latino. Riporto un brano . Brun.car il estdure chose que
Taddeo traduce la seconda parte del periodo: ut pote. come se fosse
esplicazione del concetto già espresso : opera decora exerceat; Brunetto la
riferisce invece al precedente : absque materia.Nel volgare italicoetalvoltaanche,inma
niera alquanto diversa , nel francese l'espressione latina è modificataquando
apparisca troppo cruda.Infinedel compen dio aristotelico si parla di uomini che
non si possono correg gere con parole, per cui occorre « assiduatio uerberum t
a m quam in bestia »;Taddeo traduce vagamente «pena »; Brunetto è più civile
ancora « menaces de torment ». Il volgarizzatore francese tende spesso,più che
il medico fio |rentino, a modificare quelle che a lui sembrano asperità di
giudizio o durezze d'espressione. Così,nello stesso brano, de'delinquenti per
natura,di coloro che non possono cor reggersi con parole nė
percastighi,diceilt.«tollendisunt de
medio»,eTaddeoletteralmente«sondatorredimezzo »; Brunetto è meno severo «tel
home doivent estre chastié si que il ne demourent avec autres gens ». È un
riscontro ca suale; ma sinotiad ogni modo come l'urbanità dell'espres sione
francese e la temperanza cortese di giudizio pare si accordi coi principî
positivi di un diritto criminale molto recente ! E Brunetto si accorda talvolta
con Taddeo nel m o T. difficile est enim Tadd . perciò che non homini ut
opera decora è possibile all'uomo exerceat absque mate ch'egli faccia belle o
riautpotequodha pereech'egliabbia beatpartemcompeten arte la quale si con tem
rerum bone uite pertinentiumetcopiam eabbondanzad'amici familieetparentumet
ediparenti,eprospe prosperitatemfortune. rità di ventura sanza venga a buona
vita, li beni di fuori. ne ... 5 1 l'on face b e lesoevres,seiln'ia gran part
des choses avenables à bono vie et habondance d'avoir etd'amisetdeparenz, et
prosperité de fortu IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO 123 dificare
le opinioni del testo , come quando fieri amendue della loro vita comunale,
rinnegano il detto d'Aristotele che l'ottimo governo sia nel principato, affermando
migliore il governo delle comunità. Un'osservazione finale. Brunetto qualche
volta fa dei tagli al testo latino e al volgare , sopprimendone talune
espressioninonperamoredibrevità,ma evidentemente perch'ei si rifiuta di
accoglierne il giudizio. Ciò risulta chiaro dalla costanza con cui
l'espressione è soppressa ogni qualvolta si presenti nell'intendimento voluto
dal l'autore. Una prova : al principio del II° libro (cap. VII ediz. Gaiter) il
compendio latino e con esso Taddeo fa una duplice divisione della virtù:virtù
intellettuale,come sa pienza scienza e prudenza,e virtù morale come castità lar
ghezza umiltà ; e poi lo esempio « quando noi volemo lodare un uomo di virtude
intellettuale diciamo :questo è un savio uomo intendevile e sottile:quando volemo
lodare un altro uomo di virtude morale, diciamo : questo è un casto uomo umile
e largo » (1). Nell'uno e nell'altro caso Brunetto sop prime a dirittura
l'espressione che racchiude il concetto della umiltà. La prima volta dice della
virtù morale,ch'essa è « chastée et largesce »e soggiunge un po'infastiditoe
non curante del testo « et autres choses semblables »; nella se conda parte
dice semplicemente « ce est uns hom chastes et larges ».Ed è curioso e notevole
documento questo d’uno tra ipiù illustri rappresentanti del laicato dotto del
tem po, uomo di parte e d'azione tenace e bellicosa e guelfo ardente,che si
rifiuta cosi chiaramente di accogliere l'umiltà tra le virtù morali,
ribellandosi al giudizio che uomo umile ė uomo virtuoso. C'è qui l'alto sentire
del laico e lo spi (1) « ex parte moralium largum uel castum uel humilem .uel m
o destum eum appellamus ». 124 IL COMPENDIO ALESSANDRINO-ARABO
ritosdegnosoelaboriacavallerescadeltempo,chesian nidava bensi nella fierezza
solitaria e nella severa integritå dell'uom casto , o sorrideva nel magnifico
gesto signorile d e l l ' u o m l a r g o e c o r t e s e , m a n o n si a c c
o n c i a v a a i n d o s s a r e il saio dell'umile curvato. Quale dei
due traduttori abbia merito maggiore non possiam dire. Taddeo ha il merito
dellapriorità;ma egli compendia troppo , abbrevia , toglie parte di considera
zioni e di esempi al testo latino ; Brunetto che lavorò a p presso a lui è più
fine e completo , e poi anche il fran cese si prestava allora assai meglio del volgare
italico. Taddeo molte volte amplia o riduce la materia , Brunetto traduce con
maggiore fedeltà sia nell'evitare le ripetizioni inutili del volgare sia nel
colmarne le lacune rispetto all'ori ginale latino , le cui espressioni segue
con attenzione e riproduce spesso con esattezza.Siamo nel periododeicom pendi e
dell'enciclopedia. Un compendio fatto è fatica ri sparmiata al maestro che deve
dire le «chose universali ». Brunetto,che aveva intelligenza fine,trasse il
compendio italico alla lingua di Francia e l'incluse nell'opera sua e ne colmò
le lacune e ne affinò i contorni e lo ripuli di fronte al testo latino da cui
egli pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale del Tresor . E non fa
cenno di T a d deo : egli accoglie, corregge, assimila; d'altra parte è tutta
una letteratura e una divulgazione anonima quella che dal
l'ultimomedioevovaaltrecento,eidirittidi proprietà letteraria non sono ancor
sorti. C'è però da osservare che nel ritocco della materia volgare Brunetto non
va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata o ridondante. Egli non
si attenta mai a rimaneggiare e ad acconciare la materia nel contenuto
ideale,per ilmodo con cui le idee furono esposte nel volgare o compendiate o
disposte o in IL COMPENDIO ALESSANDRINO -ARABO 125
terpretate.Questo dunque testimonia onorevolmente che Tad deo era allora
ritenuto autorevole intenditore del trattato ari stotelico anche da un uomo per
cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande discepolo di costui non
appa risse ugualmente felice dicitore del volgare.Tuttavia le m o dificazioni
introdotte da Taddeo e assai più ancora da Bru netto non sono tali da farci
notare la presenza di nuovi elementi etici o l'azione modificatrice diretta del
tradut tore spinto da una evoluta coscienza sociale del tempo.Gli scrittori del
medio evo accolgono e credono ; sono ansiosi di notizie come sono pieni di
fede. Si accetta tutto, il vero e il falso, anzi più il falso che il vero ; a
Taddeo che scrive un sonetto sulla pietra filosofale (1) risponde Brunetto che
r a g i o n a s u l l e v i r t ù d e l l e p i e t r e . È a n c o r a i n t a
t t o il m o r t o e d i ficio secolare della fede , che più tardi la critica
del quat trocento ridurrà nei frantumi donde sorgerà la nuova co scienza degli
individui e delle genti. (1)MAGLIABECH.XVI,7,75;cartac.sec.XV.«Carmina magistri
Tadei de florentia super scientiam lapidis philosophorum ex Alberto Magno edita
feliciter. «Soluete icorpi inaqua a tuti dico |Voi che in tendete di far sol et
luna |Delle duo aque poi prendete l'una |Qual più vi piace e fate quel chio
dico |Datella a ber a quel uostro inimico | Senza manzare i dicho cosa alguna
|Morto larete e riuerso in bruna | Dentro dal cuore del lion Anticho |Poi su li
fate la sua sepoltura |Si e in tal modo che tuto si sfacia |La polpa e lossa o
tuta sua giuntu ra|La pietraareteedapoiquestosifacia(sic)|Deterraaquaetdaqua
terra fare |Così la pietra uuol multiplicare |E qual intendera ben sto sonetto
|Sera signor de quel a chi e suzetto ». Il compendio alessandrino-arabo
prestó dunque la ma- : teria etica aristotelica al volgare d'Italia e di
Francia ; e la morale a Nicomaco potè cosi divenire libro di attualità
adoperato e sfruttato, nella valutazione dei principi etici e nella decisione
delle finalità umane, dai nuovi scrittori vol gari: tra questi ė Dante
Alighieri,a cui Taddeo dié motivo di presentare in più nobil veste
il volgar di Toscana (1), e Brunetto Latini avea ad ora ad ora insegnato « c o
m e l ' u o m s'eterna ». IL COMPENDIO
VOLGARE LE FONTI DEL VI LIBRO DEL " TRESOR , Il presente lavoro fa parte
di un altro più esteso e completo sui rifacimenti aristotelici latini e
volgari, il quale spero verrà presto a portare un contributo,non privo
d'interesse,alla storia ell'aristotelismo nella pre-rinascita e a colmare
qualche lacuna la conoscenza del movimento intellettuale che fu prima del
quattrocento:giacchè ne'volgarizzamenti e ne'rifacimenti sta i cultura del
trecento ; seguendo il volgarizzarsi e il diffondersi della cultura medievale e
classica, specialmente, noi troveremo i sentiero ascoso che va da Dante teologo
al Petrarca filologo. Ma ora ho fatto opera molto modesta; trattando solo le
spi. ese questioni critiche agitate intorno al compendio volgare ell'Etica, ho
inteso risolvere taluni dubbî,lungamente mante nūti, ed eliminare molti errori.
Il lettore, che attende forse uno studio riassuntivo sulla influenza della
morale aristotelica, comprenderà come questo sia possibile solo alla fine
dell'opera, quando le ricerche già fatte e i risultati ottenuti ci metteranno
in grado di poter volgere uno sguardo sicuro e sereno su quel grande campo dove
la tradizione aristotelica alligno rigogliosa e tenace ramificandosi e
abbarbicandosi per una serie copiosis. sima di rampolli viziosi e
invadenti. DELL'ETICA ARISTOTELICA C. MARCHESI. 1 E 2 C.
MARCHESI Il compendio volgare dell'Elica nicomachea fu per la prima volta
impresso a Lione (1568)a cura dell'editore Jean de Tournes, su di un
manoscritto appartenente a Jacopo Corbinelli (1).Do menico Maria Manni stimo
inutile, per le moltissime mende, la edizione francese,condotta inoltre su un
solo manoscritto,e ristampò il trattato aristotelico valendosi principalmente
di due codici Laurenziani,il 19 e il 23 del plut.XLII (2).L'ultima ediz.del
1844 fu condotta da Fr. Berlan su un cod.del sec.XIV e in base a un esemplare
dell'ediz. lionese emendato e comple tato da Apostolo Zeno su un ms.del 1410
(3). Com'è noto,ilcompendio volgare dell'Elica aristotelica è quello stesso che
forma il VI libro del Tresor volgarizzato, se condo la comune opinione, da Bono
Giamboni ; pero si trova anche in tutte le edizioni del Tesoro
volgare:Treviso,Gerardo Flandrino(de Lisa),1474;Venezia,Fratelli da
Sabbio,1528;Ve. nezia,Marchio Sessa,1533;Venezia,1839acuradiLuigiCarrer il
quale nel libro VI seguì anche le due edizioni, Lionese e del Manni;Bologna,
1878,ed.da Luigi Gaiter il quale si valse di tutte le stampe
precedenti,de'mss.del Tesoro e di raffronti continui col testo francese. Eppure
di questo compendio manca una stampa che ne ripro duca fedelmente e
criticamente la lezione;giacchè a tutti gli editori dell'Elica,che eseguirono
le loro stampe sulle precedenti o solo col sussidio di qualche ms.,sfuggi
quella rigogliosa co munione di codici, che abbiam potuto noi esaminare, da'
quali (1) L'Etica d'Aristotile ridotta in compendio da ser Brunetto Latini et
altre tradutioni et scritti di quei tempi. Con alcuni dotti Avvertimenti
intornoallalingua,Lione,Giov.deTornes,1568. (2) L'Etica d'Aristotile e la
Rettorica di M. Tullio aggiuntovi il libro de' Costumi di Catone, Firenze,
1734. Dall'edizione lionese trasse la parte riguardante le quattro virtù un tal
Luigi Ruozi che la pubblicò modifican dola nell'ortografia e nella lezione:
Trattato delle quattro virtù cardinali compendiate da serBrunettoLatini sopra
l'Eticad'Aristotile,Verona, 1837,pp.16. (3) Elica d'Aristotile compendiata da
ser Brunetto Latini e due leggende di autore anonimo,Venezia,1844.
--- IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 3 sarà possibile,
con un esame complessivo, trarre nella sua veste primitiva l'antico
volgarizzamento toscano; d'altra parte gli editori più recenti del Tesoro nel
curare la lezione del VI libro, ritenendolo, com'era naturale,volgarizzamento
dal francese, come tutti gli altri libri, credettero opportuno acconciarne la
lezione anche inbase al testo francese,alterandone laveste ori ginaria e
originale. Intorno a questo antico e primo compendio volgare dell'Etica si è
agitata una lunga e spinosa questione. Esso fin dalle prime stampe porta il
nome di Brunotto Latini, e il fatto stesso poi che si trova inserito nel testo
volgare del Tresor, di cui costi tuisce appunto la materia del VI libro,non ha
mai fatto dubitare ai critici e agli editori ch'esso non si debba considerare
come una parte del Tesoro e quindi,come tutti gli altri libri, volga rizzamento
di Bono Giamboni.Solo il Mabillon,ritenendo che Brunetto stesso avesse
volgarizzato il suo Tresor, credeva che ciò fosse pure avvenuto dell'Etica (1).
Il primo dubbio intorno al traduttore del compendio francese in toscano fu
mosso dal Manni, indotto da una nota del Salviati il quale « trovò in fronte «
a un particolar testo dell'Etica : Qui comenza l'Elica di Ari. « stolile
volgarizzata per maestro Taddeo medico e philosopho «dignissimo».Ad ogni modo
egli si acqueta volentieri all'au. torità della Crusca che cita il Tesoro «
tutto » stampato per traduzione di Bono Giamboni (2).Altri che vennero dopo
nota rono che qualcuno dei mss. dell'Etica indicava un maestro Taddeo come il
volgarizzatore dell'opera ; difatti il Lami ritiene che ilvero traduttore sia
Taddeo (3),e ilMebus,seguito dal Maffei(4),sostieneche la versione di
Taddeo,fatta probabil mente assai prima,venisse più tardi inserita nel Tesoro
volga. rizzato,in tuttiglialtri libri,da Bono Giamboni (5).Lo Chabaille,
(1)Museum Italicum,Paris,1687-89,vol.I,P. I,p.169. (2)Op.cit.,pp.xisgg.
(3)Novelle letterarie,Firenze,1748,p.303. (4) Storia della lett. ital., 3a
ediz., Firenze, 1853, 1, p. 35. (5)VitaAmbrosii Traversarii,p.CLVIII.
che curò la edizione critica francese del Tresor, dalla perfetta
somiglianza ch'è tra l'Elica e il vi libro del Tesoro, deduce che Brunetto
avesse tradotto Aristotile in italiano prima ancora di voltarlo in francese, e
che quindi il compendio volgare del l'Etica dev'essere a lui attribuito (1).Il
Paitoni,che scrisse sopra tale argomento un lungo articolo, finisce col non
sapere da che parte decidersi (2).Giov.Battista Zannoni ha spinto in vece la
questione molto avanti,servendosi di un passo del Conrito di Dante
(Tratt.I,cap.10),dove è fatto cenno di un volgarizzamento dal latino dell'Etica
per opera di Maestro Taddeo,ilcui volgare Dante chiama «laido».Lo Zannoni ri
tiene « che Brunetto voltasse in francese il volgare di Taddeo « e che il
Giamboni a questo desse luogo nella sua versione
«delTesoro»(3).QuestacongetturaèancheaccoltadalPuc cinotti,ch'è stato il più
accanito difensore di Taddeo (4).Il Sundby combatte tutte le opinioni
precedenti:quella delloCha. baille e dello Zannoni,opponendo loro le parole
stesse di Bru netto che,nella sua introduzione, assevera di aver tradotto dal
latino in francese,de latin en romans;quella del Mehus, citando il passo di
Dante il quale parla evidentemente di una traduzione dal latino. Egli reputa
diversa da quella che abbiamo la traduzione di Taddeo,dicui sifacenno nel
Convito;afferma recisamente che Brunetto ha tradotto Aristotile dal latino in
francese e che il testo italiano dell'Etica è opera di Bono Giam
boni(5).IlGaiter,ch'è ilpiùrecenteeditoredelTesoro,se guendo,come
pare,lacongettura dello Chabaille,confonde la (1)Lilivresdou
TresorparBrunettoLatini,Paris,1863,Introd.,p.xv. (2) Biblioteca degli autori
antichi greci e latini volgarizzati, Venezia, 1766, vol.I,pp.103-29. (3) Il
Tesoretto e il Favolello di ser Brunetto Latini, Firenze, 1824,Pre fazione,pp.XXXV
sgg. (4)Storia della medicina,Firenze,1870,vol.I. 4 C. MARCHESI (5) Della
vita e delle opere di Brunetto Latini, Firenze,1884,pp.139 sgg. La stessa
opinione del Sundby aveva esposta prima V. Nannucci,Manuale, Firenze, 1858,
vol. II, p. 383. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 5
Nicomachea con ilLibro de'Vizi e delle Virtù e con il VI libro del Tesoro, il
quale « fu prima compilato e poscia dall'autore «annestato nella maggior parte
del Tesoretto»(1);e altrove ricorda una nota del Sorio che attribuiva a
Brunetto Latini il volgarizzamento dell'Elica d'Aristotile (2); del resto non
fa cenno dellaquestione.IlCecioni,perultimo,trattando delSecretum Secretorum ,
in una breve digressione sull'Elica volgare, dopo avere riassunto tutte le opinioni,assicura
che Taddeo deve averne fatto una traduzione, poichè altrimenti sarebbe
inesplicabile il motivo per cui parecchi codici di rispettabile antichità
attribui. sconolatraduzioneaTaddeo;ma delrestoaffermachelaque. stione circa il
volgarizzamento dell'Etica, che noi possediamo, rimane indecisa nè si potrà
forse in alcun modo risolvere (3). Cosi scetticamente si chiude la questione,
irresoluta. Dopo l'esame dei codici dell'Elica volgare e latina e del Te soro,
non è più lecito dubitare di poter decidere la questione in modo definitivo, e
a definirla concorrono parecchi dati positivi e sicuri; il primo, di capitale
importanza : la tradizione m a n o scritta. Il compendio volgare della
Nicomachea ci ha una ben larga ed evidente tradizione isolata.Nelle biblioteche
di Firenze,ove il latino del testo aristotelico ebbe per la prima volta veste
vol gare e popolare conoscenza, ben ventidue codici ci attestano della larga
diffusione che il volgarizzamento ebbe come opera a sė, indipendente da altre
opere più larghe che la integrassero. A'codici
fiorentinisiaggiungonoaltrichehopotutoesaminare: due Ambrosiani,tre
Marciani,uno della Nazionale di Napoli,uno della Comunale di Nicosia. Pochi
altri mss.dell'Elica si trovano sparsi per le biblioteche d'Italia, ma da ragguagli
cortesi che ho potuto avere di essi, è lecito dedurre come tutti quanti ade
riscano per contenuto e per lezione al nucleo centrale e fonda mentale dei
mss.fiorentini. (1)Ediz.cit.del Tesoro,Prefaz.,p.xv. (2)Ivi,p.XLII. (3)
Propugnatore, 1889, p.72. Tutti icodici presentano una redazione
unica del volgarizza- mento,che è quella stessa della edizione Manni, con la
quale ho fattolacollazione(App.I).Le varianti frequentinellalezione,le
inversioni,le omissioni reciproche,gli scambi,le lacune del testo a stampa
sopra tutto, si debbono, oltre che alla bontà maggiore o minore del modello, a
sbagli de' trascrittori, e non valgono dinanzi alla somiglianza e conformità
dell'assieme.Molte lacune e accorciamenti si possono attribuire soltanto a
sbada taggine de'copisti per le gravi difettosità che ne vengono al senso,e
sono indubbiamente prodotte dalleespressioni consimili cheapocadistanza han
prodottolafacileomissione:giacchè il copista credendo di proseguire saltava
d'un tratto il brano. Accanto alle lacune (1), che dànno qualche volta luogo a
strane combinazioni d'idee,va notato un buon numero di ampliamenti, di cui
taluni sono ripetizioni di luoghi antecedenti.Qualche volta le parole si
trovano collocate in maniera diversa nel periodo o sostituite con altre e mutate
con lo scopo di abbreviare o modifi c a r e il c o s t r u t t o ( 2 ) ; l e m
o l t e d i f f e r e n z e o r t o g r a f i c h e v a n n o r i f e r i t e
al tempo della trascrizione. Fra i codici che più si accostano al testoastampa
vanno notati 6.c.g.h.4.2.m .p.e specialmente d ed e,iquali hanno pure comuni
con il testo Manni molte particolarità ortografiche.Le maggiori divergenze
presentano i codd.7 e 1;in quest'ultimo è notevole un'aggiunta al libro sesto
(3). Nel cod. V la lezione presenta spiccate differenze, (1) È da osservare
come nel secondo libro (cap.IX del Tesoro)occorrano tre parole greche
trascritte con caratteri latini:19)apeyrocalia (5. x.8. m .p.)
oapeiorocalia(4.y.)edanche apeyrochilia(6)eapherocalia(g):in pa recchi codici
tale parola è mancante perchè manca il brano che la contiene;
29)eutrapeles(x.y.4.m.p.)o eutrapelos(2.6.7.d.e.f.g.h.)ed anche eutrapelo (6)
ed eutrapeleos (8); 3o recoples (y.x.5. 7. 8. c.d.f.h.4. 2. p.)
orechoples(e.g.)ed anche recupes(6)erecopls(2).Inqualchecodice, come nel cod.1,
il copista salta il passo dove avrebbe dovuto introdurre le parole greche. ( 2
) C o m e s i n o t a a n c h e p a r t i c o l a r m e n t e n e l l ' A m b r
. C . 2 1 , i n f ., c h ' è u n a trascrizione umanistica della seconda metà
del '400, (3)Manni,p.39;Gaiter,p.115:«in questo cambio era grande brigaet
6 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA
specialmente nella seconda metà,dalla lezione comune,e risente dell'influenza
dell'opera francese di Brunetto e dell'azione diretta modificatrice del
trascrittore : l'influenza del francese in questo c o d i c e , c o m e n e l l
' A m b r o s . c . 2 1 i n f ., c i è a t t e s t a t a i n d u b b i a m e n
t e dal fatto ch'essi vanno oltre il limite solito dell'Elica e prose guono con
le stesse parole, intorno alla differenza tra la retorica e la scienza di fare
le leggi, le quali chiudono il VI.libro del Tresor; ma possiam dire che per
quanto la lezione di V sia in molti punti alterata,non presenta tuttavia una
redazione diversa dalla comune dei mss.e delle stampe del Manni e del Gaiter,
alla quale ultima specialmente aderisce verso la fine.Dall'esame critico della
lezione risulta una somiglianza intima tra icodd.1 e 7 ; tenendo poi conto
delle particolarità più comuni, possiamo stabilirediversi gruppi di
codici:a)1.a.y.5.6.7.8.x.r. 9.checidannolapiùautorevolelezione;b)g.C.d.e.f.N.r.
2.s.;c)4.m.p. Come s'è detto, il compendio volgare dell'Etica si trova pure
inserito nel volgarizzamento del Tresor, di cui forma la prima metà della
seconda parte, o meglio il VI libro, secondo la indi. cazione comune.Dei venti
codici del Tesoro da me esaminati, dodici solamente contengono il trattato
aristotelico : gli altri sono mutili (App. II). La lezione dell'Etica ne'
codici del Tesoro, tranne le solite Jivergenze omai notate come comuni in
questa redazione del l'Etica volgare,è da collegarsi alla stessa famiglia dei
codici isolati e de'testi a stampa.C'è da notare nel complesso un numero
maggioredivarianti,omissioni,aggiunte,frequentissimi sbagli di trascrizione e
qualche breve interpolazione del copista «pero fue trouata una
cosac'aguagliasse etquestacosasièildanaio. « percio che l'opera di colui che fa
la chasa si aghuaglia ad opere di colui « che fae i calzari col danaio; chè per
lo danaio puote l'uomo donare et « prendere le grandi cose e picciole, per cio
che 'ldanaio è uno strumento «perloquale
ilgiudicepuotefaregiustizia,perocheeldanaioèleggie «senz'anima.ma
ilgiudiceèleggiech'àanimaetdiogloriososièleggie « uniuersale d'ongni cosa »,
stesso,che sidistingue subito permancanza di riscontroinaltri
codici.Oltrere P,che servirono di base allastampa fiorentina, uno de'codici più
fedeli all'ediz.del Manni è l'Ambros.G. 75 Sup.e Z ,dove pur si trova una
grande confusione causata dallo spostamento di varie parti.Tra icodd.più
scorretti dal lato ortografico e P. In base alle particolarità più comuni
icodd.del Tesoro si possonodividere ne'seguenti gruppi:19)d.v.1. 2°)n.
λ.π.φ.3ο)λ.μ.γ.Ρ.Ζ.ε.Ambr. Riassumendo,possiam dire: la lezione del testo aristotelico
volgare appare generalmente, ne'codd.dell'Etica e del Tesoro, fluttuante,poco
sicura.Ma lesolite differenze nella espressione, nella struttura del periodo,
le frequenti omissioni e aggiunte di parola,gli spostamenti e le lacune,comuni
alla maggior parte dei codici,riguardano più d'ogni cosa la bontà della
copia,la correttezza del modello copiato, la esperienza o la libertà del
l'amanuense, ma non compromettono in alcun modo l'unità del volgarizzamento. La
materia dell'Etica si trova nella maggior parte dei codici ugualmente
distribuita.Una grave inversione presentano 1. d.
e.s.;inessiiltestodap.6Manni[Gaiter25:compimentoe forma di uirtu ] va d'un
tratto a p. 18 (Gaiter 57 : ciascuno huomo che ingiusto et reo sie] e seguita
sino a p.21 (Gait.66 : E pero è bestial cosa seguir troppo la dilettazione del
tatto] donde torna indietroap.9 [Gait.34:La potenzia uae'innanzi all'acto] e
prosegue sino a p. 18 [Gait. 57 : dee l'uomo essere punilo];quindi
tornadinuovoap.6 (Gait.25:beatitudoècosa ferma et stabile] seguitando sino alla
fine del primo libro [p.8 M ., 31 G.: Questièun casto huomo, humile et largo).È
determi nato cosi uno scambio reciproco, nel principio, de'libri secondo e
terzo. 'T 8 G. MARCHESI Un'altra inversione è nei codd.del Tesoro a.T. X.
u.In essi iltestodell'Eticadallafinedelcap.XXIX (pp.M.35,G.101: l'uomo si uiene
a fine con grande sottilglianza de li suoi in
tendimentinelecoselequalisonbuonema questasottilglianza e cerlezza e sauere
ragion diuina e le dilettationi che l'uomo IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 9 elegge per gratia d'altro.son queste ricchezza
etc.... Jez.u] corred'untrattoalcap.XXXVIII (pp.M.41,G.121]eprosegue sino al
primo periodo del cap.XXXIX (pp.M. 43,G. 125:per a u e r e l u n g a m e n t e
u i n t i li d e s i d e r i d e l l a c a r n e . L o m a g n a n i m o serue
bene.....u]; quindi ritorna al cap.XXXIV (pp.M. 37, G.110)evasinoalcap.XXXVIII
(pp.M.41,G.120:inman. giare e in bere e in luxuria e tutle dilectationi
corporali ne la misura delle quali l'uomo elegge per se medesimo.et quando ella
e rea si detta callidita. ne le cose ree si come incanta menti.....u];dopo itre
primi periodi del cap.XXXVIII torna cosi nuovamente al cap.XXIX (pp.M. 35,G.
101). La stessa i n v e r s i o n e n e l l ' o r d i n e d e l l a m a t e r i
a h a il m s . V i s i a n i . I codici dell'Etica,in gran parte,presentano la
solita divisione della materia in dodici libri,che non di rado è limitata alla
semplice indicazione numerica,senza alcun accenno all'argo m e n t o s v o l t o
( h . 4 . ) ; i n p a r e c c h i c o d i c i ( y . c . e . h . 4 . m . r .) l
a materia oltre che in libri è divisa in tanti capitoletti ; in altri (5. 6. I.
v.) soltanto in rubriche le quali sono qualche volta costituite dalle stesse
parole del testo,come in 5 e 6.Altri co. dici mancano di qualunque divisione
sia in libri che in rubriche (p.8.Amb.166).L'Ambr.C.21inf.,delsec.XV,presentala
partizione comune fino al decimo libro;la materia degli ultimi due è divisa in
tre capitoli (c.53':tracta di la beatitudine la quale puo hauere in questo
mondo : Di po la uirtu diciamo di
labeatitudine;c.57"tractachesel'huomohabuonanatura la ha da dio : sonno
huomini che sonno buoni per pauura ; c.57'diGouernamento
dilacittade:lonobilehuomoetbuono regitore di la citta fa nobili et buoni
cittadini). In d in luogo di libri è detto fioretti, e cosi pure al principio
di v : Fioretti dell'Elicha d Aristotile del primo libro. . Dei codici
del Tesoro,taluni (e,u,n) non danno alcuna in dicazione sul modo con cui la
materia è distribuita;altri (a,a) hanno un elenco delle rubriche posto in
principio alla seconda parte dell'opera, vale a dire il VI libro; in 8 è un
rubricario generale posto in principio del Tesoro; le rubriche di t fanno
! parte del testo,e una divisione in capitoli si trova in r (De
leuilenominale deletrepotenziedel'anima Come lobene si diuide de la polenzia
dell'anima de la uerlude intellec tuale |di che l'omo desidera tre cose |de le
uerlude che ssono inabito comesitroualauerlude comel'omopuofarebene e male d e le
tre isposizioni in operatione de le cose che
conuienefareperforzaetc.).Induecodici(Z eAmb.)tutta la materia del VI libro è
divisa in cinque capitoli : 1°) « Incipit «libro d'eticha Aristotile; 2)
Secondo capitolo d'elicha Ari «stotile:sonooperationi lequali homo
fa;39)Terzocapilolo « d'eticha : due sono le specie d'amista ; 4 ) Quarto
capitolo de « eticha : la dilectatione è nata e notricata ; 5°) Quinto capitolo
« de etica : Dopo le uirtù diciamo oggimai della beatitudine ».Altri codici
presentano la divisione per libri o per rubriche che si trova nelle stampe.
Riferiamo il titolo originario dei dodici libri dell’Etica, traen dolo
da'codici più antichi ed autorevoli, del sec.XIV : « Prologo « sopra l'etica
d'Aristotile Qui si finisce il prologo di questo « libro d'Aristotile. Qui
appresso si comincia il primo libro e « tracta in questo primo libro della
felicitade : le uite nominate ve famose.IQui comincia ilsecondo libro
dell'Etica d'Aristo « tile e comincia a diterminare delle uirtudi e
primieramente « mostra che ongni uirtu che noi abbiamo è per costumanza «
d'opere:Concio siacosa che siano due uirtudi.|Qui comincia « il terzo libro
dell'etica e tratta dell'operazioni le quali sono « uolontarie e che non sono
uolontarie : Sono operazioni le quali « l'uomo fae sanza sua uolontade |Qui
comincia il quarto libro « dell'etica d'Aristotile ove si ditermina di quella
uertude la « quale è detta uertude della liberalitade :Larghezza è mezzo in «
dare e in riceuere pecunia |Qui comincia il quinto libro del « l'etica e
determina della giustizia la quale è uerti che dee « essere nell'operatione
delli huomini : Iustizia si è abilo lau « d e u o l e | Q u i c o m i n c i a
il s e s t o l i b r o d e l l ' E t i c a e c o m i n c i a a d e « terminare
delle uertudi intellettuali per ciò che infino a quie
«ellisiaediterminatodelleuirtudimorali:Due sonolespezie 10 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 11 « delle
uirtudi |Qui si comincia il settimo libro dell'etica del « s o m m o filosofo
Aristotile e ditermina della uertude la quale è « detta uertude della
contenenza : Li uizii de costumi molto « reil Qui comincia l'ottavo libro
dell'etica d'Aristotile nel quale «ditermina dell'amistade la quale è cosa
necessaria all'uomo: « Amistade si è una delle uertudi dell'uomo IQui comincia
il « nono libro dell'etica d'Aristotile il quale ditermina della pro «prietade
dell'amistade: Lo conueneuole agualliamento si « aguallia le spezie Qui
comincia il decimo libro dell'etica « d'Aristotile nel quale tratta della dilettazione
e della felicitade « per ciò che pare che queste due cose si sieno fine de la
dilet. « tazione et dice qui che la dilectazione si è fine dell'operazione
«virtuosa:La diletlazionesiènataenotricata|Quicomincia « l'undecimo libro
dell'etica d'Aristotile nel quale ditermina della « beatitudine la quale puote
l'uomo auere in questa uita. Et dice « qui che la beatitudine è cosa perfecta :
Dopo le uirtudi di. « c i a m o o g g i m a i | Q u i c o m i n c i a il d o d
e c i m o l i b r o d e l l ' E t i c a . E t « determina come l'uomo il quale
à buona natura si l'ae dalla « grazia di dio, et questi cotali sono disposti ad
acquistare uer. « tudi : Sono uomini che sono buoni per natura ». Del
rubricario più comune diamo per saggio quello del primo libro:«Perqualescienziașireggelacittade
delleuiteet « quale è laudabile |di due modi di bene che è beatitudine
«dellepotentienaturalidell'anima demeritidelleoperationi aditrespeziedelbene
Comes'acquistaetconserualabeati. « tudine |Onde uiene la beatitudine e di che à
bisognio chi « non puote auere la beatitudine per che /che cose sono aspre « a
sofferire |come ae similitudine l'uomo felice con dio onde « procede felicitade
|in che comunica l'uomo colle piante et colle «bestieetincheno
dell'animacom'aecontrarimouimenti « della uertu intellettuale e della morale
».Nel codice Marciano II,141,lamateriaèdiversamente distribuitaindodici«parti»;
la prima non è indicata,poi «della forteça: Diciamo omai di « ciascuno habito
della liberalità: largheça è meço in dare « del conuersare: dopo questo
dobbiamo dire di quelle cose
«dellagiustitia:Justiciasièhabilolaudabile dellointellecto « dell'anima : Due
sono le specie delle uirtudi |de tre uitii primi : «Vilii e costumi molto
rei|dell'amistade:Amistade e una «delle uirtude dell'uomo e d'iddio |dello
aguagliamento della «amistade:Loconueneuoleadguagliamento delladilectatione: «
La dilectationesiènata enutricala |della beatitudine:Quando
«noiauemodeterminato delcorreggimentodeVitii.depaura. « della pena : La
scienzia delle uirtudi si a questa utilitade ». Ilcompendio volgare del
Trattato Aristotelico,come si può desumere dall'incipit e dall'esplicit di ogni
codice,veniva più comunementeindicatocoltitolodiElhicad'Aristotile,edanche:
Etica del sommo phylosofo Aristotile; molto più raramente : Fioretti dell'Elica
d'Aristotile. Occorre anche talvolta la indi cazione latina : Elhica
Aristotilis, e più sovente quella di Liber E t h i c o r u m . N e ' c o d i c
i d e l T e s o r o il t i t o l o p i ù c o m u n e è p u r e : l'Etichad'Aristotile,edanche:l'EtichadelgrandesauioAri
slotile;in parecchi si trova l'indicazione latina:Ethica Ari stolilis. Nei
codici dell'Etica manca ogni notizia intorno alle necessità e a'criteri
dell'opera.Fa eccezione ilcod.Marciano II, 134 il quale contiene, solo fra
tutti, l'epistola proemiale del volgarizzatore ad un amico,che a quella fatica
del tradurre avevalo indotto. « Incipit proemium transductoris huius operis «
uulgaris.— Più uolte essendo amicho mio da la tua gintileza « con grande
instanzia infestato l'Eticha Iconomicha et politicha de « Aristotile de lingua
latina in parlar (moderno] et uulgar ti « transducha. La quale richiesta
considerando truouo la mala «sua axeuolezza uincere ogny mia faculta.Et anche
hauendo « udito altri circha a questa opera auere insudato non m'è pa «ruto
douerse seguire per fugire la riprensione de molti.Ma « pure la forza de la tua
amicizia è tanta che mi constringie et «fami intraprendere quello che mi
cognosco impossibile.Onde « la gratia superna inuocho al principio di tale
faticha doue « mi mecto seguendo el uoler tuo iusta mia possa. Et perche el «
dire de Aristotile è scropoloso et stranio molto dal modo del « nostro parlare,
pure quanto potro ad esso mi acostero.Alcuna 12 C. MARCHESI
IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA « uolta le sue proprie
parole et alcun altra el senso dimostraro «suzinto,seruando la uerità del
testo.Ma auanty che questo « cominci alquanto della persona et essere suo
toccharo ad cio « che le sue opere pergrate siano da te riceuute ». Il prologo
non ci porge alcuna notizia storica,e del resto sulla sua auten ticità ci
lascia grandemente perplessi. Il fatto che,tra tanti manoscritti dell'Etica,
noi lo troviamo solo in questo,abbastanza tardivo,della fine del sec.XV,può
destare grave sospetto,ma non sarebbe ad ogni modo motivo sufficiente per
indurci a rin negarlo senz'altro. Ben altri motivi non ci permettono di prestar
fede all'autenticità del proemio Marciano. In esso il volgarizza tore dice di
aver udito « altri circa a questa opera avere in « sudato » ; l'espressione è
molto ambigua ; giacchè o si riferisce a precedenti volgarizzatori,e ciò non è
possibile perchè Taddeo fuilprimoavolgarizzarl'Etica,oatraduttorilatini;ma per
quanto sappiam noi in nessuna delle traduzioni latinedella Ni comachea si
leggono accenni alle difficoltà del traduttore; solo Ermanno ilTedesco,nel
prologodellasuaversione delCommen. tario d'Averroè alla Poetica
d'Aristotele,dice della grande dif ficoltà da lui trovata « propter
disconuenientiam modi metrifi «candiingraeco cum
modometrificandiinarabo,etpropter auocabulorumobscuritates»(1);ma
cisembrerebbeaffatto inopportuno scorgere nel prologo alla Poetica di Ermanno
un rapportocolprologoall'EticadiTaddeo.Epoinel1200eneltre. cento è ben
difficile trovare la nota individuale,sopratutto nelle traduzioni; furon più
tardi gli umanisti che alteri del merito proprio rivelarono a quattro venti le
difficoltà del lavoro da essi intrapreso e compiuto; del resto tutta la parte
del pro logo, di cui ora parliamo,si connette con la praemunitio tanto comune
agli scrittori del quattrocento, i quali nell'introduzione alle opere loro ci
ricordano spesso la difficoltà dell'argomento e il timore della critica e la
debolezza dell'ingegno e il riguardo 13 (1) Il prologo è pubblicato dal Jourdain
(Recherches critiques sur l'age et l'origine des traductions,latines
d'Aristote, Paris, 1843, p. 141). amorevole per l'amico che la
vince sulle giuste considerazioni e preoccupazioni dell'autore.È
questo,ripeto,un motivo comune agli umanisti,a'quali l'aveva comunicato lo
spirito retorico delle composizioni proemiali latine. Lo stile poi del proemio
è assai diverso dal volgare di Taddeo, ch'è quale potea rampollare schietto di
mezzo all'efflorescenza letteraria dell'ultimo dugento.Lo stile del prologo
marciano ri. sente molto invece di quel volgare farneticante da scuola e da
sacrestia che pretendea ingentilirsi nel '400 signorilmente, usur pando gli
addobbi lessicali delle forme latine.C'è in fine un ultimo argomento decisivo.
Nel titolo dell'epistola proemiale è adoperata la parola transductoris,e nel
volgare stesso del pro logo si trova adoperato il verbo transducere. Ora nel
sec. XIII e XIV la espressione latina traducere non è ancora passata col s i g
n i f i c a t o m o d e r n o n e l l a t i n o e n e l v o l g a r e ; il p r
i m o , c o m e p a r e , ad usare il vocabolo traducere con il significato di
tradurre, fu il Bruni, fin dal 1405 ; d'allora soltanto s'introdusse nel latino
e quindi nell'italiano (1). Sicchè possiamo affermare che il prologo Marciano è
di avan. zata fattura quattrocentina.Come sia comparso non sappiamo, nè torna
conto indagare e congetturare sulle cause e sulle ori gini di tutte
lescritturecheapparveroingrande numero,affac cendate e moleste,in quel tempo di
continue esercitazioni re toriche e di finzioni letterarie. Stabilita la unità
del volgarizzamento contenuto ne'codd.del l'Eticaedel Tesoro,passiamooramai
allaindicazionedell'autore. De' ventinove codici dell'Elica, da me esaminati,
ventidue sono anonimi;uno,del sec.XIV (5),attribuisce la traduzione a un
maestroGiovanniMin.(2);seicodici(4.y.&.g.m.p.)danno il nome del
volgarizzatore dell'Elica, traslatata in uulgari a magistro Taddeo. (1) Vedi R.
SABBADINI,Del tradurre iclassici antichi in Italia,in Atene e Roma,an.III,no
19-20,col.202. (2)ExplicitethicaAristotilistranslataamgio iohemin.uulgare.deo
gratias. 14 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 15 Dei codici del Tesoro,tre del sec.XIV,oltre la solita attri.
buzione a Brunetto in principio di tutta l'opera, alla fine del sesto libro ci
danno un'indicazione particolare del volgarizzatore, la quale è sfuggita a
tutti gli studiosi del Tesoro ed è di molta importanza per la questione agitata
intorno all'autore del com pendio volgare. Ecco dunque le soscrizioni.a:Explicit
etica Aristotilis a magistro Taddeo in uulgare traslala ; T : Explicit hetica
Aristotilis a magistro Taddeo in uolgare trasleclata ; 1:Explicit Elicha
Aristotilis a magistro Tadeo in uulghari traslatlata. Dalla tradizione
manoscritta si può dunque ricavare : 1o) che ilcompendio volgare della
Nicomachea ebbe una larghissima diffusione come testo particolare, indipendente
da altra opera ; 2°)ch'esso,quando non correva anonimo,veniva comunemente
attribuito a maestro Taddeo. Ma da'codici del Tesoro balza fuori un nuovo
cumulo d'in dizi gravi e sicuri, che infirmano seriamente l'unità del vol
garizzamento dell'opera di Brunetto,attribuito sempre con cordemente per intero
a Bono Giamboni : 19) Parecchi codici del sec. XIV danno, come s'è visto, il
nome del volgarizzatore del l'Etica : Maestro Taddeo ; la soscrizione finale,
perchè non si possa ritenere aggiunta posteriore,è sempre di mano del copista
che ha trascritto il codice per intero.Questà attribuzione è
l'unicachesitroviintuttoilms.,oltreaquellageneralecon cui va riferito il
complesso dell'opera a Brunetto.Ciò è di spe. ciale importanza per noi :
difatti, giacchè il copista solo per l'Etica sente il bisogno di riferire il
nome del traduttore, vuol dire ch'ei sapeva che solo quella parte del Tesoro
rimaneva estranea al volgarizzamento generale dell'opera, e il volgare di
Taddeo vi si trovava come inserito. In qualche codice anepigr. e mutilo,come
a,l'attribuzione a Taddeo è anzi l'unica indica zione di autore che sitrovi in
tutta l'opera.2 ) Di solitoicodici mutili si fermano prima di giungere
all'Elica; d'altra parte pa recchi mss.del Tesoro si arrestano alla fine del
compendio aristotelico. Ciò dimostra che questo costituiva come un punto
di fermata, era un libro introdotto a parte, si che poteva benis simo
arrestare al libro V l'amanuense che fosse sprovvisto del. l'originale, o
determinare una pausa nella trascrizione,alla fine del libroVI(1).3o)Nel
cod.r,miscellaneo,l'Elica è preceduta dal VII libro del Tesoro : si può notare
dunque il distacco ch'è tra le due parti, non considerate come legate e
dipendenti nella stessa opera.4°)In qualche ms.,come ri,precede una tavola
della materia che giunge sino a tutto il libro V , escludendo la rimanente,
dall'Elica in poi ; e ciò dimostra ancora che l'Elica arrestava quasi il corso
regolare dell'opera volgarizzata ed era estraneaalvolgarizzamento del
Tesoro.5°)Un particolare fon damentale:ilcod.d ha questa soscrizione
dell'amanuense,al l'Etica: Ecplicit l'Etica Aristotile in questo tanto che io noe
t r o u a t a ; c i ò s i g n i f i c a c h i a r a m e n t e c h e il c o p i
s t a , p e r t r a s c r i v e r e la parte dell'opera che comprendeva il
compendio aristotelico, era obbligato a ricorrere ad un altro testo che non era
quello unico del Tesoro.6°)Ci resta finalmente da osservare che mentre tutti i
codici del Tesoro differiscono quasi sempre e in m a niera notevole nella
lezione, mostrano invece una concordanza molto maggiore nell'Etica; vuol dire
che si tratta di un testo particolarmente prefisso a'trascrittori.Ciò dimostra
ancora la maggiore divulgazione del testodell'Etica lacui lezione più re
golare, rispetto alla lezione caotica del Tesoro, era fissata da una più grande
diffusione delle copie. Concludiamo questa prima parte. Dall'esame dei codici e
della materia manoscritta ci risulta che esisteva nel secolo XIV un compendio
volgare della Nicomachea,attribuito a maestro Taddeo, che noi troviamo anche
inserito integralmente nel Tresor vol garizzato, di cui costituisce il VI
libro. Ma nèicodicidelTesoro,nèquellidell'Eticacidicono da ( 1 ) Il S o r i o d
a q u e s t o p a r t i c o l a r e , c h ' e g l i o s s e r v ò n e l c o d .
A m b r ., t r a s s e
argomentoprincipalediattaccoallaautenticitàdelVIIlibrodel Tesoro.La opinione
del Sorio fu combattuta dal Gaiter (Propugnatore, 1874,pp.334 sgg.) con
argomenti dubbi ed indecisi: l'uno e l'altro eran difatti fuor di strada.
16 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 17 che
volgarizzó Taddeo.La questione è importantissima;data la identità tra l'Elica e
il volgare del VI libro del Tresor non resta che una questione di priorità:0
Brunetto si servi di Taddeo, o Taddeo di Brunetto ; vale a dire,o maestro
Taddeo volgarizzo il VI libro del Tresor, il quale ebbe così tradizione e fortuna
isolata da tutto il resto del volgarizzamento, ch'è opera di Bono ; o Brunetto
si servi per il suo Compendio francese del volgare di Taddeo,che fu introdotto
però intatto nel Tesoro, in luogo di un volgarizzamento diretto dal francese.
Nel Convito di Dante è unpasso che spinge molto avanti la questione:
Tratt.I,cap.10:«La gelosia dell'amico fa l'uomo
«sollecitoalungaprovvedenza:ondepensandocheperlode < siderio di intendere
queste Canzoni alcuno inletterato avrebbe «fatto il comento latino trasmutare
in volgare,e temendo che 'l « volgare non fosse stato posto per alcuno che
l'avesse laido « fatto parere, come fece quelli che trasmutò il latino del
«l'Etica,ciò fu Taddeo Ippocratista,provvididiponere «lui,fidandomi di me più
che d'un altro».IlSundby,che vuole ad ogni costo ritenere di Bono tutto il
volgarizzamento del Tresor,se ne sbriga assai piacevolmente: « Nel caso adunque
« che il passo succitato del Convilo fosse esatto in tutte le sue « parti, la
cosa sarebbe chiarissima : la traduzione di Taddeo « dovrebbe essere affatto
diversa di quella di cui noi ci occu « piamo,e questa si dovrebbe attribuire a
Bono Giamboni » (1). E non ci sarebbe niente da dire; resterebbe però fin ora
da spiegare,se non altro,la tradizione manoscritta che,laddove non tace,dà il
nome del volgarizzatore:Taddeo,accordandosi col passo di Dante ; e d'altra
parte non sarebbe lecito trascurare quegl'indizi che non danno certamente più
come sicura l'unità delvolgarizzamentodiBono.Nedevefareombra l'appellativo di «
laido » dato da Dante al volgare di Taddeo, giacchè per C. MARCHESI. ( 1
) O p . c i t ., p . 1 4 2 . 2 certo questo non è il modello
migliore di prosa trecentistica, e la opinione del Nannucci (1),di cui si fa
forte il Sundby,può ri tenersi giustificata da un sistema di ammirazione
proprio della fede e dell'entusiasmo delle generazioni passate per tutti i do
cumenti letterarî del nostro trecento. Tutto dunque ci fa credere che il
volgarizzatore sia maestro Taddeo : 1 ) Esiste una sola Etica volgare in tutti
i codici; 2 )i codici che portano il nome del volgarizzatore l'attribuiscono a
m a e s t r o T a d d e o ; 3 ) l a d i c h i a r a z i o n e e s p l i c i t a
d i D a n t e , il q u a l e ha l'aria di parlarne come dell'unico,comunemente
noto,vol. garizzamento ch'esistesse a suo tempo dell'Etica latina. kesta anche
esclusa la prima congettura,che Taddeo volgarizzasse il francese di Brunetto ;
Dante ce lo dice esplicitamente : « colui « che trasmutó lo latino dell'Etica
». Del resto, a prescinder da altriargomenti principaliedecisivi,ch'esporremosubito,ilcom:
pendio volgare dell'Etica non può ritenersi come volgarizzamento del VI libro
del Tresor per le frequenti differenze, non solo di forma ma di sostanza,che
presenta rispetto al testo francese: e sono omissioni o aggiunte di pensieri,di
esempi,di considera zioni, ampliamenti o riduzioni di concetti : e tutto questo
non può ammettersi nella traduzione di un'opera,a meno che il traduttore non
abbia voluto rimaneggiare per conto suo l'ori ginale. Dunque Taddeo volgarizzò
e compendio da una delle redazioni l a t i n e d e l t e s t o a r i s t o t e
l i c o , l a q u a l e e r a n o t a a l l o r a s o t t o il n o m e di Liber
Ethicorum , nome ch'è anche particolarmente proprio di un'altra redazione
latina della Nicomachea, letterale e molto o s c u r a , c u i il c o m m e n t
o t o m i s t i c o a v e a s p i n t o a l l o r a a l l a m a s s i m a
diffusione. Dal testo tomistico difatti il Sundby ( 2) fa derivare il compendio
francese e volgare dell'Elica,e pone iraffronti;ve dremo appresso come il
critico danese si sia messo su una falsa (1)Manuale della
lett.italiana,vol.I,p.382. IlN. trova anzi l'Etica «adorna di molta purezza e
semplicità di stile». 18 C. MARCHESI (2) Op. cit., pp. 144 sgg.
IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 19 strada.Ad ogni modo che
Taddeo abbia tradotto direttamente dal Jatino ci è confermato dal confronto tra
l'Etica volgare e il Liber Ethicorum da cui dipende; se avessimo scarsezza di
argomenti o mancanza di prove sicure potremmo anche valerci delle soscri zioni
di taluni codici dell'Etica e del Tesoro che indicano il nostro volgarizzamento
come Elhica Aristotilis e più spesso Liber Ethi corum ,facendoci sospettare
lasua provenienza dal testo latino. Di maestro Taddeo i codici (4. y.) ci dicono
soltanto che su « florentino » e Dante aggiunge ch'ei fu medico, « Ippocratista
». Di un Taddeo, d'Alderotto, fiorentino, « fisico massimo », scrisse, con la
solita ingenuità,una breve vita Filippo Villani (1),il quale ce lo descrive di
parenti oscuri, poverissimo, dedito ai mestieri più vili, e « col cerebro
oppilato e tenebroso » fino ai trent'anni (2). Passati gli anni trenta « si
consumarono quegli «umori grossi»;Taddeo divenne un altro uomo e rivelòilsuo
ingegno dedicandosi allo studio delle arti liberali,della filosofia e per
ultimo della medicina,che insegnò pubblicamente a Bo logna. Dice il Villani : «
Fu costui de' primi infra' moderni che adimostrò le segretissime cose dell'arti
nascoste sotto i detti « degli autori, e la spinosa terra e inculta solcando
all'ottimo « futuro seme apparecchiò. Questi, sprezzati alcun tempo i so
pravvegnenti guadagni,cupido di gloria e d'onore,si dette a « commentare gli
autori di medicina. Nella qual cosa fu di tanta «autorità,che quello ch'egli
scrisse è tenuto per ordinarie achiose,lequali furono postene'principali
libridimedicina. « E fu in quell'arte di tanta reputazione, quanto nelle civili
« leggi fu Accorso, al quale egli fu contemporaneo ». Il Villani ci riferisce
inoltre un aneddoto molto curioso, riportato poi dal (1) Le Vite d'uomini
illustri Fiorentini,colle annotazioni del co.G. M a z zucbelli,Firenze,
1847,pp.27-28. (2) Il Biscioni, in una nota sopra Taddeo, inserita nelle Prose
di Dante e del Boccaccio, Firenze, 1723, vuol dimostrare che Taddeo era di
famiglia cittadinesca,che possedeva effetti stabilieche prese per moglie una
de'Ri goletti, il cui padre aveva il titolo di dominus, che in quei tempi si
con cedevasoltantoa cavalieri.Cfr.notadelMazzuchelli,Op.cit.,p.98.
20 C. MARCHESI Negri (1) e dal Fabricio (2), intorno agli eccessivi compensi
che Taddeo « tenuto come un altro Ippocrate da'Signori d'Italia in « fermi »
(3), esigeva per le sue visite giornaliere ; e ci narra che chiamato a Roma dal
pontefice,Onorio IV,richiese cento ducati d'oro al giorno; invece,dopo la
guarigione del pontefice, n'ebbe in compenso diecimila (4).Il Villani non ci dà
alcun cenno cronologico;dice solo che fu seppellito a Bologna d'anni
ottanta.Giovanni Villani (Storie, VIII,cap.65),seguito dal Fa. bricio, dal
Poccianti e dal Cinelli, pone l'anno della morte nel 1303;l'Alidosi sostiene
invece che Taddeo morisse nel 1299,il Biscioni nel 1296 (5) e il Negri (6), per
approssimazione, nella fine del sec.XIII.Delle opere di Taddeo ci attesta il
Mazzu chelli (7) ch'esiste una raccolta a stampa col titolo « Expositiones
«inarduumAphorismorumHippocratisvolumen.Indivinum « Prognosticorum Hippocratis
librum . In praeclarum regi. a minis acutorum Hippocratis opus. In
subtilissimum Iohan «nitiiIsagogarum libellumIohan.Bapt.Nicollini Salodiensis
aoperainlucememissae.Venetis,apudLuc.Antonium Iuntam,
«1527».Scrisseancheinci.Galeniartemparvam commen taria, Neapoli, 1522. Il
Mazzuchelli, che attribuisce anch'egli a Taddeo la traduzione in volgare
dell'Elica d'Aristotile,aggiunge che nella libreria dei pp.Minori Osservanti in
Cesena si con serva un ms.intitolato Magistri Taddei Glossae in Galenum,
eiusdem Aphorismata.Di maestro Taddeo si conservano in al cuni codici (8)
parecchi trattatelli medicinali e fra questi è par (1)Istoria degli Scrittori
Fiorentini,Ferrara,1722,p.508. (2)Biblioth.latinamediae
etinfimaeaetatis,Patavii,1754,t.VI,p.221. (3)Notissimo anche un distico del
Verino (de illustr.urbis Florent., lib.I)su Taddeo:«Est quoque Thadaei
celeberrima fama,non alter For « sitan in medica reperitur ditior arte ». (4) A
proposito di questo aneddoto vedi la erudita nota del Mazzuchelli,
Op.cit.,pp.98 sgg. (5)Cfr.Mazzuchelli,Op.cit.,pp.99 sgg. (6) Op. cit.,
loc. cit. (7) Op.cit.,p.98. (8)Biblioteca Angelica (Roma),1376 a c.321: Thaddaei
de florentia IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 21
ticolarmente diffuso un libellus de seruanda sanitate o libellu's conseruandae
sanitatis, dedicato a Corso Donati (1). Fra i m a noscritti che lo comprendono
è di speciale importanza l'Ambro. siano J. 108 sup.,del sec.XIII (2),per una
nota posta in principio, d i m a n o d e l l o s t e s s o c o p i s t a c h e
t r a s c r i s s e t u t t o il c o d i c e : « I s t e « libellus |scriptus
et compositus per probissimum et prudentis « simum uirum dominum magistrum
Taddeum de Flor. doctorem « in arte medicine in ciuitate bononie | transmissus
nobili militi « domino Curso donati de florentia », È notevole anche il proemio
del trattato medicinale:« Quoniam passibilis et mutabilis a existit humani corporis
conditio, complexionem et consisten « tiam quam a principio sue originis homo
habuit non seruando, « necessarium extitit artem et scientiam inuenire,per quam
in « sanitate et natura et corpus hominis conseruetur, motus igitur « precibus
et amore cuiusdam mei amici,multa mihi dilectionis «teneritate coniuncti nec
non pro utilitate aliorum hominum, « more uiuentium bestiarum ad conseruationem
sanitatis et uite « in humanis corporibus libellum medicinalem inuenire
disposui « de libris et dictis philosophorum breuiter compilatum ». Da queste
ultime parole risulta ancor meglio l'identità ch'è tra l'autore del libellus,
studioso sfruttatore e compendiatore di m a teria filosofica e l'autore del
nostro compendio volgare dell'Etica. Il trattato di Taddeo,molto curioso,contiene
quei precetti igienici che bisognerebbe osservare fin dal principio della
giornata in torno alle abluzioni del capo,all'igiene della bocca,dello stomaco,
libellus medicinalis ; 1506, c. 46t : Magistri Thaddaei de florentia de r e
giminesanitatis;1489,c.160:Curacrepotorummagni Tadeiabeocom posita.
(1)Riccardiana,1246;Magliabechiana,cl.21,cod.62;141. (2)Membran.a due
colonne;contiene:19) Vegetii de re militari libri; 29) Isiderus de bellis; a
c.31a segue la notissima epistola de cura et modo rei familiaris di Bernardo,al
gratioso militi et felici domino Raimundo domino CastriAmbrosii;a c.32asegue
iltrattatodiTaddeo.Ilcod.consta d i c c . 3 5 n . n u m ., l a c . 3 4 * e 3 5
a v u o t e . Q u e s t o c o d . s i t r o v a l e g a t o a s s i e m e con
un altro membr.dello stesso formato,di cc.19 scritte perdisteso,con tenente i
Saturnali di Macrobio. 22 C. MARCHESI de'cibi,delle bevande,della
digestione,del sonno;sulle condi zioni del corpo umano durante le diverse
stagioni e quindi sulla igiene delle stagioni. Segue a dire della efficacia
terapeutica, molto larga,dialcune pillole,da prendersi avanti o anche dopo
ilcibo,compostedaun«frateRobertodeAlamania»conuna quantità di sostanze vegetali
e aromatiche. La parte trascritta nel cod.Ambros.finisce con la ricetta adatta
«ad faciendum «cristerepropassioneyliaca». QuestoTaddeofamosissimo
medicodelsuotempoedanchepoeta(1),autoredicommentari e di trattati, insegnante
l'arte della medicina nell'Accademia di
Bologna,fualtresìquellochetradussedallatinoinvolgare il compendio dell'Etica
aristotelica. E veniamo al VI libro del Tresor. È noto ed è stato detto da
tutti gli editori e gli studiosi del Tresor, ch'esso risulta da m o l teplici e
varie compilazioni fatte in diverso tempo da Brunetto, su scrittori specialmente
latini; poi riassunte e combinate nel compendio enciclopedico francese del
maestro di Dante. Lo C h a baille anzi afferma che Brunetto avea preludiato
alla compila zione del Tresor con opuscoli separati in prosa e in verso, fra
cui l'Elica d'Aristotile,ch'egli dunque suppone,come parecchi altri,compendiata
e volgarizzata da Brunetto Latini,prima della compilazione del Tresor (2). Ma
su ciò non vale la pena discu tere,giacchè sarebbe combattere contro imulini a
vento. ( 1 ) M a g l i a b e c h ., c l . X V I , c o d . 7 5 , T a d a e i m a
g i s t r i d e F l o r e n t i a C a r m i n a . (2) Op. cit., Introd., p.
vi. Riferiamo un passostesso di Brunetto:Liv.I,cap.I:«Il « (cist livres)
est autressi comme une bresche de miel cueillie « de diverses flors; car cist
livres est compilés seulement de « mervilleus diz des autors qui devant nostre
tens ont traitié « de philosophie, chascuns selonc ce qu'il en savoit partie ;
car « toute ne la pueent savoir home terrien, porce que philosophie « est la
racine d'où croissent toutes les sciences que home peut IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 23 « savoir ». Egli dunque non dice
di essersi limitato a raccogliere e tradurre scritti latini soltanto; e si deve
intendere anche di volgari. Fra questi è il compendio dell'Etica di maestro
Taddeo che Brunetto, valendosi anche di raffronti continui con il testo latino
originale,trasporto nel VI libro del suo Tresor. Allo Zannoni, il quale
riteneva che Taddeo avesse tradotto Aristotile di latino in italiano e che
Brunetto poscia voltasse il testo di Taddeo in francese (1), il Sundby opponeva
le parole di Brunetto, che nel Prologo della seconda parte (il VI libro del
Tesoro volgare)dichiara di tradurre il libro d'Aristotile de latin en romans
(2).Per venire in aiuto di quanto abbiamo asserito non è necessario ricorrere
alla sottile nota del Paitoni (3),ilquale sosteneva che il volgare italiano si
chiamava anche « latino » ; giacchè essendosi Brunetto servito non solo del
volgare di Taddeo, ma anche,come vedremo,della redazione originale latina,anzi
avendo acconciato e rifatto in molti punti il volgare in base al t e s t o l a
t i n o , è c h i a r o c o m e a b b i a p o t u t o d i r e d ' a v e r t r a
t t o il s u o compendio dal latino,che del resto è anche l'originale
dell'Etica diTaddeo. E poniamo lenostreconclusioni.Ilcompendiovolgaredell'Etica
è la traduzione che maestro Taddeo fece di una delle redazioni latine del
testoaristotelico,laquale ci è rimasta.La traduzione è in gran parte fedele al
contenuto, nella forma è condotta al quanto liberamente: spesso il traduttore
compendia la materia, d'altra parte allarga sempre la frase o il concetto e
diluisce nel volgare il testo latino per bisogno di ripetizioni o di esempi o
di ampliamenti,servendosi,come fa in principio,di qualche altro rifacimento o
aggiungendo delle dichiarazioni proprie.Taddeo non è un traduttore letterale
che si preoccupi della frase e voglia mantenersi fedele alla parola o al tenore
dell'esposizione; egli (2) I codici del Tesoro traducono « di latino in uolgare
», ovvero « di « latino in romanzo » o « di gramaticha in uolgare ».
(1)Op.cit.,c.s. ( 3 ) O p . c i t ., c . s . è solo un interprete
occupato del contenuto che pur vuole p a recchie volte acconciare dal lato espositivo
nella maniera più rispondente, secondo lui, a'bisogni della chiarezza e della s
e m plicità.È l'originale una traduzione latina,già compiuta nel l'anno 1243 o
44 (1), di un compendio alessandrino-arabo della
Nicomachea,elementarissimo,semplice e piano,ridottoa una esposizione
riassuntiva molto breve, e talvolta anche efficace, nonostante l'incertezza e
la poca fedeltà di talune espressioni. Molti luoghi fondamentali, anzi diciam
pure tutte le parti più notevoli per gravità e serietà di enunciati,per
difficoltà di contenuto critico, vengono senz'altro omesse interamente, o ri
dotte alla loro ultima e più semplice espressione. Cosi, per dare qualche
esempio , nel 1° libro è saltato il passo importante al principio del cap.3,in
cui Aristotile nega la possibilità diotte. nere una precisione assoluta nei
giudizi e pone la necessità del giudizio per approssimazione ; altra omissione
considerevole è quella della prima metà del cap.4,in cui Aristotile passa alla
definizione del supremo de beni, alla critica del concetto di fe licità, e si
accinge a discutere la dottrina platonica del bene assoluto; è tralasciata pure
tutta la confutazione della dottrina platonica delle idee (cap.VI) e l'astrusa
enunciazione fondamen tale dell'Eudaluovía aristotelica considerata come bene
vero ed assoluto che comprende in sè, unificandoli, tutti gli altri beni
necessari all'autarchia della vita ; e della seguente trattazione intorno
a'principii (cap. VII) non è alcun cenno nel compendio . Dei brani accolti
tuttavia è vero e proprio ampliamento. Ad ogni modo il testo si prestava
benissimo all'intelligenza comune per l'intendimento più facile e semplice e la
forma più piana che non l'oscurissimo Liber Ethicorum del commento tomistico.
(1)Questo compendio fu conosciuto prima dal Jourdain (Op.cit.,p.144) in un
codice,no 1771,della Sorbona; e più tardi dal Luquet (Hermann l'Allemand, in
Revue de l'histoire des Religions, Paris, 1901, t.44,p.410) in due mss. della
Biblioteca Nazionale : il n ° 12954, che pone la data della
versionenel1244,eilno16581cheèforselostessovedutodalJourdain. 24 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 25 Come
compendio poteva anzi dirsi ben riuscito;giacché per ri durre allora in più
brevi proporzioni l'Elica nicomachea, ch'è da per sè una condensazione poderosa
delle norme logiche e de principi esposti nell'Organo, bisognava appunto
sfrondarla di tutti i luoghi più ardui 'a spiegarsi e a comprendersi senza
l'aiuto di richiami e di collegamenti, e semplificarne e chiarirne il contenuto
eliminando la rassegna delle opinioni e la parte critica, sopprimendo le
divisioni minori, togliendo il carico degli argomenti favorevoli o 'contrarî ad
ogni problema e riducendo questo alla sua più semplice ed elementare
espressione.Ilcom pendio arabo latinizzato era dunque il testo etico
aristotelico di moda piùrecente.Essocièrimasto,sottoilnome diLiber Ethico r u m
, i n u n c o d i c e L a u r e n z i a n o , g i à G a d d i a n o ( P l u t .
8 9 i n f ., 4 1 ) membr.in fol.del sec.XIII,a due colonne,di
cc.scr.219,miscell. enontuttodiunamano;contiene:1)unaCronicadianonimo;
2)laHistoria troiana di Darete frigio,premessa un'epistola:Cor nelius Nepos
Sallustio Crispo suo salutem ; 3) Graphia aureae
urbisRomaeseuantiquitatesurbisRomae dianonimo;4)Eu tropii historia romanae
Ciuitatis dilatata a Paullo Diacono : 5) Liber Alexandri regis ; 6) un'epistola
di Alessandro ad Aristo tile intorno alle regioni e alle cose notevoli delle
Indie ; 7) Liber Sibyllae, di Beda ; 8) un'epistola dell'abate Ioachim ; 9)
un'ora zionediSenecaaNerone;10)iLibrideremilitaridiVegezio;
11)ilLiberEthicorum,d'Aristotile:vadac.131ac.142;la materia è distribuita in
ventidue capitoli indicati dalla iniziale colorata;manca
ognialtradivisione.Com.:Incipitliberprimus Ethicorum .R.;allafine:Incipiamus
ergoetdicamus.Explicit prima pars nichomachie Ar.que se habet per modum theo
rice et restat secunda pars que se habet per modum pratice. Et est expleta eius
translatio ex arabico in latinum . Anno incarnationis uerbi M. CC.XLIII.Octaua
die Aprilis. La soscrizione, importantissima per la storia di questa reda
zione,è di mano dello stesso copista,scritta con lo stesso in chiostro e coi
medesimi caratteri di tutto il testo aristotelico. Seguono di mano più recente
e in carattere minuto alcune cita zioni dell'andria e dall'Eunuco
di Terenzio.La lezione dell'Etica verso la fine è molto incerta e in taluni
punti a dirittura insa nabile. Dopo il Liber Elhicorum vengono le orazioni
catilinarie e iltrattato de Senectute,l'orazione di Sallustio contro Cicerone,
l'invettiva di Cicerone contro Sallustio, le orazioni pro Marcello , pro
Ligario,proDeiotaro,ilibride Officiis,iParadoxa,epoi la Catilinaria e il
Giugurtino di Sallustio; seguono, di mano del sec.XIV,alcune bolle di papa
Bonifacio VIII. La versione dell'Etica, compiuta nel 1243, si deve con molta
probabilità attribuire ad Ermanno ilTedesco (Hermannus Alemannus),il quale
trovandosi in quel tempo nella Spagna,a Toledo,aveva due anni prima (nel 1241)
ridotto in latino il commento di Averroè alla Nicomachea,e più tardi nel 1256 compi
la versione di altri due testi arabi di Averroè relativi alla poetica e alla
retorica d'Aristotile. La traduzione di Taddeo,che dovette essere di poco,meno
di un ventennio, posteriore, corse ed ebbe fortuna e divulgazione ; ce lo
attesta il buon numero di codici, l'uso che ne fece Brunetto, la dichiarazione
di Dante che ne parla come di cosa comune mente nota,egli che molte espressioni
del volgare di Taddeo ricorda nella sua Commedia . Brunetto Latini più tardi si
accinse a svolgere nella parte morale del suo Tresor la dottrina etica di
Aristotile. Egli si servi del volgare di Taddeo,ma prese anche i n m a n o il t
e s t o l a t i n o : c e l o d i m o s t r a n o l e a g g i u n t e e l e m o
dificazioni introdotte, che corrispondono in tutto con il Liber Ethicorum ;
qualche altra volta ridusse il volgare di Taddeo e quindi con esso anche il
latino della redazione araba. Nessuno vorrà certo ancora dubitare che l'Etica
di Taddeo sia tratta dal compendio francese di Brunetto, rivendicando a questo
la priorità; giacche,pur volendo saltare sul passo di Dante, sulla particolare
designazione de'codici,sulla tradizione isolata dell'Elica volgare,rimane
sempre una barriera dinanzi a cui bisogna fermarsi:la materia de'due
Compendî.La dipendenza diretta dell'Elica dal testo latino ci è fra l'altro
attestata dalle numerose espressioni latine trasportate di peso,quando
corrispon 26 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 27 dano nel lessico volgare, nel compendio di Taddeo; mentre Brunetto
è costretto tante volte a tradurre dirersamente,m u tando la dizione, e
dall'Elica e dal Liber Ethicorum . D'altra parte poi nell'Etica molte cose ci
sono che mancano nel com pendio franceseeche pur dipendono dal testo
latino.Un'ultima prova : tutti i codici dell'Elica e del Tesoro si chiudono
allo stesso modo, con le stesse parole, e la chiusa non corrisponde al testo
francese. Brunetto va più in là di Taddeo : egli include nel suo compendio
tutta la fine del rifacimento latino. Se si do. vesse considerar l'Etica come
un volgarizzamento del libro VI del Tresor,anzi che come un compendio
indipendente,non si spiegherebbe più quella ostinata lacuna e quella costante
diver genza alla fine. Solo cinque codici dell'Elica, di trascrizione al quanto
tarda, seguono volgarizzando l'opera di Brunetto : i tre c o d i c i M a r c i
a n i e i c o d d . 9 e A m b r o s . C 2 1 . i n f ., i q u a l i r i v e l a
n o molto chiaramente l'influenza del testo francese. In essi il brano finale è
volgarizzato in modo del tutto differente; ciò è na turale: giacchè nessun
codice dell'Etica e del Tesoro dava quella parte del testo francese, i
trascrittori, che tennero l'occhio al Tresor , dovettero pensare , ciascuno per
conto proprio, a volgarizzarla.Anzi il Marciano II, 134 contiene tutto quanto
ilcompendio di Taddeo,compreso ilbrano finale rias suntivo,che non si trova
invece negli altri codici dell'Etica o del Tesoro iquali proseguono col testo
francese sino alla fine; e questa nel Marc.II,134 ci appare evidentemente come
una sovrapposizione voluta dal trascrittore. Naturalmente tutti i giudizi e i
sospetti di ampliamenti, di aggiunte, di mutamenti arbitrarî del
volgarizzatore, di sbagli continuati degli amanuensi, agitati dagli editori del
Tesoro, ca dono innanzi all'entità e al valore storico diverso dei due com
pendi, volgare e francese. E data la priorità del volgare, cadono anche
meschinamente tutti i tentativi di emendazione apportati dagli editori alla
lezione del VI libro in base al testo francese (1). (1) Nel Propugnatore
(1874, pp. 105 sgg.) il Gaiter, che accudiva allora Quale dei due
traduttori,in fine,abbia merito maggiore non possiam dire.Taddeo ha ilmerito
della priorità;Brunetto che lavoròappresso a lui è più fineecompleto,e poi
anche ilfran cese si prestava allora molto meglio del volgare italico.Taddeo
qualche volta amplia o riduce la materia, Brunetto si richiama al testo.Siamo
nel periodo de compendi e dell'enciclopedia. U n compendio fatto è fatica
risparmiata al maestro che deve dire le«chose universali».Brunetto,che aveva
intelligenza fine, trasse il compendio italico alla lingua di Francia e
l'incluse n e l l'opera sua e ne colmo le lacune e ne affino i contorni e lo
ripuli di fronte al testo latino,da cui egli pompeggiandosi dicea di aver
tratto la parte morale del Tresor. E non fa cenno di Taddeo :
egliaccoglie,corregge,assimila;d'altraparteètuttauna let teratura e una
divulgazione anonima quella che dall'ultimo m e dievo va al trecento,e i
diritti di proprietà letteraria non sonoancor sorti. E poi maestro Taddeo forse
non appariva degno di menzionespecialealmaestrodiDante;echisa,forse,che in
questo non dobbiamo trovare indizio di una lotta accademica, svoltasi di mezzo
al laicato dotto della seconda metà del dugento e nel trecento,negli Studi
pubblici,tra medici inchinevoli alle lettere e letterati avversi a'medici ? C'è
però da osservare che nel ritocco della materia volgare,in base al testo
latino, Bru netto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata
o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad ac conciare la
materia nel contenuto ideale, per il modo con cui le idee furono rese nel
volgare o compendiate o disposte o interpretate riguardo all'originale
latino.Questo dunque testi monia onorevolmente che Taddeo era allora ritenuto
autorevole 28 C. MARCHESI a preparare,con l'aiuto dei mss.e del testo
francese,la sua edizione del l'operadiBrunetto,inunsaggiodicorrezionialVI
libro,siscagliasempre, con taluni intendimenti spiritosi,contro l'amanuense che
tanto strazio avea fatto del presunto volgare di Bono ; e con l'aiuto del testo
francese si affanna a correggere gli sbagli e a colmare le lacune lasciate dai
trascrittori e da Bono stesso. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 29 ed esperto intenditore del trattato aristotelico anche da un
uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande di scepolo di
costui non apparisse ugualmente felice dicitore del volgare. Dunque Brunetto si
valse del volgare di Taddeo (1), ch'ei ri. dusse e acconciò in molti punti in
conformità al testo latino, come si vedrà chiaramente dal confronto che faremo.
Più tardi gli amanuensi del Tesoro,al posto del VI libro,introdussero il
volgare già ben noto dell'Elica, essendo ben chiara e conosciuta la dipendenza
del compendio francese dall'altro volgare.Cosi resta anche spiegato il fatto
che parecchi codici del Tesoro si fermano all'Etica: Il compendio di Taddeo
rimaneva, rispetto al VI libro del Tesoro, originale e fondamentale ; in un
volgariz zamento italico dell'opera di Brunetto esso dovea necessariamente e
naturalmente tenere il posto del francese che da esso proveniva. Già anche
loChabaille noto come la seconda parte del Tresor, interamente consacrata alla
morale, offre «plus d'ensemble « et plus d'unitė » (2); ed anche noi durante
l'esame critico dei codici abbiamo potuto osservare come appunto il VI libro
non presenti quella lezione così fluttuante, incerta, caotica degli altri
libri;ciò è ben chiaro:icopisti avevano un testo già da lungo tempo fissato.
Con questo se abbiamo voluto rilevare la differenza che l'Etica offre,
nell'incertezza minore della lezione, rispetto a'libri volga rizzati del
Tesoro,non intendiamo affermare che la lezione del compendio di Taddeo
siacostante e sicura.La mancanza diuna lezione rigorosamente affine nella
maggior parte dei codici si deve al fatto ch'essi servivano non ad uso
letterario, nel qual caso la lezione avrebbe dovuto essere molto più
rigorosa,ma ad uso morale;per cui itrascrittori,quando non erano affatto (1)
Così lo studio accurato della questione e la inconfutabile testimonianza del
documento son venuti a confermare in parte la fortunata ipotesi dello Zannoni.
(2) Op. cit., p. xv. 30 C. MARCHESI Ho già detto che gli amanuensi
introdussero il compendio di Taddeo nel posto del VI libro del Tresor ; ho
detto gli amanuensi e non il volgarizzatore, giacchè non mancarono alcuni (non
oso affermare se Bono od altri) i quali vollero volgarizzare tutta
l'opera,compreso il VI libro; ma il nuovo volgare dell'opera francese,di fronte
al comunissimo compendio originale di Taddeo , rimase eclissato e restò
soltanto in pochi codici quattrocentini, che ho potuto rinvenire.I codici sono
due,di valore e di con tenuto diverso. 1°) Magliabechiano 21. 8. 149 cartac.del
sec.X V , in 4o,di cc.53 scritte ed 8 bianche,anepigrafo.Ilcod.contiene l'Etica
tratta evidentemente dal Tresor, giacchè va oltre il limite del compendio di
Taddeo, e comprende la chiusa del libroVI dell'originalefrancese.A
c.46'segue,senzaalcuna par ticolare indicazione, il trattato sulla « doctrina
di parlare > ad Alessandro;infineac.53':ExplicitAristotilisEuthica uul
garisAmen.Lalezionesimantieneperunabuonametàfedele al testo comune dell'Elica;
dal cap.47 (1)sino alla fine presenta una grande ed accentuala differenza e
mostra evidentemente la (1) Secondo la edizione Gaiter.
ignoranti,semplificavano dove e come volevano,buttando giù il periodo anche
ridotto, che sembrasse loro di rendere in ogni modo fedelmente l'idea espressa
dall'autore e di significare lo stesso concetto. Nei codici dell'Etica si
trovano molte espressioni qualche volta incerte, fluttuanti dalla differenza
ortografica al periodo ridotto o allargato o smembrato o dissennato, che ci
testimonia da una parte della negligenza o della caparbietà di trascrittori
ignorantelli,in un tempo in cui tutti quanti tenevano un crogiolo dove
manipolare la pasta morale delle dottrine ari. stoteliche o supposte tali, e
dall'altra parte dello stato de' testi donde copiavano,che,data lagrande
diffusionedell'opera,doveano a forza portare le tracce di cancellazioni,aggiunte,modifica
zioni,lasciatevi dai possessori:filone di muffa questo che ci fa tante volte
scivolare il piede lungo il percorso delle trascrizioni trecentistiche di
autori ritenuti catechisti o morali. IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 31 L'Etica (ediz.Manni, Li Tresors. Liv. II,
Magliabech. 21. 8. pp.52sgg.).L'uomo part.I,chap.XLI.Li 149. c.33 . ch'è buono
si diletta in bons hom se delite en semedesimoabbiendo soimeisme,pensantas
allegrezza delle buone bones choses; autressi operazioni,eseegliè
sedeliteilavecsonami, buonomoltoallegrasi cuiiltientautressicom
conl'amicosuo,loquale mesoimeismes.Maisli eglitienesiccomeun
mauvaishomtozjorsest altrosè;mailreofugge enpaor,ets'esloignedes
dallenobiliebuoneope- bonesoevres;etseilest razioni,os'eglièmolto
moltmalvais,ils'esloi reosifuggedaseme- gnedesoimeisme;car desimo,peròchequando
eglistasolosièripreso da ricordamento delle maleopere,ch'egliha
fatto,enonamanèse, faites,etblasmesacon. nèaltrui,perciòchela
science,etporcehetil natura del bene è tutta mortificatainluinel profondo della
sua ini- quità;nènonsidiletta soiettozhomes;etce avientporcequelara cine de
touz biens est ilnepuetseulsdemorer, sanztristesce,porceque illiremembredesmau
vaisesoevresqueila influenza continuata del testo francese, si che c'è da
pensare a unanuovaredazionesovrapposta.Riportounbranochevalga a far notare
meglio le differenze e le relazioni dell'Etica di Taddeo col testo francese e
il volgare del cod.Magliabechiano. mortefiéeenlui,eten son mal ne se puet de.
tutto el bene è mortifi. pienamente nel male ch'eglifa,perciòchela liter
plainement, car cata in lui.etnel male naturadelmalesi'ltrae toutmaintenantque
il nonsipuòdilettarepie. alcontrariodellasuadi- sedelite,enunechose
namente,percioche lettazione,edèdiviso malfaite,lanaturede
quand'eglisidilettadi insemedesimo,eperciò son mal si l'atrait au
èinperpetuafaticaed contrairedeceluidelit. quellomalesieltrae
angoscia,epienod'ama- Etàcequelimauvais al contrario di quella
ritudineedisozzuradi estpartizensoimeisme, dilettatione.percioche
perversità.Adunquea siconvientqueilsoitl'uomoreoèdiversoet L'uomo ch'è buono si
diletta in se medesimo pensando nelle buone cose, et similmente si diletta
coll'amico suo, el quale egli reputa se medesimo. Ma l'uomo ch'è reo sempre sta
in paura et fuggie dall'o pere buone ; et s'egli ė molto reo fuggie da se
medesimo et non può stare solo sanza tristizia, impercioch'egli si ricor da
delle sue rie opere, ch'egli à fatte et ripren delo la coscienza sua. Et perciò
vuole male a se medesimo et ad ogni altro huomo.Et questo èperchèlaradicedi uno
male, la natura di quello cotale uomo nes- en continuel travail de
in se medesimo è m e sunopuoteessereamico, penseretplainsdemolt
stierechesiaincontinua per ciò che l'amico deve insemedesimo,ecompi. ne se
laisse cheoir en a lei.Lo cominciamento lla possa tornare a bene. doit
efforcier chamentodellainiquità lettazione,laquale l'huo piglia accrescimento
gars; mais li fermes mo ba nelle femmine, per usanza di tempo.
liensquitozjorsestavec alqualesiuadinanzi L'officio del confortare
l'amistiéetquipointne unodiletteuolesguarda 32 C. MARCHESI sance sensible
; et ce confortamento,ma pare cede loconfortamento poonsnosveoirpar.i.
essereetsomigliarsia puoteesseredettaami- homequiaimeparamors llui;maelcomincia
stade per similitudine, une dame,car tout avant mento dell'amista è di
infinoatantoch'ella passeunsdelitablesre scunouomosideeguar- niuno huomo può
essere chosequiàamerface. amicoaquellotale,per dare ch'egli non caggia in
questo pelago d'ini- sere et en itele male niuna cosa la quale sia quità,anzi
si dee isfor- zare di venire a finedi mecineparcuiilpuisse seria et tale
infelicità bontà,perlaqualeabbia Certes, et en itele mi- cioch'egli non ha in
se aventuren'aurailjà daamare.Ettalemi. ainz se felicitade.Adunquecia. queiln'aenluinule
maliceetdeiniquitéque ch'eglinonsilascica mentononèamistà,ave- l'on ne puet
raembre, dereinquestoistraboc gnachè egli si somigli inordinato! Addunque
dilettazione e allegrezza àbienvenir:donques nonhamairimedioche chascuns se
gart que il chascunsqueilviegne etdellamalicialaquale àlafindebontépar
èsanzarimedio|anzisi dell'amistà si è diletta zionesensibileavutadi-
quoiilsepuissedeliter del'uomo sforzare ac nanzi,si come l'amista mento
d'allegrezza colli tel tresbuchement de suoi amici.Lo conforta. Addunque
ciaschuno huomo si de guardare amertume,etyvresde fatichaetpensieroetsia avere
in se cosa da a- laidesceetdeperversité, pieno di molta amari mare.E questo
cotale etqueilsoitdestortpar tudineetèebbrodisoz hae in se tanta miseria,
misere neant ordenée. zura di peruersita, et che non è rimedio niuno Donc nus
ne puet estre sia distorto per miseria ch'egli possa venire a
amisdetelhome,porce en soi meisme et avec cioch'elli uengha alla
d'unafemina,allaquale sonami.Confors n'est finedellabontaper la v'hadinanzidilettevoli
pasamistié,jàsoitce qualeeglisipossadi guardamenti,eladiletta- que
illesembleàestre: lettareinsemedesimo, zionesièlegamedell'a- mais li
commencemens et hauere compimento mistà,eseguitalainse- d'amistiéestunsdeliz
didilettationecolsuo parabilemente.Ladispo- rasavorez par conois-
amico.L'amistà non è sizione dalla quale pro Gli huomini rei tardo
s'accordano nelle oppi nioni : et sono sanza parte d'amista, et per IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 33 se desevre, ce est deliz. si
pertiene a colui ch'à insegravezzadicostumi ed esercizio di vertude, unità
d'opinione e con cordia di mettere amore, perciò che le discordie dell'openione
sono da trarre dalla nobile con. gregazione,acciòch'ella rimanga unita di pace
e in concordia di volon tade. Quelle cose che danno altrui vera digni. tade da
reggere,sisono le uirtudi e le loro opere e l'unità dell'oppinione; e questo si
truova negli uomini buoni, concios sia ch'egli sono fermi e costanti in fra
loro, e nelle cose di fuori, perciocch'egli uogliono bene continuamente.Ma rade
volte addiviene che gli uomini si accordino in una oppinione,eper cagione di
compiere gli loro desideri si soste: gnano molta briga e molta angoscia e molta
fatica, ma non per ca. gionedivertude,ehanno moltesottilitadiinseper ingannare
colui,con cui hanno a fare, e perciò sempre sono in rissa e in tenzone. C.
MAECHESI. 3 .Cil habiz dont pre mierementnaistlicon fors puet estre apelez
amistié par semblant jusqu'à tant que il croist par longuesce de tens. Et li
ofices dou confort affiert au preudome et au ferme que il soit griez en
moralité de sa vie et es proesces et es costumes et toutes ver tuz, et plains
de science et de bone opinion et de concorde, desirrous d'a. mor ; por ce
devroient estre ostées toutes des cordes et malvais pen. sers d'entre les
nobles compaignies des homes, si que il puissent vivre en pais et en concorde
de propre volonté,cele chose qui plus aide à maintenir et governer les dignitez
des vertus et ses oevres.Et la con corde des opinions et es bons homes,porcequ'il
sont parmenant dedans soi et es choses dehors ; car toutes foiz jugent et
vuelent bien. mentoellegamechenon si parte e sempre con lei et la dilettazione
(sic). L'abito dal quale pro ciede confortamento si può dire amista per si.
militudine infino a tanto ch'elli crescie per lungo temporale. L'ufficio del
confortatore s'appartie ne a buono huomo et al fermo, el quale è graue di
costumi et exercitato nelle uirtu,et essere pie toso di scienza et auere
accontamento d'oppinio. ni, et concordia intro ducta d'amore (sic),per. ciò che
le discordie delle oppinioni sono per disfa re le diuisioni dell'opere le quali
sono nella nobile congregazione in con cordia di uolontà .Quella cosa la quale
aiuta reg. giereladignitàelavirtu et l'opere delle uirtu.et concordiadelleoppinioni
si truoua negli huomini buoni et costanti intra se et nel desiderio delle cose
di fuori, percio che perano bene et uogliono Limauvaishomepo bene. s'acordent à
lor opinion ; car il n'ont en amistie nulepart,etporacom plir lor desirriers
suef questi cotali sempre ado frentilmaintespoines
chagionedicompierele etmainttravailconmie leloroconchupiscienzie
poramistié;etsontes eglisostengonomolte mauvaishommesmain- faticheetmoltitraua
tes mauvaises soutil- gli:. per chagione d'a lancesporengigniercels mista, et
molti scaltri quiàelsontàfaire,et mentietmoltesottilita. porcesontiltouzjors
Etsonohuominireiper enpaineetenangoisse. chagione d'ingannare L'altro codice,
che ci presenta una redazione affatto nuova e dipendente in tutto direttamente dal
testo francese, è il Maglia bechiano II.II.47
(vecch.segn.VIII.1376),cartac.delsec.XV, a due colonne,di cc.scr.160 ; con le
didascalie in rosso e rozzo disegno a colore nella prima iniziale e ne'margini
della prima pagina.Contiene il Tesoro;precede un indice della materia:a
c.5*:QuestolibrosichiamailTesoroilqualeèchauatoper lo maestro Burneto Latino di
firenze di piu libri di filosofia che sono strati per li tempi; a c.59a : Qui
comincia l'eticha di Aristotille; finisce l'Etica a c.76*: Qui finisce illibro
dell'eticha d'Aristotille. La soscrizione finale a carta 160 4: Qui finisce il
libro del Tesoro che fece il maestro bruneto Latino di firenze. dio ne sia
lodato.La lezione offertaci dal ms.Mgl.è infelicis sima e costellata di sbagli,
di contorcimenti e travisamenti di parola che pare non si possano attribuire
tutti quanti al copista : il volgarizzatore in molti punti dà a vedere di
essere poco felice conoscitore del volgare come poco esatto intenditore del
francese.Molte espressioni francesi o sono adattate malamente all'idioma
italico o lasciate intatte a dirittura e trasportate di peso nel
volgarizzamento. Ma ciò vedrà il lettore nel con fronto che poniamo tra il
testo del Liber Elhicorum e l'Elica di 34 C. MARCHESI coloro ch'anno a
fare con loro.per cio sempre sono in brigha et in a n goscia. IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 35 Taddeo (1) col compendio francese
di Brunetto e il volgare del VI libro del Tresor ; confronto da cui balza fuori
un docu mento largo e complesso,vivo e certo della tradizione morale
aristotelica, nel tempo in cui visse e conobbe e compose Dante A lighieri. (1)
Dell'Etica di Taddeo do la lezionecritica,quale risulta da'codici più
autorevoli dell'Etica e del Tesoro,diversa quindi da quella offertaci dalle
stampe che si son succedute fin ora. Liber Ethicorum .
L'Etica d'Aristotile. Omnis ars et omnis incessus et Ogni arte e ogni dottrina
e ogni omnissollicitudouelpropositumet operazioneeognielezionepareado
quelibetactionumetomniselectio mandarealcunbene.Adunquebene ad bonum aliquod
tendere uidetur. dissero li filosofi, che lo bene si è Optime ergo diffinierunt
bonum di. quello lo quale disiderano tutte le centesquodipsumestquodintenditur
cose.Secondodiverseartisonodiversi exmodisomnibus.Suntautemin- fini;chesonotalifinichesonoope
tentaperartesmultasdiuersa.Que- razioniesonotalifinichenonsono
damenimsuntactioipsametetque- operazioni,maseguitansialleopera
damsuntipsumactum.Cumquesint zioni.Conciosiachosachesianomolte artes ac ipsarum
actiones multe, artiemolteoperazioni,ciascunahae eruntintentaperipsasmulta.Ac
losuofine.Verbigrazia:lamedicina tamenactuminipsisexistitmelius
sihaeunsuofine,cioèfaresanitade, actione.Estigiturintentumperme-
el'artedellacavallerialaqualein dicinamsanitasetperartemregiti-
segnacombattere,sihaunsuofine uamuelredactiuamexercituumuic-
perloqualeellaètrovata,cioèvit toriaetpernauium structiuam naui-
toria,elascienzadifarelenavi,si gatioetperdomusrectiuamdiuitie;
haeunaltrofinecioènavicare;ela etistasuntactahonorabilia.Que-
scienzacheinsegnareggerelacasa damautemartiumhabentsehabi-
suaelafamigliasuahaeunaltro tudinegenerumetquedamhabitu-
fine,cioèricchezza.Sonoalquante dinespecierumetquedamhabitudine
artilequalisonogeneraliesono indiuiduorum.Ideoque quedam ipsa.
alquantelequalisonospecialiecon rum sunt sub aliis, ut sub militari factura
frenorum et cetere artium instrumentorum militarium , et sub tengonsi
sottoquelle.Verbigrazia:la scienzadellacavalleria siègenerale, sotto la quale
si contengono altre arteexercitualicetereomnesbellice scienzeparticolari,siccomeèlascienza
siuelitigatorie.Etsimpliciterhono- difarelifrenieleselleelespadee
rabilissimaomniumartiumestcon- tuttel'altre,lequaliinsegnanofare
stitutiuaetinstructiuaceterarum(1). cose,lequalisonomistieriabatta
Etquemadmodum quibusque rebus glia;equesteartiuniversalisonopiù
anaturaproductisestperfectioquam degneepiùonorevilidiquelle,im.
persenaturaintendit,etintellegibi. perciocchèleparticolarisonfatteper
libusestperfectioquamintenditper l'universali(1).Esiccomenellecose (1) In tutto
il principio del compendio di Taddeo, e quindi anche del testo francese, si
sente l'influenza diretta dell'altra redazione del Liber Ethicorum , che servì
di base al commento di S. Tommaso. Ecco il latino di quest'altra redazione: «
Omnis ars et omnis doctrina, similiter « autem et actus et electio, bonum
quoddam appetere uidentur. Ideo bene enunciauerunt bonum , 36 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 37 beržalglio
per suo adirizamento,tutto Tutte arti e tutte opere e tutte in.
Tous ars et toutes doctrines et tramesse sono per chiedere alcuno
touteseuvresettouztriemenzsont bene.Dunquedissebeneilfilosafo
porquerreaucunbien,donquesdis- chequeglichetuttelecosedeside
trentbienliphilosophequeceque rano è ilbene.Secondo le diuerse
touteschosesdesirrentestlebien. (arti)sonolefinidiverse.Chetalifini
Seloncdiversars,lesfinssont di. sonoopere,talisonoch'esconodel
verses;cartelesfinssonteneuvres, l'opere.Eperciochemoltesonol'arti
ettelessontcelesquel'onensuitpar el'opereciascuna à suo fine.Che medicina ae una
fine cioè a fare lesarsetlesoevres,chascune a sa santade.Elafinedelabatalgliasi
fin;carmedicineaunefin,ceest ènetoria,el'artedifarenauià
àfairesanté;etbatailleasafin, unaltrofine,cioènauichare.Ela les oevres ; et
porce que maintes sont porquoielefutrovée,ceestvictoire;
scienzacheinsengnaagouernarea et les ars de faire neis ont une autre l'uomo sua
magione e sua familglia fin,ceestnagier;etlasciencequi
àun'altrafinecioèricchezza.Etsono enseigneàhomeàgovernersamaison
alcuneartichesonogieneralieal etsamaisnieauneautrefin,ceest
cunechesonospezialli,cioèpersua richesce.Etsontaucunesarsquisont
diuisione,eperòsonol'unasottol'al generaus,etaucunesquisontespe-
trasicomelascienzadichaualleria ciaus,c'estparticuleres,etaucunes
ch'ègienerale,edisottoaquella sontsarzdevision;etporcesont
sonopiùaltrescienzepartichullari, lesunessouzlesautres;sicomme
cioèlascienzadifarefrenieselle estlasciencedechevalerie,quiest
espadeetuttel'altrecosecheinse generaus,etdesozlisontautres
gnanoafarecosecheabattalglia sciencesparticuleres,ceestlascience bisongnano. de
faire frains et seles et espées, et E l'arti universalli sono più dengne
toutesautresarsquienseignentà epiùonoreuolichel'altre,percio
fairechosesquiàbataillebesoignent. chelleparticullarisonotrouatteper
Etcistartuniversalesontplusdigne leuniversali.Ecosìtuttelechose
queliautre,porcequelesparticu. chesonofattepernaturaèunadi leressont
troveesparlesuniversales. retana cosa per a che la natura in
Ettoutaussicommeenchosesqui tendefinalmente.Altresituttelecose
sontfaitesparnatureestunedar- chesonofatteperartièunafinale
reinechoseàquoilanatureentent cosaachesonoordinatetuttelecose
finelment,autressieschosesquisont diquellaarte.Esicomecoluiche faites par art
est une finel chose à Li Tresors. Livre II, Part. I, Magliabech.1.1.47.c.59 sq.
chap.III. quoi sont ordenées trestoutes les trae di sua arte a uno sengnio à
uno 38 C. MARCHESI « quod omnia appetunt. Differentia uero quaedam
uidetur finiam. Hi quidem enim sunt opera
«tiones;hiueropraeterhasoperaquaedam.Quorum autemsuntfinesquidampraeteroperationes,
« in his meliora existunt operationibus opera. Multis autem operationibus
entibus et artibus et doctrinis,multi sunt et fines.Medicinalis quidem enim
sanitas,nanifactiue uero nauigatio, •yconomicae uero diuitiae.Quaecumque autem
sunt talium sub una quadam uirtute,quemad «modum sub
equestrifrenifactiuaetquaecumque aliaeequestriuminstrumentorumsunt:haec « autem
et omnis bellica operatio sub militari ; secundum eundem itaque modum aliae sub
alteris. • In omnibus itaque architectonicarum fines omnibus sunt
desiderabiliores his quae sunt sub ipsis. « Horum enim gratia et illa
prosequuntur . (1) Quest'esempio, che manca nella nostra redazione latina, è
tratto dal Liber Ethicorum del
commentotomistico:«Igituretaduitamcognitioeiusmagnum habetincrementum,etquemad.
• modum sagittatores signum habentes... » seintellectus,eodem
modorebusef. fattepernaturaèunoultimointen fectisabarteestperfectioquam per
seintenditartificiumhumanum.Hac finalmente,cosìnellecosefatteper
autemperfectioestbonumadquod arteèunointendimentofinale,al intenditur, et est
optimum eorum que queruntur propter ipsum et di quelle arti; siccome l'uomo che
ipsiuscausa.Scientiaigituristiusest saettahalosegnopersuodirizza
scientiadiuinamaximiexistensiuua. mento(1),coşiciascunaartehae menti in
uitaetconuersatione hu. unsuofinaleintendimento,loquale
mana.Habentesigiturintentionem dirizzalesueoperazioni.Adunqua
acpropositumdignum ualdeestut l'artecivile,laqualeinsegnareggere
inueniamusinquisitioneremqueest lacittade,éprincipaleesovranadi perfectiouoluntatis.Arsigiturdi.
tuttealtrearti,perciocchèsottolei rectiuaciuitatumprincepsestartium,
sicontegnonomoltealtrearti,lequali eoquodsubhaccontinenturresho.
sonoonorevili,siccomelascienzadi norabilesualideconsistentie;utpote
farel'osteedireggerelafamiglia, arsexercitualisetarsfamiliedo-
elarettoricaèanchenobile,percio mus dispensatiua ac rethorica,et
ch'ellasiordinaedisponetuttel'altre eoquodipsautitarartibusactiuisomni-
chesicontegnonosottolei,elosuo busetcomponitetordinatlegesearum
compimentoàilfinedituttel'altre. atqueiuditia(sic)etdistinguitinter
Adunquelobeneloqualesiseguita laudabilesetillaudabiles.Huius itaque
artisperfectioacpropositumadpro- l'uomo,percioch'ellalocostringe
priatpropositaomniumartiumreliqua- di fare bene e costringelo di non rum.Bonumigiturusitatumsecundum
fare male.La recta dottrina sièche suum modum est bonum humanum ; l'uomo si
proceda in essa,secondo ipsumnamqueeffectiuumestcetero-
chelasuanaturapuotesostenere. rum bonorum omnium artium et
Verbigrazia:l'uomocheinsegnageo saluatartificesnequidaganthorridum
metriasideeprocedereperargo dimento lo quale la natura intende quale sono
ordinate tutte l'operazioni diquestascienza,sièlobene del IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 39 chosesdecelart.Etaussicomme altresiciascunaarteaeunafinale
cilquitraitdesonarcauseignala cosache'ndirizaquellaopera.Qui celui bersail por
son adrescement, parla del gouernamento della citta tout autressi a chascune
ars CCXVII.Dunque l'arte che insen finelchosequiadrescesesoevres.
gnialacittagouernareèprincipale III. Donques l'art qui enseigne la cité
àgovernerestprincipausetdame etsoverainedetoutesars,porceque
desouzlisontcontenuesmaintesho- norablesars,sicomme rectoriqueet
lasciencedefaireostetdegoverner e donna di tutte l'arti, peròchedisottoaleisonotuttii
maestrionoreuoliecontiensisotto luituttemolteonorabillearti,sicome retoriccha e
la scienza di fare oste edigouernaresuamasnada.E an
samaisnie;etencoreestelenoble, coraènobileperoch'ellamettein
porcequeelemetenordreetadresce toutesarsquisouzlisont,etlisiens
compliemensetsafinssiestfinet compliementdesautres.Donquesest ele li biens de
l'ome, porce que ele constraintdebienfaireetelecons- traint de non mal faire.
Lidroizenseignemenzsiestque onailleselonccequesanaturele
ordineeadirizzaartichesonosotto lui,eilsuocompimentodisuafine
sièfineecompimentodel'altre. Dunqueilbene(che)diquestascienza uiene si è bene
dell'uomo pero che 'l constringniedinonfarelomale. E il diritto insegniamento
ch'ell'à inleisecondosuanaturalepuote soferire.Cioèadirechecoluiche puetsofrir;ceestàdirequecilqui
insengnagouernaredeeandareper enseignegeometriedoitalerparar-
suoiargomentichesonoapellatidi gumensquisontapelésdemonstra-
mostrazioni.Erittorichadeeandare cions,etenrectoriquedoitalerpar
perargomentieperragioneuedere argumenzetparraisonvoiresembla-
senbiabille,eciòauienepercioche ble.Etceavientporcequechaschuns
ciascunoartieregiudicabeneedicela artiensjugebienetditlaveritéde
ueritàdiciòcheapartienealsuome cequiapartientàsonmestier,eten
stiere,ecosiinciòèilsuosennosottile. ce est ses sens soutis. une e
sovrana La scienza di città governare non Lasciencedecitégovernerne
sifamichaafanciullonedahuomo afiertpasàenfantneàhomequi
chesegualesueuolontadi,percio vueilleensuirresavolenté,porceque che amendue
sono non sacenti delle anduisontnonsachantdeschosesdou
cossedelseculo,chequestaartenon siecle;carcestearsnequiertpasla
chiedelasienzadell'uomo,mach'egli sciencedel'ome,maisqueilsetorne
sitorniabontà.Esapiatechein àbonté.Etsachiésqueenfesestde.
fateèinduemaniere,chel'uomo ij.manieres;carlihompuetbien
puotebeneessereuechioditenpo estrevielsdeaageetenfesdemors;
euechioperhonestavita. 40 C. MARCHESI autillaudabile.Et
saluatioquidem mentifortiliqualisichiamanodimo.
uniuslaudabilisexistit,quantomagis strazioni,elorettoricodeeprocedere gentiumacciuitatum.Rectadoctri.
nellasuascienzaperargomentie natioestinquirereinunoquoquege-
ragioniverisimili;equestosièpercio nerumiuxtamensuramquamsustinet
checiascunoarteficegiudichibene naturailliusgeneris;etutexigitur
etdicalaveritadediquellocheap. quidemamathematicodemonstratio
partieneallasuaarte.Lascienzada et a rethore sufficientia persuasiua. reggere
la cittade non conviene a Unusquisque enim artificumrecto
garzonenèauomocheseguitilesue iuditio iudicat de eo quod est infra h a cose
buone e giuste e oneste ; onde Rerumquedamsuntcogniteapud
gliconvieneaverel'animasuanatu nos,etquedamsuntcogniteapud
ralmentedispostaaquellascienza: naturam.Oportetergoutamator
maquellouomochenonhaeneuna scientieciuilispromtussitadres
diquestecose,èinutileaquesta eximiasetsciatopinionesrectas.Opi- scienza(1).
(1)Questo ci prova chiaramente che Brunetto non ebbe tra mani altro testo
latino fuor del compendio alessandrino-arabo; giacché le altre traduzioni
greco-latine della Nicomachea gli avrebberodatolagiustaindicazionedel poeta:Esiodo.Maforsepertuttoilriferimento,che
son volontadi,peroche non > bitum suae scientiae,et in hoc est nellecosedel
secolo.E notache gar perspicaxipsiusscientia.ludicans
zonesidiceinduemodi,quantoal autemdeomnisapiensestomnipe- tempoequantoallicostumi,che
ritiaimbutus.Arsciuilisnonpertinet puòtaloral'uomoesserevecchiodi
pueronequeprosecutoridesideriiatque tempo e garzone di costumi, e tal
uictorie,eoquodamboignarisunt fiatagarzoneditempoevecchiodi
rerumseculi,nequeproficitipsis.Non costumi.Adunqueacoluisiconviene
enimintenditarsistascientiamsed lascienzadireggerelacittade,lo
conuersionemhominisadbonitatem; qualenonègarzonedicostumie
nequediffertpueretateautinmo- chenonseguitalesuevolontadi,se
ribuspueris,nonenimaduenitquidem nonquandosiconvieneequantosi defectusexpartetemporissedpropter
conviene ed ove si conviene. usum uite in moribus puerilis;pueri
ergodissolutietdesideriorumprose- cutoresnonproficiuntpenitusexarte ciuili. Qui
autem utitur desiderio secundum quodoportetetquando Sono cose le quali sono manifeste
allanatura,esonocoselequalisono manifeste a noi; onde in questa scienza si dee
cominciare dalle cose, oportet,etquantumoportetetubi
oportet,hicplurimumproficitex scientia artis ciuilis.
loqualedeestudiareinquestascienza, edapprendere,sideeausarenelle
lequalisonomanifesteanoi.L'uomo savi IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 41 et puet estre enfes par aage et viel Dunque la
sienzia di città ghouer parbonevie.Donqueslasciencede nare è a fare huomo che
non sia governer citez n'afiert à home qui fanciulo de cuore molle e che non
estenfesensesfaizetquiensuie sesvolentės,selorsnonquantille covient faire et
tant comme il co- vient,et là où il se covient,et si comme est covenable.
seguasuauolontadi,senoquelliche siconuengonoetantocom'ellesi debono e la dove
si conuiene e si come conueneuole. E sono chose che sono chonueneuoli a natura
e cose chesonoconueneuolliannui;che Iliachosesquisontconnuesà
natureetsontchosesquisontcon- chisivuolestudiareasaperequesta
neuesànos;porquoinosdevonsen scienza,eglideeussarecosegiustee
cestesciencecommencieraschoses buoneeoneste,ond'egligliconuiene
quisontconneuesànos,carquise auerel'arminaturallementeaquesta
vuetestudieràsavoircestescience, scienza,macoluichenonanèl'uno
ildoituserdeschosesjustes,droites nèl'altroriguardiaciòchedee.Se
etbonnesethonestes,oùillicovient 'lprimoèbuonoel'altroèapere avoirl'ame
naturaument ordenée à gliato ad essere buono.Ma chi da
cestescience;maiscilquin'ane ssenonsanienteenonaprendedi
l'onnel'autreregardeàcequeHo- ciòchel'uomogl’insenguia,egliè
merusdist:Selipremiersestbons, deltuttomecciante.- Quidicedelle
liautresestappareilliezàestrebons; treuieCCXVIII. Dacontaresono
maisquidesoinesetneant,etqui .ij.uie.L'unaèuiadichonchupi.
n'aprentdecequehomlienseigne, senziaediconuotizia.L'altraèuita ilestdoutoutmescheanz(1).IV.Les
cittadina,cioèdisennoediproeza viesnoméesquisontàcontersont
ed'onore.Laterzaécontenpratiua. .ij.L'uneestviedeconcupiscenceet E più ujuono
secondo la uita delle decovoitise;l'autresiestvieciteine,
bestie,ch'èapellatauitadichonchu ceestdesensetdeproesceetd'onor;
pisenzia,peròch'egliseghonolaloro la tierce est contemplative: et li uolontade
e loro diletto. E chatuna plusorviventselonclaviedesbestes,
diqueste.ij.uiteàsuapropriafine quiestapeléeviedeconcupiscence, diuersedal'altre,tuttoaltresìcome
porcequeilensuientlorvolentezet [lasienzadiconbatteredi]medi
lordeliz.Etchascunedeces.ij.vies cina à sua finediuersa dalla scienza
asaproprefin,diversedesautres, delconbattere,chèquellabadaafare
toutautressicomme medicineasa santà,equellaadauereuetoria.Qui
findiversedelasciencedecombatre; diuisadelbeneCCXVIIII.Ubene
carelebéeàfairesanté,etcele ėinduemaniere,che'unamaniera
autreàvictoire.V.Libiensesten èch'èdisideratapersemedesimo[e
ij.manieres;carunemanieredebien l'altra)eun'altramanieradibeneè
niones autem rectae sunt ut in arte Le vite nominate e famose sono
ciuiliincipiaturarebusapudnos tre;l'unasièvitadiconcupiscenza,
cognitis,etinconsuetudinibuspul- l'altrasièvitacittadina,cioèvita
crisethonestisfactasitassuetudo diprodezzaed'onore;laterzasiè principium enim
est et inceptio a vita contemplativa : e s o n o molti
quaresest.Exmanifestoexistente uominichevivonosecondolavita
sufficienterquiaresest,nonindigetur dellebestie,laqualesichiamavita
propterquidresest.Indigetautem diconcupiscentia,perciòchesegui.
homoadpromtitudinemhabitationis tanotuttelelorovolontadi;ecia
leritatisrerumbonarumautaptitudine scunadiquestevitesihasuofine
boneinstrumentalitatisexquasciat propriodiversodaglialtri,sicome
uerum,autformaperquamaccipian- l'artedellamedicinahadiversofine
turprincipiarerumabeofacile.Qui dallascienzadicombattere,chè'l
veroneutramhabueritharumaptitu- finedellamedicinasièdifaresani.
dinumaudiatsermonemHomeripoete tade,e'lfinedellascienzadifare
ubidicit:Illequidem bonusest,hic battagliesièvittoria.Benesièse autem aptus ut
bonus fiat. Vite condo due modi, chè è uno bene lo
famosetressunt.Uitaconcupiscen- qualeuomovuoleperse,eunaltro
tieetuoluptatis,uitaprobitatiset beneloqualel'uomovuoleperaltro.
honoris,uitascientieetsapientie; Benepersesìcomelabeatitudine,
pluresuerohominumseruisuntuo- beneperaltruisonodettiglionori luptatis uitam
bestiarum eligentes elevertudi,perciòcheuomovuole
inexecutionedelectationum.Sunt questecoseperaverebeatitudine. autem termini
harum uitarum distan. Naturalcosa èall'uomoch'eglisia
tesetbonaipsarumbonadiuersificata. cittadino,etconversicongliuomini
Sicutergobonum quodestinarte artefici,econtralanaturadell'uomo
exercitualiestaliudabonoquodest sièd'abitaresoloneldeserto,elà
inartemedicinali,sicabinuicemalia ovenonsianogente,peròchel'uomo sunt bona
trium uitarum . Et bonum naturalmente ama compagnia. quidem medicine est
sanitas,bonum Beatitudo si è cosa compiuta,la exercitualisestuictoria.Estautem
qualenonabbisognaneunacosadi bonumsecundumduosmodos:bonum fuoridase,perlaqualelavitadel
per se et bonum propter aliud; et l'uomosièlaudabileegloriosa.Adun.
quesitumquidemproptersemelius quelabeatitudinesièlomaggior
estquesitopropteraliud.Nosuero beneelapiùsovranacosaelapiù manca
nelcompendiodiTaddeo,BranettosivalseanchedelLiberminorum moralium :«.aduertat «
intentionem poetae dicentis : Optimus est hominum qui a semet ipso intelligit
quod expedit.Qui « autem ab altero hoc intelligit, est in uia directionis. Qui
uero nec a semet ipso intelligit nec « ab altero recipit, hic uir est inutilis
», 42 C. MARCHESI - IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 43 est qui est desirrez por lui meisme, et une autre maniere de
bien est qui est desirrez por autrui. Biens par lui est beatitude,qui est
nostre fin,à quoi nos entendons;bien par autrui sont les honors et les vertuz;
car ce desire li hom por avoir beatitude. Naturale cosa è a l'uomo ch'egli sia
cittadino e ch'egli conuersi in tra le gienti, cioè intra gli uomini e intra
gli artefici. E contra natura sarebe abitare in diserto oue non à persona,però
che l'uomo naturale. mente si diletta in conpangnia. Bea tittudine è cosa
conpiuta, si che non à niuno bisongnio d'altra cosa fuori di lui, per chui la
uita degli uomini ė pregiabile e groliosa:dunque è beatitudine il magiore bene
di tutti, e la più sourana cosa e la trasmil gliore di tutti i beni che sieno.
Qui diuisa di treposanzie CCXX. Tutte le opere dell'uomo o sono malvagie o
[buone.om .]. Colui che lle fa buone l'opere,egli è degno d'auere il compimento
della uertu di L'anima dell'uomoae.ij.posanze. L'una è uegiettative,e
questa è co mune ad alberi ed a piante, ch'egli anno annima
uigettatiua,altresìco m'àno gli uomini ; la seconda è apel latta sensitiua ; la
terza è apellata r a zionabile,l'èperquestoche l'uomoè ragioneuole e diuisato da
tutte le cose, per ciò che niuna altra cosa ae anima razionale se no l'uomo ;e
questa possanza è alcuna uolta in natura e al cunauoltainpodere.Ma beatittudine
è quand'ella è in opera e non miga quand'ella è in podere solamente; chè s ' e
g l i n o 'l f a , e g l i n o n è m i c h a b u o n o . Naturel chose est à
l'ome que il soit citeiens,etque ilconverseentre les homes et entre les
artiens; car contre nature seroit de habiter en desers où il n'a nule
gent,porce que li hom naturelmentsedeliteen com paignie. Beatitude est chose
complie,si que ele n'a nul besoing d'autre chose fors de li,par quoie la vie
des homes est puissanz et glorieuse: donques est beatitude li graindres biens
de touz et la plus soveraine chose et la très mieudre de touz biens qui soient.
V I . L ' a m e d e l ' o m e a j i j. p u i s s a n c e s . L'une est
vegetative, et ce est c o m mun asarbresetasplantes,caril ont ame vegetative
aussi come li home ont;lasecondeestapeléesen sitive, et est c o m m u n e à
toutes bestes, car eles ont ames sensitives; la tierce est apelée rationable,et
por ceste est li hom divers de toutes choses,porce que nule autre chose n'a ame
ratio. nableselihom non.Etcestepuis sance rationable est aucune foiz en oevre
et aucune foiz en pooir; mais beatitude est quant ele est en oevre, et non pas
quant ele est en pooir seulement; car se il ne le fait, il n'est mie bons. ch'è
disiderata per altrui. Bene per lui è beatitudine, ch'è nostra fine a che noi
intendiamo.Bene per altrui sono gli onori e le uertu : chè questo si disidera
per auere beatitudine. Toutes les oevres des homes ou -44 C.
MARCHESI Ogni operazione che l'uomo fae o ellaèbuonaoellaèrea;equello uomo lo
quale fa buona la sua ope. razione, si è degno d'avere la perfe. zione della
virtude di quella opera zione.Verbigrazia: lo buono cetera tore,quando egli
cetera bene,si è degnacosach'egliabbiailcompimento di quella arte,e lo rio
tutto il con. trario. Adunque se la vita dell'uomo è secondo l'operazione della
ragione, allora si è laudabile la sua vita, quand'egli la mena secondo la sua
propria vertude; ma quando molte vertudi si raunano insieme nell'animo
dell'uomo, allora si è la vita dell'uo mo molto ottima e molto onorata,e molto
degna,sicchè non puote essere più;perciò che una virtude non puote beatitudinem
ultimam propter se uo lumus,cum sitfinisnosteretintentum à nobis; honores autem
et uirtutes propter beatitudinem, eo quod per ipsas pertingimus ad illam. Homo
naturaliter ciuilis est et con uiuithominibusetsocietatesexercet
comel'uomo;lasecondapotenziasi cumartificibusdecenter,nequeap
chiamaanimasensibilenellaquale petitsolitudinemnequedesertum
participal'uomocontuttelebestie, neque heremum.
perciòchetuttelebestiehannoanima Beatitudoestrescompleta,nullius
sensibile;laterzasichiamapotenza indigens,perquamuitahominislau.
razionale,perlaqualel'uomosiè dabilisexistit.Beatitudoigiturexce
diversodatuttel'altrecose,perciò lentissimum est eligibilium et opti. che neuna
altra cosa hae anima ra mumbonorum,cumsitperfectiore zionale,sicomel'uomo.E
questa rumoperabilium.Sicutigiturestin potenziarazionalesiètalorainatto
qualibetartiumbonumquodillaars etalorasièinpotenzia;ondela
intendit,etsicutestcuilibetmem. beatitudinedell'uomosièquandoella
brorumcorporisactuspropriusin vieneinatto,enonquandoellaèin quoeialiudnoncomunicat,sicest
homini actus proprius in quo aliud ei non comunicat. Homini autem se cundum
animam uegetabilem C O municant terrae nascentia,et secun dum animam sensibilem
comunicant ei animalia; actus uero ei proprius, inquo nullum aliud ipsi
comunicat, est actus secundum rationem et di scretionem. Ratio uero duplex est:
potenzia: ratio uidelicet actualis et ratio poten tialis;dignior autem ad
intentionem rationis et magis cognita est ratio actualis,ut pote actus hominis
di. scernentis et agentis. Et omnis actio quam agit actor aut est bona aut est
mala. Actor autem bene agens in omni arte meretur intentionem uir tutis, ut
bene citharizans citharedus bonus ;citharizans autem male malus. ottima che
l'uomo possa avere. L'a nima dell'uomo si ha tre potenzie; l'una si chiama
potenzia vegetabile, nella quale comunica l'uomo cogli arbori e colle
piante,perciò che tutte le piante hanno anima vegetabile,si IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA bonesoumauvaisessont.Etcilqui
quell'opera.Chècoluichebeneopera fait lesbonesoevres,ilestdignes
èdegnod'auereilcompimentodisuo d'avoirlecomplimentdelavertude
mestiere,equeglichemalfanno,il celeoevre;carcilquibiencitoleest
contrario.Dunqueselauitadell'uomo dignesd'avoirlecomplimentdeson
èsecondol'operadiragione,alora mestier,etciquimallefait,lecon- è da pregiare
quand'eglila mena traire;doncselaviedel'omeest secondolapropriauertu.Maquando
seloncl'oevrederaison,lorsestele mantieneuertusonogliuominisaui,
prisablequantillamaineseloncla esauioebisongniabile,enorevolee propre vertu;
mais quant maintes moltodengniosichepiùnonpotrebe
vertuzsontenl'ome,savieestbesoi. essere;percidcheunasolauertunon
gnableethonoréeetmultdigne,si puotefarel'uomodeltuttobeatone
queplusneparroitestre,porceque perfetto.Chèunasolarondineche uneseulevertunepuetfairel'ome
uengnianèunosologiornotemperato detoutebeatitudeneparfait;carune
nondonaciertanainsengniadelprimo solearondelequivieigneneunsseus
tenpo.Eperciòinunopocodiuita jorsatemprésnedonentcertaineen-
d'uomoeinunopocoditenpoch'egli seignedouprintens;etporceenpo
facciabuoneopere,nonpossiamoperò devied'ome,neenpodetensque
direch'eglisiabeato.CCXXI.Qui ilfacebonesoevres,nepoonnosdire diuisa di tre
maniere di bene.Il queilsoitbeates.VII.Libiensest beneèdiuisatointremaniere,che
devisezen.iij.manieres,carliuns l'unoèilbenedell'anima,el'altro
estbiensdel'ame,etliautresest delcorpo.Mailbenedell'animaèil
doucors,etlitiersdehorslecors; piùdengniochenullodeglialtri,
maislibiensdel'ameestplusdignes peròcheglièilbenedidio,esua
quenusdesautres,carceestlibiens formanonèchonosutaseperl'opere
deDieu,etsaformen'espasconneue separlesoevresvertueusesnon.Et
sanzfaillebeatitudeestenquerre lesvertuzetenelsuser,maisquant
beatitudeestenhabitetaupooir del'ome,etnonensesfaiz,ceest
àdirequantilporroitbienfaireet ilnelefaitmie,lorsestvertuous
aussicommecilquisedort,carses oevres ne ses vertuz ne se mostrent
pas.Maisl'omquiestbeatescovient aussicommeparnecessitéqueilface uertudiose
non.E sanza fallo beati tudineèinchiedereleuertuefarle.
Maquandobeatitudineènell'abitoe inpoteredell'uomononèsenone
fatti:questoèadire,quandoeglipuote benefareeno'lfaaloraèegliuer
tudiosoaltresìcomecoluichedorme; chèsueopereesueuertunonsimo strano.Ma
l'uomoch'èinbeatitudine conuiene altresì come per necissetà
ch'eglifacciailbeneinoperaesi comeilsauiochampioneeforteche
lebiensenoevre.Etsicommeli sichonbatteuuoleportarelacorona 45 46
C. MARCHESI Actusigiturhominisunaestuitarum l'uomo fare beato,nè perfetto,sic
famosarum trium prenominatarum, una rondine quando appare
uitascilicetrationisetscientieet sola,eunosolodietemperatonon
sapientie.Etomnisquidemresbona dànnocertadimostranzachesiave.
existitetdecorapropteruirtutemsibi propriam. Vita ergo hominis actus
estanimeintellectiueperuirtutem sibipropriam;sedcumuirtutesani-
memultesint,eritperoptimam et honoratissimam in fine et dignis-
simaminfineperfectionisetcomple- menti.Unanempehyrundononpro-
nosticaturuernequediesunicatem- peratiaeris,sicnecuitapaucaet
lobenedell'animasièpiùdegno tempusmodicumsignumcertumsunt
benedineuno,elaformadiquesto beatitudinis. bene si non si conosce se non nell'o
Bonum tripliciter diuiditur; est perazioni, le quali sono con vertudi. bonum
anime et bonum corporis et nutalaprimavera;ondeperciò nè.
inpicciolavitadell'uomo,nè in pic ciolotempochel'uomofacciabuone
operazioni,nonpotemodicereche l'uomosiabeato. Lo bene sidivide in tre parti,chè
l'unosièbenedell'anima,l'altrosi èbenedelcorpo,el'altrosièbene
difuoredalcorpo.Diquestitrebeni, come bonum extra corpus. Bonum ergo
delle vertudi e nell'uso loro; ma quoddignissimebonumdiciturest quandolabeatitudineènell'uomoin
bonum anime,neque apparet forma abito,e non in atto,allora si è vir
istiusboni,nisiinactibusquisunt tuosacomel'uomochedorme,lacui
auirtute.Etbeatitudoquidemest operazioneevirtudenonsimani.
inacquisitioneuirtutumetinusu festa;mal'uomobuonodinecessità
earumsimul.Cumquefueritbeatitudo èbisognochel'aoperisecondol'atto,
inhominetamquaminpossessioneet etèsomigliantediquellochesta
habituetnonactu,tuncesttamquam neltravitoacombattere;chè sola uirtuosus
dorniiens cu non apparet mente quelli che combatte et vince,
actionequeuirtus.Beatusautemactu quelliàlacoronadellavittoria;e
necessarioexercetbeatitudinem.Et sealcunouomosiapiùfortedicolui,
quemadmodumperitiagonisteatque chevince,nonàperciòlacorona,
robusticoronanturquidemetacci. perch'eglisiapiùforte,s'eglinon
piuntpalmamapudactumagoniset combatte,avvegnach'egliabbiala
uictorie,sicuirtuosielectiboniac potenziadivincere;ecosìlogui. beati laudantur
et premia uirtutum derdone della virtude non ha l'uomo
suscipiuntdumapparentoperationes senoninfinoatantoch'egliadopera ipsorum
secundumueritatem;etisto. lavirtudeattualmente;equestosiè
rumuitaestinseipsadelectabilis. perciòcheloloroguiderdoneela
Unusquisqueenimhominumdelecta- lorobeatitudineèladilettazione,che La
beatitudine si è nell'acquistare IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 47 della uettoria, tutto altresì l'uomo buono e beato ae il
guiderdono e la loda della sua uertu ch'egli fae et mostra ueracemente per
queste opere, perciò che il guiderdono delle sue opere e della beatittudine è ildiletto
ch'egli n'atantoe com'egli opera la uertu ; chè ciascuno si dileta in cid
ch'egli ama ; il giusto si dileta in giustizie e l'asagia e gli piacciono, e 'l
uertudioso nelle uertu. Et tutte l'opere che sono per uertu sono belle e
dilettabille in se medesime. Beatitudeestlachoseaumonde
Beatitudineèlacosaalmondoche quiesttrèsdelitable,maislabeati
tudequiestenterreabesoingdes biensdedehors;carilestdurechose
quel'onfacebelesoevres,seiln'ia grant part des choses avenables à
bonevieethabondanced'avoiret d'amisetdeporenz,etprosperitéde fortune, et por ce
la sapience abe. soigned'aucunechosequifaceco perciòlasapienzaàbisongniod'al
noistre sa valor et ses honors.Se cuna cosa che faccia conossere suo aucuns
done as homes dou monde, ualore e suo onore.Se alcuno dona
disgloriousetsoverainsfaiz,l'en ahuomodelmondodonogroliosoe
doitbiencroirequecildonssoitbea. souranofattol'uomodebenecredere
titude,porcecequeestlamieudre chequellodonosiabeatitudine,perciò
chosequiestrepuisseaumonde;car ch'eglièlamigliorecosachepossa eleestmulthonorablechose,etest
esserealmondo;ch'ell'èmoltoono. licompliemensetlaformedevertu;
rabilecosa[essere]edèilcompimento neiln'estpasditdouchevalnes
elaformadellauertu;nèeglinonè desautresbestes,nedesenfans,que
michadettodelcaualloedel'altrebe ilsoient beates,porce qu'il ne font oevres de
vertu. Beatitude est chose ferme et estable, tozjors en une fermeté, si que ele
ne stie,nè degli fanciulli che sieno beati, perciò ch'egli non fanno opere di
uertu . Beatitudo è cosa ferma et stabille . ( 1 ) A r r e s t i a m o q u i l
a t r a s c r i z i o n e d e l c o d . M a g l i a b e c h ., s e m b r a n d
o c i l a p a r t e t r a s c r i t t a s u f f i ciente ad attestare la
propria dipendenza dal testo francese. milglioreepiugioiosaetradiletta
bille:mallabeatitudinedeeessere interraebenidifuori.Chègliè dura cosa che
l'uomo faccia belle opere e ch'egli abbia parte di cose
aueneuolliahuonauitaedabondanza d'auereedabondanzad'amiciedi parenti e
prosperita di fortuna, e F sages champions et fors qui se combat et vaint
emporte la corone de victoire, toutautressilihom bonsetbeatesa le guerredon et
la loange de la vertu que il fait et mostre veraiement par ses oevres, porce
que li guerredons de la beatitude est li deliz que l'om atentcomme
iluevrelavertu,car chascuns se delite en ce que il aime :
lijustessedeliteenjustise,etlisages en sapience,etlivertueusenvertu; et toute
oevre qui est par vertu est bele et delitable en soi meisme. . (1)
virtude, si è bella e diletteuile in se Beatitudo autem omnium rerum est
medesima. Beatitudo si è cosa ot optimaiocundissimaatquedelectabi-
tima,giocundissimaedilettabilissima. lissima.Beatitudotamenqueesthic
Labeatitudine,laqualeèinterra,si bonisexterioribusindiget;difficile
abbisognadeglibenidifuori,perciò est enim homini ut opera decora che non è
possibile all'uomo ch'egli exerceatabsquemateriautpotequod
facciabelleopereech'egliabbia habeatpartemcompetentemrerum
artelaqualesiconvengaabuona boneuitepertinentiumetcopiam
vita,eabbondanzad'amiciedipa familie et parentum et prosperita-
renti,eprosperitàdiventura,sanza temfortune.Ethacquidemdecausa
libenidifuori;eperquestacagione indigetarssapientiearteregnandi,
nonabbisognaalcunacosachefaccia ut apparere faciat honorificentiam manifestare
il suo onore e lo suo va suiatqueualorem.Etsialiquarerum
lore.Sealcundonoèfattodidome donata est hominibus a deo excelsa nedio glorioso
e eccelso agli uomini etgloriosa,dignumestutbeatitudo
delmondo,degnacosaèdacredere siuefelicitasdonumsitdiuinum se-
chequellodonosiabeatitudine,im cundumquodipsaestoptimaomnium
perciòch'ellasièlapiùottimacosa rerum humanarum ; est igitur de onorevole molto
e compimento e rebus prehonorabilibus,cum sit com. 48 C. MARCHESI
turineoquodestamatumapud eglihanno,infinoatantoch'egliado ipsum ; delectetur
ergo iustus in perano la virtude; chè il giusto si
justitiaetuirtuosusinuirtuteet dilettanellaiustiziae'lsavionella
sapiensinsapientia.Etactionesfientes sapienza,elovirtuosonellavirtude;
peruirtuteminseipsissuntdelecta. eognioperazione,laqualesifaper biles uenuste
ac decore. forma di virtude. E neuna genera plementum uirtutis siue forma et
zione d'animali puote avere beatitu fructusipsius— [Non)diciturautem
dine,senonl'uomo,eneunogarzone deequonequedealioaliquoanima-
nonhaebeatitudine,perciòcheneuno liumhuiusmodi,nequedepueris,quod
animalenèneunogarzonenonado sintbeati,eoquodnequehuiusmodi perasecondovertude.
animalia neque pueri agant opera Beatitudo si è cosa ferma e stabile
uirtutis.Etbeatitudoestresfirma sempresecondounadisposizione,nella
stabilissecundumdispositionemunam, qualenoncadevarietadenèpermu
inquamnoncaditalteratioetpermu- tazione alcuna,e non v'ha talora
tatio,etnoncomitanturipsameuen: beneetaloramale,matuttaviabene,
tusuarii,etnuncbonitasnuncmalitia. equestosièperciòchelabonitade
Etenimbonitasetmaliciaestinopere elareitadesiènellaoperazione
hominis;etcolumpnabeatitudinis dell'uomo.Lacolonnadellabeatitu
estoperasecundumuirtutem;co- dinesièl'operazione,chel'uomofae 1 se
remue pas,et si n'est mie une foiz bien et autre mal, mais toutes foiz
bien,porce que li muemenz de bonté ou de malice n'est pas se es oevres des
homes non. Li pilers de beatitude est lesoevres que l'onfait selonc vertu,et la
colone dou con traire est les oevres que l'on fait selonc vice; et la vertus
ferme et estable est en l'ame de l'ome.Li hom vertueus ne se contorbe ne ne
s'es maie por nule temporal chose qui li avieigne ; car il n'auroit jà
beatitude se il s'esmaioit,car dolor et paor abatent l'oevre de vertu et la
joie de beatitude. Felicités est une chose qui vient par vertu de l'ame, non pas
dou cors ..... IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 49 Aucunes choses
sont mult griez à sostenir;mais quant l'on les a bien sostenues,lors apert et
se mostre la hautesce de son corage; et sont au tres choses qui ne sont griez à
sos tenir, ne li hom qui les sueffre ne mostre pas que en lui soit force.Et jà
soit ce que mort et maladies de filz soient griez à sostenir, ne doivent pas
remuer l'ome de sa felicité; car bienetfelicité,ethome felixetDex glorious et
benois sont tant digne chose et tant honorable que nulz pris ne nule loenge ne
lor sofit pas; et nos devons reverer et magnifier et glorifier Dieu sor toutes
choses et si devons croire que en lui sont tuit bien et toutes felicitez.,porce
que il est commencemenz et achoisons de touz biens. C. MARCHESL 4
secondo virtude,e la colonna del con trario suo si è l'operazione, la quale
l'uomo faesecondolovizio;equesta operazione si erma e stante nel. l'anima
dell'uomo,et l'uomo virtuoso non si muove,e non si turba per cosa contraria
temporale che gli possa a v venire, perciò che già non arebbe beatitudine,
s'egli si conturbasse, perciò che la tristizia e la paura si toglie altrui
l'allegrezza della beati. tudine. Sono cose le quali sono molto forti a
sostenere; ma quando l'uomo l'à sostenute pazientemente, si dimostra la
grandezza del suo cuore ; e sono altre cose le quali sono lievi a sostenere,e
perché l'uomo le so. stegna non si mostra grande fortezza in lui,siccome morte
di figliuoli e loro malitia.Queste cose,avegnache ellesiano forti,non permutano
l'uomo di sua felicitade.La felicitade e l'uomo bene avventurato e domenedio
bene detto e glorioso sono tanto degna cosa e tanto da onorare che le loro lodi
non si possono dicere,e spezial mente si conviene a noi di reverire e
magnificare messere domenedio sopra tutte cose, e dee l'uomo pen sare di lui,
che nel suo pensare ha l'uomo tutto bene, e tutta felicitade, perciò ch'egli è
cominciamento e ca gione di tutto bene. 50 C. MARCHESI lumpna uero
contrarii beatitudinis est opera secundum contrarium uirtutis; et optima
operationum secundum uir tutem est stabilissima earum in ani ma ;et uita
beatorum continua est semperperactioneshonorabilesbonas; et uirtuosus perfectus
absque ex tollentia speculatur in rebus virtuali bus et substinet irruentia
mala et tollerat ea tollerantia decenti et non turbatur cor neque formidat ex
ma. gnis calamitatibus ex temporis malitia occurrentibus ; nisi enim eas
decenter sustinuerit conturbabitur eius felicitas et inducentur super ipsum
meror et tristitiaque impedient secundum uir tutes operationes. Quedam autem
actionum malitie difficiles sunt ad sufferendum : sed quando acciderint homini
et eas sustinuerit,demonstrant eius magnanimitatem.Alie uero que. dam
facilepossuntsufferrietheecum inciderint homini et eas sustinuerit, non demonstrant
eius magnanimita tem ; et mortuis ex bonitate actionum filiorum et ex malitia
ipsarum con tigit [modicum aliquid tante, in.
quam,quantitatis].transmittetfelices a sua felicitate ad infelicitatem ; neque
infelices a sua infelicitate ad felici tatem.Bonum etfelicitasatque felices et
deus benedictus et excelsus digniora sunt et honoratiora quam ut lau dentur.
Immo conuenit quidem uene rari deum et ipsum singulariter m a gnificare et eius
intuitu felicitatem etfelicesetbonum,cum sintresdi. uine, et gratia quorum
omnia alia aguntur;et creditur de eo quod est Felicitade si è un atto il quale
procede da perfetta virtude dell'anima et non del corpo. IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 51 principiumbonorum
etipsorumcausa, quod sit res diuina. Felicitas est quidem actus anime procedens
a uirtute perfecta,non cor poris sed anime. 52 C. MARCHESI IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 53 Prima di passare al raffronto
della parte finale nelle diverse redazioni, non sarà inopportuno riprodurre
ancora un brano, del principio del secondo libro, che valga a confermare le
diffe renze e le relazioni da noi stabilite tra i due compendi, volgare e
francese, e il testo latino. Liber Ethicorum. Litresor,Liv.II,P.I,
Virtusergoduplexest, chap.IX.-Porceapert uidelicetintellectualiset
ilque.ij.manieressont moralis;intellectualis, devertuz:l'uneestde
utsapientiaetprudentia l'entendementdel'home, etsimilia.Laudantese-
ceestsapience,science nim hominem ex parte Et uirtutum quidem tuel,nos
disons:ce est uirium intellectualium eum appellamus. intellectualium
genera prisierdevertu intellec uns sages hom etsoutis; par enseignement,et
liumestperbonam et porcelicovientexpe honestam conuersatio- rience et lonc
tens. La nem;nequesuntinno- vertudemoraliténaist bispernaturam.Res
etcroistparbonuset enimnaturalesnonegre. honeste;car ele n'est diuntur a natura
sua pas en nos par nature ; perassuetudinem,utpe- àcequechosenaturele
tra,quaesempertendit nepuetestremuéede et sens ; l'autre est de sapientem eum
dicimus autscientemaut(secun- choses semblables. Et dumaliquidhuiusmodi);
cepuetchascunsveoir sed ex parte moralium clerement; car quant
largumuelcastumuel un home humilem uel modestum mais quant nos le volons
tioetincrementumfit prisierdemoralité,nos inhomineperdoctrinam etdisciplinam;ideoque
chastesetlarges.X.La in eius acquisitione ex- vertu de l'entendement
perimentoindigetettem- estengendréeetescreue pore longo. Generatio autem
uirtutum mora en l'ome par doctrine et moralité,ce est chastée et largesce, et
autres disons:ceestunshom nos volons L'Etica.– Due sono le virtudi; l'una si è
dettaintellettuale,sicco me lasapienza e scienza e prudenza; l'altra si chiama
morale,sicome castitade e larghezza ed umiltade; onde quando
noivolemolodarealcuno uomo divertudeintellet. tuale,diciamo: questi è un
saviouomo,intende vile e sottile; e quando noi volemo lodare un altro uomo di
virtude morale,cioè de costumi, si diciamo:questi è un uomo umile e largo.-
Concio siacosachesiano due vertudi,una intel lettuale e l'altra morale, la intellettuale
si si in genera e cresce per dot. trina e insegnamento,e la virtude morale si
si in. genera e cresce per b u o na usanza;e questa ver tude morale non è in
noi per natura,percioc cbè natural cosa non si puote mutare della sua
disposizione per contra 54 C. MARCHESI riausanza.Verbigrazia: ad
centrum naturaliter, lanaturadellapietrasi etignisadcircumferen
èl'andareingiuso,onde tia,numquam assue non la potrebbe l'uomo receptionem , et
perfi questevirtudinonsono tiunturinnobisexbona in noi per natura,la po. (1)
Taddeo amplio e chiarì meccanicamente l'esempio della pietra e del faoco,
valendosi del latino del Liber Ethicorum del commento tomistico: « ..... puta
lapis natura deorsum latus non
autiqueassuescitsursumferri,nequesideciesmilliesassuescat quis,eumsursumiaciens»;e
sopratutto del Liber minorum moralium : « Lapis enim qui naturaliter deorsam
descendit quamvis « quis probiciat ipsum sursum uicibus innumerabilibus, quarum
non comprehenditur multitudo, «uolens per hocassuefacereipsummouerisursum,numquamhabebitpossibilitateminhoc.Et
« similiter ignis non est possibile at recipiat per assuetudinem diuersum
motionis suae ». nos par usage; por quoijediqueces vertuz ne sont pas dou tout
en nos sanz nature ne dou tout selonc nature ; mais li commencemenz et la
racine de recoivre ces vertuz sont en nos par nature,et le lor c o m pliment
est en nos par usage.Et touteschoses tanto gittare in suso, situm; neque
aliarum ch'ellaimprendessead rerumullaassuescetop. andareinalto;elana-
positumnaturesue(1). turadelfuocosièd'an. Attamen cognationem
dareinsuso,ondeno'l aliquamhabetconsue. potrebbe l'uomo tanto tudo cum natura
et co trarreingiuso,ch'egli gnationemaliquamcum imparassedivenirein
intellectu.Nonsuntita que in nobis uirtutes niunacosanaturalepuo- morales naturaliter,ne
tenaturalmentefarelo quepreternaturam;sed contrario della sua na- nati sumus ad
earum giuso;eduniversalmente tura.Mà avvenga che scunt huiusmodi oppo
consuetudine.Itemomne puissanced'aprendrela tenziadiriceverleèin
quodinnobisestnatura. estennousparnature, noipernatura,elocom-
literpreextititinnobis etlicomplemenzesten pimentoèinnoiper
potentialiter,deindeap usanza.Ondequestever. paretactualiter.Ethoc
tudinonsonoinnoial manifestumestinsen postuttopernatura;ma sibus. Sensus enim
in laradicee'lcomincia. nobisnonfiunteoquod mentodiriceverequeste
uideamusuelaudiamus multociens,sed e con trariofitinnobis.Ha bemus enim eos
prius naturaliteretpostmo. vertudi si è in noi per natura,e'lcompimento
elaperfezionediqueste virtudisièinnoiper usanza.Ognicosala dumexercitamurineis.
sonordreparusage con traire.Raison comment : la nature de la pierre est d'aler
tozjors aval, ne nus ne la porrait tant giteramont que ele seust sus aler; et
la nature doufeuestd'aleramont, ne nus ne leporroit tant avaler que il seust en
aval metre la flamme. Et generalment nul na tural chose ne puet par usage
aprendre à faire lecontraire de sa nature. Et jà soit ce que ceste vertuz ne
soit en nous par nature, certes la IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 55 diusinterextremadicta, Etporunemeismechose et d'oïr, et
par celui quellapotenziaodee ethocmodoestinom- pooirvoitetoit,etnus
vede,enonvedel'uomo nibus artificibus.Nam nevoitdevantqueilen prima
eode,ch'egliab- hedificatores sumus ex ait le pooir. Donques bialapotenziadelve-
usuhedificandietcytha. savonsnosquelipooir dereedell'udire.Dunque
rediexusucytharizandi; est devant le faire.Mais vedemo già che la po- ex bene
quidem facere es choses de moralité tenziavadinanziall'atto.
hocbonisumusinbiis, estli contraires;car E nelle cose morali è ex male autem
mali. l'uevre et li faiz est de. tutto locontrario,chè vant le pooir. Raison
l'operazioneel'attova eadem fituirtusetcor- comment:aucunshom dinanzi alla
potenzia. rumpitur.....autem a la vertu de justise, Verbigrazia:l'uomosi similiter(sanitatis).Et
cor mentneleseustlimais. rumpunturexpaucitate tresseiln'eneustovré
fatteprimacase,edal- etmultitudine,uttimi- autrefoiz.Autressi se trimenti non
potrebbe ditas et procacitas. Ti- vent aucun bien citoler
peravereeglimoltevolte averequellaarte,seegli midusenimfugitomnia,
Exeisdemergoetper porce que il a devant hae la virtude che si actiones
laudabiles cor- fait maintes cevres de chiamagiustiziapera- rumpunturproptersu-
jostise;etunsautresa vereeglifattoinnanzi perfluitatemautdiminu- lavertudechastée,porce
molteoperazionidigiu. tionem,utexercitia su- que il a devant fait
stizia,edhael'uomola perfluaautdiminutaet maintesoevresdecha virtudechesichiama
nutrimentisusceptiosu-stée.Toutautressiest castitadeperavereope-
perfluaautdiminutafor- des choses de mestier rate dinanzi molte ope- m a m
sanitatis corrum- et de art.On scet faire razionidicastitade;e
punt,equalitasautem maisons,porcequeon cosiadivienedellecose
ipsorumsanitatemfacit enamaintesfaitespre artificiali, chè l'uomo et auget et
conseruat.Et mierement ; car autre hal'artedifarelecase uirtutes morales porce
que il en sont non l'avessemoltevolte procax autem omnia in- molt usé.Et li hom
est adoperata dinanzi;esi. uadit. Fortitudo autem bons por bien faire,et
migliantemente l'arte qualeèinnoiperna- Virtutesautemacqui- quisontennosparna
tura,sièprimaepoi rimusexfrequentatione turesontpremierement
sivieneinatto,siccome actuumhabitusinducen- enpooiretpuisenfait, avviene de
sensi del- tes. Iusti etenim sumus aussi comme li sens de l'uomo,chèprimaha
exusuactuumiustitie, l'ome;cartoutavanta l'uomolapotenziadive.
etcastisimiliter,scilicet lihom pooir de veoir dere e d'udire, e per ex usu
actuum castitatis, del ceterare ha l'uomo inhisesthabitusme-
mauvaispormalfaire. et inest fortitudo ei qui scit fugere a
fugiendis et inuadere inuadenda, ethichabitusacquiritur Per una medesima
exconsuetudineuilipen cosasigeneranoinnoi di(sic)terribilia.Sicca
levirtudi,esicorrom ponosequellacosasifa indiversimodi;eadi viene della virtude
si comedellasanitade,che una medesima cosa in diversi modi fatta fa ella
sanitade e corrompela. Verbigrazia: la fatica s'ella è temperata si in. genera
sanitade nel corpo dell'uomo,e s'ella è più che non si con. viene o meno che
non si conviene,si corrompe lasanitade;esìadiviene della virtude che si cor
rompe per poco e per troppo, e conservase per tenere lo mezzo.Verbi. grazia:
paura e ardi mento corrompono la prodezzadell'uomo;per cio che l'uomo che ha
paura si fugge per tutte le cose, e l'uomo ch'è arditoassalisceognicosa e
credelasi menare fine; e nè l'uno nè l'al. tro non èprodezza;ma la prodezza si
è tenere lo mezzo intra l'ardi mentoelapaura;edee stitatishabitusacqui. ritur
ex consuetudine retrahendiseauolupta tibus,etsimiliterseha
betinceterishabitibus laudabilibus..... 56 C. MARCHESI per avere molte
volte ceterato ; e l'uomo è buono per far bene,e lo rio per far male. naissent
en nos et se cor rumpent les vertus,se cele chose est menée en diverses
manieres;tout autressi c o m m e la santé ; car travailleratempree. ment
engendre santé au corsdel'ome;maistra vailler o plus ou mains que mestiers
n'est,cor ront la santé; mais meenneté la garde et acroist : autressi est de
vertu, car ele corront et gaste par po et par trop,et si se conserve et
maintient par la meenneté.Raison com ment : Paors et harde corrumpent la p r o
e s c e d e l ' o m e ; c a r li hom qui a paor s'enfuit por toutes choses, ne
n'ose nule emprendre; et li hardis emprent à faire toutes choses,et les cuide
mener å fin. Et sachiez que l'une ne l'autre n'est pas proesce: mais proesce
est aler entre hardement et paor. Et doit li hom foïr les choses qui sont à
foïr, et envaïr les choses qui sont à envaïr. Et cist habiz est aquis par usage
de desprisier les terri bles choses,et habiz de chastée est aquis par u a mens
IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 57 l'altre virtudi ,siccome
tu hai inteso della pro dezza ; chè tutte le virtù s'acquistanoesisalvano per
tenere lo mezzo. Col raffronto del devez entendre de toutes vertuz. brano
finale mettiamo termine a questo prospetto comparativo, che porta un
contributo,non privo d'in teresse, alla conoscenza della fortuna aristotelica,
ed è d'impor tanza fondamentale per la storia dei compendî neolatini del
l'Elica nicomachea. che sono da fuggire. E sage de retenir soi contre
l'uomo fuggire le cose cosideiintendereintutte ses covoitises. Autressi
Liber Ethicorum . Educatio puerorum secundum no- Dee essere lo
notricamento delli bilem legem necessaria est ad indu- garzoni secondo la
nobile legge, e cendumeispermodumcastitatiset ausarliadoperazionidivirtù,ein
non per modum continentie. Inde- questodeeesserepermododicastità,
lectabilisenimestapudplureshomi. enonpermododicontinenzia,per.
numususuirtutumpermodumcon- ciocchèl'usodellacontinenzianonè
tinentie.Nequeabstrahendaesteis dilettevoleamoltiuomini,enonsi manus statim
post pueritiam, sed dee ritrarre la mano di gastigare continuanda est eis usque
ad con• il fanciullo via via dopo la fan sistentiam et robur uirilitatis. In
ciullezza;anzi dee durare in fino al rectificandoquosdamsufficitredar-
tempo,chel'uomoècompiuto.Sono gutioetcastigatiosermocinalis,in
uominichesipossonocorreggere aliisautem quibusdam uixsufficitas. per parole e
sono altri che non siduatiouerberumtamquaminbestia. si possono correggere per
parole, Neutrouerohorummodorumrecti- anziv'èmistieripena.Esonoaltri ficabiles
tollendi sunt de medio.No- che non si correggono in niuno di
bilisetstrenuusrectorciuitatisciues questiduemodi,equesticotali(1)
nobilesefficit,etbonioperatoresha- sonodatorredimezzo.Lonobilee'l benteslegemetoperalegisexer-
buonoreggitoredellacittafanobili centesaduersantureisquicontraria
cittadiniebuoni,liqualiservanola agunt,etsibonaagant.Inpluribus
leggeefannol'operachecomanda ciuitatibus iam abiit regimen uite la legge e sono
avversari a coloro hominum ideoque dissolute uiuunt che non osservano gli
comandamenti etpropriassectanturuoluptates.Et dellalegge,avegnach'ellifacciano
regimen quidem conuenientius est bene.Inmoltecittadièitoviailreg. communis
prouisio moderata,cuius gimentodellavitadellihuomini,però
usumobseruarepossibileestetnon chesivivonodissolutamenteese
summedificile:etquodcupitquili. guitanolelorovolontadi.Lopiùcon
betseruariinseetamicisetfiliiset venevolereggimentocheporresi
familia.Etprecipueydoneusadtalis puotenellacittà,sièquellocheè
regiminisconstitutionemestillequi temperatoprovedimento,intalmodo
sciueritquoddictumestinhoclibro. chesipuoteosservareenonètroppo
Scietenimcanonesuniuersalesad grave;equelloloqualedesidera
particulariadistrahere.Communis l'uomochesiosserviinsèenelli 58 C.
MARCHESI (1)Icodd.8. v.11:...ce questicotalisono rei perchè
sonopartitiintuttodalmezo,et « debbono essery odiati si come sono li lupi et
cacciati d'ongne buono luogo. Lo nobile etc. ). L'Etica d'Aristotile.
IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 59 Li
Tresors,Liv.II,P.I,chap.XLIV. Magliabech.,I,I,47. Et li norrissemens des enfans
doit I nodrimenti da fanciulli debbono estrenoblesentelmanierequeil
esserenobili,sichesiabeneapreso soientaprisàfaireetàuserlesbones
afareedausodibuoneopereper oevresparchastéenonmieparcon-
chastitaenomicapercontinuanza. tinance,carcontinancen'estmiecon-
Checontinuanzanonemichaconue venablechoseasgens;etl'onne
neuollecosaagienti;el'uomonon doitpasostercestusagenecest
deemichaleuarequestausanzane chastiementmaintenantqueilont
questochastighamentoimmantenente enfance passée, mais maintenir la
ch'egliàlafanciullezasua,maman jusquesàtantquelidroizaagessoit tenerla
insinoatantocheildiritto acompliz.Iliahomesquipueent estre governé par
chastiement de paroles,etautresiaquinepueent mieestrechastiéparparoles,mais par
menaces de torment; et autre homesontquel'onnepuetchastier
neparl'unneparl'autre;ettelhome doiventestrechastiésiqueilnede-
mourentavecautresgens.XLV.Li chacciatisich'eglinodimorinocon
noblesgouverneresdelacitéfaitles l'altrigienti.Quidicedelgouerna
citeiensnoblesetlesfaitbienoyrer mentodellacittaCCLXVIII.Ino.
etgarderlaloietcontresterasautres biligouernamentidellacittadefanno
quinelagardent,jàsoitcequeil icittadininobilieglifabeneoperare
lefacentbien,Maintescitezsontoù eguardarelalegieecontradirea
ligouvernementdelaviedel'ome quegliche nollaguardano,concio
sontdestruit,etviventdissoluement, siacosach'eglifaccianobene.Molte car
chascuns va après sa volenté. città sono oue il gouernatore della
Liplusnoblesgovernemensquisoit ụitadell'uomoèdistrutaeuiuono
enlaviedel'ome,etàmoinsde disolutamente,chè chattuno
poineetdetravail,estcilquel'on apressosuauolonta.Ilpiùconuene
consiredemaintenirsoietsamaisnie uollecomandamento egouernamento
etsesamis,etcilpuetconvenable- chesianellauitadell'uomoeapena
mentmaintenirgensquiaurala dipeneeditraualglioèquellache science de ce livre;
porce que il l'uomo considera di mantenere se e saurajoindrelesenseignemensuni.
suamasnadaesuoiamici;equeuli verselsaveclesparticulers;carci-
puoteconueneuollementemantenere teiennecommuneestdiversedela
gientecheàconsecolascienzadi particulere,aussicommeentozmes-
questolibro;peròch'eglisapragiun agiosiacompiuto.Esonohuomini
chepossonoesseregouernatipergha. stigamentodiparole,ealtrisonoche
nopossonoesseregastigatiperpa role,maperminacieditormenti;e
altrisonochel'uomononpuotees seregastigati nè per l'unonè per
l'altro;etallihuominidebbonoessere uae 1 60 C. MARCHESI
(1)Taddeo riduce molto sensibilmente il testo latino e ne sopprime a dirittura
la fine: forse egli ritenne compiuto a quel punto trattato aristotelico della
morale e credette opportuno esclu. dere le parole seguenti; forse a lui melico
e maestro fece ombra quell'accenno, in fine, all'arte della medicina.
Probabilmente Taddeo rappresentava più da vicino il metodo pratico, e il
libellus de servanda sanitate pnò darcene fede : s'è cosi, egli non poteva
piacevolmente accogliere l'affer mazione aristotelica.
namqueciuilitasdiffertaparticulari suoifigliuolienegliamicisuoi.E
quemadmoduminmedicinaetceteris lobuonoponitoredellaleggesiè
potentiisoperatiuis;inhacintentione quegliloqualesaleregoleuniversali,
nonmodicaestdifferentia.Inomnibus lequalisonodeterminate in questo ergo huius
necessaria cognitio uni. libro,et salle coniungere alle cose uersalium simul et
particularium. particulari le quali vegnono altrui
Experientiaenimsolanonestsuffi- ciensinhiis,nequescientiauniuer-
saliuminipsissecuraestetcerta absque experimento. Multi ergo m e dicorum sola
freti experientia in se ipsis,quidem intendunt,bene uidentur operari et in
aliis non proficiunt quicquam,eo quod naturam ignorant. Considerandum est
itaque qualiter et per que erit quis peritus legis-lator. Erit autem hoc per
noticiam rerum ciuilium,que subiectum sunt huius potentie. Quemadmodum se habet
in ceteris artibus consimilibus huic, posse experientie in inuentione legis non
estmodicum.Quidam putauerunt quod hac ars et rethorica sint unum et idem : in
uno etiam putauerunt intralemani,peròcheabeneordi. esse uiliorem hanc rethorica
: et leue quid reputarunt scientiam condendi le. ges.Non estautem
sic;electionam que in arte qualibet actus nobilis est, et quidem per duo
est,siue per scien tiam et experientiam: et per scien. tiam quidem est actus
illius inuentio et per experientiam est ipsius directio et certificatio. Et
universaliter con nareleleggisièmistieriragionee sperienza(1). IL
COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 61 di uiuere coronpono ibuoni usi
di tiers;carenchascunechoseconvient gnierelo'nsigniamentouniuersale
ilconoistrelesparticuleresetlesuni. cholparticullare;chèciertauitadi
verseleschoses,porcequeseuleespe. comuneèdiuersadallaparticullare,
riencen'estmiesoffisansence;et savoir lesuniverselschoses n'est pas
altresicomeintuttimestieri,chèin ciascuna cosa conuiene conoscere li
seurechosesanzl'esperience;ainsi commenosveonsmaintmirequipar
particullariequesteuniuersalicose, perochesollasperanzanonèmica soficiente in
cio; e sapere l'uniuersali cosenon è mica sicuracosasanza seule experience
sevent maint bien faireenlormestieretenseignierne lesporroientasautres,porcequeil
n'ontsciencedesuniversels.Donques l'esperienze;sìcomenoiueggiamo
moltimedicichepersolasperanza seracilparfaizmaistresdelaloi
neseguemoltobenefareinsuome. quiseitlesparticulerschosespar
stiere,einsengniareno'lpotrebono experience et qui seit les choses agli altri,
però ch'elgli non áno universels. scienza de l'uniuersali cose.Dunque Home
furent qui cuidierent que sara quegli perfetto maestro della
rectoriqueetlasciencedemaistrie legiechefaeleparticullaricose
deloifussentunemeismechose,et persperienzaechesalecoseuni
penserentquecestesciencefustle- uersali. giere;maislaveritén'estpasainsi,
Huomini furonochecredottonoche porce que li maistres de la loi doit lla
retoriccha e la scienza di m o estresemblablesàsesciteiens,et
strarelegiefossonounacosa,epen doitsavoircestart,etquilesaura
saronochequestascienzafossele liseraprofitable,etautrementnon; giere;ma
llaueritanonècosi,però etseilcommencastàfaireloisanz
cheimastridellalegiedebbonoes cestescience,ilneporroitdoitrement
seresimilgliantialorocittadinie conoistrenejugierlabontédesana-
ture,deacomplirladefautedesa science,maisporcequenoscuidons
consirertouteshumaineschosespar legiesanzaquestascienzaeglinon
guisedephilosophie,simetronstout potrebedirittamentegiudicharenė
avantlesdizdesancienssages;et conosere dibontàdisuanaturane
encepenseronsquelesdesordenées conpieladifaltadisuascienza.Ma
manieresdevivrecorrumpentles perochenoiabbiamod'andarecon bons us des
citez,etliconvenable siderandotutteumanecoseperguisa
lesredrescent,etquiestl'achoison diphilosophia,simetonotut'auanti
demaleviededanzlacitéetdela idettideliantichisauieciòpen
bone,etparquoilaloiestsemblable seremonoicheledisordinatemaniere as costumes.
debonosaperequestaarte:chilese guirrasaràprofitabileealtrimenti
non.Es'eglicominciasonoafare ditio legum similatur potentiis ciui
libus, nec potest esse conditor legum qui non habuit scientiam istius artis.
Qui uero habuit eam proficiet per experientiam et qui non, non. Et cum
inceperintimponere legem absque habitu scientiali,non recte discernent. Neque
bene iudicabit,nisibonitaset excellentia multa nature suppleat de. fectum
scientie. At quantumcumque natura bene disposita sit,est tamen promtior et
expeditior est in uere iudi. cando,cum secum habuerit certudinem artificialem
.Quoniam itaque proponi mus speculari in rebus humanis modo philosophico,
substinemus primitus dictaantiquoruminhoc;deindeconsi derabimus modos
uiuendi,qui extant ; qui ipsorum corruptiui sintconsortii ciuilis in
ciuitatibus quibusdam et rectificatiui in quibusdam, et qui corruptiui in
omnibus et qui rectifi. catiui in omnibus, et que est causa bonae uite
quarundam ciuitatum et que causa quarundam habentium se e contrario, et quarum
leges con suetudinibus similantur. Incipiamus ergo et dicamus. 62 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 63
cittadini,e le conueneuoli la dirizzano, e chi è chagione di malla uita dentro
alla città e della buona, e perché la legie è sembiante a costumi. Da questo
prospetto risulta chiaro quanto abbiamo prima af fermato,ed insieme con la
questione dell'Etica volgare è risoluta quella non meno importante del
volgarizzamento del VI libro del Tresor e delle fonti di esso,che il Sundby con
molto buona volontà ma con poca fortuna rintracciava nel latino dell'altro
Liber Ethicorum , del commento tomistico, e nelle chiose di S. Tommaso (1). È
naturale che il critico danese ha qualche volta gridato all'impossibilità di
trovare il passo corrispondente nell'originale(2),ch'egli rinveniva del resto
molto malconcio e scompigliato nel francese di Brunetto. Nè il Sundby fu il
primo a esser tratto in inganno circa le fonti del VI libro del Tresor.Già il
Mehus parla di un'Etica latina di cui si valse Brunetto, compilata per incarico
dell'im peratore Federico Inell'Università di Napoli,e di una traduzione
dalgrecoinlatinodelLibermagnorum Ethicorum,fattasotto gli auspici di Manfredi
da maestro Bartolomeo di Messina (3). Il Mehus è senza dubbio fuor di strada ;
giacchè quest'ultima opera rimane estranea alla tradizione dell'Elica nostra,
nè di quella prima imperiale versione d'Aristotile pare che non sia lecito
dubitare. De'rifacimenti latini dell'Etica aristotelica dirò compiutamente in
un prossimo lavoro; giacchè non è più possibile star paghi alle vecchie
notizie,e d'altra parte le buone ricerche del Jour (2) lvi,p. 149. (3)
Op. cit., p. 155. 144 . p. (1) Op.cit., dain non sono affatto
compiute e i risultati da lui ottenuti non sono più in buona parte
sostenibili(1). Della Nicomachea si conoscono cinque redazioni latine nel 1300
; delle quali tre derivano direttamente dal greco : l'Ethica uetus (2) che
comprende solo il secondo e il terzo libro,l'Ethica noua (3)che contiene il
primo libro, e il Liber Elhicorum che abbraccia tutti i libri e al posto dei
primi tre inserisce con frequenti ritocchi e modificazioni il testo dell'Ethica
noua e dell'Ethicauetus.IlLiberEthicorum,che fu commentato da Tommaso
d'Aquino,ebbe larghissima diffusione,come pare anche dal numero e dalla
importanza de'mss. che lo contengono (4), insieme col commento tomistico servi
di testo fondamentale per l'instituto filosofico etico del tempo. Per il
tramite arabo ci son pervenuti due rifacimenti latini della Nicomachea,d'indole
ben diversa:il Liber Ethicorum , volgarizzato da Taddeo,che servi di fonte al
VI libro del Tresor, eilLiberMinorum MoraliumoliberNickomachiae(5),tradotto
dall'arabo in latino per opera di Ermanno il Tedesco (Herman nus Alemannus)nel
1240. È questa la parafrasi dell'Etica fatta da Averroè ; il rifacitore non
volle solo tradurre l'opera m a intese altresi chiarirla e
spiegarla,accrescendone e sviluppandone idati dimostrativi che nel testo sono
ridotti a'risultati de'processi lo gici.Aristotile parve un po'contratto
;l'arabo ne distese imuscoli (4) Fin ora ho potuto esaminare ventidue mss.,di
cui quattro del sec.XIII (Laurenzian.89,sup.44;XIII Sin.1;79,13;XIII
Sin.6),diciassettedelse colo XIV (Ambrosian.F. 141 sup.; A. 204 inf.,di mano di
Giovanni Boc caccio;Laurenz.XII Sin.7;XII Sin.9;Nazion.Napoli,VIII G. 11;G. 25;
G.27:Riccard.III;Marciana (mss.lat.)cl.VI,39,41,43,44,122;Uni vers.Padova
679,788; Antoniana XX ,456; Capit.Padova G. 54; e uno del sec.XV :Ambros.R. 50.
sup.). (5 ) L a u r e n z . 7 9 , 1 8 ; 8 9 , s u p . 4 9 . T r o v a s i p u r
e i m p r e s s o i n t u t t e l e e d i z i o n i di Aristotele con ilcommentario
di Averroès (Venezia,Andrea d'Asolo,1483 ; Giunta, 1550, 1560, 1562,
1574). 64 C. MARCHESI ( 1 ) O p . c i t ., p p . 5 9 - 6 2 , 7 6 - 7 7 ,
1 4 4 , 1 7 9 - 1 8 1 . (2 ) L a u r e n z . X I I I , S i n . 1 2 ; V I I I ,
D e x t . 6 . (3)Ashburnham.1557. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA
ARISTOTELICA 65 e ne arrotondo icontorni,stemperandone la fibra. Aristotile,ada
giatosi nella mollezza araba un po' adiposa, si presento all'in telligenza un
po'incerta,bambina alquanto e stentata,delle nuove genti latine che con più
agevolezza poterono,cosi in veste più larga,contemplarlo e comprenderlo; e
l'opera aristotelica, accresciuta di quel po' di cemento della parafrasi araba
che riempiva gl'interstizî apparenti della sua costruzione ideale,poté intendersi
e premere sulle coscienze senza l'aiuto di un com mentario apposito che
dissolvendone l'unità finale ne facesse a p parire gli elementi semplici di
formazione. APPENDICE I. I CODICI DELL'ETICA Cod.Ashburnhamiano955[=
1]membr.sec.XIV,conlaprimapagina miniata.Tit.: L'Etica del sommo phylosofo
Aristotile; la soscrizione finale si legge difficilmente; pare: Explicit liber
Ethicorum Aristotelis phylo. sophj in uulgari idioma scriptus: di cc. scr. 48,
le cui ultime presentano molte abrasioni. Cod.Magliabechiano 12.8.57
[52]membr.sec.XIV;titolieiniziali color.,di cc.scr.26. Com. Prolago sopra
l'etichadel sommo phylosofo Aristotile; in fine: Explicit liber ethicorum
Aristotilis. deo gratias. In fondo è ilnome del trascrittore «Sander me
scrissit». Cod.MagliabechianoA.2.3.2[= 3]membr.sec.XIV;titolieiniziali in
rosso,di cc.scr.22. Com.: Prolago sopra l'etica d'Aristotile; in fine: Qui
finisce il libro dell'Etica del sommo filosafoAristotile il quale tratta delle
uertudi che ssi conuegnono auere a cchostumi ed a buona vita delli huomini. In
fondo « Giouanni di Lapo Arnolfi lo fece scriuere. Compiesi di < scriuere
martedi di XXII di Giugno Anno MCCCXXXIX »; più sotto è indicato
iltrascrittore«Sanderme scrissit»:è lostessodelcod.precedente. 5 C.
MARCHESI. Cod.Magliabechiano2.4.274[=
4)membr.sec.XIVexc.dicc.scr.44, miscell., contiene il Trattato sulle avversità
della fortuna (c.1-16'). L'Etica com.: Incipit Ethica Aristotilis translata in
uulgari a magistro Taddeo florentino;infine:ExplicitethicaAristotilistraslatatapermaestro
Taddeo. deo grazias. A c.1a « Qui cominciano le robriche di tutto il libro
dell'eticha « d'Aristotile traslatata per lo maestro Taddeo ». Cod.Marciano
(mss.ital.)II,3 [= M]membr.sec.XIV,225 X 164,di cc.46 non
numerate;anepigr.Precede il trattato «de la doctrina di tacere «etdi
parlare»diAlbertano da Brescia;finisceac.11a:Quifiniscee libro de la doctrina
di tacere et di parlare el quale fece messere Alber tano giudice da brescia
nell'anno domini Millesimo CCXL V del mese di dicembre Deogratias Amen.Dopo un
foglio vuoto,ac.13a seguono alcune « Sententie Tulij et Senece et aliqua dicta
Aristotilis », che vanno sino a
c.18a.L'Eticii,anepigrafa,vadac.18'ac.46t;iltestoèmolto guasto e
scorretto,senza alcuna divisione in libri; in fine: Finitus est liber deo
gratiasAmen. Cod.Palatino634[=5] membr.sec.XIV;rubricheeinizialicolorate: di
cc. scr.27, più una bianca. Tit.: Incomincia l'eticha d'Aristotile in uol. gare
; in fine: Explicit ethica Aristotilis translata a mgio iohe min . deo gratias.
Cod.Riccardiano 1538 [= 6;vecch.segn.S.III.47]membr.sec.XIV inc.,miscell.,con
belle iniziali colorate e rabescate e numerose vignette intercalate nel
testo,di cc. scr.231. Tit.: Incipit etthica Aristotalis. Segue a l l ' E t i c
a il t r a t t a t o d e l l e q u a t t r o V i r t ù , il S e g r e t o d e S
e g r e t i e d a l t r e s c r i t t u r e sacre e profane;il cod.,come sivede
dalla soscrizione finale,appartenne a un Bertus de Blanchis che ne fu forse
anche il trascrittore. Cod.Riccardiano 1651 [= 7;vecch.segn.N. IV.27]membr.sec.XIV,
coninizialicolorateerabescate,dicc.scr.50.Tit.:Prolagosopra l'ethica
d'Aristotile;infine:explicitliberEthicorum Aristotelis.Contieneinoltre: Egidio
Romano, la esposizione della Canzone di Guido Cavalcanti.
Cod.Laurenziano89Sup.110[= a]membr.sec.XV,dicc.42.Nella 66 C. MARCHESI C
o d . R i c c a r d i a n o 1 2 7 0 [ = 8 ] m e m b r . s e c . X I V , m i s c
e l l .; p r e s e n t a t r a c c e di quattro mani diverse;la più antica
riempi ifogli dell'Etica (da c.5a a c . 3 0 ). C o m .: Q u i c o m i n c i a l
' e t i c h a d ' A r i s t o t i l e . Cod.Ambrosiano C.21.inf.[39]membr.del
sec.XV,dicc.58,con la prima pagina fregiata e miniata,con lo stemma del
possessore e il ri tratto del filosofo; le iniziali di ogni libro colorate e
fregiate. Com .: La Prefatione di 'l primo libro di l'Ethica de Aristotele ad
Nicomacho suo figliuolo; nessuna soscrizione finale. IL COMPENDIO
VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 67 prima pagina è lo stemma del possessore con
la indicazione « Jacopo di « piero benciuenni ciptadino florentino spetiale a
pie'del Ponte Vecchio 1488 ». Tit.:Prolago
sopral'eticadelsommophylosofoAristotile;infondoporta la data della
trascrizione: 1451. Cod. Laurenziano 76. 70 [= r] cartac. sec. X V , di cc.
118. Precede a p. 1 « Insegnamento delle uirtudi e mortificamento de'uitii
secondo Aristo « tile e detti e autorità notabili di Santi et di molti saui et
filosafi et poeti » cioè,ilVIIlibrodel
Tesoro.L'Eticacominciaac.78:Quicomincial'etica d'Aristotile; in fine: Explicit
l'etica d'Aristotile. Cod.Magliabechiano2.4.106[=
m]cartac.sec.XV,dicc.77,miscell.;
contienevolgarizzamentidioperesacre.L'Etica(c.54-72t)com.:Qui co mincia
un'opera facta per lo grande sapiente Aristotile detta l'Eticha; in fine:
Finita l'eticha d'Aristotile translatata per maestro Taddeo.deo
gracias.Sottoèl'indicazionedell'anno Scrittadigennaio1459».
Cod.Magliabechiano2.2.72[= p]cartac.sec.XV,miscell.:contiene
ladottrinadelparlare(estrattadallaP.I,cap.13del Tesoro),ilSegreto de
Segreti,ilvolgarizz.daVegezioFlavio,un librodelleAringherieetc. Si trova unito
a questo un codicetto dello stesso formato, di cc. 18, conte nente una piccola
storia o diario della città di Firenze dal 1300 al 1379. L ' E t i c a v a d a
c . 5 4 a c . 3 6 ', a n e p i g r . I n f i n e : C o m p i u t a è l ' E t i
c a d ' A r i s t o tile translatata in uolgare da maestro Taddeo.
Cod.Magliabechiano21.9.90(= r]cartac.sec.XV exc.miscell.Con tiene una parte del
trattato del Governo della famiglia di L. B. Alberti e dell'Etica solo il libro
ottavo e nono ; vede bene che il trascrittore ha
volutoestrarrelaparteriguardantel'Amicizia;ambedue ilibrisondivisi i n v e n t
i d u e c a p i t o l e t t i. A c . 6 1 è l a s o s c r i z i o n e d e l c o
p i s t a « G i o v a n n i S t r o z z i » , eladata:20maggio1482.
CodiceMarciano(mss.ital.)I,134(= N)membr.sec.XV,205X 138, cc.64 non
numerate,con le iniziali dei libri miniate e dorate. Com .: Incipit proemium
transductorishuiusoperisuulgaris;iltestocom.ac.21:Libri Ethicorum siue Moralium
Aristotelis qui sunt X in multa capitula diuisi,
quiageneraliterdemoribussehabet.Nam inprimolibrodeterminatde felicitate morali
et eius partibus. Segue a c. 47 un semplicissimo ristretto volgare degli
Economici,indue libri:Incipiunt libri Ichonomicorum Ari. stotilis duo diuisi in
aliqua capitula pertinentis ad gubernationem familie. Nam
inprimolibrodeterminatdepartibusIconomiceetdeconiugatione mulieris et uiri,quae
dicitur nuptialis,de coniugatione parentum ad filios quae dicitur paterna,et
dominorum ad seruos quae dicitur dispotica. « La scientia di regiere la casa ha
nome Iconomicha et è differente da la « scientia di reggiere la
cipta la quale ha nome polliticha. Non solamente « perchè una cio e la
Iconomica considera el regimento de la casa et la « politica el regimento de la
cipta,ma etiandio perché in reggiere la casa «nondieesseresenonuno.».A
c.61asegueunExtractumAristotelis de libro Secreta Secretorum de arte
cognoscendi qualitates hominum ad Alexandrum regem . In ultimo è questa
soscrizione: « Ex Venetiis primo «IdusIulijMCCCCLXXIII finis». Codice Marciano
(mss.ital.)II,141 (= V]cartac.sec.XV inc.,272X200, di cc.48 non numerate,con la
iniziale miniata e il titolo rubricato : Hetica d'Aristotile; finisce a c.38 ':
Qui finisce il libro detto Ethyca d'Aristotile. Composto per lo nobile
phylosapho Aristotile greco Atheniense scritto nel
M.CCCC.XVIIIecompiutoadiXXVIIId'aghosto. Nellestinche di firençe nel malleuato
di sotto. Seguono due carte bianche, e a c. 41 il libro di sentenze, che si
legge pure nel Marciano II, 3. Cod.Mediceo-Palatino43 [= y] membr.sec.XV,di
cc.scr.54,più quattrovuote:ititolideilibriedeicapitolicolorati;scrittomolto
nitida mente.Per incuriadichirilegòne'due primi quaderni è un'inversione cui
pone riparo la opportuna numerazione delle pagine.C o m .: Incipit Ethyca Ari.
stotilistranslatainuulgariamagistro Taddeoflorentino;infine:Explicit Ethica
Aristotilis traslatata per magistro Taddeo.Deo gratias Amen. Cod.Palatino501 [=
X]cartac.sec.XV,dicc.44,miscell.;contiene il libro di
ammaestramenti,sentenze,il libro di Catone,il trattato delle quattro virtù, e
altri volgarizzamenti di carattere morale. L'Etica (c. 1-224) com.: Questa si è
l'etica d'Aristotile; in fine: Explicit etica Aristotilis translata a magistro
Taddeo. Cod.Palatino510[= d]cartac.sec.XV inc.,dicc.111,miscell.;con. tiene
volgarizzamenti da Boezio,Cicerone etc. L'Etica (c.82--1066)com.: Qui
chominciano i fioretti dell'etica d'Aristotile; in fine: Finiti i fioretti
dell'etica deo gratias. C o d . P a l a t i n o 7 2 9 [ = f] c a r t a c . s e
c . X V , d i c c . 4 5 : i n i z i a l i c o l o r a t e e fregiate. Inc. Qui
chomincia il proemio sopra l'ettichia di Aristotile Pren . cipe di filosafi; in
fine: Finito e libro chiamato l'eticha d'Aristotile a di X X V d'ottobre mille
quatrociento quarantacinque per le mani di filippo Adimari da firenze a uso e
stanza di se e di suoi amici deo gratias. Cod.Riccardiano1084 [=
c]cartac.sec.XV,dicc.49;inizialieru briche colorate. Inc. Comincia il prolago
del libro della hetica d'Aristotile; in fine « deo gratias amen ».
Cod.Riccardiano1357[= e]cartac.sec.XV,dicc.248,miscell.;con tiene scritture
sacre.L'Etica va da c.49a a c.702. Com.: Prolagho sopra 68 C.
MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 69 l'eticha
del somo filosafo Aristotile; in fine: Finiscie l'eticha del sommo filosafo
Aristotile deo grazias. Cod.Riccardiano 2323 [= g] sec.XV,di cc.51; rubriche e
iniziali grandi colorate.Precede la Introduzione al dittare di «maestro
Giouanni « bonandree da Bologna », con questa ottava al principio « Di Bologna
natio «questoautore|nellacittastudiandodou'ènato conallegrezzaemaestral
«amore|digiouaniscolarquestotrattato|brieuementecomposeilcui ti «nore
conciedeachil'aurabenistudiato|sopraquelchelaepistolaadi. « manda |et
sofficientemente in lei si spanda ». L'Etica è compresa da c.20
ac.51;infine:ExplicitEth.Ar.traslatataamagistro Taddeoinuulgare. Scribere qui
nescit nullum putat esse laborem. Cod.Riccardiano1610[=
h]cartac.sec.XV,dicc.26,miscell.;contiene il trattato delle quattro virtù.Com.:
Incipit liber Ethicorum Aristotilis; infine:ExplicitliberEthicorum
Aristotilis.Ilcopistafu«lulianusAndree a de Empoli > che lo scrisse « per sè
e per i suoi consanguinei ». Cod.Riccardiano1585[=
v]cartac.sec.XV,dicc.69:inizialierubriche colorate,con frequenti macchie d'acqua
nel margine.Contiene il Segreto de
Segreti(1"-44a)el'Etica(441-68a);com.:Fiorettidell'etichad'Aristotile del
primo libro; in finc: Qui finiscie el libro dodecimo ed ultimo delle
tichacompostoperlonobilefilosofoetsommo Aristotile.Amen. Cod. Ambrosiano J. 166
inf. Cartac., trascriz. rec. Il codice consta di più parti cucite insieme.
L'ultimo quaderno contiene l’Etica, il Segreto,e il volgarizzamento
dell'orazione pro Marcello. La trascrizione è fatta con molta probabilità su di
un codice antico, fedelmente. L'Etica è anepigrafa ; in fine : Explicit Eth.
Ar.Manca ogni divisione della materia. Cod.Erbitense [Biblioteca Comunale di
Nicosia].Cartac.,trascriz.rec. Contiene il volgarizzam . toscano del de
Amicitia e il compendio dell'Etica, che manca del primo libro. Cod.Napolitano
Nasion.XII.E.35 [= s]:Copia recente d'un ms. quattrocentino posseduto dalla
biblioteca di casa Bentivoglio. Contiene il trattato della fisimomia (sic),
ch'è aggiunto in fine come tredicesimo libro dell'Etica.Inc.: Dell'Eticha del sommo
filosofo AristotilelibriXIII;in fine : Qui son finiti i dodici libri
dell'eticha del sommo Aristotile. I CODICI DEL TESORO
Cod.Ambrosiano G.75 Sup.(= Amb.)membr.sec.XIV,aduecolonne, con rubriche
fregiate e colorate; di cc.scr.121. L'Etica va da c.56a « In « cipit libro
d'eticha Aristotile » a c.73a « Expicit libro d'eticha Aristotile. « I n c i p
i t l i b r o c o s t u m a n t i e » . L ' u l t i m o c a p i t o l o c o n c
u i si c h i u d e il c o d i c e è : Come ilsignoredeestarearendereragione.Finisce(c.121a)«eprenderai
« commiato dal consellio e dal comune de la citta e te ne anderai a gloria dea
honore. FiniscelolibrodimaestroBrunectoLatinidaFiorenza». Cod.Ashburnhamiano
540 (= a)cartac.sec.XIV;anepigr.e mutilo, dicc.138.L'Eticafinisceac.73t:ExplicitelicaAristotilisa
Magistro Taddeo in uulgare traslata. Il resto del Tesoro si arresta a cc.88
(lib.VII, cap.27]; a c.90 è un capitolo in terza rima di Dante : lo scrissi già
d'amor pii uolte in rime,con una notizia sull'occasione ch'ebbe il poeta di
scriver quella poesia;a c.94 è una legienda chome tre monaci andarono nel
paradiso di lutiano. il qual e in terra ... Seguono altri scritti,tra cui un
framm . del Fiore di filosofi. Cod.Gaddiano 83 (= €)cartac.sec.XIV,acef.e mut.;
ilprimo foglio è aggiunto di mano diJacopo
Gaddi,dicc.147,sciupatodall'acqua.Ilcodice si chiude con l'Etica,ed ha questa
soscrizione: Finito el libro fatto e chon pulato per Maestro Brunetto Latino.
Il cod.come si vede da un'indicazione sulla guardia,apparteneva a'figliuoli di
« Giouanni di ser Andrea di Michele « Benci lanaiolo cittadino fiorentino ».
Cod.Laurenziano42.23(= )membr.sec.XIV,contitoliinrossoe le iniziali colorate, e
il ritratto del maestro, in principio, dipinto nell'atto che insegna ; di cc.
142. Il testo è diviso in tre parti: dopo la prima è un indice della materia
precedente; un altro indice di tutta la rimanente m a teria trovasi alla fine
del codice. L'Etica va da c. 59! « Cominciamento del « segondo libro del Tesoro
lo quale e appella l'eticha che compuose Ari « slotile » a c.774 « Explicit
hetica Aristotilis a magistro Taddeo in uol. «gare
traslectata».Infinedelcod.:«Explicitlibroloqualefuecomposto per lo maestro
Brunetto Latino di fiorenza et poi traslectato di fran ciescho in latino (Bondi
pisano mi scrisse dio lo benedisse. Testario sopra nome, dio lo caui di gienoua
di prigione. et a llui et a li autri che ui sono 70 C. MARCHESI APPENDICE
JI. IL COMPENDIO VOLGARE DELL'ETICA ARISTOTELICA 71 e da dio abiano
benizione.Amen amen). La soscrizione è di mano dello stesso copista.
Cod.Laurenziano 90 Inf.46 (= d)cartac.sec.XIV exc.,aduecolonne; titoli in rosso
e iniziali colorate ; di cc. 211. L'Etica va da c. 74+ (Qui co. mincia l'ectica
d'Aristotile et est la segonda parte del Tesoro) a c. 100a (Explicit l'etica
Aristotile in questo tanto che io noe trouata).In fine del codice: Qui fenisce
lo sourano libro-Explicit lo libro del Tresoro. Cod. Magliabechiano 2. 8. 36
(vecch. segn. 25. 258] secc. XIII-XIV : acefalo e mutilo di cc.91. Comincia al
lib.II, P. I,cap.19 efinisceal lib.III,P.II,cap.21. L'Etica finisceac.19a,senza
alcuna soscrizione. Tra il compimento della prima parte e il principio della
seconda (cc.44-75)sono della stessa mano alcune tavole planetarie e
astrologiche, tavole ad lunam et ad Pascham inveniandas etc. Proven.Strozzi.
Cod.Palatino585(= ^)cartac.sec.XIVexc.,dicc.214;miscell.Con tiene,oltre il
Tesoro,ilLibro di amaestramenti di costumi,le cinque chiari della
sapienza,iltrattatodelle quattro Virtù morali,lo libro di Chato. L'Etica va da
c.87+ [Qui chominciano le robriche del secondo libro
delTesoro,cioèd'etichad'Aristotile- epoi:Quisichomincialosecondo libro del
Tesoro e primamente dell'ecitta d'Aristotile) a c.115a [Explicit E t i c h a A
r i s t o t i l i s a M a g i s t r o T a d e o i n u u l g h a r i t r a s l a
t t a t a d e o g r a z i a s ]. Finisce il Tesoro a c.175a.Al recto
dell'ultima carta,dimano di poco po. steriore, si legge « Questo libro è di
Giuliano di Giouanni Quaratesi : chi llo « achatta, piaccagli renderlo per
l'amore di dio, e dalle lucerne e da' fan «ciullilorighuardi».Com.iltestodel
Tesoro:«Questoèlolibrochessi «chiama Texoro loqualeèchauato dalla
bibbiaede'libridifilosofi a che ssono stati per li tempi ». Cod.Riccardiano
2221 (= 2)membr.sec.XIV,di cc.127; iniziali co lorateefregiate.L'Eticavadac.58'«Incipit
libbro elichaAristotile» a c.75'«Expicit libbrod'etichaAristotile».A c.1224:Qui
finiscielo libro di mastro bruneto Latini da fiorensa. Si nota una grande
confusione nella distribuzione della materia dell'Etica,prodotta dallo
spostamento di varie parti. Cod.Laurenziano 42. 19 (= P)
membr.sec.XIV, a due colonne,con molte miniature e iniziali colorate; di cc.93.
L`Etica va da c.40a « Qui « comincia la seconda parte del Tesoro di Burnetto
Latino el quale libro e si chiama la ethica d'Aristotile » a c. 51a « Qui
finisce l'Eticha d'Ari a stotile » . = u. membr. Cod.Casanatense1911(=
)cart.sec.XV,dicc.130;anepigr.mutilo. L'Etica va da c.33*(Qui chomincia il
nobile libro che fecie il sauio Ari. stotilefilosafocioèl'Eticasua)ac.45
(fincieillibrodel'etica).Inun'av.
vertenzaappostaalcodicestessoènotatalamancanzadellaparteche ri guarda la
Politica (lib.IX); vi si trova la teologia,divisa in due parti;
com.:Voiuorestich'ioviconfortassil'animeuostremaiodubito fare ilchontrario.;(in
questo trattato si parla di dio,angeli,sacramenti, del l'anima).Nel
fl.r.membr.della guardia è un indice della materia che giunge sino alla natura
del delfino (V libro). Cod.Magliabechiano2.2.82(=
n)cartac.sec.XV,dicc.111,mutilo; siarresta al principio dell'Elica(cap.1):sièinutileinquestascienza.
Inc.: Qui comincia lo libro il quale fece ser Benedecto (sic) Latini di firense
e parla della nascienza di tutte le chose e ae nome il Tesoro. L'Etica ha
questo tit.: Qui comincia il sechondo libro del Tesoro facto per ser Brunetto
latini di firenze il quale parla dell'ethica di Aristotile. Si trovano in
questo codice altri volgarizzamenti da Seneca , Boezio, G e ronimo etc.
Cod.Magliabechiano2.2.48(= v)cartac.sec.XV,dicc.153,mutilo; e x p l . « Q u i d
i c i e d e l l a B r a n c h a c i o e d i c h o n c r u s i o n e » . I n c
.: I n c o m i n c i a il Tesoro di ser Brunetto Latini da Firenze conpilato in
francescho. L'Etica va da c.60a [Qui parlla il maestro della
beatitudine.coe.parlla Aristotile sopra l'eticha] a c.81* [Qui finisce il
secondo libro di questo trattato di ser Brunetto Latini oue brieuemente a
trattato della beatitudine e d e l l e u i r t t u s o p r a l ' e t i c h a d
' A r i s s t o t i l e ]. A l m a r g . i n f . d e l l a p r i m a p a g i n
a si legge il nome di un possessore: Concini. I CODICI MUTILI DEL TESORO.
Cod.Leopold.Gaddiano IV (= 0)membr.sec.XIV,a due colonne,con la iniziale dorata
e dentro essa l'effigie dell'autore; di cc.40. Inc.: Qui in. chomincia el
Tesoro di ser burnetto Latino di firenze. E parla del na. scimento e de la
natura di tutte le cose. Si arresta alle parole « allora
«uegnonolichacciatoriefanno»,cioè al penultimocapitolodellaprima parte (de
unicorno).Sul foglio di custodia in fine si legge il nome del possessore « Liber
mei Angeli Zenobii de gaddis de florentia ». Cod.Leopold. Gaddiano 26 (=
T)cartac.sec.XIV,a due colonne,di cc.88. Inc.: Questo libro si chiama il Tesoro
maggiore il quale fece maestro brunetto Latini di firenze, e tratta della bibia
e di filosofia e 72 C. MARCHESI IL COMPENDIO VOLGARE
DELL'ETICA ARISTOTELICA 7 3 delle uecchie istorie ad amaestramento di choloro
che leggierano.Contiene tutta la prima parte e il prologo della seconda (c.
85): « E poi uerra il prolagho apresso a questo dicha de l'eticha del grande
sauio Aristotole ». Cod.Laurenziano 42. 22 (= E)cartac.sec.XIV,di cc.165;titoli
in rosso e iniziali colorate, con l'effigie dell'autore in principio ; mutilo.
Inc.: In nomine Domini Amen . Qui comincia lo libro del Thesoro maggiore, lo
quale libro fece maestro brunetto Latino di fiorenza. Questo primo libro
fauella del nascimento di tutte le cose di filosophia et di sue parti. Prologue
de la natura di tutte cose. Si arresta alla prima parte : « per « ragunare la
secunda parte di questo thesoro che dia essere da pietre pre
«tiosecioecharbonchi perlle diamanti».La lezione di questocodice in moltissimi
punti si allontana da quella comune delle stampe e dei codici, non solo per
diversità di espressioni,ma anche per copia e qualità di notizie. Cod.Laurenziano
42. 20 (= B)membr.sec.XIV,a due colonne,col ri. tratto dell'autore in
principio; titoli in rosso e iniziali colorate, di cc. 112. Inc. « Questo libro
e chiamato il tesoro magiore il quale fece ser burnetto . « Latini di firenze
il quale tratta de la bibbia et di filosofia et del cho « minciamento del mondo
e de l'antichita de le uecchie istorie et de le a nature di tutte chose insomma
ad amaestramento e dottrina di molti. «Ed erechato di francescho in uolgare
apertamente».Comprende la prima parte e il prologo della seconda : Qui parla
alquanto d'eticha d'A ristotile.A c.112a è un elenco de're di Francia.
Cod.Laurensinno 42. 21 (= p) cartac.sec.XV,di cc.70. Inc.: Qui comincia il
libro del Tesoro il qual fe ser brunetto da fiorença e parla del nascimento di
tutte le cose.Contiene fino a tutto il libro V. Molte varianti.
Cod.Magliabech.VIII.1375 (= U)membr.sec.XIV.Anepigr.,acef.,
matilo,dicc.32,aduecolonne,con le iniziali colorate.Proven.Strozzi. C o m i n c
i a a l l a f i n e d e l c a p . 9 ( p . 3 0 , e d i z . . R o m a g n ., B o
l o g n a , 1 8 7 8 ) « n e «elliuengnano.Etperciononaeinloropuntodifermeçça
ketuttecose ve tutte creature si muouono e si mutano in alimento percio dico
ken « questi tre tempi cioe li passati e li presenti e quelli ke sono a uenire
non a sono niente se del pensiero noe a chuelli souiene de le cose passate e in
« guarda la presente ed atente quelle ke deono uenire » etc. . . . sino a c. 41
(p. 94, ed. cit.) « e la reina non uolse aconsentire al matrimonio anzi la «
uolea donare ». Da questo punto ch'è evidentemente interrotto, per man . canza
di nesso con la pagina seguente,la distribuzione e l'entità della m a teria
sembra in gran parte diversa dalla comune del Tesoro. Riferiamo talune rubriche
: a c. 5a il cod. seguita « dira qui apresso Lamet frate di C o m
e l o r e M a n f r e d i p r e g h a il p p c h e li c o n c e d e s s e il r
e n g n o e t c . e t c . » . Seguita quindi a dire di Manfredi e della
battaglia di Benevento e di Carlo d'Angiò e di Gianni da Procida e
de'Vespri,lungamente.Vengono appresso altre narrazioni « Come si lamenta il
conte Giordano Cod.Palatino 483 (= Q)cartac.sec.XV,dicc.65. Inc.:Quichomincia
lo libro il quale fecie ser Benedetto Latini di firenze e parlla della n a
scienza di tutte le chose e a'l nome il Tesoro. Comprende la prima parte e il
prologo della seconda. Ne resta esclusa dunque l'Etica e il resto del Tesoro.
Insieme con questo codice si trova legato un altro, di mano diversa, contenente
iframmenti del Buouo d'Antona,in ga rima. Cod.Riccardiano2196(=
w)membr.sec.XV,aduecolonne,dicc.67. Si ferma al punto ove parla del « modo di
trovare l'acqua e delle cisterne » (lib. I I I?). È da notare che ci troviamo
di fronte a una lezione ben diversa dalla più comune. CONCETTO MARCHESI.
«GiosepoefigliuolodiJacobetc.... Come sicominciai agioaltempo
«diSaulediJerusalem– Loquintoagiosicominciaquandoigiudei «eranoinpregione
Danielf.gesseediSaul ·delgloriosoreSalomone «profetta de elias
deloredugidiTebas– dieliseusprofete. de « isaie profette de germie profette
etc. etc. ». A c. 9 abbiamo un cata logo di pontefici: segue la storia della
chiesa di Roma e di Costantino. Poi « Come franceschi perdero lo 'perio di lo
re imperadore di Roma « primo taliano di beringhieri come perdeo la sengnoria e
uenne amao «dotto di Sasogna Reame della mangna Arigho della mangna
«Comeloredifranciafusconfitto Comelo'peradorepreseliparlati «difrancia
Comelachiesauacantidibuonipastoritradivalo'peradore « tinuamente la natura
lauora in tutte cose – »; seguono figure astrono miche,della luna,del
mappamondo. Finisce a c.32. « Dell'altra citta di uerso nasce lo fiume di
rodano e uassene dall'altra parte uerso borghon « Francia diuide in « gnia e
per proenza molto correndo e anzi che lli sia a mare si
«duepartiellamaggioreparteentrainmare presoadArlil'altrobraccio.». Qui si
arresta il codice. Come con KLII,p.1 74.
THADDÆUS FLORENTINUS. qua fortuna . Sunt quivelint ex humili
prorsus loco , & infima populi fæce.(6) Sed contra aliisvidetur editus
exAiderotta gente,non patricia illa & primaria;duplex enim fuit;sed
altera,minus quidem nobili,fedhonefta & liberali. (c) Alderottum certe
patrem habuit , (d) & ex gente Alderotta di ctus est a Scriptoribus . Fuere
Thaddæi fratres Simon & Bonaguida , homines obfcuri, quorum vix nomen ad
nos pervenit. (e) Ac Thaddæum quoque ip sum narrant non minimam ætatis partem
non folum inglorie , sed ignominiose etiam transegisse. Adeo enim ftupidum a
natura fuiffe tradunt,ut totis triginta annis n e c literas didicerit , nec
honetto ulli artificio aprus fit visus . Itaque v i ctitasse ajunt sordido
& illiberali quæftu , occupatum præ foribus sacelli S. Mi. chaelis in Horto
vendendis minutis candelis , quas ibi religionis causa accendi mos erat . Sed
exactis triginta ætatis annis , quafi ex veteri somno experre ctum , &
dissipata cerebri caligine , incredibili ardore excitatum ad literas , quarum
discendarum ftudio Bononiam , adhuc rudem , & vix in Grammatica eruditum
convolasse ajunt . Sed hæc, quæ de Thaddæo memoriæ tradidit Philip pus
Villanius , quamquam & Florentinus , & non indiligens scriptor, &
ad m o d u m antiquus , aliquis in dubium revocat , quod fabulis fimilia videan
. tur ; (f) qua de re integrum erit unicuique judicium . IÌ. C u m igitur
Bononiam venisset, ut optimarum artium ftudiis animum excoleret , in quo omnes
consentiunt, Philosophiæ totum , ac Medicinæ le de dit. Incidit Thaddæi
adventus ad fcholas noftras in illud tempus , cum M e d i ca facultas, quæ
antea ufu fere & exercitatione peritorum tota continebatur , a Philosophis
tractata, nova luce donari cæperat; fi tamen vetus illa Arabum Philosophia ,
quæ tunc scholas invaserat ,n o n ubique tenebras & caliginem offundere
poterat . Sed ita persuasum erat hominibus , atque hæc potislima Thaddæi laus
fuit , quod primus ex noftris Medicinam cum Philofophia arctissi m o fædere
conjunxisse visus sit. (g) Tentaverant id quidem ante Thaddæum alii, (h) &
erantin Academia noitra ante illum Phyficæ, five,ut dicere ama bant,Phyficalis
ientiædoctores,& professores,quifacemThaddæoipfiprætu. lerant ; nec dubito
, quin eorum aliquem in scholis noftris audierit . Sed ille unus plus operæ
contulit inftaurandis Medicina ftudiis ad ejus fæculi guftum , q u a m
fuperiores omnes . Extant adhuc ampla ejus commentaria in libros vete rum
Magiftrorum artis Medicæ , partim typis edita , partim manu exarata in
locupletiorum bibliothecarum pluteis , quæ primum inter docendum in scholis
nusprotulitexlibroHH .p.338.Excerpt.Scriptur. (c) Annotaz. del Dot. Ant. M.
Biscioni al Conventus S Crucis Flor. Vid. Ci.Mazuccbel,in Conv. di Dante . In
Firenze 1723. p. 68. XVI. "Haddæus Florentiæ natus eft paulo post
initium sæculi XIII.,(a) incertum THE , Nnn 2 (a) Obiit anno MCCXCV., ut infra
dice- teringum & c. Presentibus Mag. Salveto de tur.Cum igitur,Philippo genarius
decesserit, natum oportet Villavio auctore , octo annoMCCXV. Com.Bonon.
Ferraria & M a g . Santo de Cesena . Ex Mem . ab (b ) Pbilip. Villan, in
lib. de laut.Florent. in Append. N. XII. (e)Ex tabulisanni MCCLI.,quas Biscio.
PROFESSORES . 467 (d)An.MCCLXXXIII.die VIII.exeunt. (f) Vid.Ci. Mazuccbel.
loc.cit. Jul.Mag.Thaddeus professor artis Medicine (g) Vid.Jo.Antr.Vunjted
defair.viror. fil. qnd.d n .Alderotti de Florentia fecit Joan. illuftr. p. 312.
& c. n e m dn. Anglonis fuum procuratorem ad re ( h ) Petri Hispani, qui
anno M C C L X X V . cipiendam pacem & remifsionem a Loteren.
Ro.Pontifexrenunciatus,di&tusifJeannesXXI., go qui dicitur Rigutius & a
Bonino fuo fi commentaria babemus in librum Ifaac Medici ,quae lio & ab
omnibus & fingulis aliis de consan- Jubtilitatibus dialecticis abundant.
Ilm in hipo guinitate ipsorum ... de omni injuria , & pucratem w
Arijtotelem scripufe dicitur ; nec du offenfione que dicebatur eise facta per M
a g . bito , quin bæc fcripta aliquanto ante Tbs.ddæi Thaddeum vel B.naguidam
fuum fratrem commentaria prolierint. Sed quantum bæc illis vel per aliquem de
contanguinitate ipforum præjliterint , doctorum hominum judiciun postea vel q u
æ diceretur eise facts p e r predictos L o vlendit. Tbadilæo Allerotto ,
ab eo tradita , m o x ab auditoribus excepta , incredibilem ei famam
concilia runt. Id autem in eo potissimum mirabantur homines , quod ita
Medicinam tractaret , ut ejus facultatis canones & præcepta ad severioris
Philofophiæ ratio nes exigeret ; quod nemo ante illum magno fuccefsu perfecerat.
III. In hunc m o d u m recepta eft in scholis noftris vetus illa Medicina
Philosophica , fi ita appellare licet , quæ brevi tempore omnes Europæ Acade.
mias pervafit, & innumeros Scriptores tulit. Hinc agmen interpretum in Hip
pocratem , & Galenum , atque Avicennæ in primis , aliosque veterum Medico
rum libros, Thaddæo duce; cui non satis ad laudem fuit interpretem dici,sed
plufquum interpres a quibufdam dici amavit, (a) & ut alter Hippocrates apud
Italos habitus eft. ( b) Ejus autem gloffæ , præcipuis Medicinæ libris adjectæ,
in scholis communi suffragio receptæ sunt , & pro ordinariis, ut dicere
folebant, longo tempore habitæ eodem loco fuerunt apud Medicinx Itudiofos ,
atque Ac curtianæ gloffæ legum libris appofitæ apud Juris Civilis professores.
Magister etiam Medicorum jure di&us eft, (c) ob excellentium Medicorum
copiam, qui ex ejus fchola prodierunt. Tanta denique ejus nominis fama, &
inre Medica celebritas fuit, ut perinde esset in usu popularis fermonis
Thaddæum fequi, (d) ac Medicinam profiteri. IV . Docere cæpit Thaddæus circiter
annum M C C L X ., aut non multo fe rius ; eodemque tempore scribendo vacabat ,
neque operam fuam curandis V.Cum
igituræquefelixincurandisægrotis,acdoctusinscholareputa retur , non folum in
civitate noftra Medicinam fecit, sed paflim vocabatur ad curandos magnates ,
& viros principes per alias Italiæ civitates . Hinc aliquis de illo
magnifice potius , quam verescriptum reliquit , non confuevisse illum aliis ,
quam principibus , & nobiliflimisviris curandis operam præftare. Sed il lud
tamen indubium eft , non fivisse aliò fe abduci ad curandum quemquam , nifi
pacta ingenti mercede , quæ non tam efiet pro loci diftantia, aut difficul tate
curationis , q u a m pro fui dignitate , & facultatibus eorum , ad quos CU
randos vocaretur. Neque far erat de mercede pacisci: nam fibi quoque cau. t u m
volebat de itu & reditu , accepta ingentis pecuniæ sponsione pro fecurita:
te itineris·Dignæ sunt, quæ legantur, tabulæ an. MCCLXXXV .scriptæ,cum Thaddæus
Mutinam iturus esset ad curandum Gerardum Rangonum . In iisRan goni
procuratores T h a d d æ o promittunt , fe facturos, ut liberum iter &
expedi ium ad eam civitatem habeat, fufcipientes in se omne periculum , &
impen sam : quod si pactis minime ftetiffent, promiserunt, fe eidem reftituturoster
mille libras bononinorum , quas depofiti loco a Thaddæo ipfo accepisse fate
bantur . Similes tabulas habemus anno MCCLXXXVIII .cum Mutinam rurfus ment. in
Parad. Dantis C. XII., dou a vellutela . 1189 1 468 MEDICINE ! (a) Ita
appellati:r aBenvenuto ImolenfiCum evo. apud Ercard. Corp. Histor. med. ævi col
1 1 lo ibid. Sed qui plusquam Commentator a Pbi. qui revera opus fuum tum
inscripsit, is fuit Turrisanus Tbaddæi au ditor;de quo alibifermo erit.
plufquam Commen M a per amor della verace manna (6) Hic homo , cum penes
Italos, ut al. fundature, Paradisi C. XII, t e r H i p o c r a s h a b e r e t
u r . P b i l i p . V i l l a n . d e L a u d . ( e ) T b a l i l æ u s a d c a
l c e m C o m m e n t a r . ix A Florentiæ ,five de Cl. Florentin. (d) Non per
lomondo, percuimo's'afo In picciol tempo gran dortorli feo. Dant.Aligber. de
S.Dominico Ord.Prædicator. tis defiderari patiebatur . Docendi tamen , &
scribendi laborem intermifit an no,utopinor,MCCLXXIV.cum
civilebellum,aLambertacciis,&Jere. miensibusexcitatum,civitatemnoftrammiseranduminmodum
conculit.(e)Sed ipfe quoque fatetur,se aliquando a scribendo ceffasse ob
quæstum , quem curan dis ægrotis faciebat. (f) Atque hinc apparet, quæ fides
habenda fit Philippo Villanio , cum scribit, Thaddæum , fpreto lucro, fe totum
interpretandis vete. rum Magiftrorum libris dedille. (8 ) Fallitur etiam
Villanius , cum scribit, Thaddæum ftipendio publice conftituto Bononiæ docuiffe
; nondum enim, eo vivente ,M e d i c i n æ profefforibus ftipendia attributa fuerant
. lippo Villanio , aliisque Scriptoribus dictus et , fanna Diretro all'Ostiense
et a Taldea (c!Eo anno Mag.Thaddæus Medicorum magitter moritur . Ricobald.
Compilat.Cbronolog. pborismos Hippocrat. (f) bulm . (g ) Pbilip. Villan. loc.
cit. ægro evocaretur ad curandum Guidonem Guidonum . Utrasque in
Appendice dabi mus .( a) Sed quis credat , in his contractibus bona fide actum
? Ego fraude caruisse non arbitror . Facit , ut ita credam , infignis Odofredi
locus , ad fraudes pertinens Advocatorum sui temporis; qui cum
immodicasmercedes præterjus falque pro suis advocationibus & patrociniis
extorquere vellent a clientibus eos adigebant ad ftipendium , quali deberent ex
causa mutui .(b) Eodem artificio usum arbitror Thaddæum , quem ne obulum quidem
verisimile eft_deposuisse apud Rangoni , & Guidoni procuratores . Sed ego
tamen existimo,Thaddæum , probum hominem & pium , non ita immitem fuiffe,
ut tam ingentes pecu-, nias exigeret ab iis , quos curandos aggrederetur .
Potius crediderim, hanc cau tionem voluiffe , ne jutta mercede fraudaretur ,
& damna fibi æquo jure præfta rentur, quæ quacumque ex causa pertulisset. V
I. Vocatus aliquando ad curandum R o m a n u m Pontificem , negasse dici tur se
iturum , nisi centum aurei nummi in dies fingulos penderentur. Quod cum
immodicum videretur iis, quibus negotium datum erat, ut cum Thaddæo
transigerent, neque ea de re conveniret ; concessit tamen Pontifex , grandem
quantumvis pecuniam vitæ & incolumitati fuæ pofthabendam ratus . M o x au .
tem , cum arnice Thaddæum argueret , quod tam magno operam suam locaret, ille
admirationem fimulans; ego vero, inquit, multo magis obftupesco, cum ceteri
fere viri nobiles , & minores Principes quinquaginta & amplius aureos
nummos mihi in dies conferre soleant, tibi , qui maximus es Chriftianorum
Principum,grave visum esse,quod centum petierim .Sed Pontifex,ubi Thad dæi
ftudio optime convaluit , decem millia aureorum eidem rependi juffit, non tam
ut tantum virum pro dignitate fua, & ejus meritis remuneraretur , quam ut o
m n e m ab se averteret avaritiæ suspicionem . VII.Itanarrat
PhilippusVillanius, (c) qui tamen Pontificis nomen filet• Sed hunc fuisse
Honorium IV . alii Scriptores tradunt, & in primis Joannes Tortellius in
libro de Medicina & Medicis ad Simonem Romanum .(d) Sunt etiam qui hæc
tribuant Petro Apono illuftri Medico , de quo alio loco dice mus.
Sedcredibilenon videtur,tum quiapotiormihiet auctoritasPhilippi Villanii ,
& Joannis Tortellii , quam aliorum multo recentiorum , qui hæc de Petro
Apono scripserunt;tum quia Honorii IV.ætate Petrus Aponus nondum ad tantam f a
m a m pervenire potuerat , ut ad curandum Pontificem accerseretur . Sunt qui
immaniter augent pecuniam , q u a m Pontifex recuperata valetudine Thaddæo
numerari jusserit; nec desunt qui non minus , quam ducenta millia aureorum
accepisse dicant . Sed nimis multa mihi etiam videntur pro iis t e m poribus
vel ea decem millia , quæ Villanius omnium modeftiffimus narrat. VIII. Thaddæus
certe Medicinam faciens ad ingentes divitias pervenit;nec facile est reperire plures
ejus facultatis professores, qui majores fint consecuti. Ejus autem commodis,
& utilitatibus consuluit etiam non uno modo Populus Bononiensis . Ei
nimirum , & ejus hæredibus concessa eft immunitas a vectiga libus, &
remissio ab omni munere publico. Additum eft, ut libere a quovis intra fines
Agri Bononienfis prædia , & fundos emere posset, quos vellet ; m o d o ne
ab exulibus & profcriptis. Itaque eum voluerunt gaudere omnibus civium
commodis ,neque iis oneribus obnoxium effe,quæ cives reipublicæ causa sustine
re debebant . Ejus quoque discipulis eadem . privilegia , & immunitates
populi beneficio concessæ sunt,quibus gaudebant ScholaresJuris Civilis &
Canonici. Id autem , nominatim pro auditoribus M a g . Thaddæi ftatutum ,
aliorum Medicina profefforum auditoribus communicatum est. (e) Ita honor
additus est Scholæ ad Simonem Romanum Medicum præftantif (b) Dicit advocatus ,
fi promittis mihi fimum . Ex Cot. Vatican. aput Apostol. Zenun
milleaureosnominefalarii,nonteneris.Sed inDissert.Volpian.To.I.p.151. faciasmihiunum
inftrumentum ,inquo con (e)ExStat.Pop.Bon.anniMCCLXXXVIII. tineatur, quod tu
teneris mihi dare mille ex vel potius M C C L X X X U I ., in quibus eji Rubri.
causamutui.Odofred.inl.Sifubfpecie.C.de cadeprivilegioMag.ThaddeiductorisFixi
Polulando. (c) Pbilip, Villan, loc. cit. ce & diicipulorum ejus.
Vid.Append.N. X X . ProFESSORES. 469 / } (a)Vid.Append.annoMCCLXXXV.,dow
(d)Jo.TortelliusdeMedicina& Medicis MCCLXXXVIII. Medi.
Medicæ,quæ Thaddæi potissimum opera magis aucta,& nobilitata,parigradu
deinceps fuit cum scholis Legum , & Canonum . X. Nescio quid molettiæ illi
etiam intulisse credo Clarellum quendam,ut opinor , Medicum , five quod ejus
doctrinam impugnaret , five quod medendi rationem carperet . Queritur de illo
in Commentariis ad Joannicii Ifago gen,(d) X I . Habere consuevit in familia
sua Thaddæus Medicos aliquot , quibus adjutoribus uteretur five in scholæ
muneribus , five in ægrotantium cura. Eo rum aliqua mentio eft in ejus
teftamento , quod in Appendice damus . Dome ftica quoque negotia , ne quid
esset , quo a suis ftudiis interpellaretur , per pro curatoresaliquando agere
consuevit. Anno certe MCCXCII. procuratorem suum conftituit Octavantem
Florentinum , (g) affinitati fibi conjunctum,eum, qui Jus Pontificium exeunte
fæculo XIII. in scholis noftris docuit;de quo fuo loco diximus .
(c)Vit.Append.Pertinethocadannum tisnominedñeAdelefuefilieipfiMag.Thad MCCXCII.
dum numero , quo luci altitudő indicatur . (8)An.MCCXCII.dieXV.MajiMag. tia.
bus dicitur Regalettus Bunaguide de Floren . 470 MEDICINA IX.Quamdiu
vixit priinum dignitatis locum tenuit interMedicinæ profef fores; ac multum ei
quoque tribuerunt professores aliarum disciplinarum . (a) Sed gravis
offenfionis causa ei aliquando fuit cum Bartholomæo Varignana,qui ex ejus schola,
ut verisinile eit,prodierat, & magiftro adhuc vivente ma gnopere
celebraricceperat. Receperat ille in Medicina erudiendos quofdam , qui ad
Thaddæi fcholam ante accesserant. Id ei magno crimini datum eft a Tnaddæo; ac
fortasse erat contra leges scholafticas,vel Academiæ noftræ mo rem . Neque vero
aliter to'li diffidium potuit,& sarciri injuria,qua affectum fe credebat
Thaddæus , quam ubi Varignana promisisset omnem pænam pora'em , &
fpiritualem ultro subiturum , q u a m in e u m ftatuissent Vicarius Ar. chidiaconi
Bononienfis , & aliquot doctores ex Collegio Magiftrorum , (b) arbi tri ad
tam rem delecti. (c) quæ cum scriberet , nondum , ut arbitror , id auctoritatis
consecutus erat , ut hujusmodi obtrectatoris importunitatem fortasse Thaddæus
natura suspiciofus, & ad inanes metus comparatus; quod,ni fallor ,
oftendunt etiam tot capta de securitate itinerum , & ftipendiorum fuo r u m
caurelæ , & iterata fæpius testamenta , de quibus diximus . Id porro ex
ejus corporis habitu , & temperamento quid fuisse, pro certo habeo . Ipfe
enim de se fatetur, fe somnambulum fuil. fe , (e) & interdum ex alio loco
dormientem fine fenfu cecidiile. (f) ipfe (a) Vide
tabulassocietatisinterMag.Gen Thaddeus doctor Fixice fecitsuum procurato
tilemdeCingulo,LouMagGuilielmumdeDeza reminomnibusfuiscaufis&negotiisdn. ra
fcriptas anno MCCXCV. in Append. deo matrimonio unite trescentas libras Pifa.
(d) Finitus eft tractatus de febribus do norum in forenis de duodecim
.Pretereado m i n o Clarello , qui facit nos evigilare , & tran firepermentemnoftramquidquidmalipo.
brasejusdemmonete.ErMen.Con.Bonon. test. Tbad. ir Isag. Joannic. c. 32. Fortale
ad ( i ) O t a v a n t e m , q u i p u t e a c a n o n u m p r o f e f. eundem
pertinent, quæ babetad finem cap.36. Hoc eft, inquit, quod dicit tallidicus,
qui fa. tereaque Adelæ fratrem , intelligimus extabulis cit omnia mala trautire
per mentem noftram . an.MCCLXXXIII.scriptis inMem.Com.Bon.,
(e)Dequartoficprocedo:videtur,quod inquibuslegitur:Dn.OctavantedñiGuidalo homo
poflitdormiendo fentire, nam dorinien do movetur , ficut patet in furgentibus
de no . čte,quorumegofuiunus.Ibid.in.c.10.p.362. Guidalottipater jam
indeabannoMCCLXVI. (f) Ibid.Sed locus fortasse mendojus in pe Bunoniæ degebat,
ex Mem . Com .Bonon.,inqui a se avertere poffet. Sed erat accidere debebat , in
quo insolens ali navit eidem propter nuzias quinquaginta li. for fuit ,
Guirlalutti Florentini filium fuiffe,propo cti de Florentia scolaris Bonon...
emit dige. ftum ... pretio lib.L. bon. Regalettusautem tem XII . Anno M C C L X
X I V . Thaddæus fere sexagenarius uxorem duxit Ade lam Guidalotti Regaletti
filiam ,(h) Octavantis, quem ante nominavimus,fo rorem , (i) ex eaque filiam
suscepit Minam , quæ adhuc innupta erat, cum (b) Magiftrorum collegium jure
tunc dice O &avantem deFlorentiasuumcognatum.Ex Mem , Com. Bonon.
batur,nonautemMelicorum;quianonsolumMe (h) An.MCCLXXIV.XV.Jan.Mag. dicinæ ,fed
alia,um quoque artium liberalium pro fesjures complectebatur , ut ex ipfis
hujus controver Thaddeus artis Fixice professor fil. and. Alde rotti de
Florentia fuit confeffus habuiife a dño fæ
actisapparet,quæinAppendiceexbibentur.
Guidalottoqnd.dňiRegalettideFlorentiado. XIII, Teftamentum fæpius ,
nec uno in loco Thaddaus fecit. Et quoniam perpetuo domicilium Bononiæ habuit ,
cum aliò diverteret ad curandos magna tes , itinerum pericula reputans ,
propterea teftamentum sæpius fecisse videtur. Sed omnium poftremum Bononiæ
condidit initio anni M C C X C I I ., quo cete ra omnia revocavit facta Bononiæ
, (b) Florentiæ , Ferrariæ , R o m æ , Mediola ni , Venetiis , & alibi .
Pro anima fua , & ad pias causas x. mille libras bonon. legavit : quæ
immanis summa erat pro ætate illa , & privati hominis facultati bus. Ex his
bis mille quingentas libras impendi voluit emendis prædiis pro pauperibus
verecundis , quorum administrationem esse voluit penes Fratres de Pocnitentia .
Viger ad hanc diem ut cum maxime pium hoc inftitutum,a pru dentissimis civibus
adminiftratum in civitate noftra , quo consulitur egettati h o neftorum civium
, quibus oitiatim mendicare victum vel natalium , vel ætatis , sexusve conditio
fine pudore non finit. (c) Fratribus Minoribus , penes quos sepeliri voluit ,
ubicumque ejus obitus contigisset, multa legavit. Atque illud viri prudentiam m
a x i m e demonftrat, quod præftari voluit in perpetuum ali menta uni ex
Fratribus ejus Ordinis qui Parisiis Theologiæ studeret , fupra numerum eorum ,
qui ibidem facris ftudiis destinati esse solerent. Jisdem Fra. tribus Minoribus
Conventum erigi voluit , in quo tresdecim Fratres ali possent. Viginti ex fuis
scholaribus magis egentes ex albo panno vestiri in die obitus sui mandavit ,
itemque familiares suos omnes masculos, qui secum eo tempore futuri essent.
Statuit etiam impensam funeris fibi apud Fratres Minores cele brandi ,&
certam insuper summam , pro die feptimo obitus sui, trigesimo , cen tefimo ,
& anniversario , erogandam in Fratrum refectionem , ut iis diebus pro anima
fua preces ad D e u m funderent ; qui mos ab antiquissimis temporibus ad eam
ætatem pervenerat . (a)ExliterisNicolaiIV.inCodicediplom.
quisibisuppetiasferrent,ubieffetopus,tumin docendo , tum in medendo . (b) Etiam
Bononiæ anno M C C L X X . for (e) Hanc Biscionius in adnotat. ad Convi. talle
, antequan iter aliquod susciperet, teflamen vium Dantis Adolam vocat. , sed in
testamento tum fecerat, quod indicatum vidinius in Memor . Autograpbo en Adela
. mff. Biblioth. publ. Bonon. C o m . Bonon . ejus anni . ( f) Quia Fratribus
Minoribus quidquam pof (c) Jam inde ab anno M C C L V I . Uher- fidere non
licebat, voluit ut medietas predicte tus facerdos Sanctæ Catharinæ de Saragotia
contingentis ipfi Opizo perveniat ad Dominas legaverat X. corbes frumenti
pauperibus vere cundis , ut ex ejus tejlamerto apud Fraires Mi- cujus dicte
Domine nores : ex quo apparet ejus pii inflituti anti pendere pro
necessitatibus Fratrum Minorum quitas . infirmorum fenum & forenfium . Vide
teftam. (d) Hos duos Medicos in schola fua , uti Thaddæi in Append. credibile
efl, eruditos , in sua familia babebat , & Sorores S. Clare civitatis
Florentie fructus & Sorores teneantur ex PROFESSORES . 471 1 mo N
ipse extremum obiit diem . Sed ante illud tempus filium genuerat ex illegiti mo
complexu.Hic patrisnomen geflit,& vulgo Thaddæolusdicebatur,cum que
Nicolaus IV.anno MCCXC.jure legitimorum nataliumdonavit.(a) XIV.De bibliotheca
sua in hunc modum ftatuit.Avicenna opera,quatuor voluminibus contenta , &
Galeni item , quæ totidem voluminibus comprehensa erant ,Fratribus Minoribus ea
conditione legavit,ne ullo umquam tempore alie nari , diftrahive possent, aut e
Conventu ipfo exportari . Fratribus B. Marize Servis legavit Metaphysicam
Avicenna , Ethicam Aristotelis, & Sextum de N a turalibus Avicenna in
majori volumine . Magiftro Nicolao Faventino Glossas fuas omnes , quas
scripserat in veterum Medicorum libros , & Almanforem suum , & Magiftro
Johanni Affifinati (d) Serapionem suum ,& Sextum de N a turalibus Avicennæ
in minori volumine , fi quidem uterque in familia sua esset tempore obitus sui.
Adelæ (e) uxori fuæ,præter aliquam pecuniæ summam , cu biculi sui supellectilem
omnem legavit,& veftes,& gemmas,exceptis dumta. xat valis aureis, &
argenteis , & usumfructum domus Florentiæ in via S. Cru cis,&
fundosinagroFlorentino.HæredesauteminftituitMinamfiliamsuam Thaddæolum filium
naturalem , & Opizum Bonaguidæ fratris sui filium ; quibus , fi abfque
filiis masculis legitimis decessissent, Fratres Minores , (f) & pauperes
verecundos fubftituit. Nupfit hæc Thaddæi filia Dorgo Pulcio Florentino
sum X V . Obiit Thaddæus an.M C C X C V . (e) cum annos octoginta vixisset.(f)
Fuit autem ejus mors repentina , ut narrat Benvenutus Imolenlis , Dantis inter
pres . Tumulatus eft apud Fratres Minores, quos vivus magnopere dilexerat ,
& apud quos ægrotus etiam aliquando sub extremum vitæfuæ tempus jacue
rat.(g)Sedejusfepulchrimagnifice extructi,& elegantis,quod eratprope januam
Ecclefiæ , propter recentiora ædificia ibidem excitata , nulla jam vefti. (d)
Manni degli antichi Sigilli To. XII. (b) Nicolaus V.annoMCDLIV.mandavit, pag.
117. utHofpitaleS.AntoniiPatavini,quodFratresTer (e)AnnoMCCXCV.dieXX.Marzii
Thad tii Ordinis , five de Penitentia,ex bonis bæredita dæus erat in vivis , ut
ex charta societatis in riis Mag.Tbudlæi Bononiæ erexerant,indomum ter
Mag.Gentilem Cingulanum , g Mag. Gui. pro Sanétimonialibus Franciscanis , ex
Monasterio lielmum Dexarensem , quam in Append. danus .
FerrarienfiCorporisCbriflitra.lucendis,convertere. Af eodem
annoaddiemXVII.Juliiinvivisef tur.Sed r jijtentibusFratribus,res ita compofita
eft de defiderat, ut ex bis tabulis , quas indicavit infequentiannoperBifurionemBononiæLegatum,
CI.Montius:An.MCCXCV,dieXVII.Jul. ut iratres Ecclefiam S. Antonii , cu
aljacentes D. Ugolinus de Montezanico Dn . Novellonus ætes cum molicocenfuad
bufpitalitatemexercen Megloris de Florentia Dn. Amadeus Poete
damretinerent;fedbonareliqua,quæadeosex Dn.FraterRaynucciusqund.Deotaiuti com
bereditate Mag.7budlæipervenerant, novo Par milfarii & executores
testamenti egregii vi tbenoni pro SanctimonialibusCorporisChristi con ri&
discreti Mag. Thaddei and.Alderotti Aruendo attribuerentur : quod anno M C D L
V I .pero qui fuit de Florentia artis Filice profetforis
featumest,CatharinaVigria,quamnuncinSan. fueruntconfeffihabuiffeadñoBartholomeo
clarum Virginum album relatam veneramur , cum 472 MEDICINE mo genere
nato.(a)Thaddæolus autem fivequod cælibem vitam duxerit,five quod filios non
genuerit , aut pofteritatis memoria apud nos diu fuperftites non habuerit,
certe nulla ejus superfuit. Sed opulenta M a g . Thaddæi hæreditas non ita
humanis cafibus subjecta fuit , ut nobiles ejus reliquis non exiftant .
Sanctillimum enim ad hanc diem civitatis noitræ Monasterium Corporis Chrifti,
& Collegium Puellarum S. Crucis ex bonis hæreditariis M a g .Thaddæi
initium legata insuper alia , q u æ legi poffunt in tefta quali acceperunt. (b
) Mittimus mento ipso, quod in Appendice exhibemus. (c) Unum addimus, quod maxi
me memorandum videtur,aureosnempe florenos xv.in annos fingulos legatos Zco
Scansalti Pisado , quamdiu futurus effer in Januensium carceribus , ex qui bus
ubi eum liberari contigiffet, cc. libras bonon. eidem perfolvi a suis hæredia
bus mandavit . Nota est ex eorum tima Pilanorum cum Januensibus rum vires
miserandum in modum temporum scriptoribus infelix pugna mari
annoMCCLXXXIV.pugnata,qua Pisano XVIII . pax convenit . Tunc bello capri , qui supererant
, redditi funt , effæti prope enecti. Diligentissimus Mannius jam , & tam
longi carceris incommodis proftratæ funt . Magna corum cædes fuit, abductus
præfertim ex nobilioribus. N e atque ingens numerus in captivitatem que ullis
conditionibus adduci potuere victores, ut captivos redderent. Ita enim
confilium fuit sobolem invifæ primariis civibus detentis , ne procreandis
liberis dare operam poffent, fuccide. civitatis impedire , totque fortissimis
viris , ac re nervos civitatis , usque in illud tempus potentissimæ . Itaque
non ante annos Sigillum Universitatis Carceratorum Januæ detentorum illustrat.
(d) Ex eorum numero erat Zeus Scanfalti, amicus , ut opinor , Thaddæi ; qui
quam pronus effet ad ferendam miseris opem , cum ex hoc , tum ex fingulis fere
teftamenti sui capitibus liquet . (a) Dn.Mina quondam Mag.Thaddei Corporis
Cbrisi, W Puellarum S. Crucis, quæ AlderottiuxorDorgiquondamDorgidePula
vidit,lowindicavitCi.Montius. cis.Ex tabulisan.MCCCI.inarcbiv.publ.Flo vent.
Inilicavit Cl. Biscion. loc. cit. (c ) Vide Append. gia > pauci supererant ,
Ecclefiam S. Antonii , d adja centes æles , bonaque omnia ad eum locum perti
deus confeffus eft quod ipse emit quandam pe. tiam terre... Actum in loco
Fratr. Minor, ! Blanchi Cofe for. auri cccc, depofitos ab ipfo aliquot aliis
Monialibus ex Ferrariensi Monaste. Mag.Thaddeo & c.Ex Mem.Com.Bonon. rio in
nouum buc noftrum commigrantibus . Anno autem MDXCII. Fratres sertii
Ordinis,qui ( f) Pbilippus Villan. loc. cit. (g) An.MCCXCIII.die... Mag.Thad
nentia,erigendoPuellarumpericlitantium domici in camara Ministri ubi
Mag.Thaddeus ja lio libere tradiderunt , quod in via S. M a m æ a cebat
infirmus prefentibus M a g . Bertolaccio , mæniffimo civitatis locu, non longe
a Monasterio Fratris Venture M a g Nicolao de Faventia
CorporisCbrijli,conjtructumest,a S.Crucisti. &c.ExMem.Com.Bonon. tulo
infignitum . H æ c ex monumentis Monialium gia supersunt. (a)
Minime igitur audiendus eft Joannes Villanius , qui Thaddæi o b i t u m p r o t
r a h i t a d a n n u m M C C C I I I . , ( b ) a u t fi q u i s e f t a l i u
s , q u i i n a l i u d tempus referat. Paulo poft ejus mortem dillidium ortum
est inter Fratres Ter tii Ordinis , five de Pænitentia , & Priorem fratrum
Prædicatorum , ac G u a r dianum Fratrum Minorum in eligendis pauperibus ad
præfcriptum teftamenti ip fius M a g . Thaddæi . Sed litem o m n e m fuftulit
Dinus Mugellanus , clarus legum interpres , qui per illud tempus Bononiæ
docebat , cui utraque pars arbitrium dederat . (c) X V . Possem hic plura
Scriptorum teftimonia de Thaddæo admodum ho norifica afferre ; possem &
Scriptores multos emendare , multos supplere,qui de illo vel minus diligenter ,
vel minus vere scripserunt; in quo numero sunt præsertim scriptores noftri
Alidofius , & Ghirardaccius . Sed hæc curabunt , qui magis otio abundant.
Nunc ejus scripta recensenda funt, quæ & multa fue. runt, & magno in
pretio habita . TH4DD=1SCRIPTA. Expositio in arduum Ipocratis volumen. Galenus
Aphorismos Hippocratis illuftri commentario exornavit . Thaddæus &
Hippocratis Aphorismos, & Galeni commentarium diligenter exposuit.Cum autem
in septem libros, fivepar ticulas Hippocratis volumen Aphorismorum diftributum
fit, Thaddæus fcrip. to tradidit expofitionem suam in sex priora capita ,
eamque absolvit anno MCCLXXXIII.decimadieSeptemb.,utadejuscalcemadnotatum
efttam in editis exemplaribus , q u a m in m a n u exarato , quod vidi in
bibliotheca , Collegii Hispanorum Bononiæ . Eft autem hoc Thaddæi opus valde
proli xum , cuiscribendo non uno tempore insudavit. Sic enim ad ejus finem ait
: I n his particulis explanandis diversa fuerunt tempora . N a m cum efjorn in
nono anno mei regiminis ( qui publice docebant regere tur) incepi gloffare
Aphorismos a principio. Et infpatiofex menfium glossa. v i primam , fecundam ,
tertiam , a quartam particulas, a quintam usque ad illum Aphorismum : Mulieri
menstrua fine colore. Tunc autem fupersedi, convertens me ad glosas , quas
fuper Tegni feceram , completiores edendas ; quas perfeci usque ad illud
capitulum caufarum : A d inventionem vero salu brium . Ibidem vero deftiti
impeditus a guerra civitatis Bononiæ , au lucrati va operatione distractus.
Poft vero placuit mihi refumere , ut complerem glof fas Aphorismorum , addendo
ad eas , quas primo feceram . Et feci additiones Super primam , Be fecundam ,
no quartam particulam . In tertia vero particu la solum glossas veteres divis :
Item in quinta particula super veteribies glosis quas feceram primo nullam
additionem feci . Incepi autem de nova glosam in illo Aphorismo : Mulieri
menftrua fine colore , ut dictum est. Quod hic habetde Bononiensium
bello,pertinerevideturad Lambertacciorum, & Jeremienfium turbas , quibus
anno M C C L X X I V . civitas noftra pæne d e solata eft. C u m autem nono
anno poftquam docere cæperat , ad inter pretandum Hippocratis Aphorismos le
contulerit, in eoque opere tempus aliquod impendere debuerit , & rursum eo
dimiffo , librum Tegni interpre tandum susceperit , & in eo verfatus fit,
quoad Bononiæ in otio quietus esse potuit ; subductis rationibus apparet , non
multo poft annum M C C L X . debuisse illum publice docendi in scholis noftris
munus suscipere , imo ditavit hortulanum fuum . Vixit autem renze , noftro
cittadino , il quale fu s o m m o Fisiciano sopra tutti quelli de' Cristiani .
Je. scholas diceban 4 . ооо annis PROFESSORES . 473 (a) Fuit Thaddæus
medicus famosus , apud Murat. Antiq. med. ævi To. I. col. 1262. conterraneus
auctoris , ( Dantis ) qui le ( b) In questo tempo morì in Bologna git&
scripsitBononiæ& vocatuseitplus. M.TaddeodettodaBologna,ma eradiFi. quam
commentator.Et factus est ditiflimus, & mortuus est morte repen Villan, ad
an. MCCCIII. tina , & fepultus eft Bononiæ ante portam (c) Extar Dini
confilium ,five fententia in Minorum in pulchra & marmorea sepultu- arcbivo
Fratr. Prædicat. Bonon. ra . Benvenut. Imol. comment, in Purgat. Dantis
Ad Ad septimam particulam Aphorismorum quod attinet , Thaddæus
perpetua in eam commentaria non reliquit , sed monuit auditores suos , fi quis
voluif fet ex ore docentis excerpere , quæ in nenda in schola protulisset , fe
deinde emendaturum , & utin ordinem re digerentur curaturum . Sic enim
inquit: immediate Icribere intendo. Sed fi quis de meis auditoribus notare
voluerit eas corrigam , o in petias redigi faciam . Hæc autem verba fcripfi, ut
si alicubi minus completa expositio reperiatur, non adfcribatur ignorantiæ ,
fed potius novitati , a pigritiæ scriptoris. Sed Thaddæi commentaria in septi m
a m partem Aphorismorum nufpiam apparent , & ejus loco circumferri solebat
expofitio Alberti Zancarii , de q u o alio loco dicemus . Expositio in divinum
Hipocratis Pronosticorum volumen , A d cujus finem ita ada notatum eft in
editis exemplaribus . Explicit liber tertius yra ultimus Pro. nofticorum
Hipocratis fecundum antiquam translationem a Thaddæo Florentina explanatus. Sed
revera Thaddäus ipfe non unam translationem præ mani bus habuit , fed faltem
duas . (a) A d extrema vero capita , seu textus libri tertii nihil adnotavit
Thaddæus , aut certe nihil adnotatum reperio in edis tis exemplaribus ; manu
enim scripta explorare non licuit. Thaddæi Florentini in præclarum regiminis
acutorum morborum Hipocratis volu men expositio. Hanc Thaddæus in proæmio
fatetur se maxime procudisse ut rem gratam faceret Bartholomæo Veronenfi , q u
e m fibi dilectiffimum vocat , & pollentis ingenii ; aitque,non minimo fibi
adjumento fuisse ad id operis perficiendum . N o n attigit T h a d d æ u s ,
nisi tres priores libros hujus operis, ratus fortasse, quartum non effe
legitimum Hippocratis færum ,quod aliis visum erat , ut fatetur Galenus ipfe initio
commentariorum in hunc quartum librum de regimine acutorum . Suam porro
diligentiam oftendit Thaddæus in his commentariis exarandis, appellans ad
verfionem Græcam , ubi in ea , quæ ex Arabica facta erat , vitium suspicabatur.
(b) Atque hinc apparet , duplicem ejus libri interpretationem per illud tempus
in doctorum manibus verfatam fuisse, quarum altera ex Græca, altera ex Ara.
bica lingua ducta erat . In fubtiliffimum figogarum Johannicii libellum
expositio. E a m fic concludit Thad dæus : Scio tamen , quod de his obscure
dixi , Jed fellus f u m a deficit charta : misera excusatio , & vix
fapienti homine digna . Q u æ hactenus recensuimus Thaddæi opera in unum
volumen redacta Venetiis edita sunt per Lucam Antonium Junctam anno
MDXXVII.curante Joan ne Baptista Nicolino Sallodienfi , qui in epiftola
nuncupatoria ad Aliobel. lum Averoldum Polenfium Antiftitem , & Romani
Pontificis Legatum ad Venetos , impense Thaddæum laudat , illumque dicit,
nonnisi ad lapsam Extat hic Thaddæi liber in Codice Vaticano , (c) ejufque hæc
eft æcono. mia . Initio agit de corpore sano, ejusque , ut ita dicam ,
essentia, & va. riis sanitatis gradibus ; tum pergit in hunc m o d u m :
Nota quod dicit Johan nicius , quod fi unaquæque res naturalis propriam naturam
jervaverit, facit fanitatem , fi vero ipfam dimiferit, facit ægritudinem , vel
neutralitatem , fta tum fcilicet, quo necfanum eft, necægrum
.Sequiturinhuncmodum usque ad finem libri : Nota quod dicit Galenus ; nota quod
dicit Hipocras, Avicenna.Nota quod venæ non dicuntur oriri ab epate quod
oriantur ex ea dem materia v c. Nota differentiam arteriarum ad venarum ,
originem nervorum W c. Nota quod partes totius capitis funt quatuor B c . Inter
has notationes , in quibus totus hic liber decurrit, aliquas quæftiones interferit,
(a) Ad text. X. lib. I. ita inquit : Alia quod patet per translationem Græcam .
Liba translatio non ponit hic nifi duos colores & c. III. text. X. ea
Aphorismorum particula expo Super feptima vero particula nihil 474
MEDICINE principum fanitatem recuperandam vocari consuevisse . Auctoritates are
definitiones fuper libro Tegni , quamplures utiles dubitationes . uti (b) Unde
dicendum quod litera Arabica , (c) Cod. Vatic. 1. 4445. ex qua fumitur illa
auctoritas, elt corrupta , 1 uti est illa: Quæritur hic an dari
poffit membrum , quod nec recipitur, nec tribuit . Nunquam editus eft hic
Thaddæi liber , quem ne ipse quidem au ctor satis elimatum cenfuit. Itaque
rurlus Artem parvam Galeni , sive li brum Tegni interpretandum suscepit.
Habemus hoc Thaddæi opus typis editum Neapoli cum hoc titulo: Commentaria in
artem parvam Galeni. NeapoliannoMDXXII.Horum
initiofatetur,fepræmaturamaliamexpo fitionem Artis parvæ edidisse,hisverbis:
Atveroquoniamfuper eundem librum expofitionem facere necessitas compulit præmaturam
, in qua non ut expedit Galeni instituta patefeci". Ideo e c. Magiftri
Thaddæi conflia. In Codice Vaticano (a) consilia Medica Thaddæi sunt centum
quinquaginta sex.Minore numero,imo perpauca,lirecte memi ni , funt in codice
bibliothecæ Cæsenaris Fratrum Minorum . Primum in utroque codice est de
debilitate visus. Ultimum in codice Vaticano eft de virtute Aquæ vitis. Docet
in eo modum præparandi alembicum cu. preum . Incipit : A d faciendam Aquam
vitem , quæ alio nomine dicitur aqua ardens. Eft unum ex his consiliis de
minctu urinæ cum fanguine. Incipit: Conqueftus est dn. Bartoločtus comes . Eft
is Bartholottus comes Ripæ Insulæ Suzariæ & Bardinæ , de quo plura diximus
, ubi de Rolandino Passagerio a r tis Notariæ doctore agebamus . Eft aliud
Thaddæi confilium ad midtum f a n guinis pro Duce Venetiarum . Aliud item de
impedimento loquelæ propter mollitiem linguæ . Incipit : C u r a comitis
Bertholdi . In librum Galeni de crisi. Eft in codice Vaticano . (b) Magiftri
Thaddæi de Florentia quæftio de augmento . Eft in codice Vatica Thaddæum artis
Medicinæ in civitate Bononiæ doctorem . Eft in codice bi. bliothecæ Eftenfis,
tefte Muratorio . (d) Idem Italice extat , scriptus in m o d u m epistolæ
cuidam ex Neriis Florentinis . Incipit : Imperciocchè la con dizione del corpo
umano . ( e) Extat etiam latine typis editus Bononiæ anno MCDLXXVII.cum libelló
Mag.Benedicti de Nurlia ejusdem argumenti. N u m autem Italice scriptus fit
libellus ifte ab auctore suo , an latine, mihi non conftat. Italica tamen
lingua , quæ tum nitefcere , & a Scriptoribus nobilitari cceperat,
delectatum constat Thaddæum , qui Ariftotelis Ethicam in eam linguam vertit;
quamquam hunc ejus laborem haud magnopere laudandum exiftimarit Dantes in
Convivio , ubi ait , velle se suum illum librum Italica , five, ut ipfe inquit,
vulgari lingua donare , ne ab alio quopiam interprete vitietur, ut Ethicæ
Ariftotelis contigit, quam Thad dæus Italicam fecit.(f) Eum purgare nititur
Biscionius,vitio vertens non tam Thaddæo , qui Italicam ex Latina non bonam , quam
veteri interpre ti,qui nihilo meliorem ex Græca Latinam fecerat Ariftotelis
Ethicam .(8) Sed vix quisquam probabit hanc Biscionii defensionem . Id unum
enim r e prehendit inThaddæo Dantes Aligherius, quod Italicam interpretationem
ejus libri non bonam dederit . Nihil autem impedit , quominus librum aliquem ,
licet mendofiffimum , & maxime corruptum , optime , quod ad nitorem
verborum attinet , interpretari , & in aliam linguam elegantissime quispiam
convertere possit . Habuerat Thaddæus Aristotelis Ethicam ex Thesauro Brunetti
Latini , ut observat Laurentius Mehus , qui de his abun de disserit in
prolegomenis ad epiftolas Ambrofii Camaldulenfis, nuper Flo rentiæ editas . ( h
) no . (c) Libellus fanitatis conservandæ factus pay adinventus per probiffimum
v i r u m M a g. (f)E temendo,cheilvolgarenonfosse dato posto per alcuno , che
l'avelse laido fat. (g ) Ibidem : (h) Tv.I.pag. 156. 157. Epift.Ambrof.Cam . to
parere, come fece quegli, che tramutò il Ooo 2 (a) Cod. Vatic. 2418.
PROFESSORES 475 Expe latino dell'Etica , ciò fu Taddeo Ipocratita (c) Ibid.
4454. provvidi di ponere lui, fidandomi di me più (d)
Murat.To.IX.Rer.Ital.Script.p.583. che d'un'altro.Convito di Dante.In Firenze
(e) Vid.Biscion.Annot.alConvitodi Dan (b) Ibid. 4451. te.loc.cit. 1723. p.68.
1 Experimenta Mag. Thaddæi probata ab ipfo. Hunc titulum habet
collectio ex. perimentorum Medicinalium Thaddæi in codice Vaticano . (a)
Incipit: Omnes herbee a radices quæ debent prius coqui , abluantur mundentur
Poit brevem præfationem , fire inftructionem , defcribere incipit p r i m u m
Syrupos varii generis . Receptio Syrupi majoris fecundum M . T. Syrupus Jor.
danus M . T. ad correctiones epatis aut fplenis @ c . Deinde describit electua
ria, inter quæ hæc confectio locum habet : Confectio qua utuntur magna tes in
curia Romana , vagy maxime convenit in æftate fanguinem mundificans , colera
fuaviter educitur . R. pulpæ Caffic fi. 16. 2. Tamarindorum 3. pe.
nidii.zuc.violati añş.x.Syrupi violati, Ġ .Mirrhæ s3 conficianturfive
dissolvantur cum tali fucco . X. Prunorum.ios feminum ordei mundi. lic quir. añ
i 2 cum ifta aqua decoquatur usque ad spissitudinem mellis. Dein pergit ad vina
medicata . In his ett Aqua vitis ad calculum M . B. ideft, M a . giftri
Bartholomæi de Varignana , ut opinor , medici celeberrimi, cujus infra
mentionem faciemus. Tum de oleis agitur , ibidemque describitur Tragea M. T.
& Tragea M . B., ideft , Magiftri Thaddæi , & Magiftri Bar. tholomæi .
Pulveres fubinde varii , & pilulæ , & unguenta describuntur, tum remedia
quædam ad peculiares morbos . N e c desunt fuperftitiofa quædam , &
vanissima. Tale eft illud : Ut homo poffit ire super ignem fine læfio. ne .
Dicas ifta verba . ter in nomine individuæ Trinitatis.Abyfon. Dalma. tiu, vel
Magata , v e a s nudus. Emplaftra quædam poft hæc describuntur : fed in hujus
libri extremis partibus vix ordo ullus apparet , ut conjicere liceat, aliena
manu aliquid genuinis Thaddæi experimentis additum ; quo ex genere esse
arbitror superftitiola illa , quæ dixi . De Interioribus libri VI.a mag.Thaddæo
correcti. Ita in codice Vaticano.(b ) Thaddæus de Bononia de aquis , oleis , a
vinis medicatis. Extat inter codices mo
locorecensuitejusCommentariainIpocratem,moxCommentariain Avicennam ; n a m
neque in alia Hippocratis opera fcripfit Thaddæus , quam quæ indicavimus,
quæque vel iple Biscionius feorfim poftea enumerat; nec ulla in Avicennam
Commentaria scripsisse comperio.Addit tamen idem Biscionius descriptionem
pulveris mirabilis Mag.Thaddæi, quam re perit ad calcem libri M a g .
Aldobrandini . E g o alterius pulveris descriptio n e m in hunc m o d u m
reperi ad calcem Almansoris , ideft, libri Rasis in codice Vaticano.(d) Recepta
quam mag.Taddeusreliquitpauperibus in te ftamento : R. Cinamomi eleli s Macis.
Croci aš 3 ij. Sene s fiat pul vis poftea R u s Tartari albi fubtilissime
pulverizati, a misce fimul. Dosis ejus eft ; 3 ij cum brodio poteftconfici cum
zuccaro ut melius conserve tur . E u m d e m pulverem defcriptum vidi in codice
bibliothecæ Cælepatis Fratrum Minorum inter confilia Medica Mag. Thaddæi ad
libri marginem in hunc modum : Pulvis folutivusTaddei. R. Cinamomi :5. Macis
.Cra ci añ 7. 3. 1. Sene ad pondus predictorum . Fiat pulvis, cui potes addere
de zuccaro albo vel rubeo B eft delectabilior. DON 476 MEDICINE Thomæ
Bodleii. (c) Auxit immaniter Biscionius paucis verbis catalogum operum Thaddæi,
dum pri (c) To. I. mill. Angliæ . Cod. 2359. (d) Cod. Vatic.4425. Aderotti. Alderotti. Keywords: le quattro cause. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Alderotti” – The Swimming-Pool Library.
Alfieri (Parma). Filosofo. Grice: “I like Alfieri; the enzo is vital
– Vittorio alfieri has statues at Torino! V. Enzo Alfieri dedicated his life to
prove that Democritus was more of a poet than a philosopher. ‘Indeed, I will go
as far as to argue that he ain’t no philosopher!’ Unfortunately, Abbagnano
ignored him, and Lucrezio stayed in the canon! Then Alfieri tried to study the
idea of the ‘in-divisibile,’ the ‘atom’ and the ‘clinamen,’ and how Lucrezio
was a good poet but a bad philosopher!” --
Filosofo. - allievo diCroce. Nato a Parma, visse la maggior parte della
sua vita a Milano ove si laureò in filosofia e insegnò storia della filosofia
alla Bocconi, per poi continuarne l'insegnamento presso l'Pavia. Allievo di Piero Martinetti e di Benedetto
Croce, di cui condivideva l'ideologia liberale e il pensiero filosofico, ma
anche gentiliano non ortodosso secondo la definizione di Ugo Spirito, fu un
oppositore del regime fascist che lo arrestò una prima volta nell'aprile del
1928 quando a Milano scoppiò una bomba all'ingresso della Fiera che fece
sospettare che si trattasse di un fallito attentato al Re. Alfieri fu
incarcerato a San Vittore assieme a Ugo La Malfa, Umberto Segre e Mario
Vinciguerra. Fu liberato senza processo tre mesi dopo per l'interessamento di Benedetto
Croce che tramite Marinetti aveva fatto intervenire Mussolini. Il secondo arresto, per la scoperta di
lettere ritenute compromettenti dalla censura fascista, avvenne nel 1936.
Alfieri fu scarcerato dopo quindici giorni per l'intervento diretto di Gentile
ma dovette lasciare entro due giorni l'insegnamento a Modena e trasferirsi a
Milano dove riuscì a sopravvivere grazie all'aiuto di amici e di parenti che lo
ospitarono. A Milano ottenne il primo
incarico universitario presso la facoltà di Lingue della Bocconi dove rimase
per 13 anni fino al suo trasferimento a Pavia per la docenza di storia della
filosofia. Suoi amici, «maestri e
testimoni di libertà», come lui stesso li definì, oltre a Croce, furono Giuseppe
Prezzolini, Giuseppe Lombardo Radice, Francesco Flora, Pilo Albertelli, il
giovane professore ucciso alle Fosse Ardeatine e, tra i più vicini e
affezionati, Giovanni Spadolini.
Fortemente critico nei confronti del movimento sessantottino e impegnato
attivamente per le riforme della scuola, Alfieri è stato il fondatore del
"Movimento per la libertà e la riforma dell'università italiana" e
del "Comitato nazionale per la difesa della scuola", e presidente
dell'"Associazione amici dell'Gerusalemme". Negli anni 1937-1938 collaborò alla rivista L'Italia
che scrive che ancora in quel periodo riusciva a mantenere una certa autonomia
nei confronti del fascismo. Monarchico, iscritto al Partito Liberale Italiano;
nel dopoguerra si avvicinò agli ambienti della destra, aderendo al Sindacato
Libero Scrittori Italiani e collaborando con la casa editrice di Giovanni Volpe
e con la rivista Intervento di Fausto Gianfranceschi. Negli anni '70 fu
collaboratore culturale per la filosofia de Il Giornale diretto da Indro
Montanelli. Tra le sue opere di
filosofia vanno annoverati saggi sulla filosofia greca-romana antica, “La
tristezza di Pindaro”; “Lucrezio”; “Gli atomisti” e opere di estetica,
L'estetica dall'Illuminismo al Romanticismo. Ad Alfieri, oltre ad un suo
epistolario con Croce, si devono due libri di memorie autobiografiche (“Maestri
e testimoni di libertà” e “Nel nobile castello”) dove sono originalmente
ritratti personaggi della vita culturale e politica italiana da Croce a Scotti,
da Jacini a Casati, a Flora. Antonio Troiano, I 90 anni dell'ultimo allievo di
Benedetto Croce, in Corriere della Sera, 10 maggio 199648. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio
Banfi, in Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofiaTreccani, . Alessandra Tarquini, Gli sviluppi della
scuola di Gentile: da Armando Carlini a Ugo Spirito, in Croce e
GentileTreccani, . Andrea Mariuzzo, La
Scuola Normale di Pisa negli anni Trenta, in Croce e Gentile Treccani, . Marcello Veneziani, 68 pensieri sul '68: un
trentennio di sessantottite visto da destra, Firenze, Loggia de' Lanzi,
199846. Michele d'Elia, Monarchici e
partito, su Italia Reale. Benedetto
Croce, Vittorio Enzo Alfieri, Lettere,
Milazzo, Edizioni Spes, Aldo Garosci, Nel nobile castello, in Tempo
presente, Forum in occasione del novantesimo compleanno di Vittorio Enzo
Alfieri, in Rendiconti, parte generale e atti ufficiali, 130, 1996,
110-140. Maria Luisa Cicalese, Vittorio Enzo Alfieri maestro di studi e
di vita, in Nuova Antologia, Vittorio Enzo Alfieri: maestro e testimone di
libertà: atti del Convegno, Cremona, 22 novembre 1997, Cremona, Circolo
Culturale Benedetto Croce, 1998. Margherita ardi Parente, Vittorio Enzo Alfieri
e il nobile castello, in Belfagor. Già Vittorio Enzo
Alfieri, nell’introduzione al breve primo scritto bembiano incluso in una strenna
dell’editore Sellerio, aveva colto una possibile connessione ai dialoghi
platonici più ‘letterari’, dove a proposito del piacere ecfrastico del giovane
scrittore per il podere di S. Maria del Non scriveva: «Bembo si compiace a
descrivere il luogo a lui caro, il fresco riparo dalla calura estiva, il
fiumicello, i pioppi piantati dal padre, il quale si stupisce che nella piana
verso le pendici dell’Etna vi siano platani, che gli fanno forse risovvenire i
platani d’Ilisso»321.L’intuizione diviene più 320 «Del resto l’opera stessa
prima del Bembo, il De Aetna, aveva richiamato a quei molteplici interessi –
spesso da e su testi greci – che avevano ispirato le Castigationes Plinianae. E
la stessa felice ambientazione del dialogo già di per sé dilata i confini
dell’oggetto esegetico e rilancia tutte le più vitali istanze di plenitudo
culturale, di renovatio che il Barbaro stesso (e il Poliziano per suo conto)
aveva indicato tra gli scopi della propria lezione (Mazzacurati). Sono una
plenitudo e una renovatio che si muovono anche da quell’indirizzo filosofico e
umanistico insieme che era stato così caratteristicamente veneziano, dal
Barbaro a Giorgio Valla: nella ripresa di un tutto autentico Aristotele che
Aldo aveva consacrato con la sua monumentale edizione delle opere aristoteliche
(1495-1498) ispirata alla lezione di Ermolao e dedicata a Alberto Pio. Proprio
sulla base della retorica e della poetica aristoteliche, ripresentate come
esemplari dopo secoli e secoli sulla laguna, poteva svilupparsi anche la filologia
più nuova del Bembo, tutta fondata sul concetto di creazione artistica, non
come furor o inventio platoniche, ma come imitatio naturae e su una
considerazione critica nuova della lingua», Branca, La sapienza civile, cit.
130-131. 321 Bembo Pietro. De Aetna: il testo di Pietro Bembo tradotto e
presentato da Vittorio Enzo Alfieri, note di M. Carapezza e L. Sciascia
(Palermo: Sellerio, 1981) 35. 132 concreta se posta a confronto con
un altro testimone contemporaneo di Bembo, Gregorio Giglio Giraldi322. Questi
infatti nella sua lettera introduttiva a Renata di Francia alla Historia
Poetarum tam Graecorum quam Latinorum (1545), su uno sfondo tutto boccacciano
-- l’occasione della peste e la conseguente riunione di una piccola brigada (il
puer Pico della Mirandola e B. Piso) --, così si esprimeva nel presentare la
cornice diegetica del trattato: L'Alfieri, critico verso la cecità
dell'eruditismo dei vecchi filologi che si affannavano a congetturare e
spostare, sminuzzare e riattaccare i luoghi del poema lucreziano ( op. cit., p.
17 ), sintetizza ancora : “Il canto del sonno e dei sogni (vv. 816-1036) si
riattacca a quei canti precedenti, ai canti delle illusioni, e apre la via ai
versi contro la più terribile delle illusioni: contro l'amore. Ecco come viene
il sonno: una parte dell'anima è dispersa fuori, una parte si è raccolta nel
profondo della sua sede, e le membra si sciolgono, e manca il senso, perché i l
s e n s o è o p e r a d e l l'a n i m a; ma il senso non manca interamente,
perché, se no, non si potrebbe riaccendere mai più e sarebbe la morte. La causa
del sonno è la continua perdita di atomi da parte del corpo, perdita che
avviene specialmente per le incessanti percosse degli atomi aerei; e questi
versi sono bellissimi, nella narrazione dell'inavvertito conflitto, eppoi ( vv.
950-953 ) nella rappresentazione della sonnolenza, con versi rotti e con un
verso finale di grande dolcezza: ' poplitesque cubanti / saepe tamen
summittuntur virisque resolvunt, ' ' e quel che dorme si sente scioglier le ginocchia
e venir meno tutte le forze'. E il sonno segue al cibo e alla stanchezza,
perché allora è avvenuto un tanto più grave turbamento di atomi in noi. Qui
passiamo alle illusioni. Ognuno si sogna quello che è la sua occupazione del
giorno: gli avvocati sognano di trattar cause, il generale di guidare eserciti
alla guerra, il marinaio di lottare coi venti, Lucrezio d'essere sveglio a
scrivere il 'De rerum natura' ( vv. 962-970). Ed ecco quelli che si sognano i
pubblici spettacoli, dopo essersene storditi per tanti giorni; i cavalli, che
sognano le corse; i cani, che sognano la caccia e fiutano in aria ve si
agitano; gli uccelli si sognano di sfuggire ai falchi. Così gli uomini:
sanguinosi e paurosi sogni di re, sogni terrificanti di uomini che si credono alle
prese con pantere e leoni, e gente che parla dormendo e svela tutti i propri
segreti, e gente che immagina di morire o di precipitare da alti monti, e gente
che ha sete e si sogna di essere presso un fiume e di bere infinitamente”. E' come se all'interno di un'argomentazione piana, di
un'espressione variata, di un vocabolo già abusato, di un ritmo additivo
irrompessero sistematicamente una rivendicazione terminologica, un elemento
imprevisto, un segnale indecifrabile, un'interruzione del ritmo, un vestigio ad
investigare. Non cessano infatti di stupire, per vistosità e normatività,
un'accelerazione espressiva e un turbamento linguistico, i quali tuttavia,
anziché disperdersi in una sorta di dadaismo originario o di impazzire nel
gioco retorico, concorrono al prima e al poi della dimostrazione, alla
proporzione del dettato, alla simmetria e regolarità del verso. Essi stessi
riducibili a struttura, più simile ora ad un reticolo cristallino, ora ad una
tavola aritmetica, ora ad un ordinamento geometrico. Questa compresenza
dell'uno e del molteplice, del medesimo e del diverso, del codificato e del
nuovo -- responsabilità morale di annunciare un nuovo mondo. Linguistica, che
porta alla preoccupazione dell'iso-morfismo, al voler far combaciare vocabolo e
oggetto segnato ↔ segnante ordine linguistico ↔ ordine cosmico. La eversibilità
e convertibilità di ordine fisiologico o naturale, e di ordine “filologico” --
verbale. Anzi, la fisiologia irrelata e caotica sembra comporsi e prendere
forma in un divenire “caosmico” proprio grazie alla filologia, la quale
*ordina* sintammaticamente il molteplice -- il complesso nel semplice, nel
semplicissimo (atomon, indivisum), domina il caos, resiste alla morte ed
all'amore, e, anziché immaginare o assecondare l'esistente, lo ferma e se ne
appropria. A ut noscas referre earum primordia rerum cum quibus et quali
positura contineantur et quos inter se dent motus accipiantque, quin etiam
refert nostris in versibus ipsis cum quibus et quali sint ordine quaeque
locata. Namque eadem caelum mare terras flumina solem SIGNIFICANT, eadem fruges
arbusta animantis. Si non omnia sunt, at multo maxima pars est consimilis.
Verum positura discrepitant res. Sic ipsis in rebus item iam materiai
intervalla vias conexus pondera plagas concursus motus ordo positura figurae
cum permutantur, mutari res quoque debent. Atque eadem magni refert primordia
saepe cum quibus et quali positura contineantur et quos inter se dent motus
accipiantque. Namque eadem caelum mare terras flumina solem constituunt, eadem fruges
arbusta animantis, verum aliis alioque modo commixta moventur. quin etiam
passim nostris in versibus ipsis multa elementa vides multis communia verbis,
cum tamen inter se versus ac verba necessest confiteare et re et sonitu distare
sonanti. tantum elementa queunt permutato ordine solo; at rerum quae sunt
primordia, plura adhibere possunt unde queant variae res quaeque creari.
Analogia tra formazione di "verba" et versus e formazione res,
espressa dagli eadem e dal parallelismo tra "significant" e constituunt
resa esplicita nella spiegazione della paronomasia ignis/lignum iamne videas
eadem paulo inter se mutata creare gnis et lignum? Quo pacto verba quoque
ipsa inter se paulo mutatis sunt elementis, cum ligna atque ignis
DISTINCTA VOCE NOTEMUS. Costituenti minimi semantica (parola, sillaba,
articolazione, prima articolazione, seconda articolazione, terza articolazione)
↔ natura (radice -- atomo - molecula). Reversibilità dei co-efficienti dei
costituenti minimi, positura, motus, ordo, che già nella metafisica
aristotelica -- dell'aristotele perduto -- erano indicati come le sole e tutte
differenze che possono presentare tra loro le lettere. Circolarità tra realtà
fisica e linguistica con successione intrecciata delle argomentazioni nei due
passi elemento -- ELEMENTUM (gr. stoicheion) è costituente originario sia di
alfabeto che natura, secondo Democrito e Leucippo, fonte Metafisica,
Aristotele. Lo stoicismo, nella sua lotta contro l'epicureismo, sostiene la
legge finalistica del Logos come vera unica legge che indirizza la scrittura
delle opere e la formazione delle cose. Platone sostene l'esperienza letteraria
come micro-cosmo produttori del reale. Concurcus motus ordo positura figurae.
Sono documentati come 'produttori' del 'reale' (res, rerum) in Leucippo,
Democrito (dalla Metafisica) ed Epicuro e sono gli esatti sinonimi latini dei
termini greci (individuum, atomon; elementum, stoicheion, simple, simplice,
simplicissimum. Il verso è straordinario, dal punto di vista ritmico, tutto
spondaico, e semantico, essendo costituito da soli sostantivi elencati
a-sindeticamente, e culminante dal punto di vista fonico su ordo, quasi
palindromo, appena bi-sillabo. Un verso icastico, che riprende i termini già
esposti ma in ordine sparso e vi associa figurae, termine con una doppia
valenza (ma monosemia) materiale e linguistica. Numerose testimonianze nei
testi grammaticali latini fanno emergere la perfetta corrispondenza della
terminologia atomistica e linguistica, in quanto tutti i term9ni
"concurcus", "motus", "ordo" et
"positura" sono specificamente grammaticali. motus concursus gramm:
fenomeni fonetici: sinalefe (contrazione in un'unica sillaba di due vocali,
solitamente dittonghi), sineresi (contrazione in un'unica sillaba della vocale
terminante di una parola e di quella iniziale della successiva), iato (incontro
di vocali forti successive). Il “distaccamento”, l'”accostamento”, il
“mutamento” degli atomi convertono la natura delle cose nello stesso modo in
cui l'”omissione”, l'”aggiunta”, il “mutamento” delle lettere convertono
l'identità delle parole. Il modello grammaticale sembra in ogni caso essere
preminente e fungere da paragonante per scoprire e chiarificare i meccanismi
del mondo atomico, “ex apertis in obscura”, per rendere più semplice il
passaggio dall'esperienza sensibile della littera scritta all'invisibilità
degli infinitesimi atomi, elementa. Gramm: flessione (verbo) music: ritmo
retor: figura retorica ut potius multis communia corpora rebus multa
putes esse, ut verbis elementa videmus. L'assimilazione tra verba et res
fornisce una giustificazione e funzione della poesia, nonché annulla il divario
tra poesia e filosofia, aprendo la strada della ben più successiva divulgazione
scientifica. E' convinzione epicurea quella dell'iso-morfismo tra parole e
cose, e tale risulta nella costituzione del poema intero, costruito come un
cosmo vero e proprio. La valorizzazione di ogni singola parola, la sua attenta
scelta si riflette in un innalzamento a materia poetabile delle realtà anche
più umili, come “minerali, piante, fiumi, cielo, mare, terra, fiere, uomini”.
Si crea così una democrazia linguistica ante litteram, lontana dal buonismo
religioso, spesso degradato in ipocrisia, o dagli esperimenti novecenteschi
degl'atomismo logico di Russell, che demolendo la sintassi o creando
l'enumerazione caotica volevano demolire la società borghese e capitalistica e
criticare la massificazione elevando ogni singola parola, pur immersa nella sua
massa uniformemente bianca e nera che è il testo.
Vittorio Enzo Alfieri. Alfieri. Keywords: Lucrezio, l’implicatura di Lucrezio,
la folla di Lucrezio, Croce, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Alfieri” – The Swimming-Pool Library.
Alfonso (Santa
Severina). Filosofo. Grice: “I like Alfonso – no, he ain’t a Spaniard; the
surname was pretty popular in Southern Italy after the roaming of the
Spaniards! And it’s ultimately barbaric, that is, Goth!” “Typically, for a
philosopher, a professional one, I mean, he started with logic for teenagers
(il ginnasio ed il liceo), but with a twist – he called his lectures (his
ancestor may testify) ‘logica reale,’ or colloquenza reale – and he tried to
criticse “il Vera,” who had written “Il problema dell’assoluto.” “Like me, he
has an interest in S is P and S is not P (questo uomo no est sensibile). His
first utterance is actually, NOT ‘the fat cat sat on the mat, and as he sat on
the mat, he saw a rat” – but the rather naïf ‘il sole e luminoso.’ He gives two
other examples, which are easy to detect, since he does not use quotes but
ITALICS!: “questo corpo est rotondo” and “questa pianta fiorisce.” His idea,
like mine, or Peacocke’s,, or Speranza, is that that is pretty much enough to
deal with the most serious problems in philosophy: the judicatum, and its
component Concetto 1 e Concetto 2 – “Questa pianta fiorisce’” -- Un
temperamento di spirito positivo e di evoluzionismo idealistico, che attesta
l’origine del suo metodo e la serietà dei suoi studi, ma che dimostra pure
quanto egli si sia discostato dall’indirizzo del Vera e dello Spaventa per
accostarsi a quella che fu chiamata la sinistra hegeliana» (Luigi Ferri).
Filosofo. Autore di 67 pubblicazioni scientifiche e di numerosi articoli su
riviste letterarie e quotidiani, alcuni dei quali sulla Calabria e sui
personaggi delle tragedie di William Shakespeare, che gli fecero guadagnare
l’attenzione internazionale per l’approccio singolare alle opere del grande
drammaturgo inglese. Nato a Santa Severina il 17 agosto 1853 da una
famiglia di proprietari terrieri, molto giovane si dedicò all'approfondimento
delle Sacre Scritture, grazie ai due fratelli del padre, don Michele e don
Francesco d'Alfonso, entrambi canonici del Capitolo metropolitano della
Cattedrale; questi studi, parte dei quali furono pubblicati con il titolo “Le
donne dei Vangeli” (Firenze, Successori Le Monnier), manifestano un approccio *positivista*
sull'analisi del testo biblico. Terminati gli studi nel suo paese natale
si trasferì a Catanzaro, dove fu allievo del letterato e patriota rocchitano
Vincenzo Gallo-Arcuri. Frequenta poi il Liceo Ginnasio "Pasquale
Galluppi", conseguendo la licenza ginnasiale. Ottenne in seguito la
licenza liceale con lode al Liceo classico del Convitto nazionale
"Vittorio Emanuele II" di Napoli, che gli fece valere, su concessione
del Ministero della Pubblica Istruzione, la possibilità di iscriversi
contemporaneamente alle facoltà di Medicina e di Lettere e Filosofia presso la
Regia Napoli. Alla facoltà di Filosofia, dove, allievo di Sanctis, Vera e Spaventa,
ottenne vari riconoscimenti. Conseguì entrambe le lauree in Medicina e
Chirurgia e Filosofia, a soli tre mesi di distanza l'una dall'altra. I Lincei
gli assegono il Premio Reale per le Scienze filosofiche e morali, consistente
in 4.000 lire, per lo studio dal titolo “Kant. I suoi antecessori e i suoi
successori”. Su espressa volontà del padre fece ritorno a Santa Severina, dove
esercita la professione di medico condotto. Ma la passione per la filosofia e
l'insegnamento prevalse e partecipò ai concorsi a cattedra per i licei,
iniziando a insegnare Filosofia in Sicilia (Caltanissetta, Messina e Catania).
Da questa esperienza di insegnamento cominciarono ad evidenziarsi sempre di più
le sue qualità didattiche, tant'è che il ministro della Pubblica Istruzione
Paolo Boselli lo convocò a Roma per affidargli la cattedra di Filosofia nei
licei della Capitale: prima al Liceo Ginnasio "Umberto I" (dove
insegnò dal 1889 al 1909) e poi al Liceo "Ennio Quirino
Visconti". Nello stesso periodo cominciò a collaborare con le più
importanti riviste letterarie, tra cui il Nuovo Convito, la Rivista d’Italia,
la Rivista moderna politica e letteraria, la Rivista italiana di filosofia, la
Nuova Antologia, L’Educazione, la Rivista italiana di Sociologia, la Rivista di
filosofia e scienze affini e con diversi quotidiani, tra cui L'Osservatore
Romano. Nel 1890 fu chiamato dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo
Boselli ad insegnare Pedagogia e Filosofia all'Istituto Superiore Femminile di
Magistero, dove, in seguito a concorso, divenne Professore dal 1903 al 1923.
Ebbe come colleghi Luigi Pirandello, Maria Montessori e Luigi Capuana. Durante
i trantaquattro anni di insegnamento al Magistero, fu relatore di oltre
trecento tesi. Per il Dizionario illustrato di Pedagogia, curato da Luigi
Credaro e Antonio Martinazzoli, redasse la voce Istituti Superiori femminili di
Magistero. Dal 1896 fu anche libero docente di Filosofia teoretica alla Regia
Roma, dove insegnò ininterrottamente fino al 1933, anno della sua morte.
All'insegnamento affiancò sempre una prolifica attività di scrittore,
pubblicando complessivamente sessantatré opere, recensite in Italia e
all'estero, che spaziano dai temi dell'educazione e della morale all'economia
politica, dagli studi sull'ambiente e sulle foreste all'analisi criminologica
dei personaggi shakespeariani. Il suo Sommario delle lezioni di pedagogia
generale (Loescher, 1912) fu giudicato dalla Reale Accademia dei Lincei «frutto
d'amorosa meditazione e di mente abituata alla ricerca e alla costruzione
filosofica, che esce dai confini degli ordinari trattati di pedagogia per
elevarsi ad una sintesi mentale superiore». Tenne la prolusione
all'Universal Congress of Races di Londra, che fu poi pubblicata col titolo “Speculative
psichology and the unity of races” (E. Loescher & Co), e fu membro del VI
Congrès international du progrès religieux a Parigi. Fu consulente medico della
Real Casa d'Italia durante il regno di Umberto I e del Palazzo Apostolico
Vaticano sotto il pontificato di Benedetto XV. Mai volle aderire ad
alcuna corrente filosofica e politica, e fu fortemente avversato dal ministro
della Pubblica Istruzione Gentile,che decise di mandarlo anzitempo in pensione
con un provvedimento ad personam. Si tratta del Regio Decreto n. 736 del 13
marzo 1923, all'interno della Riforma Gentile, che anticipa, per i soli
professori del Magistero, il collocamento a riposo al compimento del
settantesimo anno anziché al settantacinquesimo, come per gli altri docenti
universitari. Il suo posto fu immediatamente occupato da Radice, amico di
Gentile. Anche Croce intervenne nella vicenda in favore di d'Alfonso, chiedendo
a Gentile una deroga a tale decreto, ottenendo però risposta negativa. La
salma fu portata sulla carrozza della Real Casa e seppellita nel Cimitero
monumentale del Verano. Il paese natale, Santa Severina, gli ha
intitolato una via del centro storico e la Scuola elementare. Opere: “Le
donne dei Vangeli, Firenze, Successori Le Monnier); “Sonno e sogni” (Milano-Roma,
E. Trevisini); “Principii di logica reale” (Roma, G. B., Paravia & C.); “Il
re Lear” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “La dottrina dei
temperamenti” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “Lezioni elementari di
psicologia normale” (Torino, Fratelli Bocca editori); “Pregiudizi sull'eredità psicologica
(genio,delinquenza, follia)” (Roma, Società editrice Dante Alighieri); “I
limiti dell'esperimento in psicologia” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Sommario
delle lezioni di filosofia generale (la filosofia come economia)” (Roma, Casa
editrice E. Loescher); “Lo spiritismo secondo Shakespeare, E. Loescher &
C.); “Sommario delle lezioni di Psicologia criminale. Critica delle dottrine
criminali positiviste, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Il Cattolicismo e la
filosofia, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Otello delinquente, Casa libraria
editrice E. Loescher e C. Sommario delle lezioni di pedagogia generale
(L'educazione come economia)” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Note
psicologiche, estetiche e criminali ai drammi di G. Shakespeare (Macbeth,
Amleto, Re Lear, Otello)” (Milano, Società Editrice Libraria); “Principii
economici dell’etica”; “Naturalismo economico”; “Principi naturali di Economia Politica”
(Roma, Athenaeum); “Gli alberi e la Calabria dall'antichità a noi” (Roma, Angelo
Signorelli editore); “La disoccupazione: cause e rimedi” (Torino, Fratelli
Bocca editori. Nicolò d'AlfonsoIl del
Sud Furio Pesci, Pedagogia capitolina.
L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma, Parma, Ricerche
pedagogiche, 1994 Francesco d'Alfonso,
Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo
edizioni, , pag. 42 Francesco d'Alfonso,
Nicolò d'Alfonso, cit Attilio Gallo-Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò
d'Alfonso, Roma, A. Signorelli editore, 1934
La vicenda del pensionamento di Nicolò d'Alfonso è ricostruita e
ampiamente documentata in Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale
indipendente, cit., cap. V Francesco
d'Alfonso, L'onesto solitario. Vita e opere del filosofo Nicolò d'Alfonso,
Reggio Calabria, Città del Sole edizioni,
Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale
indipendente, Bisignano, Apollo Edizioni,
Francesco d'Alfonso , Amleto e Ofelia. La critica shakespeariana negli
scritti di Nicolò d'Alfonso, Reggio Calabria, Città del Sole edizioni, Furio Pesci, Pedagogia capitolina.
L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma Parma, Ricerche pedagogiche, 1994 Attilio
Gallo Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli
editore, 1994 Mariantonella , Giovanni Marchesini e la «Rivista di filosofia e
scienze affini», Franco Angeli Daniele
Macris, Nicolò d'Alfonso: uno studio introduttivo, in Quaderni Siberenensi, Catanzaro,
Ursini, Francesco De Luca, Santa Severina. L'antica Siberene, Pubblisfera
edizioni, Antonio Testa, La critica letteraria calabrese nel novecento, L.
Pellegrini editore, 1968 Silvio Bernardo, Santa Severina dai tempi più remoti
ai nostri giorni, Istituto editoriale del Mezzogiorno, 1960 Santa Severina Università La Sapienza di Roma
Accademia dei Lincei Liceo classico Pilo Albertelli. Il prof.
Nicolò D'Alfonso presenta : 1) Note psicologiche, estetiche e crimi n a l i a i
g r a m m i d i G . S h a k s p e a r e M a c b e t h , Amlet o , R e L e a r ,
O t e l l o - ( s t .) ; 2 ). U n a nuova fase dell'economia politica ,
(st.);3) Speculative psychology and the unity of races (st.); 4) « Il
cattolicismo e l'insegnamento della storia del cristianesimo nell'Università di
Roma , (st.);5) - La filosofia della storia nel nostro tempo -; 6) -G. C.
Morgagni e la biologia moderna »;7) «In Calabria». Il prof. D'Alfonso, come già
risulta dall'elenco dei lavori presentati, s'è occu pato di argomenti disparatissimi,
senza che però, a giudizio unanime della Commis sione, egli sia riuscito a
trattarne alcuno con metodo scientifico. Per la più parte sono articoli
occasionali e informativi, discorsi, prelezioni, ma invano si cercherebbe
un'indagine compiuta con intento scientifico. Le nole psicologiche sui drammi
dello Shakspeare, che del resto sono una ristampa di articoli pubblicati già
parecchi anni addietro, per molti rispetti sono pregevoli, contenendo
osservazioni giuste, e in ogni modo attestano l'amoroso studio che l'A. ha
fatto dei drammi dello Shakspeare ; ma , a giudizio unanime della Commissione,
non sono titolo sufficiente per l'assegno del premio a cui il D'Alfonso aspira.D'ALFONSO
NICOLA. -E'un insegnante che ha una lunga eonorata carriera,emolti s s i m e p
u b b l i c a z i o n i. M a q u e s t e c h e p u r c o n t e n g o n o m o l
t i p r e g i , r i g u a r d a n o l a p s i c o logia,lalogicaelapedagogia
Lastessaoperaches'intitola:«Saggiodifilosofiamo. rale »,è un saggio di
psicologia applicata alla critica dell'antropologia criminale.«Il Somm a r i o
d e l l e l e z i o n i d i f i l o s o f i a g e n e r a l e ( l a f i l o s o
f i a c o m e e c o n o m i a ) i n c u i il D ’ A l fonso espone i concetti
cardinali del suo pensiero, non tratta propriamente problemi morali,al cui
studio non arreca contributo notevole l'opuscolo « Principi economici
dell'Etica ». Formulati in questo modo i giudizi riassuntivi intorno ai
quattordici candidati, e vagliati comparativamente ititoli di ciascuno, e
tenuto conto infine dell'esito della prova orale, la Commissione procedette
alla votazione definitiva, secondo le norme dell'art. 113. La terna risultò
così concepita in ordine alfabetico : Calò Giovanni con tre voti favorevoli e
due contrari; Ferrari Giuseppe Michele, con tre voti favorevoli e due contrari
; Orestano Francesco, a voti unanimi. Due voti riportò ilcandidato Zini.
Essendosi quindi proceduto alla graduazione dei tre candidati designati per la
terna , in ordine di merito, si ebbe il seguente risultato : 1°Orestano
Francesco con voti quattro contro uno; 20 Ferrari Giuseppe Michele con voti tre
contro due ; 3°Calò Giovanni con voti tre contro due. Ilcandidato Calò ebbe un
voto come primo nellaterna. La Commissione pertanto propone a V. E. di nominare
il dott. Francesco Ore . stano professore straordinario di filosofia morale
presso l'Università di Palermo. Roma, 11 aprile 1907. Il Consiglio Superiore di
Pubblica Istruzione, esaminati gli atti del concorso,li riconobbe regolari e
nell'adunanza dell'11 maggio 1907 deliberò di restituirli al Ministero senza
vazioni. La Commissione Osser. -- quando un maggior numero di
uomini si strinsero in rapporti fradi loro e furono animati dal *fine comune* (mutual
goal) di *aiutarsi* (reciprocal helpfulness) nel superare le difficoltà per la vita, onde
sivideilgrande vantaggio del lavoro collettivo, questo fatto ebbe una grande
importanza per quegli uomini e pei primordi dell'umanità in genere.Fu allora
necessaria la dimora fissa in un luogo, ciò che dovea A. LA STORIA DEL
LINGUAGGIO. diminuire loro idisagi e le incertezze del domani.Si
preferi di dimorare presso le rive dei fiumi, dei laghi e del mare,che
offrivano certi vantaggi. Risoluto il problema dell'esistenza nell'oggi, fu
reso possibile il tentativo di produrre pel domani, allora si principio ad
allevare il bestiume ed a coltivare la terra, prendendo insegnamento, come
potevano, dalla natura. Allora fu reso maggiore il bisogno di *esprimersi*
(express ourselves) e d'*intendersi* (comprehend ourselves) in un più largo
ambito e nacque nell'uomo il desiderio di ben provvedere al suo avvenire, à
quello della tribů o della piccola società ed a ricordare la vita passata per
trarne insegnamento per l'avvenire. Fu reso ancora necessario il tradurre in
segui materiali, e perció più memorabili, I rumori e le voci di *espressione* :
prima origine della scrittura e della lettura. Ma,anche in questocaso,quando
nonsitrattavadi do vereriprodurre l'immaginesensibiledelle cose,ma di u sare
segni più o meno facili ad eseguire e da connettere alle parole, ciascuno
dovette significare da principio in modo
affattoarbitrarioedinintelligibileaglialtrilepro prie rappresentazioni; e solo posteriormente
per mezzo di accordi alcuni *segni* (segnante/segnato) furono ricunosciuti da parecchi
siccome *esprimenti* alcune date *rappresentazioni*. Si *stabilirono* (Grice –
established procedure) cosi tanti segni (segnante, segnato) per quante erano le
parole in uso. Però un cosiffatto costituirsi della società primitiva non
avvenne per un aggruppamento solo, in un solo sito, di uomini e di famiglie.
Dato invece il continuo dirimersi e disgregarsi degli uomini preistorici, bisogna
ammettere che sia dovuto avvenire, isolatamente, in vari punti della superficie
della terra; e per ciascuna piccola società dovettero stabilirsi speciali segni
di scrittura e di lettura. Questi movimenti d’emigrazione e
d'immigrazione, di conquiste, raggiunte con la violenza o con lacalma e l'astuzia,
furono più frequenti nei primordi della storia; poichè in quei tempi non tutti
i bisogni individuali e sociali dell'uomo potevano essere sollecitamente
soddisfatti, quantunque fosse stato prepotente in lui il desiderio di soddisfarli.
E poichè ogni gruppo sociale migrante, come avea un complesso di parole, cosi
poteva avere un complesso di *segni* a quelle corrispondenti, avvenendo lo
stesso per la società che subiva l'immigrazione o il dominio, con la mescolanza
degli uomini dovette ancora avvenire una mescolanza di differenti linguaggi. In
questo caso il gruppo sociale più potente dovea esercitare il suo dominio sul
popolo nuovo arrivato o sul debole. Era necessario perciò che gl'imponesse
anche la propria lingua, altrimenti non sarebbe stata possibile la
comunicazione degli animi, prima condizione al vivere. Queste società col
vivere a lungo in un sito andarono incontro ad alcuni disagi per lo
sfruttamento del terreno non ancora coltivato secondo le leggi naturali o per
la distruzione degli animali boschivi o infine perchè il loro sviluppo sociale
dovea far loro avvertire nuovi bisogni o per dar nuove esplicazioni alle loro
energie. Nacque perciò in loro o in parecchi di essi il bisogno di avvicinarsi
ad altre società, sia per offrire a queste i prodotti particolari del loro
suolo e della loro industria e rice verne altri; sia per offrire loro le
proprie energie organiche dalle quali volevano trarre un profitto. L'avvicinamento
e poi la reciproca compenetrazione degl’animi avvenne per via pacifica o per laviolenza
e la forza, onde la società sopravvegnente sottomise a sè l'indigena.
-- sociale. Ma si deve anche ammettere che il popolo vinto o il nuovo
abbia in parte contribuito a modificare la lingua dell'altro, non potendosi
ammettere che esso si fosse potuto così facilmente e presto privare della sua
lingua abituale e l'altro non ne avesse subita alcuna modificazione. Cosi,come
la parola (del greco parabola), anche altri segni dovettero subire molteplici
metamorfosi in ragione del vario congregarsi e disgregarsi degli uomini, in ra
gione dei vari influssi che quelle società esercitarono fra di loro. E quando
in mezzo alla vita indeterminata delle società primitive sorse un popolo
energico e forte che acquisto di sè una coscienza superiore a quella degli altri
popoli che si sforzò di soggiogare e di dominare ed impose loro i suoi costumi,
le sue credenze, fu quello il primo popolo veramente storico e allora la lingua
di esso fu imposta ai vinti ed ammesso riconosciuto da questi. Ma un popolo che
sappia esercitare il suo dominioè destinato a vivere e a perpetuarsi. È
necessario allora che esso diventi qualche cosa di organico, che abbia un
ordinamento interno, che abbia leggi ed istituzioni. Un popolo cosi costituito
è costretto a conservare ed a coltivare la propria lingua, dando un valore
determinato alle proprie parole; perchè solo cosi è possibile il governo che
deve implicare la stabilità delle leggi e della istituzioni alle quali deve
perció connettersi una lingua determinate e fissa, altrimenti quel popolo
ricadrebbe, come, malgradociò, tende sempre a ricadere, allo stato primitivo di
disgregamento. In un popolo che vive e dura la lingua deve non solo fissarsi ma le parole di
cui consta debbono moltiplicarsi. E ciò non può non ammettersi se si considera
che una società che vive non può non compiere,per mezzo degli individui che la
costituiscono, un'attività psicologica scrutativa e conoscitiva sulla natura
circostante. Questa che da principio apparisce come qualche cosa di molto
semplice, come un tutto a sè, in ragione che più si esercita l'attività umana
sopra di essa,apparisce distinta in una molteplicità di gradi o di oggetti i
quali alla loro volta da prima appariscono indeterminati nelle molte proprietà
di cui risultano e, progressivamente, appariscono sempre più determinati. Tale è
stato il movimento della conoscenza dai primordi della storia sino ai nostri
tempi e non si è peranco arrestato. Di nessun oggetto si può dire che esso sia
stato cosi studiato ed analizzato in tutte le sue note,in tutti i suoi
rapporti, che un ulteriore studio nulla di nuovo potrebbe darci. Quantunque
questo processo di scrutazione e di conoscenza si sia eseguito sopra ogni cosa,
pure non tutti i popoli hanno all'istesso modo fatte le loro conquiste in ogni
ramo della realtà. Giacchè alcuni hanno scrutato un ramo ed hanno lasciato intatto
un altro di essa e, conseguentemente, la lingua si è più arricchita in quella
regione della natura che non in un'altra. Inoltre è avvenuto nella storia che,
come gli uomini hanno fatto un progresso nel campo della conoscenza, si sono
ingegnati di servirsi delle loro cognizioni per modificare la natura esteriore
a loro profitto, producendo una molteplicità di beni e sovrapponendo cosi
all'opera della natura una nuova creazione che è quella dell'arte. Tutte
le istituzioni sociali sono creazioni dello spirito, -- Cosi quando
un popolo emerge nell'arte della guerra e delle conquiste, come il popolo
romano, deve anche creare una nomenclatura in cose militari e guerresche. Giacchè,
anche in questo caso, ogni nuova veduta, ogni nuova invenzione, per quanto
possa sembrare poco apprezzabile, pure deve essere contrassegnata dalla sua
parola. Tale lingua non poteva riscontrarsi nei popoli che, nel movimento
storico, precedettero quelli. Ed allora la nuova lingua potrà inprosieguo divenire
patrimonio di nuovi popoli; perchè le conquiste di una nazione nel campo della
conoscenza e dell'attività pratica tendono a divenire patrimonio ed eredità
delle altre nazioni, Una nazione che emerga nel mondo pel suo dominio sul mare,
ciò che non può avvenire senza la costruzione di vascelli di meravigliosa
complicazione, come il popolo ligure, deve creare una nomenclatura marinaresca,
sia per le varie parti e di vari apparecchi di cui consta un vascello, come per
la loro funzione e per gli uomini che vi si addicono, nomenclatura che *prima
della formazione di quei vascelli non avea ragion d'essere* e che ora deve
essere accettata dalle altre nazioni che vogliono costruire nelle quali
se la natura interviene, essa non vi è come puramente tale, ma rianimata da un
nuovo soffio. La storia ci fa vedere che ogni società civile ha prodotto
qualche cosa di particolare in un ramo delle istituzioni sociali; o nelle leggi
o nell'industria, nel commercio, nell'arte militare, nelle belle arti, nella
religione, nella scienza. Corrispondentemente a questo progresso nell'attività
intellettuale e pratica, nuove forme particolari debbono sorgere che
contribuiscono ad accrescere la somma delle parole di un popolo. -- navi
di quei tipi o forme, onde quelle parole genovese o ligure debbono in massima
parte essere accettate come tali dalle altre nazioni. Anche una nuova e grande
religione, come il culto di Marte, il dio della guerra dai romani, dovette
formarsi una nuova lingua relativamente alle antiche religioni, quantunque
alcune parole di queste siano state conservate nella nuova religione,
all'istesso modo che qualche cosa del contenuto delle prime religioni si perpetua
nel contenuto delle altre. E, poichè la religione, sopra tutto la religione
istituta dal primo principe, Ottaviano, compe netra ed informa tutti gli
aspetti della vita individuale e sociale, esercita la sua azione modificatrice
nella lingua di tutte le istituzioni sociali. Nel culto romano di Marte troviamo
parole che hanno un contenuto differente da quello che avevano nei popoli
precedenti o che non ancora hanno accettato il Cristianesimo, quantunque le
stesse parole possano prima essere state usate.E, poichè il Cristianesimo è
stato il punto di partenza di un grande e lungo svolgimento artistico,
teologico e filosofico, informato ai suoi principii, si è dovuto ancora
produrre una lingua atta a rendere in tutti i loro elementi le nuove e grandi
concezioni. Cosi l'attività pratica sociale e le istituzioni contribuiscono a fare
arricchire la lingua latina dei romani. Ma infondo a questo progresso
linguistico sociale dobbiamo trovare come principale fattore l'attività
individuale di un Cicerone, di un Lucrezio, di un Varrone, di un Romolo! Come
avviene delle nazioni che non fanno un passo innanzi nel progresso dell'umanità
se non per l'opera dei grandi uomini che esse nondimeno hanno creato eeducato, avvieneanche
pel progredire della lingua dialettale – o soziale – altre l’idioletto. Giacchè
gl'individui in quanto vedono aspetti nuovi della natura o della vita s o
-- Però da principio essi hanno ricevuto dalla società in seno alla quale sono
nati e cresciuti un linguaggio che era patrimonio comune a molti ; essi l'hanno
solamente arricchito in quel ramo di attività nella quale hanno espli cato la
loro energia e,se questa riguarda immediatamente la vita del popolo,potranno le
nuove parole divenir popolari, altrimenti rimarranno sempre chiuse nella
cerchia dei pensatori e degli studiosi. Così la lingua filosofica di Cicerone non
è popolare o ordinario o volgare come non è popolare o ordinaria o volgare la
filosofia, mentre il linguaggio della religione e dell'arte potrà più fa
cilmente scendere sino al popolo e divenire suo patrimonio; perchè esse al
popolo sopra tutto s'indirizzano ed in esso debbono trovare alimento. --
Pertanto se la lingua dell'arte, della filosofia, della storia differiscono in
qualche modo fra di loro, differisce anche la lingua di un cultore di quella
data branca di attività umana da quello di un altro.Così il idoletto o idioma
di Platone differisce da quello di Aristotele e di Hegel. La lingua,
l’idioletto, o l’idioma di Omero differisce da quello di Aligheri, di
Shakespeare e di Goethe. La lingua, l’idioletto o l’idioma di Tucidide e di
Erodoto differisce da quello di Livio, di Tacito, di Machiavelli. E ciò perchè
ciascuno scrittore impiega nella realtà che studia e perciò nella lingua che
trova e contribuisce a creare, quella sua attività particolare che - -
-47 -- ciale contribuiscono a formare la lingua ed imprimono parole nuove a nuovi
fatti reali che si sono scoperti od escogitati. Ippocrate, che fu il fondatore
della scienza medica nell'antichità, fu anche il creatore della lingua medica
che si conserva in fondo alla compless lingua medica moderna. Cesare dette
nuove determinazioni ed una più grande precisione alla lingua militare.
-- lo spinge ad usare nuove parole o a dare un nuovo contenuto o segnato
a vecchie parole o it nobilitarle o a degradarle. In questo modo la lingua di
un popolo che, come ogni conquista dell'uomo e dell'umanità, tende a sminuire e
a perdersi, è sostenuto dalla vita nazionale ed è migliorato dal progresso che
essa fa in ogni ramo dell'atti vità umana. Il suo progresso va di pari passo
col progresso dell'umanità, all'istesso
modo che il decadere di questa trae seco il decadere della lingua. Una nazione
mantiene integralmente la sua lingua quando una sola vita ed un solo pensiero
circolano in essa quando vi è, cioè, unità nazionale, onde tutti i cittadini
hanno la stessa educazione, la stessa coltura, le stesse aspirazioni, volgono
la loro attività allo stesso fine collettivo, partecipano intimamente agli
avvenimenti nazionali, sono animati dello stesso spirito religioso, artistico.
Quando lo spirito nazionale si affievolisce o cade, tendendo allora la lingua a
degradarsi, la scuola apparisce come una sostituzione alla vita sociale, la quale
può creare il culto della lingua nazionale, facendo interpretare e gustare i
capilavori letterari, storici e politici che quella data nazione possiede. In
questo caso la scuola può creare un movimento per un nuovo risorgimento
nazionale e per mezzo di essa può la lingua durare e vivere anche quando le
istituzioni che la formarono e la sostennero son decadute. Ma se in quei casi la
scuola manca, tutto va in rovina. Nella scuola va incluso anche il culto
per l'arte, quando questa non rappresenti il puntosalientedella vita nazionale,
come avvenne in Grecia la quale dovette la popolarità di quella meravigliosa
lingua primieramente al culto per Omero I cui canti, artistici e religiosi
insieme, venivano imparati a memoria e ripetuti e cantati da tutto il popolo.
La religione ha anche essa una grande potenza a mantenere in vita una lingua,
quando ogni altra istituzione sia perita in una nazione; perchè essa, tendendo
a difondere un complesso organico di principii e di massime a tutto un popolo,
in modo che tutti gl'individui vengano illuminati e spinti all'azione da essa
(e già la religione esercita la sua azione in tutti i fatti della vita, onde la
lingua religiosa penetra in ogni cosa), deve tenere perciò vivo il culto per la
lingua nazionale. Quando queste condizioni mancano la lingua
sidiscioglie,soprat tutto se quella nazione continua ad essere ilcentro d'im
migrazionedialtripopoli,come avvennedell' Impero Ro mano dopo la sua caduta,in
cui, con la invasione dei barbari, quando la scuola mancava, nuovi linguaggi e
nuovi costumi penetrarono che dovettero affrettare la disorganizzazione di quella
lingua in tanti linguaggi particolari a varie provincie e luoghi, varianti fra
di loro secondo che varie erano le nuove condizioni di ciascuno. Alcuni di
questi particolari dialetti più tardi divennero
ancheessinuovelingue,quandoapparvero ipoeti,gli
oratori,glistorici,ilegislatori,ireligiosi, i quali, per adattarsi al popolo al
qualedoveano volgerel'operaloro, dovetterobeneconoscereilnuovolinguaggio
ed,usan dolo, gli accrescevano prestigio e destavano il culto per esso. In
questo modo una grande lingua si discioglie e gli altri linguaggi che vengon
fuori da quella dissoluzione possono di nuovo nobilitarsi e divenire
storici. La lingua tedesca non sarebbe divenuta una nobile e bella lingua
se Lutero,col movimento religioso che egli. Risulta da quel che si è detto che
non è stato un solo il popolo storico, ma vari,quantunque però si debba a m mettere
che questi si sieno manifestati in una regione piuttosto che in un'altra del
mondo e che vi sieno stati p o poli storici di cui non sono rimaste
vestigia;perchè la parte che essi hanno rappresentato per la storia dell'u
manità in genere non è stata di grande importanza, onde non sono divenuti
centro di attrazione di altri popoli e non hanno avuto perciò l'energia di
sottometterne e di dominarne altri. All'istesso modo che ogni popolo ha una
storia parti colare e comparisce e sparisce dal teatro del mondo e ad un popolo
si succedono altri popoli ed ognuno ha la ere dità degli altri ed ha insieme
aspirazioni, tendenze ed uno spirito proprio,si foggia ancora in modo
particolare la propria lingua. E come il suono o la voce è l'espres sione dello
stato interiore psichico indeterminato dell'a fondo ed inizio, in cui
dovea avere gran parte la cultura del popolo, non avesse destato un culto per
essa.I grandi poeti tedeschi, gli storici, i filosofi, gli scienziati,animati
dallo spirito della riforma,contribuirono poi a rendere importante nel mondo e
nella storia quella lingua. L'a vere la Grecia conservata, dopo la sua caduta,
la sua antica lingua la quale, tenuto conto dei mutamenti necessari che in essa
son dovuti avvenire pel progresso del pensiero umano, si è continuata nella lingua
greca moderna, si deve all'essere essa, dopo la sua caduta, stata quasi
tagliata fuori dal grande movimento del mondo, il cui centro divenne ROMA, e al
non essere più essa stata fatta segno alle invasioni e alle immigrazioni di altri
popoli. Quando, dopo la rovina dell'impero romano,il pen - -- animale o
dell'uomo, anche la lingua, nel complesso si stematico delle sue parole , è
l'indice dello stato intellet tuale di un popolo,della sua storia,del grado
dellasua eticità,della sua energia,delle sue aspirazioni economi che, artistiche,
sociali, religiose, scientifiche. Sicchè, conosciuta la lingua di un popolo, ci
è dato conoscere la sua vita naturale e spirituale; perchè nulla è nella vita
naturale e spirituale degli uomini che non sia in qualche modo nel suo
linguaggio. Diciamo in qualche modo,per «chè la lingua non è l'espressione
perfetta della vita e del movimento della psiche. Le parole di cui il
linguaggio consta sono sempre vi 'brazioni tradizionali,empiriche o
convenzionali per espri mere alcune rappresentazioni o azioni o energie delle
cose;'sono perciò involucri naturali ed estrinseci in cui si avvolge la
coscienza e la mente per esprimere la realtà delle cose e degli avvenimenti ;
la cui ricchezza di par tivolari, d'intrecci e di energie è profonda ed
inesauribile. Sono perciò una pallida immagine della realtà e della
mente,quantunque siano però qualche cosa di superiore e di più perfetto
relativamente al linguaggio indetermi
nato.Equandovièdissdiotrarealtàelingua,dimodo .che quella apparisce alla mente
nel suo progresso di complicazione,mentre la lingua si pietrifica, questa
diviene un impaccio alla espressione dellamente che di continuo si muove e si
svolge; ed è solo rompendo questo in volucro sensibile e dandogli un valore più
nuovo e più altochesi possonointendereemanifestarelepiùascose pieghedel
pensieroedella mente;giacchè per inten dere il pensiero non vi vuole che il
pensiero. Ad ogni modo la mente nella sua progressiva forma-. zione si
sforza di creare il suo linguaggio ; perchè il linguaggio serve pel pensiero ;e
foggia nuove parole o nuove combinazioni di parole o dà un nuovo significato
alle vecchie parole. E perció la storia ci fa vedere che quelle nazioni che
sono state ricche di pensiero,co inella sfera di attività pubblica e
sociale,come nella s'era artistica, religiosa, scientifica, hanno avuto una
lingua an corariccadiparole,dilocuzioni,diflessioniper espri mere i più
fuggevoli moti della realtà e dello spirito ; ed in quella nazione in cui la
vita del pensiero è stata poverit o nascente si è ancora avuta una lingua
povera . di parole e di uso. Ciascuno di questi gradi dell'evoluzione del
linguaggio è l'espressione dello stato psichico e cerebrale di quei dati
popoli, stato in parte ereditato in parte acquisito ; dello stato degli organi
vocali e dell'ambiente cosi na turale come etico che gli uomini si sono creato
ed in cui sono vissuti.Queste tre seriedi fattori hanno la parte principale
nella storiadel linguaggioe,secondo il grado. -- del loro accordo dello sviluppo
di esso, costitu'scono la lingua peculiare di un dato popolo. -- siero cristiano che porto seco una nuova
civiltà,più pro fonda e più complessa della romana, a poco a poco si sostituiva
alle vecchie istituzioni, LA LINGUA DEL LAZIO non potè essere più adatta ad
esprimere il nuovo pensiero, sopra tutto dopo le invasioni barbariche; e se fu
colti vata dalla Chiesa e dai dotti,questi per entrare in re lazione col popolo
e partecipare perciò alla vita.nazio nale, dovettero usare il vulgare. Qualche
cosa di analogo avviene nella storia dell'in è psicologicamente molto
simile agli animali, emette an .che esso dei suoni indeterminati. Ma in ragione
che ac . quistano maggior sviluppo i sistemi del suo organismo e gli organi
vocali e le sensazioni acquistano maggior pre cisione funzionale, il bambino si
assimila gli elementi delle voci o delle parole che ode intorno a sè,assimila
zione che è resa facile da predisponenti condizioni ere ditarie, le riferisce
alle cose con cui è in rapporto, le fissa nella memoria, si sforza di
pronunciarle,riuscendovi male da principio;ma dopo unalunga esercitazione,ar
riva a pronunziare bene ed a mano a mano non solo al cuni monosillabi, ma anche
parole più o meno semplici. Nella storia del fanciullo si ha insomma come
riepilogo quello che è avvenuto nella lunga storia dell'umanità ; cosi il
bambino da poco nato non ha altro modo per esprimere isuoi stati interni che
ilgrido,ilpianto,che sono poco più che un moto riflesso, una forte sensazione
che si estrinseca per le vie del respiro. - dividuo. Come il grido
indefinibile che l'animale emette •è l'espressione dello stato indeterminato
dei sentimenti che lo agitano e dello stato informe delle rappresenta
zionichelomuovono,come dellapovertàdeicentridelsuo :sistema nervoso, cosi il
bambino che nei suoi primi anni 53 Abbiamo usato promiscuamente la parola
linguaggio e lingua ; m a è bene dichiarare che la lingua implica m a g giori
determinazioni che non il linguaggio che è qualche cosa di più generale ed
inderminato relativamente ad essa. La linguaè un linguaggio
divenutoclassicoostorico,con nesso cioè ad una vita nazionale, per cui ogni
parola ha una storia e le cui origini si possono seguire anche in altri
linguaggi che sono presupposti della lingua che si Dopo che le
parole son divenute storiche, sono state cioè connesse ad un segno materiale,possono
continuare, sopra tutto in tempi in cui le lingue si formano, ad a vere una
storia circa alla loro struttura. Ed anzi tutto pare non si debba ammettere che
, quando LA LINGUA PREISTORICA abbia principiato a divenire STORICA, si fossero
tra dotte in segni materiali tutte le parole parlate. Invece si deve aminettere
che queste dovettero essere moltissime neila
lorogradazionedipronunziadaindividuoad iudiv'duo, da tribà a tribù, per la
ragione detta precedentemente. E quando si volle tradurre in segni una parola
la quale aveva immense gradazion ,essi furono appunto quasi una. somma di una
molteplicitii di parole parlate le quali se: poterono fissarsi in segni non
poterono però definitivamente fissarsi in un tipo di vibrazione fonica ad esse
corrispon denti,quantunque pero questo fosse stato il fine dell'in venzione dei
segni materiali e della scrittur a e questo. fosse anch e il fine
dell'inseegnamento della lettura. Da ció segue che le parole parlate furono
moltissime relativamente alle impresse. Stabilitasi la forma della parola
parlata e della i m pressa non si tenne più alcuna ricordanza della deriva- .
zione primitiva di essa nè si pensó più a modellare le: parole sulle forme
delle vibrazioni naturali. Dovette per - -- studia. Si può dire ‘lingua’
della natura, ‘lingua’ degli animali, ‘lingua’ dei bambini, ma non lingua senza
quotazioni. L'uomo che per morbi perde la facoltà di parlare che prima posse
deva in modo perfetto, non *parla* più la lingua, *ha* però una lingua. La
condotta dell'uomo si può chiamare una ‘lingua’ in quanto manifesta per mezzo
di una. serie di atti tutto un concetto interiore della vita. -- ció
necessariamente ammettersi che i primi popoli storici dovetterò averə ciascuno
una nomenclatura e corrispondenti forme d'impressione e di scrittura e,nel loro
con tinuo movimento di espansione e di concentrazione, tutto dovette mutare fino
a che un popolo non raggiunse la sua stabilità. Ma anche allora la stabilità
della lingua non fu definitiva. Abbiamo detto che la parola è qualcosa di molto
più complesso del semplice suono o della semplice voce o esclamazione o della
semplice imitazione di suoni o rumori naturali, quantunque derivi da essi -- è
già un suono o più suoni e rumori connessi che complessivamente e sprimono una
rappresentazione formata od un'azione od un concetto.Vi sono perciò parole di
pure voci o suoni, altre di puri rumori ed altre infine risultanti degli uni e
degli altri. Studiando l'acquisizione della loquela nel l'individuo vedremo
come egli dall'attività più semplice passa alla più complessa, cosa che,come
avviene ora nel l'individuo, si veritica anche nella storia dell'umanità in
genere.Dovettero perciò iprimi uomini da principio
pronunziareparolerisultantidipurevociodipuri ru mori; anche allora, o più tardi
poterono pronunziarsi monosillabi,che sono l'unità di un rumore edi una voce.
Il mono-sillabo è perció la parola più conforme alla possibiliti tisiologica e
psicologica di esecuzione fonica dei popoli primitivi e rappresenta la
vibrazione primitiva della cosa,trasformata dall'attività fisiologica e psicolo
gica degli uomini.Le lingue dei primi popolifurono per cid monosillabiche.Ed a
questo proposito possiamo noi indagare se le lingue primitive fossero più o
meno ric che di parole delle lingue moderne o in generale delle lingue più
complesse. E bisogna dire di si se si pensa che, quantunquepei primi popoli storici
il mondo esteriore fosse qualche cosa di molto semplice, pure, nel ri produrre
gli oggetti essi teneano conto solo della vibra zione la quale era varia
d'intensità nelle cose ed era ancora più variamente ripetuta od imitata dagli
uomini di una popolazione e dalle varie popolazioni. Onde varie parole doveano
primitivamente indicare la stessa cosa. Anche perché, potendo una stessa cosa dare
vibrazioni differenti, essa veniva indicata con quella tale vibrazione della
quale più s'interessava il soggetto. Cosi il cavallo poteva essere indicato pel
suo nitrire, per lo scalpitare, pel m ovimento della criniera, pel rumore che
fa nei masticare il cibo, per la velocità nella corsa, ecc. cosa assumeva. In
tal caso la parola monozillabica primitiva si dice -- Per questa ragione
le parole dovettero molto più delle cose esse represe in considerazione. Ma in tempi
più progrediti abbiamo una lingua più complessa, in cui cioè le parola o la
maggior parte di esse sono risultanti di più sillabe; e in questo caso le
parole monosillabiche non spariscono. E questa le lingue poli-sillabiche o la
agglutinante o l’articolata. Perchè in esse la sillaba si collegano o si
articolano con la sillaba. La parola poli-sillabica potè divenir tale o perchè
mono-sillabi di una lingua si vide che corrispondevano alla stessa cosa, di
modo che, pronunziandole insieme due o più esigenze venivano conciliate. O perchè
una sola sillaba assume una voce nuova secondo che la nuovi movimenti; perchè
le cose assumono ancora nuove energie se l'attività scrutatrice del soggetto si
esercita .su di esse. radice la quale non cessa di essere parola,
perchè esprime una rappresentazione, per quanto indeterminata, ma è considerata
come una parola elementare la quale è come il ceppo comune ed originario di
altre parole. Essa, entrando in rapporto con altre parole più o meno semplici o
pure assumendo varie flessioni, si complica in modo da esprimere una rappresentazione
più complessa o un concetto. Se la lingua mono-sillabica, esprimendo
rappresentazioni indeterminate, e la LINGUA PRIMITIVA, la lingua agglutinante o
articolata segnano un *progresso* relativamente alle precedenti. Perchè in
essa, una parola poli-sillabe e un complesso di al meno due parole mono-sillabe
e perció si parlano da quei popoli nei quali è più sviluppata l'attivitàr appresentativa,
onde un solo mono-sillabo non sempre è sufficiente ad esprimere una rappresentazione
molto complessa. La lingua del Lazio, la maggior parte delle cui parole hanno
flessioni, in cui la “radice” e il “tema” assumono varie forme e una lingua
flettente. E quella che han raggiunto il maggior sviluppo possibile e puo costituire
l'espressione di una tela organica di concetti e di un pensiero dalle più
ricche gradazioni e di sfumature appena apprezzabili. In tale lingua, il nome sostantivo
o aggetivo ed il verbo assumono flessioni (declinazione e congiugazione) e
mediante tali forme si esprimono i vari rapporti delle cose e l'avvenimento
dell'azione nei vari gradi di tempo e di condizione in rapporto con l'avvenimento
di altre azioni. Una lingua flettente e perció *posteriore* anche alla lingua agglutinante,
quantunque non bisogna credere che, quando esse appariscano, le parolea gglutinanti
e monosiilabiche non esistano più. Esse sono le ultime apparse nella
storia - Con lo sviluppo della lingua del Lazio va di pari passo lo sviluppo
del mondo logico. Giacchè sono due aspettidiuna stessa cosa.. Il pensiero e la
sua manifestazione sensibile. Non si può ben comprendere l'importanza della
lingua del Lazio senza vedere l'importanza dell'energia logica che è inclusa in
esso, la quale sottratta, l'attività della loquela rimarrebbe un fenomeno
puramente fisico e *fisiologico* ma non umano, o pure sa rebbe l'espressione di
uno stato interno indeterminato. delle lingue, e sono state parlate e
scritte da popoli ricchi di pensiero e di azione. Se dunque le lingue ultime
dei popoli civili, che noi crediamo le più perfette, perchè ricche di flessioni
(onde tra queste bisogna comprendere la latina o lingua del popolo del Lazio)
ha avuto una così lunga e avventurosa istoria ed alla loro formazione hanno, piùo
meno immediatamente, con corso tanti e cosi disparati elementi e lingue di minore
perfezione e lingue anche complesse e ciascuna lingua, per quanto immediata
sia, risulta di elementi molteplicissiini ed accidentalissimi (per quanto vi
sia qualche cosa di costante),comparisce chiaro quanto debba essese difficile,
fare una compiuta anatomia della lingua del Lazio ed assegnare a ciascuno elenento
di essa, a ciascuna parola di cui essa risulta, il suo vero valore e la sua
vera istoria. Bello stesso ; Sonno e sogni. E. Trevisini, Milano-Roma
scolastico. E. Trevisini,Milano-Roma . Ilparlare, il leggere e lo scrivere nei bambini,
saggio di 00 1 Saggi di pedagogia:(ilproblema dell'educazionemorale. Le donne
dei Vangeli. Successori Le Monnier, Firenze. La rappresentazione psicologica è
l'immagine che l'oggetto della percezione lascia di sè nel campo co sciente
quando è sottratto all'azione stimolante che esso può esercitare sugli organi
dei serisi del soggetto. Questa rappresentazione è tanto più indeterminata ed
imprecisa per quanto più l'oggetto che l'à prodotta risulta di un numero grande
di qualità e di note,per quanto più breve è stato il tempo che essa ha agito da
stimolo sul soggetto, per quanto meno sviluppata è l'attività percettiva
cosciente del soggetto e per quanto meno questa si è esercitata su di esso. Non
vi è oggetto del mondo esterioreilquale,dopo l'osservazione volgare e
dopo lo studio scientifico, non risulti di una molteplicità di note e di
qualità ed in cui queste qualità non abbiano un determinato grado d'intensità;
ma queste note non appariscono determi nate e distinte fra di loro innanzi al
soggetto quando I. 1. l'oggetto gli si presenta d'innanzi per
laprima volta o quando per la prima volta l'anima principia ad es sere attività
cosciente;allora l'oggetto apparisce come un tutto indistinto,anzi apparisce
come una nota sola. Cosi appariscono il mondo esteriore e gli oggetti di esso
al bambino nel primo sbocciare della sua coscienza e cosi devono essere apparsi
all'uopo primitivo che non ha avuto una potente attività scrutatrice; ed in
questa stessa posizione è l'uomo moderno dirimpetto a quelle cose più o meno
complicate che gli si parano d'innanzi per la prima volta e che non ha avuto il
tempo di scrutare. In ragione che l'attività cosciente si esercita sempre più
intensamente sul mondo este riore gli oggetti a mano a mano appariscono come
distinti gli uni dagli altri ed in ciascuno oggetto la nota uniforme e
primitiva che lo designava si pre senta progressivamente moltiplicata in più
note dif ferenti. a mano ad affievolirsi, a divenire sempre più imprecise,
a perdere una parte delle note che le costituiscono e lentanente a sparire
quando non vengano rianimate, mediante nuove percezioni degli stessi oggetti
che le han prodotte, nella coscienza; 10 Se l'attività del soggetto si
esercitasse sulla rap presentazione dell'oggetto già percepito piuttosto che
sull'oggetto ripetutamente percepito, non vi sarebbe progresso nella
scrutazione dell'oggetto, anzi vi sa rebbe regresso;perchè èlegge psicologica
infallibile che le rappresentazioni degli oggetti già percepiti tendono a
mano mentre la ripetuta azione del soggetto sull'oggetto fa sempre
scoprire di questo nuovi aspetti e nuove re lazioni;ed a questa condizione la
rappresentazione dell'oggetto sempre più si arricchisce e si compie e risponde
più precisamente all'oggetto reale. Si può fare a meno dal percepire più oltre
l'og getto e considerare solo la rappresentazione in sè stessa quando esso è
stato cosi studiato ed analizzato e scrutato che un ulteriore studio non
aggiungerebbe nulla di nuovo allarappresentazione diesso,laquale però, perchè
si mantenga integra, deve spesso ripro. dursi nel campo della coscienza.E ciò
può sopra tutto avvenire quando l'oggetto che si studia risulta di poche
qualità e determinazioni; ma quando l'oggetto è ricchissimo di struttura, di organi
e di funzioni, quando presenta un vasto e ricco sistema di fatti e di fenomeni,
riesce quasi impossibile rappresentarlo compintamente, senza che alcuni aspetti
di esso non sfuggano alla coscienza o non spariscano da essa.In questo caso il
soggetto, per quanti sforzi faccia ad apprendere e conservare la
rappresentazione compiuta · dell'oggetto,non può fare a meno dal tornare a per
cepire spesse volte l'oggetto del suo studio per sem pre meglio comprenderlo e
conservarlo. Sicché,parlando qui della rappresentazione psico logica, non
s'intende dire che quella rappresentazione la quale rimane nel soggetto dopo la
ripetuta azione di esso sull'oggetto: ciò che è la rappresentazione
dell'oggetto percepitu. Ed è questa la condizione pilt - 11 importante
perchè la rappresentazione psicologica possa divenire obbietto della logica,
quantunque non sia primitivamente tale. La rappresentazione della sensazione
pura o lo stimolo della sensazione non può mai divenire obbietto della logica;
perchè la sensa zione non consta che di certi stati dell'anima, che sa
distinguere e che anzi attribuisce a sė stessa, senza riferirli allo stimolo :
e ciò per quegli animali che per tutta la loro vita rimangono nella cerchia
della sensazione pura.Ma nell'animale e nel l'uomo che rimane solo
temporaneamente nella cerchia della pura sensazione dove stimolo ed animo si
con fondono e che oltrepassa questa cerchia per divenire percezione e coscienza
che è dualità tra l'anima che ora diviene soggetto e lo stimolo che diviene
oggetto, ciò che prima ha determinato la sensazione (lo stimolo) può divenire
oggettodellapercezioneedellacoscienza e poi della logica ; anzi non vi è
oggetto della logica che non sia oggetto della coscienza. Onde segue che la
materia prima del mondo logico è fornita dall'oggetto della percezione che è
l'oggetto della coscienza, senza del quale non potrebbe darsi attività logica
di sorta; perchè l'attività logica del soggetto si deve esercitare sempre sopra
un oggetto, come il soggetto non diviene attività logica senza la sua relazione
coll'oggetto. Il soggetto cosi diviene at tività logica, non nasce tale e la
sua attività dere esercitarsi o sull'oggetto naturale esteriore o sulla
rappresentazione interiore di esso, essa non 12 In una zona
logica cosi ampia non va compreso solamente l'uomo superiore con la sua potente
ener gia logica, nè solamente l'uomo medio con la sua or -13- pura Però
il passaggio nel soggetto dalla pura sensa zione alla logica non è
rappresentato da una linea cosi precisa che si possa dire : Di là dalla linea
vi è tutto il mondo delle sensazioni, di qua vi è tutto il mondo logico
compiutamente formato; giacchè, come avviene in ogni sfera che passa in
un'altra sfera, quella che passa non è completamente esclusa come tale da
quella in cui passa. E non bisogna credere che, superato una volta il confine,
questo sia supe rato per sempre; perchè la vita della o
dellerappresentazionidisensazionipuòtornarecome puramente tale anche quando una
volta si sia pene trati nel campo logico.Inoltre è difficile per lo stu dioso
tracciare questa linea in cui l'anima cessa di essere meramente sensitiva e fa
il primo ingresso nel campo logico. Come ogni grado dell'esistenza,la logica
occupa una determinata zona, chiusa fra due determinati limiti, di cui l'uno
rappresenta il minimo della logicità,tanto
chedilàdaquestolimitenonvièattivitàlogicane obbietto logico e l'altro
rappresenta l'entità logica nel suo più alto grado.Dal primo all'ultimo limite
il mondo logico compie un processo che implica una progressiva perfezione,per
cui, partendo dal fatto puramente sensitivo, si allontana sempre più da esso
per divenire entità logica compiuta. sensazione dinaria
potenzialità logica; ma ancora l'uomo volgare, il fanciullo, gli animali
superiori ed alcune specie degli animali inferiori che arrivano a
percepire.Però se, come avviene in ogni sfera dell'esistenza che ha una serie
di gradazioni, la sfera logica presenta un sistema cosi ricco di gradazioni le
quali passano l'una nell'altra in modo appena apprezzabile, tanto che è quasi difficile
distinguerle, pure si può dire che tutte queste gradazioni vanno comprese in
tre grandi sot tozone le quali possono chiamarsi la logica meccanica o
estrinseca, la logica chimica o intima e la logica organica. La prima
zona,rappresentandoleformelogichepiù elementari, se può stare di per sè come
pura logica meccanica, si ritrova però anche nelle due zone sus seguenti; e
cosi la sfera chimica si ritrova ancora nella sfera organica che è la più
compiuta. In generale si può dire che l'oggetto della perce zione ovvero la
rappresentazione di esso principia a mostrare il primo movimento logico
allorché cessa di apparire innanzi al soggetto come risultante di una sola
qualità naturale,ma apparisce come distinto in due o più qualità connesse in
qualsiasi modo fra di loro ed allora si ha la forma primitiva della rappre
sentazionelogica.Una qualitàsolaedincomunicabile ad altre qualità e zon
trasformabile non fornisce al cuna materia logica.E se un fatto
naturale,secondo che è più scrutato dal soggetto, comparisce sempre più ricco
di qualità e si vede la ragione intima per 15 cui le varie qualità
convengono all'oggetto,è chiaro che esso diventa progressivamente obbietto di
una entità logica superiore. Ma può avvenire ancora che,dopo uno studio più profondo
e comprensivo fatto sull'oggetto,questo ap paia innanzi al soggetto come
intimamente connesso ad altri fatti esteriori ad esso, tanto che senza di
questi non potrebbe essere quello che è. E ,se vi sono oggetti le cui note ed i
cui rapporti sono immobili e fissi, ve ne sono altri in cui le qualità che li
costi tuiscono ed i loro molteplici rapporti con enti fuori di essi si
trasformano e cangiano. È chiaro allora che l'entità logica dell'oggetto si
accresce e si complica. Può avvenire ancora che l'oggetto che ora è studiato
comparisca come l'ultimo risultato di una storia spe ciale propria o di una
storia di altri enti simili o dis simili da esso; onde l'importanza delle note
attuali che lo costituiscono si accresce e mostra cosi una n a tura assai più
elevata.La rappresentazionelogicaha cosi una considerevole latitudine ; perchè
principia quando il soggetto vede almeno due note nell'oggetto e si conserva
ancora quando si è scoperto in esso un numero grandissimo di qualità. Si è
detto e ripetuto che è il linguaggio che segna nell'uomo ilprimo apparire delle
attivitàlogiche.Ma non si considera che la parola linguaggio, avendo un largo
contenuto esignificandoqualsiasimanifestazione dei fatti interni psichici,siano
sensitivi che rappresenta tivi ed emotivi,ha una larga applicazione cosi nel
campo animale come nel campo umano ;onde non si vede con
determinazione la necessità del coesistere solamente nell'uomo del linguaggio e
della funzione logica,si deve però ammettere che la lingua che è un linguaggio formato
e divenuto classico (onde vi è differenza tra
linguaelinguaggio),quandoèbeneusata dal sog getto uomo,può far vedere in questo
le più grandi energie logiche,all'istesso modo che una lingua im perfetta o
poveramente usata può manifestare nell'uomo rudimentali qualità logiche. Però
non si può concedere che deva necessariamente intervenire la lingua per potersi
trovare nella sfera logica e perpoterecompierefunzionilogiche.Individui nati
muti o sordo-muti possono compiere con grande coerenza logica i loro atti, all'istesso
modo che la lo quela non sempre rivela una perfetta energia logica, come
avviene per disordini nervosi e mentali o per ritardato sviluppo di tutte le
attività psichiche. Al l'incontro ciò che è indispensabile perchè il soggetto
compia le più elementari funzioni logiche è l'oggetto della percezione e la
rappresentazione molteplice del l'immagine di esso, come è manifestato dagli
atti e dalla condotta che gli animali e l'uomo non ancora parlante hanno verso
quegli oggetti sui quali si eser cita la loro attività e dal giovarsi che
l'animale fa dialcunequalitàdeglioggetti.E larappresentazione molteplice
dell'immagine degli oggetti è anzitutto necessaria ancora per l'uomo logico che
parla,la r a p presentazione e l'esecuzione della parola udita, par
16 lata e scritta non essendo che un'altra specie di r a p
presentazioni specialideglistessioggetti sopraggiunta alla prima;per cui
illavoro psicologico elogicodel l'uomo è assai più complicato di quello
dell'animale, anche perchè, per la sua grande energia psichica, l'uomo
moltiplica le rappresentazioni relativamente semplici che delle cose hanno gli
animali,onde il lin guaggio diventa nell'uomo assai più intricato e com plesso.
Segue da ciò che il linguaggio umano è una nuova aggiunta che si fa alla rappresentazione
pri mitiva dell'immagine delle cose; ma rimane sempre questa l'obbietto delle
attività logiche cosi animali come umane. Questo è ancora dimostrato dalla
patologia del lin guaggio umano;poichè è statoconstatatoche,quando l'uomo perde
la memoria della immagine percepita delle cose e conserva la ricordanza della
parola udita, parlata o scritta,che ad essa corrispondono, la sua lingua è
divenuta un caos; perchè, essendo perduto il nesso tra la cosa e la sua parola
udita e parlata, l'attività logica non si può esercitare sulle parole, perché
non si può esercitare sulle cose, come allora è manifestato dalla sconnessione
e dalla incoerenza del linguaggio. -1 Del giudizio e dei suoi
elementi. Quando il soggetto distingue per la prima volta un dualismo nell'oggetto,
cioè da una parte quello che, prima di questo atto psichico,costituiva tutto
l'og getto, indistinto nelle sue qualità, e dall'altra quello che scorge ora in
esso mediante l'atto di distinzione e vede che questo è connesso con quello in
modo che senza di esso non sarebbe,si fa quel che si dice un giudizio. Sicché
per avere un giudizio occorrono due fatti distinti fra di loro ed un atto
psicologico che li connetta.Però bisogna considerarequestitreelementi di cui
consta il giudizio come dati tutti e tre insieme nello stesso atto. Dei due
fatti che possono dirsi anche termini,perchè significati con parole, il primo,
quello che prima del l'atto psicologico faceva una sola cosa con la qualità che
ora si distingue da esso e che meglio osservato e scrutato può mostrare altre
qualità inerenti a sé,onde può divenire obbietto di altri giudizii,si chiama
sog getto;la nota che gli si attribuisce sidice aggettivo - 18 II.
od attributo ; l'atto psicologico col quale gli si attri buisce è il verbo.
Bisogna bene intendersi sul significato della parola soggetto che si usa nel
giadizio. In generale soggetto significa ente attivo, ente operoso. Si chiama
soggetto l'anima cosciente e distinguente sè dall'oggetto e nel l'istesso tempo
l'anima che esercita la sua attività sul mondo esteriore che considera come suo
oggetto. E poichè dall'animale inferiore all'uomoedall'uomoemi nente per
pensiero e per azione questa attività cono scitiva ed operativa sempre più si
afferma e cresce, è cosi che la parola soggetto,quantunque possa ap plicarsi
indistintamente alla serie degli enti animali, pure compete in sommo grado
all'uomo ed all'uomo che abbia la più grande energia nel campo del pen siero e
dell'azione. Intesa cosi la soggettività, scendendo dall'animale alla pianta, sembra
non essere più il caso di dovere applicare la parola soggetto;ma,poichè la
pianta è un organismo dutato di attività la quale consiste nel compiere una
serie di funzioni interiori per le quali è continuamente messa in rapporto
coll'ambiente este riore ad esso (aria,luce,terreno)e manifesta, quan tunque in
modo assai più imperfetto di quel che si compia nell'animale, per mezzo di una
serie di feno meni esteriori, i suoi fatti interiori ed il suo orga nismo
compie una storia, pure si può concedere il nome di soggetto alla pianta la
quale cosi manifesta anche essa una certa energia. 19 Ma
igrammatici ed ilogici hanno anche dato il nome di soggetto non solo ad ogni
opera dell'uomo, che può considerarsi come un tutto armonico in sé, avente un
determinato fine,ma ad ognipartediessa, ad ogni ente della natura inferiore ed
inorganica o adunframmentodiessa,adogni minerale,adogni fatto ineccanico o
chimico e financo hanno consi derato come soggetto le qualità e gli attributi
stessi delle cose.Però l'uso che in questo caso i gram matici hanno fatto della
parola soggetto può essere giustificato,considerando che ciascuno degli enti in
feriori agli enti organici e psichici è sempre un com plesso, anche quando sia
semplice parte, di qnalità o proprietà concentrate e connesse insieme; onde,
rigo rosamente parlando, non si può negare ad essi una certa energia senza la
quale le proprietà non potreb bero esistere in essi; possiamo chiamare questa
energia, meccanica, fisica o chimica; ma è sempre una energia E non si può non
concedere che le qualità stesse che si considerano come attributi delle cose
possano essere considerate ancora esse come soggetti,quando si riconosce che
ciascuna qualità,essendo inerente a molti soggetti i quali hanno altre
proprietà differenti, contribuisce in modo differente all'energia di ciascuno
di essi. Cosi quando si parla della gravità che è una proprietà dei corpi, si
vede che essa si manifesta di versamente secondo che si tratta di an corpo
gassoso o di una pietra o di un liquido o di un pendolo o del sistema
planetario. 20- Quando ilsoggettodelgiudizioèconsiderato o
stu diato dal soggetto psichico allora può anche chiamarsi oggetto; perchè,
quantunque attivo in sè, è sempre qualche cosa di passivo relativamente al
soggetto psi chicoilqualeesercitalasua azionescrutatricesudiesso. - 21 Il
secondo termine del giudizio, cioè quella qualità o quella determinazione che,
quantunque insita nel soggetto o estranea ma conveniente ad esso,per mezzo
dell'atto psicologico gli si riconosce come connessa, è stata chiamata dai
logici attributo o predicato.Rap presentando il soggetto un gruppo di proprietà
dif ferenti, suscettivo di ulteriori giudizii,e l'attributo una sola qualità o
determinazione,è chiaro che questo può essere applicabile a più soggetti, non
essendo ciascun soggetto costituito di attributi assolutamente speciali a sé;
ma in mezzo ai tanti attributi comuni a molti soggetti ha solo qualcuno che
conviene esclu sivamente a lui. Dei molti attributi che costituiscono un
soggetto una parte sono sensibili o percettibili per mezzo degli organi dei
sensi. Ogni oggetto del mondo esteriore è fornito di peso,ha una grandezza
variabile, una re sistenza, è situato ad una certa distanza dallo spet tatore,
ha una forma fissa o cangiante,un colore,una composizione mineialogica, chimica
o organica, può presentare una struttura determinata, uno stato ter mico, può
vibrare in modo differente nella intimità clelle sue molecole, può esercitare
un'azione più o meno irritante o elettrica o offensiva sull'organismo
del soggetto,può dare speciali odori,può essere gn. stato per mezzo della
lingua. Ma vi sono altri attri buti i quali non sono percepiti per mezzo degli
or gani dei sensi ma vengono compresi mediante un atto della mente, quantunque
le attività percettive possano contribuire o avere contribuito alla
comprensione di queste nuove specie di attributi. Sono tutte quelle qualità che
riguardano la provenienza od il fine del soggetto,isuoirapporticon
altrioggetti,lasuaazione favorevole o nociva su di essi o viceversa. Inoltre il
soggetto acquista attributi non semplicemente sensi bili quando desta in noi
stati interiori piacevoli o do lorosi,ricordanze,speranze etimori,ma qualche
cosa di più che sensibile, poichè in quel caso viene scossa l'intimità della
nostra vita interiore. 22 Quantunque a primo aspetto sembri che ogni at
tributo sia una qualità semplice e non suddivisibile in altre qualità,benchè
una qualità possa averevari gradi d'intensità, ciò che non la fa considerare
come qualche cosa di fisso, pure può una qualità essere il risultato di un
sistema di altre condizioni o attributi. Quando diciamo che l'animale è
sensibile,la nota della sensibilità pare che sia una qualità sola; ma, se si
pensa che per essere sensibile l'animale deve im plicare una serie di organi e
di funzioni e di condi zioni esteriori all'organismo, si è costretti ad ammet
tere che quest'attributo è come la risultante di fatti molto complessi, non è
dunque un attributo semplice. Se diciamo che Giulio ė ragionevole
quest'attributo è 2:3 Il soggetto e l'attributo non potrebbero
costituire il giudizio senza l'atto psicologico col quale l'uno ė connesso con
l'altro; senza questo atto i due termini non avrebbero fra di loro altro legame
fuori quello accidentale della coesistenza e della successione, che è un legame
psicologico, non logico. Rigorosamente parlando,è quest'atto che costituisce
ilverogiudizio; però senza i ter.nini esso non potrebbe essere, non sarebbe che
una mera possibilità. Questo atto che è espresso dal verbo è quella scrutazione
che l'anima attiva fa tra i due termini, per la quale si riconosce che l'uno è
connesso indissolubilmente,intimamente e necessariamente con l'altro.Questo
nesso intimo che lega i due termini è un fatto obbiettivo delle cose, non è una
pura produzione dell'atóività psicologica, però non si pno pervenire ad esso
senza l'attività picologica. È questa un'alta attività a cui l'anima umana per
viene;perché per mezzo di essa può internarsi nella natura dell'obbietto,
vederne il movimento, compren derlo ed assimilarselo. Sicché non si arriva al
fatto logico senza l'attività psicologica e senza di questa l'energia logica
rimarrebbe nella inconsapevolezza delle cose naturali, rimarrebbe per sempre
muta ed inco municabile ad alcuno, Per questo vgni atto giudica di una
natura cosi complessa che deve presupporre un ricco sistema di condizioni
perchè possa darsi. L'attributo ragionevole perciò non implica un fatto cosi
semplice come l'attributo pesante. tivo non è un atto meramente
psicologico,ma è anche obbiettivo, il suo contenuto cioè corrisponde al conte
nuto delle cose;ed in quest'atto si uniscono e com penetrano l'energia psichica
e l'energia delle cose. Con l'atto giudicativo, subbiettivo insieme ed ob
biettivo, si entra nel vero campo logico e si può dire che è sul giudizio che
poggia tutto l'organismo logico e che è il giudizio, considerato nel suo
sistematico svolgimento,che costituisce la parte più importante della logica e
che il primo prodursi della più rudi mentale attività giudicativa dell'uomo o
dell'animale segna ilprimo apparire del mondo logico. In generale si può dire
che sempre che ilsozgetto principia a giudicare l'oggetto della percezione o
la 24- Però'seil giudizio come necessaria convenienza dell'attributo al
soggetto è la forma più perfetta alla quale il soggetto pensante non arriva se
non dopo una lunga educazione,vi sono molte forme di giudizio inferiori ad
essa, che possono considerarsi come tanti tentativi che l'anima fa per
penetrare nell'intimità delle cose ed impadronirsene. Ciò conferma il fatto che
non vi è un limite netto tra la psicologia e la logica e che se vi è una parte
della psicologia quella inferiore, in cui non vi è nulla di logico,e che se vi
è un'altra parte della psicologia, quella ultima e più raffinata, in cui ogni
energia o la più parte delle energie sono logiche, vi è una larga zona
psicologica in cui si manifestano le prime tendenze logiche ed in cui il lavoro
logico è eseguito allo stato bruto. rappresentazione di esso,allora
questa cessadiessere rappresentazione psicologica e diviene rappresenta zione
logica ; e non vi è alcuna rappresentazione logica la quale non sia insieme,
implicitamente od e s p l i c i t a m e n t e , g i u d i z i o . E , s e l ' i
n f i m o g r a lo d e l l a r a p presentazione logica deve implicare un solo
giudizio almeno nella sua forma primitiva e bruta,un'alta rap presentazione
logica si ha quando essa implica un gran numero di giudizii. Delle tre parti in
cui si può considerare divisa la logica (la meccanica, la chimica e
l'organica), la rappresentazione logica cosi intesa esaurisce le due prime
parti. Se l'anima non può principiare ad eseguire funzioni logiche dall'infimo
al massimo grado se non quando è divenuta percettiva,perchè allora solamente
distingue fra di loro i fatti del mondo esteriore e distingue al cune proprietà
di ciascun fatto,giacchè senza la mol teplicità dell'obbietto non può eseguirsi
funzione lo gica di sorta, nondimeno non in tutto quello che per cepisce od in
tutto quello che si rappresenta nella coscienza interiore vi è energia logica
o, quando vi è, non vi è all'istesso grado in tutto. L'anima vivente o va
incontro ad una varietà di fatti e steriorioquestilesipresentano a caso ovvero
a s siste ad un inovimento di rappresentazioni o fa l'una cosa e l'altra
insieme ed intercorrentemente. Questi fatti si succedono o coesistono fra di
loro e sono per cepiti dal soggetto nella loro successione o nella loro
coesistenza. Ogni fatto deve perciò connettersi ad un 25
altro fatto; e questa connessione può essere di due specie,o casuale
estrinseca,ovvero intima,vera,con veniente. Bisogna però distinguere la
casualità e la estrin- sechezza,tra ifatti psichici,che rimane sempre tale pel
soggetto, per quanto questo possa elevarsi alla più alta attività
psichica,dalla casualità e dalla estrin sechezza che apparisce tale al soggetto
solo tempo raneamente nel primo periodo della sua storia,quando non ancora è
giunto al grado di potere compiere un lavoro psicologico cosi intenso da sapere
vedere una connessione intima tra due fatti; onde questa gli si presenta
estrinseca senza esser davvero tale e, con un ulteriore sviluppo dell'attività
soggettiva,sparisce la estrinsechezza e comparisce la intimità. no Non si può
non ammettere però che questa estrin sechezza vera è in certo modo relativa al
grado di sviluppo dell'attività del soggetto psichico;perchè,a vendo ciascun
soggetto nel mondo es'errore un campo - 26 Nel caso della estrinsechezza
vera, per quanto in oggetto si succeda ad altri od apparisca al soggetto in
concomitanza con altri oggetti, anche con un ac curato studio, non si saprà mai
trovare una ragione del succedersi di un avvenimento ad un altro o della
coesistenza di un fatto con un altro, di una qualità con un oggetto;giacchè
ciascuno oggetto apparisce come assolutamente indipendente dirimpetto
all'altro, perchè non lo modifica in alcun modo nė ne ė dificato.
speciale nel quale si esercita la sua attività, onde é messo
frequentemeate in rapporto di coscienza solo con un determinato aggruppamento
di oggetti, egli può vedere meno di estrinsechezza tra questi oggetti che non
tra quelli estranei alla sua azione.In ragione che il soggetto allarga sempre
più il suo campo og gettivo e lo scruta con maggiore intensità l'estrinse
chezza si allontana sempre.E quando l'obbietto del l'attività soggettiva è
tutto l'universo allora il filo sofo,guardando le cose dal più alto punto di
vista che è quello dell'unità,non vede più estrinsechezza di sorta tra le
cose;perchè ogni cosa vi apparisce come organo di un vasto sistema ed è
necessariamente connessa a tutti i gradi di esso. La
intimità,laveritàelaconvenienzatradueog getti (e perciò tra due
rappresentazioni) o tra un og getto ed una sua proprietà si ha allora quando
l'uno non può essere in alcun modo indipendente dall'altro per cui sempre che è
dato l'uno è dato l'altro o, se prima è dato l'uno, dopo verrà necessariamente
dato l'altro. Ora questa intimità ha vari gradi che possiamo riepilogare in tre
zone logiche principali,presentando ciascuna zona immense gradazioni. 27
La prima zona, quella più elementare in cui si de signano le prime linee del
mondo logico, di là dalla quale vi è il puro mondo degli oggetti delle
percezioni e delle loro rappresentazioni scomposte e sconnesse, ha questo di
particolare che in essa alcuni oggetti o r a p p r e s e n t a z i o n i s o n
o , è v e r o , l e g a t e , d a n e s s i i n t i m i, m a 28
questa intimità è al suo minimo grado,rasenta quasi la estrinsechezza;perchè
della loro intimità non si vede altro che il semplice succedersi costantemente
diuna rappresentazioneadun'altraodilsemplicecoe sistere di una rappresentazione
con un'altra.E questa conquista il soggetto può avere fatto non solo per pro
pria esperienza ma anche per tradizione o per quel che si è detto consenso
degli uomini. Qui non si vede alcuna ragione della convenienza delle due rappre
sentazioni,alla qualeilsoggettorimaneperfettamente estraneo; e tutta l'attività
del soggetto si esaurisce nel vedere questo puro costante coesistere e succe
dersi delle cose e perciò il giudizio che esso compie è semplicemente
meccanico, non fa che constatare quanto avviene nel mondo naturale. Così
l'attività del soggetto qui è meccanica e delle cose non afferra che il
semplice meccanismo,l'energia più elementare della natura, il muoversi delle
cose per la loro pura gravità o per la loro forza od il muoversi per forze
estranee ad esse ma che agiscono su di esse. In questa zona logica va compresa
anche quella elementare attività giudicatrice mediante la quale si scopre o
constata qualche proprietà o qualità che in teressa gli organi sensibili e
percettivi del soggetto, come il sole è luminoso ; è un'attività giudicativa
molto elementare.A questa zona logica possono per venire gli animali superiori
e quegli animali inferiori i quali si elevano alla percezione, quantunque gli a
nimal¡ non possono esprimere con paroletaligiudizii, poichè
bastano certi atti o movimenti che l'animale esegue
adimostrarecheessohacompiutoungiudizio. Ma questa attività meccanica logica non
solamente rappresenta la prima epoca dell'energia logica umana e l'energia
dialcuni animali,ma anche quando l'uomo è atto ad elevarsi ad una attività
logica superiore compie ordinariamente giudizii logici meccanici. È questa la
posizione dell'uomo incolto. Di tutti gli a v venimenti naturali ed umani ai
quali egli assiste non può vedere altra intimità che quella meccanica ed
estrinseca ; alla ragione intima dei fatti egli non perviene. La seconda zona
che si dice chimica e che sta più in alto alla precedente ed alla quale non si
perviene se non per mezzo della precedente rappresenta quel campo della logica
in cui il soggetto può compiere un più complesso lavoro di penetrazione tra gli
og getti, onde quei nessi intimi che prima vedeva in modo quasi estrinseco sono
visti davvero nella loro intimità. La parola chimica sembra bene
adoperata;perchè cor risponde a quello stato della energia della materia in cui
gli elementi relativamente semplici si compe netrano ed uniscono insieme per
formare un corpo di una più elevata natura ed in cui corpi di complessa natura
si scindono nei loro elementi sem plici;ondelachimicadelcampo logico
corrisponde a quel grado delle attività psicologiche per le quali il soggetto
afferra la convenienza vera di un oggetto. e delle sue proprietà e vede le
intime ragioni per le 29 nuovo La zona chimica logica si
evolve cosi dalla mec canica non solo, ma questa coesiste nella chimica;
perchè, anche quando vediamo il rapporto chimico di
duerappresentazioni,vièsempreillato meccanico, l'incontro cioè di due oggetti o
di un oggetto ed una qualità,quantunque questo meccanismo sia assorbito e
trasformato dal chimismo. Avviene nel campo lo gico quel che avviene nel campo
naturale in cui il chimismo implica ilmeccanismo,quantunque non sia
semplicemente tale,essendoilmeccanismotrasformato ed elevato ad un più alto
grado di esistenza nel chi mismo il quale senza di esso non potrebbe darsi.
Però non bisogna credere che, quando l'uomo è ar rivato alla zona chimica della
logica tutti i suoi atti logici siano giudizii chimici;perchè questi,implicando
una grande difficoltàacompiersi,nonpossonofarsida ciascun uomo che in un campo
speciale che ha scelto come materia del suo studio e delle sue ricerche; il
resto della sua attività logica è rappresentato sempre dal meccanismo e questo
può intercorrere nel chimi smo logico od alternarsi ad esso. - 30 quali
il soggetto non può fare a meno di quellapro prietà e questa deve sempre
necessariamente andare congiuntaalsoggettoinquellecondizioni.É questo, si può
dire, il campo della conoscenza vera e della scienza dove il soggetto compie le
più elevate forme di giudizio,risultato di una lunga scrutazione psico logica
nei rapporti delle cose. III. Il giudizio nella sua for.na più
elevata, implicando quell'atto del soggetto cosciente mediante il quale si
riconosce che ad un oggetto del mondo naturale o ad un ente spirituale che qui
diviene soggetto logico con viene intimamente e necessariamente un dato at
tributo, esprime un rapporto tra i due termini che nelle stesse condizioni,deve
essere tale costantemente, sempre vero, oggi e sempre, qui ed ovunque. Per
questa ragione il giudizio non va soggetto a m u t a zioni per tempo e perciò
si esprime sempre com'è,in tempo presente.Ogni dubbio,'ogni incertezza circa
alla concordanza perfetta dell'attributo col soggetto nondarebbeilverogiudizio;seperòilsoggetto
ri conosce l'incertezza nel suo atto giudicativo e c e r c a di uscirne per
addurre la verità , sforzandosi di eser. citare tutto il suo potere percettivo
nella scrutazione dei termini e nel loro rapporto, allora l'incertezza è
unbene,perchèciconducealverogiudizio.Per la stessa ragione, quando in un
giudizio interviene il de - -31 Considerazioni sul giudizio.
siderio o la speranza od iltimore,non siavrà ilvero giudizio. - 32
I logici classici si sono molto occupati della nega zione nei giudizii e li
hanno perciò distinti in affer mativi o positivi e negativi: affermativi sono
stati detti quei giudizii in cui si riconosce che l'attributo conviene al
soggetto, negativi quelli in cui questa convenienza non si ha.Ma evidentemente
ilogicinon hanno ammesso che è sull'oggetto della percezione o della sua
rappresentazione che primitivamente deve volgere ogni giudizio e che bisogna
guardarsi bene dal giudicare prima di avere studiato e scrutato bene
l'oggetto.Se questo sifacesse,sivedrebbelainutilità e la vacuità di una gran
parte di qnesti giudizii ne gativi,come è dimostrato anche dal fatto che alcuni
giudizii negativi possono tradursi in positivi.Quando si ammette che un dato
corpo non è solido, implici tamente si ammette che è liquido o gassoso.Per que
sta ragione i veri giudizii devono essere tutti positivi; perchè, rigorosamente
parlando, lo scienziato deve conoscere quello che una cosa è non già quello che
non è. Quando si tratta che il soggetto può avere uno di due attributi che sono
fra di loro contrari e che se gli convieneuno di essi gli sconviene neces
sariamente l'altro, si dice che allora si possono for mulare due giudizii,l'uno
negativo e l'altro positivo. Ma è facile osservare che, fatto il giudizio
positivo, è perfettamente inutile formulare il negativo ilquale con parole
diverse,per mezzo della negazione,ripete la positività del primo
giudizio. 33 Vi sono però dei casi in cui pare che il giudizio
negativo dovrebbe aver luogo. Cosi noi sappiamo che una data pianta deve
fiorire; se la guardiamo in un'e poca in cui il fiore non è apparso,dobbiamo
dire che la pianta non è fiorita; ma d'altra parte è in es.a la possibilità di
dovere fiorire; poichè in tutti i fatti che implicano uno svolgimento od una
storia non tutte le qualità che devono costituirli possono essere date belle e
compiute dal bel principio; perchè ciò escluderebbe la storia; a ciò pensando,
la pura nega . tività di questo giudizio è spuntato. Che se poi guar diamo la
pianta non fiorita come ci si presenta per cettivamente, allora non si ha
alcuna ragione a par lare di negazione. Sappiamo inoltre che la sensibilità
deve essere un attributonecessarioall'uomo;ma permalattiedelsi stema nervoso
questa funzione può perdersi, onde il direalloraquest'uomonon sensibile,potrebbepa
iere un giudizio negativo incontestabile; ma si tra scura di considerare che
quani'o l'uomo è divenuto insensibile non è pixi l'uomo compiuto, ma l'uomo che
è nel declivio della dissoluzione e della morte e che, dicendo che non è sensibile,
si riconosce che la sua Molti, parlando e scrivendo, anche di cose
scienti fiche, fanno grande uso di questi giudizii negativi ; ma
èquestaunaconsuetudinedilinguaggiochequalche volta fa anche vedere la poca
sicurezza e la povertà delle nostre cognizioni; perchè il difficilc non sta nel
dire quel che una cosa non è,ma qnelcheèdavvero. attribuzione
sarebbe la sensibilità e che questa si è perduta solo per condizioni morbose.
Nondimeno se il giudizio negativo è possibile esso può solo avere laragionediessereinquesticasididissoluzione
edi sfacelo degli organismi e delleistituzioni,quantunque anche allora,stando
alla semplice percezione, si po trebbe semplicemente giudicare quel che
l'oggetto pre senta di positivo ; m a allora il soggetto che pensa non può fare
a meno dal paragonare la primitiva gran dezza o la perfezione tipica di una
data cosa con la dissoluzione e la rovina presente, onde quel che è ora è la
negazione di quel che era prima. Può avvenire lo stesso quando si tratta di
paragonare varioggetti fra di loro. Il giudizio nella sua forma classica è
rappresentato dal soggetto, dal presente del verbo essere e dall'at tributo. M
a il soggetto per tenere avvinto a sè l'at tributo deve esercitare una certa
energia che indica il vero nesso tra il soggetto ed il suo attributo ; ora il g
i u d i z i o f o r m u l a t o i n q u e l m o d o n o n f a v e d e r e t u t
t a questa attività del soggetto,ne fa vedere,si può dire, la minima parte.
All'incontro sono i verbi attributivi i quali possono risolversi nel verbo
essere e nell'at tributo, che manifestano la vera energia, la vera at tualità
del soggetto, che costituisce il giudizio nella sua realtà vivente; perchè
fanno vedere il soggetto che si manifesta nel suo attributo e fanno vedere l'at
tributo vivificato dal soggetto.Per questa ragione il giudizio espresso nella
sua forma classica trova più - 34 - ragione di essere
applicato nelle sfere inferiori mec . caniche della natura,quelle che
manifestano una energia più povera, relativamente alla energia animale ed umana
erelativamente all'altaenergiadella vita dello spirito. Qui tutte le attività,
tutte le funzioni che si esercitano e che si esprimono con verbo sono gin dizii
viventi. Se diciamo questo corpo é rotondo l'a' tributo, quantunque inerente al
soggetto, pure è con siderato come qualche cosa d'indifferente ad esso.Qui si
tratta del giudizio nella sua primitiva forma. Ma se diciamo questa pianta
fiorisce facciamo un giudizio della seconda forma, perchè qui vediamo il
soggetto che crea il suo attributo e vive in esso Ammesso il concetto del
giudizio qui dato, risulta evidente che ogni giudizio implica una sintesi ed
una analisi insieme e nello stesso atto. L'analisi vi dà la dualità dei
termini, siano nello stesso soggetto che tra due oggetti ; e l'analisi è un
morrento necessario a l g i u d i z i o ; p o i c h è s e n z a il d u a l i s
m o g i u d i z i o n o n v i sarebbe ; m a d'altra parte cesserebbe l'atto
stesso del e per esso. Più elevata e spirituale è la natura del soggetto
e più è ricco di attività speciali e più verbi glisipos sono attribuire e più
giudizii compie, svolgendosi e vivendo.Più ilsoggetto appartiene alle sfere
della materia bruta e meno verbi gli si possono attribuire 35 più le sue
qualità possono essere espresse con la forma classica del giudizio; ma ciò non
toglie che anche giudizii di questa fatta possano eseguirsi sopra alcuni
soggetti di elevata natura. giudizio se questo non fosse insieme
sintetico; cés sando la sintesi cesserebbe anche l'analisi e viceversa. Non vi
sono perciò giudiziipuramente analiticinè pu ramente sintetici;per
conseguenzailsoggettovivente compie continuamente un'analisi ed una sintesi
delle sue qualità e lo scomparire dell'una o dell'altra ap porta la morte di
esso. Quando diciamo giudizio diciamo ancora ragione, pensiero. Però come il
giudizio consiste più nell'atto psicologico,corrispondente al nesso intimo che
vi è tra due rappresentazioni, che nella distinzione dei ter miui, quantunque i
termini siano necessari al giudizio e senza di essi giudizio non vi sarebbe,lo
stesso deve dirsi del pensiero e della ragione. Se non che queste due parole,
considerate come semplice giudizio,dicono molto meno di quel che dicono quando
sono adoperate nel senso assoluto del loro contenuto. Quando diciamo il pensiero,la
ragione si vuole intendere il sistema di tutti i nessi possibili di tutte le
rappresentazioni delle cose della natura e dello spirito insieme, sog
gettivamente ed oggettivamente considerate. Quando poi sono applicate come
semplice giudizio equivalgono ad un pensiero,una ragione. Per alcuni logici la
parola proposizione esprime la stessa cosa chela parola giudizio
eperòsiadoperano promiscuamente queste due parole. Ma se vi sono verbi
attributivi che possono ridursi a giudizio,ve ne sono però altri i quali non vi
si possono ridurre, perchè non corrispondono pienamente a quel che siè detto
dovere essere un giudizio. Quando conosciamo 36 Si comprende
però che gli avvenimenti storici pos sono essere guardati dal punto di vista
estrinseco e quasi accidentale come fanno gli storici che riprodu cono i fatti
semplicemente nel modo come sono suc cessi;ma questistessifattipossono
ancheesserestudiati scientificamente e filosoficamente, considerati cioè in
quel che essi hanno di intimo,di necessario e di co stante; allora, entrando
quei fatti nel dominio della scienza,possono divenire obbietto di
giudizii, 37 le proprietà e le speciali energie dei fatti naturali o
psichiciosociali,ecc.allora possiamo faregiudizii; perchè si hanno avvenimenti
e fatti che sono sempre gli stessi nelle stesse condizioni e si manifestano co
stantemente ad un modo; ma se narriamo le gesta di Annibale o di Alessandro,
ciascun verbo che siamo costretti ad operare non può essere il verbo di un
giudizio;perchè esprime un avvenimento singolo che non è stato prodotto che da
quel tale individuo in quelle sue particolari condizioni ed in quelle condi
zioni di tempo,di luogo,in quello stato speciale di un popolo,avvenimento che
non può più riprodursi e perciò il giudizio non si ha quando si deve espri mere
uii fenomeno che non può ripetersi frequente mente,che è avvenuto una volta e
non piùequando non si vede alcuna necessità del suo ritorno. In questo caso,più
cheillinguaggioscientificoelogico,abbiamo illinguaggio storico,ed allora,più
che ilgiudiziosi ha la proposizione:cosi è spiccata la differenza tra il
giudizio e la proposizione :questo esprime gli avve nimenti storici, quello i
nessi logici. Il soggetto che giudica é determinato dall'atto
stesso del giudizio alla vitapratica.Ogni essere vivente,dal l'animale infimo
all'uomo, si sforza, come è noto, una condotta assai elevata, presupponendo
ciascun suo atto una molteplicità di giudizii;onde si vede l'intimo rapporto
che passa tra una grande intellettualità e la vita pratica. ancora 38
sottomettere ai suoi bisogni la natura esteriore, ed ogni atto,ogni movimento
che l'animale esegue,cer cando di fuggire il malessere e di addurre a sè il
benessere,presuppone una distinzione negli oggetti concuièinrapporto.La
formicachevaincercadel frumento, riconoscendo in questo la proprietà di n u
trire,non solo compie un lavorogiudcativo ma anche un atto col quale manifesta
tale lavoro psichico.In tutti i pericoli che gli animali schivano come in tutti
i movimenti che fanno per prepararsi il nido o per andare in cerca del cibo e
per conservarsi,sipossono riconoscere gli atti che presuppongono ilgiudizio,per
quanto questo possa essere classificato tra i giudizii meccanici. I psicologi
in questo caso parlano d'istinto; ina è sempre l'istinto nel giudizio. In questo
senso gli atti degli animali equivalgono ad un linguaggio che esprime alcuni
nessi logici,quantunque sia il lin guaggioin unaformabrutaemonca.Intuttigliatti
che gli uomini fanno per raggiungere i loro fini e la loro felicità si può
riconoscere la conseguenza di un giudizio.E si comprende come l'uomo eminente
che ha una perfetta conoscenza delle cose possa avere di IV.
Formazione del concetto. Il soggetto può compiere sull'oggetto un numero grande
di giudizii secondo che pixi educato e svilup pato è ilsuo potere di
scrutazione e secondo che più complicata è la natura dell'oggetto. Cosi,
vivendo e studiando, la rappresentazione psicologica primitiva che il soggetto
ha delle cose si arricchisce di attributi e di qualità ovvero sirisolvein
attributiiquali erano primitivamente confusi in quel che dicevamo oggetto e che
costituivano tutto l'oggetto.Nondimeno durante e dopo questo processo di
scrutazione l'oggetto rimane sempre come qualche cosa in cui alcune qualità
sono distinte ed altre indistinte, potendo le qualità indi stinte ricomparire
subito distinte secondo che l'attività giudicatrice si rivolge su di esse ed
allora le distinte ritornano indistinte. Si verifica anche qui un'applicazione
speciale di quella legge psicologica secondo la quale in una data unità di
tempo il soggetto non può compiere che un lavoro limitato e,come non può
scrutare che succes. 1 39 per la prima volta sipresentino
allo studio del soggetto ; in questi casi è la legge generale che pre domina.
Dopo che si è compiuto sopra un oggetto un n u mero considerevole di giudizii
non si deve credere che allora l'oggetto sia conosciuto pienamente.Più chela
conoscenza del soggetto, si ha allora la conoscenza di un mucchio di note
coesistenti;perchè,se il giu dizio è un'alta funzione psicologica e lozica, non
è però la più alta la quale si ha invece quando tutte le note di cui l'oggetto
risulta appariscono in esso come organizzate, cioè si ha un organismo di
giu 40 sivamente un dato numero di oggetti e di rappresen tazioni,per la
stessa ragione non può compiere in una unità di tempo e nello stesso atto
psichico che un numero limitato di giudizii, quantunque succes sivamente
possano essere compiuti sopra un oggetto tuttiigiudiziidicuipuò
esseresuscettivo.Perònon si può sconoscere che le abitudini della mente possono
arrivare ad un'altezza cosi meravigliosa:da conside rare come compiuti una
serie di giudizii che non si haavutoiltempodicompierepacatamenteodicom pierli
in un breve atto : è il meccanismo che penetra nelle più elevate regioni psichiche
ed in cui si sem plifica, per mezzo della ripetizione, il processo giu dicativo
primario che è più lungo e difficile. Ma in questi casi si deve trattare di
compiere sempre giu dizii già compiuti altre volte o negli stessi oggetti od in
oggetti differenti già percepiti, non in oggetti che dizii. In
generale con la parola conoscenza si vuol dire non solo l'apprensione e la
ritenzione delle pro prietà dell'oggetto e degli oggetti in connessione fra
diloro,ma ancorailoronessiconlealtreproprietà dello stesso oggetto e con le
proprietà delle altre cose, a differenza del pensare e delragionareincuisitiene
pii conto dei nessi delle cose. Quando l'oggetto è un mucchio di proprietà,
queste aderiscono a quel centro comune che primitivamente costituiva tutto l'oggetto
indistinto in sè stesso ;e,se si ha qui il grande vantaggio che ciascuna nota e
per mezzo dell'atto giudicativo connessa all'oggetto, non si vede la ragione
del coesistere di tutte queste qualità nell'oggetto e non sivede alcuna ragione
del l'incontro delle note fra di loro.La parola mescolanin che usano i
naturalisti quando vogliono indicare il coesistereel'essere diparecchi corpi
incontattol'uno dell'altro senza perdere la loro natura corrisponde a questa
sfera dell'obbietto logico in cui si possono c o m piere molti giudizii sullo
stesso obbietto, ma senza che l'uno eserciti una preponderanza sull'altro,senza
che l'uno abbia un valore superiore all'altro,e perciò ciascun giudizio ha un
valore per sè ; e considerati tutti fra di loro costituiscono una mescolanza.
Quandoilsoggettocominciaa scorgerenellarap presentazione la proprietà più
appariscente,quella sopra tutto per la quale l'oggetto ha costantemente un
valore speciale ed un uso,ed intorno a questa nota costantemente si aggruppano,
con nessi pi'i o meno 3. - +1 intimi, altre note si principia
a scorgere nell'oggettu i primi rudimenti del sistema il quale può darsi non
solamente tra le note dello stesso oggetto, ma anche tra più oggetti, secondo
il campo su cui si esercita l'attività soggettiva. Intendere logicamente il
sistema significa fissarlo nel suo minimum primitivo ed in una forma più com
plicata e seguirlo a mano a mano sinoallaforma piiz completa in cui cessa di
essere puro sistema e di venta sistema funzionante, sistema di sistemi ed ganismo
vivo. un si OL 42 L'intendimento del sistema è stata una delle pii grandi
conquiste che ha fatto il pensiero filosofico in generale ed il pensiero logico
in particolare. Questa parola che primitivamente ha significato la molte
plicità scomposta delle cose è stata ulteriormente usata ad indicare la
molteplicità ordinata di esse. È la filosofia di Hegel che ha compreso il
sis'ema nella sua forma più alta e come non era mai stato fatto prima.
Considerando Hegel l'universo come stema, si è molto addentrato nella
comprensione delle cose. E , come il sistema occupa una gran parte cosi nel
mondo della natura come in quello dello spirito, perchè interviene in ogni
grado di essi e senza il si stema nessuna cosa potrebbe intendersi, cosi costi
tuisce anche una sfera del mondo logico, tanto che senza di esso non potrebbe
intendersi il concetto che rappresenta in sommo grado l'energia logica. Il
sistema nella sua forma primitiva trova il suo In questa forma
primitiva il sistema apparisee, anche al soggetto superiore, nel regno minerale
ed inorganico od anche in tutto ciò che l'uomo, serven dosi di materiali bruti
ed amorfi, foggia pei suoi bi sogni; poichè qui si hanno sempre forme inferiori
di sistema.Qui le qualità connesse al sistema sono co stanti finchè dura
l'oggetto ; non hanno una energia superiore a quella meccanica, fisica o del
chimismo inferiore od inorganico. Il sistema solare presenta una forma più
perfetta di sistema;perchè esso presenta una molteplicità,un centro ed una
periferia e gli uni di cui risulta sono di visi fra di loro e dal centro per
mezzo di grandi tratti di spazio e sono uniti al centro del sistema - 13
riscontro nel regno minerale; il sistema della seconda forma trova il suo
riscontro nel regno della vita ; ma anche qui si riproduce,quantunque
trasformato, il sistema della prima maniera. La forma più rudi mentale di
sistema si ha quando ilsoggetto aggruppa intimamente intorno alla nota più
importante dell'og getto altre note secondarie od intorno ad un oggetto
principale altri oggetti di secondaria importanza fra i quali passino rapporti
più o meno estrinseci. È questo il sistema quale apparisce alla soggettività
volgare la quale non sa considerare l'oggetto diver samente anche quando ha
dinanzi a sè un sistema nella sua più alta forma quale può apparire allo scien
ziato. per legge di gravitazione. Per quanto si osservi qui in la
alto grado di sistema, perchè ciascuno degli elementi non è autonomo,ma
connesso al centro,pure serva tra le parti di cui il sistema risulta una grande
estrinsechezza. Per trovare una più elevata forma di sistema dob biamo entrare
nel regno della vita e nei tessuti che co stituiscono l'organismo animale o
vegetale;ma anche qui il sistema si presenta in una grande e meravi gliosa
graduazione ; perchè se in questa sfera gli ele menti che devono intervenire
non sono, - 4'1 si os non sono, come nelle
formeprecedenti,esseriinorganici,ma entidotatidi vita e di una più o meno
grande energia interiore e non sono divisi fra di loro per mezzo di distanzepiù
o meno grandi,ma sono in qualche modo in contatto fradiloro,ilcentroperò che
deve implicare ilsi stema non è sempre determinato, anzi non vi è nei sistemi
dei tessuti vegetali o nei tessuti di un'impor tanza inferiore degli
animali,comeperesempio iltes sutograssosoedilconnettivale.Per questa ragione ė
più perfetto quel sistema in cui gli elementi istolo gici che sono dotati di
vita sono non solamente con nessi od in contatto fra di loroma anche unitiinuna
comunione funzionale e che vi sia un centro ove con vergano le attività degli
elementi e che l'energia fun zionale dal centro s'irradii anche verso la
periferia. E, come vi è una sola funzione, quantunque assai multiforme, che
circola pel centro e per le parti che, per contrapporle al centro, possiamo
chiamare peri feria, vi deve anche essere la stessa identità di co
stituzione chimica tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema.
I biologi distinguono il sistena dall'apparecchio il qnale consiste in un
complesso di organi di varia strut tura,ordinatiinmodo fradiloroda
compiere'una: funzione di complessa natura.Cosisidice apparecchio respiratorio,
uditivo, visivo, ecc. Inteso l'apparecchio in questo senso, ha una importanza
logica intermedia tra l'organo ed il sisteina, superiore a quello, infe riore a
questo. Ma un siste.na della vita non ha che una funzione speciale e non
autonoma; perchè è connesso agli altri sisteini e non può compiere questa
funzione senza l'in tervento e l'aiuto di altri sistemi. È qui che l'auto nomia
del sistema principia a venir meno ; perchè cia. scun sistema non fa che
compiere una funzione spe ciale in un sisteina che co.nprende tutti i sistemi
della vita, ciò che s'indica col no.ne di organismo. Anche dicendo sistema di
sistemi si dice sempre meno di quel che dice la parola organismu, la quale
include una grande intimità e reciprocità funzionale tra i singoli sistemi e
tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema. - Da questo punto
di vistasesideve riconoscere che il sistema circolatorio sanguigno sia un
grande si stema si deve però ammettere che non vi è nell'orga nismo un sistema
più compiuto del nervoso, sia per la elevatezza della funzione che per la
meravigliosa struttura e per la ricchezza e bellezza delle forme che esso
presenta. Nel sistema una parte può venire sottratta senza
cheilrestodies30vadainrovina;maun organo qualunque dell'organismo non può
essere tolto senza che l'organismo non perda una nota fondamentale della vita,
la quale induce una diminuzione generale della perfezione organica e funzionale
e se l'organo ha una importanza grande nell'organismo adduce la caduta o la
morte di esso. La parola fisiologismo adoperata nel senso moderno (non nel
senso antico e greco secondo il quale signi fica semplice attività naturale)
contrassegna la nota più saliente dell'organismo che è la vita animale.Però il
fisiologismo non è una sfera naturale autonoma ed indipendente dalle altre zone
inferiori naturali;in esso -46 Sipuò dire che solamente in questo
secolo,pei grandi progressi che si sono fatti negli studi sulla vita in senso
largo, si è potuta comprendere la grande importanza dell'organismo. Quando si
dice che l'uni verso èun organismosivuole indicare un fattodiuna natura assai
più complessa ed elevata che quando si dice che esso è un sistema. Quegli
elementi che nel sistema diciamo parti nell'organismo diventano organi
iqualisono,èvero,parti,manonconnessialresto più o meno estrinsecamente, come
avviene nel sistema ordinario ; e sono elementi attivi e funzionanti pel resto
dell'organismo tanto che contribuiscono grandemente a tutta l'energia
dell'organismo e viceversa, questo dà ad essi un alto significato che, fuori
dell'organismo, non avrebbero. Ilchimismo,quantunquerappresenti una
seriedi fatti inferiori a ciò che costituisceilfisiologismo,pure costituisce
parte integrante di questo, cosi nel senso scientifico come nelsenso
logico,tanto che senzachi mismo non potrebbe darsi fisiologismo; poichè non vi
è funzione fisiologica la quale non implichi una serie di complicazioni e
riduzioni chimiche. E , poichè non vi è fatto chimico che non implichi nello
stesso tempo fatti meccanici e fisici; il fisismo èparte integrale del
chimismo,cosi scientificamente come logicamente,e per conseguenza anche
dell'organismo. Ed il fisismo si trova nel fisiologismo non solo come assorbito
dal chimismo, ma anche come indipendente da questo. Cosi nell'organismo, oltre
ai fatti chimici si trovano fatti anche puramente fisici, quantunque questi si
tro vino in complicazione coi fatti chimici e fisiologici ; ma però il soggetto
può fissarlied isolarli dagli aitri fatti e considerarli come puramente fisici.
Avviene cosi nell'organismo logico quel che avviene nella natura in generale in
cui le zone inferiori sono ciascuna autonoma e per sè e nell'istesso tempo in
al troeper altro.La meccanicaela fisicarappresentano - 47 invece sono
implicate il chimismo ed il meccanismo ofisismo (adoperando anche questa parola
nel senso m o d e r n o n o n n e l s e n s o a n t i c o s e c o n d o il q u
a l e v o r r e b b e indicare semplicemente il fatto naturale. Si sa che la
fisica moderna studia solamente alcuni fatti della n a tura, come la gravità,
il calorico, la dinamica, l'elet tricità,la luce,la vibrazione dei
corpi,ecc.). alcuni gradi della natura dove si manifestano in tutto
il loro potere.Ed anche la chimica è una zona per sé della natura,ma frattanto
in questa devono ne cessariamente intervenire le sfere precedenti, mecca nica e
fisica, altrimenti non potrebbe sussistere come chimica.E similmente i fatti
più complessi della na tura quali sono la vita vegetale ed animale non po
trebbero sussistere senza le due zone precedenti ; giac chè non vi è fenomeno
vegetale ed animale senza che v'intervengano fatti fisici e chimici.
Ifisiologi,inquestiultimitempi,avendo riscon trato fatti meccanici nell'organismo
ed una certa so miglianza dell'organismo al meccanismo, si sono stu diati a
tracciare le differenze che passano tra l'orga nismo ed il meccanismo ed hanno
conchiuso che l'organismo non è un meccanismo. Per quanto giuste sieno state le
osservazioni fatte, pure avrebbero rag. giunta una più vera conoscenza
dell'organismo se avessero detto che esso implica ilmeccanismo, quan tunque il
meccanismo che si trova nell'organismo non sia come quello che si trova nei
congegni meccanici, ma trasformatoecomplicatodaifattidellavita;ondeé sempre una
sfera dell'organismo. 18 Nel campo psicologico si raggiunge la sfera
della perfezione quando l'anima èdivenuta organismo degli stati suoi, di sè
stessa e dell'oggetto, ciò che è la mente; e non si raggiunge questo punto senza
essere passati pel meccanismo psichico prima e pel chimismo poi;enondimeno
queste due formediattivitàpsichica esistono sempre nella mente come
due sfere subordi nateefondamentali per essa,tanto che quando l'or ganismo
mentale comincia a decadere, permanentemente o temporaneamente, ricomparisce il
chimismo prima e poi gradatamente il meccanismo come forme autonome
psichiche,e,quandoperunaincompiuta educazione psicologica,l'uomo non raggiunge
la mente, si arre sta al chimismo. Il meccanismo psichico pure contras segna la
vita animale e l'ultimo stadio di decadimento della mente già compiuta. La
parola organismo trova più propriamentelasua applicazione, che non la parola
sistema, quando si vuole significare in modo saliente quel che sia la fa
miglia,lasocietàoloStato.La molteplicitàdegliin dividui funzionanti di cui una
società risulta,l'essere questi individui animati da un fine comune che è lo
spiritonazionaleecheècomeilcentrodelle individua lità,la varietà di classi,di
funzioni, di aspirazioni, di attività in cui si possono scorgere tanti fini
secon dari o aspetti speciali e necessari del fine comune,onde non tutti
gl'individui partecipano all'istesso modo al raggiungimento di questo fine,
ilpermanere dello spi rito nazionale mentre gl'individui che vivono in esso e
per esso muoiono erinascono, fa diuno stato un or ganismo assai più complesso e
di un'assai più elevata natura che non l'organismo animale. E più lo stato ė
organico in questo senso e più è perfetto. Si può dire anzi che,dal primo
costituirsi dello stato sino allo stato come può essere ai giorni nostri, si
nota una tendenza a raggiungere la forma perfetta della orga nicità .
Quando si parla di organismo, sia che si tratti del l'organismo vegetale od
animale, che dell'organismo eticosihad'innanziunaltro fattopiù complessochene
rende più difficile la conoscenza ed è che l'organismo non può essere
conosciuto in sè stesso se non è messo in relazione con tutto ciò che lo
circonda. La pianta non può essere conosciuta se non si conoscono le sue relazioni
con l'aria,col terreno,col calorico, ecc.La vita animale non sipuò conoscere
pienamente se non si vedono irapporti che la legano al cibo che rappre senta il
mondo esteriore, all'atmosfera, al clima, al luogo.Sisa che l'animaleassorbisce
qualche cosadal mondo esteriore e lo rende ad esso per altri modi e per altre
vie.Anche gli organismi etici non possono sussistere senza un ambiente non solo
naturale, ma anche etico. Uno stato non può esistere senza il suo
territorio,senza un determinatoclima,senzaiprodotti delsuolo,come non pno aver
una vita spirituale propria senza assimilarsi il pensiero degli altri stati,
senza essere in rapporto con essi e senza esercitare un'azione sugli altri
stati. Il soggetto, passando dall'oggetto in cui questo è una mescolanza a
quello in cui è un sistema ed a quello in cui è un organismo, compie un lavoro
giu dicativo chimico progressivamente intenso.Conseguen temente
larappresentazione dell'oggetto sidetermina sempre più e diventa anche essa sistematica
ed or -- Perchè si
abbia il concetto logico le note di cui il concetto risulta devono essere
comprese tutte nel loro organismo, di ognuna di esse deve vedersi la neces sità
e l'importanza; poichè se di qualche nota non si sa vedere la necessità,cioè se
non si vede diessa laconnessionealtuttoedallepartioaglialtri or gani od alle
altre parti dell'oggetto,mediante un giu dizio intimo od una serie di giudizii,
non si ha più ilconcettologico;siha alloralarappresentazione logica. Sicchè la
rappresentazione logica si ha non solamente quando delle proprietà che
costituiscono l'oggetto una o parecchie sono viste nella loro con nessione
intima con esso e le altre sono viste acci dentalmente, ma anche se l'oggetto è
compreso,nella maggioranza delle sue note, nel suo sistema e nel suo organismo
e solamente una nota di esso non è vista nel sistema o nell'organismo, non si
può dire che si abbia allora la conoscenza compiuta dell'og getto;sihasempre
una conoscenza inferiore cheè ganica non solo in sè stessa, ma anche in
connes sione con altre rappresentazioni ; cosi anche a m a n o à mano la
rappresentazione bruta e puramente psico logica diventa rappresentazione
logica. Ma quando l'oggetto o la rappresentazione di esso è un sistema od un
organismo, allora siamo innanzi ad una nuova zona logica che è il concetto che
vuol dire conoscenza sistematica ed organica delle cose.Cosi si può fare una
distinzione precisa tra la rappresentazione logica ed il concetto logico.
Poichè la conoscenza sistematica ed organica del l'oggetto è l'ultima a
raggiungersi dal soggetto,s'in tende che prima di averlo pienamente raggiunto,
un certo numero di note ha dovuto essere considerato come inesplicato od
accidentale e non è stato espli cato se non dopo un ulteriore studio del
soggetto. La perfetta conoscenza di un oggetto o di un fatto può non essere
stata raggiunta dall'individuo che pensa;ma può possedersi dagli scienziati o
conser varsi negli annali della scienza ; può ancora non es sere stata
raggiunta dagli scienziati. In tutti e due questi casi si è nella sfera della
rappresentazione lo gica,non del concetto. Finora i logici non han fatto
distinzione tra r'ap presentazione e concetto ed han contrassegnato l'una e
l'altro insieme con la parola idea. Si sa che la pa rola idea è stata
largamente usata dai filosofi greci, dai filosoa del Medio-Evo e del
Rinascimento e dai filosofi moderni e contemporanei. Quantunque dallo studio
delle opere di Platone e di Aristotele appari sca che questi due grandi
filosofi abbiano bene di stinto quel che ora si dice conoscenza rappresenta
tiva dalla conoscenza perfetta delle cose,la opinione dalla verità,pure
essi,usando la parola idea, pare 32 la rappresentazione logica. In questo
caso una o pa recchie note sono considerate come inesplicabili ed accidentali,
mentre le altre sono considerate come ne cessarie ed esplicate (la nota
esplicata è la nota con nessa all'oggetto mediante l'atto giudicativo).
che non abbiano tenuto conto di questa distinzione e l'abbiano invece
adoperata per indicare indistinta mente l'una cosa e l'altra : ciò che,
trattandosi di un fatto di tanta gravità per la scienza, non può non ingenerare
confusione ed equivoci nella mente del lettore. Gli stessi equivoci hanno
sostenuto, adoperando la parola idea ifilo:ofidelMedio-Evo,delRinascimento, i
filosofi moderni e contemporanei.Non si deve però noverare tra questi l'Hegel
il quale frequen:emente nei suoi libri accenna alla differenza che deve pas
sare tra la rappresentazione e la nozione od il col cetto.E se è vero che anche
egli fa moltissimo uso della parola idea, l'adopera però per indicare il si
stema od i vari gradi del sistema dell'universo; ed in questo caso è chiaro che
la parola idea deve corri spondere al concetto. Ma,anche posteriormente
all'Hegel,ilogici, ado perando la parola idea, non han creduto necessario
dichiarare se essa deve corrispondere alla rappresen tazione od al concetto;
però nel fatto l'hanno adope rata per indicare l'una cosa e l'altra
indistintamente come si vede dai trattati di logica che circolano per le scuole
di tutte le nazioni. E vi sono anche alcuni logici che adoperano promiscuamente
le parole idea e concetto;ma non si può dire che la parola concetto che essi
usano corrisponda a quel che si è detto do vere essere il concetto, anzi,
stando a certe divisioni che essi ne fanno, si deve conchiudere che per
co: 53 cetto essi intendono la rappresentazione. Cosi essi,
tra le altre divisioni dei concetti, ne fanno una in concetti chiari ed
oscuri,distinti e confusi,completi ed incompleti ; ma un concetto che sia
oscuro o con fuso od incompleto deve essere una rappresentazione non un
concetto. Per l'uso equivoco che della parola idea si è fatto per tanti secoli
e perchè può ancora ingenerare con fusione nella mente, sembra necessario il
non doverla più adoperare,tanto più che le parole rappresentazione e
concetto,che sono anche esse due parole classiche, corrispondono benissimo a
distinguere due gradi dif ferenti di quello che i logici hanno indicato con la
parola idea. La parola concetto ha nella lingua latina ed ita liana un significato
assai profondo e complesso ;poiché esprime l'ultimo e più compiuto risultato di
un pro cesso,diuna seriediavvenimentiiqualihannoavuto il loro punto di partenza
in un fatto che è il loro presuppostonecessarioelaloropossibilità.E questi
avvenimenti devono essere legati fra di loro con legame tale di successione che
ciascuno di essi non può rappresentare che un dato grado del processo, non può
prodursi cioè prima che si sieno dati altri gradiod avvenimenti più o meno
elementari che esso pre suppone e da esso devono prodursi altri gradi più c o m
plessi i quali menano al pieno risultato del processo. Cosi si vede che la
parola concetto include w a storia e che questo processo concettuale si
riscontra non solo nella natura, nel suo insieme, ma anche in ogni grado di
essa con questo diparticolare che più ci eleviamo nelle sfere alte della
natura, quali sono la sfera della vita e dell'umanità,più questo processo. Del
Concetto lin si esegue compiutamente e, relativamente, in breve
tratto di tempo ed ogni proprietà di ciascuno entedi queste importanti zone
della natura compie insieme con le altre proprietà una storia. Quel processo
che avviene nella vita dell'animale e della pianta risponde bene a quel che è
un concetto. Si sa che la pianta ha il suo punto di partenza nel germe che può
considerarsi come il grado infimo di essa,di là dal quale non vi è nulla della
pianta. Partendo dal germe la pianta attraversa una serie di gradi,lo sviluppo
delle foglie e la trasformazione di esse nel fusto, nei rami, nei fiori e nel
frutto che racchiude il seme, ciò che segna il grado ed il limite ultimo
dell'esistenza della pianta; onde essa parte dal germe e ritorna al germe. Si
può dire che nel germe sono implicati tutti i gradi della pianta e che il grado
che segue alla trasformazione del germe lo include come un presupposto
necessario e cosi pos siamo dire del grado successivo relativamente ad es:a. È
stato dimostrato che il fiore è una trasformazione della foglia ed il frutto è
una trasformazione del fiore e perciò anche della foglia e che anche il seme
sia una foglia trasformata; onde nel frutto sitrova come un grado ad un
presupposto necessario il fiore e perciò anche la foglia, all'istesso modo che
nel fiore sitrovalapossibilitàdelfrutto.Ora lastoria com piuta della pianta si
ha quando essa attraversa tutti questi gradi e si considera uno di essi come
quello a cui mirano i gradi precedenti, cioè il frutto ed allora 56
possiamo dire di avere il vero concetto della pianta. Cosi quando diciamo
concetto diciamo anche sviluppo. Da ciò si vede che il processo del concetto
che è il concetto stesso delle cose non deve essere inteso come una
progressione aritmetica.Da un grado non sipassa all'altro mediante una aggiunzione
di qualche cosa a -- Ma gli avvenimenti di cui risulta il concetto non
solo devono essere legati fradi loro pel nesso di suc cessione ma anche pel
nesso di coesistenza; giacchè, quando il concetto è dato,esso rappresenta un
com plesso di avvenimenti o di proprietà le quali ha con quistato e conservato
nel suo processo,di cui ciascuna è necessaria, benchè non necessaria
all'istesso modo chelealtre,perl'attualitàdelconcetto;enon po trebbe mancare
senza che il concetto venisse sconvolto o degradato. Però bisogna bene
intendere questo conservare che il concetto fa delle proprietà che acquista,
nell'at traversare tutti i gradi necessari prima di attuarsi pienamente;
giacchè le proprietà di un grado non sono conservate come precisamente tali nel
grado seguente, ma sono conservate ed insieme trasformate e complicate. Cosi
nel fiore non abbiamo la somma delle qualità della foglia insieme con quelle
del fiore; ma lequalitàdellafogliasisonotrasformateinquelle del fiore, di modo
che vi si conservano ma non come puramente tali,son divenute cioè proprietà
nuove.E questa trasformazione avviene in tutti i gradi che il concetto
attraversa. qualchecosaltro il quale, dopo l'aggiunta,rimanga come
puramente tale insieme con la cosa aggiunta, di modo che l'ultimo grado possa
essere considerato comelasommadeigradiprecedentiedincuiigradi precedenti si
conservino come puramente tali. In vero iprimi filosofi hanno compreso il mondo
come una progressione quantitativa;peressilaveritàdelle cose non era che un
risultato di una moltiplicazione o di una sottrazione dell'istesso principio naturale
; e l'esplicazione dell'universo dal punto di vista m a t e matico e
quantitativo è stato quasi sempre tenuto di mira dai pensatori e dagli
scienziati.Anche aitempi nostri in cui le scienze particolari possono dare
larghi contributi per arrivare ad una concezione organica delle cose e
dell'universo, è sempre il punto di vista quantitativo che esercita le più
grandi attrattive su gli scienziati, anche quando si tratti di argomenti i più
complessi ed ipiù remoti dalla quantità pura,come la vita sociale o nazionale o
la vita organica ; si sa che anche ai giorni nostri ilcervello,come organo
supremo dellavitaorganicaementale dell'uomo,sicrede non po tersi altrimenti
intendere che considerandolo dal puuto divistaquantitativo.Ma
ènotochePlatoneedAristo teleavevanointravistochelamatematicaedilnumero sono
insufficienti per la comprensione piena delle cose e che
l'HegeleilVera,apiùriprese,hanno molto insi stito nel far vedere l'importanza
limitata della mate matica nel sistema dell'Universo e nel far vedere che il
sistema delle cose non può essere compreso che dal 58 punto
di vista qualitativo e specifico il quale però presuppone come un elemento
subordinato la mate matica, ciò che è ben diverso. a numero, quantità a
quantità, mentre la chimica va dall'identico al non identico, che è il vero
processo delle cose. Il processo chimico non esclude il processo
matematico;perchè non può esservi processo chimico senza il processo matematico
; si sa che la chimica procede aggiungendo atomi ad atomi, molecole a molecole,ciò
che èprocesso quan titativo e, mentre nella sfera della quantità, aggiun gendo
quantità a quantità, questa è semplicemente aggiunta o sovrapposta a quella la
quale,dopo questa nuova aggiunzione, nulla acquista enulla perde della sua
natura qualitativa primitiva;aggiungendo all'in contro chimicamente atomi o
molecole specifiche ad atomi ed a molecole specifiche, viene come risultato un
corpo avente proprietà nuove, tutte diverse dalle proprietà che avevano gli
elementi di cui si compone il nuovo corpo. Si sa che l'idrogeno e l'ossigeno di
cui sicompone chimicamente l'acqua hanno proprietà diverse dalle proprietà che
ha l'acqua. E ciò si può dire di tutti i corpi composti relativamente ai corpi
semplicidicuirisultano.È questoillatoimportante e meraviglioso del processo
chimico. 39 Noi crediamo che il principio chimico,la cui impor tanza era
sfuggita agli antichi e si è vista solo ai tempi moderni,possa, più del
principio matematico, esprimere bene il vero svolgimento delle cose ;giacchè la
matematica procede dall'identico all'identico, ag giungendo numero a
numero, Sembra ora assodato dalla scienza chimica che l'im mensa
varietà dei corpi composti inorganici ed orga nici sipossano tutti scomporre in
quei pochi e deter minati corpi semplici ora conosciuti.Ebbene,in qual modo con
cosi pochi corpi semplici si possono otte nere corpi innumerevoli con proprietà
differentissime gli uni dagli altri?Semplicemente mutando ledispo
sizionichimicheomolecolari;odaggiungendo sem plicemente una molecola di un
nuovo corpo a molecole costituenti prima un altro corpo o moltiplicando una
molecola specifica di un corpo composto di determi
natemolecoleosottraendonealcuneadalcune.È questo processo che ci dà corpi di
natura tanto differenti e diversi. 60 Ma se la chimica occupa un largo
campo nellana tura,dallamateriaprimaallamateriacheraggiunge la più alta forma
complicativa, alla sostanza nervosa,dap pertutto nella natura essendovi più o
meno lente e conti nue complicazioni osemplificazionichimiche,ilprincipio però
chimico,quello secondo il quale di due o più cose od elementi che si uniscono
si forma un nuovo grado ilqualeha proprietànuoveedifferentidaquelli dai quali
risulta,rimane non solamente nella natura ma anche nella storia delle cose
naturali ed in quelle dello spirito. L'animale non s'intende aggiungendo alle
note che costituiscono la pianta, la sensibilità ed ilmovimento;eseèveroche
alcune qualità della pianta si trovano nell'animale, queste hanno assunto ụną
naturą tutta nuova nell'animale, tanto che,rigo rosamente parlando,
ciò che costituisce la vita della pianta non si rinviene punto come tale
nell'animale; perchè quelle note che costituiscono la pianta sono nell'animale
elevate ad una nuova zona e vivificate e complicate e moltiplicate da una nuova
vita.La nu trizione dell'animale è tutta differente dalla nutri zione della
pianta, all'istesso modo che la struttura organica della pianta differisce
dalla struttura animale. Ciò portanecessariamenteunadifferenzanotevolenella
storia della pianta ed in quella dell'animale; sicchè tutto è nuovo
nell'animale relativamente alla pianta e si ha nell'animale una nuova e
complessa serie di proprietà tutte differentidalle proprietàvegetali.Cosi una
proprietà che si aggiunga modifica tutte le altre proprietà, come fa la sottrazione
di una data proprietà o funzione nell'animale. -61 Nella storia organica
e psicologica del regno ani male troviamo dominare lo stesso principio;
giacche, se vi è una vasta scala di specie animali,in ciascuna specie la
modificazione di una data proprietà organica e psichica,relativamente ad altre
specie,adduce con sė una corrispondente trasformazione di tutte le altre
proprietà organiche,funzionali e psichiche.Cosi laforma esteriore degli animali
non è indifferente al loro grado di energia funzionale e di energia psichica;
la sensi bilità è varia secondo le varie forme organiche,,se condo le varie
forme di sistema nervoso ; i movimenti sono vari secondo che è varia la
sensibilità ed è vario il sistema scheletrico ed il sistema muscolare.
Una Inoltre l'individuo come tale ha attribuzioni che non
--62-- varietà organica dunque non si ha senza avere unà varietà di tutte le
altre proprietà e funzioni dell'ani male; cosi di ogni proprietà animale. Si sa
inoltre che alla vita di uno stato devono con correretantecondizioni,tantifattori;
ma c'inganniamo se crediamo che ciascuna condizione non eserciti se condo il
suo grado alcuna azione determinante su tutte le altre condizioni e perciò su
tutta la vita nazionale. L a ricchezza non è nè il solo fine né il solo fattore
di una nazione;ma uno statoricco può avere un gran mezzo per creare condizioni
necessarie ad elevare lo spirito di una nazione in tutti i suoi aspetti, a far
felice la fa miglia e gl'individui; e d'altra parte uno spirito n a zionale
elevato trova molte vie aperte all'acquisto della ricchezza.I grandi individui
contribuiscono a far grande una nazione e d'altra parte sono le grandi nazioni
che fanno le grandi individualità. Un'alta vita reli giosa non può intendersi e
compiersi che nelle grandi nazioni e d'altra parte lo spirito religioso dà un
ele vato contenuto all'arte,allaletteratura,spingegliuo mini alle
investigazioni scientifiche e filosofiche, può dare indirizzi nuovi alla vita
politica, commerciale, economica dei popoli, può dare un'impronta speciale a
quel che sidicespiritonazionale.Ciascunfattoredella vita sociale dunque, mentre
è modificato dagli altri fattori, dal loro grado di energia o di decadimento,
contribuisce a modificare,svolgendosi,quale che sia il suo grado, gli altri
fattori. 63 ha come faciente parte della famiglia in cui acquista
nuove e più alte qualità,onde,senza il sacrifizio e senza l'abnegazione
dell'individuo,lafamiglianon può vivere una vita rigogliosa. Cosi le
attribuzioni della famiglia sono differenti da quelle dello stato, quan tunque
senza la famiglia lo stato non potrebbe essere, essendo questo costituito di
una moltitudine di fa miglie e perciò d'individui, i quali nello stato acqui
stano nuove e più alte qualità; onde nello stato le famiglie e gl'individui non
sono come sono fuori dello stato, Il principio chimico domina cosi la vita
della n a tura e dello spirito,non ilprincipio matematico, quan tunque la
chimica implichi e presupponga lamatema tica senza la quale né il chimismo, nè
la natura, nè lo spirito stesso potrebbero essere.Onde,sepuò dirsi che il
chimismo è lo schema dell'organismo delle cose, la matematica può dare lo
schema quantitativo del chimismo e per conseguenzadellecose;ma perquesto è più
lontana che non la chimica dalla realtà che non può intendere e che è sopra
tutto qualitativa; ed è la chimica che fa intendere il concetto e che costi
tuisce la seconda zona logica e che è parte integrante della vita del concetto
più che la quantità la quale può corrispondere alla prima zona logica.
S'intende che qui si parla del chimismo logico, non della chi mica come sfera
della natura, la quale ha anche essa il suo concetto, come qui si parla della
matematica come principio logico;non della matematica come sfera
speciale del pensiero e delle cose; poichè come tale ha anche essa il suo
concetto. Sicché non si nega che la matematica possa dare un certo schema della
realtà e che perciò non sia una certa logica ; si afferma solamente che essa ci
dà uno schema assai povero della realtà, che non ce la fa intendere. In vero la
logica classica non è stata che la logica matematica e se vi sono oggi dei
logici i quali, coltivando la logica intesa matematicamente, credono di
coltivare una nuova logica,essi s'ingannano, quantunque però diano nuovi
svolgimenti alla vec chialogicalaquale,se nonpuòesserelalogicadella vita e
dello spirito,può essere però la logica delle sfere inferiori della
natura,della meccanica, in tutti i suoi gradi, e della fisica intesa come grado
della natura in generale. Si sa che tutti i fatti meccanici e fisici possono
ridursi a formole matematiche, quan tunque allora non saranno la meccanica e la
fisica che ci guadagneranno, le quali sono sfere molto più con crete e ricche
che le matematiche pure; onde,ridotti i f e n o m e n i m' e c c a n i c i e f
i s i c i a s c h e m i m a t e m a t i c i , e s s i perdono la loro
concretezza, perchè sono semplificati (le cose non potendo essere intesa che
dal punto di vista semplificativo ecomplicativoinsieme;onde,s'in tende la
meccanica e la fisica non solamente quando sono intese matematicamente, ma
quando sono intese matematicamente ed insieme meccanicamente e fisica mente; in
quel caso guadagna però la matematica la quale estende i suoi confini).
64 6.3 I fatti però meccanici e fisici dell'organismo non sono cosi
facilmente riducibili a schemi matematici; non avendosi allora il meccanismo ed
il fisismo puro od inferiore, ma ilmeccanismo ed ilfisismo come gradi
dell'organismo,onde quei fatti sono allora determi nati da cause chimiche ed
insieme fisiologiche e per ciò sono di una provenienza oscurissima e complica
tissima; perchè il fatto meccanico o fisico può essere effetto di moltissime e
svariate condizioni organiche e sono nello stesso tempo effetto e causa di
altri fe nomeniorganici.Cosisipuòdiredei fenomeni psi chici e sociali; onde,
per quanti sforzi la matematica faccia per entrare in questo regno, essa non
potrà impadronirsene mai, potrà però calcolare matematica mente i fenomeni
estrinseci di essi.Ciò conferma sem pre più il principio che non può essere la
matema tica lo schema della realtà; ma è il chimismo. Aristotele, il primo
grande logico dell'antichità e quasi il fondatore della logica, le cui dottrine
per 22 secoli hanno doininato e dominano ancora nelle scuole, perché non si
possedeva ai suoi tempi una conoscenza profonda della natura e dello spirito
come si possiede ora, non poteva darci che la logica quantitativa che si può
considerare come il grado primitivo e più ele È lo studio profondo dei
fenomeni biologici come in gran parte è stato compiuto ai nostri tempi, che può
farci vedere la grande importanza del processo logico chimico per raggiungere
il vero concetto delle cose;e ciò non era possibile prima dei nostri
tempi. mentare della logica. L'Hegel poi può dirsi il fonda tore
della nuova logica più per avere fatto vedere l'insufficienza della logica
classica ad intendere la realtà anzichè per averci dato compiuta la nuova lo
gica;e ciò perchè anche ai suoi tempi gli studi na turali e biologici non
avevano raggiunto quell'alto grado cheraggiunseroposteriormente.Nondimeno l'ap
parire della logica di Hegel segna nella storia un'e poca grandiosa;poichè,per
mezzo di essa sono state poste le basi e si sono fatti i primi passi della lo.
gica reale come può aversi e svolgersi ai nostri tempi. Inteso il concetto come
l'ultimo risultato del pro cesso storico e chimico delle cose non ha più quel
l'importanza che ha nella logica classica il capitolo della comprensione e
della estensione dei concetti, in cui il concetto è inteso solo quantitativamente.
Bisogna distinguere il concetto che sta per co.n piersi dal concetto compiuto ;
quello può essere chia mato concezione o concepimento che indica appunto l'atto
del compiersi del concetto. Ora nell'atto che il concetto si forma attraversa
vari gradi di cui cia scuno, se è considerato come arrestato nel suo c a m
mino,può essereconsiderato come unconcettopersė; e si considera come grado di
un altro concetto se as sume qualità e forme nuove di esistenza tanto che
puòcorrispondere adun concettopiù compiutodiesso; ed in questo caso esso fa
parte della concezione o del concepimento del nuovo concetto ; e ciò può dirsi
di ogni concetto. ĜO ! Considerando da questo punto di vista
l'universo, si scorge facilmente che ogni sfera,ogni grado di esso è insieme
concepimento e concetto, cioè è assorbito e complicato chimicamente in un
concetto più alto e nello stesso tempo può essere considerato come un con cetto
in sè. Questo duplice fatto forma dell'universo un vasto sistema e nell'istesso
tempo un grandioso organismo;perchè ciascun concetto è in sè e per sè ed
insieme in altro e per altro. conce -67 Questo principio si osserva con
evidenza in tutte le zone delle mondo della natura. I minerali ed i feno meni
fisici sono insieme in sè e per sè in una deter minata zona della natura
(concetti);ma essi sono per la chimica relativamente alla quale sono
pimento.Cosi la chimica rappresenta anche una de terminata zona del mondo
naturale ;ma, mentre è in sè, e perciò è un concetto,è anche concezione ;perchè
la chimica è per la vita della pianta e dell'animale e
perciò,mediatamente,anche ilminerale èperlavita. Nel regno della vita questo
processo diconcepimento continua ; perchè,quando è data la forma infima della
vita vegetale, si passa da forme vegetali semplici a forme gradatamente e
successivamente più complesse sino all'ultima forma vegetale che potrà dirsi la
più compiuta.In questo processo quei gradi che inatura listi dicono specie
rappresentano appunto la conce zione della pianta;per cui ciascuna specie
èinsieme concetto e grado del concetto superiore.Lo stesso può dirsi
dellapiantarelativamenteall'animaleedelmondo della vita animale in
generale. Quando siconsideral'uomonell'ordinedellanatura sembra
cheinluisiabbial'ultimorisultatodellastoria e del processo naturale ; ma
d'altra parte l'uomo non è per sè solamente ; perchè egli è quel che è per la
famiglia e per lo spirito nazionale che egli contribuisce a formare ed in cui
vive e si muove,all'istesso modo che lo spirito nazionale è per Dio che è il
puro per fetto spirito in cui perciò si ha il vero concetto ed a cui tutta la
concezione dell'universo aspira; perchè Dio non è più per altro ma per sè
ovvero ė inaltro per sè ; e tutta la vita ed il movimento della natura e dello
spirito terreno non sono che un processo di ele vazione a lui e fuori di lui
non sarebbero e non po trebbero esplicarsi. Cosi vi è un solo concetto e
l'universo è una serie di concepimenti che sono relativamente concetti.E questi
concetti costituiscono un processo di compli cazione che è chiuso tra due
limiti estremi, il massimo ed il minimo. Il limite minimo si ha nell'elemento
primo della naturaeperciò del pensiero,diqna dal quale vi è il sistema e
l'organismo dei concetti, di là dal quale vi è il nulla della natura e del pen
siero. Come tale questo limite minimo dei concetti può essere concepimento od
elemento del concetto che segue ma non concetto.Il limite massimo ècostituito
dal concetto assoluto, di là dal quale vi ha del pari il nulla e di quà dal
quale vi è tutto ilsistema e l'or ganismo dei concetti. Ciò posto i concetti
sono nella natura e nello spi Le cose sono cosi in se
stesse,obbiettivamente, con cezione e concetti ; ed il soggetto, volendo
conoscerle, deve seguire lo sviluppo di ciascuna di esse, dal suo primo ed
infimo grado sino alla sua più compiuta realtà;deve seguire il processo del
formarsi e del trasformarsi delle proprietà costituenti l'oggetto che
siconcepiscesinoalsuoultimostato,come avviene degli enti morti o sino al
massimo grado della sua energia, come avviene degli esseri viventi o degli or
ganismi etici.Quandoilsoggettoavràcompiutoquesto lavoro psicologico insieme
elogico di concezione in modo che questo processo corrisponda alprocesso
obbiettivo rito,eperciònelpensiero,dispostiinmodo seriale; onde ciascun
concetto che è tra i limiti ha un prima ed un dopo ed è concetto del
concepimento 'precedente e concepimento del concetto seguente.Non sipuò dire
però che il concetto che precede sia compreso come tale e nel senso della
logica classica e con tutti i concetti precedenti dal concetto seguente ;
poichè il chimismo che domina il processo dei concetti non a m mette
lacomprensionenelsensoclassico,cheè conside ratain senso puramente
quantitativo. Del pari non si può dire che ciascun concetto si estenda in altri
concetti; perchè esso è chimicamente assorbito e trasformato dal concetto che
segue immediatamente e non si può tro vare come semplicemente tale in altri
concetti'; onde la estensione secondo la logica dei secoli non risponde al vero
; perchè in questa i concetti sono estrinseci gliuniagli
altri,percuinonvièorganismodiconcetti. 69 70 d e l l a c o s a , e
g l i a l l o r a a v r à r a g g i u n t o il c o n c e t t o d i e s s a :
ciò che può dirsi cosi dei singoli concetti o di un si stema di concetti che
del concetto assoluto. L’economia nella vita dell’animale e
dell’uomo. L’ attività economica è una nota propria e
fondamentale della vita animale ed umana. Essa è rappresentata prima
dalla fisiologia, cioè dalle funzioni dell’organismo. Ogni funzione
or- ganica, studiata analiticamente, dimostra una dualità, cioè due
termini: l’organismo vivente che rappresenta l’unità degli or- gani
funzionanti; e il mondo a lui esteriore con cui è in con- tinuo rapporto
(alimento, ossigeno dell’aria, acqua, calore, luce, ecc.). L’ uno dei due
termini scisso dall’ altro annullerebbe in- sieme con la vita l’attività
economica; e l’organismo dovrebbe disfarsi. La vita,
sostenuta da organi di elevata struttura e costi- tuzione chimica,
implica l’ unità degli elementi istologici, dei tessuti, dei sistemi e
degli organi che la rappresentano. Ma la funzione di ciascun organo e
sistema, mentre ha un fine che si esercita o dentro l’organismo, in aiuto
ad altre funzioni, o fuori dell’organismo, contro il mondo esteriore per
dominarlo e farlo servire ai suoi bisogni, deve implicare una continua
perdita materiale degli organi funzionanti, che si riduce
contempora- neamente in una degradazione chimica di sostanze
componenti i tessuti e gli organi, dallo stato di elevata natura a quello
di più elementare costituzione molecolare. Nello stesso tempo deve
associarsi ad uno sviluppo di forze fisiche (forza meccanica, vibrazioni
molecolari, calorico, elettricità). In tal modo i due termini
debbono entrare in un rapporto molto intimo e continuo fra di loro ;
giacché il termine esterno naturale, rappresentato dall’alimento,
dall’ossigeno dell’aria, dal- l’acqua, deve diventare interno. Infatti
l’alimento da sostanza esterna e morta, quantunque di elevata costituzione
chimica. ti r I ^
I giacché è stata vivente, come la carne, le uova, il latte, le
erbe, frutta e semi di varie piante, modificati esternamente e poi
in- geriti dall’animale e dall’uomo, vengono ancora modificati, ri-
dotti in sostanze relativamente semplici. Passate poi nel circolo
sanguigno vengono ancora modificate dalla presenza dell’ ossi- geno che i
globuli rossi del sangue hanno fissato per nutrire i tessuti in contatto
dei quali sono messi e dai quali si compie l’assimilazione. In tal modo
il cibo raggiunge la sua massima elevcizione; da termine esterno e morto
diventa interno e vivo. Ma qui comincia la scissura interiore, onde il
termine interno diventa per mezzo della funzione anche esso morto in
alcuni suoi elementi e le sostanze che lo costituiscono, decadute e
sem- plificate, vengono così restituite al mondo esterno, per mezzo
dei reni, della cute, del polmone e ancora modificate dalle glan- dolo di
speciale segrezione; all’ istesso modo che l’energia che costituiva il
termine interiore si risolve in forze meccaniche e fisiche le quali si
spengono entro l’organismo stesso e nel mondo esteriore, anche per mezzo
del lavoro. Il termine interiore che da prima è un organismo
vivente di elevata struttura, perchè è e sussiste, si può chiamare
bene, secondo lo scrittore del j)rimo capitolo della Genesi, per
cui è bene tutto ciò che è creato da Dio ; ed il termine
esteriore, perchè anche esso è e sussiste, si deve anche esso
chiamare bene; ma, poiché deve essere degradato come tale, e
trasfor- % maio e ridotto nei suoi elementi; diviene
male. E male il deca- dere, lo scomporsi, il menomarsi degli enti. Ma,
poiché dai suoi elementi di nuovo si ricompone, si organizza ed alimenta
la vita, diviene di nuovo bene; ma bene interno, come il bene in-
terno si trasforma in male interno airorganismo da prima, poi in male
esterno; perchè nei suoi elementi primi si trasforma in male esterno,
cioè in elementi inorganici senza una finalità su- periore. Ma di nuovo
può divenire bene esterno, perchè per mezzo di essi si possono
ricostituire i beni esterni più elevati (piante, animali, ecc.). Il bene
cosi si trasforma in male e questo in bene. L'antico detto corruptio
unius gene ratio alterius espri- me un principio che domina il regno
della vita vegetale ed animale, giacché anche la pianta si trova in una
posizione dua- listica tra sè e il mondo a lei esteriore (il terreno,
Tarla, la luce) ed è perciò in lotta con esso che tende a
conquistare, come questo è in lotta con la pianta. L'animale è in
una lotta più intensa col suo termine esteriore, la natura, come
questa % è in lotta contro Tanimale. E questo lo schema
più semplice della vita vegetale ed animale. Distinta cosi T
attività economica in due termini e fatta Tanalisi di questi, apparisce
più chiaro il concetto generico di economia. Quantunque questa parola sia
stata adoperata la prima volta in Grecia ed intesa come legge,
amministrazione della casa, implica anche il concetto di soddisfazione,
di godimento, che gli animali e noi abbiamo di qualche cosa che
dalTesterno penetri nel nostro organismo. Coinvolge anche il concetto
d'in- tegramento, conservazione, elevazione di qualche cosa di ma-
teriale per mezzo del lavoro delTuomo o per opera della na- tura stessa,
ma che rimane sempre nel mondo esterno alTuomo e di cui questi può
cercare di godere. Importa notare la differenza tra Teconomia della
vita ani- male e quella delTuomo, che implica insieme con la vita
orga- nica 0 animale, qualche cosa di superiore o mentale. Benché
una grande differenza vi sia anche nel regno stesso delTani- malità,
nelle sue varie specie, dalTaniraale infimo a quello della più complessa
organizzazione, giacché dalla prima alla seconda specie il processo della
vita si va sempre più complicando e specificando, alT istesso modo che si
complica ed aumenta di volume Torganisrao nei suoi tessuti e nei suoi
organi ; onde si ha un'organizzazione più vasta e complessa, pure in
quest'ara- pia graduazione di animali lo schema dell* economia della
vita è identico in tutti; benché varia sia la quantità dell'
alimento ingerito ed assimilato e poi consumato e ridotto ad
elementi semplici, come corrispondentemente varia sia la somma
delle forze fisiche esplicate. L'animale infatti, a qualunque
genere o specie appartenga, non vive che monotonamente, sempre nel
presente, benché va- ria sia la sua attività esplicata per vivere,
secondo la natura della specie a cui appartiene, e vario sia l'ambiente
naturale e climatico in cui vive. Esso non ha cura che per conservarsi
e per fuggire i pericoli che lo minacciano; cerca la tana, il cibo,
e l’acqua per dissetarsi ; alleva con molta cura i suoi nati e provvede
per il loro alimento; li protegge contro le insidie degli altri animali
sino a che essi non possano vivere da sè. Non provvede pel suo avvenire
e, durante la vita, non è suscettivo, a causa delle limitate sue
condizioni psicologiche, a migliorare la sua posizione economica, come è
avvenuto pel suo passato in cui si è riprodotto sempre identicamente lo
stesso tipo e la forma del suo organismo. Dall’animale all’
uomo si fa un passo gigantesco; giacché questi, a causa della superiorità
della struttura del suo organi- smo e della sua intelligenza, si volge a
studiare continuamente sè e il mondo esteriore. Avendo il suo organismo
molteplici bi- sogni, egli si sforza di soddisfarli per mezzo delle
sostanze che trova nel mondo esterno; e, a differenza dell’animale,
prevede i suoi bisogni avvenire e provvede come può affinchè nulla
abbia a mancargli pel futuro. E, se tende da prima a sfruttare la natura,
come fa l’ animale, di poi, apprendendo da essa stessa i suoi metodi, si
sforza di produrre ciò di cui ha bisogno per vivere (piante ed animali
speciali). Si apn; cosi all’ uomo il campo della produzione dei
beni naturali di cui ha bisogno, e % che può ottenere
per mezzo deir ingegno e del lavoro. E una lotta che egli deve sostenere
contro la natura, che ha avuto principio col suo primo apparire sulla
terra, che è andata sem- pre crescendo ed intensificandosi lungo il
processo della storia e con lo sviluppo della civiltà; e che non avrà mai
fine, finché dura la vita umana. La materia economica non può perciò
essere intesa fuori della sua storia, anzi essa fa una sola cosa con la
storia del- r umanità ; giacché questa ha la sua base nell' economia
e senza di questa non potrebbe essere; all' istesso modo che nes-
sun aspetto 0 grado del mondo naturale ed umano sfugge alla storia e
fuori di questa non potrebbe comprendersi. La scienza economica dunque
deve trattarsi storicamente. È questo un ten- tativo che può farsi solo
oggi, in tempo di un grande sviluppo dell'esperienza e della rifiessione
umana, in cui il pensatore acqui- sta coscienza di sé, dei propri bisogni
fisiologici e mentali e del mondo esterno naturale, in ciò che può
soddisfare i detti bisogni. V f Questa materia cosi deve essere studiata
nei suoi due ter- mini, il soggetto e l'oggetto, economici,
ciascuno nella sua storia e nel suo rapporto con l'altro, senza del quale
nessuno dei due termini potrebbe sussistere sotto l'aspetto economico; e
questo rapporto é tutto tra i due termini, per lo quale questi si
uni- scono e dividono continuamente. È la storia deU’umanità e della
natura insieme nel loro aspetto drammatico. Nel trattare i
principii naturali di economia bisogna trarre insegnamento prima dello
studio della storia deH'umanità. Ma nella storia fatta dagli storici più
valorosi e rinomati l'aspetto economico non è messo gran fatto in
evidenza; come se per loro » * non avesse avuto che un' importanza
trascurabile; non veniva perciò compreso e considerato nella sua
obbiettività e non si sognava che un giorno i posteri sarebbero stati
curiosi di cono- scere, nei suoi particolari, il metodo e la materia
dell' attività economica dei popoli di cui si narrava la storia. Si
credeva che il cibo e gli altri beni di cui l'umanità ha bisogno
sarebbero stati sempre abbondanti e perciò non meritava che gli
uomini se ne preoccupassero. Del resto anche gli storici più recenti
si sono cosi condotti verso l’aspetto economico della popola- zione. Pure
in ogni scrittore non possiamo non trovare qualche accenno alla vita
economica delle nazioni di cui si narra la storia 0, se non alla economia
normale, aireconomia patologica, come la carestia, la pestilenza, i
risultati della guerra, le emigrazioni e le immigrazioni, i perturbamenti
della natura fatti per opera della mano deiruomo, che, facendo vedere la
deviazione del processo economico normale e naturale nella storia, fanno
meglio vedere le necessità di questo. Avviene così nel campo economico
quel che avviene nel regno della vita, per cui le malattie che sono
la deviazione funzionale degli organi dal processo tipico normale
della vita, che apportano anche una corrispondente alterazione chimica,
istologica ed anatomica degli organi, hanno dato non pochi contributi
alla conoscenza delle funzioni normali della vita. Vi sono poi le
grandi crisi economiche nazionali o univer- sali, come quella che ora si
attraversa sull’ incarimento del costo della vita, un fenomeno nuovo e
gigantesco che non ha avuto l’eguale nella storia, la cui origine oscura
ci obbliga a riflettere e a meditare per risolvere Tenigma. Vi sono
inoltre gli errori della storia che il popolo stesso compie per suo
prò- prio istinto o che compiono gli uomini di governo, errori di
cui è piena la storia e che, con le loro conseguenze patologiche,
fanno meglio comprendere il processo logico e progressivo della storia
come avrebbe dovuto essere. Cosi è stato disastroso per la vita dei
popoli il non avere compreso la natura propria della moneta che si è
voluta sempre di metallo prezioso, per cui alla scarsezza di questa si
debbono alcune rivoluzioni ed un arresto nello sviluppo del lavoro e
della produzione dei beni e r arricchirsi di alcune nazioni che ne hanno
molta a danno di altre che ne hanno poca. Ma il presente stato economico
del mondo in cui l’ industrialismo ha raggiunto un grado di vitalità
• esuberante da per tutto ed attira l’energia e V operosità
del maggior numero degli uomini i quali affluiscono nelle industrie
e nelle città disertando i campi e i villaggi, ci spinge a stu- diare il
presente fenomeno e, mettendolo in relazione col pas- sato economico, ci
apre la via ad intendere la storia econo- mica deir umanità. Ma la
storia economica che fa una sola cosa con la storia * politica,
artistica ed intellettuale delle nazioni, nell’ aggregarsi o disgregarsi
continuo di queste, è certo un grande e cospicuo periodo del processo
logico della storia del mondo ed è anche quello più memorabile: quello
cioè che, per essere stato esperi- mentato primitivamente da alcuni
uomini, riconosciuto e pro- vato da altri, aggruppati da prima in piccole
tribù o società, e poi esteso, ad altri, è trasmesso a mano a mano ai
posteri col contatto degli uomini, attraverso il loro nascere, crescere
e morire. E l’attività economica che è stata sempre viva nella sto-
ria, quantunque abbia operato in modo inconscio agli uomini, negli ultimi
due secoli ha raggiunto uno sviluppo considerevole insieme con lo
sviluppo industriale e con l’estendersi del com- mercio nel mondo. Questa
da prima si è sviluppata istintiva- mente ed impulsivamente per mezzo
dell' ingegno dell’ uomo che ha saputo trovare ed aprire le vie; poi è
venuta la scienza dell' economia industriale e commerciale, che ha
riconosciuto i fatti compiuti e ne ha formulato e cercato di spiegare le
leggi. Sicché non è stata la scienza economica che ha destato
l’atti- vità economica, bensì questa ha dato origine a quella.
Si può rintracciare dunque, attraverso la storia intellettuale,
politica e pratica dell’umanità, una storia economica. Ma la sto- ria
politica rappresenta il processo degli avvenimenti umani di cui si
conserva memoria; si è perciò innanzi ad un’epoca molto avanzata dalla
storia, quella in cui l’uomo ha cominciato ad acquistare
consapevolezza della sua superiorità sulla natura e della possibilità del
suo dominio sugli uomini inferiori per in- gegno ed attività pratica. Ma
la storia memorabile e memorata presuppone la preistoria, che è di là
dalla memoria degli uo- mini e che nondimeno ha dovuto preesistere alla
storia. Come nessun aspetto della civiltà e delle istituzioni umane sfugge
alla preistoria, quale il linguaggio, la politica, l’arte, la religione,
ecc., così avviene dell’economia e della scienza economica. E la
sto- ria d’altra parte si connette alla preistoria di cui è
continua- zione e complicazione, onde si può dire che nella preistoria
si trovano i principii economici più semplici ed elementari che
nella storia progressivamente si sono andati complicando ; ma che sono
sempre vivi ed attivi nella storia ulteriore: ed appariscono nella loro
semplicità nelle grandi crisi di economia so- ciale, quando si sente il
bisogno di tornare alla vita naturale e primitiva. Non bisogna però
ammettere una barriera tra la preistoria e la storia. Ciò che fu il
principio è la base odierna deir edificio economico.
Quantunque la preistoria pura e primitiva sfugga alla no- stra
osservazione, pure, come è avvenuto pel linguaggio, stru- mento
fondamentale deirintelligenza e deirattività pratica umana e del
progresso scientifico, si può rintracciarla prendendo le mosse
daireconomia naturale che può avere rappresentato essa sola neirepoca
preistorica tutta T umanità, che di poi divenne storica, economia che
anche oggi deve essere considerata come il sostegno deireconomia storica,
industriale odierna, e senza la quale questa è destinata a fallire. In
questo senso, guidati dalla logica della realtà delle cose e dalla
psicologia speculativa, si può rintracciare il processo preistorico dell’
economia. Il punto di partenza è qui Teconomia fisiologica, comune da
prima al- Tanimale e airuomo, giacché ambidue sono soggetti
economici che hanno la natura come termine a loro opposto. Ma,
mentre, come si è detto, la soggettività animale ha un arresto nel
suo sviluppo, la soggettività umana all’ incontro prosegue senza
li- miti, cercando di conoscere la natura ed adattarla alla soddi-
stazione dei suoi bisogni, che con la sua intelligenza sa scoprire in sé,
nel suo organismo e nella sua mente, nuove lacune da colmare. A
differenza però deiranimale in cui Torganismo si svi- luppa rapidamente,
onde breve è per esso il periodo in cui ha bisogno delle cure dei
genitori, perchè ben presto può fare uso delle sue forze e rendersi
indipendente, onde vive guidato dai suoi istinti, l'uomo all’ incontro ha
bisogno di un certo numero di anni per potere da sé provvedersi del cibo
e colmare tutti i suoi bisogni. Ben presto morrebbe se, appena nato, non
avesse le cure materne, ed anche se venisse abbandonato a sé stesso
neH'infanzia e neiradolescenza. Molte altre cure poi richiede, ed anche
un certo numero d’anni, se egli vuole educarsi, eser- citare un facile
mestiere od una difficile professione; e volesse elevarsi nella sfera
dell’ alta cultura, dell’arte o della scienza. In questo lungo periodo
della sua vita il giovanetto è allevato e educato dalla famiglia, o dalle
istituzioni di beneficenza, dal- r insegnamento pubblico e dalla
religione. In tutto questo periodo dell’infanzia e della
fanciullezza il dualismo è rappresentato dal fanciullo, ente passivo
nella sua attività, e dalle istituzioni familiari e sociali, che sono il
termine veramente attivo, il quale, servendosi di elementi c vie
naturali, eleva e conduce il bambino all’attività pratica, affinchè
possa col tempo provvedere ai suoi bisogni. Il giovanetto,
diventato adulto, deve da sè solo risolvere il problema dell’esistenza,
per quanto possa essere agevolato dalle istituzioni ; allora egli
si trova d’innanzi alla natura alla quale domanda i mezzi di vita 0
di conservazione. Questi sono rappresentati dal ricovero e dall’alimento
che è fornito dagli animali e dai frutti e semi di piante; e vegetali di
una elevata costituzione chimica. Qui co- mincia la lotta tra 1’ uomo e
la natura. Questa è da prima prov- vida madre per lui, onde gli concede
facilmente ciò di cui ha bisogno, ma non senza che egli taccia qualche
sforzo, qualche fatica, andando in cerca deU’alimento, sottomettendosi
anche a gravi pericoli e spesso rimanendo vittima delle intemperie
o degli animali che egli ha cercato di abbattere e conquistare.
E questa la condizione dell’ uomo primitivo che non ha a- vuto dal
passato insegnamenti e tradizioni; per cui l’esperienza e l’osservazione
debbono cominciare da lui che è fornito di un organismo che si presta ad
una grande varietà di lavori; e di intelligenza che gli è guida all’
attività pratica, allo studio ed alla conoscenza della natura della quale
cosi può meglio ser- virsi; e conserva memoria delle sue conquiste,
passate e pre- senti. Ma la natura, dà all’ uomo i mezzi di vita, purché
li cer- chi, non glieli assicura per sempre. Comincia cosi l’attività
per la ricerca del cibo e comincia ancora un’epoca di
disgregamento per la ricerca dei luoghi dove la natura fosso più ferace di
ve- g'etabili e di animali, atti a far vivere l’uomo. In quest’
epoca, certamente non breve, si ha un grande disgregamento del ge-
nere umano, in tutta la superficie della terra, per quei luoghi dove la
vita fosse possibile; giacché in quest’epoca in cui il la- voro collettivo
non era ancora principiato, l’uomo voleva essere solo con la sua famiglia
a conquistare e a godersi la preda. D altra parte 1’ uomo in lotta
con la natura primitiva, che si slanciava ad imprese difficili ed audaci,
in tempi in cui l’aria sulla superficie della terra era buona ed in cui
ralimentazione era prevalentemente carnea, dovea dare al suo organismo
uno sviluppo ed una resistenza ammirevole, che lo rendeva atto a
trionfare dei più grandi ostacoli che nel suo cammino potesse incontrare.
Grande era anche la potenza generativa, per cui gli uomini si
moltiplicavano facilmente. Quel genere di vita tutto naturale dava
un’educazione anche naturale all’ uomo, che gli dava la massima
resistenza all’ impresa e lo rendeva refrattario agli stimoli morbosi
sino alla vecchiezza, se fosse riuscito a su- perare il periodo della
fanciullezza, flrano i tempi di Ercole. In tutto questo lungo periodo
egli cerca, con l’ ingegno che la vita nomade e mal sicura dell’ avvenire
rendono più acuto, a modificare minerali e legna per costruire strumenti
che rendes- sero più facile il conseguimento del fine di vivere ; a
rendere alcuni animali adatti ad essere guidati, a viaggiare, a
portare masserizie ed a ottenere la prole di essi, anche per
potersene alimentare. Finché si é in questo stato di vita
nomade ed incerta in cui non si può essere sicuri della vita avvenire ed
in cui gli uomini tendono continuamente a dividersi, le conquiste
iiella conoscenza dei metodi per servirsi della natura vanno perdute
e non é necessario il linguaggio che é possibile quando é data una certa
associazione di uomini i quali, a intendersi scambie- volmente,
conservino la tradizione delle precedenti attività li- mane che agevolano
la vita. Tutto questo lungo periodo della vita umana sulla terra, di una
larga estensione sulla medesima, può essere indicato col nome di
'preistoria dell’ umanità. La quale bisogna intendere non come ristretta
in un solo angolo della superfìcie della terra, ma come diffusa da per
tutto, e dove la vita dell’ uomo fosse possibile, e rappresenta la
fami- glia da per tutto disgregata in famiglie, di cui ciascuna
aspirerà più tardi ad entrare nella storia e da nomade diventare
fìssa. In tutta questa lunga epoca i due termini dell’attività eco-
nomica sono r uomo e la natura; 1’ uomo il quale é uscito da quello stato
di felicità del periodo della sua fanciullezza in cui vive a spese della
sua famiglia o della carità altrui; ma l’uomo che deve fare uno sforzo
per andare in cerca dei mezzi di sus- sistenza; deve cioè andare incontro
ad una perdita di forza mu- -..-.•V scolare e psichica, che, aggiunta
alla perdita che apporta la vita in sé stessa, apporta una perdita
maggiore o un male interiore maggiore. La natura, dando da viv^ere all’uomo,
ha una perdita in sé 0 una degradazione, quantunque parziale e limitata;
ma questa perdita apporta all’uomo un bene interiore. La
mancanza di sicurezza dell’alimento pel domani in que- sto periodo della
preistoria in cui non ancora si erano conosciuti i metodi e non si
possedevano i mezzi per ottenere gli animali di cui avrebbero potuto
servirsi e nutrirsi e né anco si sape- vano conservare le carni degli
animali di cui si era andati in caccia, é la nota preminente di questo
cosi largo periodo dell’umanità. La storia della civiltà ha per fondamento la
storia dell alimentazione. Il passaggio dalla preistoria alla storia,
dalla vita naturate allo stato di civiltà, si ebbe quando si potè
pro\’- vedere ad un alimento che potesse conservarsi per qualche
anno, assicurando così il prolungarsi della vita umana ed il
fissarsi di alcune popolazioni in dati siti della superficie della terra
do- ve la produzione di date sostanze alimentari potesse
avvenire. Scambio e stimoli economici Si eiiira cosi in un
altra c più elevata sfera deH’attività economica che è quella dello
scambio (e questo avviene cosi nella zona industriale propriamente detta
che in quella naturale ed agricola). Si cominciano così a formare dei
piccoli mercati in cui r uomo vende e compra. Jla s’ intende che, prima
che nella storia si stabilissero dei veri mercati, queste
operazioni di scambio avvenivano egualmente, quantunque in modo più
vago, appetiii ai)parve la libertà e l’ elezione nel lavoro del- r
uomo. Nella sfera dello scambio si ha una maggiore facoltà di
acquisto ed un risparmio di tempo e di forza (ciò che è propria- mente r
attività economica); perchè il soggetto economico vende ciò che ha
prodotto facilmente e bene per acquistare ciò che da sè stesso non
avrebbe i)otuto produrre che male e con molta per- dita di tempo. E ciò
in generale ; perchè l’ ingegno umano po- ti ebbe in ciò darci una
smentita, non essendo molto rari quegli uomini che hanno saputo tanto
bene educare il loro ingegno e 1.1 loio attività pratica da diventare
valenti produttori di una varietà di beni e in modo perfetto. E questo
avviene cosi per la produzione dei beni inferiori e materiali che dei
beni supe- riori ed artistici. Importa notare che lo scambio
può avvenire tra questi e quelli, come con le attività intellettuali
dell’uomo. Cosi il lette- rato, r uomo istruito e dotto, l’ insegnante,
il medico, l’ inge- gniere, l’ avvocato, scambiano il loro sapere, la
loro dottrina e l’arte, con beni materiali. Anche nella sfera dello
scambio, l’acquisto implica una perdita, quantunque la perdita sia
ridotta al minimo; perchè quello che il produttore perde gli è
costato relativamente poco lavoro, mentre quello che acquista è per
lui un guadagno, perchè ha un prodotto che si suppone buono, che
egli non avrebbe potuto eseguire, anche perdendo molto tempo. Per
mezzo del lavoro artistico dunque la produzione dei beni si specializza,
mentre questi si possono moltiplicare senza limiti, perchè ognuno può
trovare nell’uomo una sorgente di bisogni da colmare e nuove comodità che
si desiderano, nuovi beni che riescono a quel fine. E poiché in tutti gli
uomini si ha r istesso metodo e perciò gli stessi bisogni che si tende a
sod- disfare, i nuovi beni prodotti sono ambiti da tutti. Ma qui
deve intervenire l’opera dell’istruzione che sveglia e fa
riconoscere aU’uomo i propri bisogni e fa sviluppare in lui il desiderio
di soddisfarli. Moltiplicandosi i beni che l’uomo ambisce,
egli può acqui- starli tutti col suo prodotto particolare che alla sua
volta viene ambito dai produttori dello merci altrui, con le quali egli
scam- bia la sua. Il principio economico qui non solo si conserva,
ma si eleva ad una più alta potenza di acquisto. Ma più tardi
1 ’ uomo ha avuto un istrumento d’acquisto non solo nel suo ingegno e
nelle sue forze muscolari, ma anche nella macchina che egli, aiutato
dalla conoscenza delle leggi mecca- niche ha prodotto ed applica ancora
alla produzione di una grande varietà di beni. E necessario
qui promettere che la macchina come inven- zione umana è stata preceduta
dalla macchina che è insieme nell’organismo animale ed umano. L’
organismo infatti è insieme meccanismo; e se come organismo è qualche
cosa di più elevato del meccanismo che implica, come meccanismo non cessa
di essere macchina; macchina organica si, ma sempre macchina. Lo
schema della macchina si ha infatti in tutti gli organi e i sistemi più
importanti deH’organismo ; nel cuore col sistema va- saio annesso ; neU’apparecchio
digestivo con le sue glandolo, co- me in ciascuna glandola;
nell’apparecchio respiratorio ; nei reni e nella vescica; nel sistema
osseo-muscolare-nervoso. L’occhio è una macchina, come l’orecchio. Anche
nel cervello si trovano gli elementi più complicati della macchina;
all’istesso modo che le funzioni di tali organi sono insieme funzione e
meccanismo. È proprio della macchina costruita dall’ ingegno umano il
venir "•uw'mo'' • ‘‘‘ Hìacchina die è or- moNe
oigan.smo, anche essa per mez^o di questo .nuove l.i macchina
esteriore, sia immediatamente che mediatamente per mezzo delle forze
fisiche. ^uiawmente, L’apparire della macchina è stato accolto con
grande entu- ..asmo da tutto il mondo, perchè ha portato una fraudo
rivo uz.one nel campo della produzione, poiché l’A accresciuta
co.isi- erc^olmcnte; ma ha anche contribuito ad una maggiore spe-
CK hzzaz.one d. produzione. E poiché la macchina è stata appli- c a anche
al trasporto dei beni in tutto il mondo, per mare e PCI terra, ha anche
contribuito ad accrescere in modo come non era possibile prima, il
commercio mondiale. Sicché ol! e solamente possibile a pochi uomini
godere di una grande J-h nomi I che sono nel mondo. Si ha cioè il
grandioso feno- meno de la umversalizzazione del godimento dei beni. È
questo nsuUato di una lunga storia nell'attivirà degli scambi che
pimcipiata in modo limitato, tra individuo e individuo, per una’
lunpo tra vari aggruppamenti umani, tra varie popolazioni e
mi/ioiii , e tra tutte le parti del mondo. È questa veramente la
pffffcernza.''"’ « dell’industrialismo S’intende che se
prima lo scambio comincia cedendo merce per merce, e in certe condizioni
questo può sempre avvenire lo scambio e .1 commercio che rendono accessibili
le merci da |.cr t„„o, h„„ dovuti avvenire con la moneta che é ,m
mé.t tei mine, inventato da. governi, tra due merci o più merci; per
cui «1 lavora, cioè si danno le proprie forze, il proprio ingegno e
a propria produzione, per guadagnare danaro e si ambisce que- sto
per provvedersi di tutti i beni di cui si ha bisogno. Segue ancora che,
in ragione che la produzione, gli scambi e il cL- moneta ìr^nmiido;
È qui necessario far notare che, se la parola stimolo inter- lene a ogni
passo nella trattazione dei fenomeni fisiologici e pa ologici, come nei
fenomeni psicologici, intendendo la psicoogia in tutta la sua ampiezza, in
tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, apparisce chiara la necessità
dell’ intervento frequente di questa stessa parola anche nello studio dei
fenomeni econo- mici, giacché anche questi hanno un fondamento
fisiologico e psicologico, senza il quale non potrebbero essere. Così
nella pro- duzione si ha uno stimolo interiore a produrre, il bisogno
inte- riore organico e psicologico, immediato o prossimo, che deve
sparire, facendo col lavoro esistente il bene che si desidera: l’im-
magine interiore cioè deve tradursi in atto col lavoro produttivo e che
diventa anche stimolo esteriore, la materia esteriore otte- nuta col
lavoro, per mezzo della coltura (sostanze vegetali) o con rallevamento
del bestiame (sostanze organiche). Queste debbono alimentare e far vivere
1’ uomo, trasformando la materia morta e bruta che deve dargli alcune
comodità o godimenti dell’ animo. Si ]Hiò dire che sono gli stimoli
e gli stati interiori a spin- gere 1 uomo all attivila; e più questi sono
numerosi ed elevati più muovono l’individuo al raggiungimento dei suoi
materiali od alti filli che egli vorrebbe vedere tradotti nel mondo
reale. Ma alla sua volta gli stimoli interiori sono il riflesso di
stimoli este- riori, di oggetti già percepiti o immaginati. È questo ciò
che si esprime con la parola ambizione umana la quale, se è la nota
preminente dei grandi uomini è anche una nota importante degli uomini
mediocri e d’ infimo ordine, giacché ogni uomo, secondo il grado della
sua costituzione mentale e della conoscenza del mondo esteriore, naturale
ed umano, vorrebbe far suoi tutti i beni che conosce, sia di basso che di
elevato ordine. Il cibo è uno stimolo per l’alimentazione e la fame è uno
stimolo per provve- dersi del cibo. Cosi il gusto letterario e le
conoscenze scientifiche possono essere uno stimolo interiore per
ajiprofondirsi nel campo dell’arte e delle .scienze. Non solo
sono stimoli i due termini economici, oggetto e soggetto, 1 uno per 1
altro: nia è anche stimolo il mezzo termine fra le due merci o tra il
soggetto e l’oggetto, cioè la moneta. L come è nota della natura umana
l’insaziabilità dei beni mate- riali e spirituali, quando questi siano
conosciuti ; ciò che è dif- ficile, come 1 illimitatezza nell’acquisto,
cosi avv^iene per la mo- neta. Di questa anche 1 uomo non è mai sazio di
possederne ; perchè riconosce in essa una possibilità ed uno stimolo
per 66 acquistare altri beni. Ed il possesso è
di vari gradi. Vi è il pos- sesso limitato della moneta, per quanto
questa possa essere grande, e di essa 1 uomo si contenta e che vuole o
conservare o spen- deie, 0 di questa egli si serve come stimolo per
la produzione di nuove ricchezze. Proprio quando la vita
economica, industriale, commerciale, è molto complessa ed estesa, e tutto
il mondo umano sembra un grande mercato come è ora, per cui grandi sono i
bisogni c le richieste dei beni da per tutto; e l’ambizione umana si
estende ed intensifica ovunque, allora la ricchezza può essere
adoperata come strumento (stimolo) per acquistare nuove ricchezze.
Cosi viene stimolata la sete deH’uorno per l’acquisto indefinito
della ricchezza; perchè vi è richiesta di tutti i beni che egli
conosce e di cui vuole godere, come da per tutto viene apprezzato e
richiesto il lavoro dell’uomo. .Si comprende in tal modo come piu
sovrabbonda il danaro in una società, più gli uomini .sono spinti all
attività pratica e cresce la loro ambizione per guada- gnare e godere.
Uomini che hanno quest’aspirazione e non hanno danaro, ma riconoscono di
avere ingegno, forza muscolare e tempo per arricchirsi, ricorrono al
prestito del danaro. Ma cosi si entra in una categoria economica più
elevati, quale è appunto il presfito, il cui polo opposto è il capitale.
Il semplice possesso della ricchezza, sia questa rappresentata dalla
moneta o da altre specie di beni immobili e mobili o da prodotti
industriali od artistici, se è come semplice servizio personale o della
famiglia, non merita il nome di capitale. Si richiede invece che essa
si.a data in prestito. XV. Il
capitale-prestito, 11 capitale-prestito cosi rappresenta un più
alto grado dello scambio; e, come in questo, ciascuno dei due termini o
soggetti economici acquista e perde, cosi avviene nel
capitale-prestito; ma anche qui la categoria di acquisto e perdita
implica una più elevata economicità. Cosi colui che prende in prestito
acquista la ricchezza ma la perdita e rimandata aH’avvenire ; si ha cioè
il bene presente ; ma la perdita che dovrà aversi nell’ avvenire
consisterà non solo nella restituzione del capitale, ma anche nell’
interesse convenuto. Frattanto l’uso provvido ed economico del capitale
avrà dovuto fargli acquistare nuove ricchezze. An- che nuove ricchezze
acquista il capitalista, cedendo tempora- neamente la sua ricchezza ad
altri; ma va incontro anche ad una perdita temporanea della sua ricchezza
durante il periodo della sua cessione; perchè non se ne può servire.
Col capitale e col prestito l’attività economica da una sfera
limitata e quasi individuale, quale è quella dello scambio, da prima in
una ristretta cerchia, s’ingigantisce ed estende da pri- ma in ciascuna
nazione e più tardi gradatamente in tutto il mondo; con la fondazione o
moltiplicazione delle banche che dànno una grande diffusione al capitale
e al credito, stimolando l’attività economica produttiva e portando la
diffusione delle merci da per tutto. E ciò con l’aiuto della macchina che
ha moltiplicato e specializzato la produzione dei beni industriali
e li fa penetrare, come vi fa penetrare anche i beni naturali, in
tutto il mondo umano. Ma per quest’attività si richiede l’ ingegno; all’
istesso modo che 1’ esercizio di essa fa sviluppare Tingegno. La
produzione dunque della ricchezza capitalizzata e capi- talizzante, per
cui si tende sempre a ridurre al minimo la — 68 —
perdita, nello stesso tempo che si tende a jiortare al massimo
l’acquisto, deve essere sempre l’obbietto dell’attività del soggetto
economico. Me questa che già fece esistente il capitale si affie-
volisce, 1 oggetto per mancanza di governo e di direzione tende ad
arrestarsi nel suo processo e, per le mutate condizioni este- riori, tende
a deviare, a perdere la sua potenzialità di acqui- stare ed a venire cosi
scemato come semplice ricchezza. Sicché, se dalla produzione
diretta primitiva alla produzione capitalistica si ha una progressione
per cui pare che la ricchezza si produca da sé, indipendentemente dal
soggetto, pure l’attività di questo deve intervenire, cercando di farla
progredire ed ac- crescere. Deve prevedere il cammino che si può e si
deve fare e provvedere alla conservazione della ricchezza ed alla
sua dif- lusione proficua; ciò che è il lavoro di critica e di
speculazione che il soggetto deve tare. Ad ogni modo questo lavoro, se
im- plica una piccola perdita di tempo e di forza organica e
psichica, pure riduce con l’esercizio al minimo questa perdita; onde
si può dire che se il lavoro di produzione che da prima è grande,
secondo la quantità e la specificità d’impiego del capitale, esso è di
poi menomato e perciò agevolato; anzi deve al meccani- smo, guidato dall’
intelligenza, il suo grande sviluppo. All’incontro nella produzione
naturale il soggetto deve so- stenere una lotta intensa contro il
suo oggetto, la natura indo- mita e ribelle, che può essere vinta
temporaneamente ma non definitivamente ; giacché essa offre sempre nuove
difficoltà al soggetto produttore, anzi si può dire che dai primi tempi
della \ ita umana sulla terra, queste difficoltà si sono andate
sempre accentuando. E ciò perchè, se la natura da prima, dopo
uscita dal suo stato selvaggio, dava facilmente all’ uomo i suoi
pro- dotti, col progresso del tempo gliene ha dato sempre meno, an-
che essendosi moltiplicato l’ ingegno e il lavoro dell’ uomo volto contro
di essa. E ciò mentre gli uomini si moltiplicavano ed ac- crescevano con
la loro associazione i loro sforzi per la produ- zione agricola.
Sembra che d’ oggi innanzi il lavoro dell’ uomo contro la natura
per obbligarla a produrre ciò di cui ha bisogno diverrà sempre più
intenso ed i mezzi più necessari alla vita diverran- no sempre più
difficili a conquistare. In altri termini la lotta tra T
— 69 — l’uomo e la natura diverrà sempre più intensa;
perchè la fina- lità di questa è in opposizione alla finalità di quello;
ed una con- ciliazione solamente è possibile alla condizione che ciascuno
dei due termini conceda all’ altro qualche cosa di sé, senza annul-
larsi, anzi sostenendosi l’ uno con l’altro. Questo fa vedere che r uomo
deve essere limitato nelle sue pretese verso la natura e che, se questa
deve dare qualche parte di sé all’ uomo, non può e non deve dare tutta sé
stessa se non a costo di annullarsi ; perchè allora anche la natura,
dominata dall’ uomo ed alla quale questi domanda i mozzi di vita, dovrà
venir meno alle sue pro- messe, producendo in lui le più grandi
delusioni. Frattanto, mentre i prodotti dell’ industria si
moltiplicano indefinitamente e progressivamente da per tutto, in quantità
e qualità, richiedendo questa un esiguo lavoro muscolare e meno
tempo, ciò che incoraggia l’ irregimentazione dei lavoratori, tanto più
perchè questi vi hanno la promessa di una vita agiata e comoda, quasi
sempre in città, senza sospettare che un giorno avessero a scarseggiare
gli alimenti necessari alla vita, i lavo- ratori delta terra, all’
incontro debbono sostenere una lotta lunga faticosa ed intensa per
procacciarsi di che vivere. Del valore e delle sue forme inferiori
Le attività economiche, come quelle fisiologiche, sono cosi
connesse ecl intralciate fra di loro che l'esposizione logica e siste-
matica ne riesce oltremodo difficile, Non si può trattare un a- spetto,
una categoria economica se in essa non intervengano, sottintese o
manifeste, altre categorie. Sicché da prima si può avere una conoscenza
parziale o sconnessa di alcune funzioni; e solamente dopo che si è
raggiunta la piena conoscenza di tutte, si può principiare a vederle
ordinatamente. È que.sta la ragione della difficoltà nello spiegarsi i
fenomeni economici. E l’ordine consiste neH’universalizzazione dei vari
principii e nel 1’ unificazione di que.sti in tutte le loro gradazioni,
in tutti i loro movimenti, nei loro reciproci rapporti, tanto da apparire
come lo svolgimento di un principio solo. Sotto quest’aspetto molto
importante è il principio del valore in economia politica, cosi in quella
naturale come in quella industriale; e in tutte le isti- tuzioni umane
nelle quali questo concetto interviene. Ma solo una esposizione storica e
sistematica, in che consiste la vera tratta- zione logica della dottrina,
può farcela intendere in tutti i suoi gradi ed aspetti. Negli
ultimi tempi si è parlato di valore in materia di arte di scienza, di
filosofia, di religione; ma poiché in tali rami di attività umana, cosi
come sono stati trattati, la dottrina del va- lore non é dedotta da un
principio più univ^ersale che comprenda e questi e tutti gli altri rami
del mondo naturale ed umano, quella trattazione riesce incomprensibile e
vana. E, benché si possa dire che la filosofia e la religione implichino
la più alta sfera del valore, pure, se esse v^engono considerate come
per sé, senza alcuna comunicazione col resto del mondo, non come
✓
! 1 — 71 il risultato di
uno svolgimento e di una storia, il concetto del valore che da esse si
può trarre non deve essere soddisfacente. E se il valore è una categoria
universale che interviene in tutti i gradi deiressere, nel mondo
metafisico, come nel fisico e nello spirituale, in ciascun grado ha un
aspetto particolare, ha qualche cosa d'identico e di differente con la
stessa categoria di valore degli altri gradi del mondo reale. Far
distinguere perciò le dif- ferenze dall’ identità del valore in ciascun
grado della realtà è il dovere di colui che tratta questa materia.
Da prima potrebbe sembrare che la teoria del valore si
identificasse con quella del bene; ed in vero vi è molta identità fra le
due categorie. Però del bene i filosofi e i moralisti hanno dato più un
concetto comprensivo che analitico e storico; ed alcuni Tànno
identificato con Dio stesso, il sommo bene. Essi hanno anche fatto notare
la varietà dei beni che sono nel mondo e l'ànno anche sistematizzati;
hanno messo il bene e tutti i gradi di esso in correlazione col male e
con tutti i mali pos- sibili. Ma la dottrina del valore include quella
del bene e del male insieme, però le compie, mettendole in una posizione
dua- listica ed unitaria insieme, quasi drammatica; scinde cioè la
ma- teria in due termini in lotta fra di loro, rorganismo e il
mondo esterno che ha valore per quello, può cioè tornargli a bene ;
vede una dualità tra l'anima, la mente e il mondo esterno. E se nella
prima zona Torganismo vivente deve accettare e subire il mondo esterno
quale è, pure reagendo contro di esso; nella se- conda zona r anima e la
mente possono modificare per sè il mondo esterno, elevandolo; o produrre
addirittura qualità nuo- ve neiroggetto. % E
questo l’aspetto nuovo ed originale della dottrina del va- lore, il cui
regno in verità é quello della vita organica, vegetale ed animale, le
zone cioè superiori della natura; ed anche quello deH’aniraa umana, nelle
sue attività inferiori e nelle superiori, intellettive, pratiche ed anche
creative, che sono i gradi più eminenti del mondo umano. L’attività umana
perciò diventa essa stessa una forma altissima di bene, il bene attivo,
limitrofo a Dio stesso: non il bene immobile che può anche menomare se
stesso e il suo termine opposto che presuppone e per cui è ; può
pro- durre cioè il male, dal quale può, è vero, di nuovo nascere il
bene che rientra nella sua ricostituzione storica e progressiva. Ma, se r
organismo e la mente rappresentano il regno e la vitalità del valore,
essi non esauriscono tutta la natura; vi è in questa qualche cosa che
essi presuppongono, senza di che non potrebbero essere e muoversi; e che
si può dire il loro presupposto. E se si va a fondo nello studio della
natura questo che noi chiamiamo presupposto si risolve in una serie di
pre- supposti, una serie di gradi di cui ciascuno è presupposto e
presuppone altri. E questa è pure un’ ampia zona del valore che si può
dire puramente naturale, la quale, studiata, apparisce come l’unità e la
sistematizzazione di altre sottozone. Si ha cosi la zona fisica la quale
comprende e quella della materia e quella delle forze. Sembra a prima
vista che questa sia come chiusa in sè ed isolata dal regno della vita e
perciò fuori il mondo del valore. Forme superiori del valore
Il processo ascensivo e discensivo, chimico, minerale, il quale,
non bisogna dimenticarlo, è sempre un processo di elevazione e di menomazione
insieme del valore, diventa più intenso in quella sfera più elevata della
chimica che è 1’ organica in cui entra in composizione il carbonio. Pure
quest’ attività è relativa- mente qualche cosa di semplice se si studia
in sostanze singole che sono fuori dell’ organismo vegetale ed animale o
estratte da questi. Ma se si .studia entro di questi, l’ intensità
trasforma- trice del movimento chimico e di valore organico diventa
stra- ordinariamente complessa, quantunque questa complessità sia
minore nella pianta e maggiore nell’ animale. In quella è con- siderato
il lavorio complicati vo mentre è vivente; e con la morto si ha il
lavorio analitico. Nella vita interna dell’animale albi contro
intensissimo è il lavorio di scomposizione, come è quello di composizione
e di reintegramento, in tutti gli atti della vita, sia considerata in
ciascuna cellula e in ciascuna fibra che in ciascun organo o sistema e
nell’ unità funzionale di questi. Qui il concetto del valore, cosi in
ciascuno elemento della vita, come in ciascun organo e tessuto e nell’
insieme dell’organismo vivente, diviene di tanta molteplicità,
complessità e varietà, che la mente umana non può seguirlo in tutti i
suoi elementi e in tutti i suoi intimi processi. Vi è una più
alta regione della natura, rappresentata dalla vita animale e vegetale
nel loro insieme, come si svolge nel mare dove vivono insieme piante ed
animali in lotta fra loro; e sulla superficie della terra che è
rappresentata dal bosco nel cui mezzo gli animali vivono e prosperano,
come è avvenuto nelle epoche primitive della natura vegetale ed animale.
Qui •V ciascun animale, ciascuna pianta, è un
elemento della vita na- tumle, animale e vegetale, nel suo insieme e
nella sua univer- salità, nella quale si può riscontrare, in proporzioni
ancora vaste ed universali, il processo di elevazione e di riduzione, che
si ha in ciascuno organismo vivente, onde piante e generazioni di
piante muoiono ed altre nascono, come animali e generazioni di ammali
muoiono ed altri nascono ; ed alcuni servono di cibo (hanno un valore)
per altri : la corruzione degli uni è la vene- razione degli altri. Ma
per la vita vegetale ed animale hanno un valore ancora il clima, le
condizioni atmosferiche, le condi- zioni del suolo ed anche le condizioni
storiche di questo; giac- che la vita vegetale ed animale nella loro
lunga storia, come elidono a modificare lo stato del terreno,
contribuiscono ancora a modificare la vita vegetale ed animale, onde
animali si nu- trono m modo più 0 meno rigoglioso di piante e di altri
ani- mali ; e la dissoluzione delle piante e degli animali rende
più energica la vitalità delle piante. hin qui vi ò un
processo puramente inconscio di movimenti naturali e di elementi, di cui
gli uni hanno valore per gli altri, -la, benché l’animale distingua ciò
che può avere un valore Ku- lui (positivo 0 negativo), come l’alimento,
l’acqua, la tana, .1 c ura pei figli, la ricerca del clima a lui
propizio, la fuga dai leiicoli, alcune di queste cose sono un prodotto
puramente na- urale, che l’animale trova d’ innanzi a sé; solo alcuni
animali ivendo il potere limitato di costruirsi il nido e la tana •
altre i Olio tenomeni istintivi. ’ Apparso l’uomo con l’intelligenza
di cui è dotato, che egli < sercita e sul mondo circostante e su sé
stes.so, il suo organismo I sua anima, e tutto ciò che ha fiuto suo, nel
mondo esterno Ultra la natura e gli elementi che la costituiscono,
acquistano I 11 pili alto valore. Studiando sé stesso, egli non può non
av- ' crtire e scoprire i bisogni, le lacune che si generano conti-
1 uamento nel suo organismo e nel campo della sua mente; e con la sua
intelligenza prevede i bisogni avvenire. Nello stesso t ‘inpo, essendo
messo in rapporto col mondo esterno, egli studia questo negli elementi,
nelle qualità e proprietà, che lo costitui- s-ono, nei suoi movimenti;
cerca di adattarlo a sé ; e non solo d colmare i suoi bi.sogni per mezzo
di qualche cosa, di qualche elemento di esso; ma anche di elevare il
proprio benessere, di assicurarlo per sè ed i suoi per l’ avvenire. Tutto
questo processo è avvenuto dal principio della storia dell’ uomo sulla
terra e si è andato progressivamente affermando, intensificando e
svolgen- do, sino a noi. E non solo non si è arrestato ; ma con lo
studio progressivo della natura, nella sua materia e nelle sue
forze, .sembra voglia assumere proporzioni più vaste anche nel
nostro tempo in cui non si lascia nulla di tentare e di studiare
per applicarlo al miglioramento ed al progresso umano. Questo
lavoro l’uomo ha compiuto empiricamente ed incon- sapevolmente dai primi
tempi ; e più tardi in modo più o meno scientifico, organico e
progressivo. Cosi deve essere inteso il progresso che l’ umanità ha fatto
nel campo del sapere. A questo progresso nel regno della conoscenza si è
andato sempre asso- ciando un progresso nell’ attività pratica la quale è
divenuta anche materia di studio per l’ uomo ; questi due ordini di
attività essendo 1’ uno indivisibile da 1’ altro e 1’ uno stimolando 1
altro nel suo sviluppo. A questo processo coiioscitivm e pratico, che
implica un lavoro distintivo delle cose si è associato un progresso nel
linguaggio. Ad ogni atto distintivo o cosa distinta applicandosi una
nuovni parola, ciò ha contribuito al lavoro di associazione e di
conservazione delle conoscenze e delle atti- vità umane.
Sarebbe un lavoro importante ma lungo seguire questo fenomeno nella
storia, per cui si è riconosciuto un valore ad un dato minerale, ad una
data pianta o animale, che hanno con- tribuito alla soddisfazione di un
bisogno organico o al mantelli mento della vita o a dare certe comodità.
Si è riconosciuto nelle parti di alcune piante e nelle sostanze animali
un valore nutri- tivo e conservativo. E il primo valore che l’uomo ha
cercato nelle cose è stato quello che ha potuto contribuire a
mantenerlo in vita, come ha tatto 1 animale. Sono state cioè le cose
neces- sarie che egli ha cercato. Fatto sicuro del vivere, egli ha
cercato a ben vivere; quindi la ricerca e 1’ uso delle cose utili. Ma,
ac- canto a questa attività, si è sviluppata quella inventiva, per
cui egli, aiutato sia dal suo ingegno che dalle scoperte
scientifiche, ha cercato di costruire istrumenti, congegni, apparecchi e
più tardi, macchine, che contribuissero a modificare le inatGrie
che I — 80 — dovessero essergli
utili. Sicché da una parte ha impiegato le sue attività intellettive a
scoprire, nei regni delia natura, ele- menti, sostanze, energie, che
potessero giovargli, dall’altra ha cercato di trovare i mezzi per
servirsene. Queste attività dal loro più primitivo inizio nella
storia sino a noi, attraverso i millenni, si sono andate svolgendo ed
esten- dendo con l’estendersi delle comunicazioni e delle
associazioni umane. Sarebbe una ricerca importante seguire nella storia
il processo per cui 1’ uomo, singolo da prima, ha trovato
un’utilità in un dato animale, in una pianta o in un minerale. Si può
rin- tracciare questo cammino nelle letterature antiche, medioevali
e moderne di tutte le nazioni; giacché in varie epoche si vedono
nominati speciali metalli, piante ed animali, ai (]uali o alle parti dei
quali 1 uomo ha attribuito un valore e di cui si é servito. Così l’uomo
mano a mano ha aggiunto al valore delle cose, latente ed inconscio, un
nuovo valore. E, se da prima questo era qualche cosa di limitato, più
tardi al primitivo valore si sono aggiunti nuovi valori, nuovi usi della
cosa; nuovi congegni si sono in- ventati, nuovi metodi si sono adoperati
per poter estrarre la cosa, modificarla, farla servire ai vari usi della
vita ; metterla in commercio affinché tutti gli uomini ne godano. Tanti
metalli e metalloidi che dalle epoche primitive della natura erano
se- polti nelle viscere della terra, aventi una semplice potenzialità
di valore chimico, vengono disseiipelliti dall’ uomo ed ai quali la
civiltà moderna dà alte attribuzioni economiche, come l’oro, 1
argento, il ferro, il rame, il solfo, il carbonio, ecc. Hi sa che se
presentemente ipiesta sola unica sostanza, il carbonio, veni.sse a
mancare, tutto il ritmo della vita contemporanea verrebbe arrestato ;
giacché é un istrumento di moltiplicissime attività tisiche, meccaniche,
chimiche e perciò, si può dire, rende possi- bile la vita economica del
nostro tempo. Ma questi bisogni ac- ciescono 1 attività umana la quale si
volge a rintracciare le •sostanze di cui ha bisogno, da per tutto, cosi
sulla superficie ionie nelle vi.scere della terra. Anche le forze fìsiche
le quali prima erano in balla della natura, come le forze meccaniche,
il calorico, la elettricità, .sono state non solo conquistate e domi-
nate dall’uomo ma ancora dirette e specializzate per la produzione di
certi dati movimenti, beni o comodità della vita. La forza
V meccanica e l’elettricità hanno dato un impulso
straordinario alla civiltà odierna. Più tardi 1’ uomo crea e dà certe
attribuzioni di valore alle cose, come fa con la moneta, tanto necessaria
al mondo economico. Inoltre il v^alore acquista un nuovo e più alto
contenuto ed un significato nuovo nel mondo psicologico ed artistico,
come nella sfera religiosa. Ma in queste ultime e così alte sfere
dell’attività umana tale dottrina merita una trat- tazione a parte. Nicolò Raffaele Angelo D’Alfonso. N. R. D’Alfonso. Nicolò
d'Alfonso. Keywords: principii economici dell’etica, valore superiore, valore
inferiore, economia, principio di economia di sforzo razionale – scambio,
exchange – worth, assiologia, valore economico, l’economia di Platone,
l’economia di Aristotele, linceo, dissertazione su Kant ai lincei – naturalismo
economico – no positivista – critica a la psicologia criminologica positivista,
Amleto, lo spettro di Amleto, Macbeth. Linguaggio e mente, il sole luminoso,
l’oggetto rotondo, la pianta fiorisce – logica reale – psicologia del linguaggio,
la storia del linguaggio, storia e prestoria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Alfonso” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Algarotti
(Venezia). Filosofo. Grice: “You’ve got to love ‘il conte Algarotti’;
he is the typical Italian philosopher of language, relishing on ‘la bella
lingua,’ by which they do not mean the Roman! “La Latina, in bocca di un popolo
di soldati, e concise e ardimentosa.’” Grice: “Algarotti thinks that the
Florentines have enriched it – ‘Imagine Aligheri in Latin!” – Grice:
“All that should be lost on Oxonians, but it ain’t!” – Consider ‘conciseness.’
One of my conversational maxims is indeed, ‘be concise, i. e. or viz., avoid
unnecessary prolixity [sic].” – So, if the Roman tongue was the tongue of
soldiers, and a soldier needs to be concise in communicating with another soldier
– The justification of the maxim is in the practice of ‘soldiering.’ With
‘ardimentosa’ we have moer of a problem!” – Grice: “In any case, Algarotti’s
excellent point is that each conversational maxim has its root in the practice
of the corresponding conversants!” -- Grice: “Nobody can fail
to be enchanted by the drawing by Richardson of Algarotti!” -- essential
Italian philosopher. Grice: “I don’t have a monicker, but Algarotti had two: il
cigno di Padova and il Socrate veneziano. Filosofo. Spirito
illuminista, erudito dotato di conoscenze che spaziavano dal newtonianismo
all'architettura, alla musica, era amico delle personalità più grandi
dell'epoca: Voltaire, Jean-Baptiste Boyer d'Argens, Pierre Louis Moreau de
Maupertuis, Julien Offray de La Mettrie. Tra i suoi corrispondenti vi erano
Lord Chesterfield, Thomas Gray, George Lyttelton, Thomas Hollis, Metastasio,
Benedetto XIV, Heinrich von Brühl, Federico II di Prussia. Saggi,
1963 (testo completo) Nacque da una famiglia di commercianti. Dopo un primo
periodo di studio a Roma continua gli studi a Bologna, dove affronta le diverse
discipline scientifiche nella loro vastità. Si trasfere a Firenze per
completare la propria preparazione letteraria. Inizia a viaggiare, raggiungendo
Parigi. Presentare il proprio newtonianismo, opera di divulgazione scientifica
brillante. L'opera fu prima apprezzata, e poi denigrata da Voltaire, che dal
lavoro del suo caro cigno di Padova — come era solito appellarlo — trasse alcuni
temi dei suoi Elementi della filosofia di Newton. Voltaire e Algarotti si erano
conosciuti personalmente a Cirey nello stesso periodo in cui l'italiano
preparava il saggio. Dopo il periodo trascorso in Francia, Algarotti si reca in
Inghilterra, per soggiornare per qualche tempo a Londra, dove fu accolto nella
Societa Reale. Tornato in Italia si dedica alla pubblicazione del Newtonianesimo.
Dopo un breve ritorno a Londra, andò a visitare alcune zone della Russia
(fermandosi in particolare a San Pietroburgo) e della Prussia. Quando il
re Federico si recò a Königsberg a incoronarsi, Algarotti si trova in mezzo gli
applausi e il giubilo di quella potente e valorosa nazione misto e confuso coi
principi della famiglia reale, e stette nel palco col re, spargendo al popolo
sottoposto le monete con l'immagine di Federico. Fu in tale congiuntura che
questi conferì a lui, quanto al fratello Bonomo e ai discendenti della famiglia
Algarotti, il titolo di “conte”, meno vano quando è premio del sapere, e lo
fece suo ciambellano e cavaliere dell'ordine del merito, mentr'era alla corte
di Dresda col titolo di consigliere intimo di guerra. Dal momento che conosce
Federico né l'amicizia, né la stima del re, né la gratitudine, la devozione e
il sincero affetto del cortigiano vennero meno, né soffersero mai alcuna
alterazione. L’amicizia fra Algarotti ed il re e estesa anche alla sfera più
intima. Il re lo volle non solo a compagno degli studi e dei viaggi, ma altresì
dei suoi più segreti piaceri, essendoché della corte di Potsdam, ora fa un
peripato, ed ora la converte in un tempio di Gnido, il che significa: in un
tempio di Venere. Utilizza la propria influenza anche a favore degli
oppositori filosofici a Venezia, Bologna, e Pisa. Altre opere: “Viaggi di Russia”;
“Il Congresso di Citera” -- un romanzo dedicato ai costumi galanti e amorosi
rivisitati secondo quanto osservato nei diversi luoci in cui soggiorna. Altre
opere: edizione in 17 volume con indice analitico – reproduzione anastatica -- Poesie --
Epistole in versi -- Annotazioni alle epistole -- Rime giusta l'ediz. di
Bologna -- Elegia ad Francisci Marive Zanotti Carmina -- Dialoghi sopra
l'ottica Neutoniana -- Breve storia della Fisica ed esposizione dell' ipotesi
del Cartesio sopra la natura della luce e de' colori. I principi generali
dell'ottica -- La struttura dell'occhio e la maniera onde si vede ; e si
confutano le ipotesi del Cartesio e del Malebranchio intorno alla natura della
luce e de colori -- Esposizione del sistema d'ottica neutoniano. Il principio
universale dell'attrazione -- Applicazione di questo principio all'ottica -- Si
confutano alcune ipotesi intorno la natura de colori, e si riconferma il
sistema del Neutono -- Opuscoli spettanti al neutonianismo. Caritea, ovvero
dialogo in cui spiega come da noi si veggano dritti gli oggetti che nell'occhio
si dipingono capovolti e come solo si vegga *un* oggetto, non ostante che negli
occhi se ne dipingano *due* immagini -- Dissertatio de colorum immutabilitate
eorum que diversa refrangibilitate -- Memoire sur la recherche entreprise par
m. Du fay, s'il n'y a effectivement dans la lumie re que trois couleurs
primitives -- Sur les sept couleurs primitives, pour servir de réponse à ce que
m. Dufay a dit à ce sujet dans la feuille du Pour et contre -- Le belle arti --
L'Architettura -- La Pittura -- L'Accademia di Francia ch'è in Roma.
L'opera in musica. Enea in Troja. Ifigenia in en Aulide: opera -- Sopra la
necessità di scrivere nella propria lingua -- La lingua francese -- La Rima --
La durata de' regni de' re di Roma -- L'impero degl'incas -- Perchè i grandi
ingegni a certi tempi sorgono tutti ad un trat o e fioriscono insieme -- se le
qualità varie de' popoli originate sieno dall' influsso del clima, ovveramente
dalle virtù della legislazione -- Il gentilesimo. Il Commercio -- Cartesio --
Orazio -- La scienza militare del segretario fiorentino. Discorso militare --
La ricchezza della lingua italiana ne' termini militari -- Se sia miglior
partito schierarsi con l'ordinanza piena oppure con intervalli -- La colonna
del cav. Folfrd -- Gli studj fatti da Andrea Palladio nelle cose militari --
L'impresa disegnata da Giulio Cesare contro a' Parti -- L'ordine di battaglia
di Koulicano contro ad Asraffo capo degli Aguani. L'ordine di battaglia di
Koulicano a Leilam contro Topal Osmano. Gl'esercizi militari de' prussiani in
tempo di pace -- Carlo XII re di Svezia -- La presa di Bergenopzoom. La potenza
militare in Asia delle compagnie mercantili di Europa -- L'ammiraglio Anson --
La scienza militare di Virgilio -- La guerra insorta l'anno MDCCLV tra
l'Inghilterra e la Francia -- Il principio della guerra fatta al re di Prussia
dall' Austria, dalla Francia , dalla Russia , etc. -- Gl'effetti della giornata
di Lobositz -- La condotta militare e politica del ministro Pitt -- Il poema
dell'arte daila guerra -- Il fatto d'armi di Maxen -- La pace conchiusa l'anno
MDCCLXII tra l'Inghilterra e la Francia -- La giornata di Zamara -- Viaggi di
Russia -- Storia metallica della Russia -- Lettere a milord Hervey sopra la Russia
-- Lettere al marchese Scipione Maffei sullo stesso argomento -- Congresso di
Citera -- Giudicio di Amore sopra il Congresso di Citera -- Vita di Stefano
Benedetto Pallavicini -- Sinopsi di una introduzione alla Nereidologia --
Lettera sopra il prospetto o Sinopsi della Nereidologia . 387 Risposta dell'
Autore -- Gl'effetti dell'invasione dei goti e de'vandali in Italia -- Le
Accademie -- Michelagnolo Buonarroti -- Gl'italiani -- Il passaggio al sud per
il norte -- L'industria. Gl'inglesi -- Bernini -- Metastasio -- Gl'abusi
introdottisi nelle scienze e nelle arti -- Le donne celebri nella letteratura
-- La difficoltà delle traduzioni -- Il commercio -- Fontenelle -- La forza
della consuetudine -- L'utilità dell' Affrica per il commercio -- Il secolo del
seicento -- Ovidio -- Cicerone -- Plutarco -- I romani -- L'etimologie --
I principi dotti -- L'eleganza nello scrivere del Vasari e del Palladio
-- Galilei -- La maniera onde si venre a popolar l'America -- Dante Alighieri
-- La lingua francese -- Voltaire -- Euclide -- Le misure itinerarie
degli antichi -- La questione della preferenza tra gli antichi e i moderni --
Il secolo presente -- Omero -- Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla
traduzione dell'Eneide del Caro -- La Pittura -- Descrizione dei quadri
acquistati per la Galleria di Dresda -- La prospettiva degli antichi -- Pitture
ed altre curiosità di Parma -- Pitture di Mauro Tesi -- Pitture di Cento --
Pitture di Bologna -- Pitture di varie città di Romagna -- L'Architettura --
Un'antica pianta di Venezia, prete so intaglio di Alberto Durero -- L'uso dello
appajar le colonne -- L'origine delle basi delle colonne -- Descrizione dei
disegni di Palladio ed altri per la facciata di s. Petronio di Bologna -- Delle
antichità ed altri edifizj di Rimini -- Delle cose più osservabili di Pisa --
Progetto per ridurre a compimento il R. Museo di Dresda -- Argomenti di quadri
dati a dipingere a' più celebri Pittori moderni per la R. Galleria di
Dresda -- Lettere scientifiche -- Lettere erudite -- Il Cesare tragedia di
Voltaire -- EUSTACHIO MANFREDI -- Saggio tritico sulle facoltà della mente
umana dello Swift -- L'opera de natura lucis del Vossio -- Omero -- I poemi del
Tasso -- Milton -- La traduzione di Omero fatta dal Salvi -- Il poema le Api
del Rucellai -- Iscrizioni ed epitaffj rimarcabili -- Sandersono -- Iscrizioni
per la chiesa cattolica di Berlino -- Le traduzioni delle sue opere -- Il moto
dell'apogeo della luna -- Le comparazioni -- Gli Scrittori italiani del
cinquecento -- L'ANTI- LUCREZIO del card. di Polignac -- Gl'abitanti del
Paraguai -- Alcuni plagiati de' francesi -- Le cose che i irancesi hanno
imparato dagl'italiani -- L'invenzione degli specchj ustorj di Buffon --
L'Edipo di Sofocle -- L'ULISSE del Lazzarini -- L'elettricità -- Il CATONE
dell' Addison -- Elogio di Giovanni Emo -- I fosfori -- La doppia rifrazione
de' prismi di cristallo di rocca. -- La diffrazione della luce . 355 rocca --
Le Poesie di Gio: Pietro Zanotti -- Pope -- Lo stile di Dante -- L'opinioni del
Rizzetti intorno la luce -- La stranezza di alcuni paralelli -- Il poema di
Milton -- Il libro De orli et progressu morum del p. Stellini -- Elogio del
Caldani -- Gl'influssi della luna -- L'abuso della filosofia nella poesia -- Il
Poema del Trissino -- La maniera di seminare insegnata da Alessandro del Borro
-- L'operetta Il Congresso di Citera -- Pregi degli scrittori toscani -- Le due
tragedie di Mason r Elfrida ed il Carattaco -- L'odi di Tommaso Gray -- La
necessità di arricchire di voci toscane il dizionario della Crusca -- La
deformità di Guglielmo Hay. Il gnomone di Firenze rettificato dal p. Ximenes --
Storia de' Dialoghi dell' Autore sopra la luce e i colori -- L'origine
dell'Accademia della Crusca -- Carteggio con Mauro ('Maurino') Tesi -- Lettere
ad Eustachio Zanotti -- Lettere all'ab. Antonio Conti -- Carteggio con il p. d.
Paolo Frisi. Lettere. Di Eustachio Manfredi al co. Algarotti -- Di Giampietro
Zanotti al co. Algarotti -- Di Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti -- Del
co: Algarotti a Giampietro Zanotti -- Del co : Algarotti a Francesco Maria
Zanotti -- OPERE INEDITE . Lettere . Di Francesco Maria Zanotti al co :
Algarotti -- Di Eustachio Zanotti al co: Algarotti -- Della marchesa Elisabetta
Ercolani Ratta -- Del co: Algarotti a Francesco Maria Zanotti -- Dell' ab.
Metastasio al co: Algarotti -- Dell' ab . Frugoni -- Di Alessandro Fabri -- Di
Flaminio Scarselli -- Di Benedetto XIV. Sommo Pontefice . -- Del co: Agostino
Paradisi -- Del co: Giammaria Mazzuchelli -- Di mons. Michelangelo Giacomelli .
361 Del co: Algarotti a Flaminio Scarselli -- Del co: Algarotti a Benedetto XIV
-- Del co: Algarotti al co: Giammaria Mazzuchelli . Dell ab . Clemente
Sibiliato al co : Algarot -- Dell'ab . Saverio Bettinelli -- Del consigliere
don Giuseppe Pecis -- Di Gio: Beccari -- Del marchese Scipione Maffei -- Del
co: Aurelio Bernieri -- Del co : Paolo Brazolo . 277 , 279 Di Lodovico
Bianconi.. 282 , 296 , 308 Del padre Paolo Paciaudi . 285 Del marchese Gio:
Poleni. 288 Di Antonio Cocchi . 291 Del doge Marco Foscarini . 293 Dell' ab .
Giammaria Ortes . 315 Del marchese Girolamo Grimaldi . 317 Dell' 300 , 6
GENERAL E. pag. 320 354 387 Dell' ab. Metastasio . Del padre Jacopo Belgrado .
335 Di Giovanni Bianchi . 338 Di Tommaso Temanza . 342 , 345 , 348 Del padre
Antonio Golini . 350 Dell'ab. Gaspero Patriarchi. Di Giuseppe Bartoli . 369 Del
co: Girolamo dal Pozzo . 373 Del marchese Bernardo Tanucci . 383 Dell'ab .
Spallanzani . Di Jacopo Martorelli. 439 Del canonico Andrea Lazzarini. 443 Del
co: Algarotti all'ab. Sibiliato . 3 Del co : Algarotti all'ab. Bettinelli --
Del co: Algärotti al consigliere Pecis --Del co : Algarotti al co : Aurelio
Bernieri. -- Di Federico II. Re di Prussia al co: Algarotti -- Del Principe
Guglielmo di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Prussia -- Del Principe
Enrico di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Brünswic -- Del cardinale di
Bernis -- Del sig. du Tillot . Del co: Algarotti a Federigo II -- Del co:
Algarotti al Principe Guglielmo -- Del co: Algarotti al Principe Ferdinando --
Dello stesso al Principe Enrico -- Dello stesso al Principe Ferdinando di
Brünswic -- Dello stesso al cardinale di Bernis -- Della marchesa di Châtelet .
pag. 3 a 61 Di Voltaire -- Di Maupertuis -- Di Formey -- Di madama Du Boccage
-- Del.co: Algarotti a Voltaire -- Del co : Algarotti a Formey -- Dello stesso
a madama Du Boccage -- Di mad. Du Boccage al co: Algarotți -- Del co.
Algarotti alla stessa -- Del triumvirato di CRÀSSO, POMPEO E CESARE. Fu
sepolto nel camposanto di Pisa in un monumento di stile archeologizzante, tradotto
in marmo di Carrara. L'epitaffio è quello che per lui dettò il re di Prussia:
“Algarotto Ovidii aemulo” -- Neutoni
discipulo, Federicus rex". Algarotti medesimo si era preparato il disegno
del sepolcro e l'epitafio, non già per orgoglio, ma spinto dal sacro amore del
bello che anche in faccia alla morte non poteva intiepidirsi nel suo petto. Aperto
al progresso e alla conoscenza razionale, esperto del bello (si prodiga come
fautore di Palladio), fu rispetto alla filosofia un grande assertore delle teorie
di Newton, sul conto del quale scrisse uno dei suoi più noti saggi, Il
newtonianesimo. Viene considerato una sorta di Socrate veneziano e per
comprendere la sua statura di insigne filosofo con un'infinita sete di sapere e
divulgare è sufficiente porsi davanti al suo innumerevole campo di interessi.
Al di là del suo ruolo di spicco nell'illuminismo filosofico, fu anche un
diplomatico e un procacciatore d'arte. In particolare viaggia cercando
antichita romani per conto di Augusto III di Sassonia. È noto che fu a comprare
a Venezia il capolavoro di Liotard, il pastello de La cioccolataia, che poi
divenne una delle perle a Dresda. Di bell'aspetto, dotato di un aristocratico
naso aquilino (esiste al Rijksmuseum uno suo ritratto a pastello, sempre di
Liotard, nel Saggio sopra Orazio non perde occasione di far notare come questi
fosse ambi-destro, e tanto lodava i vantaggi di questa disposizione, che c'è
chi suppone che egli la condividesse. Ebbe a filosofare praticamente su tutto,
affrontandocon l'acuta attenzione dello scienziato presso ché ogni aspetto
dello scibile umano. Basti ricordare i saggi “Sopra la pittura”; “Sopra
l'architettura”; “Sopra l'opera in musica”; “Sopra il commercio”; “Poesie”. Il
demone ben temperato. tra scienza e letteratura, Italia ed Europa,
Sinestesie, Note Umberto Renda e Piero Operti, Dizionario
storico della letteratura italiana, Torino, Paravia, 195226. Ugo Baldini, BRESSANI, Gregorio, in
Dizionario biografico degli italiani,
14, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Algarotti, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Algarotti, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Francesco
Algarotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Francesco Algarotti, su Find a Grave.
Opere di Francesco Algarotti, su Liber Liber. Opere di Francesco Algarotti / Francesco
Algarotti (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Francesco Algarotti, . Spartiti o libretti di Francesco Algarotti, su
International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC. Progetto per ridurre a compimento il Regio
Museo di Dresda su horti-hesperidum.com. Sito Algarotti dell'Treviri, su
algarotti.uni-trier.de. La casa di Francesco Algarotti è aperta da
settembre come alloggio turistico.
Algarotti e Palladio , su cisapalladio.org. Il newtonianismo per le dame, su
google.com. Opere del conte Algarotti, su google.com. Corrispondenza con
Federico II di Prussia (testo francese e tedesco) V D M Illuministi italiani --
LGBT
LGBT Letteratura Letteratura
Teatro Teatro Categorie: Scrittori
italiani del XVIII secoloSaggisti italiani del XVIII secoloCollezionisti d'arte
italiani Venezia PisaTeorici del restauroIlluministiScrittori trattanti
tematiche LGBTMembri della Royal SocietyViaggiatori italianiMercanti d'arte
italiani. Il conte Algarotti adunque per più ragioni, secondo che egli dice,
entra in pensiero, che della metà a un di presso s'avesse ad accorciar la
durata de’ regni de’ re di Roma. Alcune di queste possono considerarsi come certi
sguardi, che getta ad un traito sopra tutto il corso degli anni, che. E per
trattare ordinatamente la quistione reputo necessario l'accennare prima ditutto
il cammino, che ho avvisato dover battere per giungere al vero. Breve lavoro
sarebbe pertanto i l rispondere alle opposizioni della prima maniera, che fa
contro le epoche dagli antichi fissate alla storia de' re, in ispecie a quelle,
che sono in principio del suo saggio, le quali sono tratte, direi cosi, dalla sola
natura del soggetto. P r ciocchè alcune ch'egli aggiugne in fine del suo
saggio, quantunque risguardino in genere tutto il tempo della durata de' sette
regni, contuttociò tratte sono dagli avvenimenti narrati dagli storici, e sono
come un fidicono passati. Sotto cotesti Re. Altre, e queste sono in
maggior copia, risguardano più particolarmente ciascun regno, e s'in gegna con
tutto questo di dimostrare, com e i fatti, che dagli storici, e principalmente
da Livio ci furono tramandati, facciano guerra alle epoche assegnate da esso
altri scrittori di quelle storie; le quali ragioni io non istimo Livio
medesimo, e dagli essere di tal peso, che s'abbia -perciò ad infringere
l'autorità degli storici, ed abbre viare della metà circa la durata de'mentovati
Regni . un risultato delle osservazioni sue sopra ciascun regno. Ma
riesce poi più lunga faccenda il togliere quelle contraddizioni, e ripugnanze,
che dice ritrovarsi tra i fat tiregistrarinegli annali degli storici, e le epoche da elli assegnate.
Ben è vero, che per questo rispetto chi volesse restringersi unicamente a
mettere la cosa in dubbio, quella stessa facilità, con cui prese per guida
que’.foli Storici, che gli andavano a grado, e fece scelta di que ' foli luoghi
di questi, che gli erano favorevoli, potrebbe appigliarsi ad altro Scrittore,
oppure ammertendo gli stesii sceglier da quelli que'luoghi (che al certo non
gli mancherebbono), i quali favorissero l'antico cronologico sistema. Ma questo
sarebbe porre folianto, c o m e disli, in dubbio la cosa ; anzi il far vedere ,
che non mancano testimonianze in favore sia dell'una , che dell'altra opinione
, riuscireb be di non poca confusione , e darebbe a credere a' poco avveduti ,
che la quistione definir non sipossa. Onde io credo, che far si debba un passo
più oltre , vale a dire non appagarsi di ridur la cosa a tal segno soltanto
,che vengano ad indebolirfi le ra gioni addotte dal Conte Algarotti contro
l'antico Cronologico Sistema , per m o d o che non che per l'altra
, o pure anche che venga non fiavi per una parte ragion più forte , a rendersi
più probabile l'antico Sistema, m a di più innalzarlo al grado delle cose più
fi cure , che affermar si possano di quella pri ma età di Roma :ilche per
recare adef fetto si dovrebbono esaminare le qualità , ed il
particolarcaratteredi ciascuno degli Sto rici , che scrissero gli avvenimenti
di que' secoli, e confrontandone i luoghi, far ragio ne dal tempo , in cui
vissero , dal fine,per cui presero a dettare le loro Storie , in s o m m a
adoperarsi per conciliarli fra di loro , ed accertarsi per mezzo di una sana
Critica della verità de'fatti, onde chiaramente siscopra, se questi, ove sieno
ben accertati , sieno poi tali , che all'epoche ripugnino . Ora adunque
seguendo lo stesso ordine te nuto dall'Autore nelSaggio suo , allorchè mi sarò
ingegnato di rispondere a quelle g e n e rali opposizioni , ch'egli fa, e dopo
che avrò delineato non dirò già un ritratto , m a un lieve abbozzo de'tre
principali Scrittoridelle Storie di Roma sottoi Re , mi farò distin tamente ad
esaminare quelle irragionevolez ze ; ed anche ripugnanze, com'ei le chiama ,
per cui stimò doversi abbreviar ciascun R e gno , e per conseguente di molto ,
cioèdella i b metà metà forse, doversi scemar la durata di
tutti fette iRegni . Si risponde ad alcune obbiezioni , che fa il Conte Algarotti
coniro l'antico dero no , CAPO Cronologico Sistema. P e r farci a
considerar quelle ragioni, che adduce prima di tutto l'Autor nostro nel suo
Saggio , e che tutta la quistione abbraccia fa d' ilpremettere , uopo , e che
gli mette troppo bene a conto , ed è che i fatti fieno staticonservati illesi
dalla semplice tradizione , che tro egli chiama vaga , senza ajuto degli A n
nali ,i quali perirono nelle fiamme, cui die 1 noftri ultimi tempi alcuni
Letterati Francesi dell'antica avanti Pirro osservato Storia molti luoghi
avendo Roma farono doverne dubitar della certezza nel qual dubbio se fosse per
avventura 'egli en trato , non opporre che , essendo il tutto dubbioso
egualmente egli un partito Ora è da avvertire prender che a questi di
sottilmente, p e n più ragionevolmente potrebbe i fatti dagli Storici narrati
all'epo di mezzo per al dero in preda i Galli la Città di Roma , e le
epoche sieno state interamente distrutte da quell'incendio , nè per quelte sole
tradi zioni veruna valendo , abbiano dovuto gli Storici posteriori
immaginarsele a senno loro. Il qual partito , soggiugne il noitro Autore , ben
volentieri presero essi, trovando modo di appagar con questo quel natural
deside rio,che,nonmeno diciascuna famiglia, ha ciascun popolo di spingere, come
e'fece ro , tant'oltre quanto poterono nella oscuri rità de'tempi la propria
origine . E quello che è più lidà a credere,che a ciò fare giustificati fossero
dalla opinione , la quale ei dice ch'essi aveano , che tante generazio ni
corressero quanti Re ; onde circa tre R e gni largamente in ogni secolo si
avessero a porre , essendo ogni generazione di trentatrè anni : laddove egli
pensa , che più brevi di molto sieno di Regni , non giungendo questi l'uno
fagguagliato coll'altro se non ai di. ciotto o vent'anni , secondo che scrisse
il Neurone (a), la qual legge , segue egli a dire , si vede confermata in
quella unga fe rie d'Imperadori , che da Yao infino a ' di b2 (a) “The
Chronology of the ancient kingdoms of Rome, amended by Newton. Veggansi le
due tavole Cronologiche in fine . .. nostri tennero il vasto Impero
della China , D a tutto questo si raccoglie fupporsi dall'Au tor noftro , che
quella vaga tradizione , la quale conservò gli avvenimenti , comechè facili a
ricevere alterazioni , a cagion delle molte circostanze , che fogliono a c c o
m p a gnarli , anzi che conservò , c o m e di alcuni dovrem notare le epoche
precise , in cui non abbia potuto conservare le altre epoche più notabili, vale
a dire la durata di ciascun Regno , e per conseguen te la somma dello spazio di
tempo ,che ab bracciarono tutti isette Regni insieme,quan tunque cosa non meno
importante di m o l tiffimi fatti, che pur furono da cotesta sua tradizion
conservari, e non capace di pren dere come ifatti diverso alpetto passando per
le bocche degli uomini. Non troppo ra gionevole pertanto mi sembra la sua
preten. fione , e per asserire, che gli Storicidique' primi tempi di R o m a
non fossero informati di queste epoche , farebbe mestieri produrre qualche
testimonianza , o almeno congettura , da cui si potesse chiaramente inferire
che di quelle veramente informati non fossero , la qual cosa non facendo egli ,
io ftimo , che non maggior ragion fiavi per credere a' fatti, che alle epoche .
Cie seguiti sono 1 Ciò posto o è l'antica Storia di Roma del pari tutta
dubbiofa , e d in questo caso inutili sono le osservazioni sue , o è del pari
certa tanto a' farti , ed rispetto alle epoche allora non hassi a dire,che le ,
quanto i che sieno state supposte ci . Senzachè se gli Storici si fossero i m m
a ginato a piacer loro le durate de'Regni se condo la legge delle generazioni, com'egli
pensa , non si sarebbono tolto la briga di far registro di quanti anni
precisamente sia stato ilRegno diciascun Re, edavrebbonodato qualche cenno d'
aver seguita una tal legge ; fe pur non vogliam credere , non che seguit sero
una regola da essi giudicata sicura,ma che avessero concepito di tessere un
dolce inganno a'contemporanei loro , il che , senza che se ne adducano le prove
, conceder non si dee a giudizio mio per modo nessuno . epo da'pofteriori
Stori- * il malizioso disegno 1 Quantunque però sia abbastanza Ito , che ,
quand'anche tutta l'antica Storia di Roma fi fosse, non solo ugualmente per
semplice tradizione conservata instrutti della Cronologia , che de'fatti por si
debbano gli Storici mentovati ; nulla dimeno , fia per salvar dalle fiamme
questa Cronologia , d a cui divorata ,ma anche più manife la presume ľ sup Aus
b due (6)Quae incommentariisPontificumaliisquepublicisprive. tisque
erant monumentis incenfa urbe pleraeque interiere. T.Liy.Dec. I.Lib.VI.inprinc.
()Plut.inNuma inprinc. non che vorrà negare . 22 RAGIONAM,CONTRO IL CONTE
Autor noftro , sia perchè resti maggiormen te confermata la certezza
dell'antica Storia di R o m a ( la quale a vero dire già ha a v u to troppo più
valorosi difensori di quello ch'io m i sia ) stimo pregio dell'opera il
*mostrare , che non fu poi , qual per alcuni si dipinge,si funesto l'incendio
de'Galli per gli annali di Roma . E per cominciar da Livio , della testimo
nianza di cui si fiancheggia in prima il no ftro Autore , oltrechè mostreremo
fra breve , che a lui non poco premeva di fare passar per dubbiosi gli antichi
avvenimenti seguiti avanti l'incendio de'Galli , se si considera no
attentamente le parole di lui (b) , que ste non vengono a dir altro , se buona
parte de'monumenti perì in quelle . fiamme,ilche nè io, nè alcuno, penso,
Plutarco poi non dice altro (c), se non che , secondo quello , che avea
osservato un certo Clodio ,supposte erano alcune m e m o rie appartenenti a
Numa , essendo le vere mancate nella presa di R o m a . Se da questi
ро ALGAROTTI . CAPO II. 23 due luoghi di Livio , e di Plutarco si possa
inferire , che abbiano gli Archivj di R o m a fofferto un generale incendio ,
lo lascio al giudicio de'giusti estimatori delle cose . Se R o m a fosse itata
inaspettatamente presa di asfalto , non riuscirebbe forse difficile ilcon
cepirlo;ma ad ognuno è noto,che iRo mani , dopo l'infaufta giornata di Allia,
in cui furono da’Barbari sconficci, vedendo di ·non potere per modo nessuno
difendere la Città dal vittorioso esercito de'Galli,ebbero ancora tale spazio
di tempo (d) (tre giorni diconoDiodoroSiculo (e),ePlutarco)da po ter fornire di
munizioni il Campidoglio,m e t tervi alla difesa il miglior nerbo della solda
tesca , i più valorosi Senatori , e la più vi gorosa gioventù , ove ancora per
teftimo nianza del medesimo Diodoro posero in fal v o quant' oro , argento ,
vesti preziose , e cose rare , che s'avessero (f) : ebbero t e m b4 Diodor.
Sicul, loc, cif, non le Vertali di ricoverarsi a Cere , non r é itando
nella Città fe non que'venerandi v e c chị, che vollero rimanervi . Ora adunque
(1) T. Liv. Dec. 1. Lib. V. cap. 21. 22. ) Diodor. Sicul. Bibliot. Stor. Lib
.XIV.n. 115. p.729. tom . I. ed. Amft. 1746. Plut. in Camillo . >
ed incerta , ma poco o nulla men pregevole delle Storie medesime , di cui
a b biamo fatto parola sopra, e per mezzo di cui , secondo quello che abbiamo
osservato , riesce 24 RAQIONAM. CONTRO IL CONTE non avranno o i guerrieri
rinchiusi nella roca o quelli, che lisottrassero colla fuga. all' eccidio della
Città , falvati dalle f i a m m e quegli antichi Annali ? I n verità bisognereb
be far forza a noi medesimi per idearci Romani accesi com'erano dell'amor
Patria , e solleciti di ogni cosa , che potesse fervire alla gloria di quella ,
così ( 8) V o f f i u s d e H i f t . L a t . L i b . I. C a p . I. T o m . I V
. O p a i della ca, ranti delle proprie poco Storie.M a supponiamo cu che,che
questi an fossero periti ; il f a m o so Vossio Annali (g) osserva tacciar non
per questo tica Storia dubbia credibile l'an avessero di Roma , essendo pur
anche i loro Annali , che le circon fi dovrebbe vicine Città , con tuto ad un
bisogno loro ; ed in secondo alle luogo non essereda cre dere , che coloro
fra'Romani , i q u a l i li l e g g e vano , custodiyano duto la memoria , scriveano
del tutto : ed ci riduciamo a quella tradizione vaga , , non però ,che di
falsa, o cui i Romani abbiano mancanze supplire , avessero in tal caso po per
ed, Amst. 1699 (4)Cic.de Orat.Lib.II.,de Legib.Lib.I. Nulla enim
lex neque pax , neque bellum , nequè res ficnotata : Corn. Nep. in Attico n.
18. (1) SenexHistoriasfcribereinstituit,quarumsuntlibrisep. M a che serve
affaticarsi di provare con congetture una cosa , di cui abbiamo cost chiare , e
sicure testimonianze ? N o n giunse ro gli Annali Maslimi .a'rempi di Cicerone
, e non ne reca egli giudizio (h) in più luoghi. delle opere sue? Onde Fabio
Pirrore , Lu cio Pilon Frugi , Valerio Anziate Scrittori che furono tra lemani
dị Dionigi,ediLi vio, avranno prese le memorie per dettare le Storie loro , se
non da'monumenti , che avanti l'incendio esistessero? Pomponio A t tico
intrinseco amico di Cicerone , che se condo Cornelio Nipote (i) non tralasciò
in certo suo libro di porre sotto l'epoca pre cisa cosa alcuna riguardevole del
popolo R o m a n o , C a t o n e , il p r i m o l i b r o d e l l e S t o r i e
d i cui comprendevaifattide'Re diRoma come riferisce lo stesso Cornelio (k),
onde avran tratto i materiali per quest' opere loro ? Varrone il più dotro
de'Romani , uomo al ALĞAROTTİ . CAPO II. 25 tiesce non solo ugualmente , m a
più credi bile eziandio la Cronologia de'fatti. certo ili luftris estpopuli
Romani, quae non in eo,fuo tempore com,primus continet res gestasRegum populi
Romani Corn. Nep . in Cat . n. 3. certo di non facile contentatura,su
che avrà fondato l'opinion sua contraria a quella di Catone circa al tempo
della fondazion di R o m a , se non sopra monumenti ,che a'suoi tempi ancora
esistessero, in cui fosse accura tamente descritta quella prima età ? E , v a
gliami per ultimo l'autorità di quel diligen te investigatore delle
antichitàRomane Dio. nigi d'Alicarnasso , quante tenebre egli non dilegua coi
Commentarj de’Censori, e con altre memorie , le quali pajono anteriori alla
famosa irruzione de'Galli , o almeno sopra quelle compilate ? E non è forse da
crede. re , che a quel Dionigi , il quale dovendo per mezzo di un suo computo
fissar la giu Ata epoca della fondazione di R o m a , fi Itu dia di portare
tanti monumenti , per venire in cognizione del numero d'anni , che cor sero
dalla deposizion di Tarquinio insino all' incendiodiRoma (1),echecircaalladu,
rata de'Regni non muove la minima que stione , anzi concordando con Livio , gli
af segna il medesimo numero di anni ;a quel Dionigi,cui è data la lode di
esattissimo nel fissar le epoche , come più sotto vedremo ,
(9)Dionyf.Halic:Antiq.Rom.Lib.I. p. 60. ex ed, RAGIONAM , CONTRO IL CONTE non
Graeco-Lat. Friderici Sylburgii Lipfiae 1691, امی ju ALGAROTTI , CAPO II. C h
e poi per vantare antichità abbiano gli Storici allungata la Cronologia , è
noto a d ognuno esserregola dell'Arte Critica, doverfi presumere , che alcuno
abbia ingan, nato sulla fola luogo bio , non ܕ nato
in suo pro l'ingannare , m a doversi a d d'aver egli.veramente ciò fatto ; ed
oltre a questo non può cade dur prove manifeste sopra Dionigi., come quello ,
ch'essendo straniero re per modo nessuno un talsospetto non era tentato
dall'amor della patria a m e n tire per adularla , e che fece un particolare
ftudio di chiarire l'antica Storia di Roma . che sarebbetor non mancassero i
suoi fondamenti per accer tartaldurata,come cosa fuord'ognidub congettura , Non
istimo ora del resto dover parlare della diversità , che l'Autor nostro dice c
o r Tere tra le generazioni , e le successioni de' Regni;giacchè è manifesto
non aver gli Storici seguito una tal regola , e quand'an . che seguita
l'avessero potendosi far veder di leggieri , che se per alcuni motivi da lui e
dal Neutone addotti sembra , che iRegni debbano riuscir più brevi , che le ,
per altri rispetti potrebbe più lunghi restassero tazioni . Tanto più che dovrò
accennare in generazio succedere, che i Regni , che le gene ni luogo più
opportuno quelle regole ch'io stimo doverli osservare , nel fiffar queste g e
nerazioni , potendosi queste sotto diversi a f petti riguardar da ' Cronologi .
(mn)Description de l'Empire de la Chine par le P.Dus Halde. Tom .I. Faites de
la Monarchie Chinoise 28 RAGIONAM,CONTRO IL CONTE per dare a divedere ,
che quella rego Mi basterà per ora notare , ch' in quella lunga serie degli
Imperadori della Cina s'in • contrano n o n una volta sola , m a diverse fiare
sette Regni di seguito , i quali se non giungono, si avvicinano però assai allo
spa zio di tempo , che tolti insieme durarono i Regni de'Re diRoma :per
comprovarla qual cosa giova il recarne alcuni esempj, che m'è venuto fatto di
ritrovare ne'fatti di quella Monarchia descritti dall'accurato P . Du-Halde
(m).Nellaprima.DinastíadaTi Pou-Kiang insino a Kiè corsero dugento e dodici
anni. Nella seconda da Tching-Tang infino a Tai-Vou passarono dugento e quat
tro anni ; e nella terza Dinastía dugento 'e venticinque da Tchao -Vang insino
a Li-Vang. Facilmente non saranno questi foli i casi, in cui,non uscendo dalla
serie degli Imperadori della Cina , fecte Regni di seguito abbiano abbracciato
più di due secoli ; tanto però basta la , ALGAROTTI. CAPO II, 2.9
gi la , la quale pure è vera , trattandosi di l u n ghissimo spazio di
tempo , riesce falsa nelle itesse Tavole Cronologiche degli Imperadori Cinesi ,
quando si reftringa a fette soli R e gni . Ed ecco come si vengono a sciogliere
tutte quelle diffico'tà inosse dall'Avior no stro per diminuir la credenza ,
che prestar fi dee agli Storici , e rendere improbabile in genere la lunghezza
di questi Regni . O r a fa di mestieri farsi a considerare quelle ragioni ,
ch'ei deduce dalla ripugnanza dei fatti, di cui fecero gli antichi Scrittori re
gistro,alleepoche,per venireadaccorciar ciascunRegno:Seiodicesli,che concor
dando a un dipresso tutti gli Storici nelle epoche principali , e circa la
durata de'Re- . gni , e discordando ne'fatti, ilconsenso loro nello afferir la
durata dee meritar. troppo maggior fede, e pertanto doversi come lup-, posti
rigettar quegli avvenimenti , e quelle epoche particolari di alcun fatto , che
taluno fra essilasciò ne'suoilibri descritte, che ripugnano a quello , la di
cui certezza è chiaramente ,e concordemente da essi affe rita; se jo ciò
dicefli, mi servirei di una ragione più atta a far forza , che a persua dere .
Perciocchè resterebbe sempre una c o tal nebbia , ed oscurità nella mente
de'Lega gitori, non vedendo eglino quali oltre a que ito fieno i
motivi , per cui come falsi s'ab biano'a rigettar questi fatti, che falli certa
mente avrebbono a d essere , quando ad una verità fi opponeffero . Laonde è
convenien te o farne vedere per altre ragioni la fal fità , o mostrarne la non
ripugnanza , quan do , come di alcuni veri dovrò fare meno avvedutamente
ripugnanti, sieno stati dall'Au tor nokro creduti .Per condurre a fine le quali
cose , siccome è d'uopo far uso delle regole , che prescrive l'Arte Critica ,
stimo pregio dell'opera il premetter quella , la quale più d'ogni altra ttimali
necessaria , ed è il chiarir bene a quale Scrittore s'ab bia per CAPO (n) Si
unus aut alius (Hiftoricus) adverfus plures teftifi: Centur , Historicorum
conferendae dotes , fecundum cas je dicandum . Genuenfis in Arte Logico-Crit.
Lib.IV, Cap. II. § . 19. can . 2. 30 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE COSI .
l'antica Storia Latina , i di cui av. venimenti cadono nella nostra quiltione,
a ri correre , ed in caso di disparere, a quale fi debba prestar maggior fede
(n). CAPO Trattasi della credenza , che prestar fi dee a Tito Livio
, Dionigi d'Alicarnaso Plutarco , per rispetto ai fatti , che R a gli Scrittori
, in cui troviamo descritti i principi di quella Nazione, al di cui co fpecto
dovea tremar l'Universo , primeggia no Tito Livio , Plutarco per le vite , che
stese de'due primi Re , eDionigidiAlicar naffo . Penso adunque esser buona cosa
l'in .vestigare prima di tutto il vero carattere di ciascuno di questi, per
rispetto al m a g g i o re o minor caso , che far si vuole della au torità di
taluno di effi per riguardo a tal altro,ne’racconti,che pressodiloro sitrovano.
per (a) Come Livio scrive, che non erra , Dante Inf. cant. che non Fra
ALGAROTTI, *31 cądono nella presente quistione. Se farò poi in questa disamiņa
precedere Tito Livio agli altri due , si è , perchè di lui fi pregia più che
d'ogni altro l'Autor nostro , e glid à ad una voce col creatore della
nostraLingua,non meno chedellano Itra Poesia la lode di Scrittore 2 erra (a),
la qual lode se vera se giusta sia 2 28. V. 124 III. ( 5) Livius
etiam , & Curtius artem declamatoriam affe&taffe videntur.Nimiam
ftyli.curam in Hiftorico fufpettam ho beo ,Genuens. in Arce Logico-Crit. Lib.IV
. Cap. 2o $.18. 32. RAGIONAM . CONTRO IL CONTE per rispetto a quel tratto
della Storia Latina', che cade sotto la controversia noftra , verrà brevemente
esaminando . pol L'andar dietro alle quistioni , e dubbie tà , che s'incontrano
nella Storia de primi tempi di Roma, il diradar lenebbie,incui si avvolgeva
quell'oscuro secolo , era cofa , che ripugnava all'indole di Livio , il qual
certamente più compiacevafi nel dipingere con quel luo vivo , e maestoso itile
i bei giorni di R o m a , che in ricercarne sottilmen te le origini traendo
alla luce gli avveni menti , che succeduti erano in quelle rimote età . Pare
veramente ch'egli dovesse te mer forte non i suoi lettorifi disgustassero, se
egli si fosse messo in un tale intricato sen tiero , sentiero , che male egli avrebbe
p o tuto spargere di tutti i fiori della sua E l o quenza ; la quale fua
Eloquenza però , per dirlo alla sfuggita , rende sospetta a tal C r i tico la
veritàde'fatti da lui narrati (b). Principale intendimento era adunque di lui
lo stendere la Storia più luminosa di R o ma , vale a dire allor quando falira
a gran possanza , ed a grande onore questa R e p u b blica cominciò
a stender le ali Pontificum libros annosa volumina Storia in fine , la
quale troppo più che l'antica era confacente algeniodi Livio, ed alcomun
desiderio dei Romani de'suoi tempi, per cui preso avea a dettarla .Che se
Tacito parago nando le Storie de'tempi suoi a quelle di que sto secolo , di cui
favelliamo , dice , che m i nute,e poco memorevoli farebbono sembrate le per
cose , 1Uni verso . Quando , domati finalmente i feroci popoli dell'Italia,
qual rinchiuso fuoco, che rovescia ogni ostacolo più forte, avventò le fiamme
in grembo all'emula Cartagine, ed a Corinto , e loggiogata parte coll'armi ,
par te coll' accortezza la Grecia tutta , e corsa l' Asia trionfando , essendo
, per servirmi delle parole di Tacito , l'antica , e natural ansietà ne'mortali
della potenza cresciuta e scoppia ta colla grandezza dell'Impero (c), sidivise
in quelle fazioni , che tanti e si gran casi somministrarono alla Storia.
Storia di gran di imprese , di gran personaggi , e di gran di avvenimenti
ripiena ; Storia non troppo lontana dal secolo , in cui egli vivea , e per cui
non avea a rivoltare ALGAROTTI . CAPO III. 33 T a c i t . H i f t. L i b . I I
. C a p . 3 8 . n . 1 . ҫ RAGIONAM. CONTRO IL CONTE te nimia
obfcuras , velut , quae magno ex intervallo'lo ci vix cernuntur ; tum quod ,
& rarae por cadem tempo ra literae fuere ,u n a custodia fidelis memoria
rerum g e ftarum ; & quod etiam fiquaein commentariis Pontificum, aliisque
publicis, privatisque erant monumentis incenja urbe pleraeque interiere .
Clariora deinceps certioraque ab secun 'da origine velut ab ftirpibus laetius
feraciusque renatas urbis , gefta domi militiaeque exponentur, 1 34 mo cose
, ch'egli avea a raccontare , e che non erano da eguagliarsi le Storie sue agli
A n nali antichi diR o m a (d), poichè gli Scrit tori di quelle narravano
guerre grosse, Città sforzate , R e prefi, e sconfitti, e dentro di scordie di
Consoli con Tribuni , leggi a'fru menti , zuffe della plebe co'grandi,larghilli
mi campi , scarso all'incontro e stretto effe re il suo : che ne avrà dovuto
pensar Livio paragonandole a quelle di que'rimoti , ed oscuri secoli ? Se non
tralasciò pertanto del tutto di far menzione de'principj de'R o m a ni, non
altra ragione , penso io, averlo a ciò moffo , fe non per non incorrer la tac
cia d'aver composta una Storia mancante , e per potersi in certo modo fpianar
la ftra da a descrivere le susseguenti famose impre se di quel popolo d'Eroi .
Ed in fatti dalle sue stesse parole fi rac coglie (e) non aver egli troppo
dibuon ani (d)Tacit.Annal.Lib.IV.Cap. 32. n.1. & . . cum vetufla
ALGAROTTI . CAPO III. 35 m o lavorato a ftendere quel tratto delle sue
Storie . Cofe le chiama oscure per troppa antichità , e che , per così dire , a
cagione della grande distanza appena più sivedeano. Parla di quelli avvenimenti
in modo che fi scorge , che poco o nessun conto ne fa cea , tanto più dicendo ,
ch'esporrà più l u minose , ed accertate gelta della quafi da più fertili , e
rigogliole radici rinata Città dopo l'incendio de'Galli. Poco, ei dice,
scriveasi avanti l'irruzione de' Galli , e se al cune memorie eranvi negli
Annali de'P o n tefici , ed in altri pubblici , e privati m o n u menti,buona
parte di queste peri nelle fiam me. La qualcosa , posto che veramente molte
memorie ancora esistessero a'suoi gior ni di que'tempi, come ben feppe
rinvenirle Dionigi , dà non lieve motivo d i dubitare non il dire , che molti
di questi monumenti periti fossero in quell'incendio sia un mendi cato pretesto
di lui per ispacciarsi in poche parole di quelle antichità . Per raccogliere il
tutto in breve non p a re , che in questo tratto di Storia almeno Livio sia
quel Livio , che non erra , e che a più buona ragione , che non quel verso
diDante, adattar fe gli .patrebbe ilgiudicio di с2 di
Quintiliano (f), ove dice ,che quella dol ce facondia di Livio non sarà mai per
a p pagare colui , che non la venuftà del dire , m a la verità cerca nella Storia
. Perlaqual cosa a giudicio non solo del P.Rapino(g), m a di quasi tutti i più
valenti Critici, e per l'accuratezza , e per lo discernimento , e per la verità
delle cose narrateanteporre fidee a Livio Dionigi d'Alicarnaffo . Questo
Storico è appunto il nostro caso . Perito egli era della lingua, e de'costumi
de'Latini,fra cui fece lunga dimora.Con temporaneo di Livio, Critico eccellente
p r e se a trattar quella parte della Storia Latina , ch'era più oscura per la
lontananza de'tem consultò tutti gli antichi Romani Scrit tori diligentemente ;
e siccome si scorge , se condo quello, che abbiam notato , che l'in tenzion di
Livio era di trattar principalmen te la Storia di R o m a dopo l'incendio de'
Galli , così il fine di Dionigi era d'inftrui re i suoi lettori nelle antichità
soltanto di quella Nazione, per le quali sue doti ftimò 36 RAGIONAM .
CONTRO IL CONTE pi ? il Neque illa Livii lattea ubertas fatis docebit eum , qui
non speciem expofitionis , fed fidem quaerit. Quiptil.Lib. X. Cap. I. (8)
Rapin. Réflex. sur l'Hift. n. 28. Sto . il Bodino (h) di doverlo in
questa parte pre ferire a tutti gli altri Storici Greci e Latini. E se per
avventura non è , come osservò il Rollin (i), nella lingua lua si eloquente, e
si colto come Livio nella Latina , in quanto all'accuratezza , e diligenza il
vince sicura mente d'affai.Che poi più cose, e più ac intorno antichità presso
di lui , che presso Livio fi curatamente descritte
ritrovino,èancheilparerediquel Varro ne dell'Ollanda Gerardo Vossio (k), ilqual
coll' autori tà di Eusebio , e dello Scaligero , l'ultimo fuo sentimento egli
fiancheggia de quali lo commenda appunto per quella dote , di cui noi
abbisogniamo , voglio dire per essere stato egli più d'ogni altro dili gente
nel fissar le epoche. M a a che serve andar raccogliendo le testimonianze
de'Cri tici ? Niuno v'ha fra' letterari, che ignori quanto Dionigi sia
benemerito delle R o m a ne antichità , e che non sappia esser egli alla C3
alle Romane ALGAROTTI : CAPO III, 37 (h) Dionyfius Halicarnasseus antiquitates
Romanorum ab ipfius urbis origine tanta diligentia confcripfit, ut Graecos
omnes , ac Latinos fuperaffe videatur. John B o d i n . M e t h . a d f a c i
l. H i f t . c o g n . C a p . I V . (i) Rollin Histoire Anciene tom.XII.
(A)VoffiusdeHift.GraecisLib. II.Cap.V.,&ibi Euseb. in prep. Evang., &
Scaligerin animad.Euseb., il qual dice : Curatius co niemo tempora obfervavit
, 38 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE E'ben vero esservi taluno
fra'moderni,il quale non fa gran calo dell'autorità di lui per riguardo a ciò ,
che scrive intorno alle origini de'popoli d'Italia , avendo a parer suo Dionigi
,per gloria della propria nazio ne , dato luogo troppo leggermente alle con
getture , per derivar dalla Grecia i primi abitatori dell'Italia (l) . Lascio
ad altri il giudicare le giusta fia, o no quest'accusa ; m a , quanrunque fosse
ben fondata , non so avrebbe per questo a dubitare delle cose n a r rate da lui
, le quali cadono nella nostra qui ftione : perciocchè in quella parte dell'Ope
ra sua, di cui servir ci dobbiamo , n o n trattasi più delle prime origini de'
popoli Italici , m a delle origini soltanto primi tempi di Roma; onde non può
più aver luogo quel sospetto , ch'egli abbia v o luto adulare la nazion sua ,
non essendovi piùlagloriadiquellainteressata in modo nessuno . Questo Storico
pertanto , quantun que venga una volta fola in campo nel Saga Storia
Latina de primi tempi quello , che è alla Storia d'Italia de'secoli di mezzo
l'eru dito , e diligente.Muratori . e dei gio (1) Guarnacci Origini Italiche
Lib. I. Cap. I. De 4 Veniamo ora finalmente a Plutarco .M o l to
discordanti sono i giudici, che di lui re cato hanno i Critici :perciocchè , se
a molti Letterati di grido siattribuisce per una par te quel detto , che se in
uno universale in cendio di tutti i libri un solo scampar se ne potesse dalle
fiamme, si vorrebbono falvare le vite di Plutarco ; non manca per altra parte
chi ne rechi troppo più vantaggioso giudicio , e fra gli altri un celebre
Lettera to Inglese il Signor Midleton (n) giunse a chiamar l'Opera di lui un
abbozzo piuttosto , che il compimento di un gran disegno . A chi fu (m) Saggio
sopra la durata de'Regni de'Re di Roma p. 142-3. del tomo III.delle Op. del
Conte Alga rotti ediz. di Livorno 1764 Nella edizione fatta di questo Saggio in
Firenze nel 1746. non è mai citato Dionigi , anzi nella lettera al Signor
Zanotti dice P Autore : che non avea voluto leggere altri scrittori ,
cheparlafferode'Re diRomafuorchèLivio,ePlutarco. (a) Conyers Midleton prefaz,
álla Vita di Cicerone , per ALGAROTTI CAPO .III, 39 gio del nostro Autore
(m ), sarà però quello , che più d'ogni altro ci additerà la strada , che li
vuol battere per giungere al vero nella presente materia , c o m e quello , il
quale più giustamente di Livio merita il nome di P a dre di Romana Storia . ! altro
pon mente alle belle qualità , per cui fu lodato, ed a'diferti, perliquali
C4 D e l resto per giungere a farci una chia ra idea del merito di
questo Autore fa d' uopo prendere d'alquanto più alto i princi p j .Quantunque
pertanto pregio essenziale della Storia sia la verità de'fatti, si voglio no
con tutto ciò offervare e la scelta che fa l'Autore di questi, e le rifleffioni
, e l'ordi ne , con cui dispone ogni cosa , e la dici tura , di cui si serve ,
del che tutto nell'al tra nostra Opera abbiamo copiosamente ra. gionato . O r a
per parlar soltanto delle riflel fioni, queste son quelle , che danno a vede re
il giudicio dell'Autore intorno alle cose narrate, giudicio ,che resta più o
meno de gno di stima a misura , che viene ad esser fondato sopra valide ragioni
, e che non esce di quella scienza , a cui ènoto aver con Jode dato opera lo
Storico . Le considera 1 40 RAĞIONAM , CONTRO IL CONTE fu ripreso ,
riuscirà agevole il comporre i lorodispareri. Vero è, che ilSignorMidle ton ne
recò più svantaggioso giudizio di al cun altro , perchè forle non ritrovò in
lui, come bramato egli avrebbe, abbastanza en comiato l'Eroe , a gloria di cui
egli consa crò una sua assai lunga , ed elaborata o p e ra , nella quale però
sembra ad alcuni , che ne tefla egli piuttosto il Panegirico , che la Storia .
zioni, zioni di un Polibio , o di un Cesare sopra l'arte della
guerra , o di un Tacito sul ALGAROTTI , CAPO III, Inoltre dalla scelta ,
che fa de'fatti , fi (6) Arte Poetica del Signor Francefco Maria Zanotti verno
de'popoli intanto degne sono di c o m tore le manifeste , in quanto hanno essi
fama di ef mendazione fere stati di quelle facoltà ottimi conoscitori M a
fupponiamo , che sitralascino . dallo Scrita riflessioni,non èforsevero, è per
così dir forzato lo Sto che narrando rico a dar segni della approvazione
fapprovazion ,odi sua ? Cosi pensa quel dotto , e Scrittore, uno de'primi lumi
d' leggiadro Italia, cui il Conte fto fuo Saggio (o). Ora que ognun Algarotti
indirizzo ciò posto professò principalmente sa , che Plutarco fcienza
de'costumi ; questa cui le altre tutte qual più direttamente s'hanno a riferire
, come raggi d'un meno cerchio al centro , esercita l'impero suo so pra le
azioni tutte degli uomini, ond'è m a nifesto , che anche supposto , che Plutarco
alcuna osservazione do reca giudicio dell'azione non aggiugnesse fcrivendo , e
giudicio, di cui non piccol caso facoltà ,narran ', che va de uscito dalla
penna di un F i far fi dee,come losofo de'più rinomati dell'antichità . go la
poi , a , qual viene Rag.IV.pag.261,Bologna 1768. qual dà maggiormente a
conosce re il bellicofo genio di quell'Alessandro del Settentrione Carlo
XII.,loggiugne (p), che tal cosa lasciato non avrebbe d'inserire nella vita di
lui un Plutarco . remmo 6)Opere delConte Algar.tom.IV.Discordimilitari
Disc,IX,pag.230 . 42 RAGIONAM , CONTRO IL CONTE ز e nel formare il carattere
de'perso naggi , di cui stende la vita . Egli non sia p paga delle azioni
pubbliche , e ftrepitose , nè si ferma intorno alla sola corteccia , m a
seguendo , per dir così, i suoi Eroi in ogni lu go , e non temendo di
abbassarsi col de. scrivere certe minute particolarità , entra ne? più fecreti
ripostigli dell'animo loro, e pre fentà al lectore ad un tempo medesimo un
fedel ritratto e di esli , e della umana na. tura . E questa singolar dote di
Plutarco fu giàdal nostroAutore osservata; poichènar rando in un suo discorso
un tal fatto parti colare , il qual dà viene in cognizione della perizia di lui
nello scoprire le più nascoste proprietà del cuore umano , e nel formare Questo
è il favorevole aspetto , fotto cui riguardar fi possono le vite da lui
scritte,e gli encomj,di cui gli furono cortefi iCrie tici,vengono a ridurlia
questo.Ma sevo leffimo poi in materie dubbie , ed oscure ri poläre interamente
sulla fede di lui, corre altri . ALGAROTTI . CAPO I11. 43 remmo non
piccolo pericolo d'ingannarsi. Plutarco , con ben raro esempio , congiun geva
un ingegno straordinario ad una credu lità somma (difetto , da cui i rari
ingegni fogliono per altro andar esenti, cadendo più sovente nell' eccesso
contrario ). Forse ritene va in questo parte degli influfli del Cielo di Beozia
. Occupato da'negozji, ch' ebbe a trattare , e dall'impiego di dare lezioni di
Filosofia , poco tempo gli rimaneva per ac certarsi della verirà delle cose ,
che s'accin geva adescrivere.Sifa,ed eglistessolo con feffa , che ignorava la
lingua Latina , nè o b bligato era dalla necessitàa d iftudiarla , ava vegnachè
dimorasse in R o m a , servendo la lingua Greca a que' tempi presso i Latini di
lingua,come fuoldirsidiCorte,cioè par lata dalla più leggiadra , e brillante
parte delpopoloRomano,edi linguadotta.La (ciopensare di quanti sbaglj una tale
igno ranza possa essere itato cagione . Che della fola autorità di lui pertanto
non si debba far molco caso , è il sentimento del dotto Bodino (9), del Rualdo
, del Dacier , e di (1)Joh.Bodin.Method.Hist.Cap.IV..Interdum etiam in
Romanorum antiquitatelabitur.Ruald.animad.inPlut. Dacier nelle note alla fua
traduzion francese delle Vite di Plutarco . Vero RAGIONAM. CONTRO
IL CONTE Vero è, che l'erudito Giureconsulto Ei neccio (r) per salvar dalle
accuse de'Critici un luogo di Plutarco , ove narra questo Sto rico aver N u m a
concesso certi privilegj alle Vestali , i quali si sa indubitatamente non
essere stati ad effe concessi senon dopo que sto R e , avvisofli di fare una
mutazione nel teito di lui,di modo che seavantidiceva: aver conceduro grandi
onori alle vergini V e Itali, veniffe a dire : loro concedettero ( i R o mani
ei sottointende ) molti onori , e fog giugne , che per sì fatta maniera salvar
li possono molti luoghi di questo Storico .cen Turati dagli eruditi. M a
lasciando stare , che molti non saran no quelli,che con una talcurafanarfipof
fano ; non so , perchè con tanta facilitànon . essendo il luogo di Plutarco un
frammento di qualche antico Giureconsulto , il qual a b bia necessariamente
cogli altri a concordare , si avventuri da lui questa emendazione , fen za
addurne altra ragione, fe non che ilfal varsi con questa l'autoritàdi
Plutarco.Am mesfa una tal Critica si fanno scomparire con poca fatica tutti gli
sbaglj de'libri, che ci restano dell'antichità . (5)Heineccius ad legem Papiam
Poppaeam Lib.I.Cap, II, p. 27.Amít, apud Wetftenios,
ALGAROTTI . CAPO III. 45 Sia adunque per la ignoranza della lingua Latina
, lia molto più per lo genio credulo , e poco critico , anzi qualora trattasi
di Sto rie lontane da tempi fuoi portato al m e r a viglioso Plutarco, non è
guida ficura per chi vuol penetrare nelle più rimote istoriche n o tizie .
Quella Storia favolosa , che dic' egli rinvenirli (S ). nelle origini delle
nazioni prende , e li ftende troppo negli scritti di lui sopra i diritti della
vera Storia maggior mente sgombra dalle finzioni presso altri Scrit tori . M a
per riguardo a quella parte della Storia di Roma , i di cui avvenimenti ca d o
n o nella nostra quistione , potea troppo qui cilmente schivar gli errori
. N o n avea egli nella sua stessa lingua le accurate fatiche d i Dionigi di
Alicarnasso Scrittore , che ben d o vea esfergli noto , e noto veramente gli
era , facendone egli menzione ? Perchè adunque n o n fi restrinse a lui solo ,
tralasciando quelle fue popolari , e favolose tradizioni? Niuno dubiterà
pertanto , che in questa parte della R o m a n a Storia pofpor si debba
Plutarco a Dionigi. E ben riuscirà singolar cosa , fe recherò in mezzo
l'autorità dello stesso Algarotti, il quale , fuori di questa fa (S ) Plut, in
Theseo in princ. quistione non lasciò di rendere il dovuto omaggio
a Dionigi, e di mostrare il poco caso , che far fi dee della sola autorità di
Plutarcone'fattide'Romani,efefarò ve dere aver egli in cofamolto più recente
negato credenza a quel Plutarco, a cui tan to s'affida per rispetto ad
avvenimenti ri motissimi dalla età di lui. Bafta per chiarirfi di quanto ho
detto dar un'occhiata a ciò , che scrisse l'Autor nostro intorno all'impre fa
di Cesare contro a'Parti (t). Questo è quanto ho io stimato dover pre mettere
circa la fede, che prestar fidee agli Storici , innanzi di farmi ad esaminare .
la verità , o falsità de'fatti , e la ripugnan ża o non ripugnanza di questi
alle epoche il che mi studierò quanto più brevemente per me sipossa di recare
ad effetto. Alicarnasco, Polibio ...... danno una più esatta contez fa
delleragioni dei costumi Romani che non fanno i Romani medefimi ..... M a quei
Greci sapeano a fondo la lingna Latina , buona parte della vita erano viffura
co'Romani ec. 46 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE CAPO
(*)Alg.Op.tom.IV.Disc.Milit.Disc.V. soprala impresadisegnata da Giulio Cesare
contro a'Partipo 178-9. La verità si è , che ognuno si può effere ac corto
quanto nelle cose dei Romani fia poco efatro Plu tarcoec.,epag.180.
Egliècerto,chedellecoseRo mane le migliori informazionisi può dire che le dob
biamo a' Greci. Ed è naturale che cosìfia. A forestieri ogni cosa giugne nuovo
ec, D i qui èche Dionigi ALGAROTTI 47 D i s cIsecnedndeenndo ora
coll'Autor -noftro al para ricolare , ci si fa innanzi il Regno del bel licoso
Fondatore della R o m a n a grandezza , e sarà secondo quello , ch'io Atimo
Indole guerriera , dic'egli , danno ad una voce tuttigli Storici al Fondatore
di quella Impero , che dovea coll'armi fare la con. quista del M o n d o .
Questa indole bellicosa piùnonfipuò celebrareinRomolo,quando fi mostrasseaver
eglipassatolamaggior par te del suo Regno in grembo alla pace:ora le prime
guerre di lui contro i Sabini, che ridomandavano le donne loro , e contro al
quni altri popoli per gelosia d'Impero, furo no tutte breviffime , e
dellapenultima guer ra contro a'Camerj ce ne dà l' tarco (a) , che non cade più
in là dell'anno sedicesimo dalla fondazione di R o m a . N e dopo questa si ha
notizia di alira guerra , falvo CAPO Regno di Romolo . ? cagio ne di non
piccola maraviglia il farsi a c o n siderar la prima venir ad abbreviare la
durata . ragione,ch'egliadduce per epoca Plu. @ Plut.inRomulo, IV.
salvo di quellaco'Vejemi , i quali doman davano , che fosse loro
restituita Fidene , c o me Cittàdilorragione,dicuiRomolos' era impadronito ,
avanti che egli s'impadro niffe di Camerio . E questa guerra non si ha da porre
più tardi , che sotto l'anno d i ciassettesimo dalla fondazione di R o m a 0 là
in quel torno non essendo verisimile che una nazione potente com'erano iVejenti
tardasse gran t e m p o a cercare di riavere il suo . Senzachè ognun ben fa,
che le guer re tra que popoli erano subitanee , tra loro la vendetta non
tardava molto a seguitar l'offesa . Posto adunque , ei soggiu gre , che
l'ultima guerra fatta da Romolo cadeffe nell'anno diciassettesimo del suo R e
gno , se non vogliamo , che i Romani fie no stati più lungo tempo in pace che
in guerra fotto il reggimento dilui,nonsivuo le farlo regnar trentotto anni , m
a della m e tà circa il Regno di lui accorciar fi dee 'Questa è la prima
ragione , che adduce l'Autor noftro per abbreviar la durata del Regno di Romolo
, a proposito di cui,,co m e già disli, strana riuscir dee a chi pon mente
quella epoca , su cui fonda egli ilsuo argomento , ed è ľ 48 RAGIONAM.
CONTRO IL CONTE epoca della e che tro i Camerj somministrata guerra con da
Plutarco . Il Conte d ALGAROTTI . CAPO IV. Conte Algarotti , che la
durata del Regno · di Romolo attestata da tutti gli Storici vuol distruggere ,
adopera per mandarla in rovi na un'epoca di un fatto particolare,dicui niuno fa
menzione , fuorchè il solo Plutarco Storico a tutti iCritici , ed a lui
medesimo sospecto . E d in fatti di questa guerra contro i Camerj Livio non ne
parla punto nè p o co , prova forse della trascuratezza di lui nel tessere
l'antica Storia. Dionigi (b) poi, il quale nel collocarla frale guerre co'Fide
nati , e co'Vejenti da Plutarco non discor da ,non dice però , che questa
precisamen te seguita sia l'anno sedicesimo d i R o m a . V e d e pertanto
ognuno ,ch'io potrei , rifiu tando la testimonianza di Plutarco, togliere ogni
fondamento a questa ripugnanza , m a conveniente mi pare di mostrarmi cortese
ful bel principio delle osservazioni mie . Concediamo adunque , che nell'anno
fe dicesimo di Romolo succeduta appunto sia questa guerra coi Camerj : .con
qual ragio ne si prova , che tantosto abbiano impugna te le armi i Vejenti ?
Forse perchè avendo i Vejenti mosso contro i Romani per riaver Fi... 49 (6)
Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117. Dice Plutarco , che i popoli
circonvicini vedendo (c) riuscir bene tutte le guerre a Romolo ,da invidia,e da
timore agitati, ftimarono non essere la sua crescente gran dezza da guardar con
occhio indifferente , e doversi opprimere una potenza , era ne' suoi principi
formidabile Laon de i Vejenti,i qualitenevano un ampio paese , ed erano de'più
potenti fra' Tosca ni , mosfero contro Romolo , chiedendo la restituzion di
Fidene che dicevano essere di giurisdizion loro ; il che , foggiugne P l u
tarco , non solamente ingiusto ,m a ridicolo era , poichè domandavano come ad
efli sper tante una Città , che non avean difeso, quan 50 RAGIONAM.
CONTRO IL CONTE che già do Fidene come Citrà di lor ragione soggioga ta da
Romolo innanzi a Camerio , non è da credere , che un popolo potente come quello
abbia tardato molto a farsi rendere il fuo , essendo le guerre a que'tempi fubitanee,nè
tardando molto la vendetta a seguitar l'of fela? Ora io intendo
dimostrare,anchecollo stesso Plutarco , effer piuttosto da credere , che alla
guerra co' Camerj seguita fia las guerra co'Vejenti dopo qualche notabile spa
zio di tempo . ( ) Plut. in Romulo . do da Romolo era stata
assalita , e lasciati in quel tempo gli uomini in balia de'nemi ci,aspettavano
allora a pretenderne lemura. Livio poi dice , che presero le armi i V e jenti
(d) , non perchè fossero possessori di Fidene loro tolta da Romolo , ma perchè
i Fidenati erano anche Toscani , e quel che è più , perchè temevano non le armi
de' Romani avessero ad esser fatali alle vicine nazioni ; e Dionigi in fine (e)
dice , che il pretesto della guerra fu la strage de' Fide nati . Ora adunque ,
poichè siamo certi,che per gelosíad'Impero , e non per altro im pugnarono le
armi i Vejenti , li dee piutto Ito credere effere questa gưerra fucceduta
qualche tempo notabile dopo quella coi Ca. meri ; perciocchè stava ad osservare
questo popolo , le poteva assicurarsi della sua forte Tenza arrischiar nulla, e
se riusciva a qual che altra nazione di abbattere i Romani : veggendo poi , che
s'erano felicemente sbri gati da quelle , e che anzi salivano ogni sanguinitate
( nam Fidenates quoque Etrufci fuerunt ), & quodipfapropinquitasloci,fiRomana
armaomnibusin. d 2 gior ALGAROTTI , CAPO IV. 51 (d)T. Liv.Lib.I.Dec. I.
Cap.VI.n.15. Belli Pidenatis contagione irritaii Vejentium animi , & con
festafinitimis effent,fimulabat. (e) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117.
RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Oltr' a ciò , avvegnachè seguita fosse., come
si dà a credere l'Autor noftro ,questa guerra circa all'anno diciassettesimo
dalla fondazione di R o m a , chi ci assicura , che altre non ce ne sieno state
, le quali ,come di non gran conseguenza,n o n sieno state dagli Storici
giudicate degne di entrare negli A11 nali loro ? Pretende pure egli stesso, che
non fisia tenuto accurato registro de'fatti , anzi confervari fi fieno per
mezzo di una cotal vaga , ed incerta tradizione ? Veda adunque non se gli
possano ritorcere le sue stesse ar mi , e ch'egli medesimo ammetter debba p o
ter offer fucceduti cali da cotefta fua vaga tradizione non conservati.
giorno a maggior buona cosa il non lasciarli fortificar nella grandezza stimò
esfer pa ce . Se ruppe adunque per propria sua ial vezza la guerra , è
probabile , che ciò non abbia fatto se non dopo un qualche conside rabil tratto
di tempo , nel quale abbia ve duto , che nessuno s'arrischiava di sfidar R o
molo a battaglia . Queste osservazioni,a me pare,bastar po trebbono per
dimostrare, cheleirragionevo lezze ręcate in mezzo dal nostro Autore non sono
di tal peso , che vagliano ad in fringere la Cronologia , e sminuir la durata
del 'ALGAROTTI CAPO IV. 53 del Regno di Romolo : nulladimeno stimo
pregio dell'opera , acciocchè maggiormen te appaja la verità , fare una
luppolizione , Orsù adunque abbiasi per non detto tutto ciò , di cui abbiamo
ragionato sin ora.Dianli per invincibili le ragioni del nostro Autore.
Concedafi la presa di Camerio esser seguita ; com'ei pretende,l'anno sedicesimo
di Ro m a , l'anno seguente la guerra co'Vejenti , e dopo questopace profonda ;
che ne segui rà per ciò ? Si opporrà questo per avventu ra a quell + '
indole bellicosa, che gli Scrittori danno ad una voce al Fondatore del R o m a
no Imperio ? Non potrà un Principe dopo essere felicemente riuscito in molte
pericolo se imprese , dopo essersi procacciato stima , e venerazione presso le
vicine nazioni colla fua bravura , goder de'frutti delle sue vit torie , e
riposando all'ombra allori 9. col mantenere il guerriero valore vivo , e
rigoglioso ne'suoi soggetti, fare in modo,che la fama diprode ,ed invittoac
quistatası, ed il sapersi esser egli a guerega giare sempre apparecchiato , gli
proccurino una pace non inquieta,turbata , e vergogno fa,ma
ferma,ftabile,sicura,pienadiglo ria, e di virtù . Troppo sarebber funesti all?
uman genere gli Eroi , e troppo infelice vi de'conquistati ta d 3
(f)Op.del Conte Algar.tom.VIII.Epistoleinverfa ep.16. sopra
ilCommerciopag.147, (8)Dionyf. Halic,Lib.II.p.82. 54 RAGIONAM .CONTRO IL
CONTE se per guerra fosse valente , ce ne assicura D i o nigi (g) , ove con
quanti modi studiato fi di sia ta avrebbono eglino stessi a menare ,
acquistarsi tal n o m e , viver dovessero o g n o ratra le stragi, e tra 'l
sangue. E non eb be lo stesso Autor nostro a lodare l'amor delle bell'arti, la
profonda Scienza Politica , e le altre civili virtù di quel bellicoso Prin cipe
, il quale tanto, vivo , il processe, ed in tanto illustre modo , morto ,rese
celebre la memoria di lui? E non fu la verità ster fa , che animò la sua tromba
, quando ce. lebrò quel paese (f). Dove un Eroe audace , e saggio Nestore , e
Achille in un fa fede al Mondo, Che l'Italo valor non è ancor morto . Troppo
fiera fu adunque l'idea , ch'egli fi formò in questo suo Saggio di un Principe
guerriero,potendo esseremoltobene,eche Romolo abbia la maggior parte del suo R
e gno passato in pace , e che ciò non ostan te a sminuir non si venga la gloria
milita re, dicui gode presso gli Storici. E chenell'artinonmenodipace,che
4 fia di ordinare lo stato va divisando . N e meno di un Romolo vi
avrebbe voluto,per assodare , ed unire con faldi nodi una sì mal ferma società
, e per ispirare la dovuta f o m missione , una sola foggia di vivere, di pen fare
in certo modo , l'amordella patriaido. lo de'Romani ., e fonte di tutte levirtù
loro, in uomini di varie nazioni , di non ottimi costumi,per
l'armi,eperlevittorieferoci. N è quelle parole , che Plutarco mette in bocca di
N u m a (h), quando per sottrarsi dallo accettare il Regno offertogli insiste,
di cendo, chedi un uomo di spiritiardenti,e insulfiordell'età,che non diunRe,ma
di un condottier di esercito avean di biso gno i Romani per fronteggiar
que'potenti nemici , che Romolo avea lasciato loro sulle braccia ; quelle
parole , dico , non sono da t a n t o , c o m e si c r e d e l ’ A u t o r n o
s t r o , c h e , a n che concedendo non esservi ftata dopo l' anno
diciassettesimo del Regno di Romolo guerra alcuna , perciò ritrar debbasi la m
o r te di lui al diciottesimo, o ventesimo anno del suo Regno . Temeva Numa ,
che i po poli circonvicini, i quali non s'attentavano di moleftar i Romani ,
poichè ben sapevane qual d4 ALGAROTTI , CAPO IV. 55 (5) Plut. in N u m a
, 56 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE Storici , che finsero aver
que'personaggi, i quali a favel lare introducono , ragionato secondo le cir
costanze , e giusta l'indole loro . Dalle m a l sime , che nel corso del suo
Regno dimostrò Numa , dalla non curanza di luiper gli ono ri ricavo Plutarco questa
parlata da lui fat ta , rifiutandoil Regno offertogli da'Romani. A proposito
del qual nulla trovarsi appreffo Livio , altra prova. forse della sua
trascuratezza , e che Dionigi (1) rifiuto è d a notare 2 qual prode Principe li
reggeffe , non pren dessero animo dal genere di vita tranquillo , e filosofico,
che noto era ad ognuno essere da lui professato , e non volessero lasciarsi
sfuggir di mano una occafione sì favorevo le di abbattere un popolo , il quale
già d a to avea tanti non dubbj fegni di voler fot tomettere le confinanti
nazioni , ed in q u e to modo è da intendere , che Romolo la sciato avesse
potenti nemici sulle braccia a' Romani . Senzachè , per non ripeter quello ,
che già disfi , e di nuovo mi converrà dire intorno al poco credito , che far
sidee della autorità di Plutarco , certa cosa è , che quelle parole , le quali
presso di lui si leggono c o me diNuma,s'hanno ariguardarealpari delle altre
concioni,sia di Livio, chedilui, quai lavori della mente degli Storici 1
ALGAROTTI . CAPO IV. 57 ) firestringeadire,che avendoperbuo no spazio di
tempo ricusato ilRegno , s'in duffe poi ad incaricarsene a persuasione de' fuoi
, è inutil cofa riuscirebbe cercar in Lo stesso Plutarco poi è quello,che fom
miniitra il fondamento ad un'altra ragione , con cui ftudiasi il noitro Autore
di abbre viare il Regno di Romolo . Ammette .egli adunque , che nel
cinquantesimoquarto anno dellasua età giunto siaa morte Romolo, ma conceder poi
non vuole,che difolidi ciassette anni abbia cominciato a regnare , la qual cosa
è forza dire , quando foftener si voglia , che di anni trentotto stata sia la
durata del Regno di lui. Le ragioni , che egli adduce per mostrare non poter R
o m o lo esser cosìper tempo falitolulTrono,non fono altre, se non che ciò
ammesso ,non po. terli quelle tante cose , che questo Principe facea secondo
Plutarco (k) con sì tenera età conciliare ; ed essere maggiormente impro babile
, che si giovane abbia fondato u n a Città , fiasi fatio Capo di un popolo ,
ed pone Plutarco . 1 abbia sto Storico quelle parole , che in bocca gli
(1) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 121. (1) Plut. in Romulo . que (1)
Op.delConte Alg.tom .IV.Disc,milit.Disc.V.sopra cit.p. 180. Per via della
conversazione , dic'egli ( Plu tarco)convieneinstruirsidelleparticolarità,chesonosfug
gite agli Storici 58 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE abbia guidato
difficilissime imprese , c o m e a tutti è noto . M a io non so ritrovare in
primo luogo ripugnanza veruna tra la età , e la condot ta di Romolo innanzi
a'principi del suo R e ' gno,principalmente se vogliamo attenersi a ciò che di
lui narrano Livio , e Dionigi , e non ricorrere a Plutarco quale pren dendo le
notizie dalla bocca di que'R o m a ni,con cui conversava , come stesso'noftro
che dalla venerazione , in cui quelli tenevano dell' Imperio leggiadro Autore
(1) , ben è da credere , ogni cosa , che appartenesse al Fondatore loro,sia
Scrittor erudita, ed elegante (m ), diceva , che la grandezza sero i Romani cia
, e dell'Alia dopo le conquiste , avea (parfo voluttà non ebbe , e di gloria fu
que'pri lume di chiarezza de’ m i loro antenari posteri, qual rozzo , e barbaro
popolo sem il , i quali senza la fama avverti lo .Un , che in fatto di stato
ingannato Francese pari , a cui giun della G r e per così dire un Non so s e i
moderni noftri Critici ileClerc , é i Muratorigli avessero menato buono tal fuo
Criterio. (m) S. Euremont Ouvres mélées , pre ALGAROTTI , CAPO IV.
59 (n) Montesq.Consid. surlescausesde lagrand,desRom. a segnes venando
peragrare falous : hinc robore corporis bus animisque fumo jam , non feras
tantum fubfiftere, fed in latrones praeda onuftos impetum facere, pastorie
busque rapta dividere, & c u m his crescente in dies grege juvenum ferias,
ac jocos celebrare, pre 1 farebbono stati riguardati dalle colte n a zioni
. Io non voglio per niun modo adot tare il parere di lui , anzi penfo , che lo
stesso Signor Montesquieu , il quale osservò c o n occhio si filosofico tutto
il corso della Romana Storia , abbia avvilito di non Chap.I. ( 0 ) D i o n y f.
H a l i c . L i b . I. p a g . 7 2 . 8 ful bel principio della sua Opera (n)
l'ori gine di quella Città Regina ; m a credo Tuttavia di potere a buona
ragione sospetta fondato sopra popolari tradizioni , e proveniente dalla b o c
re del racconto di Plutarco ca di coloro,che qual Nume Romolo ado ravano ,
quando nè Dionigi , e nè pur Li vio danno di ciò il minimo cenno . Ed in fatti
Dionigi (6) ci fa sapere soltanto , che i due giovani Principi furono condotti
Città de'Gabj , perchè loro s'insegnassero leLettere,laMusica,ed ilmaneggiarle
armi alla foggia Greca insino a tanto che pervenissero alla pubertà , e tutti
que'p r e gi , i quali attribuisce loro Livio (p) , T. Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.3.1.4. Quum primum adolevit aetas nec inftabulis , nec ad peco
troppo alla disconvengono punto alla giovanile età , a n zi più
diquella,ched'ogni altracomecor porali esercizj fon convenienti . M a su via
concedasi per vero ciò , che dice Plutarco , sarebbe poi da farne le
maraviglie, che un giovane d'ottimo ingegno fornito cominci a dar segni di quella
prudenza , che ha da tilucere un giorno in lui.Educato Romolo , come fu , non
v'ha inverisimiglianza nessu na,cheinlui,avvegnachè giovanetto,sfa villasse un
raggio di qualche cosa maggior del comune M a dirà egli, per quanto , e dalla
natura di belle doti fornito ,e dalla educazione in strutto suppor si yoglia
Romolo , che abbia edificato una nuova Città , che si sia fatto Capo d'un
popolo , che abbia guidato diffi cilissime imprese , sempre con si tenera età
mal potrafficoncordare. Non sipuò nega re , che di troppo maggior forza , che
non 60 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE e cominciassero a svilupparsi que'semi
di generosità , che dalla sua prin cipesca origine avea tratto? Oltre di che
quan te volte il corso dello ingegno è più velo ce di quello degli anni ? U n a
illustre prova ben ce ne diede lo stesso noftro Conte Al garotri , il quale
nella sua prima età in m o l te , e varie facoltà dimostrò l'acume , e la
perfpicacia dell'ingegno suo . la la precedente sia questa ragione
: vediamo con tutto ciò il modo , con cui Romolo di venne Re , e non parrà più
forse tanto dif ficile il concepire , che si giovane sia giun to a tanta
grandezza ; e prina d'ogni cosa prendiamo le più sicure notizie di quello , che
è succeduto dalla nascita di Romolo in Gino al tempo , in cui fu innalzato
alTrono. A tutti que'racconti della infanzia diR o molo io ltimo doversi
preferire quello di F a bio antico Storico seguito da molti , come dice Dionigi
, ed acui più propende egli medesimo ( 9), come quello , che favole chia m a le
narrazioni degli altri Scrittori . Egli adunque rigettando quella poetica
finzione della Lupa , nega insino , che fieno stati ef posti i due gemelli ;
che anzi afferma aver Numitore per destro modo sottoposti altri fanciulli , i
quali furono da Amulio spieta tamente trucidati . Quindi essere stati i due
Principi da Faustulo educati , ed inviati, perché ricevessero una insticuzione
, secondo che richiedeva la origine loro,alla Città de' G a b j ; il qual
Fauftulo , per dirlo alla sfuga gita , quaprunque pastore de'Regj armenti, è da
credere fosse poco meno di un uomo ALGAROTTI . CAPO IV. 63 (9) Dionyf.
Halic. Lib, I. pag. 70-12 di di stato de'nostri dì, attesa
lasemplicitàde* costumi di que'tempi . Ritornati poi dalla Città de'Gabi ,
legue a dir Fabio presso Dionigi , di consenso dello stesso Numitore , i due
giovani Principi fi azzuffarono co'p a stori d i lui , e gli sforzarono di
ritirarsi in un co'loro armenti dà certi pascoli tuttoc chè comuni . Questo
aver fatto Numitore per poterli accufare , e trovar m o d o di far entrare
senza dar sopetto tutti que' pastori nella Città . Ordita una tal trama , esser
v e nuto Numitore dal fratello Amulio a lagnarsi, e chiedere a lui , che gli
dovesse consegna Te que'due Fratelli col Padre loro , i quali l'aveano sì villanamente
oltraggiato , e d a n neggiato nelle cose sue, se pure seguito era ciò senza
colpa di esso Amulio .Amulio per dare a divedere , che avuto non ne avea al
cuna parte , manda tosto per esli , 62 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE
dando,che nella Città venir dovessero non il solo Faustulo co'suoi supporti
figliuoli, m a tutti coloro eziandio , i quali erano di tale delitto
accagionati . E con tal mezzo essen dosi , oltre a 'rei , grandissima
moltitudine nella Città introdotta , Numitore , dopo aver a' giovani l'origine
loro , i loro cali , e le offele da Amulio ricevute , averli scoperto animati
alla vendetta , ed averli persuasi a esli , coman non ALGAROTTI.
CAPO IV. 63 non lasciarsi sfuggir di mano sì favorevole occasione di eftirpar
quel Tiranno come fe cero . Questo è quanto si raccoglie da Fabio presso
Dionigi ; narrazione , lia per la quali tà del testimonio, sia per la
veritimiglianza , da antiporsi sicuramente a quella di Plutar co (r), che porta
in se stessa scolpito ilca rattere della finzione , e che al primo aspet to si
dà a conoscere per lavoro della fanta sía de'Romani de'suoi tempi , da cui
attin geva questo Storico le sue notizie, i ogni cosa nel loro Fondatore
finsero straordi naria , e maravigliosa . N o n fu adunque solo Romolo in
quella impresa , anzi fu a quella stimolato dall'Avo , e fu diretto da quello
il suo valore , perchè produr potesse non solo discordie, e sangue, ma utilità,
e fi curezza . quali con Non voglio poi ora parlare diquellaopi nione
accennata da Dionigi (1 ) , e se non -abbracciata , n e m m e n o riprovata da
lui, che R o m a stata sia anteriore a Romolo ; onde egli non Fondatore
diquellaCittà,ma Capo soltanto d'una colonia chiamar 'si debba ; (1) Plut, in
Romulo . ( 8) Dionys. Halic. Lib. I. pag.60. .. concedo, che ne sia
stato ilFondatore,ma è da sapersi, che , ha l'idea di edificare una Città , lia
i mezzi per condurla a fine, fu rono opera di Numitore , e non diRomolo.
Dionigi (1) di questo ci assicura , dicendoci , che due fini il mossero a ciò
fare ; primie ramente per dare un ricetto degno di loro a'due giovani Principi
, in secondo luogo per isgravare la troppo grande popolazione della Città di
Alba , allontanando principal. mente coloro , che avean seguito le parti di
Amulio , ond'egli poteffe regnare libero di ogni sospetto. La qual cosa è,
avvegnachè oscuramente accennata da Livio (u) : per ciocchè dicendo questo
contro l'autorità però e di Fabio , e di Dionigi , i quali per ianti rispetti
degni sono di maggior fede , che il disegno di fabbricare una nuova Città fu
pure Numitore , 64 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE opera della mente dei due
Fratelli,m a n i felto indizio , che troppo non erasi studiato di diradar le
tenebredi que'primi secoli, soggiugne , ch'eravi allora una gran molti tudine
diAlbani,e di altri,con cui pote vano popolarla. Nè mancó Lores quoque
accefferant, come. (1) Dionyf. Hasic. Lib. I.pag. 72. (u) T. Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.III.n.6. Supererat multitudo Albanorum ,Latinorumque , ad id p e
r come attesta Dionigi, di somministrar loro e danari,ed armi,ed
ognialtra cosa,che abbisognasse per edificareuna Città (x).Ed a quella parte di
popolo , che seco condot ta avea Romolo , fra cui eranvi non po chi de'
principali di Alba , iecondo il parer dell'Avo , ragionò sul cominciare della
edi ficazione (y ) . Dal tutto il fin.qui detto pertanto ftati e (3)
Dionyf. Halic. Lib. I pag. 72. (y) Dionys. Halic.Lib. II.pag.78. ) Dionyf,
Halic. Lib. II, pag. 119. ALGAROTTI . CAPO IV. 69 ramente ne risalta non
esserpunto cosa in verisimile , che di soli diciassette anni , o di diciotto
abbia potuto Romolo farquello,che pur fece, se lipon mente, che in quelle sue
prime imprese ebbe sempre a'fianchi l' A v o , ed ogni cota secondo il
consiglio di lui esegui;fu egli l'Achille d'ogni impre fa,Numitore ilChirone.
Tanto ho stimato dovermi stendere su que ho particolare , perchè non è Plutarco
il solo, che ciò scriva ; ma lo stesso Dionigi chiaramente attesta aver Romolo
incomincia to il fuo Regno di foli diciotto anni (z). Vero è , che se si
dovessero togliere dagli anni , che corsero avanti N u m a cinquanta giorni , i
quali vogliono molti Autori essere 1 chia. 66 RAGIONAM. CONTRO IL
CONTE stari aggiunti da questo R e , oltre ad undi ci giorni, che pur mancavano
all'anno fe condo la riforma , ch'egli ne fece , tre anni fi vorrebbono
togliere dalla età di Romolo , quando ascese al Trono , nè vi farebbe per
venuto di diciassette, o diciotto anni , di quattordici , o quindici . Anche
ciò con cesso nel modo , che divenne Re , non sa rebbe gran meraviglia , che
divenuto lo foffe in età si tenera , non avendo forse altro egli fatto, senon
imprestare ilsuonome alieim presedell'Avo:ma dipiùsivuolnotare che quegli
Autori , da cui raccogliesi esser giunto al Solio R o m o l o di soli
diciassette , • diciott'anni, non sono di parere , che tanti giorni mancassero
all'anno avanti N u m a . za r Dionigi , il qual dice (aa) essere il Fon
dator di R o m a morto di cinquantacinque anni dopo averne regnato trentafette
, e che aggiugne sulla testimonianza di tutti gli a n tichi Scrittori , i quali
parlarono di lui, che molto giovane fu innalzato al Solio vale a dire di soli
diciott' anni, di questa rifor ma dell'anno fatta da Numa , per quanto io ne
abbia osservato , non ne dà alcun cen no , silenzio , che congiunto colla
accuratez (aa) Dionyf. Halic. loc. cit, 2 ALGAROTTI.CAPO IV. 67
(bb) Plut. in Roinulo . (cc) Plut. in N u m a . (dd)T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.19.
(ee) Macrob.Salurnal. Lib.I. Cap.XIII.Numa ......quin quaginta dies addidit ,
ut in trecentos quinquaginta qua. suor dies za di lui mi mette in dubbio della
verità della cosa.Plutarco poi , che dice esseregli morto di cinquantaquattro
anni (bb), onde abbia dovuto incominciare ilsuo Regno di diciassette , parla di
questa riforma (cc), m a vuole , che Numa altro non abbia fatto,le non aggiugnere
gli undici giorni , che m a n cavano all'anno, e togliere l'irregolarità de'
mesi , che erano in uso , essendovene tale , che non giungeva a venti giorni ,
e tale , che giungeva a trentacinque e più . Che al tro egli non
abbiafatto,cheregolareimesi, ed aggiungervi alcuni pochi giorni, è quello pure
, c h e intorno a questo raccogliere fi possa da Livio (dd) . So , che molti
Scrittori , come Macrobio (ee) , 'Ovidio , Censorino , ed altri furono di
contrario parere . Si dee però distinguere tra quelli , che asserirono , che
l'anno avanti Numa era di soli dieci mesi, e quelli,che dissero precisamente di
quanti giorni fosse composto , perchè potrebbe essere , trattan e2 dosi
....annus extenderetur,Ovid.Falt.Lib.I. dosi di Scrittori molto lontani
da'tempi di Numa , che da quelli , i quali lasciarono scritto essere stato l '
anno avanti N u m a di soli dieci mesi , abbiano altri , come forse
Macrobio,argomentato , che l'anno foffe di foli trecento e quattro giorni , la
qual c o n getturą ognun può vedere , quanto sarebbe · fallace, potendo esser
benissimo, che fi fa. cessero avanti N u m a dei mesi più lunghi a l fai del
convenevole , e si venisse a compor re con foli dieci mesi l'anno di trecento
cinquantaquattro giorni, non di foli trecento e quattro . Del resto il.Signor
Dacier (ff) afferma , che alla opinione, che di soli trecento e quattro giorni
fosse composto l'anno avanti N u m a prevalse quella, che giugnesse ai trecento
cinquantaquattro per l'autorità principalmen te di Fenestella , e di Licinio Macro
. Cre do pertanto , che ciò basti per togliere quello 'o m b r a
d'inverisimiglianza , c h ' altri ritrovar potesse tra l'età di Romclo , e
l'elier egli giunto ad ottener la Corona , dovendosi, le condo la più comune
opinione, togliere fol tanto pochi mesi , che risultano dagli undici giorni , i
quali mancavano all'anno avanti (f) Dacier nelle note alla vita di Nuina di
Plutarco , 68 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE ! Numa , ALGAROTTI
CAPO IV, 69 e3 CAPO (88) Così dice il Signor Dacier nelle mentovate sue
annotazioni doversi leggere Plutarco , e non trecento e s e s s a n t a , c o m
e m o l t o b e n e l o d à a d i v e d e r e il c o n tetto , Numa , e
non tre anni dalla età di diciotto . Senzachè a me baita , come già disfi , che
da quegli Autori , da cui fi rica- . va questa età di Romolo quando fali sul
Trono , non fi può l'obbiezione dedurre in modo alcuno, anzi il primo
glıtoglieilfon damento , non parlando di questa riforma. lui di dell' anno , te
, il secondo la confuta espressamen dicendo, che l'anno avantiNuma giun geva ai
trecento cinquantaquattro giorni (gg ). O n d e mi pare a sufficienza
dimostrato , che tuttique'fatti,iqualirecatisono inmez z o dall'Autor nostro c
o m e ripugnanti alla d u rata del Regno del primo Re diRoma ,ot timamente con
questa possono conciliarsi, e vengono a perdere .ogni lor forza, e a di.
leguarsi cutte le contrarie ragioni . RAGIONAM . CONTRO IL CONTE
(a)L'Ami desHommes Tom.III.Chap.V.DesPro cui V. Fondare Regno di Numa.
CAPO Ondare un Regno , e dargli le leggi sono due operazioni cosi fra loro
diverse dice un valente Politico (a) , che richiedono per lo più due distinti
Principi per eseguirle. Nascono ordinariamente gl'Imperj nella fe. rocia
de'popoli tra la discordia,e learmi: laddove la Legislazione ( intendo io di
quella , che veramente meriti un tal nome ), è uno
de'piùpreziosifruttidellapace.Ed èben conveniente , che ciò , che rende per
quan to si può gli uomini felici , tra quello for ger mal poffa , che ne fa
l'infelicità m a g giore . Ed in effetto le leggi di Romolo ,. di cui abbiam
sopra fatto parola , riguarda vano soltanto lo stato corrente degli affari,
erano leggi , che abbisognavano , p e r così dire, allagiornata . Numa si che
fu poi quello , che concepì una vasta pianta di L e gislazione , un general
Sistema , il quale m i rar dovea alla eternità ; Sistema , che sotto di se
comprendeva eziandio la Religione ,di hibitions . ALGAROTTI. CAPO
Y. 71 M a l'Autor noftro , quafichè ridur non si possa a credere , che senza
alcuno indirizzo ira popoli feroci , e pressochè barbari, g i u n gere
Per fia potuto Numa a tanto senno da cui egli secondo l'uso de'
Legislatori,iquali furono a' tempi degli Dei bugiardi, utilmen te fi servi per
fiancheggiarne quelle leggi , quegli instituti , que'coitumi, e quelle opi nioni,
che a parer fuo doveano maggiormen te contribuire alla felicità della Nazione :
per se , mette in campo quella tradizione, che correva per bocca de'Romani
insin da'tem pi di Augusto , secondo cui dicevasi essere Itato ilRe Numa uditor
di Pitagora:onde le belle doti , le quali rilussero in lui, frutto fieno stato
degli ammaestramenti di quel F i losofo , la qual tradizione torna molto in a v
vantaggio del suo Sistema . Perciocchè , dic' egli , posto che N u m a sia
stato discepolo di Pitagora, siccome sappiamo da Cicerone, Livio , e da altri
Scrittori esser giunto q u e Ito Filosofo in Italia in età molto lontana dal
tempo , in cui comunemente fi pone . N u m a , dee questo far accorciare almeno
la durata de'cinque susseguenti Regni , perchè il Filosofo possa essere
contemporaneo del Re Legislatore . еА 3 da Per rispetto al qual suo
ragionamento dei che se egli si fosse soltanto servito di quella tradi zione ,
secondo cui dicevasi N u m a essere Itato uditor di Pitagora , da questo n o n
avrebbe potuto inferirne cosa alcuna in fa vore del suo Sistema , potendosi una
tal v o ce concordar molto bene coll'antica C r o n o logia , cioè dicendo ,
che Pitagora venne in Italia in que'tempi , in cui secondo questa , fi crede
regnasse N u m a ; facendo ascendere in una parolaPitagora a'tempi di lui.Ma
siccome egli desiderava farlo discendere a’ tempi pofteriori , non bastavagli
questa s e m plice tradizione , bisognava , che d'altronde in cui coreito
raccoglier potesse il tempo , Filosofo venne in Italia : preselo da Cicero ne ,
e da Livio , ma non s'avvide, che vo. lendo servirsi della autoritàloro,erapoi
for za rinunciare a quella tradizione base avea posto alla obbiezion sua.
Percioc chè vero è bensì , ch'essi dicono esser giun to questo Filosofo molto
più tardi in Italia di quel tempo , in cui secondo l'antica C r o nologia
regnava N u m a , m a in tanto l'asse riscono in quanto l'uno lo fa
contemporaneo di Servio , di Tarquinio il Superbo , o ,del Console Bruto
l'altro. Volendo pertanto at gno è di particolar considerazione . 72
RAGIONAM. CONTRO IL CONTE che per 9 te 266., ed ivi Giamblico , e
Diodoro . () Diogen. Laert. inPythagora Lib.VIII.Clem.Alex, + il qual
venne Pitagora in Italia , poichè ne lia l'epoca , come bene osservò incerta il
dotto P. Gerdil (b) , non però Scritto gran fatto fra loro i più accreditati
far ri, i quali di tal sua venuta dovertero fessagesimaleconda te concordano
quale asserisce piade 'feffagefima Clemente Alessandri . Diodoro menzione piade
sesfagefimaprima sotto la facilmen no , che lo mette conda , e finalmente fotto
la pone forto , Giamblico l’Olim , le quali epoche (c), il aver egli fiorito
fotro l'Olim con Diogene Laerzio con variano la fessagesimale con Eusebio dice
esfer egli morto nel quarto anno della fettantesima Olimpiade Diogene mentovato
- ottanta o novant'anni . Livio poi , Cicero- in cui quantunque del (d) in età
di , e per attestato Laerzio ne , ALGAROTTI CAPO V. renerli ad effi , non v'era
ragione per a b bracciare soltanto il tempo , e n o n di qual R e fu contemporaneo
questo Filosofo le non il tornar questo in avvantaggio del suo Sistema . lo pon
parlerò qui del tempo , (1) Introduz. allo Studio della Relig. Lib. III. $. 2.
p. Strom .Lib.1. (4) Diogen. Laert.loc.cit. ed altri Scrittori in
tanto ci danno 19 epoca inquanto,come ho accennato,cidi con di qual Re fu
Pitagora contemporaneo le quali epoche però da loro fissate non ef cono dagli
anni , che secondo la Cronolo gia comunemente ricevuta , corsero dal fine del
Regno diServio, insinoalprincipiodel Consolato ; del che niente è da
maravigliarsi, poichè essendo probabile aver dimorato in Italia questo Filosofo
un notabile spazio di tempo , tale Scrittore avrà tolto l'epoca , di cui fece
registro, dall'anno della sua v e nuta,tal altro da un fatto accaduto essendo
lui in Italia , tal altro dalla sua partenza , o dal tempo di mezzo della sua
dimora , onde possono aver detto tutti ilvero ,quando fiasi fermato in Italia
non più di venticinque a n ni , che tanti ne corsero appunto dalla m o r te di
Servio infino al principio del Consolaro . Tutto questo adunque io lafcierò da
par te .Concedo , che ammettendo per vera quella popolar voce , essa dovesse
piuttosto far discender N u m a a'tempi di Pitagora , che far ascender Pitagora
a'tempi di N u m a . M a quello , a cui principalmente badar fi dee , è , che
questa tradizione medesima non è fondata sopra alcuna autorevole testimo nianza
, che la renda credibile . Vero è,che ne 74 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE 2
al. verità nelsuo gover ALGAROTTI , CAPO V. 75 alcuni rammentati
da Livio , da Dionigi , e da Plutarco (e) furono di parere , che da Pitagora ,
il quale in quella parte d'Italia , che M a g n a Grecia nomavası , gittò
ifonda menti della sua filosofica serta , N u m a ricevu to avesse quelle
maflime di Religione , e di Politica , che pose in opera no . M a è da
considerarsi negar Livio ciò apertamente , p.120. non essendo secondo luivenu
to Pitagora in Italia,se non sotto ilRegno di. Servio Tullio , e dopo alcune
ragioni , con cui studiasi di mostrar l'insusistenza della opinione di costoro,
soggiugne, che di sua natura inclinato fosse alla virtù cotesto Re , nè bisogno
avesse di straniera instituzione bastandogli la dura , e severa disciplina
degli antichi Sabini , de' quali non v'avea una vol ta più incorrotta nazione
(f ) . E questa se (e)T.Liv.Dec.I. Lib.I.Cap.7.8. 18. Dionyf. lic.Lib.II.
Plut.in Numa . (f) T.Liv.loc.cit.Auétoremdoctrinaeejus,quianonexa taralius
,falfo Samium Pythagoram edunt: quem Servio Tullioregnante
Romaecentumampliuspoftannos inul tima Italiae ora ....... juvenum emulantium
ftudia coetus habuiffe conftat ....... fuopte igitur ingenio , temperatum
animum virtutibusfuisfeopinormagis, instru&tumquenon tam peregrinis
artibus, quam disciplina teirica , ac tristi veterum Sabinorum , quo genere nullum
quondam incorru. prius fuis. verità origine ebbe per avventura da
una Colonia di Spartani venuta in Italia a't e m pi di Licurgo , come appare
dalle memorie antiche nazionali portate da Dionigi , e di cui anche ne dà un
cenno Plutarco (8 ) , la qual Colonia è da credere che trasfufo avesse
ne'Sabini buona parte de'costumi de' Lacedemoni . Cicerone poi in più luoghi
delle opere sue afferma fuor di alcun d u b bio esser giunto questo Filosofo in
Italia sot to ilRegno di Tarquinio ilSuperbo,eche in Italiapur era a
que’tempi,in cuiBruto diedelalibertà a'Romani(h).SottoilCon solato di Bruto lo
mette pure Solino , ed Aulo Gellio in fine dice effer venuto questo Filosofo in
Italia sotto il R e g n o dello stesso Tarquinio Superbo . Dirà forse taluno ,
che l'alterigia de'R o (8) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 113. Plut. in N u m a
in piternum Hanc opinionem discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit,quicum
·Superbo regnanteinItalian veniffet tenait magnam illam Graeciam ec. Cic. Tusc
. Brutuspatriam liberavit:ld.ibid.Lib.IV.Aulus Ge lius Noet.
Attic.Lib.XVII.Cap.21.PofteaPytagoras Samius in Italiam venit Tarquinii filio
regnum obtinente , cui cognomento Superbus fuit , 76 RAGIONAM . CONTRO IL
CONTE mani princ. (h) Ferecides Syrus primum dixit animos hominum ellefema
Quaeft. Lib. I. Pythagoras , qui fuit in Italia temporibus iisdem , quibus
L. mani fu cagione del non darsi credenza a questa tradizione dai
dori, quafichè ellite messero non venir con questo a scemare la gloria di
que'primi secoli ,, riconoscendo da un Greco l'Institutore della Religione , ed
il più favio de'Re loro . Quantunque questa non paja ragion bastante per negare
ciò , che gli Scrittori Romani ci dicono: poichè ammessa questa regola ,
rifiutar fi potrebbe come supporto tutto ciò , che uno Storico narra di
avvantaggioso per la nazion sua , v e diam tuttavia ciò , che ne dissero
iGreci. E' da credere ; che questi sisarebbono recato ad, onore l'aver dato a
Romani il Maestro di N u m a : che per Greco passò presso Dionigi e Plutarco
Picagora , che che ne sia della opinione di alcuni moderni , i quali nè G r e
co.il. vogliono , e nè,pure di quelle Greche Colonie fondate negli ultimi
confini d'Italia. pal ALGAROTTI , CAPO V. 77 Ora ciò non
oftantePlutarco(i)nonscio glie la quistione, e reca foltanto in mezzo le varie
opinioni , che a'suoi di correvano , fra le quali degna è di considerazione
quella di coloro , che asserivano essere venuto in Italia un certo Pitagora
Spartano , il quale avea nella Olimpiade sedicesima riportata la (i) Plus,in
Numar bre (k) Dacier nelle annotazioni alla sua traduzione francese
delle vite di Plutarco ; alla vita di Nuina . 78 RAGIONAM .CONTRO IL
CONTE palma ne'giuochi Olimpici , fotto Numa terzo anno appunto del Regno di
lui il Il Signor Dacier (k) fi ride di una tale opinione , fembrando a questo
Critico ripu gnanza da non potersi comportare , che u n personaggio atto a dare
instruzioni ad un R e , e ad un Re,qual fuNuma,abbiagareggia to in Olimpia per
ootttenere il premio del corso.Ma a me pare con buona avendo Spartani questi
additato parecchj al Re ftrato fondamento uli degli sommini Legislatore alla
favola . , abbia ed pace di 'un tanto uomo , che le usanze moderne lo abbiano
ingannato nel giudicar delle antiche. A tutti è noto , che Socrate il più
rinoma to Filosofo della Grecia non isdegnava di suonar la cetra , e che anzi
non lasciò di esercitarsi nella lotta ; ed oltre a ciò non era poi mestieri,
che fosse un gran scien ziato costui per instruire N u m a delle leggi degli
Spartani . Si sa , che quel popolo nella rigidezza de' costumi, e privazione di
prel so che tutte le cose, le quali rendono dol ce la vita , godeva per altro
dell'avvantag gio d'aver leggi , che per la semplicità , e
ALGAROTTI , CAPO V. .79 con brevità loro , e per la cura del
governo nel farle apprendere a'fanciulli erano note a tutti coloro, che doveano
obbedirvi. N o n farei pertanto lontano dall'ammettere que fta opinione ,se
altro non vi fosse in con trario , fuorchè questa ripugnanza ritrovata dal
Signor Dacier ; m a rinunciar vi fi dee per troppo più forte motivo , ed è la
te stimonianza di Dionigi , il qual dice non ri levarsi da alcuna memorabile
Istoria , che stato vi sia in Italia altro Pitagora anterio re al famoso
Filosofo (l). Del resto,cheilcelebreFilosofodi que sto nome nonsia stato
a'tempi di Numa , con molte , ed incontrastabili ragioni Atelio Dionigisiprova
(m), e di più ac cenna ciò , c h e diede occasione a questa v o ce sparsası nel
volgo , e sono la venuta di Pitagora in Italia , la sapienza di N u m a fuori
dell'usato della nazion sua, a cui sipuò ag . giugnere la conformità della
dottrina, ed il ritrovarsi presso alcuni antichi Scrittori , da cui non
dissente Dionigi (n) , che N u m a fu chiamato al R e g n o il terzo anno della
fedi cesima Olimpiade , il qual anno designarono dallo (1) Dionyf. Halic. Lib.
II. pag. 121. (12)Idem loc.cit. (n) Idein Lib.II.pag. 120. con dire
, che fu quello appunto , in cui quel certo Pitagora Spartano avea riportato il
premio de'giuochi Olimpici .E le pure è fondata quella taccia data a Dionigi di
derivare da'Greci assai più di quello , che ragion voglia delle cosede'Romani
,Greco d a lui efsendo Pitagora stimato , ben è da credere , che nel secolo, in
cui eglivivea, fossero i dotii,uomini sicuri della falsità di questa popolar
tradizione . Chiaro è a d u n q u e abbastanza , che nessun caso si volea fare
di questa , quando da'più dotti fra' R o mani , e fra' Greci fu non solo
rigettata , m 3 confutata eziandio , e quando fondato sopra l'unanime consenso
loro già esitato , non avea l'erudito Stanlejo di chiamarla fas vola folenne
(0) Quello , di cui abbiamo infino ad ora raa gionato,non risguardailRegno
diNuma, m a tendeva ad accorciare i cinque seguenti Regni,ed inquestoluogo
se*o'èdovuto trattare , perchè da cosa appartenente a lui ricavata era
l'obbiezione.Facciamoci ora a considerare quelle ragioni , per cui accorciar
debbasi il Regno diN u m a medesimo . Pare adunque primieramente all'Autor
nostro, che non () Stanlejus in Hift.Philosoph.part.VIII.Cap,X. 80
RAGIONAM. CONTRO IL CONTE ALGAROTTI . CAPO V. 81 Io non fo
rispondere altro a queste ragio ni,se non lasciare al giudicio di chiha fior di
senno,sesianon solo maraviglioso, eri pugnante , m a soltanto fuori
dell'ordinario corso delle cose , che , quando un uomo fia stato di singolare
ingegno dalla natura for nito , e quand'esso abbia posto cura in col tivarlo ,
giunga in età di quarant'anni ad acquistarsi il grido di favio : tanto più che
sappiamo aver N u m a avuto l'arte di conci liarsi venerazione presso gente
rozza , e per conseguente superstiziosa , collo sfuggire il con non
potesse esser fornito nella fresca età,ei dice , di quarant'anni questo R e di
tanta fcienza , e di cosi alto lenno 2 che già ri suonaffe la sua fama non folo
pressoi suoi nazionali , m a ancora presso gli stranieri, e che il suo nome già
dovesse far tacere in un subito ogni particolar riguardo , e le ani mosità
delle parti , che per lo spazio di un anno intero contefo aveano fra loro dello
Imperio . Che tale fosse la riputazione , che si avea della sua scienza, nelle
cose divine , ed umane , che quantunque i Padri vedes sero la grandezza , che
tornava togliendo il Re dalla nazion loro,nondime n o niuno ebbe ardire di
preporre ad un tal uomo . alcuno a'Sabini , 7 f consorzio degli
uomini , dimorando ne'sagri boschi, col disprezzar le pompe , M a questo non è
il tutto , segue a dire il nostro Autore . Tazio , che reggeva R o m a insieme
con Romolo , preso al grido della fapienza di N u m a , gli ditde Tazia unica
sua figliuola in moglie ; ed ancorchè dalla Storia non abbiasi in qual tempo
ciò preci samente avveniffe , si p u ò affermare senza tema di errore , questo
essere avvenuto nei primi anni del Regno di Romolo dacchè Tazio morì prima
della guerra co'Fidenati, e co'Camerį , cioè prima dell'anno sedice 6)Tacit.Annal.Lib.III.Cap.26.
Nobis Romulus ut 82 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE e le 1 gran dezze , e
lasciar che corresse la voce dei suoi pretesi congressi colla Ninfa Egeria.La
fama della sua giustizia non era tale da afa sicurar i Romani , che non sarebbono
stati molestati da 'Sabini , quantunque essi avesse ro tolto il Re della nazion
loro? Doveano finalmente concordare una volta i Padri , e stanchi forse i
Romani , e mal foddisfatti , come quelli, che dato ne aveano non dubbj
segni,del governo diRomolo,ilqualpen deva al tirannico (p), fi contentarono di
eleggere a R e loro un Filosofo . fimo , libitum imperitaverat .
fimo , o diciassettesimo del Regno di R o m o lo ; e Plutarco (9) inoltre
atteita , che T a zia era morta , quando N u m a fu chiamato al Regno , e che
era vissutacon effo luilo spazio di ben tredici anni. Quindi ei rac coglie ,
che gran tempo innanzi fioriva la fama della fapienza di Numa , e dice,che,
volendosi ritenere il compuro di Plutarco , sarebbe di necessità asserire
contro ogni ve. risimiglianza , che all'età di soli venticinque anni la fama
della fapienza di N u m a fosse già tanta da indur Tazio Re ad allogare una fua
unica figliuola con lui u o m o priva Ed ecco altre opposizioni,a cuidàsem pre
il fondamento il folo Plutarco . E che fede fi dee prestar m a i a questo
Scrittore , to , f2 е ALGAROTTI , CAPO V. 83 onde conchiude non potersi
fare a m e no di non dare un sessant'anni almeno a Numa , quando ad una voce fu
eletto Re di Roma , e ne deduce , che se vogliamo , che , come s'ha dagli
Storici , sia vissuto in fino all'età di ottantatré anni , avendo vent' anni
più tardi, che non è la comune cre denza, incominciato a regnare , è neceffario
, che di altrettanti fi venga ad accorciare il suo Regno. ( 1) P l u t . i n N
u m a . 84 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE avanti lui ? Per formarci una
chiara idea della falsità del ragionamento del nostro A u tore , connettiamo
alcune delle epoche di Plutarco , che è il suo Achille per questi due primi
Regni col suo Sistema Cronologico . Tredici e più anni avanti alla morte di
Romolo ei raccoglie da questo Storicoesser seguite le nozze di Numa con Tazia.
Que sto Storico medesimo dice esser nato N u m a nello stesso tempo che Romolo
innalzava le mura dell'alta sua Roma (n): ma vuole il nostro Autore , che di
foli diciannove anni circa stato sia il Regno di Romolo , dunque ne seguirebbe
a ritenere tutte queste e p o che di Plutarco ,e congiungerle col suo S i stema
, che nel fefto, o fettimo anno della età e per rispetto almatrimonio di
Numa con Tazia , e per rispetto all'esatto numero di anni , che vissero insieme
, minute particola rità , le quali sfuggono agli stessi contempo sanei? D'onde
ebbe egli si particolarinoti zie,che aver non potè non già ilsoloLi vio,ma nè
pure l'accuratoDionigi,ilqua le tanta maggior diligenza usò nello stende re le
sue Storie , che di maggior criterio è fornito, e che visse notabile spazio di
tem po ( ) Plut. in N u m a . 1 ALGAROTTI , CAPO V. 85 età fua N u
m a avesse menato moglie , ridi colo affurdo , ed inverisimiglianza troppo
maggiore al certo, che non sia quellad' averla menata nell' anno vigesimoquinto
. So che rigetterà egli quest'epoca , poichè chia ramente scorgesi doversi
secondo il suo Si Itema porre f 3 la nascita di N u m a quarant'anni
innanzi alla fondazione di Roma ; ma è da riflettere ,che se di quelle , direi
così , m i nute epoche , di cui favella Plutarco , non ne danno gli altri
Scrittori un minimo cen no ,nel mettere la nascita diNuma alprin cipio del
Regno di Romolo , o là in quel torno , concordano tutti ; poichè tanto asse
risce Dione (s ) , lo stesso si raccoglie a un dipresso da Livio , ed infine
l'accurato D i o nigi dice,che Numa,quando giunsealSo lio , era vicino al
quarantesimo anno , onde non essendovi, come a luo luogo opportu no abbiam mostrato
ragione alcuna di ab breviare il Regno di Romolo , fi vuol pure secondo lui
mettere circa a'prinċipj di R o m a la nascita di N u m a . Perlaqualcosa stra
no dee riuscire, che l'Autor noftro rifiuti (1) Dion. Cocej. in fragm .
Peiresc. pag. 8. ex ed.Rei. quella mari Hamburg. 1750. T.Liv.Dec.
I.Lib.I.Cap.8.n.21, Dionys, Halic, Lib, II. pag. 129. quella epoca
di Plutarco , la quale è atte Iata dagraviffimi Scrittori,ed ammetta quel le ,
nello asserir le quali trovasi solo questo Stórico. E' adunque forza rigettare
le epo che di Plutarco , e queste sue minute noti zie,non solo perchè
incerte,ma perchèfe fi colgono tutte insieme mal congiungerli possono col
Sistema del nostro Autore . Per rispetto poi a quelle parole di questo R e
presso Plutarco , con cui rifiuta il R e gno , le quali pajono a lui
disdicevoli i n bocca 86 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE M a concediamo , che
queste particolarità accertate fieno , e n o n ripugnino col Sitte m a di lui
le epoche stesse di Plutarco , che grande assurdo ne seguirebbe poi ? Che T a
zio avrebbe data lasua figliuola in isposa a Numa , mentre questi era di soli
venti cinque anni;a Numa de'principali fra' Sa bini; a N u m a , che già erasi
acquistato per avventura riputazion d i fapiente ; a N u m a infine, che quantunque
giovane , ben si può far ragione dal gran renno, che poscia di mostrò , che di
venticinque anni uguagliasse molti uomini , i quali già fossero avanti nell'
età . Qui mi pare in una parola , che la grandezza moderna abbia offuscato
l'intellet to del nostro Autore nel recar giudizio dell' antica semplicità
. E' ben vero però , che fa d'uopo fer marsi ancora alquanto
intorno ad una sua considerazione, la quale entrambi gli abbrac cia,ma
spero,chemi verràfattodidimo, ALGAROTTI . CAPO V 87 bocca di un uomo di
soli quarant'anni,già ne abbiamo sopra ragionato(1).Basteràag giugnere , che
quantunque proferite le avel le questo Re Filosofo in taleesà,male non gli
sarebbono state in bocca. Forse tuttigli uomini hanno da potersi vantare di
militar bravura?E quando vantatosenefosse,non era egli noto , che mai vissuto
non avea fra l'armi? Concedası , che questa dote fosse necessaria ad un
Principe in quelle circostan ed egli appunto mostrò di stimarla tale e per
questo accettar non volea l'offertagli Corona . Non hanno pertanto da parer
disdi cevoli, e vergognose in bocca di un Filo sofo di quarant'anni , mentre N
u m a di tutt' altro pregiavasi , che di stare in full armi , ed avea preso b e
n diverso cammino per giungere alla gloria . Laonde mi pare , che già li fia
fatto chiaramente vedere , che per quello , che spetta a'due primi Regni , non
avea l'Autor noftro per accorciarli. alcun bastantemotivo Itrare ze , f A (+)
Cap ly. RAGIONAM. CONTRO IL CONTE strare non aver questa maggior
forza delle altre sue obbiezioni. Pare adunque all'Au tor noftro improbabile
, D 88 Tullo Ostilioriaccendere petti de'Romani (nervati che abbia la
bellica virtù ne® di sessantacinque anni dice risultare l'antica Crono logia da
quarantatré anni del Regno di N u m a , da un anno d'interregno , e da ven tuno
pacifici già da unapace anni, iquali sessantacinque di Romolo . secondo potuto
samente potuto Tullo Ostilio delta re dopo sì gran tempo Romani , e guidarli
come ei fece si animo alla vittoria : fi ponga però soltan to mente alla pace ,
da cui uscivano i R o mani,e biano interrotto l'ardor guerriero n e ' per qual
guerra una e chiaramente fi verrà a comprendere, come ciò fia poflibile. tal
pace ab Lasciando ora da parte , se quegli ultimi anni di Romolo sieno stati
cosi pacifici c o me si dà a credere il nostro Autore , o fe almeno , come
abbiamo sopra mostrato, non abbia quel bellicolo Principe mantenuti vivi gli
spiriti marziali ne'suoi Soggetti ; venia mo a vedere, fe ammettendo
questasilun ga pace,ne risulti tale inverisimiglianza, per cui abbiasene a
negar la possibilità . Tutta la ripugnanza consiste nel concepi come abbia те ,
2 La ALGAROTTI, CAPO V. 89 La pace de'Romani non era nata dall'
ozio,èdaltimore,ma eraunapace,che ben lungi dal paventar de'nemici era in
istato di farsi temer da quelli :onde non d o vea pure sembrare improbabile al
nostro A u tore , che le circonvicine nazioni gelose della grandezza di R o m a
non ne abbiano turba ta la tranquillità . E che senno sarebbe stato il loro di
romper guerra con un popolo pol sente , e valoroso , che vivea in pace bensi, m
a in una pace lontana dalle morbidezze , dura , rigida ,anzi feroce, che non le
of fendeva in cosa alcuna , che dava speranza in fine di voler depor l'armi,
confervar l' acquistato , nè più curarsi di estendere i c o n fini ? Aggiungafi
inoltre di quai belle doti a b bia il saggio N u m a fornito i suoi soggetti p
e n d e n t e il s u o p a c i f i c o R e g n o . N u m a a c conciò il popolo
a Religione , e Divinità, per servirmi delle parole di Tacito,(u) fu, vale a
dire, datore di quel freno , e {pro ne sì necessario, promosse, favorì , e
ftudioffi in ogni modo di farfiorirel’Agricoltura,co me hassi non già dal solo
Plutarco, ma da Dionigi eziandio (v). Ora ciò posto non iscriffe Plut, in N u m
a , Dionyf, Halic. Lib.II, pag. 133 (w)Tacit.Annal.Lib.III.Cap. 26.n.3:
lo Che (a) Alg. Op. tom . III. Saggio sopra il Gentilefiro go
RAGIONAM . CONTRO IL CONTE lo stesso noftro Algarotti (x ), seguendo il parere
del Segretario Fiorentino , che , se dove sono le armi, e non Religione, con
dif ficoltà fi può quella introdurre, dove è R e ligione, facilmente si possono
introdurre le armi? E in quanto allo avere un popolo di agricoltorinon avrà
egliavuto probabilmen te sotto gli occhi una riflessione veramente aurea diPlutarco,laqualequestopiùFilo.
fofo , che Storico inserisce nella vita di N u m a , ed è , che , se in villa
si perde quella temerità , e malnata voglia , che ci spinge a rapire le
sostanze altrui , fi conserva però ottimamente tutto il necessario coraggio per
difender le proprie ? Che più? Non diceegli stesso , che quel Principe , che ha
uomini può farne presto de'soldati (y ) , che un zappatore , un contadino li
avvezza agevole mente a marciare, a patir caldo e gelo, alle fatiche , ed agli
ordini della milizia ? Ecco in qual maniera da que'robusti contadini , della
Religion loro veneratori , amanti della patria abbia Tullo Ofilio potuto ben
tosto crarre un poderoso esercito. pag.273: ( y ) A l g . O p . c o m . V . V i
a g g i di R u s i a p a g . 5 8 - 9 ; ra , avere ALGAROTTI , CAPO
V , C h e se altri poi si volgerà a considerare , per qual guerra abbia questo
R e rotti gli ozj dellapatria, e spintii Romani all'ar mi, come s'esprime
Virgilio, vedrà,che ca de rovinata del tutto la ripugnanza i m m a ginata dal
nostro Autore . Nella prima guer che ebbero i Romani dopo ilRegno di N u m a ,
non trattossi di uscire dal proprio paese,e andarad invaderecon armata ma no
l'altrui , trattosli di difendere i propri confini dagli Albani', che per
gelosía d'ima pero vollero la guerra con esli, e le per avventura non
si-sarebbono questi accinti di buon animo ad una straniera espedizione , è da
credere , che non avendo ne'campi perduto il necessario coraggio per difende re
il suo , con tanto maggior ardore moffi G fieno a rintuzzare la forza degli
ingiusti aggressori. Che tali poi fieno stati gli Alba ni , avvegnachè Livio
(7) secondo l'usanza fua distintamente non ne favelli , non ce ne lasciano
dubitare e Diodoro Siculo , e lo Atesso tante volte lodato Dionigi (aa). Per ciocchè
il primo dice, che finfero gli Alba ni di aver motiyo di lagnarside'Romani per
(z)T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.9.n.22. ( a a ) D i o d. S i c u l. e x c e r p . L e
g a t. t o m . I. p . 6 1 8 . Dionys Halic.Lib.II.p.137. iR o m a
ni sia per gara di primato , sia a cagione di questo stesso maltalento , che
contro esli gli Albani dimostravano , non mancassero di corrisponder loro in
malevolenza , e già in questo modo fparli fossero que'semi di odio , i quali
scoppiarono poi in guerra manifesta. Nè tralasciarfidee,cheilnuovoReTullo
Ostilio già erasi colle sue belle qualità cat tivato l'affetto de'Romani , e
col distribui re a'bisognosi cittadini certe terre, le quali aveano appartenuto
a'due primi Re , come scrive Dionigi (bb), avea già dato ad effi 92 RAGIONAM
, CONTRO IL CONTE avere un pretesto di muovere contro esli, c o m e quelli ,
che portavano invidia alla p o •tenza loro ; e Dionigi attesta , che Cluilio
Dittator di Alba volle la guerra co’Roma ni, e permise a'suoi di dare il sacco
impu nemente alle terre loro.Aggiungafi, che gli Albani, come sopra abbiam
cacciato una parte del popolo loro , la qua le a persuasion di Numitore , che
per rego la dibuon governo volea purgarne laCittà lua,era ita con Romolo
probabile , che vedessero di mal occhio cre sciuta a tanta grandezza una Città
formata de’rifiuti loro , e che d'altra parte riferito , avean a Roma, onde è
mo 1 (bb) Diony. Halic. Lib. III. pag.137 1 motivo di sperare di
dover condurre una vita felice sotto il governo di lui . In abbiano CAPO VI. Regni
di Tullo Ostilio, Anco Marzio , Ccoci ora giunti al Regno di quel Tullo Oftilio
, che meritò di nuovo corona per la sua perizia militare , e guidò alla
vittoria (a). pure il nostro Autore , che d'alcun poco s'ac (a) Virg. Lib. VI.
Aeneid, potuto cor Patria si cara , e che già per le civili , e militari
virtù di Romolo , e per lo senno di Numa salita era ingrande stima,ed ono re
presso le vicine nazioni. difendere una Eccoci ALGAROTTI . CAPO V. e Tarquinio
Prisco. que Ita maniera resta verisimile , che i Romani robusti, e valorofi
com'erano dilornatura, offesi da un popolo ad essi odioso , governa ti , e
retti da un favio , e prode Principe , che amavano , Agmina J a m desueta
triumphis QuestoRegno adunquenon meno diquello del suo fucceffore Anco Marzio defidera
Vero è , che si potrebbe in primo luogo fospettare e dell'età si avanzata
di Anco e della stessa asserzione , che questo R e alla morte sua non avesse un
figliuolo, il quale giunto fosse alla pubertà . Perciocchè il n o Itro Autore da
un'epoca del suo Plutarco raccoglie, che giunto già foffe Anco all' anno
sessantesimoprimo dell' età sua , quan do venne a morte , prestando intera fede
a questo Storico , allorchè dice , che Anco ni pote di N u m a per parte di una
figliuola alla morte dell'Avo già era nel quintoanno dell' età fua (b); minuta
particolarità , di cui egli folo c'instruisce , non facendone motto non solo
Livio , m a nè pure Dionigi , entrambi 94 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE
corcino , avvegnachè non possano chiamarfi di lunga durata , non giungendo
ilprimo se non a trentadue anni , ed il secondo a ven tiquattro, secondo la
Cronología c o m u n e m e n te ricevuta ; e la ragione , che lo spinge ad
abbreviarli , non è altra , se non l'improba bilità , che , secondo lui ,
risulta dal doversi ! fupporre nell'antico Sistema , che il R e A n co Marzio
fia morto nella età di anni fel fantuno senza aver figliuoli , i quali già p e
r venuti fossero alla pubertà . (6) Plut. in Numa in fine. i fe
dati questi per ne nyf. Halic. Lib. 1. p. 136. (d) 'T. Liv. Dec. I. Lib. I.
Cap. 14. n. 35. Jam filii ALGAROTTI , CAPO VI. 95 i quali fi restringono a dire
, che questo R e nipote era per via di una figliuola del Re Numa (c).Nè
certaèpurequell'altraal serzione del nostro Autore , che alla morte di Anco non
fosse ancora alcun suo figliuo lo giunto alla pubertà : perciocchè , te L i v i
o descrivendo non troppo accuratamente quel primo secolo di R o m a secondo
l'ufan za fua,diceallasfuggita,cheifigliuolidi Anco erano vicini alla pubertà
(d), Dioni gi , il quale con occhio più diligente scorse que'tempi , attefta ,
che uno de'sopraccen nati figliuoli era già pervenuto alla pubertà , e l'altro
ancora fanciullo (e) . Dubbiosi sono pertanto,per nondirfalsi,ifondamentidella
difficoltà. Vediamo ora , veri fia almeno questa convincente". Perdo nimi
il Conte Algarotti; ma io debbo con fessare , che quando lessi questa parte del
suo Saggio,non potei fare a meno di non com piangere m é c o stesso la
deplorabil sorte della umana ragione , non potendosi coloro , che © T.Liv.Dec.ILib.I.Cap.13.n.32.NumaePom
pilii Regis Nepos filia ortus Ancus Martius erat.Dio prope puberem aetatem
erant . (e) Dionys, Halic.Lib.III.pag.184. ne fanno la gloria ,
qual certamente egli era liberare da'pregiudizi pienamente . Grave presunzioneinvero
controallagiustiziadella causa si è l'esser forzato un u o m o del suo senno a
ricorrere a tali ragioni per sostenerla. La grande impressione , che avea fatto
in lui il Sistema Cronologico del Neutone , 1' opinione , che aveva della
dottrina di q u e fto Filosofo fecero sì , che lasciò sfuggir dalla penna certe
ragioni , le quali eglim e desimo, le altri gliele avesse opposte , non avrebbe
né m e n o degnate di risposta se è da credere , che tutti gli uomini facciano
, e d Anco medesimo abbia fatto quello ,che pru dentemente far fi dovrebbe . Se
finalmente anche concesso , che ne'giovani suoi anni abbia 96
RAGIONAM.CONTRO IL CONTE Lascio pertanto al giudizio de'giusti matori delle
cose , se l'esser morto il Re Anco Marzio in età di anni sessantuno fen za aver
figliuoli,iqualitrapassasseroiquac tordici ami, sia tale inverisimiglianza, che
ci sforzi a negar fede a'più gravi Scrittori delle cose Romane di que'tempi , e
lascio per conseguente pure al giudicio loro , fe , fupposto , cheil partito
prudente fosse di tor moglie, essendo egliancor giovane perpo terlasciare ,
come l'Autor nostro s'esprime, dopo le figliuoli attial governo , esti
ALGAROTTI , CAPO VI. 97 abbia tolto moglie , sia cosa inverisimile , che
se non tardi abbia avuti figliuoli,o pu re morti fieno avanti lui i primi,non
rima nendovi che gli ultimi . Tutte queste cose , come dicea ,io le lascio al
giudicio de'let tori , e mi reftringerò soltanto a dimostrare , che la speranza
, la quale prudentemente a y rebbe potuto nodrire , c h e i suoi figliuoli
poteffero succedergli nel Regno , non era tale da spingerlo a tor moglie affai
per tempo , la qualcosa per recare ad effetto mi con verrà indagare
attentamente quelle leggi , o per dir meglio costumanze ,secondo cuicrea vanli
i R e di R o m a ; tanto più che , oltre all' effere materia per se importante
, non ci riuscirà forse inutile l'averla trattata nel de. corso di queste
osservazioni . Chi dunque prende a considerare la con ftituzione del governo di
Roma a que tem pi,hadapormente innanziditutto,che le cose non erano ordinate ,
come sono negli Statide'giorninoftri,ma chesenonrego lavansi gli affari del
tutto all' avventura , elea forza, e l'accortezza aveano per l'ordina
rio'non poca parte nelle deliberazioni .Dif ficile pertanto sarebbe trovare le
leggi fone damentali , secondo cui fissata fosse la suc cessione al Trono ,
ovvero il modo della la g A due capi ridur si può la base della
constituzione di qualunque Stato : al m o d o , con cui si eleggono, od
intendonsi eletti quel Principe , o que' Magistrati , che hanno da reggerlo ,
ed alla autorità , che questi hanno sopra i loro soggerti. Della autorità , che
i Re di Roma avessero soprailorosog getti, non appartenendo punto alla presente
quistione, io non farò parola . Chi deside raffe per avventura d'esserne
informato, p o trà ricorrere al Grozio , ed al Cellario (1) ed a que'luoghi
degli antichi Scrittori da essi accennati . Mi volgerò bensì a mostra che H.
Grotius de Jure Belli & Pacis Lib. I. Cap.III. Chriftoph.
Ceilar.Breviar.Antiq.Roman.Cap.II.feff.1. 98 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE 1
elezione : tuttavia connettendo alcuni luoghi degli Scrittori , e facendovi
sopra alcune ri flessioni , verremo in chiaro , per quanto comportar lo possa
un si rimoto secolo, di quelle consuetudini , le quali , secondo c h e io stimo
, tenevano luogo presso i Romani di leggi fondamentali . per quanto raccoglier
si poffa dalle scarse notizie di quella età il Regno di R o m a piuttosto
elettivo , che altro chiamar li dee . re , 1 E 03.120. n.5 S. 2. ma
ALGAROTTI . CAPO VI. 92 E prima di tutto, le dalla qualitàde'Re, i quali
fuccedettero l'uno all'altro , si può ricavare alcuno indizio , certa cosa è ,
che in que'sette Regni mai figliuolo non succe dette al padre , che anzi tutti
furono di di verle famiglie. N o n parlo di Tarquinio il Superbo , il quale non
per giusta strada, m a colla forza , e per mezzo delle scelleratezze giunse al
Trono , a cui mai sarebbe in al tro modo pervenuto .Veda adunque l'Au tor
noftro , se dalla elezione di Anco , che nipote era per via di una figliuola di
N u che non subito dopo il Regno dell' Avo ,ma dopo quello diServioTullioasce
se al Trono , inferir se ne possa, che piut tosto pendesse ad essere successivo
il Regno di Roma . Che se Tarquinio Prisco allonta nò da Roma i figliuoli di
Anco nella ele zione del nuovo Re , la qual precauzione egli s'avvisa dimostrar
, che vantassero que sti giovani diritto al T r o n o ,si vuol notare , che
tutto facea per li figliuoli di Anco ,per muovere i Romani a conceder loro il R
e g n o , e tutto era contrario a Tarquinio . Erano i primi discendenti da N u
m a figli uoli di Anco Principe , che congiunto avea le più belle qualità
de'suoi antecessori, o n de è detto da Livio uguale a qualunque de' pal. g
2 Pa (8)T.Liv. Dec. I. Lib.I.Cap.13. n.32. Medium erat in Anco
ingenium ,& Numae , & Romuli memor. Id. ibid. Cap . 14. n. 35. Cuilibet
fuperiorum Regum belli ) Dionyf. Halic. Lib. III, pag. 184. 1 Too
RAGIONAM , CONTRO IL CONTE passati R e nella gloria delle arti sia di Sequitur
jactantior Ancus Nunc quoque jam nimium gaudens popu laribus auris . Uno di
questi poi secondo Dionigi (1) già era alla pubertà pervenuto.Laddove Tar
quinio oltre ad essere straniero essendo stato dal morto Anco fuo fingolar
benefattore d e ftinato per tutore a'suoi figliuoli , la qual cosa fece per
avventura , lusingandosi, che avrebbe egli tentato ogni modo di aprir loro la
strada al Trono ,nè per gratitudine questo dovendofi fupporre ignoto a' R o m a
ni , certa cosa è , che eravi ragion di teme re per lui di non poter ottenere
il suo in tento , quantunque il Regno fosse elettivo , se i figliuoli di Anco
avessero potuto chia marlo , esponendo a' Romani i meriti del paces che di
guerra (g), e quello , che è più grandemente amato dal popolo ,secondo che
disse Virgilio in que'suoi versi, ove più da Storico , che da Poeta favella (h)
. pacisque,& artibus, & gloriapar. (h) Virgil.Aeneid.Lib.VI.
'ALGAROTTI . CAPO VI. 101 Padre loro, la di cui memoria era ad effi si
cara . Sapea benissimo l'astuto, ed a m bizioso Tarquinio , qual impressione
far p o tea nel popolo l'aspetto de' giovani Princi pi , ed il rinfacciargli,
che avrebbono fatto la sua ingratitudine . T e m è pertanto la pre senza loro
giustamente , e trovò m o d o di allontanarli da’ Comizj . Dal fin quì detto
chiaramente risulta, che non ostante i pregj , che vantavano i figliuoli di
Anco , essendo stati esclusi dal Trono , a cui quantunque per molti motivi
gliene dovesse esser chiusa la strada (k), fu innalzato Tarquinio , ben lungi
dall'inferire da questo allontanamento, che nella elezio . ne del R e i voti
stessero ordinariamente per la ftirpe Reale , 'avendo un tale allontana mento
bastato ad escluderli, se ne dovea a più buona ragione dedurre , che i Romani
niun riguardo avessero al sangue Regio nella elezione del R e loro . min
(k),Alienum quod exaétum: alienioremquod ortum Corin tho :faftidiendum quod
mercatore genitum : erubefcendum quodetiam exule Demararo narum patre , Valer.
Mas xim , Lib.III,Cap.IV. M a veniamo ora con testimonianze degli Storici
a dimostrar maggiormente il diritto de'Romani nell'elezione de'Re loro,eco..
g3 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE ininciando da Livio:(1) Servio Tullio
, dice questo Storico , avvegnachè foffe coll'uso al possesso del Regno ,
tuttavia perchè sa peva , che il giovane Tarquinio andava dif ieminando esso
regnare senza ordine espres so del Popolo , conciliatosi il buon voler della
plebe col distribuir certe terre tolte a’ nemici , fi arrischio di porre in
deliberazio ne a'Romani , fe volevano , ed ordinavano , che regnasse o no , e
con tanto general c o n senso , con quanto per lo innanzi alcun al tro giammai
Re fu dichiarato . Ove è da notare ,che Tarquinio il Superbo per farsi strada
al Trono non vanta già i suoi diritti come figliuolo di Re , nè taccia Servio
di usurpatore, perchè coll'occasione di a m m i nistrar la tutela di lui era
giunto al Princi pato , m a dice , che fenza espressa elezione del popolo
Servio Tullio governava il R e gno : e Servio per dileguar que'rumori ,non
risponde già non essere un tal consenso n e cessario , m a , assicuratosi prima
dell'affetto quam jam ufu haud dubie Regnum poffederat; tamen quia interdum
jactari voces 1 102 (1)T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.18.n.46.Serviusquam del a
juvene Tarquinioaudiebat fe injusu populi regnare , conciliata prius voluntate
plebis , agro capto ex hoftibus viritim diviso, aufus eft ferre ad populum ,
vellent juberentne fe regnare : santoque consena fui, quanto haud quisquam
alius ante, Rex eft declarcius; # Questo è quanto dice Livio lo
Storico , di cui l'Autor nostro maggiormente si pre gia ; m a per dare a vedere
con alcun altro Scrittore la verità medesima , a chi della a u torità del solo
Livio non si volesse appaga consideriamo c o m e parla lo ítesso S e r vio
presso Dionigi per difendersi dalle accu fe di Tarquinio : mentre io era
disposto (ei dice adunque a Tarquinio ) a rinunciare il Regno (m) iRomani mi
trattennero , sulqual Regno essi hanno diritto , e non voi altri, o Tarquinj ;
quindi prosegue : siccome al vostro A v o ( cioè a Tarquinio Prisco ) fu dato il
Regno , quantunque estero , ed alie nisfimo dalla cognazione diAnco , sprezzati
i figliuoli di Anco non fanciulli e nipoti , m a nel fiore dell'età loro ,
nello stesso m o d o a m e f u c o n c e s s o , p e r c h è il P o p o l o R o
mano non un erede del Padre metre algo verno della Repubblica , m a un
personaggio veramente degno del Principato. Tutto questo vien confermato dalla
con g4 'ALGAROTTI. CAPO VI. 103 del popolo , pone in deliberazione a ' R
o m a ni , le volevano , che seguitasse a reggerli , cose tutte , che
l'autorità del popolo nella elezione de'Re appieno dimostrano . dotta 1 re ,
(in) Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.237. 1 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE dotta
di Tarquinio Prisco verso i figliuoli di Anco ; chi si vorrebbe dare a credere
, che un uomo cosi accorto avesse commesso tale inconsideratezza di lasciar
dimorare in R o m a questi Principi, e non proccurare di al lontanarli per
destro m o d o d a quella Città se avesse loro usurpato il R e g n o ? Bisogna
credere , ch'ei s'avvisasse dinon esser reo d'ingiustizia veruna contro d'essi,
non altro avendo fatto , se non usare una destrezza per ottener dal Popolo una
cosa , di cui questo poteva liberamente disporre. Vero è , che sia Anco Marzio
, fia Tare. quinio Prisco , destinando per tutori de'pro pri figliuoli
personaggi, i quali doveano ef sere per ogni ragione ad elli tenuti grande
mente , si lusingarono, che questi proccurasse roa'lorofigliuoli quelRegno,
cheime desimi procacciarono per fe , servendosi p e r l'appunto del credito
acquistatofi penden te il governo de'benefattori loro . M a que sta cura
medesima , ed il non aver sortito l'effetto desiderato da que’ due R e , dimo-.
ftra vie più il poco riguardo , ch'avea il Popolo Romano al sangue Reale nelle
ele, zioni de’nuovi Principi . Del resto , se da quel general ritratto de?
costumi de'Romani di que'tempi , che racs 1 104 1 CO Troppo
parrà a taluno , che dilungato mi fia in questa materia , la quale in vero non
avrei trattato così ampiamente , se non mi fosli dato a credere , che anche prescinden
(7) Montes Esprit des Loix Liv.XI.Chap. 12, ALGAROTTI . CAPO VI. 105
cogliesi dalla Storia , si può trarre qualche congettura , essendo propria di
popoli rozzi peranco e semibarbari una costituzione in forme di governo , non è
da credere , che la successione al Trono di padre in figliuo lo stabilita fosse
tra esli, essendo questa frut to di secoli più colti , e per recar finalmen .
te la testimonianza di qualche moderno Scrit tore ', che questa verità abbia
riconoíciuto , basterà per tutte quella del Montesquieu (n), il quale asserisce
chiaramente e fuori di v e r u n d u b b i o , c h e il R e g n o d i R o m a e
r a e l e t tivo . Veda adunque l'assennato lettore , se la speranza di lasciar
figliuoli atti al R e g n o allamorte fua era tanta da muover Anco a tor moglie
assai per tempo , e se anche c o n cedendo tutte le conseguenze , che da que Ro
matrimonio cosi per tempo contratto ne deduce il nostro Autore , le quali altri
forse non avrebbe alcun ribrezzo a negare il fon damento , che a queste ei
pose, siastabile, e fermo fufficientemente . do 106 RAGIONAM .
CONTRO IL CONTE do dalla nostra quistione , non sarebbe per avventura riuscito
discaro il veder posto in pieno lume untal punto. Tempo è ora, che veniamo al
Regno di Tarquinio Prisco. Se de'Regni di Tullo Ostilio, ed Anco Marzio toccò
per così dire soltanto alla sfug gita il nostro Autore , di troppo più forti r
a gioni fi crede afforzato per accorciar la d u rata di quest'ultimo . E qui
debbo di n u o vo avvertire , che l'essersi egli appagato degli scarsi racconti
di Livio , e il non aver rivolto l'occhio a quel lume , che mena di ritto per
l'oscuro calle di que' primi tempi di Roma , voglio dire a Dionigi , è stato
cagione dell'aver egli ritrovate ripugnanze , che non vi sono . Strana a lui
pare , per istringere le sue ragioni in breve,la disfimu lazione de' figliuoli
di Anco , che per tren totto anni aspettarono luogo e t e m p o vendetta , e
vendetta ei dice eseguita c o n tro un usurpatore del R e g n o in pregiudizio
loro , avvegnachè fosse itato instituito tor di essi dal Padre medesimo . E
d'altra parte a lui pare , che troppo grande disdet ta sia stata la loro, che
di tanta dissimula zione dopo aver indugiato intino alla età di cinquant'anni
ad operar quel fatto , non ne abbiano colto frutto alcuno alla tu . tuttociò
essendo cona rimasi esclusi dal Trono . per altro grido di
accurato nel r a c cogliere i fatti descritti dagli Antichi (p), e il di cui
difetto non è la brevità , cioè, ch'essendo stato ucciso il famoso Augure Accio
Nevio colui , di cui si racconta il prodigio vero o supporto della cote
tagliata col rasojo , i figliuoli di A n c o attribuirono questa uccisione a
Tarquinio , fia perchè , essendo il R e entrato in pensiero di far m u tazioni
nelle leggi , temeva non gli dovesse di "ALGAROTTI , CAPO VI, 107 M
a se avesse egli consultato Dionigi, avrebbe veduto , che vero è bensì aver in
terposto i figliuoli di Anco trent'otto anni tra la ingiuria, e la vendetta in
questo fen fo , che potessero recate ad effetto le loro crame, ma vero poinon
è, che in questo frattempo questa medesima scelleratezza altre volte macchinato
non avessero ,laqual cosa non sivenne a sapere,se non dopochè eb bero eseguita
quella tragedia : Chiaramente in farti asferisce Dionigi , ove narra la m o r
te di Tarquinio (o), che coteíti figliuoli di Anco più volte aveano tentato di
togliergli la vita , che anzi aggiugne questa partico larità , omeffa da uno
Storico moderno , il quale ha (1) Dionyf. Halic. Lib. IV . p. 204-5; ( 0)
Rollin Hift. Rom. RAGIONAM . CONTRO IL CONTE di nuovo efier
contrario questo Augure,coa m e altre volte trovato lo avea , sia perchè egli
non fece le necessarie ricerche per stato a 1 conoscere, e punirne gli
uccisori . Riconci liolli Servio Tullio con Tarquinio , m a a v e n dolo
ritrovato facile al perdono , dopo tre anni il messero a morte nel modo , che
de scrive Livio . Dirà taluno non esser da cre dere , che abbia Tarquinio sì
facilmente p e r donato un tale attentato a'figliuoli di Anco ; m a forse vero
era ciò , di cui l'accagiona vano , e se ne avesse mostrato risentimento ,
avrebbe dato peso all' accusa . Del rimanen te è da credere , che note non
fossero a Tarquinio le antecedenti macchinazioni , p e r chè dicendo Dionigi
unicamente a proposi to di quest' ultima , che lo ritrovarono fa cile al
perdono , dimostra , che le altre giun te non erano a cognizione di lui ; onde
cagion di quella accusa , ben avesse egli m o tivo di tenerli per malcontenti ,
m a n o n a segno di volergli toglier la vita . ri che allora pre Anzi di più è
da notare cipitarono l'impresaifigliuolidiAnco,quan do sividero chiusa lastrada
dipoteredopo la morte del vecchio R e , esponendo i m e riti del Padre loro ,
procacciarsi il Regno ; voglio dire quando giunto Servio inalto
stato presso a Tarquinio , ed instituito tutor re
de'figliuolidilui,vedevano,chequesti amato , e ten Tutto questo succeduto non
sarebbe , se fosse stato, come pensa l'Autor noftro , Tar quinio un usurpatore
, poichè non avrebbo no dovuto tentare tante obblique strade, usar tanta
diffimulazione, ed è da credere , che più facilmente , e più presto sarebbono
forse venuti a capo de'loro disegni . M a già so pra abbiam messo in chiaro ,
ch'elettivo ef Tendo ilRegno di Roma ingrato bensi, e sconoscente ad Anco fuo
benefattore non usurpatore chiamar fi può Tarquinio Prisco . Strano pertanto
non dee riuscire che abbiano frapposto i figliuoli di Anco trentore'anni non
già tra l' ingiuria , e la ALGAROTTI . CAPO VI, 709 e riverito da'Romani
poteva con tro esli servirsi del credito rante ilRegnodi Tarquinio.Fecero per
tanto pensiero di arrischiare il tutto iare , le poteva loro venir fatto con
una d i {perata impresa di far levare il popolo a r u more,presso cui(prestando
fededileggie ri l'uomo a quello , che spera ) stimato a v ranno , potere ancor
molto la memoria del di quel Trono, a cui avvisavano di non poter giugnere in
Padre , e così impadronirsi altro modo . acquistatofi du ma de
deliberazione , che fecero di vendicarsi ,m a tra l'ingiuria , ed il
vedere la vendetta loro eseguita non sarebbe questo il solo esempio , che delle
contraddizioni c'instruisca dello spirito umano . Non avete, dice pure egli
stesso (1) Alg.Op.tom.IV.Disc,milit.Disc.XIX.Soprala Giornata di Maxen .
II. RAGIONAM . CONTRO IL CONTE N o n fa ora quasi più mestieri di farmi a
dimostrare , che per non aver esli colto al cun frutto dalla loro lunga
dissimulazione , non sidee,come fa l'Autornoftro,negare, che di trentotto anni
stato non zio di tempo , il qual corse dalla morte di A n c o a quella di
Tarquinio Prisco . E chi non sa , che moltissime volte non riescono ad uomini
avvedutissimi i loro disegni ? Dice pure lo stesso Conte Algarotti , che
l'efito il quale importa il tutto innanzi agli occhi del volgo , è nulla
innanzi a quelli del fa vio ? (9) E d ancorchè fuppor fi volesse , che i
figliuoli di Anco , i quali aveano per si lungo tempo con tanta cautela
l'affare , non avessero poi usate condotto le dovute della c o n giura , non
farebbe questo , per servirmi di avvertenze nell'ultimo scoppiar nuovo delle
parole di lui in altra sua o p e sia lo spa tan ra ALGAROTTI . CAPO
VI. tante volte veduto la medesima nazione , il medesimo uomo
prudentissimoragionevolisii m o in una cosa, imprudente , ed irragione vole in
un'altra , benchè in ammendue gli dovessero pur esser di regola le stesse m a l
fime , gli itefli principi (r)? Del rimanente chi la , se non si farebbo no gli
uccisori impadroniti del Trono, quan do Servio Tullio , e Tanaquilla non
foliero stati così avveduti , come e'furono ? A tutti è noto , che Tanaquilla
fece correr voce , che Tarquinio ancor vivea , affinchè niente si tentaffe di
nuovo , e Servio avesse c a m ро di premunirsi. Onde possiam conchiude
re,chenèpureinquestoRegno diTar quinio vi è ripugnanza tale tra i farti , e le
epoche , che ci sforzi ad abbreviarlo . Regni di Servio Tullio , e di Tarquinio
E il non aver consultato Dionigi traffe più volte l'Autor noftro in errore ,
secondo () Alg.Op.tom.I.Dialoghi sopra l'OtticaNeuron, C A Pp Oo quello ,
SE Superbo . VII. Dialog.IV.pag.140. Per venire adunque prima di
tutto alle ragioni , per cui giudica l'Autor nostro d o versi abbreviare il R e
g n o di Servio Tullio : fu Servio , ei dice , ucciso da Lucio Tarqui n i o , d
i p o i c o g n o m i n a t o il S u p e r b o , c h e v o leva ricuperare il R
e g n o paterno toltogli d a effo Tullio, uomo intruso, e dischiattaser vile,e
fu ucciso dopo un indugio di qua rantaquattro anni , il che , segue eglia dire
, vie maggiormente pare inverifimile a chi fa considerazione, che questo
Tarquinio era già u o m o da menar moglie , allorchè Servia Tullio divenne Re ,
ch'egliera dispiritiol tre 112 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE 1 quello , che
abbiam sopra dimostrato , onde ritrovò irragionevolezze, ed inverisimiglian ze
tali , che stimò doversi di sì lungo trat to di tempo abbreviar la durata
de'Regni de'RediRoma,ilnon aver rivolto lo sguardo a questo Storico assurdi gli
fece rinvenire in questi due ulti mi Regni. Perciocchè in vero gliere le
difficoltà mosse de'cinque primi Regni contro la durata non avrebbe molte volte
fairo mestieri d i mente a Dionigi ; m a più difficile riuscireb b e il
rispondervi per rispetto ultimi,se nonsifacefleusodellaautorità di lui. troppo
maggiori ricorrere necessaria. a questi due , per iscio 1 che
abbrancato Servio nel mezzo della persona lo si portò di peso fuor della C u
ria,e gittollo giù perli gradini;ora sea quarantaquattro anni del R e g n o di
Servio si aggiungono venti circa , ch' eidovea ave re alla morte di Tarquinio
Prisco,verrà ad esser vecchio di sessantaquattro anni , allor chè dimostrò
tanta gagliardía . Questi sono i motivi, per cuistima l’Au tor nostro esser più
inverisimile aver Servio regnato quarantaquattro anni , che Tarqui nioPrisco
trentotto.Già abbiamosopradi mostrato non esser punto contraria a'fatti la durata
del Regno di Tarquinio , ora verre mo a far vedere effer non meno verisimile la
durata del Regno di Servio, che quella non ALGAROTTI . CAPO VII. '113
tremodo ardenti , ed ambiziosissimo , .e v e niva tuttodi stimolato ad occupare
ilRegno da Tullia sua moglie femmina trista fopra ogni credere , e malvagia .
Dal che ne c o n chiude esser m e n o probabile , che Servio Tullio abbia
potuto regnare quarantaquattro anni , che Tarquinio Prisco trentotto . Oltre di
questo ei riflette, che Lucio Tarquinio , il quale vivente Servio Tullio è
sempre q u a lificato giovane , fosse tuttavia giovane , e robusto alla fine
del Regno di quello , la qual cosa egli arguisce da ciò , che fi leg ge ,
h 114 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE a ) T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap.
17. n. 42. O T.Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.16.n.41.Tuumeft..... non sia del suo
antecessore. Desidererei per tanto prima di tutto lapere , onde abbia r a c
colto l'Autor noftro quella particolarità ,c h e al principio del Regno di
Servio già fosse Lucio Tarquinio in età da menar moglie . Di questo non m i
venne fatto di ritrovarne parola presso gli Storici, e non mi posso persuadere
, che perchè Livio (a) descriven do le azioni di Servio pone prima di tut to
aver egli date in ispose due sue figliuo le a Lucio , ed Arunte , per questo
abbia l' Autor nostro stimato di poter mettere q u e sti due matrimoni al
principio del Regno di Servio : perciocchè in questo caso ognun vedrebbe sopra
quanto fallace congettura egli avrebbe avventuraro questo fatto . M a quando
pure da Livio ciò ricavar fi potesse , vorrei di più , ch'altri mi sciogliel se
questo nodo, cioè se a tale età già per venuto era Tarquinio Superbo alla morte
di Tarquinio Prisco , c o m e riuscir poffa proba bile , che Tanaquilla con
quelle si eloquenti parole eforti presso Livio Servio Tullio (6) a Servi fi vir
es Regnum , non eorum , qui alienis mani . bus peffimum facinus fecere:
erige'te Deosque duces re. quere , qui clarum hoc fore caput divino quondam
circum 1 ALGAROTTI . CAPO VII. Desidererei pure , ch'altri insegnar
mi sa pesse ilmodo dicomporre insieme l'aver Tanaquilla un figliuolo giunto
alla luccenna ta età , ed il proccurar, ch'ella fa il R e gno a Servio
piuttosto , che a Tarquinio suo figliuolo . E d ecco che senza rivolgere al tro
Storico , che il folo Livio , dando vento anni circa a Tarquinio Superbo al
princi pio del Regno di Servio , ne risultano in verisimiglianze grandissime,
per toglier le quali altro far non si potrebbe , che suppor re fanciullo
Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio Prisco ; il qual partito essendo h2
115 - a prendere le redini del Regno ancor manti del sangue di Tarquinio
Prisco , e a vendicar la morte dell'uccilo fuo marito , A m e sembra , che ad
una tal vendetta ad ogni m o d o piuttosto ella proprio figliuolo , se questi già
pervenuto era al ventesimo anno dell'erà sua , ed è ben da credere , che u n
giovane Principe nel fior de'suoi anni facesse troppo più m e morabil vendetta
della uccisione del Padre di quello , che fosse per fare Servio Tullio . fufo
igni portenderunt : nunc te illa coeleftisexcitesflama
ma:nuncexpergifcerevere:& nosperegriniregnavimus: qui fis non unde natus
fis, reputa : Si iua , re subita 2 confilia torpent, at tu mea confiliafequere.
animar dovesse il fu quello , '116 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Posto
ora adunque , che ancor fanciullo fosse TarquinioSuperbo alprincipio delRe. gno
di Servio Tullio , ne segue , che da lui allevato , non avendo vedute. le
grandezze del R e g n o dell'Avo , del quale lapea. aver Servio vendicata la
morte collo allontanarne dal Trono gli uccisori , e per ultimo stret to seco
lui in vincolo di parentado , e spe rando di succedere ad un uomo già oltre
negli anni per commettere la scelleratezza che commise , dovettero concorrere
questi due impulsi, vale a dired' avere a lato una malvagia , ed ambiziosa
femmina , e d'ef fer fuori di speranza di poter succedere a Servio Tullio ,
avendo questi, come ce ne affi e quello , che toglie tutte le ripugnanze
, d altra parte non raccogliendosi dagli Stori ci , di qual' età precisamente ei
fosse alla morte di Tarquinio Prisco , sarebbe quello , che prendere li
dovrebbe .M a non abbia m o bisogno di congetture , poiché , che T a r quinio
Superbo fosse per anco fanciullo , non figliuolo, ma nipote di Tarquinio Pri
sco , chiaramente viene attestato d a D i o n i gi (c); il che dovremo di nuovo
notar più fotto . ( c) D i o n y f. H a l i c . L i b . I V . p a g . 2 1 1 . 2
1 3 . re frapposto qualche indugio , affinchè m a • nifeftamente n
o n risaltassero agli occhi i d e suno 5 che ci dicono gli Storici (e) ,
per potere stringere quel scellerato matrimonio , fra l'una delle quali , e
l'altra avranno p u ALGAROTTI , CAPO VII. 117 assicurano Livio , e Dionigi (d),
fatto pen fiero di rinunciare il Regno , e dare la lic bertà a Romani . M a è da
avvertire , che forse qualche notabil tempo trascorse oltre il ventefimo anno
del Regno di Servio,in-· nanzi che si congiungessero con quelle infa m i nozze
Lucio Tarquinio , e Tullia : per. ciocchè , fupponendo , che avanti al vente
fimo anno del Regno suo non abbia Servio date le sue figliuole in ispose a'
Tarquinj, ad ognuno è noto , che Tullia moglie era di Arunte , e non di Lucio ,
e Lucio a m m o gliato era coll'altra figliuola di Servio , o n de ebbero a
passare per tutte quelle scelle ratezze , litti loro . Credo poi veramente ,
che dopo ch' ebbero coronate le commesse iniquità colle nozze , non si debbano
per modo nef h3 (d) T. Liv. Dec. I. Lib. I.Cap. 18. n.48. Idipfum tani mite tam
moderatum imperium deponere eum inani. mo habuisse quidam Auctores funt, ni
fcelus intestinum li. berandae patriae confilia agitanti interveniffet .
Dionyfi Halic. Lib. IV. pag. 243. (c)T. Liv.Dec. 1.Lib.I.Cap.18.n.46
Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.232,234, che la ragione , per cui
finalmente val sero preffo Tarquinio le persuasioni della sua rea moglie , fu
l'aver questi inteso c h e Servio volea dar la libertà a'Romani , alla qual
risoluzione forse fu egli spinto princi. palmente dalle malvagità della
figliuola , e di Tarquinio . Vedeva egli benislimo che Tarquinio da lui giudicato
indegno del T r o no,appunto perchè tristo,giàdovea forse essersi formato una
fazione di ribaldi pari suoi , e che dopo la morte di lui o avreb be forzato i
Romani ad eleggerlo a Re lo ro , o pure quando avessero avuto tanto co raggio
di eleggerne un altro , prevedeva , che avrebbe tentato ogni mezzo, ed anche
accesa una civil guerra per giungere al T r o no . E d'altra parte Tarquinio
Superbo, se con questa risoluzione di Servio non sifosse veduta tagliata ogni
strada , non avrebbe avventurata la sua fortuna e la sua vita G T
.Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.18.n.46.Initiumcura 138 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE
suno passar sotto silenzio i continui stimoli di una donna , quale si era
Tullia , onde a buona ragione abbia detto Livio ( F) , che il principio di sconvolgere
ogni cosa da una donna ebbe origine : m a contuttociò io sti me mo, bandi omnia
a foemina orium ift Tolti ora diciannove o venti anni dalla età ,
che aver dovea Tarquinio ilSuperbo , onde venga ad essere di soli quarantaquat
sro o quarantacinque anni , e non di sessan taquattro,quandogittògiùper
ligradini della Curja Servio Tullio, non parrà più in nessun m o d o
inverisimile tanta gagliardía . Senzachè io lascio al giudicio degli assen nati
, se , anche concedendo , che di sessan taquattro anni abbia Tarquinio fatta
una tal prova , menandosi allora una vita più dura , e per conseguente più
robusta , ed essendo Tarquinio riscaldato dalla collera , sia poi cosa da farne
tanto le meraviglie .Onde mi pare di potere a buona ragion conchiudere , h4 1
1 1 V ALGAROTTI CAPO VII. medesima come fece, ma servito fifareb be della fama
dell'Avo suo dopo la morte di Servio , che già era oramai pieno di anni per
farsi elegger Re da'Romani, cosa , la qual potea giustamente sperare potergli
riu sčir più agevole , che d 'intraprendere , com ' egli fece, di usurpare il
Regno vivente lui medesimo . Ben vedea , che se tentato avel 1 se inutilmente
questo passo di trucidare il suo Suocero , ed impossessarsi coll'armi del Solio
, non gli rimaneva più speranza alcu na . Non arrischiò adunque iltutto, senon
quando si vide in procinto di tutto perdere. 1 119 chę ) <
RAGIONAM . CONTRO IL CONTE che siccome non v'ha motivo di accorcia . re i
precedenti Regni , così nè pure ve ne ha alcuno per accorciar quello di Servio
Tullio . Siamo finalmente pervenuti al Regno dello steffo Tarquinio Superbo
ultimo R e di R o ma . La principal ragione , che adduceľ Autor noitro per
abbreviare ilRegno di lui , e che abbraccia anche i Regni di Tarqui nio Prisco,
e di Servio Tullio, è questa. A c cadde,ei dice , che verso la fine del Regno
di Tarquinio Superbo , Sefto Tarquinio , e Tarquinio Collatino essendo a c a m
p o ad A r dea , vennero a contesa chi di loro avesse moglie più onefta ;
d'onde poi nacque , c o m e ognun fa, il Consolato , e la libertà di R o m a .
Ora questo Tarquinio Collatino a quel tempo secondo le parole di Livio ( 8) era
giovane , e secondo lo stesso Autore era figliuolo di Egerio , a cui Tarquinio
Prisco suo Zio commise la guardia di Collazia Città novellamente acquistara (h)
nella guerra S a (8) Regiiquidem juvenes interdum orium conviviis comeslaf.
fionibusve inter fe terrebant; forte potantibus his apud ( fratris hic filius
erat ) Collasiae in praefidio relictus bina , Sextum Tarquinium incidit
de uxoribus mentio & c. T. Liv. Dec. I. Lib.I. Cap. 22. n. 57. (1) T. Liv.
Dec. I. Lib. I. Cap. 15. n.38. Egerius } 1 3 1 1 ALGAROTTI . CAPO
VII. bina, e ciò fu verso il principio del Regno di Tarquinio Prisco , il quale
viene a c a d e re fe non prima l' anno centocinquanta se condo il computo
comune della edificazione di R o m a . Convien dire , ei soggiugne , che Egerio
a quel tempo avesse almeno i suoi quarant'anni , fe vogliamo crederlo atto a
Costenere un carico di tanta gelosía , come è quello di castodire una Città, di
nuovo a c quisto , e se vogliamo , che fosse nato , c o m e si h a d a L i v i
o , p r i m a c h e T a r q u i n i o Prisco veniffe a Roma .Ma come può fta re
, ei conchiude , che un uomo di quarant' anni l'anno di R o m a centocinquanta
avesse un figliuolo'ancor giovane l'anno dugento quarantaquattro ? Cioè quasi
un secolo dopo , come non fi voglia dire, ch'egli avesse fi gliuoli passati i
novant'anni , il che merita va aver luogo secondo lui tra le meraviglie della
Storiadi Plinio,non traifattidiquella di Livio . Pensa adunque l'Autor noftro ,
che s e vogliamo ritenere questa discendenza de'Tarquinj , fa mestieri prendere
ilpartito di accorciare i Regni di Tarquinio Prisco , di Servio Tullio , e di
Tarquinio Superbo , che occupano il tempo , che è di mezzo tra il figliuolo ,
ed il Padre . Molte cose io potrei qui porre sotto l. + RAGIONAM.
CONTRO IL CONTE (i)Collariae inpraefidio reli&us.T. Liv.loc.fupra
cita opera ucchio del lettore per isciogliere questa dif ficoltà, come
farebbe il dire, che non sifa precisamente il tempo , in cui sia stata con
quistata Collazia ; che Livio Storico non trop po'accurato può esserfi
ingannato nel dire , che già nato era Egerio prima che Tarqui nio Prisco
venisse a R o m a , che la custodia d'una Città non era carica a que'tempi ,
per esercitar la quale dovesse u n guerriero effer giunto all'età di
quarant'anni : tanto più trattandosi di un Zio , che una tal c u ftodia
commette ad un Nipote : perciocchè non essendo in quell'età le cose così rego
late,come a'dinostri,piùosservavasinegli uomini , i quali davano al mestier
delle armi,la bravura,elagagliardia,doti, di cui potea egli molto b e n e esser
fornito alla età di venti o venticinque anni che n o n il s e n n o , c h e a '
n o f t r i t e m p i i n u n G o vernatore fi richiede , per fuppor ilqual sen
no ci vorrebbe per avventura più avanzata età . Potrei dire di più , che se
vogliamo Itare alle parole di Livio,da queste nonfi può dedurre , che la
custodia della Città sia Itata a lui principalmente come Capo c o m mesla (i),
ma solamente che fu lasciato di pre ALGAROTTI. CAPO VII, 123
presidio inquella Città dal Re fuo Zio.Por ter essere finalmente , che questo
Collatino giovane più non fosse , attesochè, per non far parola della poca
esattezza di Livio , questo Storico non dice precisamente , che
giovanefosseCollatino,ma cheiRegjgio vani passavano il tempo in conviti, mentre
erano occupati in quella piuttosto lunga,che viva guerra , 1 gliuolo sotto le
quali parole di Regi giovani può egli aver foltanto intesi i figli uoli del R e
, e non Collatino , quantunque della stessa famiglia , tanto più che dicendo
egli dopo,che stando essibevendo pressoSe sto Tarquinio , ove pur Collatino
cenava , cadde ildiscorso sopra le moglj (k), a me pare , che quelle parole ove
pur Collatino cenava , dimoltrino , che sotto quelle ante riori di Regj giovani
non altri abbia volu to intendere Livio fuor che ifigliuoli di Tarą quinio . M
a comunque fiafi di ciò , s'abbia per nulla il fin quì detto , concedasi essere
impossibile , che Egerio abbia potuto avere un figliuolo giovane al fine del
Regno di Tarquinio Superbo . Sappiasi adunque , che Dionigi (1) crede Collatino
nipote,e non fie ( k) Forte potansibus his apud Sextum Tarquinium ubi
Collatinus coenabat . T. Liv. loc. cit. (1) Dionys, Halic. Lib. IV. pag.
261, RAGIONAM . CONTRO IL CONTE L'ultima ragione , con cui l'Autor
nostro ftudiali di abbreviare il R e g n o di Tarquinio Superbo , e che
abbraccia anche quello del fuo predecessore Servio Tullio , ei la ricava da
questo . Tarquinio quando pervenne al Principato , avea secondo lui
sessantaquattro anni , a'quali chi aggiugne i venticinque che si dice aver egli
regnato , troverà, che era questi in età di Ottantanove anni , a l lorchè fu
cacciato dal Regno , la qual par ticolarità posto che vera ,n o n sarebbe stata
passata dagli Storici sotto silenzio . C h e più , segue egli a dire , leggeli,
che il medesimo Tarquinio parecchj anni dopo che fu c a c ciato di Roma ,
combatté a cavallo al L a go Regillo contra ilDictatorePostumio (m), ciò , che
verrebbe a cadere l'anno centefi m o circa della età fua , onde ei correrebbe
la giostra c o n un secolo sulle spalle ,affurdo, prosegue egli , non punto
diffimile da quello avvertito da Luciano (n), che quella Elena , gliuolo
di "Egerio , ed in questa maniera con un colposolositagliailnodo. 1 i Per
cui l'Europa armolli ,e guerra feo, E l alto imperio antico a terra sparse ,
(m)T. Liv.Dec. I.Lib.II.Cap.11.11.19. (1) Lucian, in Somnio seu Gallo ,
quan "ALGAROTTI . CAPO VII 12.5 quando desto quelle si celebri
fiamme i n petto a Paride già fosse coetanea di Ecuba . suo . Lalcio io
qui,d'avvertire , che a Tarqui nio Superbo si vogliono torre que'vent'anni,
iquali,come già sopra abbiam mostrato , gli dà di troppo l'Autor noftro , onde
per dirlo alla sfuggita , non avea egli da mara vigliarsi , che gli Storici
abbiano taciuta quella particolarità , che quando Tarquinio fu cacciato di R o
m a , già era pervenuto alla età di oitantanove anni . Quello poi , che tronca
ogni quistione per rispetto alla giornata del L a g o Regillo si è , che
Dionigi (o), ch'egli pure reca in mezzo a questo proposito, e non gli presta
fede , riprende quegli Storici , i quali narrano tal fatto , e dice doversi
credere suo figliuolo , e non lui medesimo esser quello , che fu,ferito com .
battendo contro ilDittatore Poftumio . O v ? è da notare che anche facendo il
caso , che con sole congetture si dovesse scioglie re questo nodo , essendovi
due mezzi noti al nostro Autore per togliere l'inverisimi glianza ,, cioè o di
abbreviare i due.Regni di Servio Tullio , e di Tarquinio Superbo, o pure di
dire non essere stato lui,m a il ( 0 ) D i o n y f. H a l i c . L i b . V I . p
a g . 3 4 9 . CAPO VIII. Si dà risposta a varie opposizioni .
Chiaro Hiaro ora resta abbastanza , che le in. verifimiglianze raccolte dal
Conte Algarotti , s'altri le viene minutamente osservando ,non I26
RAGIONAM . CONTRO IL CONTE fuo figliuolo quello , che ritrovossi alla giord
nata del Lago Regillo , il nostro Autorem prende piuttosto il primo , cioè
quello , che favorisce l'opinion sua , quantunque a m m e t ter non si possa
per modo nessuno , quando si sa , che Dionigi , il quale avea con tan ta cura
studiati gli antichi Storici Latini , e che se non altro fu tanti secoli più
antico del Conte Algarotti , Dionigi in s o m m a così diligente nel fiffar le
epoche, stima più prudente partito prendere il secondo. La scio ora pertanto
decidere da chi diritto ragiona , se tali fieno i motivi addotti dallo Autor
noftro , che si debba pure accorciare il Regno di Tarquinio Superbo,o se piut
tosto,come ioavviso,non resistanoalla autorità degli antichi Storici , e
debbano c a dere a terra come damento , del tutto privi di fon fon
ALGAROTTI . CAPO VII. 127 folamente non sono valevoli a mandare in rovina
la Cronologia comunemente ricevuta , m a nè pure hanno forza per ispargervi fo:
pra alcuna ombra di dubbietà,nè efferne cessario ricorrere a quel suo ripiego
di a b breviare pressochè della metà la durata de' sette Regni per conciliare
la giovanile erà di Romolo colle grandi cose , ch'egli ope To , e l'età di N u
m a colla sua esalcazione al Trono. Nè secondo quello , che abbia m o osservato
, l' u o m o indugia troppo cogli ftimoli della vendetta , e dell'ambizione a
fianco anzi lungo spazio di tempo non ba fta ad estinguerli; nè quella
gagliardía ,che trovar non si può nella vecchia età , avvien che vi si trovi,
onde senza negar credenza , com 'egli pretende , a' più gravi Storici dell'
antichità in cosa , in cui tutti convengono , quale si èla duratade'fette
Regni,torna ogni avvenimento ( per servirmi delle stesse fue parole in
contrario senso ) nell' ordine naturale delle cose . nolo . 1 Del resto
si dee avvertire , e di fatticre do , che ognuno avrà avvertito quanto d e boli
, e leggiere fieno le inverisimiglianze ed assurdi,dicuiservisli
ilnostro.Autore per distruggere la durata de'mentovati R e gni , e venire a
confermare il Sistema Cro. 128 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE nologico
del suo Filosofo . Q u a n d o altri nes gar vuole la verità di un fatto
attestato da gravi Storici per folo glianze , o contraddizioni, queste devono
ef ler tali , che ammesse per vere il fatto al trimenti fufliftere non pofsa :
perciocchè è legge dellaPoesia,non della Storia,ilnarra re soltanto cose
verifimili.La.Storiaècon tenta di narrar cose vere ; e quante cose , a v
vegnachè vere inverisimili ci pajono per una minuta circostanza o smarrita , o
di cui non pensarono gli Scrittori di far menzione ,per un costume, per una
legge , per una fog. gia particolare di vivere, di cui come di cose a'contemporanei
loro notiffime , n o n istimarono dover far parola ? In s o m m a molte volte
assomigliar potrebbefi la Storia ad una macchina , la qual produca maravigliosi
ef fetti , e i di cui ordigni sieno ignoti. Tali dicono essere i nostri orologi
per rispetto a’ Cinesi,e noinondirado,inispecieinquan. to allaStoria,laqual'èo
da’tempi,oda? paesi nostri lontana , fiamo nel caso loro . Ecco adunque ,che
leguate n o n fi fossero le inverisimiglianze i m maginate dall'Autor noftro ,
sono queste si deboli, che come saette vibrate contro una motivo d'inverisimi
quantunque eziandio di falda armatura , ben lungi di recare alcuna offesa
, ALGAROTTI . CAPO VIII. 129 offesa , cadono effe medesime
infrante a terra , chę E appunto per iscogliereil nodo , ch'egli
benissimo vedea , ch'alori gli avrebbe potu to mettere innanzi agli occhi, vale
a dire per qual ragione egli opponesse alcuni fatti, in cui discordano gli
Storici alla durata di tutti i sette Regni tolti insieme, ed alla d u rata di
ciascheduno in particolare , in cui sono a un di presso di un medesimo pare re,
ei dice , che la memoria de'fattidovet te con più sicurezza essere conservata
dalla tradizione , che non fu da quante volte , mentre quelli avvennero tornato
un Pianeta al medesimo sito del Cie lo ; la qual risposta io non so , se
basterà per appagare chi considera alquanto adden tro nellecose ; perciocchè a
me pare noti zia non meno importante,e degna di esse re dalla tradizione, e
dagli Scrittori a' p o steri trasmessa il numero degli anni , che occupòilTrono
un Principe,diquello,che fieno molti fatti , a cui presta l'Autor n o ftro
intera credenza . N e aveano i Romani bisogno di troppo fortili astronomiche
culazioni, come pare , ch'egli accennar v o glia,per sapere di grosso, quando
terminal le,eprincipiassel'anno.Ed unaprova, che questa tradizione del numero
degli anni , i essa trasmessa sia {pe ' epoca di molti de
principali fatti, non si sia notato però l'anno preciso, in cui segui ciascun
fatto . O v e è da riflettere che lo stesso noftro Autore dicendo non ef fere
da credere , che gli Storici sapessero quanti anni sieno trascorsi, mentre
andava no fuccedendo i fatti, è forza ,che ammet 130 RAGIONAM , CONTRO IL
CONTE guerra di Romolo con lo veramente credo poi , che quantunque tenuto fi
sia registro non solo del numero degli anni , che durarono i Regni de'Re di
Roma , ma ancora del Regno di ciascun . R e , e dell ta , che abbia regnato
ciascun Re , e per con seguente della somma di tutti isetteRegni, inratta
conservata fi fia , si può dedurre da quella ammirabile concordia degli Storici
nella Cronología , concordia , la qual non si vede certamente ne'fatti. che non
sapesser nè pure l'anno preci fo , in cui questi avvenimenti seguirono. Ora con
questa sua sola concessione viene a ro vinare buona parte delle ragioni ,
ch'egli apporta per abbreviare ciascun R e g n o . E d in fatti quante volte
non fi serve egli di epoche di avvenimenti minuti , e per lo più ; registrati
soltanto da un Plutarco , per ritro var ripugnanze nell'antico Cronologico
Siste ma , come sarebbe,per recarne alcuno esem pio , l'epoca della tro
ALGAROTTI . CAPO VIII. 131 e del diverse guerre ; tempo
Approssimandosi l’Autor nostro al fine del suo Saggio , reca altra prova contro
l'anti co Cronologico Sistema,e ben sivede,che avendola riserbata in ultimo ,
ei crede , che dia questa l'estremo colpo , e il nodo del tutto recida . Questa
prova , ei dice , è c a vata dalle generazioni di uomini , le quali tro i
Camerj , che è in Plutarco , l'epoca del matrimonio di Tazia con N u m a , che
trovali presso lo Iteffo Storico , come anche il precito numero d'anni , che
vissero insie m e , il q u a l p u r e è r i c a v a t o d a l l o e s a t t o
r e giftro , che il medesimo Plutarco ne tenne , per non parlare de cinque anni
nè più nė meno,che avea Anco allamortediNuma e degli anni , in cui seguirono
precisamente della nascita di Egerio , ch'egli raccoglie da Livio . Le quali
epoche tutte oltre all'essere tratte la maggior parte da Plutarco o da Livio ,
credulo il primo , Itraniero , e lontanissimo da'tempi ,poco accurato
l'altro,non dovea no per nessun modo addursi da lui , come quello , che
pretendea non aver la tradizio ne potuto tramandareepoche di troppom a g gior
rilievo , che queste non fieno , e c h e sono da tutti i più gravi Storici
ammesse per vere . fono i2 sono indicate dagli Autori nella Storia
dei R e diRoma ,le qualigenerazionidice,che con vincono di falsa la loro
Cronología quanto alle durate de'Regni . Nella vita di R o m o lo,ei
segueadunque, liha,cheOttilioAvo lo di Tullo Ottilio mori nella guerra contro
a'Sabini , la qual fu ne'primi anni di R o ma,iRegni pertanto,eiconchiude,diRo
molo , di Numa , e di Tullo Oftilio non si stendono più là , che il tempo
razioni.Da Numa ad Anco Marzio,ei se gué , ci è una generazione sola , perchè
l' uno era Avolo dell'altro ; dal che seguita , che la generazione tra Numa ,
ed Anco coincidendo col tempo di Tullo Oftilio , ci fia l'età di un uomo
qualche anno più o meno da Tullo al fine del Regno di Anco. Onde dal principio
del Regno di Romolo allafinediquellodiAncocorrono datre generazioni . Lucio
Tarquinio Prisco , p r o legue egli, uno de'Lucumoni dell'Etruria , viene a
Roma uomo maturo sotto ilRegno di Anco , de cui figliuoli fu instituito tuto re
: e però l'età di Tarquinio convenendo con quella di Anco , non resta che una .
e fola generazione tra il Regno di Anco il Regno di Tarquinio Superbo figliuolo
del Prisco . Talchè , ei conchiude , dal principio 132 RAGIONAM , CONTRO
IL CONTE di due gene del del Regno di Romolo alla fine di quello di
Tarquinio Superbo fi contano quattro sole generazioni in circa, e non più. Ora
som mando insieme gli anni di quattro genera zioni, che corrono durante
ifetteRe diRo. m a fi hanno cento trentadue anni ; poiché una generazione di
uomini trentatré anni . E fommando insieme gli anni di ciascun Re , secondo il
computo di Livio , fi hanno d u gento quarantaquattro anni ; e vi ha più di un
secolo di differenza tra due risultati, che pur avrebbono ad essere uguali
.D'altra par te facendo , che tocchi a ciascun R e l'uno ragguagliato
coll'altro diciannove anni di R e gno , come vuole il Neutone , fi ha cento
trentatré anni, e tra questi due risultatinon corre differenza niuna . di
comune sentimento vengono dati a 9 f ALGAROTTI . CAPO VIII. 133 Sin quì
il nostro Autore . Io per rispon dere a questo lungo ragionamento prima di
tutto voglio concedere , che quattro fole g e nerazioni fieno corse da Romolo
insino a Tarquinio Superbo : perciocchè ciò si riduce finalmente a dire , che
durante i Regni dei serte Re , quattro uomini in tutto ilR o m a no popolo
ebbero prole un dopo l'altro di sessanta e un anno . Ora farebbe poi forse
questa impossibilità tale fisica, per cui non i3 fi dovesse più
prestar fede agli Storici delle antiche memorie de'Romani? Ma ,suppo sto
(quello però , che in nessun modo con cedere fi può ) che questa fosse
inverisimi glianza tale, per cui sipotesse negar cre denza alla Storia , s'è
forse l' Autor nostro bene assicurato , che , non uscendo da quelle persone ,
di cui egli fece scelta per fissare le generazioni , quattro soltanto corse ne
fie no pendente il Regno dei sette Re ? Dio nigi (a) attesta pure , che
Tarquinio S u perbo fu nipote , e non figliuolo di Tarqui nio Prisco ?Questo
accuratissimo Storico d o po aver fatto parola di molti assurdi , che ne
seguirebbono , fe figliuolo, e non nipote ei fosse di Tarquinio Prisco , fi
afforza colla autorevole testimonianza di Pison Frugi , il qual solo tra gli
Storici affermò questa cosa . Nè mancadiaccennarequello,cheperav ventura fu
cagion dello sbaglio : poichè dice , che dall'essergli nipote per natura , e
figli uolo per adozione fieno stati forse gli altri Storici ingannati. Nè
giovaildire,comefal'Autornoftro, che la contrarią opinione cioè , che figliuo
lo fosse questo Re , e non nipote di Tar 134 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE
qui (2)Dionys,Halic.Lib.IV.pag.211,213, ALGAROTTI . CAPO VIII. 13 S
parte (6) Hic, L. Tarquinius Prisci Tarquinii Regisfiliusneposre fuerit parum
liquet:pluribus tamen auctoribusfiliumcreg diderim.T. Liv,Dec. I.Lib.I.Cap.18.n.46.
9 In quanto a Collatino poi, quà di nuovo addotto dall'Autor nostro p e r
confermare il 2 fuo di numerare in quegli arcaismi come le autorità ,
contentofli e non si fece a pesarle il diligente sciando da Dionigi . In
secondo luogo , la perder tempo ľ autorità di Dionigi , la quale , com ' è
palese , è molto più da segui re , che non sia quella di Livio, ben diver sa è
la maniera di spiegarsi dei due Scrit cori intorno a questo affare,l'uno ne
tocca alla sfuggitą , l'altro vi si ferma , ragiona reca latestimonianza di uno
de'più antichi Storici , e sappiglia a quella opinione , la quale sia per lo
credito , che ha all'Auto re fia per , quinio Prifco fu opinione dei più, ed
opi pione abbracciata da Livio medesimo ; d o vendosi in primo luogo riflettere
alla m a n i e ta , con cui Livio s'esprime, vale a dire , che questo punto era
assai all'oscuro , che egli peraltro seguendo i più credevalo figliuo lo (6) ;
il che dimostra aver egli benissimo veduta la difficoltà , m a che non volendo
, come sopra abbiam notato lo contesto di tutta la Storia , gli pare più sicura
. is suo Sistema , già sopra abbiamo osservato raccogliersi dallo
stesso Dionigi (c) , che n i pote era , e non figliuolo di Egerio . Ciò posto
ne viene , che senza uscire da quelle persone, di cui egli osservò le
generazioni, non quattro , m a cinque numerar se ne debe bono d a Romolo inlino
a Tarquinio Super bo : onde se aver non si dovea per assurdo tale da negar fede
alla Storia l' essersi ritro vare quattro persone in tutto il popolo R o m a n
o le generazioni , di cui fossero di fef santa e un anno , tanto meno dovrà
parer ripugnante , che cinque susseguite ne sieno , ciascheduna delle quali
uguagliatamente non oltrepassi i quarantanove anni .
(.)Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.2619 que 336 RAGIONAM.CONTRO IL CONTE M a dirà
il nostro Autore , che ad una generazione comunemente si danno soli tren tatré
anni , laonde n o n si può essere così largo , e concederne a ciascheduna di q
u e Ite quarantanove . Qui mi convien prendere d'alquanto più alto i principi ,
e si verrà a conoscere , che quelle generazioni , a cui comunemente fi danno
trentatré anni , o secondo altri tren tacinque,non sono della specie di quelle
osa servate dal nostro Autore . Vediamo adun ALGAROTTI : CAPO VIII.
137 q u e quali fieno quelle , a cui diedero tal nu : mero di anni i Cronologi
, e verremo in chiaro , fe tali fieno le osservate da lui.La Cronologia , come
tutte le altre facoltà,dee seguir la natura , come maestro fa ildiscen te , per
dirlo alla Dantesca , e pure è che collo.Specularvi sopra molte fiate,in luo go
diavvicinarsiaquellaaltrilafugge,e gli ultimi passi sono quelli c h e
riconducono a lei nella vero , L e generazioni pertanto , che fiffarono i
Cronologi circa a trentatré anni, sono quelle , che generalmente si osservano
in un lungo spazio di tempo nella maggior parte famiglie di una nazione;laonde,
fe fiof servano in una sola, o poche famiglie , a n che per lungo tempo questa
osservazione, non è più fattasecondo la regola , che general mentela maggior
parte abbraccia:percioc chè , se nella maggior parte delle famiglie sono
uguagliatamente le generazioni di tren tatré anni,potrebbe succeder benissimo,
che fi ritrovasse una famiglia , od anche diver se , in cui queste foffero o
più lunghe , più brevi. Se poi non si osservassero in un lungo spazio di tempo
, riuscirà ancor più agevole il ritrovarne . M a le generazioni , di cui
servifli il nostro Autore , nè corsero delle - nella maggior parte
delle famiglie , nè in lungo tempo , anzi nè pure in unasola fa miglia , essendo
composte di diverse perso ne d i varie famiglie . Certamente se si fa un
Cronologo ad osservare per tal modo le generazioni, ben tosto fisserà la regola
ge nerale di queste a settanta e più anni , per chè in un notabil tratto di
paese popolato iopenso,chenon passisecolo,senzachèfi veda uno , o forse più
uomini , che di tale età hanno prole. Lo sbaglio in somma del Conte Algarotti
consiste nello aver presa la regola d a quello che suole generalmente avvenire
, gli esempj da ciò , che in pochi succede,ed aver pensato, che que'casipar
ticolari sotto la general regola cadessero , o n de la Cronologia degli Storici
delle cose de? Romani sottoi R e s'opponesse a quella legge , che osservaro
aveano nella natura i più periti Cronologi . Nel che quanto sia a n dato lungi
dal vero credo d'aver fatto ba ftantemente palese. Due ragioni reca ancora
finalmente l'Au tore in difesa del Sistema del Neutone ,cui è necessario
rispondere innanzi di por fine a quelte nostre osservazioni. La prima fiè , che
tal Sistema discolpa Virgilio esattissimo Poeta , ci dice , da quello
anacronismo i m pu 138 RAGIONAM, CONTRO IL CONTE > i
ALGAROTTI , CAPO VIII. 139 putatogli volgarmente per conto de'tempi , in
cui vissero Didone , ed Enea . La secon da , perchè giustifica quella comune
tradi zione tenuta in R o m a , che N u m a foffe fta to uditor di Pitagora .
Ora per rispondere alla prima , questa . ammetter fi dovrebbe senza dubbio
veruno qualora fosse stato Virgilio tenuto a soddi sfare alle leggi della
verità storica;ma non fa mestieri ricordare , che da tali leggi sciolti sono i
Poeti.Raro è quel vero, che non abbia bisogno del finto per aggradire ai più ,
e se non inftillano virtù , col dilet tare mancano i Poeti al principal fine
dell' arte loro ; tanto più , che fecondo quello che pensa il dotto P. dellaRue
(d),non per ignoranza delle antiche Storie , m a per dar ragione de'famosi odj
, i quali si lungo tempo fra' Cartaginesi , e la Nazion suam durarono , e per
introdurre quel patetico , che tanto piacque , come ce ne assicura Ovidio (e),
a'suoi contemporanei , e tanto è degno di piacere ad ogni età,e ad ogni popolo
, non ebbe difficoltà di commettere (4) Ruaeus in
not.ad.Arg.Lib.IV.Aeneid. quell' Ovid. Trift. Lib. II. Eleg. I. v. 535.
Nec legitur pars ulla magis de corpore toto. Quam non
legitimofoederejunétus4mor, quell'anacronismo . S'aggiunga , che
que ito anacronismo non era tale che facil mente potesse venire scoperto dalla
comune de'Leggitori , da'quali soltanto balta , che non vengano scoperti gli
errori storici dei Poeti : perciocchè correa fama fecondo A p piano ( f) , che
Cartagine fosse stata fonda ta alcuni anni avanti all'eccidio di Troja da una
colonia di Fenici , presso i quali poi ricoverossi dopo lungo tempo Didone ,
del che non lascia Virgilio didarne qualche cen nei ? 140 RAGIONAM ,
CONTRO IL CONTE Appian. apud Ruaeum cit. loc. no, > onde trattandosi di
tempi assai lontani dalla età di Virgilio , questo rumore basta va per render
tale la finzione, che non fof se la verità ad un tratto conosciuta ,e vinta a terra
cader dovesse la invenzione di lui. Ma abbreviando della metà iltempo,che
durarono i Regni de'Re di Roma viene forse a nulla cotesto anacronismo ? E che
fa rebbe, se il nostro Autore inutilmente ado perato fi fosse , e che anche
togliendo pref so che la metà degli anni dalla somma di tutti quelli , che
corsero sotto a'Regni dei fette R e , non si venisse con questo a ren der
probabile in alcun modo , che Enea , e Didone potessero essere stati
contempora Tre secoli e più corsero,secondo gli an tichi Scrittori
, dall'incendio di Troja alla f u g a d i D i d o n e , c o m e o s s e r v a r
o n o il d o t t o Petavio , e l'erudito Commentator di Vir gilio della Rue
(g): ora da trecento e le dici anni (che tanti ne corlero fecondo il Petavio
dall'eccidio di Troja alla fondazion di Cartagine ). togliendone cento e undici
, come piace all'Autor noftro,vale adire facendo venire Enea in Italia cento
undici anni più sardi, rimangono nulladimeno d u gento e cinque anni di svario
. Laonde é chiaro , che nè Virgilio abbisogna della di fesa del nostro Autore ,
nè , quand' anche ne abbisognasse, sarebbe questa bastante per do
(3)Petav.Rationar.tempor.Parte I.Lib.II.Cap.IV. Cartagofundata dicitur anno
posttemplum incoatum144. qui est annus poft Trojanam calamitatem 316 . Ruaeus
loc, supracis. te svanire l' anacronismo da lui commesso . fa ALGAROTTI .
CAPO VIII. 141 nei ? Sia adunque egli pur certo, che cote fto fuo ripiego
nontoglie, ma soltantosmi nuisce l'anacronismo di Virgilio ; che anzi questo
rimane peranco maggiore di due le coli . N è soltanto vuole il Conte Algarotti,
che fia alla più esatta verità conforme ciò,che si legge in un Poeta, purché in
alcun m o anno > che comunemente credefi centesimo
undecimo dalla fondazion di Roma,alprin cipio del Regno , di cui già dovea
effer giunto N u m a al quarantesimo primo della età fua (se pur vogliamo
seguire ical coli dell'Autor nostro , il quale dando diciannove anni circa di
Regno a Romolo faprincipiare il suo Regno aNuma giàvec chio di sessant'anni ) ,
e fissando d'altra p a r te , come già sopra abbiamo osservato , le condo la
mente di lui, la venuta di Pitas gora anno soli 142 RAGIONAM . CONTRO IL CONTE
do favorir possa il suo Sistema; ma preten de eziandio, che maggior credenza
prestar fi deggia ad una popolar voce ,laqualtor na in avvantaggio della
opinion sua che a'più rinomati Storici dell'antichità . Già abbiamo sopra
veduto il suo parere circa all'essere stato Pitagora contemporaneo anzi Maestro
di N u m a , ora adunque a confer mare vie più ilsuo Sistema,lorecadinuo vo in
mezzo quasichè ridondar debba in avvantaggio di questo il porgere , che fa fa
vorevole interpretazione a d u n a tale p o p o lar voce . Avendone però già
altrove fuffi cientemente favellato, non mi resta altro da aggiugnere , se non
che , anche fiffando il principio del Regno di Romolo secondo lo intendimento
del nostro Autore , a quello ALGAROTTI . CAPO VIII. 143 Queste sono
le riflessioni, le quali, fecon do quello,ch'iopenso,chiaramentedimo streranno
, che il Conte Algarotti cadde trat to dal suo Filosofo in errore . Se parranno
per avventura troppo più lunghe di quello , che neceffario fosse, gioveràin
primo luo go considerare , che bastano poche parole per mettere una cosa in
dubbio , m a effer forza per iftabilirne la certezza ricorrere a' principi,
onde riescono sempre le risposte più lunghe delle opposizioni ; in secondo
luogo , c h e ho stimato dovermi fermare alquanto in torno a certi punti , i
quali oltre allo influi re nella materia , che per me trattar fi do vea ,
poteano essere forse non del tutto inu tili per chiarir la Storia di quella
prima età di Roma . Che gora in Italia circa a quello anno , che giu
dicasi dagli Storici dugentefimo quarantesi moquarto diRoma, virimaneciònon
ostan te un anacronismo di cento trentatré anni tra la venuta di questo
Filosofo in Italia , ed il tempo , rendere in cui Numa-già era perve anno della
età sua; o n de il Sistema del Neutone non può nè pure nuto al quarantesimo
Pitagora , e Numa contemporanei , come non può affolvere Virgilio te dall’anacronismo
interamen di Didone , e di Enea. 1 1 1144 RAGIONAM . CONTRO IL
CONTE Che se,come fpero,mi è riuscitodifar vedere l'inganno del Conte Algaroiti
, sarà questa una novella prova di quanto sia in tralciato il cammino del vero
, quanta 1 sia connesso , ed unito l'errore: collo inge gno umano , poichè gli
uomini fommi non tralasciando desser uomini , in tutto spogliar non se ne
possono. La più bella discolpa del resto che addur si possa in difesa di lui ,
îi è il dire , che fe pur s'ingannò , s'ingan nò seguendo un Neurone .
L'opinione del Newton fu sostenuta in Italia dal conte Algarolti in un suo
saggio sopra la durata de're gni de'Re di Roma,scritto nel 1729,cioè due anni
dopo la morte di Newton e un anno dopo la pubblicazione del libro di lui!.Ora,in
questo suo saggio l'Algarotti lascia poche censure intentale contro la
cronologia dei primi due secoli e mezzo di Roma ,procurando di provare in
particolare come non fosse succeduto davvero ciò che per una ragione generale
il Newton aveva affer malo che non era potuto succedere.Ilsuo fondamento è
soprallulto Livio ; e in secondo luogo Plutarco, non
1Ilsaggiodell'Algarotttisitrovanelvol.IV dellesueopere (Cremona
1779),p.106-138.Ma laristampachequivi n'è fatta non è in tutto conforme
all'edizioni anteriori,delle quali ioho la seconda, Firenze 1746, presso Andrea
Bonducci; e dico la seconda perchèl'editoreinunaletteradidedica
all'illustrissimosig.cav.An tonioSerristorichiamaquestaunaristampa,enonpuò
esservistata, se non una sola edizione prima, perchè una lettera dell'Algarotti
allo Zanotti, che precede il saggio, è del 24 dicembre 1745 , e da essa appare
che il saggio non fosse stato stampato prima. In questa lettera l’Algarotti
dice appunto di averlo scritto oramai sedici anni passati,quando dava opera alla
Cronologia sotto la scorta di quel lume vero d'Italia, Eustachio Manfredi, e
che non vi avrebbe più riguardato,«sevoinonmiavesteeccitatoainandarlovicome
fate»; e se n'era distolto , perchè « distratto da mille altre cose , e gli
pareva,che non fosse da moltiplicare in iscritture e in istampe intorno a cose
già trattate,benchè in modo diverso dal mio.» Que g l i il q u a l e a v e v a
t r a t t a t a q u e s t a , e r a u n I n g l e s e d i c u i n o n d i c e
il nome,ma di cui gli aveva dato notizia,in un suo viaggio in Inghil t e r r a
, il s i g . C o n d u i t , e r u d i t o g e n t i l u o m o i n g l e s e e
d e r e d e d e l N e w t o n , quello stesso che ha scritto una lettera di
dedica alla Regina, messa avanti alla Cronologia.Lo scritto dell'Inglese doveva
esser pub blicato in fronte d'una storia Romana. Non so chi fosse. E. M a n
fredi scrisse gli « Elementi della Cronologia con diverse scritture
appartenenti alCalendarioRomano.» Furon pubblicatiinBologna nel
1744.Egliaccettaladatavarron.dellafondaz.di Roma,01.6,3. 1.- LAMONARCHIA.
51 riferendosi a Dionisio mai ; anzi confessando di non avere lello
se non idue primi'.Ora,ilsuo assuntoé che i fatti che Livio racconta dei Re,non
s'accordano col numero d'anni che questi,secondo lui stesso,avreb. b e r o r e
g n a l o . Il c h e p r o v a , m o s t r a n d o p e r R o m o l o , q u a n
t a parte del suo regno resti vuota di avvenimenti,e quanta
sial'inverisimiglianza,che,a17anni,ch'è l'etàincui si dice cominciasse a
regnare, desse già segno di tanta prudenza civile e virtù di guerriero, quanta
gli se ne attribuisce; per Numa,che dovesse,poiché eletto per la fama sua e per
avere avuto in moglie Tazia, essere asceso sul regno a sessant'anni ; per Tullo
Ostilio ed Anco Marcio, che dovessero aver avuto più breve re gno,di 32 anni il
primo, di 24 il secondo,se dev'es. sere vero , che i figliuoli di queslo , il
quale aveva , a detta di Plutarco, cinque anni alla morte di Numa, non fossero
ancora maggiorenni alla sua,cioè quando Anco avrebbe avuto sessantun anni ; per
Tarquinio Prisco, che non può avere regnato trenlolto anni, se dev'essere stato
ucciso per opera de'figliuoli di Anco, attentato da giovani, ancora freschi del
torto ricevuto, e non da uomini di cinquant'anni quanti ne avreb bero avuto
alla morte di Tarquinio dopo cosi lungo re gno, anche supposto che non ne
contassero se non soli dodici alla morte del padre; per Servio Tullio,che a i
Cosi dice nella lettera allo Zanotti, secondo sta nell'ediz. del 1726;ma non è
ripetuto in quella dell'edizione del 1779,che è variata anche in altri punti. E
di fatti in questa seconda edi zioneècitatoDionisio,lib.VI,permostrarecome
questi,accor gendosi dell'impossibilità, che Tarquinio Superbo assistesse egli
stesso alla battaglia del Lago Regillo, vi fa invece assistere il
figliuoloTito.Però,anchecosi,lostudiodell'Algarotti resta,come prima,poggiato
tutto sopra Livio e Plutarco. 52 LIBRO QUARTO. 1. - LA
MONARCHIA . 53 dargli quarantaquattro anni di regno,Tarquinio Superbo,
ilqualeeragiàingradodimenar mogliealprincipio diquello,non avrebbe potuto a
sessantaquattro anni opress'apoco ucciderlo nel modo che si racconta; per
Tarquinio Superbo infine,che Tarquinio Collalino non avrebbe potuto essere
giovine alla fine del regno di lui, poichè egli era figliuolo di fratello,se il
suo cugino avesse avulosessantaquattro anni al principio del regno stesso; e
che, se questi n'aveva tanti allora, n'avrebbe avuto ottantanove, quando su
sbalzato dal trono, e cento alla battaglia al Lago Regillo dove avrebbe
combattuto a ca vallo,e sarebbe poi morto, si può aggiungere, di cento
trèanni.Sicché l'Algarotti crede che questi regni si debbono accorciare lulti,
se la storia di ciascun Re si deveaccordarecolladuratadel regno.E di quanto
biso gni accorciarli,egli lo trae da un'altra considerazione, cioè dal numero
di generazioni , intervenule durante la monarchia.Queste,egli dice, non poter
essere state se nonquattro:poichèiregnidiRomolo,diNuma ediTullo Ostilionon
siestendono più di due generazioni, stante chéOstilio,avolodiquest'ultimo,ècontemporaneo
di Ro molo;un'altra generazione richiede il regno di Anco, che è vissuto la
maggior parte di sua vita durante il regno di ullio ; ed un'altra, i regni di
Tarquinio Prisco. di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo , poichè il primo
ha del pari vissuto la maggior parle di sua vita durante il regno di Anco.
Sicché contando ciascuna generazione per trentatré anni,la durata della monar
Chia sarebbe stata di centotrentadue anni,e ne tocche rebbero a ciascun Re ,
l'uno ragguagliato con l'altro, diciannove. Sopra la durata de'Regni DE
RE DI ROMA. Gli è una neceffaria conse guenza delSistemacronolon gico del
Neutono abbrevia re considerabilmente i regni de' sette Re di Roma , a ciascun
de' quali agguagliatamentegli Storici danno trentacinque anni di regno , mentre
il comun corso di Natura secondo le offervazionidel Filosofo, non ne concede
loropiù di diciot to o di venti . La qual conseguen za separesse stranaad
alcuno,pur dovrà meno parerlo a chi risguar derà , che gli Archivi di Roma
perirono dalle fiamme nel tempo che E 15 Ma noi (chiarati anco in
questa parte dalle of (1) Plut,inNuma in principio p.
59.ed.Grecolat,Francofurti 1620. 16 che iGalli occuparono quella Cita
tà(1),onde gliStoricinonebbę. ro dipoi alrro fondamento di quel lo scriveano,
se non se la tradi zionevaga ed incerta,ch'era ri masa delle cose passate
Talmente che ritenendo esli i nomi de'Re e registrando le azioni di quelli che
tuttavia duravano nella m e moria degli uomini , fecero una Cronologia a modo
loro. E questa Cronologia allungandola più del dovere, poterono in quella incer
tezza fatisfareaquelnaturale ap petitocosidelleFamigliecome del le Nazioni, di
cacciar le origini l o r o il p ị ù i n d i e t r o c h e p o s s o n o n e l
la caligine del tempo . (1).Come Livioscrivechenonera
ra.DanteInf.29: offervazioni del Neutono ,possiamo rimettere le cose al
debito ordine nella serie de'tempi, e ciò fare mo non in altro modo che aflog
gettando i Re di Roma a quelle comunileggi diNatura,allequa li ubbidiscono
nelle Tavole cro nologiche tutti gli altri Re della Terra.Pur nondimeno questa
par c o f a d u r a a m o l t i c h e si d e b b a f r a n ger ,dicono
efli,l'autorità di Sto ricichenonerrano(1),echevo gliano uomini di jeri
giudicar m e glio degli antichi di cose passate tantisecoliavanti.A questiioin
tendo di ragionare ;e perchè ilN e u tono nella fua Cronologia non fa al tro
che accennare così in generale la detta quiftione , io intendo d i fputarla con
alcune particolari ra gio B 17 gioni,e quefte derivate appunto da
quegliStorici,dell'autoritàde' quali e'fanno sì gran caso , e maffi- . me
daTitoLivioPadre diRoma na Istoria.Nel che io mostrerò, che avolerritenere
ifattida efio lui riferiti, egli è forza rigettar le epoche da esso affegnate
'a quelli, come non sivogliaammettere( che niuno ilvorrà) certe irragionevo
lezze da non ammettersi,che na scono da'suoi raccontimedefimi, e da quella sua
Cronologia, 18 E prima diognialtracosa io metterò innanzi una Tavoletta
de' regnidiquestiRe distesagiustal' oppinioncomune la qualeporrà fotto l'occhio
in un tratto l'anti co Sistema,eserviràameglio in tendere ilseguente
Ragionamento. T4, VII.TarquinioSuperbo 44 219 11. Numa muore
dopo un regno di anni 38 III. Tullo Oftiliom u o IV.AncoMarziomuo 43 81 32 113
38 24 redopounregnodi anni 137 V. Tarquinio Prifco muore dopo un rem gno di
anni Tulliomuo ·redopounregnodi - anni 1 TavolaCronologicade' anni anni
RediRomasecondor de' ab oppiniondiTitoLivio. Regn.V.C. 1.Romolo muore 37 37
Interregnodiun'anno Í è cacciato da Roma dopounregnodianni 25 19 re dopo un
regno di anni DO V i. Servio Ba 175 : 244 Dove non sarà fuor di
propofi to avvertire quello che avverte lo stelloNeutono(1)comedaltem poincui
laCronologia cominciòad ellercertaedesatta,non sitrovain tutta laStoria pure
un'esempio di sette R e , i più de'quali furono a m mazzatied uno deposto,che
ab biano regnato dugenquarantaquat tro anni senza interruzione veruna . Ma
venendoalparticolare, e in cominciando da Romolo, i fatti di questo Principe
dopo il ratto del ledonne,primacagione delmet tersi in arme (1).Nella
Cronol.p.137. dellaE 20 :) furono le guerre contro i?Sabini, che
ripeteano le donne loro,e.leguerrecontroal cuni popoli per gelosia d'imperio.
Plutarconedà l'epoca della pe nul- , diz, Franzese 1728. giuri sdizione,laqual
Fidene era stata soggiogata da Romolo innanzi Ca merio . Il che ne somministra
assai pro (α)και την πόλιν ελών, τοίς. μεν ημίσεις των περιγενομένων εις Ρώμην
εξώκισε ,τών δ'υσομερόν- τωνδιπλασίους έκ Ρώμης κατώ κισεν εις την Καμερίαν
Σεξτιλίαις Καλάνδαις.τοσύτοναυτώ περιήν πολιτών εκκαίδεκα έτησχεδον οί κάντι
την Ρώμην . 21: nultima di queste guerre che fu c o n t r o i -C a m e r
j , l a q u a l e e p o c a c a - , de nell'anno sedicesimo della edi-,
ficazione di Roma ,e del Regno di Romolo (1). E dopo questa e gli non imprese
altraguerra se non contro iVejenti, chemoslero cono tro i Romani domandando la
resti tuzion diFidere,come di,Città che siapparteneva alla loro Β3
22 probabile argomento di por questa ultima guerra guerra l'anno
decimofetti mo della edificazion di Roma o là in quel torno , non essendo punto
verisimile che i Vejenti domandaf sero la restituzione di cofa tolta troppo
lungo tempo avanti; tanto più che siccome era rozza .a quei di l'arte della
guerra ,rozza altresì era quellade'Manifesti .Stando a (1) In Rom. in fine p.
37. Id. inNuma in princip.p.60. dunquecosìlacosa,cioè che l'ul tima guerra
fatta da Romolo cadel senel'annodecimosettimodelre gno suo, e facendolo regnare
tren totto anni,comedicePlutarco(1), ne rimarrebbe uno spazio di ven tun'anno
in bianco, voglio dire tuttopacifico e quieto, e con verria dire che sotto il
reggimen to A questeparticolariragionidi abbreviare il regno di
Romolo se ne aggiugne un' altra non meno ftringente tratta da Plutarco , fe
condo cui egli deveaver comin B4 cia 23 to diquel Re fosserostatiiRom
mani molto più tempu in non in guerra; il che non accorda punto con quella
indole bellicosa che tutti gliAutori ad una voce danno al fondatore di quello
Iinperio . N e ciò accorderia pure con quelle pa role che Plutarco mette in
bocca á Numa , il quale per rifiutare il Regno offertogli dalRomani,dice che si
convenia loro un Condot tierod'esercitoanzicheunRe per cacciare que' potenti
nimici che Romolo avea lasciato loro in sulle braccia (1). pace che . (1) Plut,in
Numa p.63.; (1)Id.inRom.infine 77 24 ciatoaregnareinetàdi anni di
cialette, dacchè egli è morto di anni cinquantaquattro secondoi computi di
quello , e ne à regnata trentotto (1) . Ora come sipuò egli mai conciliare con
una età cos sì tenera quelle tante cose che fa cea costui secondo lo stesso
Plutara co,perlequalisivoleaunaetà più gagliarda,e più ferma?Egli eccellente
ne'consigli e nella civil prudenzá mostrò moltepruovedel suomirabileingegno
inoccasiondi trattar co' vicini , attendeva agli ftudidell'artiliberali;fi
esercita vanellefatiche,nellecacce delle fiere,nelperseguitare gliaffaslini,
nel purgar levie da'ladroni,e nel difender dalle ingiurie coloro che
fusleroftatioppressi dall'altrui fu per P.37 perchieria(1):modi
tutticheil feceró crescere in reputazione fra glialtri påstori,e chedebbono
fara locrescerdietàapponoi.Nè lo aver' egli guidato a quel tempo
impresedifficilisfime,lo efferfi fat to capo di un popolo , e lo aver fondato
una Città ne rimoveranno dall'oppinione di farlocominciare a regnar più tardi,
e di accorciare ilsuoregno. tore E da Romolo passando a N u
ma,eglinoncisonomenfortira gioni per abbreviare il regno anco di questo . Io
lascio ftare quella quistione roccata da Livio ,e da Plutarco(2)come questo
Legisla (1)Plut.in:Rom.p.20. (2)Id.inNumap.60.69,e 74. Tit. Liv. Decad . I.
lib. la pa 14.atergo.Ed.Ald.1918.. 25 : por Authorem
do&trina ejus quia non extat,alius,falfo SamiumP y thagoram edunt,quem
Servio Tül lo regnante Rom& centum amplius poft annos in ultima Italiæ ora
cir ca Metapontum Heracleamque de Crotonam juvenum æmulantium fta diacatus
habuilleconstat.Liv,Ibid. 26 gnan tore potesse essere stato uditor di
Pitagora, il quale essendo venuto inItaliapiùtardiche Numa non cominciò a
regnare secondo la co mune oppinione (1) , ne farebbe (1) Plut,in Numa p.60.
PherecidesSyrus primum di xit animos bominum esse fempiter
nos:antiquusfane:fuit enim meo regnante Gentili.Hanc opinionem discipulus ejus
Pythagoras maxime confirmavit, quicum Superbo re fu Cic.Tusc.Quæft.
Lib.I. 27 il regno suo più sotto, e per conseguente accorciare almeno le
durate degli altri cinque regni,che furonodaessoNuma fino alRegi fugio;della
certezza della qual'e pocanonsidubitadaniuno lo Jascio,dico,questa quistione
,la qua lenon risguarda tantoladuratadel regno diquestoRe ,quanto il prin cipio
di quello :e vengo a cið che ne appartienepiù davicino, porre Plutarco ne dice
che Numa aveva quaranta anni (1) , quando gnante in Italiam menisset , tenuit
magnam illam Greciam ac. Pythagoras qui fuit in Italia temporibusiisdem,quibusL.
Bru tus patriam liberavit. Id.Ib.Lib.IV. (1)InNuma p.62, 28 qua
rantatre , la quale ultima cosa ne dicefimilmenteLivio(1).Ma qui io domando le
parrà ragionevole ad altrui,che incosìfrescaetàpo tesseNuma essergiuntoaquelloe
minente grado di fapienza, che fi dice;emoltopiùpoiseparrà ve risimile , che
tenendo egli maslime modi di vivere differenti dagli u fatinel fuo
paese(2),egli potesse esser salico in così alto grado di re Tit. Liv. Decad. I.
lib. I.p. 16. a tergo . fu eletto in Re di Roma, e che la governò per
lospaziodi pu (1) Plut.InNuma p.73.2 74. Romulus feptem do triginta regnavit
annos . Numa tres a quadraginta - (2) Vedi Plut. in Numa in princip.
Annumque intervallum regni fuit. Id ab re quod nunc quoque tenet nomen
,interregnum appella tum . ld paullo post. Consultissimus vir omnis di
putazione,che lo facesse riverire non solo appo gli stranieri, ma nel proprio
paeseeziandio per così straordinario modo ,come narrano; e per recar le molte
parole in u. na , che l'autorità del nome suo. fossetale,ch'ella dovesse in un
subito far ceffare le animosità, e le gare delle parti, che per lo Ipazia di
un'anno aveano conteso in Ro.: m a per lo Imperio (1) . M a egli (1)Patrum
interim animos certamen regni ac .cupido verfa bat @c. OK 29 ci
Tit.Liv.Decad.I. lib.I.p.14. 30 Plut.in Numa p.61. --- a y ci
è ancora alcuna altra confider1 zione da farsi.Tazio che reggeva Roma insieme
con Romolo ,mcf so dalla gloria e dal nome dilui che tantoalto suonava,selofece
genero dandogli per moglie una sua unica figliuola che si chiama
vaTazia.Quandoquestoavvenif feper appunto nonsilegge;ma eglièverobensì,che
ciðfumol divini atque'bumani juris dito nomine N u m e Patres Romani quamquam
inclinari opes ad Sabi nos rege inde fumpto videbantur : t a m e n n e q u e se
q u i s q u a m , n e c f a Etionisfuæalium,nec denique Pa trum aut Civium
quenquam prefer re illo viro auf ud unum omnes . Numa Pompilioregnumdeferendum
decernunt,Id. Ib.atergo,ep.15. to (1)T.Liv.Decad.I.Lib.I.
p.12.Plut.inRom.p.32. 31 sua to di buon'ora nel regno di R o molo ,dacchè
Tazio muorì prima della guerra co'Fidenati, e co'Ca meri (1),cioè prima
dell'anno see dicesimo del regno di Romolo ; e d'altra parte ne racconta
Plutarco che Tazia era morta quando N u ma fu chiamato al regno, e ch'era
vissuta con esso luilo spazio di tredicianni(2).Dal chetuttofi
deeraccogliere,che grantempoa vanti la morte di Romolo fioriva
lafamadellafapienzadi Numa;e converrià dire ,ritenendo il c o m p u
todiPlutarco,cheavendoNuma foli venticinque anni,questa fama fossegiàtanta,che
inducefleTa zio Re a dare in matrimonio una (2) Plut.in Numa p.61.
-(1) Id. in Numa p.63. sua unica figliuola a lui uomo pri vato , il
che mostra essere alieno da verisimiglianza, Diremo per tantoasalvareilvero,cheNuma
dovesse avere sessanta anni almeno quando fu eletto con tanta unani
mitàaRediRoma;eciòpofto, gli staranno molto meglio inbocca quelle parole che
periscansarsi da questo carico gli fa dire Plutarco , qualmenteallecondizioni
de'Ro mani era bisogno che laCittà avef seunRe dianimoardente erobu sto (1),le
quali parole più tosto fi disdirieno che no ad un'uomo di
quarantaanni.Postoadunque che Numa , come ragion vuole ,comin ci a regnare
vent'anni più tardi che non si crede ,> di altrettanti an ni fi verrà ad
accorciare ilsuo re gno in età in circa di ottantatre anni
(1). gno , dove si voglia ch'egli sia morto come narrano , 33 sta E per
tal modo abbreviando il regno di Numa , e similmente q u e l l o d i R o m o l
o , si v e r r à a r e n der più probabile la lunghezza del la pace di cui godè
Roma a tempo attorniata da popoli estre mamente gelosidellasua grandezza, come
ellaera.Questapace giusta l'antico computo farebbe dileffan tacinque
anni,iqualirisultano dal la somma de'quarantatre del regno diNuma,daun'anno
d'interre gno,e da'ventun'anni passati da Romolo , dirò così , nell'ozio e
nella cessazion dalla guerra ; e g i u C: quel > (1) ετελεύτησε δε χρόνον ο
σ ο λύντοϊςογδοήκοντα προσβιώσας. Plut,in Numa p.64. ven di
pre 34 itale cose discorse, questapace viene ad essere di ventiquattro an ni in
circa e non più . E da ciò riesce molto più verisimile , come Tullo
Ostilioerededelregno,non dell'arti di Numa , abbia potuto facilmente rinvigorir
ne' Romani la bellica virtù inspirata loro da R o molo,ecomeabbiapotuto sente combatter
con feroci Nazio ni e soggiogarle; il che di troppo fáriafuordell'uso,e della
oppi nion comune se la virtù de' R o manifossestata(nervatadauna pa c e di
fesfantacinque anni . Io non dirò nulla de' due fuf seguenti regnidiTullo
Ottilio,edi Anco Marzio,ilprimo de'qualiè di trentadue anni (1), l'altro di (1)
Tullus magna gloria bel li regnavitannosduosdotriginta. T.
Liv.Decad.I.lib.I.p.24. (2) Jam.filii prope puberem etatem erant
Id. Ib. 35 ventiquattro (1) , se non che ab breviandogli un tal poco ,
egli ne parrà piùverisimilequello che di ce Tito Livio de'figliuoli di A n co
Marzio : cioè che alla morte del padre e'non fossero ancora ag giunti agli anni
della pubertà (2) (1) Regnavit Ancus quatuor dig viginti. Ib.p. 26. a tergo .
Anco Marzio aveva cinque anniallamortediNuma(3):sea cinque se ne giungano
trentadue, e ventiquattro, avremo leffantun’ anno,cioè l'età d'Anco Marzio
allamorte fua;ilqualeavriadova to naturalmente lasciare figliuoli più
adulti,postoche egliavesse regnato ventiquattro anni, e Tul C2 lo annos
(3)Plut. in Numa pag. 74. 36 lo trentadue ; e cið perchè seconda
ragione,un regio uomo come si era Anco Marzio e che fu poi Re , dovea menar
moglie assaidibuon' ora per lasciare il regno a'figliuoli nella più ferma età
che far fi po tesse. Eniente farebbe ildire,ch' egliavesle avuto figliuoli
maggio ri di età che morisfero innanzi a lui , e che questa cura del padre di
la fciar figliuoli atti al regno futle del tutto inutile in un regno e lectivo
qual sieraquello diRoma , poichè dall ' una parte egli pare improbabile che
dovessero ellere morri in tenera età tutti i primi suoi figliuoli più tosto,
che gli altrs,edall'altrocanto eglisem bra che si avesse risguardo alla stir pe
regia nella elezione del Re . Segno è di questo , che i Romani chiamarono al
regno il medesimo 1 An 37 Ma Anco Marzio nepote di Numa che
Tarquinio Prisco allontand i figliuolidiluidaRoma neltem po de'Comizj (1). (1)
C3 do peromnia expertus ( L.Tarquinius ) postremo tutore diam
liberisregistestamento insti tueretur Jam filiiprope pube
remætatemerant.EomagisTar quinius instare,utquamprimum comitia regi creando
fierent: qui.. bus indi&tisfub tempus pueros vem natum
ablegavit:isqueprimus de petisse ambitiofe regnuin & c. T. Liv:Dec.
I.lib.I.p.26.atergo. Tum Anci filii duo , etfi a n tea femper pro indignissimo
habue rant fepatrio regnotutorisfraude pulsos:regnare Romæ advenäm non modo
civica, fed ne Italica qui demftirpis& c.Id.ib.p.29.terg. e (1)
Nel luogo citato. р 3:8 Ma non è già così da passar sotto silenzio il regno
del medesi mo TarquinioPrisco successoredi Anco.Ne viene costui rappresen tato
come usurpatore del regno, secondo che disli, a' figli di quello ,
de'qualieglierastatoistituito tu tore dalpadre(1).Egliregna tren totto anni
(2),e vien finalmente ammazzato per opera degli stessi fi gliuolidi
Ancovaghidiricuperare il regno paterno tolto loro dalla frande dell'uomo
straniero(3).Nel che (3) Sed injuria dolor in Tarquininın ipsum magis quam in
Servium eosftimulabat (3) Duo de quadragefimo fer me anno ex quo regnare
cæperat Tarquinius bc.Id.Ib. ipseregiinfidiaparantur.Id. Ib. aullo poft . ob
hæc che chi non ammirerà la flemma incredibile di costoro , che tra
la ingiuria e la vendetta polero in mezzo trent'otto anni, spazio di tempo
bastante a sedare e spegner forfe nell'animo qualunque più violenta passione?
Questo fatto a dunque dovette avvenire nella lo to giovanile età non molti anni
d o polamortedelpadre;ilche quan to è comprovato dalla vatura del fatto
medesimo , lo è altresi dal non ne avere effiraccolto frutto alcuno, come
coloro che dopo la uccisione di Tarquinio rimasero ne più nè meno esclusidal
regno pa terno.La qualcosaben mostraef fere questa stataopera di età gion
vanile e inconsiderata , e non di quella ferma e matura di cinquan ta anni, in
cui Livio gli fa c o n troogni verisimiglianzaoperarque 3999 Ita.
C4 Che diremo oltre del suo suc cessore Servio Tullo , il quale nel
fapno regnare quarantaquattro an ni (1) ? Se non che dobbiamo di
moltoaccorciareancoquesto regno, per quella medesima ragione per la
qualeabbiamoaccorciatoquello di Tarquinio Prifco fuo predeceffore. Fu Servio
Tullo anch' ello mello a morte da chi volea ricuperare il
regnopaternotoltoglida essoTul lo,ch'era di schiatta fervile,e
chefuportosultronodiRomaper artifiziodiJanaquilęmoglie diTar 40 sta
Tragedia, E però rimane che fi debbaabbreviareilregnodi Tar quinioPriscocomesiè
fattode' superiori. 1 qui (1) Servius Tullus regnavit, annosquatuor
quadraginta.Id. Ib. p. 34. a tergo. e preso dalla più violenta
ambizione; e ch'egliin 41 quinio Prisco. È in ciò dovrà pa rere molto strano
che Lucio Tar quinio , che fu poi cognominato il Superbo,abbiaaspettatoa metter
lo a morte quarantaquattro anni.E molto più poi le altri vorrà por
menteatrecose,chequestoTar quinioera giovine fatto allorchè Servio Tullo fu
aflunto al Trono , ilqualela prima cosa diede per moglie due sue figlie a due
giova ni Tarquinj Lucio ed Arunte (1); che questo Tarquinio era di natu ra
3rdentifima CS ६. > (1) EtnequalisAneiliberum animusadversusTarquinium fuerat,
talisadversusse Tarquinii liberam esset: duas filias juvenibus, regiis' Lucio
atqueAruntiTarquiniisjunio git •Id.Ib.p.30:a tergo• fine era
eccitato cotidianamente ad occupare il regno da Tullia fua moglie la più
stimolofa è rea f e m mina che fulle mai (1) . Le quali cose considerate che
fieno ,faranno che debba credersi molto più irra gionevole che Servio Tullo
abbia potuto regnare quarantaquattro an ni,che Tarquinio Prisco
trentotto. 42 Et ipfe juvenis ardentis animi do domi #xore Tullia in-,
quietum inimum stimulante Id. Ib.p.38. Sen (1) Servius quanquam jam 16 fu haud
dubie regnum possederat ; tamen quia interdum jactari voces a juvene Tarquinio
audiebat büs Id.ib.p.32,àtergo. Vedi p.33. a tergo, quid te stregium juvenem
confpici jenis6607 Nel fine del regno diSer. Tullo . Senzache
questoTarquinio,che è sempre chiamato giovine nella vi ta di Servio Tullo ,
moftra effére robusto e giovinę tuttavia allafi nedelregnodiquello,come co
luichepiglioServioperlomez zo della perfona , e sollevatolo in alto lo gittò
giù per la scala della Curia (1). La qual pruova giova nile non avrebbe potuto
altrimenti fareseaquarantaquattro anni del regno diServioneaggiungiamo venti
più o meno ,ch'egli ne do yea avere alla morte di Tarquinio Brisco ;.che lo
farebbono vecchio di sessantaquattro anni allorchè ei (1)Multo ætateį viribus
va lidior medium arripit Servium ,es latumque eCuria in inferiorempar temper
gradusdejecit.Id.Ib.p.34. a tergo. per 43 » de uxoribus
mentio , Suam quisquelaudat miris modis, 44 Ora venghiamo finalmente ale
lo stesso Tarquinio Superbo che fu l'ultimoRe diRoma iAvvenne verso la fine di
questo regno ,che nell'offidionedi Ardeainforgesle quistione traSesto Tarquinio
e T a r quinio.Collatino marito di quella Lucrezia,chị de'dueavesse più savia
moglie , dal che poi nacque , comeYaognuno),11Confolato ela libertàRomana,Ora
quertoTar quinio Collatina secondo le parole di Livio era giovine","e
Yecondo lo ftesto autorem pervenne ad occupare il regno 5. Upitni HI,1, cer era
figlio di un Inde IT: (1)Forte potantikusbisapud Sextun Tarquinium ubii collati
aus cænabat, Tarquinius Egerii fs lius incidit .(fratrisbicfilius e
rat Regis)Cyllațiæ in præfidio re lietus. 1:1, Ib.p, & , e 28. a
tery. 45 eerto Egerio,il quale fu lafciato da Tarquinio Prisco alla
guardia di Collazia Città di novella con quita nella guerra Sabina (1) ver -fo
la metà del regno fuo o la in torno , che viene a cadere nell'an no
cencinquantacinqueincircadal (1)Collatio.c quisquid citra Collariam agri erat
Sabinisadema ***** ptum Egerius py,sub Indecertamine accenfoCollatinusne
gatverbisopuseffe;paucisid quide12 horis poffe:frisi,quantum cæteris præftet
Lucretia (14. Quin sivi gor juventa ineft confcendimus,e qws,invifimulqise
præsentes 102 strarun ingenia? T'it,Liv.Ib.p.40. la (1)Vedi'anco la
Tavoletta Cronologica registrata di topra. 46 la edificazione di Roma
(1),lomi penso che sarà mestiero darea ques sto Egerioaquel tempo per lo m e no
trenta anni , sì perchè l'età sua foffe in alcun modo eguale al cari co
commessogli dal Re Tarquinio Prisco,sìperchèquesto Egerioera nato prima del
tempo in cui Tar quinio venne a Roma sotto il re. gno di Anco (2), Ora come può
egli starecheun'uomoditrent'anni ļ' a n n o d i R o m a c e n c i n q u a n t a
c i n q u e avere unfigliogiovine l'anno du genquarantaquattro,come non sivo
glia supporre ch'egli avesse questo figlio dopo l'età degli ottant' an ni?
ilche ben vede ognuno quan to 1 (2)T,Livio Decad. I.lib. I. p. 26.
che è di niez zo tra ilpadre,e ilfigliuolo. 47 to siacontrario
all'ordinario corfo delle cose naturali. Per lo che se vorremo ritenere questa
discenden za de'Tarquinj, bisognerà accor ciare ilregiodiTarquinio Prisco di
ServioTullo e similmente di TarquinioSuperbo,che occupano tutti e tre il tempo
ot Un'altrapruova peracccrcia re ilregnodiTarquinio Superbo e quello eziandio
di Servio Tullo fuopredecessore, fipudcavarda questo. Tarquinio Superbo quand?
egli occupò il regno avea festanta quattro anni,come abbiani veduto poco
innanzi,a'qualichiaggiunga i venticinque che fi dice avere ef fo regnato
(1)troverà,ch'egli avea (1) L. Tarquinius Superbus r e gna 48
ottantanove ánniallorchè fu elpus: fo dalregno;laqualcosapofto che vera , avšia
merit:ito d'esser nota=; ta dagli Storici. Che più ? Si legno
gechequestoTarquinio parecchi a n n i d o p o il R e g i f u g i o ( 1 ) c o m
b a t tè a cavallo alLago Regillo con tro il Dittatore Postumio (2), il che
gnavit annos quinque la viginti ! Regnatum konæ ab condita Urbe ad liberatam
annos CCXLIV . Id. Ib.infinepo42. (1) Vedi T.Livio Decad.I. lib . II. (i) in
Pofthumian prima in acie firos adhortantem inftruen temque Tarquinius Superbus
quam quam jam '&tate a viribus erat gravior equum infeftus admifit ;
ietusqueab latere,concursufuorini receptus in tutum eft. Id. Ib. Pr54 .
49 du che verrebbe a cadere nell'anno centesimo e più.là ancora
dell'età sua, irragionevolezza troppo mag giore chenon sipuò comportare , e la
qual nasce pure anch'essa, co me ognunvede,da uncalcolofon dato sopra leEpoche
Liviane. Come adunquesidebbano le var molti e dalle du rate de'regnidi inni
cotefti R e , egli si provato rimane abbastanza altrimenti nasco
dagliassurdiche insieme i nelvoler comporre no le altre condizioni che ac
fatti,e regni; medesimi cer questi conpiù compagnano furono i quali fatti dalla
tra a'pofteri men tezdatrasmesli quantevolte dizione,che non un pia tornò . Ed
egli abbastanza , come se fi riducano seguirono del Cielo tre quelli sito neta
al medesimo provato è medesimamente le ,cred'io, SO durate di
cotesti Re allà ordinaria legge diNatura,che li faregna re presi insieme
diciotto o venti anniperuno,secondocheàdisco perto il Neutono , tutte le
difficol tà siappianano,esvauiscono leir ragionevolezze tutte degli Storịci. La
qual cosa benchè sia oramai fuor d'ogni quistione,mi piace aggiu gnere un'altra
pruova, perchè fi vegga vie meglio qualmente sorga il vero da ogni lato, come
all' in contro da ogni lato si manifefta 1 errore·Questanovellapruova fa rà
ricavata dalle generazioni d'uo mini che sono indicate dagli Au tori nella
storia di detti R e , le q u a li anch' esse arguiscono di falla la tecnica
loro Cronologia in quanto alle durate de' regni. Nella vita diRomolofià,che
OttilioAvo lo di Tullo Oftilio morì nella guer- . > ra mo (1)
Principes utrinquepugnam ciebant:ab Sabinis Metius Cura tius, ab Romanis
Hoftius Hoftilius (2) τετάρτω δε μηνί μεν την κτίσιν(ωςφάβιοςισορά) τοπε ρι την
αρπαγήν ετολμήθη των γ υ Voixãi.Plut. inRom .p.25. Plut.Ib.p.29.descrivendo co
meleSabinediviserolazuffatraiRo. mani,eSabiniaggiugne:aipšv.muidice
κομίζεσαινήπιαπροςταίςαγκάλαις 51 racontroiSabini,(1)che viene a cadere
ne'primi anni di quel re gno(2).Ilregnopertantodi Ro ut Hostius cecidit &
c.T. Liv. Dec. 1. lib. I. p. 11. Indo Tullum Hostilium nepotem Hostilii,cujus
in infima arce clara pugna adver Sus Sabinos fuerat , regem populus. j u s s i
t. I d . I b . p . 1 6 . a t e r g o . P l u t . inRom .p.29. /
molo di Nama e di Tullo Ottilio, n o n o c c u p a a u n d i p r e s s o
c h e il t e m po didue generazioni: quella del padre,o della madre che dir vo
gliamo di ello Tullo Ostilio ,che duvette nafcere al principio del regno di
Romolo ,e quella diTul lo Oftilio medesimo D a N u na ad Ancu.Marzio suno due
ge nerazioni , poichè ello Numa era avolo di Anco Marzio (1); dat che ne
feguita che la generazione tra Numa ed Anco finendo al tempo diTullo
Oftilio,rimanga·una ge nerazione fola da Tullo alla fine del regno di Anco .
Con che dal principio del regno di Romolo al (1) Numa Pompilii regis ne
pos filia ortus Ancus Martiuserat. T. Liv.Decad.I.lib.I.p.24. la Plut.inNuma p.74.
ne la fine di quello di Anco corrono incircatregenerazioni.Lucio
Tar quinio Prisco prima detto L u c u m o ne viene a Roma uomo maturo nel regno
di Anco , (1) onde la gene razione di Tarquinio'coincidendo con quella di Anco
non resta che una sola generazione di uomini tra ilregnodiAncoeilregnodiTar
quinio Superbo figlio di Tarquinio ilvecchiooPrisco,Adunque dal principio del
Regno di Romolo al la fine di quello di Tarquinio Su perbo corrono quattro fole
genera zioni in circa di uomini e non più , EglièilverocheTitoLiviodi
cedubitarealcuni,sequesto Tar quinio Superbo folle figliuolo a (1)T.
Liv.Decad.I. lib.I. p.26.eatergo. 53 54 (1) Hic L. Tarquinius
Prifci T a r q u i n i i f i l i u s, n e p o s v e f u e r i t , p a rum
liquet:pluribustamen autho ribusfilium crediderim . Id. Ib.p. 33. devolvere
retro ad ftirpem fra. trifimilior quam patri. Ib. a ter go .Quas Anco prius,
patre deinde Sito regnante , perpelli fint.p. 37. Tarquinius reges ambos patrem
80 vie ,filium perfecisse p. 38.aterg. nepotedelPrisco;ma fenzache i più
erano di oppinione ch'ei gli fusse figliuolo (oppinione abbrac ciáca da esso
Livio medesimo )(1), eglisipuòmostrare,cheda Tar quinio Prisco al Superbo
correfle una sola generazioneper esser Col latino ancora giovane in ful fine
del regno di Tarquinio Superbo , m e n t r e il p a d r e s u o E g e r i o e r
a u o mo già fatto nel regno di Tarqui nio Prisco,come abbiamo veduto
avatt avanti.Ora fommando insieme gli anni di quattro generazioni,
ognu na delle quali ragguagliata è di trentatre anni (1),si hanno cento e
trentadue anni , e dando a cia fcun Re diecinove anni di regno , sihanno cento
trentatre anni,ilche derivato dalle Leggi di Natura co sì maravigliosamente
conviene col la regola cronologica delNeutono , che leosservazioniastronoinichepiù
a capellononconvengonocolleTeo rie eco'calcolidiquel grand'uomo. Io
nonaggiugneròaltroaque fto Ragionamento,se non che a quel modo che la
Cronologia del Neutono assolve Virgilio che fu il più esatto de'Poeti da quello
Ana cronismo imputatogli comunemen (1) Vedi la Cronologia del Neutono p.46. p.
56. 53 te 56 te in rispetto a'tempi in cuiyisse. ro Enea e
Didone ,così ella può giustificarequellacomun tradizione tenuta inRoma,che Numa
fusle stato uditore di Pitagora , e che non meno contribuisseafondarquel lo
Imperio , il qual fu fignor delle cole,la Virtù Italiana che la Gre ca
Sapienza.
Algorottus. Francesco Algarotti. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice ed Algarotti," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Alici (Grottazzolina). Filosofo.
Grice: “If an Italian philosopher tells me he believes in God, I stop calling
him ‘philosopher’!” --. Grice: “I like Alici; he has philosophised on some of
the topics *I* did, since it should not surprise anyone, since we are
philosophers (if I’m also a cricketer!) --.Grice: “I will organize some
overlaps in hashtags: compassione. – serious study – il terzo incluso – I
curiazi, i moscheteri -- ” :noi dopo di noi,” ‘we after we’ – the meta-language
– romolo e remo; ossia, il bene condiviso; :romolo e remo; ossia, condividere
la deliberazione; eurialo e isso, ossia, dall’io al noi; colloquenza romana; amore:
l’angelo della gratitudine; eurialo e nisso: amore d legarsi – la reciprocita;
pilade ed oreste -- luigi Alici
Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Durata mandato31 maggio
200527 maggio 2008 Niente fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi
italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo
le linee guida sull'uso delle fonti. Filosofo. È stato presidente nazionale
dell'Azione Cattolica Italiana dal 2005 al 2008. Allievo di Armando Rigobello, ha insegnato
Filosofia morale nell'Università degli Studi di Perugia e Filosofia teoretica
presso la LUMSA di Roma. Attualmente è Professore di Filosofia morale
nell'Macerata, nonché titolare degli insegnamenti di Istituzioni di Filosofia
morale, Filosofia morale (corso triennale), Etica pubblica ed Etica della vita
(corso magistrale). È stato presidente del Corso di laurea in Filosofia
(1997-2003), coordinatore del Dottorato di ricerca in Filosofia e Teoria delle
Scienze Umane (2008-), presidente del Presidio di Qualità di Ateneo (-),
direttore della Scuola di Studi Superiori "Giacomo Leopardi"
(-). Studioso dell'opera di
Sant'Agostino, è autore di numerose pubblicazioni dedicate al rapporto tra
interiorità e intenzionalità, comunicazione e azione, libertà e bene, con
particolare attenzione alle tematiche dell'identità personale e della
"reciprocità asimmetrica", esaminate anche sotto il profilo della
loro rilevanza morale. Le sue ricerche più recenti, a partire dai temi della fragilità
e della cura, sono dedicate al rapporto tra natura, tecnologia e libertà. Impegnato fin da giovane nell'Azione
Cattolica, nel corso degli anni ha ricoperto nell'associazione numerosi
incarichi, prima a livello locale e poi nazionale: dal 1992 al 1998 è stato
responsabile dell'Ufficio studi; -- è stato direttore della rivista culturale
"Dialoghi"; il 24 aprile 2005 è stato eletto consigliere nazionale
dell'associazione dalla XII assemblea nazionale. In seguito alla designazione
del Consiglio nazionale, il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale
Italiana lo ha nominato presidente dell'associazione per un triennio. Il suo
mandato è terminato il 27 maggio 2008. È
membro dei seguenti organismi: Consiglio scientifico dell'Istituto per lo studio
dei problemi sociali e politici "Vittorio Bachelet" (Roma); Comitato
Scientifico della Collana di “Filosofia morale” (Vita e Pensiero, Milano);
Comitato di direzione della rivista “Dialoghi” (Roma); Consiglio Scientifico
del “Centro di Etica Generale e Applicata” (Pavia); Comitato scientifico della
rivista “Hermeneutica” (Urbino). Membro del Comitato Scientifico della
Fondazione “Lanza” (Padova, /). Dirige inoltre la sezione di Filosofia della
Collana “Saggi” (La Scuola Editrice, Brescia) e della Collana “Percorsi di
etica” (Aracne Editrice, Roma). Opere: “Il
linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di Agostino”(Edizioni
Studium, Roma); “Tempo e storia. Il "divenire" nella filosofia del
'900” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il pensiero del Novecento Editrice
Queriniana, Brescia); “Il valore della parola. La teoria degli "Speech
Acts" tra scienza del linguaggio e filosofia dell'azione” (Edizioni Porziuncola,
Assisi PG); “Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi (PG)); “La
dignità degli ultimi giorni” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “Con
le lanterne accese. Il tempo delle scelte difficili, Ave Edizioni, Roma); “L'altro
nell'io. In dialogo con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il terzo
escluso, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “La via della speranza.
Tracce di futuro possibile” (Edizioni
Ave, Roma); “Cielo di plastica. L'eclisse dell'infinito nell'epoca delle
idolatrie” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), (Premio "CapriSan
Michele); “Amare e legarsi. Il paradosso della reciprocità, Edizioni Meudon,
Portogruaro (VE)); “Filosofia morale” (Editrice La Scuola, Brescia); “I
cattolici e il paese. Provocazioni per la politica” (Editrice La Scuola,
Brescia); “L'angelo della gratitudine, Edizioni Ave, Roma); “Cittadini di
Galilea. La vita spirituale dei laici” (Quaderni di Spello”, Edizioni Ave,
Roma, (Premio “CapriSan Michele); “Il
fragile e il prezioso. Bio-etica in punta di piedi, Editrice Morcelliana,
Brescia); “InfinitaMente. Lettera a uno studente sull'università, EUM,
Macerata, . Edizioni di opere di Sant'Agostino La città di Dio, Rusconi,
Milano; Bompiani, Milano. La dottrina cristiana, Edizioni Paoline, Milano; Confessioni,
Sei, Torino, Manuale sulla fede, speranza e carità, Collana La vera religione,
Città Nuova Editrice, Roma. “Il potere divinatorio dei demoni, Collana La vera
religione, Città Nuova Editrice, Roma; La natura del bene, Città Nuova
Editrice, Roma; Il libro della pace. «La città di Dio, XIX», Editrice La
Scuola, Brescia); “Agostino nella filosofia del Novecento (con R. Piccolomini e
A. Pieretti), 4Città Nuova Editrice, Roma (comprende: Esistenza e libertà,
2000; Interiorità e persona, 2001; Verità e linguaggio, 2002; Storia e politica).
Azione e persona: le radici della prassi, V&P, Milano, Forme della
reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il Mulino, Bologna, La filosofia
come dialogo. A confronto con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma, Filosofi
per l'Europa. Differenze in dialogo (con F. Totaro), Eum, Macerata, Agostino.
Dizionario enciclopedico, di Allan D. Fitzgerald edizione italiana curata
assieme a Antonio Pieretti, Città Nuova Editrice, Roma); “Forme del bene condiviso,
Il Mulino, Bologna, “La felicità e il dolore. Verso un'etica della cura” Aracne
Editrice, Roma, . Dialogando. Idee, pensieri, proposte per il nostro tempo,
Edizioni Ave, Roma); “Unità e pluralità del vero: filosofia, religioni,
culture, Archivio di filosofia); “Il dolore e la speranza. Cura della
responsabilità, responsabilità della cura, Aracne Editrice, Roma); “Prossimità
difficile. La cura tra compassione e competenza, Aracne Editrice, Roma); I
conflitti religiosi nella scena pubblica. I: Agostino a confronto con manichei
e donatisti, Città Nuova Editrice, Roma); “Noi dopo di noi. Accogliere,
rigenerare, restituire: nella società, nell'educazione, nel lavoro”
(FrancoAngeli, Milano); “I conflitti di valore nello spazio pubblico. Tra
prossimità e distanza, Aracne Editrice, Roma); “I conflitti religiosi nella
scena pubblica. II: Pace nella civitas, Città Nuova Editrice, Roma); “La fede e
il contagio. Nel tempo della pandemia, (con G. De Simone eGrassi), Ave, Roma .
L'umano e le sue potenzialità: tra cura e narrazione (conNicolini), Aracne,
Roma . L’etica nel futuro (con F. Miano), Ortothes, Napoli-Salerno. Pagina di
presentazione nel docenti
dell'Università degli Studi di Macerata, su docenti.unimc. Dialogando. Il blog di Luigi Alici, su luigialici.blogspot.
Predecessore Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Successore
Paola Bignardi. “Love and duty are the cement of society” (Elster).
“Love and duty are *not* the cement of society. The mechanism is *reciprocity*.
Seemingly co-operative, helpful, altruistic behaviour, based on versions of the
‘I’ll-scratch-your- back-you-scratch-mine’ principle, require no nobility of
spirit. Greed and fear suffice as motivation: greed for the *fruit* of co-operation,
and fear of the consequence of *not* reciprocating the co-operative helpful
overture of the other.” (Binmore). Chi tra Elster e Binmore ha ragione? Chi che
vede nell’amore il “cemento della società”, o chi che considera invece la
reciprocità dei due soggetti, basata su egoismo e paura, come il meccanismo sufficiente
per tenere assieme la società? Oppure le cose sono più complicate? Grice
propone di penetrare all’interno delle dinamiche della gratuità, della
reciprocità e del tipo di razionalità che sottostanno ad esperienze
conversazionale che potremmo chiamare “sociali”, come sono quelle dell’Economia
di Comunione Conversazionale [cf. Bruni e Pelligra]. In particolare ci
domandiamo a quali condizioni un soggetto o un’impresa mossi da una razionalità
diversa da quella standard possano sopravvivere e svilupparsi in un contesto
dove esiste una eterogeneità di soggetti interagenti. Inizieremo (§ 1)
evidenziando le caratteristiche base dell’idea di razionalità che muove l’homo
oeconomicus, cioè l’agente considerato “standard” dalla teoria economica
convenzionale. Quindi, nella sezione 2, introdurremo un tipo di agente non
standard, mosso da una razionalità in cui l’azione donativa ha una ricompensa
intrinseca. Questo fa in modo che la reciprocità possa assestarsi come
equilibrio stabile. Nella sezione 3 vedremo che, quando agenti eterogenei
interagiscono tra di loro, le cose si complicano e gli esiti non sono più
scontati. Per far questo ci serviremo della forma più elementare di giochi
evolutivi; saremo, così, in grado di mostrare i risultati più interessanti del
modello, che espliciteremo nelle conclusioni. * Alessandra Smerilli f.m.a. è
dottoranda di ricerca in economia presso l’Università La Sapienza di Roma,
dipartimento di Economia Pubblica. Luigino Bruni è ricercatore presso
l’Università di Milano-Bicocca, Dipartimento di Economia. Gli autori
ringraziano Nicolò Bellanca, Luca Crivelli, Fabio Gori, Benedetto Gui, Vittorio
Pelligra e Luca Zarri per utili suggerimenti e critiche a precedenti
versioni. Perché è così difficile cooperare (per l’economia)? L’idea di
razionalità è dove sono maggiormente concentrate le assunzioni della scienza
economica circa il comportamento umano, che potremmo anche chiamare
antropologia filosofica, o psicologia filosofica. La razionalità economica, non
cerca, principalmente, di descrivere il comportamento “quale è” nella realtà,
ma piuttosto di individuare dei criteri di comportamento ottimo, razionale
appunto, che fanno in modo di poter individuare tra i tanti comportamenti
possibili quelli ottimizzanti – anche se tra analisi descrittiva e normativa
esiste poi uno stretto rapporto. Le caratteristiche base dell’idea standard di
razionalità economica, possono essere sinteticamente enucleate guardando alle
assunzioni, che restano spesso implicite, del “gioco” più famoso utilizzato oggi
in economia: il cosiddetto dilemma del prigioniero. Esso, nell’ambito della
teoria dei giochi1, è usato per mostrare come la ricerca dell’individualistico
tornaconto, in molte situazioni (in particolare in quelle dove non è possibile
stipulare un contratto vincolante per le parti), non solo non porta al bene
comune, ma neanche al bene privato dei singoli individui. La logica che
sottende il gioco è usata per spiegare molti dei dilemmi dovuti all’assenza o
al mal funzionamento dei mercati: dall’inquinamento, alla congestione del
traffico, alle difficoltà della co-operazione. Il gioco rappresenta
l’interazione tra due individui, che chiamiamo Romolo e Remo, identici (hanno
le stesse informazioni e la stessa struttura di preferenze, i due elementi che
fanno la diversità tra gli agenti economici –a cui va aggiunto, nel caso di
imprese, il potere di mercato). Romolo e Remo si trovano a scegliere in una
situazione ‘strategica’ di inter-dipendenza, ciascuno sa di avere di fronte un
soggetto identico a sé, con le stesse preferenze, e *entrambi* conoscono la
struttura del gioco (le ricompense, o pay-off associati agli esiti, che
dipendono dalle proprie azioni o muoti conversazionali e da quelle
dell’altro/i). Quali sono le preferenze? Per restare nel concreto, pensiamo ad
una situazione famigliare: la raccolta differenziata dei rifiuti (ma il
ragionamento, come si capirà immediatamente, è di portata più universale).
L’ordine di preferenze dei nostri due giocatori, e in generale dell’homo
oeconomicus standard che di norma l’economista ha in mente quando descrive il
mondo, sono le seguenti. Al primo posto Romolo ed Remo – o Eurialo e Niso --
mettono: “l’altro fa la raccolta e io no”. A questo esito del gioco associamo
il punteggio massimo, diciamo 4 punti. Al secondo posto “tutti la facciamo, me
compreso” (3 punti). Al terzo “nessuno la fa” (2 punti). Al quarto “solo io
faccio la raccolta differenziata” (1 punti). La tabella e il grafico
sottostanti (che sono due modi diversi di rappresentare questa situazione,
rispettivamente in forma normale ed estesa) rappresentano sinteticamente la
struttura del gioco. La teoria dei giochi è oggi pervasiva nella teoria
economica. Essa è soprattutto un linguaggio che consente di rappresentare in
modo molto efficace interazioni (chiamate “giochi”) di tipo ‘strategico’, cioè
situazioni nelle quali i guadagni, non solo monetari (chiamati pay-off,
ricompense), dipendono dalla scelta dell’ altro soggetto o individuo inter-agente
con lui, e non solo dalla propria (deliberazione condivisa). La teoria dei
giochi ha oggi un campo di applicazione molto vasto, che va dalla collusione
tra imprese all’inquinamento, dalle scelte elettorali al rapporto
paziente-psicologo. Va notato che sebbene, per semplicità e per ragioni di
chiarezza espositiva, abbiamo assegnato pay-off numerici (ipotesi che verrà
eliminata nelle prossime sezioni), in realtà siamo all’interno di un orizzonte
di tipo ordinalistico. Di per sé i valori numerici non possiedono alcun
significato, e quello che conta è l’ordine delle preferenze individuali. Data
una tale struttura di preferenze, si dimostra facilmente che Eurialo e Niso, *se
sono razionali*, sceglieranno entrambi di *non* co-operare (non fare la
raccolta differenziata), ritrovandosi così al terzo livello di preferenza (con
due punti ciascuno: 2 punti per Eurialo, 2 punti per Niso), una situazione
“dominata” dalla co-operazione reciproca (fare tutti la raccolta), in cui
avrebbero ricevuto tre punti ciascuno (3,3). Eurialo Co-opera Co-opera
3,3 1,4 Non co-opera Non co-opera 4,1 2,2. Nella rappresentazione in forma
estesa, gli esiti del gioco esprimono bene le caratteristiche base dell’idea di
soggetto che l’economia normalmente segue nel costruire i suoi modelli. Il suo
mondo ideale è quello in cui gode dei benefici (ad esempio un mondo non inquinato)
senza sostenerne i costi che preferisce trasferire sull’altro, se può (separare
i rifiuti, depositarli in raccoglitori diversi, ecc. ). Da qui il dilemma. Si
dimostra facilmente che, poiché si trova di fronte uno/a con la stessa
“razionalità” e preferenze, la soluzione del gioco è che entrambi Eurialo e
Niso si ritrovano al terzo livello dell’ordinamento di preferenze, cioè nessuno
fa la raccolta differenziata, quando invece ciascuno avrebbe preferito che
tutti la facessero (che infatti si trova al secondo posto). E la realtà delle
nostra città e del nostro pianeta ci dice quanto questi dilemmi siano reali e
urgenti, e quanto la scelta ‘sociale’ non si discoste poi tanto dal modello astratto
utilizzato dall’economia. Tutto ciò ci dice che la *soluzione* del gioco, e gli
esiti dilemmatici dipendono sostanzialmente da due ipotesi base circa la
razionalità. Primo, l’individualismo: ragionare esclusivamente nei termini di
“cosa è ottimo, o meglio, per me: mittente/recipiente”). Secondo: lo
strumentale (la bontà di una azione si misura sulla base della sua capacità di
essere un *mezzo* condizionale per ottimizzare i pay-off, non per il suo valore
categorico intrinseco. Date queste ipotesi, la non- [Nella tabella i numeri (i
pay-off) esprimono utilità, quindi il più è preferito al meno. Il primo numero
si riferisce a Niso, il secondo ad Eurialo. Nell’appendice abbandoniamo i
numeri e passiamo ad un caso più generale (dove i pay-off è espresso in
lettere, ordinate non in modo cardinale). Va aggiunto che non ogni inter-azione
rappresentabili come dilemma del prigioniero porta a risultati dilemmatici e
sub-ottimale a causa dell’antropologia sottostante. Si pensi, ad esempio,
agli [3 cooperazione (nessuno fa la raccolta) è un *equilibrio*
stabile del gioco (o equilibrio di Nash), dal quale nessuno dei giocatori ha
convenienza a spostarsi uni-lateralmente, a meno che non si sia capaci di
stipulare un *patto* vincolante. Se un patto vincolante non è possibile -- si
pensi alle interazioni quotidiane con numerosi agenti, come nel traffico
stradale -- o troppo costoso, *non* cooperare risulta la ‘strategia’ ottimale
per due ragioni. Prima se Eurialo suppone che Niso è azionale (individualista e
strumentale) allora se co-operassi avvierei Eurialo allo sfruttamento (1
punto).Se invece Eurialo ha buone ragioni per pensare che Niso *non* è razionale
o, come dice Dawkins, “ingenuo”, e che quindi si lasce sfruttare, Eurialo ha
una ragione in più per *non* cooperare. Otterrai infatti 4 punti. Quindi
l’esito dilemmatico è una combinazione di paura alla Hobbes e di opportunism. Se
va male Eurialo cade in piedi e non si lascia sfruttare. Se va bene Eurialo
prende tutto. Una razionalità puo essere con ricompense *non* materiali. In un
mondo fatto di due individui mossi da questa razionalità la co-operazione può
essere raggiunta solo quando siamo capaci di auto-vincolarci a delle regole non
opportunistiche, per un bene individuale maggiore. Io gratto la tua schiena, tu
gratti la mia. Questo principio è, in mille varianti, il tipo di co-operazione
che può emergere tra due soggetti razionali di questa maniere. Grice lo chiama
‘altruismo reciproco’ -- individuando un comportamento pro-sociale in tutte le
specie animali, dove però l’altruismo disinteressato non esiste, ma è solo
maschera di più sottili forme di egoismo (o amore proprio e non benevolenza). In
ogni caso la co-operazione è interamente condizionale e non un imperativo di
tipo kantiano. Eurialo aiuta Niso a condizione che Niso aiuta Eurialo e vice
versa. Viene comunque spontaneo chiedersi se negli esseri umani – o almeno due
filosofi oxoniensi -- ci sia qualcosa di diverso, in termini di socialità,
rispetto alle scimmie o alle formiche. Al di fuori di questi specifici casi nei
quali la co-operazione emerge, un atto che non punti a rendere massimo il
proprio interesse, di breve o di lungo periodo, è considerato *irrazionale* o
ingenuo, poiché si diventa pasto degli altri individui più aggressivi, che
cresceranno e prospereranno a spese degli ingenui. Forse molti degli atti di co-operazione
a cui assistiamo nella vita quotidiana possono trovare la loro spiegazione
sulla base di questo tipo di logica individualistica, strumentale, e condizionale.
Non tutti però. E’ infatti nostra convinzione che la convivenza civile, e le
dinamiche economiche conversazionale, conoscono anche altre forme di co-operazione,
che possono emergere sulla base di un ragionamento mosso da un tipo *diverso*
di razionalità non utilitaria ma assoluta. In quanto segue, cercheremo di
esplorare le implicazioni che scaturiscono dalla seguente domanda. Come cambia
il gioco della vita in comune se complichiamo la visione antropologica
sottostante i modelli economici? L’elemento di diversità (rispetto
all’approccio standard) che qui introduciamo, è la presenza di un valore *intrinseco*
categorico assoluto ingorghi stradali. Questi sono perfettamente
rappresentabili come dilemmi del prigioniero. Ma sarebbe impreciso definire gli
automobilisti che escono per andare a lavoro individualisti e strumentali. Ma
abbiamo a che fare con un problema di mancanza di co-ordinamento in una scelta
collettiva, che se vogliamo rimanda anch’esso a una dimensione ‘sociale’ (come
la capacità di addivenire a patti vincolanti), ma, antropologicamente, è meno
coinvolgente di casi dilemmatici che riguardano l’inquinamento o il rapporto
con il fisco. Questo per dire che la teoria dei giochi è un linguaggio che
trascende l’ambito economico e la sua tipica forma di razionalità; e infatti
essa è utilizzata anche per modelizzare agenti mossi da forme razionalità *non*
strumentali (come in parte fa Grice). (Dal nome del matematico che nei primi
anni cinquanta introdusse questa nozione di equilibrio stabile). Il fatto che
nella realtà concreta riusciamo a non cadere nel dilemma dipende dal fatto che
spesso riusciamo a disegnare patti o contratti vincolanti, con sanzioni. Grice
mostra che anche il richiamo di allarme che certi uccelli emettono per avvisare
il gruppo dell’arrivo di un predatore, a *rischio anche della propria vita*, è
il risultato di un calcolo egoista. L’uccello può più facilmente salvare la sua
vita se tutto lo stormo si sposta e non rimane isolato. -- associato a un
comportamento di gratuità, da cui discende la possibilità di sperimentare una
co-operazione, o reciprocità, non primariamente strumentale e condizionale, ma
assoluta, costitutiva dell’umano, e categorical. Questo agente economico
intende pertanto la reciprocità diversamente da come essa è usata oggi in
economia. Rispetta l’ambiente, paga le tasse o edifica la casa rispettando i
vincoli del piano regolatore (tutte faccende cooperative), ad esempio, perché
questi comportamenti sono per lei dei valori, perché le danno una ricompensa
intrinseca, e non solo strumentale (i vantaggi materiali della cooperazione, che
pure sperimenta). Questo diverso tipo di agente non è quindi puramente
consequenzialista e utilitario come invece è l’agente-individuo. Non valuta
cioè la bontà del muoto conversazionale solo sulla base della conseguenza che
tale muoto produce, ma tiene conto sia di una componente assiologica o
deontologica – non aletica --, legata al valore, sia di una componente
procedurale, più legata ai tipi di relazione all’interno delle quali il suo
muoto si sviluppa. Sa inoltre che il suo muto è pienamente *efficace* se anche
l’altro si comportano allo stesso modo (se reciprocano). Ma non condiziona il suo
comportamento a quello dell’altro (come invece farebbe l’homo
oeconomcus-individuo standard). Al tempo stesso, se l’altro si comportano sulla
base della stessa razionalità assiologica e dello stesso valore intrinseco,
allora egli soddisfa al massimo le sue preferenze, e anche il benessere sociale
aumenta. In base ad una tale struttura di valori, o cultura della reciprocità
gratuita, al primo posto dell’ordine di preferenze questo tipo di agente
economico non mette, diversamente dal tipo standard, “tutti co-operano tranne
me”, ma “tutti, me compreso, cooperiamo”, o doniamo. E questo perché il
comportamento in sé è parte integrante del suo sistema di valori. Al secondo
posto dell’ordine di preferenze pone: l’altro co-opera, io no. Al terzo posto: io
co-opero, l’altro no. Al quarto, nessuno co-opera. Per capire questi valori si
può partire dalla struttura di ricompense (i pay-off, cioè i numeri che
misurano le ricompense) del dilemma del prigioniero. Ma occorre aggiungere, o
sottrarre, ai pay-off materiali una componente intrinseca, sulla base della
teoria classica della felicità o calculo eudaimonico, o beatifico, nella quale
il comportamento buono in sé, o *virtuoso*, ha una ricompensa intrinseca. Così,
se un soggetto ha fatto propria questa cultura della reciprocità gratuita o,
per usare un’espressione più forte ma anche più corretta, della “comunione” (la
communita immune), quando Eurialo co-opera e la controparte, Niso, no (pensiamo
sempre all’esempio ambientale, o, se si vuole, ad un rapporto di amicizia), il
suo pay-off, materialmente uguale a 1 (come nel gioco standard), aumenta a
causa delle ricompensa intrinseca (che poniamo pari ad uno), attestandosi a 2.
Se Eurialo invece *non* coopera ma la controparte, Niso, sì, ecco allora che il
pay-off, pur essendo materialmente pari a 4, diminuisce a 3, perché si
inserisce una *sanzione* intrinseca. 4 – 1 = 3. Si pensi a chi, pur avendo
fatto propria la cultura della reciprocità, in un certo muoto non è coerente
perché non riesce a vincere la tentazione del vantaggio materiale. La sua
soddisfazione è comunque minore a causa della sanzione intrinseca, che potremmo
chiamare anche insoddisfazione o senso di colpa o vizio. Il mondo peggiore
(pay-off = 1) è quello in cui ciascuno è chiuso in se stesso. Qui il pay-off è
1 perché si parte da quello materiale (2) e gli si sottrae il valore intrinseco
(2 – 1 = 1). Il mondo migliore è invece la *reciprocità*, un incontro mutuo di
gratuità: (4), il pay-off materiale della co-operazione (3) più la componente
intrinseca della gratuità. Sui vari usi della categoria di reciprocità nella
teoria economica, cf. Crivelli. Questo ordine di preferenze dipende
dall’ipotesi che la componente intrinseca dei pay-off sia costante e pari ad
uno. Un’analisi più approfondita dovrebbe studiare i casi quando la motivazione
intrinseca è maggiore, minore o uguale alla componente materiale. Non è da
escludere, ad esempio, che all’aumentare di quest’ultimo dovrebbe aumentare la
tentazione di tralasciare gli aspetti intrinseci. Se fare, ad esempio, la
raccolta differenziata diventa estremamente costoso e laborioso, il numero di
quelli, anche bene intenzionati, che la faranno diminuirà. Inoltre, una tale analisi
ammette la possibilità di confronti -- La componente intrinseca
dell’azione è legata alla teoria classica della felicità o calculo
eudemonistico di Bentham. La felicità, essendo il risultato di una vita
virtuosa, è fuori dalla logica strumentale. La virtù è praticata perché ha un
valore intrinseco, non per un calcolo machiavelico strumentale costi/benefici.
La virtù, in particolare quella civica, ha bisogno di reciprocità perché porti
ad una vita sociale pianamente realizzata, ma non può pretenderla, solo
attenderla dalla libertà dell’altro. Ecco perché dagli antichi fino ad oggi
alla felicità è associato un elemento *paradossale*. La feicita ha bisogno di
reciprocità, ma solo la gratuità può suscitarla senza pretenderla. Un “gioco di
reciprocità” (intesa nella maniera appena detta), che rimane sempre del tipo
dilemma del prigioniero, può essere dunque rappresentato come segue: Eurialo Dona
Non-Dona Dona 4,4 2,3 Non-Dona 3,2 1,1 Rappresentiamo anche questo
gioco in forma estesa. Dalla tabella, o dall’albero decisionale, si nota che se
i due giocatori hanno questa stessa struttura di preferenze, l’unico esito
stabile del gioco o equilibrio di Nash, dal quale cioè nessuno è incentivato a
spostarsi, è “dona-dona”. Quindi per interpersonali di utilità, cosa peraltro
non inusuale quando l’utilità attesa si calcola con la funzione di Von Neumann
Morgernstern. Per un’analisi approfondita dei pay-off psicologici cf. Pelligra.
Sul paradosso della felicità cf. Bruni. Il modello che può essere considerato
il capostipite dei giochi del tipo gioco di reciprocità è quello introdotto da
Sen -- questi giocatori-persone donare (o co-operare) è ‘strategia’
strettamente dominante, e l’unico equilibrio stabile del gioco è la reciprocità
o la *comunione*: dona/dona. Cosa ci suggerisce questo gioco, pur nella sua
estrema semplicità? Se sono un soggetto che ha questi valori non ho alternative
a cooperare: gli altri possono rispondere o meno, e quindi il mio
benessere/felicità è incerto (stando al gioco precedente, posso ottenere in
termini materiali 2 o 4 punti): ciononostante per me l’unica possibilità,
l’unica azione razionale, è cooperare, o come abbiamo detto, donare. Così, per
fare un esempio, se sono alle prese con un fornitore difficile, non ho
alternative al donare. Potrò trovare reciprocità o no, ma in ogni caso
l’alternativa, ‘non-dona’ – che, nella pratica, significherà ogni volta
qualcosa di diverso – è per me la peggiore (perché è sempre dominata dalla co-operazione)
a causa della ricompensa (sanzione) intrinseca. E’ questo un soggetto che per
alcune scelte non calcola i costi e i benefici. Che senso ha fare la raccolta
differenziata se solo io la faccio. Ma agisce sulla base di un valore, o di una
norma etica interiorizzata. Ciò spiega, tra l’altro, perché in certe società
l’ecologia o il rispetto delle norme civili sono messe in pratica anche in
contesti nei quali sarebbe razionale (nel senso standard) non farlo: iclassico
fazzoletto di carta buttato fuori dal finestrino quando nessuno ci osserva, e
quindi nessuna sanzione può essere applicata. D’altro canto, davanti a queste
nostre considerazioni qualcuno potrebbe obiettare. Ma se ipotizzate che gli
individui traggano soddisfazione dal muoto conversazionale stesso, diventa
banale spiegare l’emergere (dalla perspettiva della psicologia filosofica) della
co-operazione. In effetti l’idea è semplice. Ma ci auguriamo non banale, ma
bizarra. In particolare, gli aspetti più interessanti intervengono quando
pensiamo che nel mondo reale, nel mercato in particolare, non sappiamo
normalmente con chi stiamo giocando, se abbiamo cioè di fronte un soggetto del
primo tipo o uno del secondo. E qui entriamo in quello che possiamo chiamare il
“paradosso della reciprocità” o della comunione, che possiamo sviluppare
sinteticamente come segue, mettendo assieme i vari pezzi fin qui costruiti. Una
vita buona ha bisogno di reciprocità genuine. La reciprocità genuina però non
viene suscitata se la logica che ci muove è primariamente strumentale. La
risposta dell’altro, la reciprocità, non possiamo pretenderla, ma solo *attenderla*
dalla libertà dell’altro. Co-operare porta quindi a due esiti diversi (indicati
con 2 o 4) in base alla risposta o non risposta dell’altro. Per comprendere
questi risultati, si consideri che ognuno sa che l’altro ha di fronte due
possibili scelte: donare e non donare, e, date le loro preferenze, qualunque
scelta faccia l’altro per ciascuno è preferibile donare -- considerando anche
il pay-off intrinseco. Se infatti l’altro giocatore (Eurialo) sceglie “donare”
i punti di Niso sono 4 (mentre la mossa “non-dona” avrebbe portato solo 2
punti); e anche se Eurialo scegliesse “non donare”, Niso preferisce sempre
“donare” che gli dà 2 punti invece di 1 (che è il pay-off di
“non-dona/non-dona”). Può valere la pena specificare che qui con “donare” non
si intende l’altruismo o la filantropia -- che possono restare atti
individualisti. Donare è sinonimo di ciò che la cultura greco-romana chiama “amore”,
e cioè un atto gratuito ma che ha sempre di mira la *reciprocità*, il rapporto personale
con l’altro (amore-amicizia). Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che più
che di una diversa forma di razionalità in questo caso siamo in presenza di un
soggetto che ha solo preferenze diverse, ma la cui razionalità resta quella
standard strumentale, perché in fondo anche lui massimizza la propria utilità. Noi
preferiamo pensare che una persona che agisce mossa da motivazioni intrinseche
sia più efficacemente rappresentabile da una forma di razionalità che Grice chiamava
“rispetto ai valori” o assiologica che non dalla classica razionalità
strumentale, che si caratterizza proprio per il suo essere tutta basata sul
calcolo utilitario.Qui infatti nostri soggetti co-operativi fano la scelta non
sulla base di un calcolo, ma per un valore. È ovvio che esiste una circolarità tra
motivazioni intrinseche e il comportamento dell’altro -- su questo cf. Bruni e
Pelligra. Per questo la vita in comune è fragile, come anche i filosofi – da
Aristotele in poi - ci insegnano, perché essa dipende dalla risposta dell’altro
– l’amore di Eurialo e reciprocato dall’amore di Niso e vice versa. Quale
evoluzione? Facciamo ora un passo avanti, e ci domandiamo cosa succede quando
soggetti standard e soggetti non standard (il secondo tipo che abbiamo appena
descritto) interagiscono tra di loro. Sono situazioni che Grice studia. Sono
ormai numerosi i modelli con un agenti altruistico che interage con un agenti
auto-interessato. Qui ipotizziamo quattro casi, che, con diversi gradi di
astrazione, possono rappresentare alcune situazioni reali che vengono a
verificarsi quando l’interazione avviene tra soggetti diversi, perché mossi da
culture diverse. Utilizzeremo, allo scopo, i rudimenti della teoria dei giochi
evolutivi, nella sua forma più elementare, il cui elemento innovativo è
l’introduzione della componente immateriale del pay-off corrispondente alla
ricompensa intrinseca. Ipotizzeremo cioè i nostri giocatori immersi in un
ambiente abitato da popolazioni diverse, dapprima due, e poi tre. La teoria dei
giochi evolutivi utilizza lo stesso linguaggio, e in buona parte la stessa
metodologia, della *biologia* evolutiva. Tra più popolazioni esistenti in un
dato ambiente, nel tempo sopravvive quella che ha la fitness – capacità di
adattamento – maggiore. Se due popolazioni hanno la stessa fitness sopravvivono
entrambe. Ma se una ha una fitness minore delle altre è destinata
all’estinzione, non nel senso biologico del termine (morte di tutti i soggetti
di quella specie), ma che quel comportamento non verrà riprodotto, e saranno
imitati i comportamenti vincenti. Il dibattito sull’applicazione di una tale
metodologia agli essere umani e alle loro popolazione è aperto, e controverso. In
quanto segue noi non intendiamo abbracciare la filosofia, né la metodologia,
dei giochi evolutivi. Riteniamo soltanto che il linguaggio dei giochi evolutivi
ci aiuti a mettere in luce dinamiche, che riteniamo reali, non facilmente
individuabili con linguaggi diversi. Il nostro è quindi un esperimento, che ci
piacerebbe, in futuro, portare avanti, mettendo a quel punto in questione
alcuni assiomi che nell’attuale teoria dei giochi evolutivi ci appaiono troppo
semplificati, come il concetto di fitness: semplificati, ma non inutili, come
speriamo di mostrare. Primo caso: Tipi 1 e Tipi 2, non riconoscibili Come primo
caso facciamo le seguenti ipotesi. Esistono solo due tipi tra loro non
riconoscibili. Chiameremo tipi 1 quelli standard, e tipi 2 quelli non-standard
o di reciprocità. Le ricompense intrinseche sono determinanti per la scelta
(che, come visto, fanno sì che per il tipo 2 sia sempre razionale, perché
strettamente dominante, “donare”). Ma per la sopravvivenza nel tempo di un tipo
di agente, la cosiddetta fitness (misurata -- La versione più semplice di tali
modelli si può trovare nel Manuale di microeconomia di R. Frank. Un testo classico
è quello di Axelrod, e un recente studio, basato su evidenza sperimentale, è quello
di Bowles. Un modello vicino a quello qui presentato è Sacco e Zamagni. Interessanti
considerazioni metodologiche si trovano in Crivelli. Vale la pena specificare
che mentre nella biologia evolutiva l’unità di selezione è il gene, in economia
l’unità di selezione è il comportamento; inoltre, mente in biologia la
trasmissione è ereditaria in economia essa avviene per imitazione. Sono i vari
comportamenti adottati e imitati che rendono un agente più efficiente di un
altro. Un contributo importante a questo riguardo è l’articolo The evolutionary
turn in game theory diSugden -- dal valore medio dei pay-off materiali),
contano solo i pay-off materiali, non i pay- off dovuti alla ricompensa
intrinseca. c. I pay-off materiali sono i seguenti. Coopera – coopera. Non
coopera – coopera. Coopera – non coopera. Non coopera – non coopera. Con a >
b> c> d. La probabilità di incontrare un tipo 1 è p1, mentre quella di
incontrare un tipo 2 è p2, dove, per la definizione di probabilità, p2 = 1- p1
In questo primo caso lo scenario non è roseo per i tipi 2. Si dimostra,
infatti, che a sopravvivere saranno solo i tipi 1, e questo risultato è
indipendente dalla percentuale di tipi 1 e 2 presente nella popolazione. Infatti,
anche se i tipi 2 fossero la quasi totalità (ex. 99%) dell’universo, sarebbero
destinati ugualmente all’estinzione perché sistematicamente sfruttati dagli
individui. SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI, SOPRAVVIVONO SOLO I TIPI 1, PER
OGNI VALORE DI p1 e p2. Se supponiamo un intervento ridistributivo dello stato
che preleva risorse dai tipi 1 per sostenere i tipi 2 (es. ciò che avviene
normalmente nei sistemi di stato sociale con le imprese sociali), il gap di
fitness si riduce, e in certi casi potrebbe essere nullo, consentendo così la
co-esistenza dei due tipi. Situazione diversa se ipotizziamo che i due tipi
siano, per l’esistenza di un qualche segnale, riconoscibili, e che il tipo 2
decida di interagire soltanto con i suoi simili. Aggiungiamo, quindi l’ipotesi. Rispetto ai
giochi delle prime due sessioni, ora ricorriamo esplicitamente a pay-off
ordinali, dove la sola condizione rilevante nella misurazione dei pay-off è il
loro ordine, e cioè che a sia maggiore di b, b di c e c di d. Indichiamo con Fi
la fitness dei tipi 1, e con Fp la fitness dei tipi 2. F1 = p1c + p2a F1 = p1c +
(1-p1)a F2 = p1d + (1-p1)b. La tesi F1>F2 equivale quindi a: p1(b-a) +
p1(c-d) > b-a, per p1 = 0 la disuguaglianza diventa a>b ed è quindi vera
per p1 = 1 la disugualglianza diventa c>d ed è quindi vera osservo che ∀ valore di p1∈ (0, 1), p1(c-d) >0 p1(b-a) > b-a,
perché b-a è minore di zero, quindi: F1>F2 ∀ valore di p1∈ [0, 1].
È possibile inoltre dimostrare che, per tutti I giochi di questo tipo, quale
che sia la posizione iniziale di partenza, l’unico equilibrio evolutivamente
stabile verso cui si converge nel tempo è quello che prevede l’estinzione di
una delle popolazioni, nel nostro caso dei tipi 2. 9 e. i tipi sono
riconoscibili e l’interazione è selettiva (il tipo 2 gioca solo con i simili).
Se la riconoscibilità è perfetta (cioè la probabilità di simulazione è nulla),
si dimostra facilmente che sarebbero i tipi 2 a sopra-vivere. Infatti, in questo
caso vale il Risultato. SE IPOTIZZIAMO PERFETTA RICONOSCIBILITÀ DEI TIPI, SI
ESTINGUONO I TIPI 1. Questo secondo risultato ci dice già qualcosa
d’importante. La riconoscibilità, anche quando non perfetta (come nella realtà
normalmente avviene), aumenta la fitness dei tipi 2. Ciò spiega, ad esempio,
l’emergere del fenomeno della “rete”, una realtà tipica dell’economia sociale.
Le varie componenti ed espressioni dell’economia sociale tendono infatti a
cercarsi e scegliersi l’un l’altra: reti di imprese, reti di consumatori che
insieme preferiscono le imprese sociali, reti di imprese (si pensi ai consorzi
di co-operative, di veri livelli), risparmiatori e consumatori (il fenomeno
delle banche etiche e della finanza etica). Nella realtà, però, supposto che un
agente 2 voglia evitare di interagire con i tipi 1 (cosa da non dare per
scontata), la perfetta riconoscibilità o la simulazione nulla sono comunque
altamente irrealistiche (sono troppi i soggetti con i quali un’impresa e anche
una persone interagisce: lavoratori, finanziatori, concorrenti, fornitori,
consumatori ...). E’ quindi necessario ricorrere ad altre ipotesi per
giustificare teoricamente lo sviluppo delle imprese sociali nel tempo. E’
quanto di cerca di fare negli altri due casi. Introduciamo ora un *terzo* tipo
che si aggiunge ai due precedenti. Potremmo chiamarlo ‘civile’ o griceiano. Ipotizziamo
che: f. il tipo 3 gioca una strategia “colpo su colpo”, una strategia
intermedia (rispetto alle altre due più “radicali” dei tipi 1 e 2, che,
rispettivamente, co-operano mai e sempre), che lo fa co-operare con chi
coopera, e *non* cooperare con chi *non* coopera. Quest’ultimo co-opera quindi
con chi coopera, e *non* co-opera con chi *non* co-opera. Il tipo civile o
griceiano, non attribuendo un valore intrinseco (o attribuendogliene uno troppo
basso) all’azione donativa, *non* ha “cooperare!” o “cooperiamo!” come ‘strategia’
*dominante*. La strategia dominante e “Siamo razionali”. Ma se ha di fronte un
tipo 2, pur riconoscendolo, non lo sfrutta preferendo reciprocare. E’ un 21 La
correlazione esclusiva tra tipi può avvenire per almeno due ragioni: o perché
l’agente sceglie il tipo preferito che viene riconosciuto attraverso un segnale
(che deve essere affidabile), oppure perché si trova in un cluster, cioè in
un’area nella quale si trovano soltanto soggettio dello stesso tipo – pensiamo,
ad esempio, ad una comunità locale come il gruppo maschile della sub-faculta di
filosofia a Oxford, dove la probabilità che un agente si trovi ad interagire
con uno “like- minded” è altissima, ed è indirettamente proporzionale al numero
di forestieri – non filosofi non oxoniensi -- presenti in quella comunità. In
questa situazione, i casi interessanti si trovano sui confini, dove la
probabilità di interazioni miste aumenta (pensiamo agli effetti
dell’introduzione di pratiche e comportamenti nuovi da parte del gruppo
femminile, di missionari o di emigranti da Cambridge). Il segnale, inoltre, per
essere efficace dovrebbe essere troppo costoso da imitare da parte dei tipi 1,
come l’adesione ad un codice o procedimento di comportamento o ad una struttura
di valori molto forte (come nelle botteghe del commercio equo e *solidale*, o
nelle imprese di Economia di Comunione). Con riconoscibilità perfetta, la
probabilità di incontrare un tipo simile è 1, mentre la probabilità di
incontrare uno diverso è 0. Quindi F1 =(0(a) + 1(c))=c, mentre F2 = (0(d) +
1(b)) = b, quindi: F2 > F1. Rispetto a quella classica, questa versione di
colpo su colpo è modificata, poiché non inizia sempre con un muoto di
cooperazione, e poi il gioco non è ripetuto -- soggetto leale, che per questo chiamiamo
“civile” o griceiano. Si ipotizza quindi l’esistenza di un segnale,
utilizzabile solo dal tipo civile o griceiano, che gli permette di discriminare
perfettamente tra i tre tipi che ha di fronte. Si ipotizza quindi che le altre
due imprese non possono, o non vogliono, utilizzare quel segnale (pensiamo, ad
esempio, a chi pur sapendo di rischiare entrando in un ambiente molto opportunistico,
rifiuti l’idea della nicchia e accetti di scendere in campo, non utilizzando
quindi il segnale di riconoscibilità. Cosa succede in questo caso? Innanzitutto
è possibile vedere come la fitness del terzo tipo è sempre maggiore di quella
del tipo 2. Infatti vale il risultato. SE E SOLO SE VALGONO LE IPOTESI
PRECEDENTI (a. – d., f.) SI HA: F3 > F2 ∀ VALORE DI a, b, c, d, ∀ VALORE DI p1, p2, p3. Un secondo aspetto che emerge, è che
l’evenienza che la fitness dei tipi 2 possa risultare maggiore di quella degli
1 dipende dalla percentuale di tipi 3 civili griceiani presente nella
popolazione. Più quest’ultima è alta, maggiore è la fitness dei tipi 2 e minore
quella dei tipi 1. Qui per semplicità supponiamo che gli scarti tra i pay-off siano
uguali tr aloro, cio è che sia: (a–b) = (b–c) = (c–d). Tali scarti possono
essere visti, rispettivamente, come vantaggio dello sfruttamento, premio della
cooperazione e costo della coerenza. Anche nell’esempio numerico precedente
tali scarti sono uguali (tutti pari ad 1). Con queste semplificazioni, vale il
seguente risultato. SE VALGONO LE IPOTESI a.–d., f., g., F2>F1 SE E SOLO SE
p +p <p. Il risultato ci dice ancora qualcosa d’importante. La sopra-vivenza
dei tipi 2 dipende anche dall’esistenza, e dal numero, degli agenti del terzo
tipo, cioè di soggetti che, pur *non* attribuendo un valore intrinseco ma
derivato dalla razionalita generale all’azione del co-operare o donare non
“sfruttano” il muoto co-operativo (come fa invece il tipo 1), ma reciprocano. Rispondono
alla co-operazione. Per questo denominare questi tipi “civili”. Questo
risultato può essere utilizzato anche a sostegno del ruolo della cultura civile
– la conversazione civile – la civil conversazione del rinascimento italiano
popolarizzato in tutta Europa. La sopra-vivenza e lo sviluppo di imprese e un
soggetto più radicali, come i tipi 2, dipendono anche dalla “cultura civile”
presente nell’ambiente dentro il quale operano. Di qui l’importanza duplice della
diffusione della “cultura”, alla quale le imprese sociali non possono non
attribuire grande importanza. Le imprese dell’EdC, ad esempio, dedicano un
terzo dei propri utili alla formazione alla *cultura del dare*. Da una parte la
cultura re-inforza le motivazioni intrinseche dei tipi 2, e dall’altra
contribuisce ad aumentare e rafforzare il senso civico e la cultura della co-operazione
dalla quale, indirettamente, dipende anche la loro sopra-vivenza e il loro
sviluppo. Supponiamo, per assurdo, che la tesi non sia vera : Dovrà essere: F3
≤ F2 => p1c + p2b + p3 b ≤ p1d + p2b + p3b = > p1c ≤ p1d,
disuguaglianza che non e’ mai verificata essendo, per ipotesi, c>d. p1d +
p2b + p3b > p1c + p2 a + p3c ⇔ p1 (d
− c) + p2 (b − a) + p3 (b − c) > 0 ;<=> p1(c−d) + p2(a−b )< p3(b−c)
⇔ p1+p2
<p3. Altra implicazione del risultato è il prendere coscienza che
affinché i tipi 2 possano svilupparsi, i tipi civili debbono essere abbastanza
numerosi. In particolare, si dimostra che la fitness dei tipi 3 è maggiore di
quella dei tipi 1 se e solo se i tipi 3 sono in numero maggiore dei tipi 2. Ipotizzando,
come nei risultati precedenti, l’uguaglianza tra gli scarti, abbiamo un altro
risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL LEMMA, F3>F1 SE E SOLO SE P2<P3. Rappresentiamo
le due fitness nello spazio delle fitness e di p2. 0 P2* 1 P2 F1, F3. Da questo
emergono due ordini di considerazioni. Il valore soglia di P2 (P2*) oltre il
quale F3 diventa minore di F1 dipende dalle pendenze delle due rette,
rispettivamente a per F1 e b per F3: (a – b) misura infatti il vantaggio che i
tipi 1 hanno rispetto ai 3 per la presenza dei tipi 2 che sfruttano. Quindi
minore è questo vantaggio, maggiore è la quota di tipi 2 che i tipi 3 possono
tollerare Se a=b le due rette sarebbero parallele. Si nota che i tipi 3 perdono
fitness con l’aumento dei tipi 2, e la differenza di fitness massima si ottiene
in corrispondenza di P2 = 0. E’ il meccanismo che potremmo chiamare i figli
delle rivoluzioni che uccidono i padri, perché li considerano troppo radicali,
come i francescani di seconda generazione che rimossero Francesco dal governo
dell’ordine, perché con il suo radicalismo impediva – a loro dire – lo sviluppo
del francescanesimo più moderato e minacciava la morte stessa del movimento. Nell’ultimo
scenario, ipotizziamo che la motivazione intrinseca, la componente non
materiale dei pay-off, possa avere un effetto non solo sulla scelta ma anche
sulla fitness. Finora non abbiamo fatto ciò per un senso di realismo. Eurialo
puo persuadersi a vivere nella piena correttezza verso Niso perché attribuisce
a tale comportamento un valore intrinseco. Se però poi non arrivano i risultati
economici, se ho -- F3 >F1 <=> p1c +p2b + p3b > p1c + p2a + p3c <=> p2pb +
p3b > p2pa + p3c <=> p2 (b-a) > p3 (c-b) <=> p2 (a-b) < p3
(b-c) p2 < p3. Il valore soglia P2* è pari a P3, come sappiamo dal
risultato. F1 F3 -- ad esempio
costi troppo elevati, la fitness di Eurialo ne risente. Ora però abbandoniamo
questa semplificazione, e ipotizziamo che la fitness sia influenzata anche
dalle motivazioni. Alcuni esperimenti dimostrano come i comportamenti ispirati
da motivazioni intrinseche e da logiche di gratuità, oltre a non avere buoni
sostituti - nel senso che in tali casi altre forme di incentivi monetari non
funzionano - portano anche una maggiore efficienza in termini di risultati.
Perché quindi non ipotizzare una fitness influenzata anche dalle motivazioni
intrinseche? Le fitness del primo e del terzo tipo restano le stesse (questi
due tipi non hanno motivazioni intrinseche), mentre cambia quella del tipo 2,
dove la motivazione intrinseca è rappresentata da un ε > 0,29 che viene
aggiunto ai pay-off materiali. Le fitness dei tre tipi diventano perciò le
seguenti: h. F1 =p1(c) + p2 (a) + p3 (c) F2 =p1 (d) + p2 (b) + p3(b) + ε F3 = p1
(c) + p2 (b )+ p3 (b). Si dimostra che è possibile che la fitness dei tipi 2
sia maggiore anche di quella dei tipi 3. Vale infatti il: Risultato. SE VALGONO
LE IPOTESI a. – d., f., h.: 1. F 2≥ F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)31E
2. F2 ≥ F1, SE E SOLO SE ε≥ P1(C–D) + P2(A–B) + P3(C-B). C’è un rapporto
diretto tra ε e (c –d) dove (c – d) misura il costo della coerenza per la
fitness dei tipi 2, poiché è quanto questi perdono per essere coerenti con la
loro cultura ottenendo “d” quando interagiscono con i tipi 1, invece di
giocare, come i tipi 3, *non* coopera, ottenendo così “c”, che è maggiore di
“d”. Il valore più piccolo che può assumere ε (cioè l’effetto materiale delle
motivazioni intrinseche) affinché valga la disuguaglianza F2>F3, è ε* = p1 (c
– d). Possiamo quindi osservare che, maggiore è il costo della coerenza (c –
d), maggiore dovrà essere il valore-soglia ε* . Inoltre, c’è un rapporto
diretto anche tra ε* e p1: se i tipi 1 sono, relativamente, molto numerosi,
allora ε* dovrà essere più alto (e viceversa in caso contrario). Pensiamo, per
fare un esempio, ad una impresa di Economia di Comunione che nel campo della
legalità si comporta come un tipo 2. Paga le tasse, rispetta le leggi, per una
norma etica alla quale attribuisce un valore intrinseco, non strumentale. Un
tale imprenditore se opera in un mercato nel quale il costo della coerenza è
molto alto o i soggetti opportunistici sono relativamente molti, per non
estinguersi dovrà fare in modo che le proprie motivazioni etiche si traducano
in maggiore fitness in una misura relativamente maggiore rispetto allo stesso
imprenditore operante in un mercato più civile e dove i soggetti opportunisti
sono meno. Come a dire che più un mercato, e una -- Rustichini e Gneezy -- A
rigore potrebbe anche essere minore di 0. -- Ipotizziamo quindi che solo i tipi
2 e non i 3 “civili” abbiamo motivazioni intrinseche. F2 ≥F3 ⇔p1(d) + p2(b) + p3(b) + ε>p1c + p2b + p3b⇔ ε ≥ p1(c−d). F ≥ F⇔p(d) + p(b) + p(b) + ε≥p(c) + p(a)+p(c)⇔ 21123123 ε ≥ p1(c−d)+ p2(a−b)+
p3(c−b) -- società, premia i “furbi” (con condoni, ecc.) e penalizza i tipi
cooperativi (con leggi che non riconoscono sgravi fiscali per le imprese
sociale, ad esempio), più questi ultimi dovranno far sì che le motivazioni
etiche si riflettano in maggiore efficienza, altrimenti non sopravvivono.
Affinché valga invece la seconda disuguaglianza, F2 ≥ F1, il valore-soglia di
ε, che chiameremo “ε ̊”, dovrà essere: ε ̊ = P1(C – D) + P2(A – B) + P3(C- B).
E quale il rapporto tra i tipi 3 e i tipi 1? SE VALGONO LE IPOTESI DEL
RISULTATO 4.1, F3 > F1, SE E SOLO SE P2 < P3 (b − c). (a − b) Come
interpretare questo? (b – c) è il vantaggio dei tipi 3 rispetto ai tipi 1 (solo
i tipi 3 co-operano con i tipi 2 ottenendo “b”), possiamo quindi chiamarlo il
premio della cooperazione, mentre (a – b) è il vantaggio dei tipi 1 rispetto ai
3, perché è il premio dello sfruttamento che gli standard ottengono nei
confronti dei tipi 2, al quale invece i tipi civili rinunciano. Dal Risultato
4.2. emerge un’affermazione a prima vista inquietante: affinché si affermino i
tipi 3 (sui tipi 1) sarà necessario che i tipi 2 non siano troppi; in ogni caso
questi ultimi potranno essere tanto più numerosi quanto più il “premio della
cooperazione” sovrasta il “premio dello sfruttamento”. Se infatti i tipi 2 sono
numerosi essi diventano pasto per i tipi 1, che hanno così un vantaggio
relativo sui tipi civili. Il risultato potrebbe, infine, essere ulteriormente
rafforzato se che quando un tipo 2 incontra un altro tipo 2 ottiene un di più dovuto
alla reciprocità (il pay-off diventerebbe in questo caso a). i. F2=P1
(d)+P2(a)+P3(b)+ε La fitness dei tipi 2 potrebbe così essere maggiore di quella
dei tipi 3 e 1 con un ε anche minore rispetto al valore di altro risultato. SE
VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1 E L’IPOTESI i. 1. F2≥F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)+P2(B–A)
E 2. F2≥F1, SE E SOLO SE ε≥P1(C–D)+P3(C-B). “ε**” e il valore soglia di ε,
affinché valga la disuguaglianza F2≥F3 e, ricordando che la quantità (b – a) è
negativa, possiamo subito notare che ε**≤ ε*. Similmente, ε ̊ ̊ = p1 (c – d) + p3(c –b) è minore di ε ̊. Le
motivazioni intrinseche e il di più della reciprocità si rafforzano a vicenda e
rappresentano una strada molto interessante per esplorazioni. F < F ⇔ p (c ) + p (a) + p (c) < p c + p b + p
b ⇔ p
<p (b − c) . 1 3 1 2 3 1 2 3 2 3(a−b). F2 ≥F3 ⇔p1(d)+p2(a)+p3(b)+ε≥p1c +p2b + p3b⇔ ε ≥ p1(c−d)+ p2(b−a). F ≥F⇔p(d)+p(a)+p(b)+ε≥p(c)+p(a)+p(c)⇔ 21123123 ε ≥ p1(c−d)+ p3(c−b). Riassumiamo i punti
ai quali siamo giunti ragionando, con l’aiuto della teoria dei giochi, attorno
alle prospettive e alle sfide di uno scenario economico nel quale fanno la loro
comparsa soggetti diversi da quello standard. Un primo punto emerso in diverse
parti di questo scritto è che un agire economico improntato alla gratuità e
alla reciprocità, o alla comunione, in un ambiente abitato da agenti eterogenei
non cresce con la politica dell’aumento numerico: escludendo l’ipotesi di
perfetta riconoscibilità dei tipi, l’aumento numerico, di per sé non basta a
far sì che i tipi 2 sopravvivano. Sono invece tre gli aspetti strategicamente
cruciali affinché esperienze rette da una logica come quella delineata possano
svilupparsi. Lavorare sulla cultura media della società (che noi abbiamo
espresso con il “terzo tipo”, quello civile): il messaggio che emerge una volta
che abbiamo esteso la dinamica ai terzi tipi è che i tipi 2 possono
sopravvivere e svilupparsi soltanto all’interno di un’economia civile,
un’economia nella quale sono numerosi gli agenti leali, che pur non attribuendo
un alto valore intrinseco all’azione donativa (e quindi non hanno “donare” come
strategia strettamente dominante in tutti i tipi di gioco), sono comunque
corretti se incontrano un agente co-operativo, non lo sfruttano e co-operano con
esso. Poiché le motivazioni intrinseche dipendono in parte dall’approvazione
sociale, esiste un effetto di complementarietà strategica. Tanto più tali
comportamenti sono diffusi, tanto più saranno premianti36. Infatti, uno
sviluppo interessante del modello potrebbe essere quello di vedere sotto quali
condizioni i tipi 1 possono trasformarsi evolutivamente in tipi civili, ma in
questo scritto non lo abbiamo fatto. Va comunque aggiunto che se è vero che un
impegno culturale che si limita a rafforzare le motivazioni intrinseche dei
soggetti di tipo 2 non può bastare, al tempo stesso, però, questa seconda
direzione ricopre un ruolo fondamentale, per evitare che nel tempo scompaia il
tipo 2 e ci si assesti sul terzo tipo. Un mondo senza soggetti che, *almeno in
certi contesti* -- ceteris paribus --, *donano* *incondizionalmente*, sarebbe
un mondo più povero. La presenza dei due tipi civili e griceiani – Eurialo e
Niso -- ci dice che nel tempo saranno questi ultimi gli unici a sopravvivere, a
meno che le motivazioni intrinseche si riflettano nei pay-off ed il loro
“riflesso” sia relativamente grande. Questo risultato è già di per sé
significativo. Anche se in determinati contesti la motivazione intrinseca non
riesce a migliorare la performance dei tipi 2, la presenza, magari solo
transitoria, dei tipi 2 svolge un importante ruolo civile e culturale: permette
cioè che l’incontro (o equilibrio) si assesti sulla reciprocità e non scivoli
nella mutua diffidenza. Senza l’esistenza dei tipi 2, o, paradossalmente, senza
il loro sacrificio, i tipi civili non avrebbero potuto sperimentare la
reciprocità, perché in un mondo popolato solo da loro e da tipi standard,
l’unica esperienza possibile è la diffidenza reciproca, la *non* cooperazione
(war is war). Ciò serve a gettar luce sul significato culturale e civile che
nella storia hanno esperienze radicali -- Ciò implica la possibilità di
equilibri multipli ordinabili, cioè la stessa popolazione può essere altamente
inefficiente o altamente efficiente a seconda che un numero anche piccolo, al
limite anche un solo soggetto, decida di cooperare. 37 E’ infatti verosimile
che i tipi 3, quelli civili, abbiano nel loro “programma” la possibilità della
cooperazione perché nell’ambiente esiste, o è esistito, il tipo 2: certo si potrebbe
teoricamente ipotizzare che i tipi 3 co-operino tra loro anche in assenza dei
tipi 2. Ma, storicamente, la cultura civile dell’umanità è andata avanti grazie
all’esistenza di esperienze *totalitarie* che hanno creato categorie nuove che
poi hanno contaminato la cultura generale. Pensiamo, ancora una volta, alla
regola d’oro, o, più recentemente, ai movimenti ecologisti -- come la comunione
dei beni totale, certe forme di accademie o monachesimo, e in generale i primi
tempi dei fondatori di nuovi carismi (si pensi, per tutti, ad un Francesco
d’Assisi e alla sua vicenda storica. Simili esperienze non sempre sono riuscite
a sopra-vivere con tutta la loro radicalità, ma senza di quelle chi è venuto in
contatto con loro (nella nostra metafora, i “tipi civili”) non avrebbero potuto
elevare il livello della convivenza Senza coloro che si sono fatti
imprigionare, e hanno dato la vita per i diritti o per la libertà, oggi
l’umanità – il tipo umano personale di Grice -- sarebbe meno libera e meno
diritti sarebbero riconosciuti. Un po’ come avviene con il sale, che si perde
nella massa ma dà quel di più al tutto. La metafora del sale non è però l’unica
presente in quel codice della cultura occidentale che è il Vangelo: vi è anche
quella della città sul monte, una città che illumina la città sotto monte. La
dinamica evolutiva potrà condurre l’economia sociale, e l’economia di
comunione, o sul sentiero sale della terra o in quello città sul monte. Ma, in
entrambi i casi, occorre che la cultura rafforzi le motivazioni intrinseche. E forse
questo il messaggio culturale che il giocco conversazionale griceiano vuole
dare. Araujo, V.“Quale visione dell’uomo e della società?”, in Bruni, L. e V.
Moramarco (a cura di), L’Economia di comunione: verso un agire economico a misura
di persona, Milano: Vita e Pensiero. Aristotele, Etica Nicomachea, Milano:
Rusconi. Axelrod, R. The evolution of cooperation, New York: Basic Books.
Binmore, K. Game theory and social contract, Cambridge Mass: MIT Press, Vol.
II. Bowles, S. et al. In Search of Homo Economicus: Behavioural Experiments in
15 Small Scales Societies, American Economic Review, 91, Bruni, L. La felicità
e gli altri, Città Nuova, Roma. Bruni, L. e R. Sugden, Moral canals: trust and
social capital in the work of Hume, Smith and Genovesi, Economics and
Philosophy, 16, pp. 21-45. Bruni L. e V. Pelligra, Economia come impegno
civile, Roma: Città Nuova. Crivelli, L. Quando l’homo oeconomicus diventa
reciprocans”, in Bruni e Pelligra (a cura di), op. cit., pp. 21-43. Dawkins, R.
The selfish gene, Oxford University Press, Oxford. Frank, R. Microeconomia,
Milano: McGrow-Hill. Elster, J. The cement of society. A study of social order,
Cambridge: CUP. Gneezy, U. e A. Rustichini. A fine is a price, Journal of Legal
studies, January. Gui, B. Economic interactions as encounters, mimeo, Università
di Padova. Hollis, M. Trust within reason, Cambridge: CUP. Nussbaum, M. C. The
fragility of goodness: Luck and Ethics in Greek tragedy and Philosophy, Cambridge:
CUP. Pelligra, V. Fiducia r(el)azionale, in Sacco P.L. e S. Zamagni (a cura
di). Putnam, R. (2000), Bowling Alone, New York: Simon e Schuster. Sacco P.L. e
S. Zamagni. Un approccio dinamico evolutivo all’alturismo”, RISS, Sacco P.L. e
S. Zamagni. Complessità relazionale e comportamento economico, Bologna: Il
Mulino. Sen, A. Isolation, assurance and the social rate of discount”,
Quarterly Journal of Economics. Sugden, R. (2001), The Evolutionary Turn in
Game Theory, Journal of Economic Methodology, Weibull, J. Evolutionary Game
Theory, Cambridge MA: MIT Press. Zanghì, G. Dio che è amore, Roma: Città Nuova.
17Luigi
Alici. Keywords: alici, amore proprio ed amore altrui, self-love and other-love
– il paradosso della reciprocita – eurialo e niso – noi – condividere la
deliberazione – eidolon – comunita, immunita, genovesi, il canale morale, la
fidanza e il capitale sociale in Genovesi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Alici” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Alighieri. (Firenze). dante. Grice:
“Problem with having Alighieri as a philosopher is that rhyming is not usually
considered a priority – that’s why the old Romans like Lucrezio never had to
rhyme – you might say metre is essential to Parmenide and Lucrezio – and that
there is metre in my prose if not in endecasibili!” -- Grice: “This is
important for an Oxonian; since Sir Peter once told me that he made an effort
to understand Italian – ‘or Tuscan implicature,’ to be more precise – just to
be able to digest Inferno compleat with rhyme.’” Grice: “Must say that my
favourite Dante is ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate.”” Grice: “The
Italians, all being Renaissance men, love to catalogue as ‘philosopher’ those
whom the head of the Sub-Faculty of Philosophy at Oxford would NOT: Alighieri,
one of them!” Grice: “But then, a sport of Italian philosophers is to ramble on
“Pinocchio,” too!” -- “The Commedia and philosophy.” Liste di opere in Wiki. Refs.: “Philosophical references in Dante’s
Commedia.” v.17. Sevolemeguardare in LINGUAD'oco
ein LINGUA DI si, ec.e Pag .69. D’oco ,ec.N o n giudico superfluo ildire alcuna
cosa su questa v.2. Massimamente quelli di LINGUA denominazione a,ncorchè ne
sia stato già parlato da altri. Era costume de'nostri antichi,volendo essi
denominare il linguaggio d 'una nazione, prendere il suo distintivo dalla
particel. la affermativa del volgare di quella gente . Per tanto la lin gua
Italiana si diceva la lingua del si, la Tedesca dell' io, la Franzese dell’oi,
la provenzale dell’hoc. Eco sì si va d a discorrendo dell'altre lingue.IlVarchịnel
TuoErcolano ac.335. facendosi interrogare dal Conte BaldaflarCastiglionesul
parti colare della lingua Italiana , con queste parole : Cbi la cbie mase
lalinguadelsi? risponde:seguiterebbeuna largbiffimodi. vifione,chehofa
dellelingue,nominandole daquellaparticella,
collaqualeaffermano,comeèlalinguad'hoc,chiamatada volgari lingua d'oca ;
perciocchè hoc in quella lingua fignifica quanto væí nella Greca , e etiam ita
mella Lasina , & pelle soffre si ; •perciò Dantedife: Ab Pifa, vitupero
delle gesti Del belpaese là, dove 'lsifuona. Ed avanti al Varchi Benvenuto da
Imola su questo medesimo luogo: Quiageneraliteromnisgens Italicautunturifto vulgari
sì; ubi Germani dicunt io , do aliqui Gallici dicunt oi , do aliqui Pedemontani
dicunt ol vel dic : leggo foc credendolo errore del copista nel M Ş .
Laurenziano Derivano tutte queste particelle dal latino, Il “si” nostro dal
sico sic est, eforse più interamenteda sicestbec, od al contrario da hoc
eftfoc. L'altra di queste voci fu presa da' provenzali, cioè l'hoc: e da questa
fu non solamente illor parlare denominato “lingua d'oco”, che vale a dire
lingua dell'hoc. Ma il paese ancora “Linguadoca”. e ne'tempi più balli della latina lingua fu
detto “Occitania”, ilqual paese non è altro che l'antica Gallia Narbonensis. Lo
io del Tedesco da illudbocest, ed in più perfetta pronunzia “ja”, forse
dall'”iam est”. Il Franzese ai, dall “hec illud est”, che bene si ritrova
nell'antico “ouill”, che adesso è diventato “oui”. Ed in somma il piemontese ol,
dall'istesso “hoc illud”. Sicché, a proposito del passo di Dante, in lingua
d’oco, e in lingua di sì, vuol dire in lingua provenzale, ed in lingua Italiana
. V. 24. concioffiacbè. l. conciosracofache. Lingua, dal lat.
'lingua', voce usata in due signif. principal nel signif. propr., per
quell'organo mobilissimo del corpo anide che è posto nella bocca ove si stende
dall'osso joide fin dietro denti incisivi. Essa è la sede del senso del gusto,
serve alla funzione del succhiare, alla masticazione, alla deglutizione, alla
pronuncia delle parole, ed allo sputare.Varia molto nella grandezza ha la forma
d'una piramide, appianata dall'alto al basso, rotonda su i suoi angoli, e
terminata da certa punta ottusa che guarda ne davanti. E 'lingua' vale pure
idioma, linguaggio, favella. Alighieri usa 'lingua' nei due suoi signif.
principali spesse volte nelle sue opere, nel secondo signif. specialmente nel
Vulg. El. Nella Div. Com. 'lingua' si trova 30 volte --19 nell'Inf.(II, 25;
X1,72; IIV, XV, 87; XVII, 75; XVIII, 60,126; XXI, 137; XXII, 90; xxx,133; IITL
72, 89 ; XXVII, 18; XXVIII, 4, 101; xxx, 122; XXXI, 1; XXIII, 9, 1146; 3 volte
nel Purg (vii, 17; XI, 98; xix,13) e 8 volte nel Par. 63; X1, 23; XVII, 87;
XXIII, 55; XXVI, 124; XXVII,131; XXXIII,70,708). Sulle dottrine d'Alighieri
concernenti la lingua, cioè il linguaggio umano, conviene rimandare al Vulg.
El., specialmente al libro I di quest'opera. Si notino i seguenti usi. Lingua,
riferito a sete; Inf. xxx, 122. Trarre la lingua, per Spingerla fuori della
bocca; atto di SPREGIO; Inf. xvii, 75.-3. Mostrare ciò che puote una lingua,
per Condurre un idioma all'apice della sua perfezione; Purg. VII, 17.-4.
Scernere nella lingua, le parole dette o scritte; Purg. XV, 87.-5. La gloria
della lingua, Il pregio d'un idioma, e la maestria dell'usarlo; Purg. XI,
98.-6. Alighieri chiama la lingua italiana lingua di sì, la provenzale lingua
d'oc, la francese lingua d'oil;Vulg. El. 1, 8, 30 eseg.; cfr. Vit. N. xxv, 24 e
seg.-7. Concernente la lingua primitiva Alighieri esterna in diversi tempi dee
opinioni diverse. Secondo Vulg. El. I, 6, 29 e seg. la lingua dei primi parenti
fu parlata da tutti i loro discendenti sino alla edificazione della torre di
Babele, e dagli Ebrei anche dopo, onde la lingua primitiva fu semplicemente
l'ebraica. Invece secondo Par. XXVI, 124 e seg. la lingua primitiva, parlata da
Adamo, fu tutta spenta già prima della confusione babilonica, non ha dunque che
fare nè coll'ebraica nè con altre lingue.-8. Anche in merito alla maggiore o
minor nobiltà delle lingue latina e volgare Aligheri muta opinione. Secondo
Conv. I, 5, 76 e seg. il latino è più bello, più virtuoso e più nobile del
Volgare. Invece, secondo Vulg. El. 1, 1, il volgare è più nobile del
Latino. La seconda opinione è tutta propria d'Alighieri e segna un progresso
nello svolgimento del suo pensiero. La prima era l'opinione dominante del
tempo, accettata anche d'Alighieri, finchè i suoi studi lo indussero a
lasciarla. La tèrra d’Occitania a gardat fin a aüra un
immense patrimòni gropat simplament a sa lenga, una lenga qu’es istaa la
primiera, comà es ressauput, naissuá dal latin, a èsser escrita, una lenga que
vuèlh soventar, a donat vita a la primiera literatura moderna europencha, quèla
qu’a servit de model per totas las autras lengas, qu’aviá trobat dau
l’acomençament sa forma escrita, fòrça unitaria. Es pas aicí lo luòc
adont percorrer l’istòira de nòstra lenga faça als colonialismes qu’an empachat
la creacion d’una lenga e de istitucions politicas unitarias mas la retrobaa
unitarietat culturala de la tèrra occitana en cèstos darrieri ans a fait
creisser un’ideá, beleu un utopiá, quèla de una Nacion, malaürament sença
estat, de una Nacion culturala. Lo mot Occitaniá, ben conoissut fin a la
Rivolucion, a retrobat sa modernitat geografica, istorica, lingüistica.
Malaürosament nòstra lenga ilh es aüra, apres mila ans, entren de se perdre, de
se esvantar al solelh. Un procés qu’a començat a partir dal segle XVI, quand
nòstra tèrra occitana a perdut definitivament son autonomiá. Quèlos que los
expecialistas de la lenga noman gallicismes, an começat penetrar en Occitaniá
sobretot a partir de l’ordonança de Villers-Cotterêts dal 15 d’aost dal 1539,
quand lo francés es devengut lenga uficiala de la lei e de l’administracion
francesa. Eissubliaa la cultura dal Meianatge, quèla, per se comprener,
dals trobaires, la lenga occitana es chaüta dins l’umbla condicion de, e zo
dizo abó una paraula francésa, patois, patés. Cèsta paraula la vòl dire parlar
abó las pautas, abó los pès. Dins las Valadas avem perdut la valor de la
paraula patois e l’anobrem tranquilament per dire que parlem a nòstra mòda,
comà la se ditz dins tantas valadas. Mas lo mot patois pòl indicar qualsevuèlhe
parlar natural dal mond, sença donar una precisa indicacion sus la lenga
parlaa. Per aiquò Occitan es l’unica paraula que pòl servir per nomar nòstra
lenga, l’unica que rend justiça a mila ans d’istòira. Pas mens de viatge sabem
pas de adont arriba nòstre vocabolari, quala istòira an nòstras paraulas.
Comà bien sabon, la plus part dal vocabolari es d’origina latina, comun a quasi
totas las lengas romanzas. Un’autra partiá dal vocabolari ven dal grec e decò
aicí zo partagem abó las autras lengas; un’autra encara nos ven de las lengas
alemandas o germanicas, de quèlos puèples qu’an envaít l’Imperi roman. Resta
una fòrta presença de paraulas que beleu nos venon de las lengas parlaas dins
nòstros territòris quand los romans sion arribats en çò nòstre: de lengas de
sobstrat, que normalment partatgem en lengas anarias, al es a dire d’ancianas
lengas mediterranèa comà lo ligure, l’etrusc o de lenga arias pre-latinas comà
lo gallic o la lenga celta. Comà la se pòl comprener sien drant a un
tresaur lexical en partiá ben conoissut, mas adont los trabalhs lexicologics
abondan pas e adont de ensemb lingüistic comà l’occitan alpec, nomat a son
temps vivarò-alpenc, reston mal conoissut. Comà a escrit Robert A.
Geuljan dins son Dictionnaire Etymologique de la Langue d’Oc, en ligna,
l’occitan “est la seule grande langue romane dépourvue d’un Dictionnaire
Etymologique. Volem pas de segur far concorrença al trabalh qu’es
istat entrenat per lo Prof. Geuljan, mas prepausar de trabalhs sus l’etimologiá
de paraulas pas gaire conoissuás de nòstra Valadas e de l’encemb occitano-alpenc
per arribar, dins lo temps, a la redaccion d’un Diccionari Etimologic de
l’Occitan Alpenc. Pas mens nòstre Diccionari Etimologic sarè bilengas, es
a dire li aurè una partiá entierament en lenga occitana e una traducion
italiana. Escriure un Diccionari sus nòstra lenga adont per chasca paraula la
se dona la traduccion dins una lenga diferenta de la nòstra me sembla una
chausa que vai contra la lenga meseima. Pensatz a un vocabolari de
l’italian o dal francés o de un’autra lenga adont la descripcion de la paraula
siè dins un’autra lenga. Per l’occitan pareis siè la nòrma. Lo Tresor dóu
Felibrige de Mistral, lo vocabolari de Alibert comà tuts los autri que sion
istats realizats dins cèstos ans donan la paraula en occitan, mas tota la
descripcion, e pas mesquè la traducion, dins un’autra lenga, o lo francés o
l’italian. Per far un autre exemple, plus recent, cito un grand trabalh
de lexicografia comà quel de Jusiana Ubaud, adont tota l’introduccion e la
descripcion de l’òbra es en francés. Perquè un’obra sus la lenga occitana deu
èsser ilustraa en se servent d’un’autra lenga? Cèstos diccionaris rintran dins
la categoriá dals vocabolaris “dialectals”; meseime los pauqui vocabolaris fait
aicí dins las Valadas, normalment de l’occitan local a l’italian, rintran dins
aicèsta categoriá. Los catalans non pas, nos mostran, abó sos
Diccionaris, que se pòion justament redigir de diccionaris completament en
lenga sença la sugecion d’un autra lenga, comà totas las autras lengas
nacionalas. Per aiquò, en cèst espaci, en cèsta rubrica, chercharem de
esclarzir l’origina de certenas paraulas, beleu pas gaire conoissuás, de nòstre
vocabolari. ON ritrovando io, che alcuno avanti me abbia della volgare eloquenzia
niuna cosa trattato. E vedendo questa cotal eloquenzia es sere veramente necessaria
a tutti; conciò sia che ad essa non solamente gli uomini, ma ancora le femine,
& i piccoli fanciulli, in quanto la natura permette, sisforzino pervenire:
e volendo al quanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come ciechi
passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori essere
anteriori; con loaiuto, che Dio cimanda dal cielo, ci sforzeremo di dar
giovamento al parlare delle genti volgari. Nè solamente l'acqua del nostro
ingegno a si fatta bevanda piglie ma remo, ma ancora pigliando, ovvero
compilando le cose migliori da gli altri, quelle con le nostre mescoleremo,
acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora perciò che
ciascuna dottrina deve non provare , aprire il suo suggetto,acciò si sappia che
co sa sia quella,ne la quale essa dimora,dico, che 'l Parlar Volgare chiamo
quello,nel quale i fanciulli sono assuefatti da gli assistenti, quan do
primieramente cominciano a distinguere le voci,o vero,come piùbrevemente sipuò
dire, ilVolgar Parlare affermo essere quello,ilquale senza altra regola,
imitando la balia, s'appren de.Ecci ancora un altro secondo parlare il quale i
romani chiamano “letteratura” (greco: grammatica). E questo se condario hanno
parimente i greci & altri, ma non tutti; perciò che pochi a l'abito di esso
pervengono ; conciò sia che, se non per spazio di tempo & assiduità di
studio, si ponno pren dere le regole, e la dottrina di lui. Di questi dui
parlari adunque ilVolgare è più nobile,si perchè fu il primo che fosse da
l'umana gene razione usato, si eziandio perchè in esso tut to'lmondo
ragiona",avegna che in diversi vocaboli e diverse prolazioni sia diviso ;
si a n cora per essere naturale a noi, essendo quel l'altro artificiale: e di
questo più nobile è la nostra intenzione di trattare. Il testo latino ha : ipsa
(locutione) perfruitur ; ossia : di esso si serve. non dico nostro,perchè
altro parlar ci sia che quello dell'uomo ; perciò che fra tutte le cose che
sono, solamente a l'uomo fu dato il parlare,sendo a lui necessario solo.Certo non
a gli angeli, non a gli animali inferiori fu ne cessario parlare ; adunque
sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E la natura
certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente con
siderare la intenzione del parlar nostro,niun'al tra ce ne troveremo, che il
manifestare ad altri i concetti de la mente nostra.Avendo adunque gli angeli
prontissima, & ineffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire i loro
gloriosi concet ti, per la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è totalmente
noto all'altro , o per sè , o almeno per quel fulgentissimo specchio,nel quale
tutti sono rappresentati bellissimi, & in cui avidis simi
sispecchiano;pertantopare,chediniuno segno di parlare abbiano avuto mestieri.Ma
chi opponesse a questo , allegando quei spi riti, che cascarono dal cielo; a
tale opposi zione doppiamente si può rispondere. Prima , che quando noi
trattiamo di quelle cose , che Sono Che l'uomo solo ha il comercio del
parlare. Uesto è il nostro vero e primo parlare: Q a bene essere , devemo essi
lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vol lero
aspettare la divina cura. Seconda rispo sta,e meglio è,che questi demoni a
manife stare fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere , se non
qualche cosa di ciascuno, perchè è, e qua nto è 1 : il che certamente s a n no
; perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. A gli animali
inferiori poi non fu bisogno provvedere di parlare ; conciò sia che per solo
istinto di natura siano guidati.E poi tutti quelli animali, che sono di una
medesima specie , hanno le medesime azioni , e le m e d e sime passioni ; per
le quali loro proprietà p o s sono le altrui conoscere ; m a a quelli che sono
di diverse specie, non solamente non fu neces sario loro il parlare, ma in
tutto dannoso gli sarebbe stato , non essendo alcuno amicabile comercio tra
essi. E se mi fosse opposto che il serpente che parlò a la prima femina, e l'a
sina di Balaam abbiano parlato , a questo ri spondo , che l'angelo ne l'asina ,
& il diavolo nel serpente hanno talmente operato , che essi animali mossero
gli organi loro ; e così d'indi la voce risultò distinta, come vero parlare;
non che quello de l'asina fosse altro che rag ghiare e quello del serpente
altro che fischiare. ·Il testo ha:
non indigent,nisiutsciantquilibetde quolibet, quia est, et quantus est.
Parrebbe più proprio iltradurre cosi:non hanno bisogno di conoscere,se non
ciascheduno di ciaschedun altro,che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado.
Se alcuno poi argumentasse da quello,che Ovi dio disse nel quinto de la
Metamorfosi, che le piche parlarono ; dico che egli dice questo figu
ratamente,intendendo altro:ma se si dicesse che le piche al presente &
altri uccelli parlano, dico ch'egli è falso; perciò che tale atto non è parlare
, m a è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di
imitare noi in quanto soniamo,ma non in quanto par liamo. Tal che se quello che
alcuno espressa mente dicesse, ancora la pica ridicesse, questo non sarebbe se
non rappresentazione , o vero imitazione del suono di quello,che prima avesse
detto.E così appare,a l'uomo solo essere stato dato il parlare ; m a per qual
cagione esso gli fosse necessario, ci sforzeremo brievemente trattare. Che fu
necessario a l'uomo il comercio Ovendosi adunque l'uomo non per istinto di
natura,ma per ragione;& essa ra gione o circa la separazione, o circa il
giudi dizio , o circa la elezione diversificandosi in ciascuno;tal che quasi
ogni uno de la sua propria -- La voce del testo discretio sarebbe resa meglio
dalla parola discernimento -- del parlare -- specie s'allegra; giudichiamo che
niuno intenda l'altro per le sue proprie azioni , o p a s sioni, come fanno le
bestie; nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro,come l'an gelo ,
sendo per la grossezza , & opacità del corpo mortale la umana specie da ciò
ritenuta. Fu adunque bisogno , che volendo la genera zione umana fra sè
comunicare i suoi concetti, avesse qualche segno sensuale e razionale ; per ciò
che dovendo prendere una cosa da la ra gione, e ne la ragione portarla,
bisognava es sere razionale; ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in
un'altra portare,se non per il mezzo del sensuale, fu bisogno essere sen suale
, perciò che se 'l fosse solamente razio nale,non potrebbe trapassare;se solo
sensuale, non potrebbe prendere da la ragione, nè ne la ragione de porre. E
questo è segno che il subietto , di che parliamo , è nobile ; perciò che in
quanto è suono,egli è per natura una cosa sensuale;& inquanto
che,secondolavolontà di ciascuno , significa qualche cosa, egli è ra zionale 1.
Iltestoha:Hoc equidem signum est,ipsum sub jectum
nobile,dequoloquimur:naturasensualequi dem , in quantum sonus est , esse ;
rationale vero , in quantum aliquid significare videtur ad placitum . A noi
pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questosegno (l'aliquod
rationale signum et sensuale , di cui ha parlato poche righe più sopra ) è per
l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo : sensuale , per n a tura,in
quanto èsuono;razionale,inquantoche,se cheuomofuprimadatoilparlare,
echedisseprima,& inchelingua. l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo
che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato ilparlare,e che
cosa prima disse, & a chi parlò , e dove e quando , & eziandio in che
linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima
parte del Genesis , ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del
mondo , si truova la femina, primacheniunaltro,aver parlato,cioèlapre
sontuosissima Eva, la quale al diavolo, che la ricercava, disse , « Dio ci ha
commesso , che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso,
e che non lo tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo.» Ma a vegna che
in scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato,non di meno è
ragionevol cosa che crediamo , che l'uomo fosse quello , che prima parlasse. Nè
cosa inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche
cosa. Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del
testo,che sarebbe di troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e
si collega meglio col senso di tutto il Capitolo. 9 Anifesto è per le
cose già dette , che a pensare,che così eccellente azione de la il
generazione umana prima da l'uomo,che da la femina procedesse.
Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato primiera mente il
parlare da Dio,subito che l’ebbe for mato.Che voce poi fosse quella che parlò
prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto ; & io non dubito che
la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per modo d'interrogazione, o per
modo di risposta.Assurda cosa veramente pare,e da la ragione aliena,che da
l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio ; con ciò sia che da esso,&
in esso fosse fatto l'uo mo.E siccome,dopolaprevaricazionedel'u m a n a
generazione , ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è ragionevol
cosa , che quello che fu davanti , cominciasse da alle grezza ,e conciò sia che
niun gaudio sia fuori diDio,ma tuttoinDio,& essoDio tuttosiaal legrezza,
conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi
nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di
risposta parlato, se risposta fu, devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe,che
Dio prima avesse parlato,ilche parrehbe contra quello che avemo detto di sopra.
Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo
averrispostoaDio,chelointerrogava,nè per questo Dio aver parlato di quella
loquela, che dicemo.Qual è colui,che dubiti,che tutte le cose che sono non si
pieghino secondo il voler diDio,da cuièfatta,governata,econservata
ciascuna cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per
comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di
Dio,di maniera che fa risuonare i tuoni, ful gurare il fuoco, gemere l'acqua, e
sparge le nevi, e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di
Dio a far risonare al cune parole le quali siano distinte da colui, che maggior
cosa distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose
credia mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta
così da le cose superiori, come da le inferiori), che il primo uomo drizzasse
il suo primo parlare primieramente a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo
parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne
l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire,
pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di
ogni perfezione principio & amatore ,inspirando il primo uomo con ogni
perfezione compi , ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale
non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse
contra le obiezioni, Iudicando adunque (non senza ragione trat che
non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro
segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella
riverenzia , la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna
volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è
una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda , che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori
laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o fuori del paradiso , diremo che
fuori : se dentro , diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra
perchè i negozj umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue , tal
che molti per le parole non intesi da molti,che se fussero senza esse;
però fia buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato
l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e
donde fu l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e
che nè pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte,
Pietramala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di
Adamo .Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda,
che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole
, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare , cioè la sua
materna locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere
stata quella diAdamo.Ma noi,acuiilmondo èpatria, sì come a'pesci il mare ,
quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo
tanto Fiorenza, che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le
spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè
se condo il piacer nostro , o vero secondo la quiete de la nostra sensualità,
non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti
e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente
si descrive , e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo , e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore,fermamente comprendo,
e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fio
renza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti
usare più dilette vole, e più utile sermone , che gli Italiani. Ritornando
adunque al proposto , dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio
insie me con l'anima prima ,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e
quanto a la construzione de'vocaboli , e quanto al proferir de le con
struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per
colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come di sotto si
mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo , e tutti i suoi posteri fino
a la edificazione de la torre di Babel, la quale si interpreta la torre de la
confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i
quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò
che il nostro Redentore , il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo
laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la confusione. Fu
adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par
lante . ' Il testo ha : qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem ,non
lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere
di loro secondo l'umanità , usasse della lingua della grazia, e non di quella
della confusione. Hi come gravemente mi vergogno di rin 15 e per De
la divisione del parlare in più lingue. A en ta nerazione umana : ma perciò che
non possia mo lasciar di passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e
l'animo la fugge , non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai
peccati , oh da principio, e che mai non finisce, piena di nequizia; non era
stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e
stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la
universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di
te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi
commesso , gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti? Certo
assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo
anzi terza ; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che
l'uomo , o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo
gli occhi da le sferze, che erano rimase, venne la terza volta a le botte, per
la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu
rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di superare con l'arte sua non
solamente la na tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e cominciò ad
edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione,
per la quale sperava di ascendere al cielo,avendo intenzione, lo sciocco,non
solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza
misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo?
Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna , & a battiture
assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione
castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ;
parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte
impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per
ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi in
molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano
; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osservò che
in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro
neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus
tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte
arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano.
istessa loquela attualmente rimase , come a tutti gli architetti una , a
tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così
avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in
quell'opera , di tanti varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E
quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno , tanto era più grosso e
barbaro il loro parlare. Quelli poscia , a li q u a l i il sacrato idioma
rimase , nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro ; anzi gravemente
biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono
una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono , sì come io comprendo ,
del seme di Sem , il quale fu il terzo figliuolo di Noè , da cui nacque il
popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua
dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin
gue non leggieramente giudichiamo , che allora primieramente gli uomini furono
sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso.
E conciò sia che la P Sottodivisione del parlare per il mondo , principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione
nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta , là onde
primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di
tutta Europa. Ma ofusseroforestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o
pur nati prima in E u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre
idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa,
parte la settentrionale , & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci ,
parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono.Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari , come di sotto
dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza , e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari , Tedeschi, Sassoni , Inglesi
& altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo
solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio , che quasi tutti i
predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo
idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel
tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e
più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta , tenne un
terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che
volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spa gnuoli ,
Francesi & Italiani.Il segno adunque che i tre volgari di costoro
procedessero da uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose chiamano
per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama
,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa , quelli che
proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i confini
de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte
orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno
del mare Adriatico e la Sici lia.Ma quelli che affermano con oil,quasi sono
settentrionali a rispetto di questi ; perciò che da l'oriente e dal
settentrione hanno gli Ale manni , dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il
testo ha : A b isto incipiens idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus
orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est
protractum . Totum autem , quod in Europa restat ab istis , tertium tenuit idioma.
E deve essere tradotto cosi : A cominciare da questo idioma, cioè dai confini
degli Ungari verso oriente , un altro idioma occupò l'intero tratto che da quei
confini in là si chiama Europa , e che si protrae anche più oltre. Tutto il
tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19 glese,
e dai monti di Aragona terminati , dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e
da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il
verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla prova ,
cimentare. ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le
quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che
intervenne al parlare , che da principio era il medesimo.Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada , però so
lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte ,
conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole , pare che eziandio abbia ad
esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto
di sopra) in tre parti diviso , perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri
oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che
primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come
gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col
tempo il medesimo parlare si muta , e de la invenzione de la grammatica.
A la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il
delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste
lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor.
Gerardo di Berneil , « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di
Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guido Guinizelli, « Nè fè amor ,
prima che gentil core , Nè cor gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo
adunque , perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia
scuna di queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia
ha diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i
Padovani , e altramente i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano
più vi cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi,Romani e
Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un
istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e
quel che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare
quelli che in una medesima città dimorano , come sono i Bolo gnesi del borgo di
san Felice , e i Bolognesi della strada maggiore.Tutte queste differenze
adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno
manifeste. Dico adunque , che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto
effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni
nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a
nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu
che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va
riabilissimo animale , la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ;
m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi &
abiti),simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno
di va riarsi.Però non è da dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con
ladistanziadeltempo il parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ;
perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le altre opere nostre,le
troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli
altri de la nostra età, q u a n tunquecisianomoltolontani1.Ilperchèaudace mente
affermo, che se gli antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,parlerebbero di
diverso parlare di quello, che ora parlano in Pavia ; nè altrimente questo ,
ch'io dico , ci paja maraviglioso , che I qualicisianomolto
lontani(magis....quam a coetaneis perlonginquis). ciparrebbe a
vedere un giovane cresciuto,il quale non avessimo veduto crescere.Perciò che le
cose , che a poco a poco si movono , il moto loro è da noi poco conosciuto;e
quanto la va riazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto
essa cosa è da noi più stabile esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i
discorsi di quegli uomini,che sono poco da le bestie differenti, pensano che
una istessa città abbia sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la
variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo
a poco a poco sia divenuta , e sia la vita de gli uomini di sua natura brevissima.
Se adunque il sermone ne la istessa gente (come è detto) successivamente col
tempo si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di
coloro, che lontani e separati dimorano, sia variamente variato ; sì come sono
ancora variamente variati i costumi & abiti loro , i quali nè da natura,nè
da consorzio umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia
de i luoghi nasciuti.Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica ; la
quale grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in
diversi tempi e luo ghi.Questa essendo di comun consenso di molte genti
regulata , non par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente
non può essere variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion
del parlare , il quale De la varietà del parlare in Italia da la destra e
sinistra parte de l'Appennino. Ra uscendo in tre parti diviso (come di 24
LIBRO PRIMO , per singulare arbitrio si move,non ci fossero o in tutto tolte, o
imperfettamente date le a u torità, & i fatti de gli antichi , e di coloro
da i quali la diversità dei luoghi ci fa esser divisi. sopra è detto) il nostro
parlare nella comparazione di se stesso, secondo che egli è tri partito, con
tanta timidità lo andiamo ponde rando , che nè questa parte , nè quella , nè
quell'altra abbiamo ardimento di preporre, se non in quello sic, che i
grammatici si trovano aver preso per avverbio di affirmare: la qual cosa pare,
che dia qualche più di autorità a gli Italiani, i quali dicono si.Veramente
ciascuna di queste tre parti con largo testimonio si d i fende. La lingua di
oil allega per sè, che, per lo suopiùfacileepiùdilettevoleVolgare,tutto quello
che è stato tradotto , o vero ritrovato in prosa volgare,è suo;cioè la
Bibbia,ifatti de i Trojani e dei Romani,le bellissime favole del re Artù , e
molte altre istorie e dottrine 1. ma: 0 · Il Fraticelli avverte , a ragione ,
che qui bisognava tradurre non: la Bibbia,ifatti de' Trojani... i libri che
contengono i fatti de' Trojani . L'altra poi argomenta per sè , cioè la
lingua di oc ; e dice che i volgari eloquenti scrissero i primi poemi in essa ,
sì come in lingua più perfetta e più dolce; come fu Piero di Alver nia &
altri molti antiqui dottori.La terza poi, che è de gli Italiani, afferma per dui
privilegj esser superiore ; il primo è, che quelli, che più dolcemente e più
sottilmente hanno scritti poe mi , sono stati i suoi domestici e famigliari,
cioè Cino da Pistoja, e lo amico suo ; il secondo è, che pare, che più
s'accostino a la g r a m m a tica,la quale è comune.E questo, a coloro, che
vogliono con ragione considerare, par g r a vissimo argomento . M a noi
lasciando da parte il giudicio di questo , e rivolgendo il trattato nostro al
Volgare Italiano,ci sforzeremo di dire le variazioni ricevute in esso , e
quelle fra sè compareremo.Dicemo adunque laItalia essere primamente in due
parti divisa,cioè ne la de stra e ne la sinistra ; e se alcuno dimandasse qual
è la linea che questa diparte,brievemente
rispondoessereilgiogodel'Appennino;ilquale, come un colmo di fistula, di qua e
di là a diver se gronde piove,e l'acque di qua e di là per lunghi embricia
diversi liti distillan , come Lucano nel secondo descrive ; & il destro
lato ha il mar Tirreno per grondatoio, il sinistro v'ha lo Adriatico. Del destro
lato poi sono regioni la Puglia,ma non tutta,Roma,ilDucato 1, + Ducato di
Spoleto. , Toscana,la Marca di Genova.Del sinistro so no parte de
la Puglia , la Marca d’Ancona , la Romagna , la Lombardia , la Marca Tri
vigiana, con Venezia.Il Friuli veramente,e l'Istria non possono essere se non
de la parte sinistra d'Italia ; e le isole del mar Tirreno , cioè Sicilia e
Sardigna,non sono se non de la destra , o veramente sono da essere a la destra
parte d'Italia accompagnate.In ciascuno adun que di questi dui lati d'Italia,
& in quelle parti che si accompagnano ad essi, le lingue de gli uomini sono
varie ; cioè la lingua de i S i ciliani co iPugliesi, e quella de i Pugliesi co
i Romani,edeiRomani coiSpoletani,edi que sticoiToscani,edeiToscani coiGenovesi,e
de i Genovesi co i Sardi. E similmente quella de i Calavresi con gli
Anconitani, e di costoro coiRomagnuoli,e deiRomagnuoli co iLom
bardi,edeiLombardi coiTrivigianieVene ziani , e di questi co i Friulani , e di
essi con gl'Istriani ; ne la qual cosa dico, che nessuno de gl’Italiani
dissentirà da noi. Onde la Italia sola appare in X I V Volgari esser variata :
cia scuno dei quali ancora in sè stesso si varia: come in Toscana i Senesi e
gli Aretini, in L o m bardia i Ferraresi e i Piacentini ; e parimente in una
istessa città troviamo essere qualche variazione di parlare,come nel Capitolo
di so pra abbiamo detto. Il perchè se vorremo cal culare le prime , le seconde
, e le sottoseconde variazioni del Volgare d'Italia,avverrà che in Si
dimostra , che alcuni in Italia hanno brutto & inornato parlare. Ssendo
ilVolgareItalianopermoltevarietà dissonante , investighiamo la più bella &
illustre loquela d'Italia ; & acciò che a la n o stra investigazione
possiamo avere un picciolo calle, gettiamo prima fuori de la selva gli a r
boriattraversati,elespine.Sicome adunque i Romani si stimano di dover essere a
tutti preposti , così in questa eradicazione , o vero estirpazione , non
immeritamente a gli altri li preporremo ; protestando essi in niuna ragione de
la Volgare Eloquenza esser da toccare. Di cemo adunque il Volgare de'Romani ,o
per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i Volgari
Italiani; e non è maraviglia, sendo ne i costumi e ne le deformità de gli abiti
loro sopra tutti puzzolenti. Essi dicono : M e sure, quinte dici 1. Dopo questi
caviamo quelli de la Marca d’Ancona, i quali dicono Chigna mente sciate siate
2; con i quali mandiamo via questo minimo cantone del mondo si verrà,non
solamente a mille variazioni di loquela , m a ancora a molte più. I Sorella mia
, che cosa dici ? 2 Qualmente siate state. , i Spoletani. E non è
da preterire, che in vitu perio di queste tre genti sono state molte can zoni
composte , tra le quali ne vidi una drit tamente e perfettamente legata, la
quale un certo fiorentino, nominato ilCastra,avea com posto ; e cominciava , «
Una ferina va scopai da Cascoli Cita cita sen gia grande aina '. » Dopo questi
i Milanesi, & i Bergamaschi,& i loro vicini gettiam via ; in vituperio
de i quali mi ricordo alcuno aver cantato, Ciò fu del mes d'ochiover. » Dopo
questi crivelliamo gli Aquilejensi, e gli I striani, i quali con crudeli
accenti dicono Ces fastù ; e con questi mandiam via tutte lem o n tanine e
villanesche loquele, le quali di brut tezza di accenti sono sempre dissonanti
da i cittadini, che stanno in mezzo le città, come i Casentinesi , & i
Pratesi. I Sardi ancora , i quali non sono d'Italia,ma a la Italiaaccom pagnati
, gettiam via : perchè questi soli ci p a jono essere senza proprio Volgare ,
& imitano la grammatica,come fanno le simie gli uomini ; perchè dicono,
Domus nova,e Dominus meus. Una ferina vosco poi da Cascoli « In te l'ora
del vespero, · Il Fontanini propone di leggere : Zita zita sen gia a grande
aina. Zita vale gita ; e aina val fretta. « Ancor che l'aigua per lo foco lassi. »
«Amor,chelongamentem'haimenato.» Ma questa fama de la terra di Sicilia, se
dirit tamente risguardiamo , appare , che solamente per opprobrio de'principi
Italiani sia rimasa ; iquali non con modo eroico,ma con plebeo seguono la
superbia. M a quelli illustri eroi Federico Cesare & il ben nato suo
figliuolo Manfredi , dimostrando la nobiltà e drittezza de la sua forma,mentre
che la fortuna gli fu fa vorevole,seguirono le cose umane,e le bestiali
sdegnarono.Ilperchè coloro,cheeranodialto De lo Idioma Siciliano e
Pugliese. Ei crivellati (per modo di dire) Volgari d'Italia, facendo
comparazione tra quelli che nel crivello sono rimasi, brievemente sce gliamo il
più onorevole di essi. E primiera mente esaminiamo lo ingegno circa il
Siciliano, perciò che pare che il Volgare Siciliano abbia assunto la fama sopra
gli altri; conciò sia che tutti i poemi , che fanno gl'Italiani , si chia mino
Siciliani,e conciò sia che troviamo molti dottori di costà aver gravemente
cantato,come in quelle canzoni , Et, Se questo poi non vogliamo
pigliare, ma quello che esce de la bocca de i principali Si ciliani, come ne le
preallegate canzoni si può vedere, non è in nulla differente da quello,che è
laudabilissimo , come di sotto dimostreremo. |Traduzione
letteraledialtripices,chesignifica in gannatori. , cuore e di grazie
dotati,si sforzavano di ade rirsi alla maestà di sì gran principi; talchè in
quel tempo tutto quello , che gli eccellenti Italiani componevano , ne la Corte
di sì gran re primamente usciva. E perchè il loro seggio regale era in Sicilia,
è avvenuto,che tutto quello che i nostri precessori composero in Volgare , si
chiama Siciliano ; il che ritenemo ancora noi ; & i posteri nostri non lo
potranno mutare.Racha,Racha.Che suona ora la tromba de l'ultimo Federico ? che
ilsonaglio del secondo Carlo? che i corni di Giovanni e di Azzo m a r chesi
potenti?cheletibiedeglialtrimagnati? se non , Venite , carnefici ; Venite ,
altripici 1; Venite, settatori di avarizia.M a meglio è tor nare al proposito ,
che parlare indarno. Or dicemo,che se vogliamo pigliare ilVolgar Si
ciliano,cioè quello che vien da imediocri pae sani, da la bocca de i quali è da
cavare il giu dizio , appare , che il non sia degno di essere preposto a gli
altri;perciò che 'l non si profe risce senza qualche tempo, come è in «
Traggemi d'este focora se t'este a bolontate. » I Pugliesi poi , o vero per la acerbità loro ,
o vero per la propinquità dei suoi vicini, che sono Romaneschi e Marchigiani ,
fanno brutti barbarismi.E'dicono, « Per fino amore vo'si lietamente. » Il
perchè a quelli, che noteranno ciò che si è detto di sopra, dee essere
manifesto, che nè il Siciliano, nè il Pugliese è quel Volgare che in Italia è
bellissimo; conciò sia che abbiamo m o strato , che gli eloquenti nativi di
quel paese sieno da esso partiti. De lo Idioma de i Toscani e dei Genovesi. per
la loro pazzia insensati, pare che a r rogantemente s'attribuiscano il titolo
del V o l gare Illustre; & in questo non solamente la « Volzera che
chiangesse lo quatraro. » Ma quantunque comunemente ipaesani pugliesi parlino
bruttamente, alcuni però eccellenti tra loro hanno politamente parlato , e
posto ne le loro canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare
a chi iloro scritti con sidera,come è, « Madonna , dir vi voglio. » E, opinione
dei plebei impazzisce , m a ritruovo molti uomini famosi averla avuta: come fu
Guittone d’Arezzo, il quale non si diede mai al Volgare Cortigiano;Bonagiunta
da Lucca,Gallo pisano,Mino Mocato senese,eBrunetto fioren tino, i detti dei
quali, se si avrà tempo di esaminarli,noncortigiani,ma proprjdeleloro cittadi
essere si ritroveranno. Ma conciò sia che i Toscani siano più de gli altri in
questa ebrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la
pompa a ciascuno de i Volgari delle città di Toscana.I Fiorentini par. lano, e
dicono, « Non facciamo altro. » I Pisani , « Bene andonno li fanti de Fioranza
per Pisa.» I Lucchesi , « Fo voto a Dio,che ingassara eie lo comuno de Luca.» I
Senesi , « Vo'tu venire ovelle?» Di Perugia , Orbieto , Viterbo e Città Castel
lana, per la vicinità che hanno con Romani e Spoletani,non intendo dir nulla.Ma
come che quasi tutti i Toscani siano nel loro brutto p a r « Onche rinegata avessi io Siena.» Gli Aretini
, « Manuchiamo introcque.» lare ottusi,non di meno ho veduto alcuni aver
conosciuto la eccellenziadel Volgare,cioè Guido, Lapo & un altro,
fiorentini, e Cino Pistojese, il quale al presente indegnamente posponemo , non
indegnamente costretti.Adunque se esami neremo le loquele toscane , e
considereremo , come gli uomini molto onorati si siano da esse loro proprie
partiti , non resta in dubbio che il Volgare , che noi cerchiamo , sia altro
che quello che hanno ipopoli di Toscana. Se alcu no poi pensasse che quello,
che noi affermiamo de iToscani,non sia da affirmare de iGenovesi, questo solo
costui consideri, che se i Genovesi per dimenticanza perdessero il z lettera,
biso gnerebbe loro , o ver essere totalmente muti , o ver trovare una nuova
locuzione ; perciò che il z è la maggior parte del loro parlare ; la qual
lettera non si può se non con molta aspe rità proferire. nino , & investighiamo tutta la sinistra
parte d'Italia, cominciando, come far solemo, a levante. Intrando adunque ne la
Romagna , dicemo che in Italia abbiamo ritrovati dui Vol gari, l'uno a l'altro
con certi convenevoli con De loIdioma di Romagna, edialcuni
Transpadani,especialmentedelVeneto. P Assiamo ora le frondute spalle de
l'Appen trarj opposto !, de li quali uno tanto femenile ci pare
per la mollizia dei vocaboli e de la p r o nuncia, che un uomo (ancora che
virilmente parli) è tenuto femina. Questo Volgare hanno tutti iRomagnuoli, e
specialmente i Forlivesi, la città de i quali , avegna che novissima sia, non
di meno pare esser posta nel mezzo di tutta la provincia. Questi affermando
dicono Deusci, e facendo carezze sogliono dire oclo meo,e co rada mea.Bene
abbiamo inteso,che alcuni di costoro ne i poemi loro si sono partiti dal suo
proprio parlare,cioèTomaso & Ugolino Buc ciola faentini.L'altro de idue
parlari,che ave mo detto, è talmente di vocaboli & accenti ir suto &
ispido, che per la sua rozza asperità non solamente disconza una donna che
parli, ma ancora fa dubitare, s'ella è uomo. Questo tale hanno tutti quelli che
dicono magara , cioè Bressani, Veronesi , Vicentini , & anco i P a doani, i
quali in tutti i participj in tus,e de nominativi in tas, fanno brutta sincope,
come è merco , e bonté. Con questi ponemo eziandio i Trivigiani , i quali al
modo de i Bressani, e de i suoi vicini proferiscono lo v consonante per f,
removendo l'ultima sillaba, come è nof p e r n o v e , v i f p e r v i v o; il
che veramente è barbarissimo , e riproviamlo . I Veneziani ancora non saranno
degni de l'onore de l'investigato Il testo latino ha : duo .... vulgaria ,
quibusdam convenientiis contrariis alternata. tra i quali abbiamo
veduto uno , che si è sfor zato partire dal suo materno parlare, e ridursi al
Volgare Cortigiano , e questo fu Brandino padoano.Laonde tutti quelli del
presente Ca pitolo comparendo alla sentenzia,determiniamo, che nè ilRomagnuolo
nè ilsuo contrario,come si è detto , nè il Veneziano sia quello Illustre Volgare
che cerchiamo. CA Fa gran discussione del Parlare Bolognese. quello che della
italica selva ci resta.D i cemo adunque,che forse non hanno avuta mala opinione
coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella loquela ragionano ;
conciò sia che da gli Imolesi,Ferraresi eModenesi qualche cosa al loro proprio
parlare aggiungano ; chè tutti, sì come avemo mostrato, pigliano dai loro vicini,
come Sordello dimostra de la sua Mantova , che con Cremona , Bressa e Verona
confina. Il qual uomo fu tanto in eloquenzia , che non solamente ne i poemi , m
a in ciascun modo che parlasse, il Volgare de la sua patria abbandond.Pigliano
ancora iprefati cittadini Volgare ; e se alcun di loro, spinto da errore,
in questo vaneggiasse , ricordisi se mai disse , « Per le plage de Dio tu non
verás » ; Ra ci sforzeremo, per espedirci,a cercare la leggerezza e
la mollizia da gl'Imolesi, e da i Ferraresi e Modenesi una certa loquacità, la
qual è propria de i Lombardi . Questa , per la mescolanza de i Longobardi
forestieri, crediamo essere rimasa ne gli uomini di quei paesi ; e questa è la
ragione, per la quale non ritro viamo che niuno , nè Ferrarese, nè Modenese ,
nè Reggiano,sia stato poeta;perciò che assue fatti a la propria loquacità , non
possono per alcun modo,senza qualche acerbità,alVolgare Cortigiano venire. Il
che molto maggiormente de i Parmigiani è da pensare ; i quali dicono inonto per
molto. Se adunque i Bolognesi da l'una e da l'altra parte pigliano, come è
detto, ragionevole cosa ci pare che il loro parlare , per la mescolanza de gli
oppositi , rimanya di laudabile suavità temperato : il che per giudi zio nostro
senza dubbio esser crediamo.Vero è che se quelli, che prepongono il Volgare S e
r mone de iBolognesi,nel compararli essi hanno considerazione solamente a i
Volgari de le città d'Italia, volentieri ci concordiamo con loro. M a se
stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere da preferire, siamo da essi
differenti e discordi ; perciò che egli non è quello che noi
chiamiamoCortigiano& Illustre;ches'elfosse quello,ilmassimo Guido
Guinizelli,Guido Ghis liero,Fabrizio,& Onesto,& altripoetinon sariano
mai partiti da esso ; perciò che furono dottori illustri , e di piena
intelligenzia ne le cose volgari. « Più non attendo il tuo soccorso,
Amore. » Le quali parole sono in tutto diverse da le pro prie bolognesi. Ora
perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle città che sono poste ne le estremità
d'Italia;e se alcuno pur dubita, non lo stimiamo degno de la nostra soluzione;
però poco ci resta ne la discussione da dire. Laonde disiando di deporre il
crivello , accid che tosto veggiamo quello che in esso è rimaso, dico che
Trento, e Turino,& Alessandria sono città tanto propinque a i termini
d'Italia, che non ponno avere pura loquela ; tal che se così come hanno
bruttissimo Volgare,così l'avessono bellissimo, ancora negherei esso essere
vera mente Italiano , per la mescolanza che ha de gli altri.E però se cerchiamo
ilParlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo non si può in esse città
ritrovare. Il massimo Guido , Fabrizio , «Madonna,ilfermocore.» « Lo mio lontano gire.
» Onesto e pascoli d'Italia, e non avemo
quella pantera , che cerchiamo , trovato ; per potere essa meglio trovare , con
più ragione investi ghiamola ; acciò che quella , che in ogni loco si sente,
& in ogni parte appare ?, con sollecito studio ne le nostre reti totalmente
inviluppia mo. Ripigliando adunque inostri istrumenti da
cacciaredicemo,cheinognigenerazionedicoseè di bisogno che una ve ne sia,con la
quale tutte le cose di quel medesimo genere si abbiano a comparare e ponderare,
e quindi la misura di tutte le altre pigliare.Come nel numero tutte le cose si
hanno a misurare con la unità;e di consi più e meno , secondo che da essa unità
sono più lontane , o più ad essa propinque. E cosi ne i colori tutti si hanno a
misurare col bianco ; e diconsi più e meno visibili, secondo che a lui più
vicini, e da lui più distanti si sono.E sicome diquestichemostrano quan tità e
qualità diciamo, parimente di ciascuno I L'edizione del Corbinelli ha :
redolentem ubique, etnec apparentem.Ilprof.Witte proponedileggere: nec usquam
apparentem . De lo eccellente Parlar Volgare, il quale è comune a tutti
gli Italiani. A poi che avemo cercato per tutti i salti D de i
predicamenti e de la sustancia pensiamo potersi dire; cioè che ogni cosa si può
misu rare in quel genere con quella cosa , che è in esso genere simplicissima.
Laonde ne le nostre azioni, in quantunque specie sidividano,sibi sogna
ritrovare questo segno,col quale esse si abbiano a misurare ; perciò che in
quello che facciamo come simplicemente uomini , avemo la virtù,la quale
generalmente intendemo ?; perciò che secondo essa giudichiamo l'uomo buono e
cattivo;in quello poi che facciamo, come uomini cittadini,avemo la
legge,secondo la quale si dice buono e cattivo cittadino;così in quello , che
come uomini italiani facciamo , avemo le cose simplicissime. Adunque se le
azioni italiane si hanno a misurare e ponde rare con i costumi , e con gli
abiti, e col p a r lare,quelle de leazioni italiane sono simplicissi me,che non
sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono comuni in tutte 2; tra le quali
ora si 2Iltestolatinoha:inquantum uthominesLatini agimus,quædam habemus
simplicissima signa,idest morum,et habituum,etlocutionis,quibus Latino actiones
ponderantur et mensurantur. Quce quidem nobilissimasuntearum,quæ Latinorum
sunt,actio num,hæc nulliuscivitatisItaliæ propria sunt,sed in omnibus communia
sunt: inter que nunc potest di scerni Vulgare.... Il Fraticelli raddrizzò la
traduzione del Trissino a questo modo : in quello che, come uomini Il testo latino ha : virtutem habemus , ut
genera literillas(actiones)intelligamus.Edevetradursi:ab biamo per intenderle
(leazioni)generalmente,lavirtù. può discernere il Volgare,che di
sopra cerca vamo, essere quello,che in ciascuna città ap pare, e che in niuna
riposa 1. Può ben più in una,che in un'altra apparere,come fa la sim plicissima
de le sustanzie, che è Dio , il quale più appare ne l'uomo che ne le bestie , e
che ne le piante, e più in queste che ne le miniere, & in esse più che ne
gli elementi,e più nel foco, che ne laterra.E lasimplicissima quantità,che è
uno,più appare nel numero dispari che nel italiani facciamo , abbiamo certi
segni semplicissimi , cioè de'costumi, degli abiti e del parlare, coi quali le
azioni italiane si hanno a misurare e ponderare.Adun que quelle delle azioni
italiane sono nobilissime , che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma
sono co muni in tutte: tra le quali ora si può discernere il Volgare .... Il
Trissino , in luogo di nobilissime, ha semplicissime;eforselasua
lezioneèlavera.Levoci nobilissima,hæc,propria,communiaedinterquo non possono
riferirsi ad actiones, ma a signa: cosicchè si dovrebbe tradurre segni nobilissimi.
M a il dir segni nobilissimi è, certo, poco conforme al concetto generale del
Capitolo , nel quale l'autore non parla che di semplicis simi segni : e quindi
la traduzione più propria parrebbe dovesse essere la seguente : ora , quelli ,
che sono segni semplicissimi delle azioni degli Italiani , quelli non sonpropri
di nessuna città,ma comuni a tutte:trai
quali....;epiùbrevemente:iqualisegnidelleazioni degli Italiani non son propri
di nessuna città.... 4Vulgare .... quod in qualibet civitate apparet, nec
cubat in ulla. Il Manzoni, citando questo passo nella lettera al Bonghi, da noi
ristampata, traduce più esatta mente : il Volgare, che in ogni città dà sentore
di sè, e non si annida in nessuna. pari; & il simplicissimo
colore,che è ilbianco, più appare nel citrino che nel verde. Adunque ritrovato
quello che cercavamo , dicemo , che il Volgare Illustre, Cardinale, Aulico e
Corti giano in Italia è quello, il quale è di tutte le città italiane, e non
pare che sia di niuna, col quale il Volgare di tutte le città d'Italia si hanno
a misurare, ponderare e comparare. Perchè questo Parlare si chiami Illustre.
Erchè adunque a questo ritrovato Parlare aggiungendo Illustre,Cardinale, Aulico
e Cortigiano, cosi lo chiamiamo, al presente di remo ; per il che più
chiaramente faremo parere quello, che esso è. Primamente adunque d i m o
striamo quello che intendiamo di fare, quando vi aggiungiamo Illustre , e
perchè Illustre il dimandiamo.Per questonoiildicemo Illustre, che illuminante
& illuminato risplende. Et a questo modo nominiamo gli uomini illustri, o
vero perchè illuminati di potenzia sogliono con giustizia e carità gli altri
illuminare, o vero perchè eccellentemente ammaestrati , eccellen temente
ammaestrano, come fe'Seneca e Numa Pompilio ; & il Volgare di cui parliamo
, il quale innalzato di magisterio e di potenzia, innalza i suoi di onore e di
gloria. E ch'el sia da magisterio innalzato, si vede , essendo egli O n
senza ragione esso Volgare Illustre o r niamodisecondagiunta,cioècheCardinale
il chiamiamo, perciò che si come tutto l'uscio seguita il cardine , talchè dove
il cardine si volta, ancor esso (o entro, o fuori che 'l si pie Perchè
questo Parlare si chiami Cardinale , di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante
per plesseconstruzioni,ditante difettivepronunzie, di tanti contadineschi
accenti , cosi egregio , così districato, così perfetto e così civile ri dotto,
come Cino da Pistoja e l'amico suo ne le loro canzoni dimostrano. Che 'l sia
poi esaltato di potenzia, appare : e qual cosa è di maggior potenzia che
quella, che può i cuori de gli u o mini voltare, in modo che faccia colui che
non vole,volere;e colui che vole,non volere, come ha fatto questo, e fa? Che
egli poscia innalzi di onore chi lo possiede , è in pronto : non sogliono i
domestici suoi vincere di fama ire,imarchesi,iconti,etuttiglialtrigrandi? certo
questo non ha bisogno di pruova.Quanto egli faccia poi i suoi famigliari
gloriosi , noi stessi l'abbiamo conosciuto, i quali per la dol cezza di questa
gloria ponemo dopo le spalle il nostro esilio. Adunque meritamente dovemo esso
chiamare Illustre. NA Aulico, e Cortigiano. Il testo latino ha : Est
etiam merito curiale dicen dum , quia curialitas nil aliud est, etc. Il
Fraticelli os serva in questo proposito quanto segue : « La Curia è il
foro,illuogoovesitrattanogliaffaripubblici;ma es ghi)si volge; cosi tutta
la moltitudine de i V o l gari de le città si volge e rivolge, si move e
cessa,secondo che fa questo.Il quale veramente appare esser padre di famiglia;
non cava egli ogni giorno gli spinosi arboscelli della italica selva? non
pianta egli ogni giorno semente o inserisce piante ? che fanno altro gli
agricoli di lei se non che lievano, e pongono, come si è detto ? Il perchè merita
certamente essere di tanto vocabolo ornato.Perchè poi ilnominiamo Aulico,
questa è la cagione : perciò che se noi Italiani avessimo Aula,questi sarebbe
palatino. Se la Aula poi è comune casa di tutto il regno, e sacra gubernatrice
di tutte le parti di esso; convenevole cosa è che ciò che si truova esser
tale,che sia comune a tutti,e proprio di niuno; in essa conversi & abiti;
nè alcuna altra abi tazione è degna di tanto abitatore.Questo ve ramente ci
pare esser quel Volgare, del quale noi parliamo ; e quinci avviene, che quelli
che conversano in tutte le Corti regali , parlano sempre con Volgare Illustre.
E quinci ancora è intervenuto che il nostro Volgare , come fore stiero va
peregrinando , & albergando ne gli umili asili, non avendo noi Aula.Meritamente
ancora sidee chiamare Cortigiano,perciò che la cortigiania ^ niente altro è,che
una pesatura de le cose che si hanno a fare; e conciò sia che la
statera di questa pesatura solamente ne le ec cellentissime Corti esser soglia,
quinci avviene, che tutto quello, che ne le azioni nostre è ben pesato , si
chiama cortigiano. Laonde essendo questo ne la eccellentissima Corte d'Italia p
e sato,merita esser detto Cortigiano.Ma a dire che 'l sia ne la eccellentissima
Corte d'Italia pesato , pare fabuloso , essendo noi privi di Corte ; a la qual
cosa facilmente si risponde. Perciò che avegna che la Corte (secondo che ụnica
si piglia, come quella del re di Alema gna) in Italia non sia,le membra sue
però non cimancano;ecome lemembra diquelladaun principe si uniscono,cosi le
membra di questa dal grazioso lume de la ragione sono unite; e però sarebbe
falso a dire, noi Italiani mancar di Corte quantunque manchiamo di principe ;
perciò che avemo Corte, avegna che la sia cor poralmente dispersa, sendo dal
Trissino tradotto la Corte , viene a prodursi confusione,perchè Corte è
sinonimo di Aula o Reggia, Per l'esattezza del significato converrà rendere la
voce curialitas per curialità : e cosi in appresso per cui curiale le voci curia
e curialis. , e Che i Volgari Italici in uno si riducono , Uesto
Volgare adunque,che essere Illustre, Q Cardinale,Aulico e Cortigiano avemo dimo
strato,dicemo esser quello,che si chiama Vol gare Italiano; perciò che sì come
si può tro vare un Volgare che è proprio di Cremona , così se ne può trovar uno
che è proprio di Lombardia, & un altro che è proprio di tutta la sinistra
parte d'Italia; e come tutti questi si ponno trovare, così parimente si può
trovare quello, che è di tutta Italia. E sì come quello si chiama cremonese e
quell'altro lombardo,e quell'altro di mezza Italia, così questo che è di tutta
Italia si chiama Volgare Italiano.Que sto veramente hanno usato gl’illustri
dottori che in Italia hanno fatto poemi in Lingua Vol gare ; cioè i Siciliani,
i Pugliesi , i Toscani , i Romagnuoli,iLombardi,e quelli delaMarca Trevigiana e
de la Marca d’Ancona. E conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel
principio dell'opera promesso) sia d'insegnare la dottrina de la Eloquenzia
Volgare ; però da esso Volgare Italiano,come da eccellentissimo, cominciando,
tratteremo nei seguenti libri, chi e quello si chiama Italiano.
siano quelli, che pensiamo degni di usare esso, e perchè, e a che modo, e dove,
e quando, & a chi sia esso da dirizzare. Le quali cose chia rite che siano,
avremo cura di chiarire i Vol gari inferiori, di parte in parte scendendo sino
a quello che è d'una famiglia sola. e quali no. del nostro ingegno,e
ritornando al calamo de la utile opera,sopra ogni cosa confessiamo, che 'l sta
bene ad usarsi il Volgare Italiano Illustre così ne la prosa , come nel verso.
M a perciò che quelli che scrivono in prosa,pigliano esso Volgare Illustre
specialmente da i trovatori ; e però quello che è stato trovato 2, rimane un
fermo esempio a le prose,ma non al contrario; per ciò che alcune cose pajono
dare principalità 1 Il Corbinelli e, dietro lui, tutti gli altri hanno poli
citantes,che non ha senso ol'hamoltooscuro;ma forse si deve leggere
sollicitantes. Quali sono quelli che denno usare il Volgare Illustre, P.
Romettendo 1 un'altra volta la diligenzia 2 La voce inventum qui significa
poetato. al verso; adunque secondo che esso è metrico,
versifichiamolo 1, trattandolo con quell'ordine , che nel fine del primo Libro
avemo promesso. Cerchiamo adunque primamente,se tutti quelli che fanno versi volgari,
lo denno usare, o no. Vero è, che cosi superficialmente appare di sì; perciò
che ciascuno che fa versi,dee ornare i suoi versi in quanto 'l può. Laonde non
sendo niuno di sì grande ornamento, com'è il Volgare Illustre, pare che ciascun
versificatore lo debbia usare. Oltre di questo , se quello , che in suo genere
è ottimo, si mescola con lo inferiore, pare che non solamente non gli tolga
nulla, ma che lo faccia migliore.E però se alcun versificatore, ancora che
faccia rozza mente versi,lo mescolerà con la sua rozzezza, non solamente a lei
farà bene, ma appare che così le sia bisogno di fare; perciò che molto è più
bisogno di ajuto a quelli che ponno poco, che a quelli che ponno assai;e così
appare che a tutti i versificatori sia licito di usarlo. M a questo è
falsissimo; perciò che ancora gli eccellentissimi poeti non se ne denno sempre
vestire,come per le cose di sotto trattate si po trà comprendere.Adunque questo
Illustre Vol gare ricerca uomini simili a sé,sì come ancora fanno gli altri
nostri costumi & abiti : la m a gnificenzia grande ricerca uomini potenti ,
la · Il testo latino ha ipsum carminemus, che non vale versifichiamolo, ma
pettiniamolo, rimondiamolo. porpora uomini nobili; così ancor questo
vuole uomini di ingegno e di scienze eccellenti ; e gli altri dispregia, come
per le cose, che poi si diranno, sarà manifesto.Tutto quello adunque, che a noi
si conviene , o per il genere , o per la sua specie, o per lo individuo ci si
convie ne ; come è sentire , ridere , armeggiare ; m a questo a noi non si
conviene per il genere ; perchè sarebbe convenevole anco a le bestie ; ne per
la specie; perchè a tutti gli uomini saria convenevole : di che non c'è alcun
dubbio ; chè niun dice,che'lsiconvenga aimontanari.Ma gli ottimi concetti non
possono essere, se non dove è scienzia,& ingegno; adunque la ottima loquela
non si conviene a chi tratti di cose grossolane ; conviene sì per l'individuo ;
m a nulla a l'individuo conviene se non per le pro prie dignità; come è
mercantare , armeggiare, reggere.E però, selecoseconvenienti risguar dano le
dignità, cioè i degni ; & alcuni possono essere degni, altri più degni,
& altri degnissi mi ;è manifesto,che le cose buone a i degni,le migliori a
i più degni, le ottime a i degnissimi si convengono. E conciò sia che la
loquela non altrimenti sia necessario istromento a i nostri concetti, di quello
che si sia il cavallo al sol dato ; e convenendosi gli ottimi cavalli a gli
ottimi soldati, a gli ottimi concetti (come è detto) la ottima loquela si
converrà. M a gli ottimi concetti non ponno essere,se non dove è scien
zia,& ingegno;adunque laottimaloquelanon si convien se non a
quelli, che hanno scienzia, & ingegno ; e così non à tutti i versificatori
si convien ottima loquela , e consequentemente nè l'ottimo Volgare ; conciò sia
che molti senza scienzia,e senza ingegno facciano versi.E però, se a tutti non
conviene , tutti non denno usa re esso ; perciò che niuno dee far quello , che
non si gli conviene.E dove dice,che ogni uno dee ornare i suoi versi quanto
può,affermiamo esser vero ; m a nè il bove efippito !, nè il porco balteato
chiameremo ornato,anzi fatto brutto, e di loro ci rideremo ; perciò che
l'ornamento non è altro, che uno aggiungere qualche con venevole cosa a la cosa
che si orna. A quello ove si dice, che la cosa superiore con la infe riore
mescolata adduce perfezione, dico esser vero,quando laseparazionenonrimane;come
è , se l'oro fonderemo insieme con l'argento ; ma se la separazione rimane,la
cosa inferiore si fa più vile; come è mescolare belle donne con brutte. Laonde
conciò sia che la senten zia de i versificatori sempre rimanga separata mente
mescolata con le parole, se la non sarà ottima, ad ottimo Volgare accompagnata,
non migliore,ma peggiore apparerà,a guisa di una brutta donna, che sia di seta
o d'oro vestita. Ephipiatum vale insellato , e balteatum vale cin turato
. In qual materia stia bene usare Apoichè avemo dimostrato, che non tutti
il Volgare Illustre. D tissimi denno usare il Volgare Illustre, conse i
versificatori, m a solamente gli eccellen quente cosa è dimostrare poi, se
tutte le m a terie sono da essere trattate in esso , o no ; e se non sono tutte
, veder separatamente quali sono degne di esso. Circa la qual cosa prima è da
trovare quello che noi intendiamo,quando dicemo degna essere quella cosa, che
ha di gnità, si come è nobile quello che ha nobiltà; e così conosciuto lo
abituante , si conosce lo abituato , in quanto abituato di questo ; però
conosciuta la dignità, conosceremo ancora il degno. È adunque la dignità un
effetto, o vero termino de i meriti;perciò che quando uno ha meritato bene ,
dicemo essere pervenuto a la dignità del bene ; e quando ha meritato male , a
quella del male ; cioè quello che ha ben c o m battuto, è pervenuto a la
dignità de la vittoria, e quello che ha ben governato , a quella del regno ; e
così il bugiardo a la dignità de la vergogna , & il ladrone a quella de la
morte. Ma conciò sia che in quelli, che meritano bene, si facciano comparazioni
, e cosi ne gli altri, perchè alcuni meritano bene,altri meglio,altri
ottimamente , & alcuni meritano male , altri
peggio,altripessimamente;e conciò ancora sia, che tali comparazioni non si
facciano , se non avendo rispetto al termine de imeriti, il qual termine (come
è detto) si dimanda dignità, manifesta cosa è,che parimente le dignità hanno
comparazione tra sè,secondoilpiù& ilmeno; cioè che alcune sono grandi ,
altre maggiori , altre grandissime ; e consequentemente alcuna cosa è degna ,
altra più degna , altra degnis sima ; e conciò sia che la comparazione de le
dignità non si faccia circa il medesimo objetto, ma circa diversi, perchè
dicemo più degno quello che è degno di una cosa più grande, e degnissimo quello
che è degno d'una altra cosa grandissima ; perciò che niuno può essere di una
stessa cosa più degno ; manifesto è che le cose ottime (secondo che porta il
dovere) sono de le ottime degne.Laonde essendo questo Vol gare (che dicemo
Illustre) ottimo sopra tutti gli altri volgari,consequente cosa è,che solamente
le ottime materie siano degne di essere trat tateinesso;ma
qualisisianopoiquellema terie,che chiamiamo degnissime,è buono al presente
investigarle.Per chiarezza de le quali cose è da sapere, che si come ne l'uomo
sono tre anime , cioè la vegetabile , la animale e la razionale, cosi esso per
tre sentieri cammina ; perciò che secondo che ha l'anima vegetabile,
cerca,quello che è utile, in che partecipa con le piante ; secondo che ha l'animale
, cerca , quello, che
è dilettevole, in che partecipa con le bestie; e secondo che ha la razionale ,
cer ca l'onesto, in che è solo, o vero a la natura angelica s'accompagna ; tal
che tutto quel che facciamo, par che si faccia per queste tre cose. E perchè in
ciascuna di esse tre sono alcune cose , che sono più grandi , & altre
grandissi me ;per la qual ragione quelle cose, che sono grandissime, sono da
essere grandissimamente trattate , e consequentemente col grandissimo
Volgare;ma è da disputare quali si siano que ste cose grandissime. E primamente
in quello, che è utile; nel quale, se accortamente consi deriamo la intenzione
di tutti quelli, che cer cano la utilità, niuna altra troveremo , che la
salute. Secondariamente in quello, che è dilet tevole; nel quale dicemo quello
essere massi mamente dilettevole, che per il preciosissimo objetto de
l'appetito diletta; e questi sono i piaceridiVenere.Nel terzo,cheèl'onesto,
niun dubita essere la virtù. Il perchè appare queste tre cose,cioè la
salute,ipiaceridi Ve nere, e la virtù essere quelle tre grandissime materie ,
che si denno grandissimamente trat tare, cioè quelle cose, che a queste
grandissime sono ; come è la gagliardezza de l'armi , l'ar denzia de l'amore, e
la regola de la volontà. Circa le quali tre cose sole (se ben risguar diamo)
troveremo gli uomini illustri aver vol garmente cantato ; cioè Beltramo di
Bornio le armi ; Arnaldo Danielo lo amore ; Gerardo de Bornello la
rettitudine ; Cino da Pistoia lo a m o re; lo amico suo la rettitudine.
Beltramo adunque dice, « Non puesc mudar q'un chantar non esparja. » Arnaldo ,
« Laura amara fa 'ls broils blancutz clarzir. » Gerardo , N o n trovo poi , che
niun Italiano abbia fin qui cantato de l'armi. Vedute adunque queste cose (che
avemo detto), sarà manifesto quello , che sia nel Volgare Altissimo da cantare.
In qual modo di rime si debba usare R a ci sforzeremo sollicitamente d'investi
0 gareilmodo,colqualedebbiamo stringere quelle materie , che sono degne di
tanto V o l gare.Volendo adunque dare ilmodo, col quale , « Per solatz revelhar Que s'es trop
endormitz.» « Degno son io,che mora.» « Doglia mi reca nelo cuore ardire. » il
Volgare Altissimo. Cino , Lo amico suo, queste degne materie si debbiano
legare ; primo dicemo doversi a la memoria ridurre,che quelli, che hanno
scritto Poemi volgari,hanno essi per molti modi mandati fuori ; cioè alcuni per
C a n zoni, altri per Ballate , altri per Sonetti, altri per alcuni altri
illegittimi & irregolari modi , Come di sotto simostrerà. Di questi modi
adun que il modo de le Canzoni essere eccellentissi m o giudichiamo ; là onde
se lo eccellentissimo è delo eccellentissimo degno, come di sopra è provato,le
materie che sono degne de lo eccel lentissimo Volgare, sono parimente degne de
lo eccellentissimo modo,e consequentemente sono da trattare ne le Canzoni;e che
'l modo de le Canzoni poi sia tale, come si è detto , si può per molte ragioni
investigare.E prima,essendo Canzone tutto quello che si scrive in versi, &
essendo a le Canzoni sole tal vocabolo attri buito, certo non senza antiqua
prerogativa è processo. Appresso , quello che per sè stesso adempie tutto
quello per che egli è fatto, pare esser più nobile, che quello che ha bisogno
di cose che sieno fuori di sè ; m a le Canzoni fanno per sè stesse tutto quello
che denno ; il che le Ballate non fanno,perciò che hanno bisogno di
sonatori,aliqualisonofatte;adunque séguita, che le Canzoni siano da essere
stimate più n o bili de le Ballate, e consequentemente il modo loro essere
sopra gli altri nobilissimo , conciò sia che niun dubiti, che il modo de le
Ballate non sia più nobile di quello de i Sonetti. A p , presso
pare , che quelle cose siano più nobili, che arrecano più onore a quelli che le
hanno fatte; e le Canzoni arrecano più onore a quelli che le hanno fatte, che
non fanno le Ballate ; adunque sono di esse più nobili, e consequen temente il
modo loro è nobilissimo. Oltre di questo, le cose che sono nobilissime, molto
ca ramente si conservano ; m a tra le cose cantate, le Canzoni sono molto
caramente conservate , come appare a coloro che vedeno ilibri; adun que le
Canzoni sono nobilissime,e consequen temente ilmodo loro è nobilissimo.Appresso,
ne le cose artificiali quello è nobilissimo che comprende tutta l'arte ;
essendo adunque le cose,che si cantano, artificiali, e ne le Canzoni sole
comprendendosi tutta l'arte , le Canzoni sononobilissime,ecosìilmodo loroènobi
lissimo sopra gli altri.Che tutta l'arte poi sia ne le Canzoni compresa,in
questo simanifesta, che tutto quello che si truova de l'arte, è in esse,ma non
si converte 1. Questo segno adun que di ciò che dicemo , è nel cospetto di ogni
uno pronto ; perciò che tutto quello che da la cima de le teste de gli illustri
poeti è disceso a le loro labbra,solamente ne le Canzoni si ri truova . E però
al proposito è manifesto , che quelle cose che sono degne di Altissimo V o l
gare, si denno trattare ne le Canzoni. Sed non convertitur.Più chiaro di non si
converte sarebbe però non e converso,ovvero non al contrario. De la varietà de
lo stile secondo la qualità de la poesia.
L'adpotiavimusdellatinononvaleavemoapprovato, ma abbiamo dato a bere.Il
Fraticelli propone che si tra duca per traslato : abbiamo dato un saggio.
A poi che avemo districando approvato 1 co , e che materie siano degne di esso
, e parimente il modo, il quale facemo degno di tanto onore, che solo a lo
Altissimo Volgare si con venga; prima che noi andiamo ad altro, di chiariamo il
modo delle ca nzoni, le quali pajono da molti più tosto per caso che per arte
usur parsi. E manifestiamo il magisterio di quel l'arte , il quale fin qui è
stato casualmente preso, lasciando da parte il modo deleBallate e de i Sonetti
; per ciò che esso intendemo dilu cidare nel quarto Libro di quest'opera
nostra, quando del Volgare Mediocre tratteremo. R i veggendo adunque le cose
che avemo detto , ci ricordiamo avere spesse volte quelli , che fanno versi
volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio ragionevolmente avemo avuto
ardimento di dire ; per ciò che sono certamente poeti , se drittamente la
poesia consideriamo ; la quale non è altro che una finzione rettorica , e po
sta in musica.Non di meno sono differenti da i , grandi poeti, cioè da i
regulati; per ciò che quelli 1 hanno usato sermone & arte regulata, e
questi (come si è detto) hanno ogni cosa a caso ; il perchè avviene , che
quanto più stret tamente imitiamo quelli 2,tanto più drittamente componiamo ; e
però noi , che volemo porre ne le opere nostre qualche dottrina, ci bisogna le
loro poetiche dottrine imitare. Adunque s o pra ogni cosa dicemo, che ciascuno
debbia pi gliare il peso de la materia eguale a le proprie spalle, a ciò che la
virtù di esse dal troppo peso gravata , non lo sforzi a cadere nel fango.
Questo è quello , che il maestro nostro Orazio comanda,quando nel principio
dela sua Poe tica dice , « Voi , che scrivete versi , abbiate cura Di tor
subjetto al valor vostro eguale.» Dapoinelecose,che cioccorrono + Il testo
latino ha isti:quindi non quelli,ma questi; e per conseguenza nella riga seguente
non questi, ma quelli. Sarebbe più chiaro dire i primi in luogo di
quelli. devemo usare divisione , considerando da cantarsi con modo
tragico,o comico, o ele giaco. Per la Tragedia prendemo lo stile s u
periore,per la Commedia lo inferiore, per l'E dei miseri. Se le cose che ci oc
legia quello cantate col correno , pare che siano da essere modo tragico,
allora è da pigliare il Volgare Illustre, e conseguentemente da legare la Can a
dire , se sono 1 Il testo latino ha : tensis fidibus adsumat secure
plectrum ; che deve essere tradotto : tese le corde , a s suma francamente
ilplettro. zone ; m a se sono da cantarsi con cómico , si piglia alcuna
volta ilVolgare Mediocre, ed al cuna volta l'Umile ; la divisione de i quali
nel quarto di quest'opera ci riserviamo a mostra re. Se poi con elegiaco ,
bisogna che solamente pigliamo l'Umile.M a lasciamo gli altri da parte, &
ora (come è il dovere) trattiamo de lo stile tragico. Appare certamente , che
noi usiamo lo stile tragico , quando e la gravità de le sen tenzie , e la
superbia de i versi , e la elevazione de le construzioni,e la eccellenzia de
ivocaboli si concordano insieme. M a perchè (se ben ci ricordiamo) già è
provato, che le cose somme sono degne de le somme , e questo stile che
chiamiamo tragico, par e essere il sommo dei stili; però quelle cose che avemo
già distinte doversi sommamente cantare , sono da essere in questo solo stile
cantate ; cioè la salute , lo amore e la virtù , e quelle altre cose , che per
cagion di esse sono ne la mente nostra conce pute , pur che per niun accidente
non siano fatte vili. Guardişi adunque ciascuno , e di scerna quello che dicemo
; e quando vuole que ste tre cose puramente cantare , o vero quelle che ad esse
tre dirittamente e puramente se gueno , prima bevendo nel fonte di Elicona ,
ponga sicuramente a l'accordata lira il sommo plettro 1,e costumatamente
cominci.Ma a fare questa Canzone e questa divisione come si dee ,
qui è la difficultà, qui è la fatica; per ciò che mai senza acume d'ingegno, nè
senza assiduità d'arte , nè senza abito di scienze non si potrà fare. E questi
sono quelli che 'l Poeta nel VI de la Eneide chiama diletti da Dio, e da la ar
dente virtù alzati al cielo, e figliuoli de gli Dei , avegna che figuratamente
parli. E pero si confessa la sciocchezza di coloro , i quali senza arte,e senza
scienzia,confidandosi solamente del loro ingegno, si pongono a cantar som
mamente le cose somme.Adunque cessino que sti tali da tanta loro presunzione ;
e se per la loro naturale desidia sono oche , non vogliano l'aquila,che altamente
vola, imitare sentenzie a bastanza, o almeno tutto quello che a l'opera nostra
si richiede ; il perchè ci affretteremo di andare a la superbia dei versi.
Circa i quali è da sapere , che i nostri pre cessori hanno ne le loro Canzoni
usato varie sorti di versi, il che fanno parimente imoder ni ; m a in fin qui
niuno verso ritroviamo , che abbia oltre la undecima sillaba trapassato, nè
sotto la terza disceso. Et avegna che i Poeti , De lacomposizionedeiversi
e de la loro varietà sillabica. Noi pare di aver detto de la gravità de le
A Italiani abbiano usate tutte le sorti di versi, che sono da tre
sillabe fino a undici , non di meno il verso di cinque sillabe, e quello di
sette , e quello di undeci sono in uso più fre quente ; e dopo loro si usa il
trisillabo più de gli altri ; de gli quali tutti quello di undeci sillabe pare
essere il superiore sì di occupa zione di tempo , come di capacità di sentenzie
, di construzioni e di vocaboli ; la bellezza de le quali cose tutte si
moltiplica in esso , come manifestamente appare , per ciò che ovunque sono
moltiplicate le cose che pesano , si molti plica parimente il peso.E questo
pare che tutti i dottori abbiano conosciuto , avendo le loro illustri Canzoni
principiate da esso ; come G e rardo di Bornello , « Ara auzirez encabalitz
cantars.» Il qual verso avegna che paja di dieci silla be,è però,secondo la
verità de la cosa, di undeci ; per ciò che le due ultime consonanti non sono de
la sillaba precedente.Et avegna che non abbiano propria vocale, non perdono
peròlavirtùdelasillaba;& ilsegnoè,che ivi la rima si fornisce con una
vocale ; il che essere non può se non per virtù de l'altra che ivi si
sottintende. Il re di Navara , «De finamor sivient sen e bonté.» Ove se si
considera l'accento e la sua cagione, apparirà essere endecasillabo. , «Amor,che longiamente m'hai menato.» «Per
finamore vo silietamente.» « Amor , che muovi tua virtù dal cielo.» «Al
cor gentil ripara sempre amore.» 11 Giudice di Colonna da Messina , Guido
Guinicelli , Rinaldo d'Aquino , «Non spero che giammai per mia salute.» Et
avegna che questo verso endecasillalo (co me
sièdetto)siasopratuttiperildoverece leberrimo, non di meno se'l piglierà una cer
ta compagnia de lo eptasillabo , pur che esso però tenga il principato, più
chiaramente e più altamente parerà insuperbirsi, ma questo si rimanga più oltra
a dilucidarsi. Così diciamo che l’eptasillabo segue a presso quello che è
massimo ne la celebrità. Dopo questo quello che chiamiamo pentasillabo,e poi il
trisillabo ordiniamo.Ma quel di nove sillabe, per essere il trisillabo
triplicato, o vero mai non fu in onore, o vero per il fastidio è uscito di uso.
Quelli poi di sillabe pari , per la sua rozzezza non usiamo se non rare volte ;
per ciò che ri tengono la natura de i loro numeri ,i quali s e m Cino da
Pistoja , Lo amico suo : Erchè circa il Volgare Illustre la nostra
nobilissimo ; però avendo scelte le cose che sono degne di cantarsi in esso ,
le quali sono quelle tre nobilissime che di sopra avemo pro vate; & avendo
ad esse eletto il modo de le Canzoni , si come superiore a tutti gli altri modi
, & a ciò che esso modo di Canzoni pos siamo più perfettamente insegnare,
avendo già alcune cose preparate, cioèlostile,& iversi; ora de la
construzione diremo. È adunque da sapere, che noi chiamiamo construzione una
regulata composizione di parole, come è, Ari stotile diè opera a la filosofia
nel tempo di Alessandro. Qui sono diece parole poste regu latamente insieme, e
fanno una construzione. pre soggiaceno a i numeri caffi, sì come fa la
materia a la forma. E cosi raccogliendo le cose dette, appare lo endecasillabo
essere su perbissimo verso ; e questo è quello che noi cercavamo. Ora ci resta
di investigare de le construzioni elevate e de i vocaboli alti, e fi nalmente ,
preparate le legne e le funi , inse gneremo a che modo il predetto fascio ,
cioè la Canzone , si debba legare. De le construzioni, che si denno usare ne le
Canzoni. P si M a circa questa prima è da considerare , che de le
construzioni altra è congrua , & altra è incongrua.E
perchè(seilprincipiodelano stra divisione bene ciricordiamo)noi cerchiamo
solamente le cose supreme , la incongrua in questa nostra investigazione non ha
loco ; per ciò che ella tiene il grado inferiore de la bontà. Avergogninsi
adunque , avergogninsi gli idioti di avere da qui innanzi tanta audacia, che v
a dano aleCanzoni;de iquali non altrimenti so lemo riderci, di quello che si
farebbe d'un cieco,ilqualedistinguesseicolori1.È adun que la construzione
congrua quella che cerchia mo.Ma ci accade un'altra divisione 2 di non minore
difficultà , avanti che parliamo di quella construzione,che cerchiamo,cioè di
quella che è pienissima di urbanità ; e questa divisione e , che molti sono i
gradi de le construzioni , cioè lo insipido , il quale è de le persone grosse ,
come è, Piero ama molto madonna Berta. Ecci il semplicemente saporito, il quale
è de i scolari rigidi, o vero de i maestri, come è, Di
tuttiimiserim'incresce;ma homaggiorpietà di coloro , i quali in esiglio
affliggendosi, r i vedeno solamente in sogno le patrie loro. Ecci ancora il
saporito e venusto , il quale è di alcuni , che così di sopra via pigliano la R
e t torica,come è,La lodevole discrezione del Meglio, forse, ragionasse o
giudicasse di colori. 2 Meglio distinzione (discretio). «Nuls hom non pot complir adreitamen.» Amerigo
di Peculiano , «Si com’l'arbres,que per sobrecarcar.» ' Præparata qui ha il
senso di preveniente. « Si per mon Sobretot no fos.» Il re di Navara , «
T a m m'abelis l'amoros pensamens. » Arnaldo Daniello , marchese da Este,e la
sua preparata 1 magni ficenzia fa esso a tutti essere diletto. Ecci a p presso
il saporito e venusto , ed ancora eccelso, ilqualeèdeidettatiillustri,come è,Avendo
Totila mandato fuori del tuo seno grandissima parte de i fiori, o Fiorenza ,
tardo in Sicilia , e indarno se n'andd. Questo grado di constru zione chiamiamo
eccellentissimo , e questo è quello che noi cerchiamo, investigando (come si è
detto ) le cose supreme . E di questo sola mente le illustri Canzoni si trovano
conteste, come : Gerardo , « Dreit amor qu'en mon cor repaire.» Folchetto di
Marsiglia , « Sols sui qui sai lo sobrafan, que m sorts.» Amerigo de
Belimi, « Tegno di folle impresa a lo ver dire.» « Avegna ch'io non
aggia più per tempo.» « Amor , che ne la mente mi ragiona.» N o n ti
maravigliare , lettore , che io abbia tanti autori a la memoria ridotti ; per
ciò che non possemo giudicare quella construzione, che noi chiamiamo suprema ,
se non per simili esempj. E forse utilissima cosa sarebbe per abituar quella ,
aver veduto i regulati poeti , cioè Virgilio , la Metamorfosi di Ovidio ,
Stazio e Lucano , e quelli ancora che hanno usato al tissime prose ; come è
Tullio , Livio , Plinio , Frontino , Paolo Orosio , e molti altri , i quali la
nostra amica solitudine ci invita a vedere. Cessino adunque i seguaci de la
ignoranzia , che estolleno Guittone d'Arezzo , & alcuni al tri, i quali
sogliono alcune volte 1 ne i vocaboli e ne le construzioni essere simili a la
plebe. Nunquam invocabulisatqueconstructionedesuetos plebescere.Non dunque
alcune volte,ma sempre. , Guido Cavalcanti , « Poi che di doglia cor convien ,
ch'io porti.» > Guido Guinizelli , Cino da Pistoja, Lo amico suo, 1
dere ricerca , che siano dichiarati quelli vocaboli grandi , che sono
degni di stare sotto l'altissimo stile. Cominciando adunque , affir miamo non
essere piccola difficultà de lo intel letto a fare la divisione dei vocaboli ;
per cið che vedemo , che se ne possono di molte m a niere trovare.De i vocaboli
adunque alcuni sono puerili, altri feminili, & altri virili, e di questi
alcuni silvestri,& alcuni cittadineschi chiamia m o 1,& alcuni
pettinati, e lubrici; alcuni irsuti e rabuffati conosciamo ; tra i quali i
pettinati e gl’irsuti sono quelli che chiamiamo grandi ; i lubrici poi e i
rabuffati sono quelli la cui riso nel metro volgare. A successiva
provincia del nostro proce. Quali vocaboli si debbano porre e quali no
1IlCorbinelliha:ethorum quædam silvestria,quæ dam urbania:eteorum,quo urbana
vocamus,quo dam pesaethirsuta,quædam lubricaetreburrasenti
mus.LatraduzionedelTrissinovaraddrizzatacosi:edi questi alcuni silvestri,e
alcuni cittadineschi;e di quelli che chiamiamo cittadineschi , alcuni pettinati
e irsuti, alcuni lubricierabbuffati. Altrihanno invece:quædam pexaetlubrica, quædam
hirsutaetreburra:cioèal cunipettinati e lubrici (ossia scorrenti),alcuni irsuti
e rabbuffati. , nanzia è superflua; per ciò che si come ne le grandi opere
alcune sono opere di magnanimità, altre di fumo , ne le quali avvenga che così
di sopra via paja un certo ascendere,a chi però con buona ragione esse
considera, non ascendere, m a più tosto ruina per alti precipizj essere g i u
dicherà ; con ciò sia che la limitata linea de la virtù si trapassi. Guarda
adunque , lettore , quanto per scegliere le egregie parole ti sia bisogno di
crivellare; per ciò che se tu consi deri il Volgare Illustre, il quale i Poeti
Vol gari , che noi vogliamo ammaestrare , denno (come di sopra si è detto)
tragicamente usare , averai cura , che solamente i nobilissimi v o c a boli nel
tuo crivello rimangano. Nel numero dei quali ne i puerili per la loro
simplicità , com'è mamma e babbo,mate epate,per niun modo potrai collocare; nè
anco i feminili, per la loro mollezza, come è dolciada e placevole; nè i
contadineschi per la loro austerità, come è gregia e gli altri ; nè i
cittadineschi , che siano lubrici e rabuffati, come è femine e corpo, vi si
denno porre. Solamente adunque i citta dineschi pettinati & irsuti vedrai
che ti resti no , i quali sono nobilissimi , e sono membra del Volgare
Illustre. E noi chiamiamo pettinati quelli vocaboli, che sono trisillabi , o
vero v i cinissimi al trisillabo , e che sono senza aspi razione , senza
accento acuto , o vero circum flesso, senza z nè a duplici, senza gemina zione
di due liquide , e senza posizione , in cui
·Qucecampsarenonpossumus,cioèchenonsipos sono scansare. la muta sia immediatamente posposta, e che
fanno colui che parla quasi con certa soavità rimanere, come è amore , donna ,
disio, virtute, donare, letizia, salute, securitate, difesa. Ir sute poi
dicemno tutte quelle parole , che oltra queste sono o necessarie al parlare
illustre, ornative di esso. E necessarie chiamiamo quel le che non possiamo
cambiare 1; come sono al cune monosillabe, cioèsi,vo,me,te,se,a,e,i,
0,u;eleinterjezioni,& altremolte.Ornative poi dicemo tutte quelle di molte
sillabe, le quali mescolate con le pettinate fanno una bella armonia ne la
struttura , quantunque abbiano asperità di aspirazioni , di accento , e di d u
plici , e di liquide , e di lunghezza , come è terra , onore , speranza ,
gravitate, alleviato , impossibilitate, benavventuratissimo, avventu
ratissimamente, disavventuratissimamente, sovramagnificentissimamente, il quale
vocabolo è endecasillabo.Potrebbesi ancora trovare un vocabolo , o vero parola
, di più sillabe , m a perchè egli passerebbe la capacità di tutti i nostri
versi , però a la presente ragione non pare opportuno ; come è
onorificabilitudinitate, il quale in volgare per dodeci sillabe si compie ;
& in grammatica per tredeci , in dui obliqui però.In che modo poi le
pettinate siano da es sere ne i versi con queste irsute armonizate,
lascieremo ad insegnarsi di sotto.E questo che si è detto de l'altezza dei
vocaboli, ad ogni gentil discrezione 1 sarà bastante. Ra preparate le legne e
le funi, è tempo da legare il fascio; ma perchè la cogni zione di ciascuna
opera dee precedere a la ope razione,laquale ècome segno avanti iltrarre de la
sagitta,ovvero del dardo;però prima,e principalmente veggiamo qual sia questo
fascio, che volemo legare. Questo fascio adunque bene ci ricordiamo tutte le
cose trattate) è la Canzone;eperòveggiamochecosasiaCanzone, e che cosa
intendemo quando dicemo Canzone. La Canzone dunque,secondo la vera significa
zione del suo nome, è essa azione o vero pas sione del cantare; sì come la
lezione è la pas sione o vero azione del leggere ; m a dichiariamo quello che
si è detto, cioè, se questa si chiama Canzone, in quanto ella sia azione o in
quanto passione del cantare. Circa la qual cosa è da considerare, che la
Canzone si può prendere in dui modi , l'uno de li quali modi è , secondo
"Ingenuce discretioni,cioè ad ogni non viziato di scernimento . ,
Che cosa è Canzone, e che in più maniere può variarsi. o tuono , o
nota, o melodia. E niuno trombetta , o organista, o citaredo chia m a il canto
suo Canzone , se non in quanto siaaccompagnatoaqualcheCanzone;ma quelli che
compongono parole armonizate , chiamano le opere sue Canzoni.Et ancora che tali
pa role siano scritte in carte e senza niuno che le proferisca, si chiamano
Canzoni ; e però non pare che la Canzone sia altro , che una c o m che ella è fabbricata dal suo autore ; e così
è azione ; e secondo questo modo Virgilio nel primo de l'Eneida dice , « lo canto
l'arme e l'uomo.» L'altro modo è, secondo il quale ella da poi che è fabbricata
si proferisce, o da lo autore, o da chi che sia,o con suono,osenza,ecosì è
passione. E perchè allora da altri è fatta, & ora in altri fa, e così
allora azione, & ora passione essere si vede.Ma conciò sia che essa è prima
fatta,e poi faccia;pero più tosto,anzi al tutto par che si debbia nominare da
quello che ella è fatta, e da quello che ella è azione di alcuno,che da quello
che ella faccia in altri. Et il segno di questo è, che noi non dicemo mai ,
questa Canzone è di Pietro perchè esso la proferisca, m a perchè esso l'abbia
fatta. O l tre di questo è da vedere, se si dice Canzone la fabbricazione de le
parole armonizate, o vero essa modulazione, o canto ; a che dicemo , che m a i
il canto n o n si c h i a m a Canzone , ma 0 suono, piuta azione
di colui, che detta parole a r m o nizate,& atte al canto. Laonde così le
Canzo ni,che ora trattiamo,come le Ballate e Sonetti, e tutte le parole a
qualunque modo armoni zate, o volgarmente , o regulatamente, dicemo essere
Canzoni ; m a perciò che solamente trat tiamo le cose volgari,però lasciando le
regulate da parte,dicemo,che dei poemi volgari uno ce n'èsupremo, il quale persopraeccellenziachia
miamo Canzone; « Donne,che avete intelletto di amore.» E così è manifesto che
cosa sia Canzone,e se condo che generalmente si prende , e secondo che per
sopraeccellenzia la chiamiamo . Et a s sai ancora pare manifesto che cosa noi
inten demo,quandodicemoCanzone;e consequente Meglio forse,quiealtrove,un
collegamento (conjugatio). , che
la Canzone sia una cosa suprema, nel terzo Capitolo di questo Libro è
provato;ma conciò sia che questo,che è dif finito , paja generale a molti ,
però risumendo detto vocabolo generale,che già è diffinito,di stinguiamo per
certe differenzie quello che so lamente cerchiamo.Dicemo adunque che la Canzone,la
quale noi cerchiamo,in quanto che per sopraeccellenzia è detta Canzone , è una
con giugazione 1 tragica di Stanzie equali senza risponsorio , che tendono ad
una sentenzia , come noi dimostriamo quando dicemmo 2
2Iltestolatinoha:utnosostendimus,cum diximus. mente qual sia quel
fascio,che vogliamo legare. Noi poi dicemo, che ella è una tragica congiu
gazione ; perciò che quando tal congiugazione si fa comicamente , allora la
chiamiamo per diminuzione cantilena , de la quale nel quarto Libro di questo
avemo in animo di trattare. Stanzie,e non sapendosi che cosa sia Stan zia,
segue di necessità, che non si sappia a n cora che cosa sia Canzone ; perciò
che de la cognizione de le cose, che diffiniscono , resul ta ancora la
cognizione de la cosa diffinita, e però consequentemente è da trattare de la
Stanzia, accio che investighiamo, che cosa essa si sia, e quello che per essa
volemo intendere. Ora circa questo è da sapere, che tale voca bolo è stato per
rispetto de l'arte sola ritro vato ; cioè perchè quello si dica Stanzia , nel
quale tutta l'arte de la Canzone è contenuta, e q u e s t a è l a Stanzia capace
, o v e r o il r e c e t t a c o l o di tutta l'arte; perciò che sì come la
Canzone è il grembo di tutta la sentenzia,così la Stan zia riceve in grembo
tutta l'arte; nè è lecito di arrogere alcuna cosa di arte a le Stanzie s e
quenti ; m a solamente si vestono de l'arte de la. Quali siano le principali
parti de la Canzone, e che la Stanzia n'è la parte principalissima. Ssendo la
Canzone una congiugazione di prima : il perchè è manifesto, che
essa Stanzia (de la qual parliamo ) sarà un termine , o vero una compagine di
tutte quelle cose , che la Canzone riceve da l'arte;le quali dichiarite, il
descrivere che cerchiamo,sarà manifesto.Tutta l'arte adunque de la Canzone
pare, che circa tre cose consista , de le quali la prima è circa la divisione
del canto , l'altra circa la abitu dine1deleparti,laterzacircailnumero dei
versi e de le sillabe; de le rime poi non face mo menzione alcuna;perciò che
non sono de la propria arte de la Canzone.È lecito certamente in cadauna
Stanzia innovare le rime, e quelle medesime a suo piacere replicare ; il che ,
se la rima fosse di propria arte de la Canzone , le cito non sarebbe.E se pur
accade qualche cosa de le rime servare, l'arte di questo ivi si con
tiene,quando diremo de la abitudine de le parti. Il perchè così possiamo
raccogliere da le cose predette, e diffinire, dicendo , la Stanzia è una
compagine 2 diversi e di sillabe, sotto un certo canto, e sotto una certa
abitudine limitata. 2 Il testo latino ha : limitatam compaginem . , La voce abitudine, qui e altrove, significa
propor zione, disposizione. S ne
la Canzone. Che sia il canto de la Stanzia , e che la Stanzia si varia in
parecchi modi Apendo poi che l'animale razionale è uomo, e che s e n s i b i l
e è l ' a n i m a , & il c o r p o è a n i male ; e non sapendo che cosa si
sia quest'a nima, nè questo corpo,non possemo avere per
fettacognizionedel'uomo;perciòchelaperfetta cognizione di ciascuna cosa termina
ne gli ul timi elementi , sì come il maestro di coloro che sanno, nel principio
de la sua Fisica affer ma.Adunque peraverelacognizionedelaCan zone,che
desideriamo,consideriamo al presente sotto brevità quelle cose,che diffiniscano
il dif finiente di lei; e prima del canto,da poi de la abitudine,e poscia de i
versi e de le sillabe in vestighiamo.Dicemo adunque,che ogni Stanzia è
armonizata a ricever una certa oda , o vero canto; ma pajono esser fatte in
modo diverso, che alcune sotto una oda continua fino a l’ul timo procedeno,
cioè senza replicazione di al cuna modulazione, e senza divisione;e dicemo
divisione quella cosa, che fa voltare di un'oda in un'altra;la quale quando
parliamo col vul go,chiamiamo Volta.E questeStanziediun'oda sola
Arnaldo Daniello usò quasi in tutte le sue Canzoni; e noi avemo esso seguitato
quando dicemo , · Il testo ha syrma, che è quanto dire strascico. « Al
poco giorno,& al gran cerchio d'ombra.» Alcune Stanzie sono poi, che
patiscono divi sione. E questa divisione non può essere nel modo che la
chiamiamo, se non si fa replica zione di una oda o davanti la divisione, o da
poi, o da tutte due le parti, cioè davanti e da poi. E se la repetizion de
l'oda si fa avanti la divisione, dicemo, che la Stanzia ha piedi ; la quale ne
dee aver dui ; avegna che qualche volta se ne facciano tre, ma molto di rado.Se
poi essa repetizion di oda si fa dopo la divi sione, dicemo la Stanzia aver
versi. M a se la repetizione non si fa avanti la divisione,di cemo la Stanzia
aver fronte; e se essa non si fa da poi,la dicemo aver sirima ?,o vero coda.
Guarda adunque , lettore , quanta licenzia sia data a li poeti che fanno
Canzoni ; e considera per che cagione la usanza si abbia assunto si largo
arbitrio ; e se la ragione ti guiderà per dritto calle , vederai , per la sola
dignità de l'autorità essergli stato questo,che dicemo con cesso.Di qui adunque
può essere assai mani festo a che modo l'arte de le Canzoni consista circa la
divisione del canto ; è però andiamo a la abitudine de le parti.e de la
distinzione de'versi che sono da porsi nel componimento. tudine,sia grandissima
parte di quello,che è de l'arte ; perciò che essa circa la divisione del canto,
e circa il contesto dei versi, e circa la relazione de le rime consiste ; il
perchè a p pare, che sia da essere diligentissimamente trat tata.Dicemo
adunque,che la fronte coi Versi 1, & i piedi con la sirima, o vero coda , e
pari mente i piedi co i Versi possono diversamente ne la Stanzia ritrovarsi ;
perciò che alcuna fia ta la fronte eccede i Versi, o vero può ecce dere di
sillabe e di numero di versi; e dico può, perciò che mai tale abitudine non
avemo veduta. Alcune fiate la fronte può avanzare i Versi nel numero de i
versi, & essere da essi Versi nel numero de le sillabe avanzata;come 1 Il
Trissino tradusse con la stessa voce verso tanto il carmen che da Dante fu
usato nel significato proprio e comune di verso, quanto il versus che fu invece
usato da lui per indicare una data parte della stanza,che consta d'un certo
numero di versi. Per togliere ogni equivoco noi stamperemo in corsivo e con
l'iniziale maiuscola la parola Verso quando corrisponde al latino versus.
77 De la abitudine de la Stanzia, del numero de ipiedi e de le sillabe, noi
pare, che questa che chiamiamo abi , se la fronte fosse di cinque versi , e
ciascuno dei Versi fosse di due versi , & i versi de la fronte fosseno di
sette sillabe,e quelli de i Versi fosseno di undeci sillabe. Alcuna altra volta
i Versi avanzano la fronte di numero di versi e di sillabe come in quella che
noi dicemmo , Ove la fronte di quattro versi fu di tre ende casillabi e di uno
eptasillabo contesta:la quale non si può dividere in piedi; conciò sia che i
piedi vogliano essere fra sè equali di numero di versi, e di numero di
sillabe,come vogliono essere frà sè ancora i Versi. M a siccome dice mo , che i
Versi avanzano di numero di versi e di sillabe la fronte , così si può dire ,
che la fronte in tutte due queste cose può avanzare i Versi ; come quando
ciascuno de i Versi fosse di due versi eptasillabi, e la fronte fosse di cinque
versi ; cioè di due endecasillabi e di tre eptasillabi contesta. Alcune volte
poi i piedi avanzano la sirima di versi e di sillabe, come in quella che
dicemmo , Et alcuna volta i piedi sono in tutto da la si rima avanzati ; come
in quella che dicemmo , « Donna pietosa, e di novella etate.» E si come
dicemmo, che la fronte può vincere di versi, & essere vinta di sillabe,
& al con « Traggemi de la mente amor la stiva. » « Amor,che movi tua
virtù dal cielo.» trario ; così dicemo la sirima. I piedi ancora
ponno di numero avanzare i Versi, & essere da essi avanzati ;perciò che ne
la Stanzia pos sono essere tre piedi e dui Versi, e dui piedi e tre Versi; nè
questo numero è limitato, che non si possano più piedi e più Versi tessere
insieme. E siccome avemo detto ne le altre cose de lo avanzare de i versi e de
le sillabe , così dei piedi e dei Versi dicemo , i quali nel medesimo modo
possono vincere,& essere vinti. Nè è da lasciare da parte, che noi pigliamo
i piedi al contrario di quello che fanno i Poeti regulati; perciò che essi
fanno il verso de i piedi, e noi dicemo farsi i piedi di versi, come assai
chiaramente appare. Nè è da lasciare da parte , che di nuovo non affermiamo ,
che i piedi di necessità pigliano l'uno da l'altro la abitudine & equalità
di versi e di sillabe , p e r ciò che altramente non si potrebbe fare repeti
zione di canto. E questo medesimo affermiamo doversi servare nei Versi.De la
qualità de i versi, che ne la Stanzia si pongono, e del numero de le sillabe ne
i versi. Cci ancora (come di sopra si è detto) una certa abitudine , la quale
quando tessemo iversi devemo considerare;ma acciò che di E , quella con
ragione trattiamo,repetiamo quello che di sopra avemo detto de i versi; cioè
che ne l'uso nostro par che abbia prerogativa di essere frequentato lo
endecasillabo, lo eptasil labo, & il pentasillabo ; e questi sopra gli
altri doversi seguitare affermiamo. Di questi adun que,quando volemo far poemi
tragici,lo ende casillabo, per una certa eccellenzia che ha nel contessere,
merita privilegio di vincere; e però alcune Stanzie sono che di soli
endecasillabi sono conteste, come quella di Guido da Fio renza , « Donna mi
prega , perch'io voglio dire. » «Donne,cheaveteintellettodiamore.» Questo
ancora li Spagnuoli hanno usato , e dico li Spagnuoli che hanno fatto poemi nel
volgare Oc. Amerigo de Belmi , « Nuls h o m non pot complir adreitamen . »
Altre Stanzie sono, ne le quali uno solo epta sillabo sitesse;e questo non può
essere,se non ove è fronte, o ver sirima, perciò che (co me
sièdetto)neipiedieneiVersisiri cerca equalità di versi e di sillabe. Il perchè
a n c o r a a p p a r e , c h e il n u m e r o d i s p a r o d e i v e r s i
non può essere se non fronte o coda ; ben chè in esse a suo piacere si può
usare paro , o disparo numero deiversi.E così come al Et ancora noi
dicemo : cuna Stanzia è di uno solo eptasillabo formata , così
appare,che con dui,tre,o quattro si possa formare; pur che nel tragico vinca lo
endecasillabo,e da esso endecasillabo si co minci.Benchè avemo
ritrovatialcuni,chenel tragico hanno da lo eptasillabo cominciato , cioè Guido
de iGhislieri,e Fabrizio Bolognesi, Et alcuni altri.Ma se al senso di queste
Can zoni vorremo sottilmente intrare, apparerà tale tragedia non procedere
senza qualche ombra di elegia. Del pentasillabo poi non concedemo a questo modo
; perciò che in un dettato grande basta in tutta la Stanzia inserirvi
un pentasil labo, ovver dui al più ne i piedi; e dico ne i piedi, per la
necessità !, con la quale i piedi & i V e r s i si c a n t a n o ; m a b e
n n o n p a r e c h e n e l t r a gico si deggia prendere il trisillabo, che
per sè stia;e dico,che per sè stia;perciò che per una certa repercussione di
rime pare, che frequen ' Propter necessitatem,qua pedibusque versibusque
cantatur ; per la necessità che nei piedi e nei Versi si deve cantare.
(Fraticelli.) E, E, 1 « Di fermo sofferire, » «Donna,lofermocuore,» « Lo
mio lontano gire. » temente si usi ; come si può vedere in quella
Canzone di Guido fiorentino, « Donna mi prega , perch'io voglio dire, » «
Poscia che amor del tutto m 'ha lasciato. » Nè ivi è per sè in tutto ilverso,ma
è parte de lo endecasillabo, che solamente a la rima del precedente verso a
guisa di Eco risponde. E quinci tu puoi assai sufficientemente conoscere, o
lettore,come tu dei disponere, o vero abituare la Stanzia ; perciò che la
abitudine pare che sia da considerare circa i versi. E questo ancora
principalmente è da curare circa la disposizione de i versi : che se uno
eptasillabo si inserisce nel primo piede,che quel medesimo loco,che ivi piglia
per suo , dee ancora pigliare ne l'altro; verbigrazia , se 'l piè di tre versi
ha il primo & ultimo verso endecasillabo,e quel di mezzo, cioè il secondo,
eptasillabo, così il secondo piè dee avere gli estremi endecasillabi, & il
mezzo eptasillabo ; perciò che altrimenti stando , non si potrebbe fare la
geminazione del canto,per usodelqualesifannoipiedi,come sièdetto;e
consequentemente non potrebbono essere piedi. E quello che io dico de i piedi,
dico parimente de i Versi; perciò che in niuna cosa vedemo i piedi essere
differenti da i Versi,se non nel sito; perciò che ipiedi avanti ladivisione
della Stan zia,ma i Versi dopo essa divisione si pongono. , Et in quella
che noi dicemmo : De la relazione de le rime , e con qual ordine ne la Stanzia
si denno porre. T dealcuna cosa al presente non trattando però de la essenzia
loro ; perciò che il proprio trat tato di esse riserbiamo , quando de i mediocri
poemi diremo.Ma nel principio di questo Ca pitolo ci pare di chiarire alcune
cose di esse; de le quali una è, che sono alcune Stanzie, ne le quali non si
guarda a niuna abitudine di rime , e tali Stanzie ha usato frequentissima mente
Arnaldo Daniello,come ivi, « Si m fos amors de joi donar tan larga? » E noi
dicemo, L'altra cosa è che alcune Stanzie hanno tutti i versi di una medesima
rima , ne le quali è superfluo cercare abitudine alcuna ; e così resta che
circa le rime mescolate solamente debbia mo insistere;in che e da sapere,che
quasi Et ancora sì come si dee fare ne i piedi di tre versi , così dico
doversi fare in tutti gli altri piedi. E quello che si è detto di uno endeca
sillabo , dicemo parimente di dui e di più , e del pentasillabo, e di ciascun
altro verso. «Alpocogiorno,& algrancerchiod'ombra.» 'Iltestolatinoha:quisuasmultasetbonas Can
tiones nobis ore tenus intimavit. Il Fraticelli traduce : ci canto a voce ,
ossia ci canto improvvisando. tutti iPoeti si hanno in cið grandissima
licen zia tolta;conciò sia che quinci la dolcezza de l'armonia massimamente
risulta.Sono adun que alcuni, i quali in una istessa Stanzia non accordano
tutte le desinenzie de i versi ; m a alcune di esse ne le altre Stanzie
repetiscono , overamenteaccordano;come fuGottoman tuano, il quale fin qui ci ha
molte sue buone Canzoni intimato 1. Costui sempre tesseva ne la Stanzia un
verso scompagnato , il quale essò nominavaChiave.E come diuno,cosìèlecito di
dui e forse di più. Alcuni altri poi sono, e quasi tutti i trovatori di Canzoni
, che ne la Stanzia mai non lasciano alcun verso scompa gnato, al quale la
consonanzia di una o di più rime non risponda. Alcuni poscia fanno le rime de i
versi, che sono avanti la divisione, diverse da quelle dei' versi, che sono d o
p o e s s a ; & altri non lo fanno; ma le desinenzie de la pri ma parte de
la Stanzia ancor ne la seconda in seriscono.Non di meno questo spessissime
volte si fa, che con l'ultimo verso de la prima parte, il primo de la seconda
parte ne le desinenzie s'accorda ; il che non pare essere altro , che una certa
bella concatenazione di essa Stanzia. La abitudine poi de le rime,che sono ne
la fronte e ne la sirima,è sì ampla, che 'l pare che ogni atta
licenzia sia da concedere a ciascuno , m a non di meno le desinenzie de gli
ultimi versi sono bellissime, se in rime accordate si chiudeno; il che però è
da schifare ne i piedi, ne i quali ritroviamo essersi una certa abitudine
servata ; la quale dividendo dicemo, che il primo piè di versi pari, o dispari
, si fa ; e l'uno e l'altro può essere di desinenzie accompagnate,o scom
pagnate ; il che nel pie diversi pari non è dubbio ; m a se alcuno dubitasse in
quello di dispari, ricordisi di ciò che avemo detto nel Capitolo di sopra del
trisillabo,quando essendo parte de lo endecasillabo , come Eco risponde. E se
la desinenzia de la rima in un de i piedi è sola, bisogna al tutto
accompagnarla ne l'al tro;ma seinun piedeciascuna delerimeè accompagnata, si
può ne l'altro o quelle ripe tere, o farne di nuove,o tutte,o parte,se condo
che a l'uom piace,pur che in tutto si servi l'ordine del precedente :
verbigrazia , se nel primo piè di tre versi le ultime desinenzie s'accordano
con le prime, così bisogna accor darvisi quelle del secondo ; e se quella di
mezzo nelprimo pièèaccompagnata,oscompagnata; così parimente sia quella di
mezzo nel secondo piè; e questo è da fare parimente in tutte le altre sorti di
piedi. Ne i Versi ancora quasi sempre è a serbare questa legge; e quasi s e m
pre dico, perciò che per la prenominata con catenazione,e per la predetta
geminazione de le ultime desinenzie,ale volte accade il detto or 8
+ Il testo latino ha : cum in isto libro nil ulterius de r i t h i m o r u m
doctrina t a n g e r e i n t e n d a m u s . E si d o v r e b b e tradurre :
che in questo libro non vogliamo parlar pivo della dottrina delle rime. 2 Nel
Corbinelli questo ultimo capitolo è diviso in due . Il decimoterzo finisce con
le parole : tanta sufficiant. (a bastanzasarà.);e il decimoquartocominciaconleparole:
, dine mutarsi. Oltre di questo ci pare conve nevol cosa aggiungere a questo
Capitolo quelle cose, che ne le rime si denno schifare ; conciò sia che in
questo libro non vogliamo altro, che quello che si dirà de la dottrina de le
rime toccare 1. Adunque sono tre cose, che circa la posizione di rime non si
denno frequentare da chi compone illustri poemi ; l'una è la troppa repetizione
di una rima,salvo che qualche cosa nuova ed intentata de l'arte ciò non si as
suma ; come il giorno de la nascente milizia, il quale si sdegna lasciare
passare la sua gior nata senza alcuna prerogativa. Questo pare che noi abbiamo
fatto ivi, « Amor,tu vedi ben,che questa donna;» la seconda è la inutile
equivocazione, la qual sempre pare che toglia qualche cosa a la sen tenzia ; e
la terza è l'asperità de le rime, salvo che le non siano con le molli
mescolate; per ciò che per la mescolanza de le rime aspere e
delemollilatragediaricevesplendore.E que sto de l'arte, quanto a l'abitudine si
ricerca, a bastanza sarà 2.Avendo quello che è de l'arte ' Il testo
latino ha : discretionem facere, che qui vale trattare partitamente. de
la Canzone assai sufficientemente trattato , ora tratteremo del terzo , cioè
del numero de i versi e de le sillabe. E prima alcune cose ci bisognano vedere
secondo tutta la Stanzia, & altre sono da dividere, le quali poi secondo le
parti loro vederemo.A noi adunque prima s'ap partiene fare separazione 1 di
quelle cose, che ci occorrono da cantare ; perciò che alcune Stanzie amano la
lunghezza, & altre no ; con ciò sia che tutte le cose che cantiamo, o circa
il destro o circa il sinistro si canta ; cioè che alcuna volta accade suadendo
, alcuna volta dissuadendo cantare, & alcuna volta allegran dosi , alcuna
volta con ironia, alcuna volta in laude, & altra in vituperio dire. E però
le p a role , che sono circa le cose sinistre , vadano sempre con fretta verso
la fine, le altre poi con longhezza condecente vadano passo passo verso
l'estremo Ex quo quo sunt artis.... (Avendo quello che è de l'arte .... ); ed
ha il titolo seguente : De numero car minum et syllabarum in Stantia.(Del
numero dei versi e delle sillabe nella Stanzia.)Alighieri. Keywords: lingua del si,
la divina implicitura, lasciate ogne [sic] speranza voi ch’entrate, inferno –
section on ‘divina commedia’ in philosophical dictionaries. ‘inferno’
catabasis, -- la catabasis d’Enea di Virgilio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alighieri” –
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Aliotta (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Aliotta; he has
philosophised on most things I’m interested in: ‘la guerra eterna’ is a bit of
a hyperbole if you go by a principle of helpfulness, but that’s Aliotta! – He
has focused on Lucrezio, which is fine – But he has also studied ‘colloquenza
romana’ systematically – and more into the Italian rather than Roman idiom, he
has explored Galileo (not the father, thouh: “Some like Galileo Galiei, but
Vincenzo Galilei is MY man); he is also like me a ‘philosophical psychologist,’
along the lines of Stout and Wundt, that is – he as given proper due to the
idea of ‘esperienza’ – unlike Oakeshott, who abuses of the notion! – and
indeed, others see his attachment to ‘esperienza’ as an ‘ism’ (lo
sperimentalismo). He has also discussed
the semiotics of Vico, and the idea of life-form, following Witters (‘cricket
come forme di vita’). And he has explored one intriguing idea, that the
so-called ‘meaning’ of life (‘il significato del mondo,’ actually) is that of
‘sacrificio’ which is very fine with me – but then it would, since I like
‘Another country’ – the ‘sacrifice’ -- He Antonio Aliotta (n. Palermo), filosofo.
Fu componente dell'Accademia Nazionale dei Lincei, nonché dell'Accademia
Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti. Fondò la
rivista internazionale di filosofia Logos e fu autore di una decina di
monografie. Allievo di Felice Tocco e
Francesco De Sarlo, fu influenzato molto dalla concezione della conoscenza
scientifica del secondo, che si rifaceva alle teorie di Franz Brentano. Nel primo periodo della sua vita, Aliotta si
interessò in particolar modo alla psicologia sperimentale come ricercatore,
mentre in un secondo periodo, approssimativamente dal 1944, rivolse il suo
interesse alla filosofia e all'epistemologia.
Tra i suoi allievi vi furono Nicola Abbagnano, Paolo Filiasi Carcano,
Cleto Carbonara, Renato Lazzarini, Giuseppe Martano, Alberto Marzi, Nicola
Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Luigi Stefanini, anche se la sua indole
non dogmatica e aperta "a diverse culture e suggestioni" non diede
luogo alla formazione di una vera e propria scuola riferibile al suo nome, ma
incoraggiò i suoi allievi a indirizzarsi su percorsi culturali autonomi,
emancipandosi dall'egemonia esercitata dal neoidealismo di Benedetto Croce e di
Giovanni Gentile. Al suo magistero può
essere associato anche la figura dello psicanalista Cesare Musatti, che si
indirizzò allo studio della psicologia dopo aver assistito alle lezioni
sull'argomento tenute da Aliotta all'Padova nell'anno accademico 1915-16. Il 19 febbraio 1951 divenne socio
dell'Accademia delle scienze di Torino.
A lui è intitolato il dipartimento di filosofia dell'Università degli
studi di Napoli "Federico II".
Pensiero Psicologia Nella sua prima fase, prettamente psicologica, agli
inizi del nuovo secolo, Aliotta afferma che i fatti psichici non possono essere
quantificati come avviene con i fatti fisici esistenti e misurabili, in quanto
i fatti psichici sono elementi costitutivi della coscienza. La psicologia,
perciò, essendo una scienza empirica che studia i fatti psichici interni al
soggetto, avrebbe dovuto servirsi del metodo dell'introspezione, riferendosi a
formulazioni matematiche al solo scopo simbolico. La filosofia La particolare concezione della
conoscenza dell'autore, intesa né come esistente in sé, né come iscritta nel
processo dialettico del pensiero, lo allontanò sia dalle posizioni positiviste
che da quelle neoidealiste. Nelle sue
opere emerge una visione contraria all'idealismo: né Hegel, nemmeno Fichte, né
tanto meno Schelling col loro proposito di racchiudere tutta la realtà nel
pensiero, sebbene con sfumature diverse, soddisfano Aliotta, che invece
paragona il pensiero a un processo vivente, costruito da tanti centri
individuali tesi verso una armonia, continuatrice dei fenomeni dell'universo.
Aliotta si sofferma sulla coordinazione delle conoscenze, sulle intese fra le
persone, sulla sintesi della scienza e soprattutto sulla ricerca filosofica a
cui assegna il compito particolare di supervisione dei campi di conoscenza con
il fine di limitarne i dissidi e di ampliare, il più possibile, il punto di
vista delle scienze particolari. Aliotta afferma che l'unico metodo che
consente la ricerca della verità sia l'esperimento; la verità stessa non è
assoluta e unica ma prevede vari livelli, i superiori dei quali sfruttano e
inglobano quelli inferiori. La ricerca filosofica possiede, secondo l'autore,
un formidabile strumento di indagine e di verifica che si chiama
"storia". In alcuni scritti
successivi ("Il sacrificio come significato del mondo",1947),
pubblicati nel secondo dopoguerra, Aliotta sembra avvicinarsi a un modello di
pensiero a metà strada tra il pragmatismo e lo spiritualismo, nel quale mette
in rilievo l'esperienza morale e il sacrificio, considerato come l'esempio di
realizzazione più elevato, sia per l'individuo sia per la collettività. L'affermarsi dello sperimentalismo produce in
Aliotta una serrata critica all'astratto intellettualismo nonché apre la strada
alla ricezione di studi avanzati sulla cosiddetta 'filosofia scientifica', in
un panorama di reazione idealistica contro la scienza e di graduale
affermazione in Italia di scienze come la sociologia (Guglielmo Rinzivillo,
Antonio Aliotta. L'idea scientifica dello sperimentalismo in Una epistemologia
senza storia, Roma, Nuova Cultura, 197 e sg.
978-88-6812-222-5). Opere
principali “Platone”, “Aristotele”; “Lucrezio”; “Epitteto”. La reazione idealistica
contro la scienza; La guerra eterna e il dramma dell'esistenza; L'estetica di
Kant e degli idealisti romantici; Il sacrificio come significato del mondo; Il
relativismo dell'idealismo e la teoria di Einstein”; “Evoluzionismo e
spiritualismo”; “Il problema di Dio e il nuovo pluralismo”; “Le origini
dell'irrazionalismo contemporaneo”; “Pensatori tedeschi della prima metà
dell'Ottocento”; “Critica dell'esistenzialismo”; “L'estetica di Croce e la
crisi dell'idealismo italiano”; “Il nuovo positivismo e lo sperimentalismo”; “Cinquant'anni
di relatività” (Edizioni Giuntine e Sansoni Editore). Note
Vedi S. Belardinelli, in Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti in . Sergio Belardinelli,
«ALIOTTA, Antonio» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34
(1988) Antonio ALIOTTA, su
accademiadellescienze. 9 luglio . Nicola
Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1995235, voce
"Aliotta". Nicola Abbagnano,
Dizionario di filosofia, Torino, Utet, 1995236, voce "Aliotta". Michele Federico Sciacca , Lo sperimentalismo
di A. Aliotta, Napoli, 1951. Nicola Abbagnano Antonio Aliotta, in "Rivista
di Filosofia", 1964, 55, 442–448.
Adriana Dentone, Il problema morale e religioso in Aliotta, Napoli, 1972.
Luciano Mecacci, Antonio Aliotta, in: Guido Cimino, Nino Dazzi , La psicologia
in Italia: i protagonisti e i problemi scientifici, filosofici e istituzionali:
Milano, LED, 1998, 391–402. «ALIOTTA,
Antonio» Enciclopedia ItalianaII Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani, 1948. Sergio Belardinelli, «ALIOTTA, Antonio» in Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1988. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una
pagina dedicata a Antonio Aliotta Collabora a Wikiquote Citazionio su Antonio
Aliotta Antonio Aliotta, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Antonio Aliotta, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Antonio Aliotta, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Aliotta,
. Opere di Antonio Aliotta consultabili
nell'Archivio di Storia della Psicologia, su
archiviodistoria.psicologia1.uniroma1. 16 dicembre 12 luglio Filosofia Filosofo del XX
secoloAccademici italiani Professore1881 1964 18 gennaio 1º febbraio Palermo
NapoliAccademici dei LinceiProfessori dell'Università degli Studi di Napoli
Federico IIMembri dell'Accademia delle Scienze di Torino. Antonio Aliotta.
Aliotta. Keywords: l’implicatura di Lucrezio, sacrificare, significare,
sacrificare, guerra eternal. aliotta — l’implicatura di lucrezio — il
filosofo di campagna — la guerra eterna — sacrificare/significare — croce — il
latinismo dello storicismo — galilei — vico – epicureismo campano -- Refs.: Luigi Speranza, Grice ed Aliotta” – The Swimming-Pool
Library.
allegretti: Grice: “I love Alegretti; very Italian; imagine: after
tutoring for a while on dialettica at Firenze,, he retires to Villa Allegretti,
Rimini, where he philosophises ‘De propositionibus’ (sulle enunciate) as part
of the Dialettica!” Grice: “He was so
proud of the meetings at his villa that he called it ‘our Parnassus’!” Grice:
“Allegretti’s idea of the villa meetings was modeled after Plato who, with
fewer means, met at the gym in theVIlla Echademo!” -- – cf. Raffaello, “Il
Parnaso.” -- Stemma della famiglia Allegretti Coa fam ITA allegretti Blasonatura
cuore d'oro su campo azzurr. Noto per aver fondato, secondo alcuni storici, la
prima accademia letteraria d'Italia. Fu
figlio di Leonardo Allegretti, giudice a Forlì, di parte guelfa. Apparteneva ad
un'antica e cavalleresca famiglia, il cui capostipite fu Mazzone Allegretti (o
Mazzonius Alegrettus), che nel 1095 prese parte alla prima crociata in Terra
Santa e per “arma” scelse un “cuore d'oro su campo azzurro”. Lesse filosofia a Bologna, logica e filosofia a Firenze. Fonda la prima accademia con un gruppo di
intellettuali: Francesco dei Conti di Calbolo, Azzo e Nerio Orgogliosi,
Giovanni de' Sigismondi, Andrea Speranzi, Rinaldo Arfendi, Valerio Morandi,
Giovanni Aldrobandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti. Per motivi
politici, gli Ordelaffi, signori di Forlì ghibellini, imposero il confino a
Giacomo e al fratello Giovanni. Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato
dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degli Ordelaffi, fu nuovamente
costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una nuova Accademia, l'Accademia dei
Filergiti, con vocazione insieme letteraria e scientifica. La sua prosapia si estinse per linea maschile
ma s'innestò negli Aspini mediante una Margherita di Francesco Allegretti, che
sposò un Lodovico, che fu erede degli averi e del cognome degli Allegretti. Si
trova il seguito di questa famiglia nel senese e nel modenese (a
Ravarino). Note Fonte: F. Valenti, Dizionario Biografico
degli Italiani, riferimenti in . Opere Nel XIV secolo, la sua opera principale
era considerata il “Bucolicon”. Ma
scrisse anche: un epicedio per la morte
di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un carme al Conte di Virtù; un
carme per la "divisa della tortora"; Eglogae, in lingua latina; un
carme sulla "bissa milanese", cioè lo stemma dei Visconti, il biscione. Giorgio Viviano Marchesi, Memorie storiche
dell'antica, ed insigne Accademia de' Filergiti della città di Forlì ...,
Forlì, per Antonio Barbiani, 1741. Paolo Bonoli, Storia di Forlì scritta da
Paolo Bonoli distinta in dodici libri corretta ed arricchita di nuove
addizioni, 2 voll., Forlì, Luigi Bordandini, Filippo Valenti, ALLEGRETTI,
Giacomo, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1960. Opere di Giacomo Allegretti, Filosofi. ALLEGRETTI,
Giacomo. - Nacque, presumibilmente, a Ravenna, da Leonardo Allegretti,
appartenente a famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli
immediatamente precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr.
Massera, p. 156) che nel 1357 leggesse filosofia nello Studio bolognese; certo,
nel 1358-59 fu lettore di dialettica e di filosofia a Firenze, dove rimase
almeno fino al 1365.Benché se ne perdano poi le tracce, è indubbio che si
trovava da qualche tempo a Forlì quando, nel 1376, fu colpito, nella sua qualità
di guelfo, dal bando di Sinibaldo Ordelaffi. Ma la fama di dottrina in diverse
materie -filosofia, astrologia, medicina -che lo circondava, era tale che egli
fu ben presto richiamato alla corte forlivese, dalla quale, però, dovette di
nuovo fuggire nel novembre del 1384 per aver rivelato, nella sua qualità di
astrologo, ma senza essere creduto, la congiura che Pino e Cecco Ordelaffi
stavano tramando contro Sinibaldo, loro zio. L'A. si rifugiò a Rimini, dove fu
precettore del giovane Carlo Malatesta, allora succeduto al padre Galeotto (m.
21 genn. 1385), e medico presso la corte. A Rimini l'A. possedette una villa,
luogo di raccoglimento, di studio e, forse, di dotti convegni, cui si
compiaceva di dare il nome di Parnaso; donde la notizia, tratta dagli Annali
forlivesi di Pietro Ravennate, secondo cui l'A. "Arimini novum constituit
Parnasum",notizia ripetuta ed elaborata poi da vari scrittori nel senso,
del tutto fantastico, che egli fondasse già allora una vera e propria
Accademia. Negli ultimi anni della sua vita ebbe rapporti abbastanza stretti
con la corte viscontea. Morì a Rimini nel 1393. L'A. godette di non
piccola fama presso i contemporanei. Citato, come astrologo, nel terzo trattato
del De fato et fortuna di Coluccio Salutati, fu in diretta corrispondenza col
Salutati medesimo, di cui si ha una lettera a lui con unito un lungo carme
latino (Epistolario,I, pp. 279-288), e con Antonio Loschi, del quale si
conservano due epistole metriche (ed. in Massera, pp. 193-203) a lui
dirette. Fatta eccezione per un problematico trattato in prosa De
propositionibus,attribuitogli da L. Cobelli (sec. XVI) nelle sue Cronache
forlivesi (Bologna 1874, p. 21), tutte le opere dell'A. di cui si ha notizia si
riferiscono alla sua attività di poeta latino. Ci rimangono: un lungo carme
(317 esametri) a sfondo mitologico-pastorale intitolato Falterona,pieno di
contorte allegorie politiche (Venezia, Bibl. Marciana, cod. lat.cl. XIV, 12);
un componimento a carattere araldico-encomiastico dedicato a Gian Galeazzo
Visconti (edito da F. Novati nel 1904 in appendice allo studio Il Petrarca ed i
Visconti in F. Petrarca e la Lombardia,Milano 1904, pp. 82-84); un Epitaphium
inonore di Galeotto Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana, cod. P 256);un carme
Ad Ludovicum Ungariae inclitissimum Regem (Venezia, Bibl. Marciana, cod.
lat.cl. XIV, 12). La sua fama, però, era legata soprattutto ad un'opera ora
perduta, il Bucolicon,che Flavio Biondo, nella sua Italia illustrata (Basilea
1559, p. 347), giudicava seconda soltanto alle Bucoliche di Virgilio e che il
Massera (pp. 182-188) ha tentato con buoni argomenti di identificare in una
raccolta di egloghe di maniera stampata nel sec. XVII e attribuita in un primo
tempo ad Albertino Mussato. All'A., infine, come opinò il Sabbadini, andrebbero
attribuiti i cosiddetti Endecasyllabi di Gallo, che egli avrebbe, secondo la
tradizione, scoperti a Forlì nel 1372, ma che, invece, molto probabilmente
contraffece, credendo erroneamente che quell'antico poeta fosse nativo di
Forlì. Fonti e Bibl.: Epistolario di Coluccio Salutati,a cura di F.
Novati, I, Roma 1891, in Fonti per la storia d'Italia,XV, pp. 41, 279, 281,
282; III, ibid. 1896, ibid.,XVII, pp. 536, 538; IV, 1,ibid. 1905, ibid.,XVIII,
pp. 14, 230; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV
e XV,Firenze 1905, p. 179; E. Carrara, La Poesia pastorale,Milano 1919, p. 142;
A. F. Massera, Iacopo Allegretti da Forlì,in Atti e memorie d. R. Deput. di
storia patria per le prov. di Romagna,s.4, XVI (1925-26), pp. 137-203; L.
Thorndike, A history of magic and experimental science,III, New York 1934, pp.
515-517; L. Bertalot, L'antologia di epigrammi di Lorenzo Abstemio nelle tre
edizioni sonciniane,in Miscellanea Mercati,IV, Città del Vaticano 1946, p. 311.
La stessa origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che
gli scrittori fanno fondare negli ultimi decenni del se colo xiv a Iacopo
Allegretti da Mantova, uomo versato cosi nella medicina e nell'astrologia come
nelle lettere.Anche in questo caso la più antica affermazione in proposito non
risale a nostra notizia al di là della seconda metà del secolo XVII.Uno storico
di Forli, Paolo Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì?al
l'anno 1369 dice: « Strepitava ancora di Forlivesi la fama di G i a como
Allegretti, Filosofo, Medico, Poeta et Astrologo; compose anch'egli la
Bucolica, che doppo quella di Virgilio non vede forse ilmondo
lapiùbella;traletenebre dell'antichità,manifestó molte compositioni del nostro
C. Gallo,e in Rimini,ove poi ricovrossi, per schivar l'ira degli Ordelaffi,
erresse una fioritissima Accade mia.».La notizia passa indi nel proemio delle
Leggi vecchie,di stinte in XII Tavole, dell'antica Accademia de'Filergiti della
città di Forlì e nuovi ordini-sopra essa Accademia, stampate nel 1663, aggiungendovisi
però oltre l'Accademia riminese anche un'Acca demia in Forli,che sarebbe pure
stata fondata dall'Allegretti,e che più tardi, organizzatasi, divenne
l'Accademia dei Filergiti. «G i a como Allegretti – vi si dice – Filosofo e
poeta illustre, trecento anni or sono,non si contentò di esercitare in Forli
sua patria vir. tuose sessioni, che ancora in Rimino, dove sbandito ricovrossi,
er gette una nuova Accademia ».3 Queste parole furono ripetute tali e quali da
G. Garuffi Malatesta nel L'Italia Accademica 4; però nella parte ancora inedita
di quest'opera che giace nella Gamba lunghiana, e dove si tratta appunto in
particolare delle Accademie | Francisci Petrarcae Epistolae de Rebus
Familiaribus et Variae, curate da GIUSEPPE FRACASSETTI.Volume III.Firenze 1863,
p.39. 2 Forli, 1661 ; p. 168. 3 In Memorie storiche dell'antica ed insigne
Accademia de'Filergiti della città di Forlì già citate:a p.338-340.
4Rimini,1088;p.116. 136 Ma anche qui,come
dicevamo,sitrattadiunabbaglio.Aspet tando che maggior luce venga data in
proposito in quella vita del l’Allegretti,che il Novati ha promesso da
parecchio tempo,4 basterà notare che a base delle notizie circa queste due
Accademie stanno leseguentiparoledegliAnnalesForolivienses5:«Anno Domini 1372
tempore Ecclesiae Arces in his civitatibus factae sunt: B o noniae, Imolae,
Faventiae et Forolivii. Iacobus Allegrettus Forli viensis poeta clarus
agnoscitur, qui plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit
et Arimini novum constituit Par Quest'ultima parola fu interpretata senz'altro
per Ac cademia, a cui, come al solito,furono ascritti i personaggi princi pali
del tempo,perfino il Petrarca, come abbiamo visto. | Cfr.La Coltura letteraria
e scientifica in Rimini lal secolo XIV ai pri. mordi del XIX di Carlo
Tonini.Vol.I,Rimini 1881,p.70. 20.c.p.9sgg.;cfr.anchedelmedesimo:VitaeVirorum
Illustrium Foroliviensium.Forli 1726,p.237. 3 Cfr.Della vita e delle opere di
Antonio Urceo detto Codro di Carlo MALAGOLA.Bologna 1878,a p.163. 4
Cfr.Epistolario di Coluccio Salutati per cura di FRANCESCO Novati, Vol.I,Roma
1892,p.279,nota 1. 5 Rerum Italicarum Scriptores.Tomo XXII.Milano
1733,col.188. 137 di Rimini, egli dice di più che l'Accademia fondata
dall'Allegretti in Rimini si radunava in una sala del palazzo Malatesta,
adornata dei ritratti dei poeti ed oratori più celebri del tempo,e che vi era
ascritto anche il Petrarca.1 Il già citato Marchesi dal canto suo circa
l'Accademia fondata dall'Allegretti in Forli dice che costui « lasciata da
parte la se verità degli studi astronomici,medici e filosofici, ne'quali aveva
spesi con molta gloria isuoi giorni,finalmente l'anno 1370,rac colti in una
degna Assemblea gl'intelletti più perspicaci,fece la memorabile
fondazione,benchè senza nome particolare,regolamento ed impresa, invenzioni
delle succedute età, ma col solo generico d ' A c c a d e m i a . F u r o n o i
s u o i c o l l e g h i, o p i u t t o s t o d i s c e p o l i F r a n c e s c
o dei Conti di Calbolo,Azzo e Nerio Orgogliosi,Giovanni de'Sigi s m o n d i, A
n d r e a S p e r a n z i , R i n a l d o A r s e n d i , V a l e r i o M o r a
n d i , G i o vanni Aldobrandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti, tutti
illustri per sangue, ed assai più per l'affetto che professavano per le belle
arti.Per le frequenti sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli
ammaestramenti e saggi dati dal Fondatore, s'avanzarono molto iprimi Accademici
colla coltivazione della poesia,sopra ogni altra scienza da essi tenuta in
pregio ».? Esiliato poi l'Allegretti daForli,l'Accademiaandòdispersa,eleraunanze
vennero riprese solo nel secolo xv per opera di Antonio Urceo.3 18 nasum
>> DELLA TORRE Orbene si osservi che l'Allegretti fu in
Rimini maestro di Carlo Malatesta '; e qual cosa più naturale che assieme al
Malatesta si trovassero altri giovani delle principali famiglie Riminesi ?
Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di umanità e non già per
Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su riferiti. Quanto poi
all'Accademia di Forli, come osserva giustamente ilTiraboschi,?severamentefosseesistita,loscrittoredegli
An nales Forolivienses che nota il Parnasum aperto dall'Allegretti in Rimini,
avrebbe a tanto maggior ragione notata un'Accademia. fondata in Forli, le cui
vicende appunto egli si propone di nar rare;ed invece nulla.Come alsolito,gli
scrittoridicose forlivesi, che, interpretando Parnasum per Accademia credevano
che l'Alle gretti avesse fondata appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che
l'Allegretti era stato anche a Forli,gliene fecero fondare sen z'altro una
anche in Forli,ascrivendovi come al solito quanti in quel tempo vi erano di
uomini insigni per ingegno e per cultura. E con questa mania, sempre nel secolo
Xvir, si andò tanto oltre, che si raggrupparono insieme perfino gli architetti
del duomo di Milano per farne un'Accademia;laqualesarebbe cominciata verso
l'anno 1380, mentre Giovan Galeazzo Visconti andava pensando di gettar le
fondamenta del D u o m o : vi si sarebbe atteso « a quella maniera di
fabricare,che i moderni chiamano Alemana »; avrebbe àvuto sede « nella Corte
ducale compiacendosi in estremo quello stesso Duca del fabricare e dell'udirne
talvolta discorrere i m a g giori architetti di que'tempi, ch'erano Giovannuolo
e Miche lino, da'quali furono ammaestrati i compagni di Bramante » 3 Non occorre
certamente fermarci piú a lungo per dimostrare l'as surdità di queste
affermazioni:basti il dire che questa volta a base di esse non sta il più
piccolo dato di fatto.4 1Cfr.ANGELO BATTAGLini:Della corte letteraria di
Sigismondo Pan dolfo Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae
Opera prae stantiora. Tomo II,parte I. Rimini 1794,p. 46-47 e Lettera di
Coluccio Sa lutati a Carlo Malatesta del 10 settembre 1401 in Epistolario di
Coluccio Sa. lutatiacuradiFRANCESCONOVATI.VolumeIV.Roma 1896,p.538:«Velim
igitur,simichicredideris,eum (GiovannidaRavenna)decernasintertuos recipere et
in locum magistri tui, viri quidem eruditissimi, quondam Jacobi de Alegrettis
et in eius provisionem acceptes et loces ». 3 Cfr. GiroLAMO BORSIERI Il
supplimento della Nobiltà ili Milano. Milano,
1619,p.37,eZANON,Catalogoetc.inl.c.p.305. 4 Si dia in proposito la più semplice
scorsa alla prima parte di Il Duomo di Milano di Camillo Boito, Milano 1889.Jacopo Allegretti. Giacomo Allegretti. Allegretti. Keywords:
Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De propositionibus”, scuola di
Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane dall’A alla Z, Andrea
Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Allegretti” – The Swimming-Pool Library.