IN PLICATVRVM -- impiegato
-- H.
P. Grice, St. John’s Oxford -- Compiled
by Grice’s Playgroup, The Bodleian -- For
The Anglo-Italian Society, Bologna -- Dedicated to A. M. G. – Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. – NAMES
GRICE ITALICVS: an
alphabetical approach to Italian philosophy under Grice’s implicature.
Have
you noticed how little Grice says about Italian philosophy? It’s all
*implicated*!
alfabeto
#Abano
#Abba #Abbagnano #Abbri #Accetto #Achillini
#Acito #Aconzio #Acquisto #Acri #Addiego #Adorno #Agamben #Agazzi #Agazzi #Agostino#Agresta #Ajello #Albergamo #Alberti
#Alberti #Albertini #Alderotti #Alfieri #Alfonso #Algarotti #Alici #Alighieri #Aliotta #Allegretti #Allievo #Allmayer #Alminusa #Altan #Alvarotti #Amaduzzi #Ambrogio #Ambrosoli #Amico #Amidei #Anchesi #Andrea #Andria #Angeli #Angiulli #Annunzio #Antiseri #Antonini #Antonino #Aosta #Aquino #Arcais #Archibugi #Arcidiacono #Arco #Bacchin #Bacci #Badaloni #Baglietto #Baldini #Baldinotti #Balduino #Banfi #Baratono #Barba #Barbaro #Barbaro #Barcellona #Barie #Bancelli #Baroncelli #Barone #Barone #Barsio #Barzaghi #Barzellotti #Battaglia #Battista #Bausola #Bazzanella #Beccaria #Becchin #Bedeschi #Belluto #Bencivenga #Bene #Benedetto #Benincasa #Benvenuto #Benvenuti #Berardi #Bernardi #Bernardo #Bernieri #Berti #Bertinaria #Berto #Betti #Bianco #Bobbio #Boccadiferro
#Boccanegra
#Bocchi
#Bodei
#Boezio
#Bolano
#Bonatelli
#Bonavino
#Boniolo
#Bonomi
#Bontadini
#Bontempelli
#Bonvecchio
#Bordoni
#Borelli
#Borsa
#Botero
#Botta
#Bottiroli
#Bottoni
#Bovio
#Bozzelli
#Bozzetti
#Bramaciforti
#Brandalise
#Brescia
#Bussani
#Bruni
#Bruno
#Bruzi
#Buonafede
#Buonamici #Buonsanti #Buonsanto #Burgio #Cabeo #Cacciari #Cacciatore #Caffarelli #Caffi #Caffo #Calbolli #Calderoni #Caloprese #Caluso #Camilla #Cammarata #Campa #Campa #Campailla #Campanella #Cantoni #Capitini #Capizzi #Capocasale #Capocci #Capodilista #Capograssi #Caporali #Cappelletti #Capra #Capua #Carabelesse #Caracciolo #Caramella #Caramello #Carando #Carapelle #Carbonara #Carbone#Carboni #Carchia #Cardano #Cardano #Cardia #Cardone #Carifi #Carle #Carlini #Caro #Carravetta #Carulli #Casalgeno #Casanova #Casati #Casini #Casotti #Castrucci #Catalfano #Catena #Cattaneo #Cattaneo #Catucci #Cavalcanti #Cavallo
#Cazzaniga
#Ceccato
#Cellucci
#Centi
#Centofanti
#Cerebotani
#Ceretti
#Ceronetti
#Centani
#Ceruti
#Cerutti
#Cesarini
#Cherchi
#Chiappelli
#Chiaramonti
#Chiavacci
#Chiacchetti
#Chiodi
#Chitti
#Cicerone
#Ciliberto
#Cimatti
#Cione
#Cocconato #Coco #Codronchi #Colazza #Colecchi #Colletti #Colli #Collini #Colombe #Colombo #Colonna #Colonnello #Colorni
#Conte #Contestabile #Conti #Conti #Conti #Contri #Corbellini #Cordeschi
#Corleo #Cornelio #Corrado #Corsini #Cortese #Corvaglia #Cosi #Cosmacini #Cosmi
#Cosottini #Costa #Costa #Costanzi #Courmayeur #Cotroneo #Cotta #Crespi #Croce
#Curcio #Curi #Cusani #Dalmasso #Dandolo #Daniele #Dati #Delfino #Delia
#Deliminio #Delogu #Demetrio #Desidiri #Diacceto #Diano #Dionigi #Disertore
#Dodaro #Dona #Donatelli #Donati #Dondi #Dondi #Dorfles #Doria #Dottarelli
#Duni #Duso #Eco #Emiliani #Enriques #Epicoco #Ercole #Esposito #Evola #Fabri
#Fabro #Faggin #Falciglia #Falzea #Fano #Fardella #Fasso #Fazzini #Ferdinando
#Ferrabino #Ferrando #Ferrari #Ferrari
#Ferraris #Ferraros #Ferrero #Ferretti #Ferri #Ficino #Fidanza #Figliucci
#Fiangieri #Fillipis #Filolao #Fineschi #Fioramonte #Fiore #Fiorentino
#Fioretti #Fisischela #Floridi #Fonnesi #Fornero #Formaggio #Fracastoro
#Francesco #Franchini #Franci #Francia #Franzini #Frixione #Frontino #Frontone
#Frosini #Fusaro #Fuschi #Gaetani #Gagliardi #Galilei #Galimberti #Galli #Galli
#Galluppi #Galvano #Gangale #Garbo #Gargani #Garin #Garroni #Gatti #Gelli #Gemmis
#Genovese #Genovesi #Gentile #Gentile #Gentili #Gerratana #Geymonat #Ghersi
#Ghezzi #Ghisleri #Giacche #Giacomo #Giandomenico #Giani #Giani #Giannantoni
#Giannetti #Giannone #Gioberti #Gioia #Giorello #Giorgi #Giorgi #Giovanni
#Giraldi #Girgenti #Girgenti #Girotti #Giudice #Giudice #Giudice #Giuliano
#Giusso #Givone #Gobetti #Gonnella
#Goretti #Gori #Gramsci #Gregorio #Grandi #Grassi #Grassi #Grassi #Grataroli
#Grazia #Gregory #Griffero #Grimaldi #Grimaldi #Gruppi #Guastella #Giuccidiarni
#Guzzi #Guzzo #Hösle #Iacono #Illuminati #Incardona #Infantino #Iorio #Jadelli
#Jaja #Jammelli #Javelli #Jerocades #Jervolino #Jommelli #Julia #Juvalta #Labriola
#Lagalla #Lalla #Lamanna #Lami #Landi #Landino #Landucci #Latini #Laurino #Lazzarelli
#Lecaldano #Livi #Leoni #Leoni #Leopardi #Leopardi #Lettieri #Liberatore #Liceti
#Liguori #Lilla #Limone #Lodovici #Lodovici #Lombardi #Longano #Losano #Losurdo
#Lottieri #Luca #Luporini #Luzzago #Machiavelli #Madera #Mafettone #Magalotti #Maggi
#Magi #Magnani #Magni #Mainardini #Malifitano #Malipiero #Mamiani #Mancini #Mangione
#Manfredi #Manicone #Mannelli #Mantovani #Marassi #Marrchesini #Marchesini #Marchi
#Marchi #Marconi #Mariano #Marin #Marliani #Marotta #Marramao #Marsili #Martelli
#Martinetti #Martini #Martino #Masci #Masi #Massarenti #Massari #Mastri #Massolo
#Mastrofini #Masullo #Matassi #Matera #Mathieu #Maturi #Maturi #Maurizi #Mazzarella
#Mazzei #Mazzini #Mazzoni #Meis #Melandri #Melchiorre #Melli #Mercuriale #Merker
#Messere #Messimeri #Micalori #Michelstädter #Miccoli #Mieli #Miglio #Miraglia
#Misefari #Modio #Molso #Mondin #Mondolfo #Monferrato #Monte #Moravia #Mordacci
#Moretti #Moretti #Mori #Moriggi #Mosca #Motta #Motterlini #Masatti #Muste #Nannini
#Nardi #Natoli #Nicoletti #Negri #Neri #Nifo #Nizolio #Noce #Noferi #Nola #Norcia
#Noto #Novaro #Ocone #Oddi #Offredi #Olgiati #Olivetti #Olivi #Opocher #Ordine
#Orestano #Orioli #Ornato #Orsi #Ortes #Otranto #Ottaviano #Pace #Paci
#Padovani #Pagani #Paganini #Pagano #Paggi #Pagliaro #Panella #Panunzio #Panunzio
#Paolino #Papi #Pareyson #Parinetto #Parmenide #Parisio #Pascoli #Pascoli #Pasini
#Passavanti #Passavanti #Passeri #Pasqualotto #Pastore #Peano #Peccoraro #Pelacani
#Peacani #Pellegrini #Pennisi #Pera #Peregalli #Perniola #Perone #Pessina #Petrarca
#Pezzarossa #Pezzella #Piana #Piccolomini #Pico #Pico #Pieralisi #Pievani #Piovani
#Pirandello #Pirro #Pizzi #Pizzorno #Plebe #Poggi #Pojero #Poli #Politeo #Pollastri
#Pompponazzi #Pontara #Ponte #Ponzio #Porta #Porta #Portaria #Porzio #Possenti
#Pozza #Pozzo #Pra #Prestipino #Preti #Preve #Prini #Prodi #Prospero #Pucci #Puccinotti
#Punzo #Purgetti #Quarta #Quattromani #Quinto #Raimondi #Raio #Raulica #Reale #Reghini
#Regina #Renier #Resta #Restaino #Ricordi #Righetti #Rignano #Rigobello #Rimini
#Rinaldini #Riondato #Riverso #Rodano #Roscaglia #Ronchi #Rosmini-Lubati #Rosselli
#Rosselli #Rosselli #Rossetti #Rossi #Rossi #Rossi #Rosso #Rota #Rotondi #Rovatti
#Rovella #Rovere #Ruberti #Rucellai #Ruffolo #Ruggiero #Rusca #Rusconi #Ruta
#Sacchi #Sacheli #Saitta #Salutati #Sanctis #Sanseverino #Santilli #Santorio #Sanzo #Sarno #Sarpi #Sasso #Sava #Scala
#Scalea #Scalfari #Scaravelli #Scarpelli #Sciacca #Sciacca #Scupoli #Semerari #Semmola
#Serra #Settala #Severino #Sforza #Sgalambro #Siciliani #Simioni #Simone #Sini
#Siracusano #Soave #Solari #Soleri #Somenzi #Sordi #Soria #Sorrentino
#Sorrentino #Sorrentino #Sotione #Sozzini #Spadaro #Sparti #Spaventa #Spedalieri
#Speranza #Spirito #Spisani #Sraffa #Stabile #Stefani #Stefanini #Stellini #Sterlich
#Steuco #Taddio #Tagliabue #Tagliagambe #Taglialatela #Tagliapietra #Tamburino #Tafuri #Tarantino #Tarantino
#Tari #Tartarotti #Tataranni #Tasso #Telesio #Tessitore #Testa #Thaulero #Tilgher #Timossi #Tincari #Toderini #Tocco #Tolomei #Tomatis #Tomitano #Toritto #Torlonia #Torre #Trabucco #Tragella #Trapanapapoli #Trape #Trasci #Treves #Tria #Trincheri #Trissino #Troilo #Tronti #Tulelli #Turco #Turaldo #Tuvelli #Ubaldi #Unicorno #Vacca #Vaccarino #Vaccaro #Vaileti #Valent #Valeri #Valla #Vallauri #Valletta #Valore #Vanini #Vanni #Vannini #Varisco #Varrone #Varzi #Vasa #Vastarini #Vattimo #Veca #Vecchio #Vedovelli #Vegetti #Venanzio #Vera #Vercellone #Verdiglioni #Vernia #Veronelli #Verracchia #Viano #Viazzi #Vico #Vieri #Vigna #Vignoli #Vinadio #Vio #Virno #Viroli #Visconti #Vittielo #Volpe #Volpi #Volpicelli #Voltaggio #Winspeare #Zabarella
#Zamboni #Zamboni #Zanini #Zanotti #Zenone #Zimara #Zini
#Zolla #Zorzi #Zucca #Zuccarelli #Zubiena
With ww.
#Abano
https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4420327627979198
#Abba #Abbagnano #Abbri #Accetto #Achillini #Acito
#Aconzio
#Acquisto #Acri #Addiego #Adorno #Agamben #Agazzi #Agazzi #Agostino#Agresta #Ajello #Albergamo #Alberti #Alberti #Albertini
#Alderotti
#Alfieri
#Alfonso
#Algarotti
#Alici
#Alighieri
#Aliotta
#Allegretti
#Allievo
#Allmayer
#Alminusa
#Altan
#Alvarotti
#Amaduzzi
#Ambrogio
#Ambrosoli
#Amico
#Amidei
#Anchesi
#Andrea
#Andria
#Angeli
#Angiulli
#Annunzio
#Antiseri
#Antonini
#Antonino
#Aosta
#Aquino
#Arcais
#Archibugi
#Arcidiacono
#Arco #Bacchin
#Bacci
#Badaloni
#Baglietto
#Baldini
#Baldinotti
#Balduino
#Banfi
#Baratono
#Barba
#Barbaro
#Barbaro
#Barcellona
#Barie
#Bancelli
#Baroncelli
#Barone
#Barone
#Barsio
#Barzaghi
#Barzellotti
#Battaglia
#Battista
#Bausola
#Bazzanella
#Beccaria
#Becchin
#Bedeschi
#Belluto
#Bencivenga
#Bene
#Benedetto
#Benincasa
#Benvenuto
#Benvenuti
#Berardi
#Bernardi
#Bernardo
#Bernieri
#Berti
#Bertinaria
#Berto
#Betti
#Bianco
#Bobbio
#Boccadiferro #Boccanegra #Bocchi #Bodei #Boezio #Bolano #Bonatelli #Bonavino #Boniolo #Bonomi #Bontadini #Bontempelli #Bonvecchio #Bordoni #Borelli #Borsa #Botero #Botta #Bottiroli #Bottoni #Bovio #Bozzelli #Bozzetti #Bramaciforti #Brandalise #Brescia #Bussani #Bruni #Bruno #Bruzi #Buonafede #Buonamici
#Buonsanti #Buonsanto #Burgio #Cabeo #Cacciari #Cacciatore #Caffarelli #Caffi #Caffo #Calbolli #Calderoni #Caloprese #Caluso #Camilla #Cammarata #Campa #Campa #Campailla #Campanella #Cantoni #Capitini #Capizzi #Capocasale #Capocci #Capodilista #Capograssi #Caporali #Cappelletti #Capra #Capua #Carabelesse #Caracciolo #Caramella #Caramello #Carando #Carapelle #Carbonara #Carbone#Carboni #Carchia #Cardano #Cardano #Cardia #Cardone #Carifi #Carle #Carlini #Caro #Carravetta #Carulli #Casalgeno #Casanova #Casati #Casini #Casotti #Castrucci #Catalfano #Catena #Cattaneo #Cattaneo #Catucci #Cavalcanti #Cavallo
#Cazzaniga
#Ceccato
#Cellucci
#Centi
#Centofanti
#Cerebotani
#Ceretti
#Ceronetti
#Centani
#Ceruti
#Cerutti
#Cesarini
#Cherchi
#Chiappelli
#Chiaramonti
#Chiavacci
#Chiacchetti
#Chiodi
#Chitti
#Cicerone
#Ciliberto
#Cimatti
#Cione
#Cocconato #Coco #Codronchi #Colazza #Colecchi #Colletti #Colli #Collini #Colombe #Colombo #Colonna #Colonnello #Colorni
#Conte #Contestabile #Conti #Conti #Conti #Contri #Corbellini
#Cordeschi #Corleo #Cornelio #Corrado #Corsini #Cortese #Corvaglia #Cosi
#Cosmacini #Cosmi #Cosottini #Costa #Costa #Costanzi #Courmayeur #Cotroneo
#Cotta #Crespi #Croce #Curcio #Curi #Cusani #Dalmasso #Dandolo #Daniele #Dati
#Delfino #Delia #Deliminio #Delogu #Demetrio #Desidiri #Diacceto #Diano
#Dionigi #Disertore #Dodaro #Dona #Donatelli #Donati #Dondi #Dondi #Dorfles
#Doria #Dottarelli #Duni #Duso #Eco #Emiliani #Enriques #Epicoco #Ercole
#Esposito #Evola #Fabri #Fabro #Faggin #Falciglia #Falzea #Fano #Fardella
#Fasso #Fazzini #Ferdinando #Ferrabino
#Ferrando #Ferrari #Ferrari #Ferraris #Ferraros #Ferrero #Ferretti
#Ferri #Ficino #Fidanza #Figliucci #Fiangieri #Fillipis #Filolao #Fineschi
#Fioramonte #Fiore #Fiorentino #Fioretti #Fisischela #Floridi #Fonnesi #Fornero
#Formaggio #Fracastoro #Francesco #Franchini #Franci #Francia #Franzini
#Frixione #Frontino #Frontone #Frosini #Fusaro #Fuschi #Gaetani #Gagliardi
#Galilei #Galimberti #Galli #Galli #Galluppi #Galvano #Gangale #Garbo #Gargani
#Garin #Garroni #Gatti #Gelli #Gemmis #Genovese #Genovesi #Gentile #Gentile
#Gentili #Gerratana #Geymonat #Ghersi #Ghezzi #Ghisleri #Giacche #Giacomo
#Giandomenico #Giani #Giani #Giannantoni #Giannetti #Giannone #Gioberti #Gioia
#Giorello #Giorgi #Giorgi #Giovanni #Giraldi #Girgenti #Girgenti #Girotti
#Giudice #Giudice #Giudice #Giuliano #Giusso #Givone #Gobetti #Gonnella #Goretti #Gori #Gramsci #Gregorio
#Grandi #Grassi #Grassi #Grassi #Grataroli #Grazia #Gregory #Griffero #Grimaldi
#Grimaldi #Gruppi #Guastella #Giuccidiarni #Guzzi #Guzzo #Hösle #Iacono #Illuminati
#Incardona #Infantino #Iorio #Jadelli #Jaja #Jammelli #Javelli #Jerocades #Jervolino
#Jommelli #Julia #Juvalta #Labriola #Lagalla #Lalla #Lamanna #Lami #Landi #Landino
#Landucci #Latini #Laurino #Lazzarelli #Lecaldano #Livi #Leoni #Leoni #Leopardi
#Leopardi #Lettieri #Liberatore #Liceti #Liguori #Lilla #Limone #Lodovici #Lodovici
#Lombardi #Longano #Losano #Losurdo #Lottieri #Luca #Luporini #Luzzago #Machiavelli
#Madera #Mafettone #Magalotti #Maggi #Magi #Magnani #Magni #Mainardini #Malifitano
#Malipiero #Mamiani #Mancini #Mangione #Manfredi #Manicone #Mannelli #Mantovani
#Marassi #Marrchesini #Marchesini #Marchi #Marchi #Marconi #Mariano #Marin #Marliani
#Marotta #Marramao #Marsili #Martelli #Martinetti #Martini #Martino #Masci #Masi
#Massarenti #Massari #Mastri #Massolo #Mastrofini #Masullo #Matassi #Matera #Mathieu
#Maturi #Maturi #Maurizi #Mazzarella #Mazzei #Mazzini #Mazzoni #Meis #Melandri
#Melchiorre #Melli #Mercuriale #Merker #Messere #Messimeri #Micalori #Michelstädter
#Miccoli #Mieli #Miglio #Miraglia #Misefari #Modio #Molso #Mondin #Mondolfo #Monferrato
#Monte #Moravia #Mordacci #Moretti #Moretti #Mori #Moriggi #Mosca #Motta #Motterlini
#Masatti #Muste #Nannini #Nardi #Natoli #Nicoletti #Negri #Neri #Nifo #Nizolio
#Noce #Noferi #Nola #Norcia #Noto #Novaro #Ocone #Oddi #Offredi #Olgiati #Olivetti
#Olivi #Opocher #Ordine #Orestano #Orioli #Ornato #Orsi #Ortes #Otranto #Ottaviano
#Pace #Paci #Padovani #Pagani #Paganini #Pagano #Paggi #Pagliaro #Panella #Panunzio
#Panunzio #Paolino #Papi #Pareyson #Parinetto #Parmenide #Parisio #Pascoli #Pascoli
#Pasini #Passavanti #Passavanti #Passeri #Pasqualotto #Pastore #Peano #Peccoraro
#Pelacani #Peacani #Pellegrini #Pennisi #Pera #Peregalli #Perniola #Perone #Pessina
#Petrarca #Pezzarossa #Pezzella #Piana #Piccolomini #Pico #Pico #Pieralisi #Pievani
#Piovani #Pirandello #Pirro #Pizzi #Pizzorno #Plebe #Poggi #Pojero #Poli #Politeo
#Pollastri #Pompponazzi #Pontara #Ponte #Ponzio #Porta #Porta #Portaria #Porzio
#Possenti #Pozza #Pozzo #Pra #Prestipino #Preti #Preve #Prini #Prodi #Prospero
#Pucci #Puccinotti #Punzo #Purgetti #Quarta #Quattromani #Quinto #Raimondi #Raio
#Raulica #Reale #Reghini #Regina #Renier #Resta #Restaino #Ricordi #Righetti #Rignano
#Rigobello #Rimini #Rinaldini #Riondato #Riverso #Rodano #Roscaglia #Ronchi #Rosmini-Lubati
#Rosselli #Rosselli #Rosselli #Rossetti #Rossi #Rossi #Rossi #Rosso #Rota #Rotondi
#Rovatti #Rovella #Rovere #Ruberti #Rucellai #Ruffolo #Ruggiero #Rusca #Rusconi
#Ruta #Sacchi #Sacheli #Saitta #Salutati #Sanctis #Sanseverino #Santilli #Santorio #Sanzo #Sarno #Sarpi #Sasso #Sava #Scala
#Scalea #Scalfari #Scaravelli #Scarpelli #Sciacca #Sciacca #Scupoli #Semerari #Semmola
#Serra #Settala #Severino #Sforza #Sgalambro #Siciliani #Simioni #Simone #Sini
#Siracusano #Soave #Solari #Soleri #Somenzi #Sordi #Soria #Sorrentino
#Sorrentino #Sorrentino #Sotione #Sozzini #Spadaro #Sparti #Spaventa
#Spedalieri #Speranza #Spirito #Spisani #Sraffa #Stabile #Stefani #Stefanini #Stellini
#Sterlich #Steuco #Taddio #Tagliabue #Tagliagambe #Taglialatela #Tagliapietra #Tamburino #Tafuri #Tarantino #Tarantino #Tari
#Tartarotti #Tataranni #Tasso #Telesio #Tessitore #Testa #Thaulero #Tilgher #Timossi #Tincari #Toderini #Tocco #Tolomei #Tomatis #Tomitano
#Toritto #Torlonia #Torre #Trabucco #Tragella #Trapanapapoli #Trape #Trasci #Treves #Tria #Trincheri #Trissino #Troilo #Tronti #Tulelli #Turco #Turaldo #Tuvelli #Ubaldi #Unicorno #Vacca #Vaccarino #Vaccaro #Vaileti #Valent #Valeri #Valla #Vallauri #Valletta #Valore #Vanini #Vanni #Vannini #Varisco #Varrone #Varzi #Vasa #Vastarini #Vattimo #Veca #Vecchio #Vedovelli #Vegetti #Venanzio #Vera #Vercellone #Verdiglioni #Vernia #Veronelli #Verracchia #Viano #Viazzi #Vico #Vieri #Vigna #Vignoli #Vinadio #Vio #Virno #Viroli #Visconti #Vittielo #Volpe #Volpi #Volpicelli #Voltaggio #Winspeare #Zabarella
#Zamboni #Zamboni #Zanini #Zanotti #Zenone #Zimara #Zini
#Zolla #Zorzi #Zucca #Zuccarelli #Zubiena
Abano
Abba
Abbagnano – Keywords: impiegare, dizionario
Abbri
Accetto – Keywords: disimulazione onesta, banda nera
Achillini -- Keywords: sillogismo fisiologico – “Grice ed
Achillini: il sillogismo fisiognomico”. “Achillini: il sillogismo fisionomico”.
Acito – Keywords: implicatura corporativa romana
Aconzio -- Keywords: implicatura di Satana,
colloquenza, metodo
Acquisto – Keywords: semiotica, teoria del segno
Acri – Keywords: la colloquenza turbata di Socrate e
Cratilo
Addiego –
Addorno – Keywords: Roma e la filosofia italica
Agamben. Keywords: Gli Curiazi e il sacramento del
linguaggio
Agazzi – Keywords: Emilio
Agazzi -- Keywords: Evandro.
Agostino – Keywords: iustum quia iussum
Agresta – Keywords: implicatura laica
Ajello – Keywords: Roma antica nella filosofia di Hegel.
Albergamo – Keywords: La scuola di Crotone.
Alberti – il demonio
Alberti – uomini vitruviani
Albertini
Alderotti
Alfieri
Alfonso
Algarotti
Alici
Alighieri
Aliotta
Algretti
Allievo
Allmayer
Alminusa
Altan
Alvarotti
Amaduzzi
Ambrogio
Ambrosoli
Amico
Amidei
Anchesi
Andrea
Andria
Angeli
Angiulli
Annunzio
Antiseri
Antonini
Antonino
Aosta
Aquino
Arcais
Archibugi
Arcidiacono
Arco
Bacchin
Bacci
Badaloni
Baglietto
Baldini
Baldinotti
Balduino
Banfi
Baratono
Barba
Barbaro
Barbaro
Barcellona
Barie
Bancelli
Baroncelli
Barone
Ba
rone
Barsio
Barzaghi
Barzellotti
Battaglia
Battista
Bausola
Bazzanella
Beccaria
Becchin
Bedeschi
Belluto
Bencivenga
Bene
Benedetto
Benincasa
Benvenuto
Benvenuti
Berardi
Bernardi
Bernardo
Bernieri
Berti
Bertinaria
Berto
Betti
Bianco
Bobbio
Boccadiferro
Boccanegra
Bocchi
Bodei
Boezio
Bolano
Bonatelli
Bonavino
Boniolo
Bonomi
Bontadini
Bontempelli
Bonvecchio
Bordoni
Borelli
Borsa
Botero
Botta
Bottiroli
Bottoni
Bovio
Bozzelli
Bozzetti
Brmaciforti
Brandalise
Brescia
Bussani
Bruni
Bruno
Bruzi
Buonafede
Buonamici
Buonsanti
Buonsanto
Burgio
Cabeo
Cacciari
Cacciatore
Caffarelli
Caffi
Caffo
Calbolli
Calderoni
Caloprese
Caluso
Camilla
Cammarata
Campa
Campa
Campailla
Campanella
Cantoni
Capitini
Capizzi
Capocasale
Capocci
Capodilista
Capograssi
Caporali
Cappelletti
Capra
Capua
Carabelesse
Caracciolo
Caramella
Caramello
Carando
Carapelle
Carbonara
Carbone
Carboni
Carchia
Cardano
Cardano
Cardia
Cardone
Carifi
Carle
Carlini
Caro
Carravetta
Carulli
Casalgeno
Casanova
Casati
Casini
Casotti
Castrucci
Catalfano
Catena
Cattaneo
Cattaneo
Catucci
Cavalcanti
Cavallo
Cazzaniga
Ceccato
Cellucci
Centi
Centofanti
Cerebotani
Ceretti
Ceronetti
Centani
Ceruti
Cerutti
Cesarini
Cherchi
Chiappelli
Chiaramonti
Chiavacci
Chiacchetti
Chiodi
Chitti
Cicerone
Ciliberto
Cimatti
Cione
Cocconato
Coco
Codronchi
Colazza
Colecchi
Colletti
Colli
Collini
Colombe
Colombo
Colonna
Colonnello
Colorni
Conte
Contestabile
Conti
Conti
Conti
Contri
Corbellini
Cordeschi
Corleo
Cornelio
Corrado
Corsini
Cortese
Corvaglia
Cosi
Cosmacini
Cosmi
Cosottini
Costa
Costa
Costanzi
Courmayeur
Cotroneo
Cotta
Crespi
Croce
Curcio
Curi
Cusani
Dalmasso
Dandolo
Daniele
Dati
Delfino
Delia
Deliminio
Delogu
Demetrio
Desidiri
Diacceto
Diano
Dionigi
Disertore
Dodaro
Dona
Donatelli
Donati
Dondi
Dondi
Dorfles
Doria
Dottarelli
Duni
Duso
Eco
Emiliani
Enriques
Epicoco
Ercole
Esposito
Evola
Fabri
Fabro
Faggin
Falciglia
Falzea
Fano
Fardella
Fasso
Fazzini
Ferdinando
Ferrabino
Ferrando
Ferrari
Ferrari
Ferraris
Ferraros
Ferrerp
Ferretti
Ferri
Ficino
Fidanza
Figliucci
Fiangieri
Fillipis
Filolao
Fineschi
Fioramonte
Fiore
Fiorentino
Fioretti
Fisischela
Floridi
Fonnesi
Fornero
Formaggio
Fracastoro
Francesco
Franchini
Franci
Francia
Franzini
Frixione
Frontino
Frontone
Frosini
Fusaro
Fuschi
Gaetani
Gagliardi
Galilei
Galimberti
Galli
Galli
Galluppi
Galvano
Gangale
Garbo
Gargani
Garin
Garroni
Gatti
Gelli
Gemmis
Genovese
Genovesi
Gentile
Gentile
Gentili
Gerratana
Geymonat
Ghersi
Ghezzi
Ghisleri
Giacche
Giacomo
Giandomenico
Giani
Giani
Giannantoni
Giannetti
Giannone
Gioberti
Gioia
Giorello
Giorgi
Giorgi
Giovanni
Giraldi
Girgenti
Girgenti
Girotti
Giudice
Giudice
Giudice
Giuliano
Giusso
Givone
Gobetti
Gonnella
Goretti
Gori
Gramsci
Gregorio
Grandi
Grassi
Grassi
Grassi
Grataroli
Grazia
Gregory
Griffero
Grimaldi
Grimaldi
Gruppi
Guastella
Giuccidiarni
Guzzi
Guzzo
Hösle
Iacono
Illuminati
Incardona
Infantino
Iorio
Jadelli
Jaja
Jammelli
Javelli
Jerocades
Jervolino
Jommelli
Julia
Juvalta
Labriola
Lagalla
Lalla
Lamanna
Lami
Landi
Landino
Landucci
Latini
Laurino
Lazzarelli
Lecaldano
Livi
Leoni
Leoni
Leopardi
Leopardi
Lettieri
Liberatore
Liceti
Liguori
Lilla
Limone
Lodovici
Lodovici
Lombardi
Longano
Losano
Losurdo
Lottieri
Lucaa
Luporini
Luzzago
Machiavelli
Madera
Mafettone
Magalotti
Maggi
Magi
Magnani
Magni
Mainardini
Malifitano
Malipiero
Mamiani
Mancini
Mangione
Manfredi
Manicone
Mannelli
Mantovani
Marassi
Marrchesini
Marchesini
Marchi
Marchi
Marconi
Mariano
Marin
Marliani
Marotta
Marramao
Marsili
Martelli
Martinetti
Martini
Martino
Masci
Masi
Massarenti
Massari
Mastri
Massolo
Mastrofini
Masullo
Matassi
Matera
Mathieu
Maturi
Maturi
Maurizi
Mazzarella
Mazzei
Mazzini
Mazzoni
Meis
Melandri
Melchiorre
Melli
Mercuriale
Merker
Messere
Messimeri
Micalori
Michelstädter
Miccoli
Mieli
Miglio
Miraglia
Misefari
Modio
Molso
Mondin
Mondolfo
Monferrato
Monte
Moravia
Mordacci
Moretti
Moretti
Mori
Moriggi
Mosca
Motta
Motterlini
Masatti
Muste
Nannini
Nardi
Natoli
Nicoletti
Negri
Neri
Nifo
Nizolio
Noce
Noferi
Nola
Norcia
Noto
Novaro
Ocone
Oddi
Offredi
Olgiati
Olivetti
Olivi
Opocher
Ordine
Orestano
Orioli
Ornato
Orsi
Ortes
Otranto
Ottaviano
Pace
Paci
Padovani
Pagani
Paganini
Pagano
Paggi
Pagliaro
Panella
Panunzio
Panunzio
Paolino
Papi
Pareyson
Parinetto
Parmenide
Parisio
Pascoli
Pascoli
Pasini
Passavanti
Passavanti
Passeri
Pasqualotto
Pastore
Peano
Peccoraro
Pelacani
Peacani
Pellegrini
Pennisi
Pera
Peregalli
Perniola
Perone
Pessina
Petrarca
Pezzarossa
Pezzella
Piana
Piccolomini
Pico
Pico
Pieralisi
Pievani
Piovani
Pirandello
Pirro
Pizzi
Pizzorno
Plebe
Poggi
Pojero
Poli
Politeo (Croazia)
Pollastri
Pompponazzi
Pontara
Ponte
Ponzio
Porta
Porta
Portaria
Porzio
Possenti
Pozza
Pozzo
Pra
Prestipino
Preti
Preve
Prini
Prodi
Prospero
Pucci (killed)
Puccinotti
Punzo
Purgetti
Quarta
Quattromani
Quinto
Raimondi
Raio
Raulica
Reale
Reghini
Regina
Renier
Resta
Restaino
Ricordi
Righetti
Rignano
Rigobello
Rimini
Rinaldini
Riondato
Riverso
Rodano
Roscaglia
Ronchi
Rosmini-Lubati
Rosselli
Rosselli
Rosselli
Rossetti
Rossi
Rossi
Rossi
Rosso
Rota
Rotondi
Rovatti
Rovella
Rovere
Ruberti
Rucellai
Ruffolo
Ruggiero
Rusca
Rusconi
Ruta
Sacchi
Sacheli
Saitta
Salutati
Sanctis
Sanseverino
Santilli (morto)
Santorio
Sanzo
Sarno
Sarpi
Sasso
Sava
Scala
Scalea
Scalfari
Scaravelli
Scarpelli
Sciacca
Sciacca
Scupoli
Semerari
Semmola
Serra
Settala
Severino
Sforza
Sgalambro
Siciliani
Simioni
Simone
Sini: Il segnante e il segnato
Siracusano,
i bagni di Puzzuoli.
Soave
(n. Lugano). Luigi Speranza, “Dizionario di filosofi svizzeri”.
Solari
Soleri
Somenzi
Sordi
Soria
Sorrentino,
Andrea
Sorrentino,
Sergio
Sorrentino,
Vincenzo
Sotione
Sozzini
Spadaro
Sparti
Spaventa
Spedalieri
Speranza
Spirito
Spisani
Sraffa
Stabile
Stefani
Stefanini
Stellini
Sterlich
Steuco
Taddio
Tagliabue
Tagliagambe
Taglialatela
Tagliapietra
Tamburino
– il probabilismo tenue e il rigorismo, prudenza.
Tafuri
Tarantino,
Filippo – figlio di Giuseppe.
Tarantino,
Giuseppe.
Tari
Tartarotti
Tataranni
Tasso
Telesio
Tessitore
Testa
Thaulero
Tilgher
Timossi
Tincari
Toderini
Tocco
Tolomei
Tomatis
-- paradosso
Tomitano:
i precetti della conversazione civile.
Toritto
Torlonia
Torre
Trabucco
Tragella
Trapanapapoli
Trape
Trasci
Treves
Tria
Trincheri
Trissino
Troilo
Tronti
Tulelli
Turco
Turaldo
Tuvelli
Ubaldi
Unicorno
Vacca
Vaccarino
Vaccaro
Vaileti
Valent
Valeri
Valla
Vallauri
Valletta
Valore
Vanini
Vanni
Vannini
Varisco
Varrone
Varzi
Vasa
Vastarini
Vattimo
Veca
Vecchio
Vedovelli
Vegetti
Venanzio
Vera
Vercellone
Verdiglioni
Vernia
Veronelli
Verracchia
Viano
Viazzi
Vico
Vieri
Vigna
Vignoli
Vinadio
Vio
Virno
Viroli
Visconti
Vittielo
Volpe
Volpi
Volpicelli
Voltaggio
Winspeare.
Zabarella
-- metodo
Zamboni
– Cremona -- logica
Zamboni
-- volizione
Zanini
-- compassione
Zanotti
– forza viva.
Zenone
o Senone da Velia.
ZIMARA
– Aristotle
ZINI
– ius quia iussum
ZOLLA
– fantasticare.
ZORZI
– armonia conversazionale.
ZUCCA.
Un filosofo di un filosofo.
ZUCCARELLI.
He killed Leopardi.
ZUBIENA.
Keywords: individuo, stato, symbolica parabolica diabolica, corporazione.
Grice ed Abano – peripatetici a Padova – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Abano). Grice:
“I like Abano; he is from my wife’s favourite part of Italy – Veneto – actually
provincial di Padova – which has a little bit on the water – Strawson says he
is more of a physician than a philosopher – but I say, “Both start with
aspirated p!” – Grice: “My favourite Abano is the logician or philosopher of
the lingo -- Abano Pietro d'Abano Da Wikipedia. Se stai cercando l'opera
lirica, vedi Pietro d'Abano (opera). Pietro d'Abano Pietro d'Abano,
latinizzato in Petrus de Abano o Petrus Patavinus è stato un filosofo, medico e
astrologo italiano, insegnante di medicina, filosofia e astrologia
all'Università di Parigi e dal 1306 all'Università di Padova; inoltre è
considerato il primo rappresentante dell'aristotelismo padovano. Amico di
Marco Polo, visse a lungo a Costantinopoli per imparare il greco e l'arabo,
studiando in originale i testi di Galeno, Avicenna e Averroè. Fu autore anche
di varie traduzioni di testi scientifici greci e arabi in latino: i Problemata
di Aristotele (ai quali aggiunse un commentario, l'Expositio Problematum
Aristotelis), i Problemata di Alessandro di Afrodisia[3], vari scritti di
Galeno e Dioscoride. Rivide inoltre la traduzione delle opere di Abraham ibn
‛Ezra. Si guadagnò una grande fama come autore Conciliator Differentiarum, quæ
inter Philosophos et Medicos Versantur. Probabilmente Pietro d'Abano
ispirò a Giotto il complesso – e per molti versi misterioso – ciclo pittorico
che ornava il Palazzo della Ragione di Padova, andato perso in un incendio e
rifatto da alcuni pittori minori seguendo lo stesso schema iconografico. Il
ciclo di affreschi è suddiviso in 333 riquadri, si svolge su tre fasce
sovrapposte, ed è uno dei rarissimi cicli astrologici medievali giunti fino ai
nostri giorni. D'Abano è considerato uno dei più colti ingegni del suo tempo,
la sua dottrina lo fece passare per un negromante. Accusato tre volte dal
Tribunale dell'Inquisizione di magia, eresia e ateismo fu prosciolto le prime
due volte. L'ultima volta morì in prigione a causa delle torture subite, un
anno prima della fine del processo. A seguito della condanna il suo cadavere fu
dissotterrato per essere arso sul rogo. A Pietro d'Abano esplicitamente
si rifarà, per alcuni argomenti, come l'embriologia, il celebre medico Iacopo
da Forlì. Citazioni famose Nel Conciliator Differentiarum, quæ inter
Philosophos et Medicos Versantur D'Abano riferisce di avere parlato con Marco
Polo di quello che aveva osservato nella volta celeste durante i suoi viaggi.
Marco raccontò che durante il suo viaggio di ritorno nel Mar Cinese
Meridionale, aveva avvistato quella che descrive in un disegno come una stella
"a forma di sacco" (ut sacco) con una grande coda (magna habet
caudam). Pietro d'Abano interpretò questa informazione come una conferma della
sua teoria secondo cui nell'emisfero sud si potesse osservare una stella analoga
alla stella polare, ma si trattava con ogni probabilità di una cometa. Gli
astronomi sono concordi nell'affermare che non ci furono comete avvistate in
Europa alla fine del 1200, ma ci sono testimonianze che una cometa venne
avvistata in Cina e in Indonesia nel 1293. Questa circostanza non compare nel
Milione. Abano conservò il disegno nel suo volume Conciliator Differentiarum,
quæ inter Philosophos et Medicos Versantur. Sempre nello stesso documento, si
riporta la descrizione di un animale di grossa stazza con un corno sul muso,
identificato oggi con il rinoceronte di Sumatra; Pietro d'Albano non riferisce
un nome particolare assegnato da Marco a questo animale; si pensa invece che fu
Rustichello a identificarlo con l'unicorno nel Milione. Questa testimonianza è
stata ripresa da Jensen, quando venne messa pesantemente in dubbio la veridicità
del Milione di Marco Polo. Sempre nel Conciliator Differentiarum (Diss.
67), Abano menziona la spedizione di Ugolino e Vadino Vivaldi genovesi verso le
Indie Orientali per via mare. "Parum ante ista tempora Januenses
duas paravere omnibus necessariis munitas galeas, qui per Gades Herculis in
fine Hispamia situatas transiere. Quid autem illis contigerit, jam spatio fère
trigesimo ignoratur anno. Transitus tamen nunc patens est per magnos Tartaros
eundo versus aquilonem, deinde se in orientem et meridiem congirando".
Riconoscimenti Il Teatro Congressi di Abano Terme (già "Cinema Teatro
delle Terme") è a lui dedicato, come pure l'IPSSAR "Pietro d'Abano
(Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della
Ristorazione) poco distante, e altrettanto il Centro Studi Termali Pietro
d'Abano, ente di ricerca del territorio Euganeo. È rappresentato a Padova
in una delle 78 statue di Prato della Valle e nell'altorilievo al di sopra di
una delle quattro porte d'entrata di Palazzo della Ragione. Ad Abano Terme
a lui sono dedicati una statua nell'omonima piazza e il bassorilievo sul lato
Est dello gnomone della meridiana monumentale in piazza del Sole e della
Pace. Dizionario di filosofia. M. Guidi, Caratteri e modi della cultura
araba, Real Accademia d'Italia. A Padova, specialmente, ferve lo studio degli
Arabi, poiché Pietro d'Abano – il quale si era servito non solo del greco, ma
anche dell'arabo che era andato a studiare a Costantinopoli per poter
rettificare gli inevitabili errori delle versioni del tempo – aveva fatto della
sua scuola di medicina il centro di quello che fu poi detto l'«Arabismo
medico».». Iolanda Ventura, Translating, commenting, re-translating: some
considerations on the Latin translations of the Pseudo-Aristotelian Problemata
and their readers, in M. Goyens, P. Leemans e A. Smets, Science Translated:
Latin and Vernacular Translations of Scientific Treatises in Medieval Europe,
Leuven University Press, Pietro d'Abano, su galenolatino.com. R. Martorelli Vico, Per una storia
dell'embriologia, Guerini e Associati, Napoli, J. Jensen, The World's most
diligent observer, in Asiatische Studien, F. Bottin, Pietro d'Abano, Marco Polo
e Giovanni da Montecorvino, in Medicina nei Secoli, Girolamo Tiraboschi, Storia
della letteratura italiana: fino
all'anno MCCC, Firenze, presso Molini, Landi e C. Bibliografia
Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum Adalberto
Pazzini, Pietro d'Abano, in Dizionario Letterario Bompiani. Autori, III,
Milano, Bompiani, Joan Cadden, "Sciences/silences: the nature and
languages of "sodomy" in Peter of Abano's Problemata
Commentary". In: K. Lochrie & P. McCracken & James Schultz, Constructing
medieval sexualities, University of Minnesota press, Minneapolis & London, Médicine,
astrologie et magie entre Moyen Âge et Renaissance: autour de Pietro d'Abano.
Textes réunis par Jean-Patrice Boudet, Franck Collard et Nicolas Weill-Parot,
Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, (Società internazionale per lo studio
del Medioevo latino) Pietro de Sclavione d'Abano, Trattati di Astronomia,
Lucidator dubitabilium astronomiae, De motu octavae sphaerae e altre opere a
cura di Graziella Federici Vescovini, Padova: Editoriale Programma, Loris
Premuda, «Pietro d'Abano». In: Dizionario critico della letteratura italiana,
Torino: UTET L. Norpoth, Zur Bio-Bibliographie und Wissenschaftslehre des
Pietro d'Abano, Mediziners, Philosophen und Astronomen in Padua, Kyklos, Lynn
Thorndike, A history of magic and experimental science, Vol. II: During the
first thirteen centuries of our era. New York: Columbia university press, Sante
Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di Pietro D'Abano: saggio
storico-filosofico, Genova: Tipografia R. Istituto Sordomuti, Pietro d'Abano,
Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum, Gregorio Piaia,
Pietro d'Abano. Filosofo medico e astrologo europeo, Milano, FrancoAngeli, Francesco
Aldo Barcaro, L'eretico Pietro d'Abano (medico o mago?), Nuova Grafica,
Vigorovea (Sant'Angelo di Piove di Sacco, PD), Voci correlate Storia della
scienza Aristotelismo Taddeo Alderotti Mondino dei Liuzzi Sefer Raziel
HaMalakh. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana.Guido Calogero, Pietro d'Abano, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Pietro d'Abano, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc.Iolanda Ventura, Pietro d'Abano, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Pietro
d'Abano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.(FR) Bibliografia su Pietro
d'Abano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Marta Cristiani, Pietro
d'Abano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pietro
d'Abano, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. He is
possibly the first alphabetical philosopher. But there are more! Important Italian philosopher. From Abano-Terme. “If
Occam is called Occam, I should be called Harborne.”Grice. “He was an exacting
editor, if ever there was onebut he failed at one thing, “Problemata physica”
was never written by Aristotle!”Grice. Pietro d'Abano-Terme, conosciuto
anche come Petrus de Apono, Petrus Aponensis o Pietro d'Abano italiano a
Padova. -- Abano era nato nella città italiana da cui prende il nome, ora Abano
Terme. Abano-Terme guadagnato la fama scrivendo "Conciliatore
Differentiarum, quae tra Philosophos et Medicos Versantur." Finalmente
Abano-Terme è stato accusato di eresia e l'ateismo, ed è venuto prima della
Inquisizione. Abano e morto in carcere prima della fine del suo processo.
Abano-Terme Ha vissuto in Grecia per un periodo di tempo prima che si è
trasferito e ha iniziato i suoi studi a lungo a Costantinopoli. Si trasferisce
a Parigi, dove è stato promosso ai gradi di dottore in filosofia e medicina,
nella pratica di cui era un grande successo, ma i suoi costi erano notevolmente
alta. A Parigi divenne noto come "il Grande lombarda". Abano-Terme si
stabilì a Padova. Abano-Terme è stato accusato di praticare la magia: le accuse
specifiche è che è tornato, con l'aiuto del diavolo , tutti i soldi che ha
pagato di distanza, e che possedeva la pietra filosofale. Gabriel Naudé, nel
suo "antiquitate scholae Medicae Parisiensis," dà il seguente resoconto
di lui. "Cerchiamo di prossima produciamo Peter de Apona, o Pietro da
Abano, chiamato il riconciliatore, a causa del famoso libro che ha pubblicato
durante il suo soggiorno nella vostra università. E 'certo che fisica laici
sepolto in Italia, scarsa noto a nessuno, incolto e disadorno, fino alla sua
genio tutelare, un abitante del villaggio di Apona-Terme, destinata a liberare
l'Italia dalla sua barbarie e l'ignoranza, come Camillo volta liberato Roma
dall'assedio del Galli, ha fatto un'indagine diligente in quale parte del mondo
della letteratura cortese è stato felicemente coltivata, la filosofia più
astuzia gestito, e fisico ha insegnato con la massima solidità e la purezza; e
di essere certi che sola Parigi rivendicò questo onore, là vola attualmente;
dando se stesso interamente alla sua tutela, si applicò con diligenza per i
misteri della filosofia e della medicina; ottenuto un grado e l'alloro in
entrambi; e poi entrambi insegnato con grande applauso: e dopo un soggiorno di
molti anni, loaden con la ricchezza acquisita in mezzo a voi, e, dopo essere
stato il più famoso filosofo del suo tempo, torna al suo paese , dove, a
giudizio del giudizioso Scardeon , è stato il primo restauratore della vera
filosofia. Gratitudine, quindi, invita a riconoscere i vostri obblighi a causa
di Michael Angelus Blondus, di Roma, che nell'ultimo impegno secolo di
pubblicare il Conciliationes Physiognomicæ del proprio Aponensian, e trovando
erano state composte a Parigi, e nella vostra università, ha scelto di pubblicarli
nel nome, e con il patrocinio, della vostra società. Portava le sue
indagini finora nelle scienze occulte della natura astruso e nascosta, che,
dopo aver dato più ampie prove, dai suoi scritti in materia di fisionomia ,
geomanzia, e chiromanzia , si è trasferito sulla allo studio della filosofia;
che studi hanno dimostrato in modo vantaggioso per lui, che, per non parlare
dei due prima, che lo presentò a tutti i papi del suo tempo, e lo ha acquisito
una reputazione tra i dotti, è certo che era un grande maestro in quest'ultimo
, che appare non solo dalle cifre astronomiche che aveva dipinto nella grande
sala del palazzo di Padova, e le traduzioni fece dei libri del rabbino
dottissimo Abraham Aben Ezra, aggiunto a quelli che si ricompose nei giorni
critici, e il miglioramento di astronomia, ma dalla testimonianza del celebre
matematico Regiomontano, che ha fatto un bel panegirico su di lui, in qualità
di un astrologo, nell'orazione ha pronunciato pubblicamente a Padova quando ha
spiegato c'è il libro di Alfragano. Steepto scritti
Conciliatore differentiarum philosophorum et precipue medicorum Nei suoi
scritti egli espone e difende i sistemi medici e filosofici di Averroè,
Avicenna , ed altri scrittori. Le sue opere più note sono il Conciliatore
differentiarum quae tra philosophos et medicos versantur e De venenis eorumque
remediis , entrambi i quali sono ancora esistente in decine di manoscritti e
varie edizioni a stampa dalla fine del Quattrocento attraverso Cinquecento. Il
primo tentativo di riconciliare apparenti contraddizioni tra teoria medica e la
filosofia naturale aristotelica, ed è stato considerato autorevole in ritardo
quanto XVI secolo. E 'stato affermato che Abano-Terme ha anche scritto un
libro di magia chiamato "Heptameron," un libro conciso di riti magici
rituali che si occupano di evocare gli angeli specifici per i sette giorni
della settimana (da qui il titolo). Egli è anche accreditato con la scrittura
De venenis eorumque remediis , che ha esposto sulle teorie arabi in materia di
superstizioni, veleni e contagi. l'Inquisizione Generico ritratto
di Petr [noi] da Abano conciliatore , <la rovesciata 'c' è un'abbreviazione
corrente latina per il prefisso 'con -'> xilografia dalla Cronaca di
Norimberga , 1493 E 'stato due volte portato in giudizio da parte
dell'Inquisizione; per la prima volta è stato assolto, e morì prima che il
secondo processo è stato completato. E 'stato trovato colpevole, però, e il suo
corpo è stato ordinato di essere riesumato e bruciato; ma un amico aveva
segretamente rimosso, e l'Inquisizione doveva quindi accontentarsi con la
proclamazione pubblica della sua frase e la combustione di Abano in effigie.
Secondo Naude: L'opinione generale di quasi tutti gli autori è, che era
il più grande mago del suo tempo; che per mezzo di sette spiriti, familiari,
che teneva chiuso dell'articolo in chrystal, aveva acquisito la conoscenza
delle sette arti liberali, e che aveva l'arte di causare il denaro che aveva
fatto uso di tornare ancora in tasca. È stato accusato di magia nel ottantesimo
anno della sua età, e che morire prima che il suo processo era finito, è stato
condannato (come riporta Castellan) al fuoco; e che un fascio di paglia o
vimini, che rappresenta la sua persona, è stata pubblicamente bruciato a
Padova; che così rigoroso un esempio, e dalla paura di incorrere in una
sanzione, come, potrebbero sopprimere la lettura dei tre libri che aveva
composto su questo argomento: il primo dei quali è la nota Heptameron, o
elementi magici di Peter de Abano, filosofo, ora esistente, e stampato alla
fine di Agrippa opere s'; il secondo, quello che Trithemius chiama Elucidarium
Necromanticum Petri da Abano; e un terzo, chiamato dallo stesso autore Liber
experimentorum mirabilium de Annulis secundem, 28 Mansiom Lunae. Abside con il suo
sarcofago. Barrett si riferisce al parere che non era sul punteggio di magia
che l'Inquisizione ha condannato Pietro d'Abano-Terme a morte, ma perché ha
cercato di spiegare i meravigliosi effetti nella natura dalle influenze dei
corpi celesti, non attribuendole agli angeli o demoni; in modo che l'eresia ,
piuttosto che la magia, sotto forma di opposizione alla dottrina degli esseri
spirituali, sembra aver portato alla sua persecuzione. Per citare Barrett: Il
suo corpo, prese privatamente dalla sua tomba dai suoi amici, sfuggito alla
vigilanza degli inquisitori, che avrebbero condannato a essere bruciato. E
'stato rimosso da un luogo all'altro, e finalmente depositato nella Chiesa di
St. Augustin, senza epitaffio, o qualsiasi altro segno di onore. I suoi accusatori
attribuiti opinioni incoerenti a lui; lo accusato di essere un mago, e tuttavia
con negare l'esistenza degli spiriti. Aveva una tale antipatia per il latte,
che vedendo chiunque prendere lo faceva vomitare.Altro lettura Francis Barrett,
The Magus, J. Cadden, "Scienze / silenzi: la natura e le lingue di"
sodomia "in Pietro d'Abano Problemata Commento". In: K. Lochrie &McCracken
& J. Schultz, Costruire sessualità medievali , University of Minnesota
Press, Minneapolis & London; L. Premuda, Dizionario della biografia
scientifica. New York: Charles Scribner Sons. L’Heptameron. Refs.: Luigi Speranza, “The reception of pseudo-Aristotle
via Abano’s edition”. Abano. Keywords: filosofia del linguaggio. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice ed Abano," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abano
#Abano https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4420327627979198
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51640855484/in/photolist-2mQwYd8-2mPyQHL-2mPnrMV-2mN8u25-2mN8ym7-2mLP4Rj-2mLMbqp-2mLRd1Y-2mLN7jm-2mLP3hz-2mKwuhr-2mKP4jT-2mKAsyK-2mFchpL-2mFhC8V-2mFjTcj-2mFchpR/
Grice ed Abbà – teoria
del segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Farigliano). Filosofo.
Grice: “Abbà is a genius – an Italian
Lockino, as he calls himself in “Elementae logicae” – But he is actually better
than Locke – England’s and Oxford’s greatest philosopher – for a couple of
reasons: Locke uses barbarisms – anglo-saxonisms, Abba, who could be philosophising
in his Cuneo vernacular, uses Cicero’s tongue! And the good thing is that he is
fluent at it and his prose is flowing – It is difficult for a Locke to write in
Latin – witness the roughness of Occam’s prose in Latin – but for Abba, he is
obviousl THINKING in Italian and expressing his thoughts in ‘palaeo-Italian,’
as he calls ‘Latin.’ “Thinking in Italian may be preoponderant, but it need not
be true!” Grice” “Of course I enjoyed most his philosophising on the ‘signum
naturale’ – on which I drew for my Oxford seminars!” -- He is a great
interpreter of Locke; in a country that needs that!” - Filosofo allievo di Benone, gli succedette nella cattedra di metafisica a Torino. Partendo dalla filosofia di Locke, ritiene
che i dati empirici forniti dall'esperienza siano alla base della conoscenza
umana, ma che le idee si formino attraverso un'elaborazione di questi elementi
empirici da parte dell'anima umana, che utilizza categorie logiche indipendenti
dall'esperienza. Abbà entrò in polemica con Rosmini a proposito del suo “Saggio
sull'origine delle idee” mettendo in dubbio la veridicità del suo sistema.
Rosmini controbatté alle critiche nel Diario filosofico di Adolfo, VII,
G.A.A.(pubblicato in Riv. Rosminiana). Elementa logices et metaphysices, Taurini,
Stamperia reale, Delle cognizioni umane: trattato del teol.o coll.o Abbà,
Torino, Canfari. Lettere a Filomato sulle credenze primitive e sulla filosofia
sino a Socrate scritte dal teologo coll.o Abbà, Torino, Canfari. G. Capone
Braga, La filosofia fitaliana del Settecento, Padova,Francesco Corvino, Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Filosofia. De idearum signis 38. Sunt autem signa vel naturalia , quibus sen
sus nostros significamus ex effectibus;vel artificialia. Maistrii sententia est,
nihil arbitrarii esse in sermone. Sicuti per vocabula ideas;ita per scripturam
vocabula quo dam modo pingimus ad ideas abscntibus permanenter manifestan
das.Quibusdampermanentibussignisideas,cogitationesque suas communi consensu
exprimere vel homines in barbarie positi con sueverunt.Cultiores populi remotis
temporibus scripturâ,usi sunt, cuius auctor, tempus, originislocus, omnia
incerta. Quidam Cadmo, alii Phoeniciis, alii Ægyptiis eam acceptam referunt.Putarem
ego Divinae originis.Ab Asia in Europam immigravit. Quidam putant spiritum in
hac re progressum fuisse a scriptura Ideographica, seu figurativa, ad
Hyerogliphicam seu symbolicam, a qua ad syllabicam inde ad alphabeticam. V. Degerando de l'éducation
des sourds-muets, tom. quae cum re
significata consociationem habent ex hominum arbitrio, et institutione. Hisce
signis con stat idioma. Dicitur autem idioma signorum com plexio , quibus ideae
significantur. Est idioma tran siens, et permanens.Illud actionis, et
pronunciationis, hoc scriptionis appellatur. Omisso scriptionis idiomate, de
duobus reliquis dicemus. Idioma actionis coalescit ex gestibus repetitis ad
sensus animi aperiendos. Hisce gestibus consulto adhibitis , et observatis ad
quaedam sensa manife standa , orta est huius idiomatis ars. Formae rerum
externarum gestibus pictae mirum in modum istud idiomatis amplificarunt. Hoc
praesertim constať ani versalis quaedam hominum lingua , et sermo panto mimicus.
sed omnem linguam enasci, et enutriri ex ruinis aliarum; hasce vero ruinas esse
formidanda divinae iustitiaemonumenta.Itaque inimi cus et omnis Neologismi.
Bonald super linguarum originem suum systema Phylosophicum struxit. Pronuncialus
autem hic sermo constat ex voci bus articulatis. Voces sunt soni ex ore
animantis emissi: Articulatio est vocalis, et consonantis per vocis emissionem
coniunctio.Ex hac coniunctione or tae sunt syllabae, ex his vocabula , quae
sunt sonį articulata voce prolati, quibus ideas mente conceptas significanus.Quum
autem omnis idea in mente existens determinata sit, quodlibet vocabulum ideam
quamdam determinatam denotat, ac veluti determinat. Unde vocabula termini etiam
dicti sunt: quum etiam ideae res repraesentent; termini,quoque res ipsas median
tibus ideis denotant. Ex vocabulis,seu terminis ortus sermo. Quae di sciplinà
generales sermonis regulas tradit, grammatica generalis, seu philosophica
dicitur; quia hae regulae in natura cogitationis fundantur, suntque in omni
lingua servandae.Quae regulas docent singulis nationum lin guis proprias
grammaticae particulares appellantur. Singulae linguae sua syntaxi , et inflexionibus
moderantur. Licet possint homines actionis idiomate sua sensa manifestare ;
aliquando tamen id magna cum difficultate fit; aliquando etiam id fieri omnino nequit,
ut in magnis distantiis, et interpositis obstaculis. Ut id incommodi averteret
Deus , qui hominem ad societatem condidit,non solum eum facultate loquendi,
organisque ad sermonem aptissimis donavit ; rerum etiam ad serinonem ipsum pronunciatum
instituit, ut ex sacris litteris edocemur,qui postmodum hominum arte,
urgentibus necessitatibus auctus quoque fuit. coloribusque donantur, qui
nationis indolem , culturam , et in genium exprimerent, ac fata: suis singulae
divitiis florentes sunt pro varia coeli temperie, naturae facie, aspectibus,
forma regiminis, opinionum, religionis, educationis, morum, studiorumquc
diversitate. Hinc variae apud varios populos idearum complexiones, ex quibus
est interpretationis difficultas. Hinc etiam linguae histo ria una refert
gentis suae historiam philosophicam, et civilizzationem. Huiusce picturae
exemplaria sunt ideae, quas proinde pictura ist haec imitari debet. Idea vero est
vivax, rapida, clara. Ad hanc
imitationem perficiendam spectarc Grammatica debet. Cum etiam omnes idcae
exhibeant obiecta, et relationes; hinc duo verborum species existere debent ,
quarum aliae pingant obiecta , aliae rela tiones eorum. Quare Plato, Apollonius,
aliique ex veteribus duo tantum sermonis elementa admittebant , nomen , et
verbum . Nos putamus, lot esse debere elementa , quot colores sunt necessarii
ad cogitationis tabulam exhibendam, huiusmodi sunt nomen, quasi notamen
exhibens obiecta ; hoc porro proprium , vel commune substantiarum , modorum :
articulus obiecta determinans: pronomen ad vitandam satictatern: verbum
relationem exhibens inter obiecta , et istud substantivum, quod semper inest
ceteris, quae adiectiva dicuntur. Eidem convenit notio temporis, et variis
modis inflectitur. Verbum est aliquando iterum modificandum , idque fit per
adverbium , quasi comes verbi ; in qua modificatione sunt gradus positivus,
comparativus, superlativus: sunt quaedam ideae temporis, passionis, actionis,
quae mistae veluti sunt ex nomine, et verbo, hae particivis exhibentur: sunt
innumerae aliae relatìoncs obiectorumrepraesentandae,puta
loci,proclivitatis,directionis aliaque id genus , quae praepositionibus
significantur. In tabula. Grammatica dici potest ars ideas pingendi per verba ,
est enim a graeco vocabulo gramma pictura , seu a verbo graphein describere ,
et pingere; vocabulis namque cogitationis nostrae veluti tabulam pingimus. Hinc
tot sunt vocabulorum,et terminorum species , quot idearum. Sunt praeterea
termini positivi , qui aliquam reipsa ideam denotant, ut homo, arbor , etc.
negativi qui absentiam alicuius ideae SIGNI-FICANT, ut nihil, ignorantia, tenebrae.
Terminus positivus,qui eam dem ideam constanter denotat,fixus dicitur, qui vel
proprius est,si uni,eidemque rei significandae sem per inservit , ut Plato , Aristoteles
; vel univocus si pluribus rebus sub eadem significatione tribuatur, ut sunt
omnia vocabula generum , et specierum. Qui modo hanc , modo illam ideam exhibet
dicitur v a gus, vel aequivocus. Potest autem aequivocus esse vel casu, nempe
hominum arbitrio ; vel consilio , quum res diversae , quae eodem termino
significantur , ali quam habent similitudinem, et analogiam, unde ter minus
analogus , seu metaphoricus dicitur , ut termi nus leo , quo etiam homo fortis
significari consuevit ob analogiam fortitudinis, qua homo cum leone con venit.
Tandem termini dicuntur etiam synonimi, cum variis vocabulis eamdem ideam
significamus. denique cogitationis , omnia sunt coniungenda, quod coniunctio. nes
efficiunt.Haec duo postrema,una cum adverbiis elyptica di cuntur, quia brevitati
inserviunt. Non solum idearum, sed affe ctuum etiam , et sensationum pictura
quaedam esse debet , huic officio addictas interiectiones , quarum imitationes
sunt a c centus , quidam veluti cantus , qui vocabula vivificant , animâque donant
, unde spiritus à Graecis, sapores ab Hebraeis dicti sunt. Putat Tracyus (qui
sermonis analysim in sua grammatica philosophica, et universali dedit)
interiectionem alias sermonis partes ordine praecessisse quemadmodum
sensationes praecedunt ideas ipsamque esse quoddam propositionis genus. Vocabula
vere synonima , si existerent, linguae perfectioni. Quum vocabulis ideas mente
conceptas signia ficemus , iam sequitur, ipsa non esse signa idearum, quae in
audientium animis sunt', sed earum solum , quas loquens in mente habet.Hinc
quum pro varia h o minum cognitione, variae in diversis hominibus de eadem re
ideae esse possint, necesse est, ut idem v o cabulum a diversis pronunciatum
,diversnm etiam sen sum continere possit. Unde si verum vocabuli sensum determinare
velis, ut aliorum sensa assequaris , non ex propriis ideis tuis, sed e
scribentis , vel loquen tis mente ipsum interpreteris oportet. Quare d u m alio
rum scripta legis, vel sermones audis , cave ne tuae ideae , quae latenter
subrepunt, efficiant, ut aliorum sensa in tuam sententiam quandoque iniquissime
d e torqueas , et eas vocabulis ideas subiicias. Ex eo quod vocabula sint
idearum nostrarum signa, patet ideas et vocabula ita esse eadem esse debeat
utrarumque oeconomia ,'et quae de illis praedicantur, de istis aeque possint
usurpari. Hinc maxima est vocabulorum vis in scientiis, quae quantum iis
perficiantur intelliges, si teneas eiusdem esse vis in scientiis vocabula, ac
in arithmetica numeri, in algebra litterae, in geometria figurae. In ideas vero
ipsas, et operationes mentis n o quas auctorem ipsum in mente habuisse ,
expensis omnibus, verisimillimum non est. connexa ut oílicere viderentur. Sunt
autem quaedam impropries ynonima,quae nempe repraesentant quidem eamdem ideam
principalem sed non casdem accessorias, ut verba amo, et diligo. strae tantus
est vocabulorum influxus, ut sine illis ne tacita quidem mentis cogitatione vix
aliquid mente revolvere posse videamur. Iisdem ideae complexae usque, et usque
resolvuntur ; resolutae autem uno vocabulo iterum comprehenduntur, unde
attentio, et memoria mirum in modum iuvatur; sicut eorum sono, accentu, melodia,
imaginationi succurrimus. Comparate ad alios communicationi inserviunt, et in
SERMOVE CIVILI, aesthetico , et philosophico,qui caeteris accuratior esse debet,
culturam , humanitatemque augent. Sed quantum mentem , scientiasque perficit
rectus vocabulorum usus ; tantum obest eorumdem abusus. Errat enim semper qui
bene non utitur lin gua. Hi autem abusus ortum habent. ex naturali vocabulorum
imperfectione ; cum enim comparate ad ideas exiguus admodum sit vocabulorum
numerus , fit saepe ut uno vocabulo plures quandoque etiam discrepantes ideas, aut
admodum complexas exprimere cogamur. Nihil magis ostendit huiusce sermonis
utilitatem , quam surdi-muti nondum instructi, pueri, etsylvestres. Quoad
surdos mutos praesertim ,'censet Bonald , ipsos nihil cogitare. Quanta igitur
gratia est habenda D. Ponce, Andres, De-l'Epée, Sicard, Assaroti, aliisque. Ex
hominum vel socordia, vel malitia. Abulimur nimirum vocabulis cum iis vel obscuram,
vel confusam, vel nullam ideam afligimus; quod vi tium ex eo est , quod a
pueris prius vocabulum. Hos autem abusus praecavebimus Si vite mus voces
ambiguas,obscuras,aequivocas,sine sensu, antiquatas, barbaras, nimium translatas,
nimium e m phaticas. Si prius ideam in mente concipiamus, tum de signo,quo
eadem exprimatur solliciti simus; ab ideis enim ad vocabula progredi nos
oportet,non vicissim. Si vocabulorum sensus in eodem sermo nis filo constanter
idem relineatur ; vel si necessitas contrarium expostulet, auditor, aut lector
praemo neatur , nisi ex adiunctis id manifeste colligi possit. Si utamur
vocabulis usitatis, quae ab iis desu menda sunt auctoribus, qui studio, et
labore per rum sermonibus, aut scriptis accuratior vocabulorum usus communi
doetorum suffragio elucet. Licebit ta men aliquando nova condere vocabula pro
novis ideis exprimendis, dummodo id prudenter fiat. Si fixum quam ideas
mente informare consueverimus; vel ex eo quod velimus aliquando pertinaciter
desperatam sententiam nostram defendere. Abulimur quum in sermonis decursu
eamdem vocem in diversa signific. catione usurpamus quin auditorem, aut
lectorem m o neamus. Quum obscuritatem sublimioris cuiusdam doctrinae famam
captemus. Hinc vocabula barbara peregrina obsoleta usurpamus, vel usitatis
novam significationem ad privatum arbitrium confictam affigimus. Quum vocabula
pro rebus ipsis accipimus, ac per eadem reales rerum essentias ex primi
arbitramur, quo vitio praesertim laborant ter mini abstracti. affectamus ut
inde pararunt,et in quo sit menti tantum per vocabula de rebus ipsis signi
ficari, quantum loquens de iis cognoscit. Si vocabula obscura , vel dubia, vel
aequivoca, accuratâ definitione declaremus; quae autem confusa sunt rite factâ
divisione distinguamus. Andrea Abba. Keywords: teoria del segno, segnare,
segnato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abba,” The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abbà #Abbà https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4581626745182618
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51640278106/in/photolist-2mFh9gv-2mFiexT-2mFmvLR-2mFh9gq-2mFh9gA-2mFgVyw-2mFmvLW-2mFmhWY-2mFkgpR-2mFcEYD-2mFcEYJ-2mFmhXK-2mDdaEq-2mD8ZFV-2mEiqh9-2bNcQfR-2bP1SP4-R3Ah1d-R43vL7-Pqghbe-2d7p5fd-2bNcQir-2d8byM3-21fAcHP-GjKJbv-FcebeC-E58e4H-E4u3XA-DndBhH-Bq5Mgn-jkGK9m-js45BA-jkK47d-jkJZJm-hSTpSd-CkaHMd-CfbuaM-BpEqsh-CntuMM-BvUfSB-BFQviK-BDuNmW-o45YVC-o619tS-nUb9rJ-jkEKUz-idiqKe-idiMHY-idirUj-hJJo1T
Grice ed Abbagnano –
filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo. Grice:
“There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be different, dubbed his
‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later illuminismo), and MY
Abbagnano, the one who explored that infamous Greek embassy that arrived in
Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the fascination of the
Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist Italian
philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has no
entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history of
philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce. Nicola Abbagnano (n. Salerno), filosofo. Laureatosi
in filosofia a Napoli con Antonio Aliotta, insegna dapprima al Liceo Umberto I
ed all'Istituto Superiore di Magistero "Suor Orsola Benincasa" del
capoluogo campano, per poi trasferirsi all'Torino dove è Professore di Storia
della filosofia prima presso la Facoltà di Magistero, poi presso quella di
Lettere e Filosofia; è condirettore, a fianco di Norberto Bobbio, della Rivista
di filosofia; è stato ispiratore del gruppo di intellettuali e filosofi,
comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e Ludovico Geymonat, che prende
il nome di "neoilluminismo italiano", organizzando una serie di
convegni rivolti alla costruzione di una filosofia "laica", aperta ai
principali orientamenti del pensiero filosofico internazionale. Collabora con
il quotidiano La Stampa; si trasferisce poi a Milano dove collabora con Il
Giornale di Indro Montanelli e dove viene eletto consigliere comunale nelle
liste del Partito Liberale Italiano e assume per circa un anno la carica di
assessore comunale alla Cultura. Divenne socio dell'Accademia delle
scienze di Torino. È stato uno dei promotori del Centro di studi metodologici
di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia,
negli anni trenta e quaranta, la conoscenza delle correnti esistenzialistiche
francesi e tedesche, in particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera
"Le sorgenti irrazionali del pensiero," Abbagnano esalta l'azione
creativa, la volontà e l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre
alla verità. Erano elementi che egli ritrova soprattutto nella filosofia di
Giovanni Gentile. Fondamentale nell'evoluzione della sua filosofia è il saggio "La struttura
dell'esistenza," pubblicata a Torino, nella quale propose una terza
alternativa alle due correnti appartenenti all'esistenzialismo, quella di
Heidegger e quella di Jaspers. Abbagnano definisce la propria visione
filosofica come esistenzialismo positive. Esso, pur non esplicitamente
formulato in veste sistematica, individua la centralità dell'esistenza come
momento ontologicamente fondativo, considerando la razionalità dell'uomo come
lo strumento principe in grado di garantire a questo fondamento un valore
positivo contro ogni possibile nichilismo. Diversamente rispetto
all'impostazione di Heidegger e di Jaspers, Abbagnano evidenzia l'importanza
della libertà e della indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre
a porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo
che lo circonda il pensiero di Abbagnano insiste molto su un chiarimento
dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con quello della
necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo,
fatto che spiega la sua forte critica nei confronti queste due scuole
filosofiche. Nello saggio "Possibilità e libertà," l'autore chiarì il
senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica dell'uomo
imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure ottimista al
punto da concedere all'essere una realizzazione certa. In quegli stessi anni
prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo",
nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di
empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Il
movimento, che ha avuto sin dal principio una configurazione culturalmente e
politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una
visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che
al pensiero cattolico. Abbagnano aveva del resto ripetutamente criticato
all'idealismo e al neoidealismo la tendenza a sottostimare il valore della
scienza, da lui invece considerata una disciplina indispensabile per la ricerca
della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una
disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari valore e ad essa
complementare. Abbagnano insistette nei suoi lavori sui concetti di
libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di scegliere, la
seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni dell'uomo. Anche il
positivismo di stampo ottocentesco fu oggetto di critica tramite la
contrapposizione con le filosofie di Immanuel Kant e Søren Kierkegaard. Nel
suo "esistenzialismo positivo," Abbagnano insiste molto sulla
finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua
costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente
nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere.
Negli ultimi anni questo lucido senso del limite e della problematicità
esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose,
inteso come un aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. Ed è
proprio questo senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni
(illusoria) infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondaresecondo
l'ultimo Abbagnanola possibilità di un incontro genuino fra credenti e non
credenti. E ciò all'insegna di quella ”umiltà del pensiero” (come la chiamava
il filosofo) che rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del
dialogo e del reciproco rispetto». Oltre che autore di saggi su singoli
filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), Abbagnano è stato anche l'autore
di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate intere generazioni
di studenti e di docenti. Egli ha realizzato anche un "Dizionario di
filosofia," considerato tra i migliori a livello internazionale. La Storia
della filosofia (sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia,
sia nella versione universitaria pubblicata dalla Utet) è stata poi aggiornata
dal suo allievo Giovanni Fornero, in collaborazione con Dario Antiseri e Franco
Restaino, in due volumi sulla filosofia contemporanea. Lo stesso Fornero,
insieme a un'équipe di noti studiosi, ha curato anche l'aggiornamento e
l'ampliamento del "Dizionario di filosofia." Opere: Le sorgenti
irrazionali del pensiero, Genova-Napoli, Perrella. Il problema dell'arte,
Genova-Napoli, Perrella. Il nuovo idealismo, Genova-Napoli, Perrella. La
filosofia di E. Meyerson e la logica dell'identità, Napoli-Città di Castello;
La vita di Ockham, Gubbio, Oderisi. Guglielmo di Ockham, Lanciano. La nozione
del tempo secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di
una teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La
struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo,
Milano, Bompiani, 1Storia della filosofia I, Filosofia antica. Filosofia
patristica. Filosofia scolastica, Torino, UTET, II.1, Filosofia moderna sino
alla fine del secolo XVIII, Torino, UTET, 1II.2, Filosofia del romanticismo.
Filosofia contemporanea, Torino, UTET, II, Filosofia del Rinascimento, la
filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, Torino, UTET, La filosofia del
Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e XX, Torino, UTET, 4ª ed.
aggiorn. e riv. voll. I, II, III, con aggiunta del IV (La filosofia contemporanea): tomo 1 di G.
Fornero, L. Lentini, F. Restaino; tomo 2 di G. Fornero, D. Antiseri, F.
Restaino. UTET, Torino, Filosofia religione scienza, Torino,
L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario
di filosofia, Torino, UTET, (aggiornato e ampliato da Giovanni Fornero). Per o
contro l'uomo, Milano, 1Fra il tutto e il nulla, Milano, (con Aldo
Visalberghi), Linee di storia della pedagogia, 3Torino: Paravia, Questa pazza
filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La
saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti
esistenzialisti, B. Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Marcello
Staglieno, Milano, Protagonisti e testi della filosofia, Milano,
L'esercizio della libertà. Scritti scelti , B. Maiorca, ed. riv. agg. e
integrata, Boni, Bologna, 1Esistenza e metafisica, B. Maiorca, Milella, Lecce,
Scritti neoilluministici, B. Maiorca, introduzione diRossi e C. A. Viano, UTET,
Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da G. Fornero, Abbagnano tra
limite e mistero, «Avvenire», 28 settembr .
La prima edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che aveva già pubblicato un Sommario di filosofia
per i licei risale agli anni 1945-1947 (per il manuale scolastico) (per il
manuale universitario). Attraverso successive edizioni e aggiornamenti (per
opera di Giovanni Fornero) tale storia continua a essere la più diffusa nelle
nostre scuole. N. Bobbio, Discorso su
Nicola Abbagnano, in: N. Abbagnano, Scritti scelti, Taylor, Torino, N. Bobbio,
La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Luigi
Pareyson, Il pensiero di Nicola Abbagnano e i suoi sviluppi recenti in Id.,
Esistenza e persona, Taylor, Torino, Antonio Aliotta, L'esistenzialismo
positivo di N. Abbagnano, in Id., Critica dell'esistenzialismo, Perrella, Roma;
G. Giannini, L'esistenzialismo positivo di Abbagnano, Morcelliana, Brescia, P.
Chiodi, L'esistenzialismo, Loescher, Torino); F. Lombardi, L'esistenzialismo in
Italia, in Id., La filosofia italiana negli ultimi cento anni, Arethusa, Asti, Antonio
Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino, Norberto
Bobbio, Discorso su Abbagnano, in N. Abbagnano, Scritti scelti (Giovanni De
Crescenzo e Pietro Laveglia), Taylor, Torino); Giuseppe Semerari, Il
neoilluminismo filosofico italiano, in Id., Esperienze del pensiero moderno,
Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana nelle sue relazioni con altri
campi del sapere, Atti del Convegno di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, 1988.
Giuseppe Semerari, Genesi e formazione dell'esistenzialismo positivo, in Id.,
Novecento filosofico italiano, Guida, Napoli. Mirella Pasini, Daniele Rolando ,
Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Nino
Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. Abbagnano and His
Predecessors, Temple University Press, Philadelphia. G. Cacciatore, G. Cantillo
, Una filosofia dell'uomo, Atti del Convegno in memoria di N. Abbagnano
(Salerno), Comune di Salerno. Marco Delpino, Paolo Riceputi , L'uomo e il
filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento di
G. Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure. Silvio
Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici"
di Torino, Pantograf (Cnr), Genova, 1998 Bruno Maiorca, Seam, Roma, Bruno
Miglio , Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, Atti del Convegno per il
centenario della nascita (Torino,), Il Mulino, Bologna); Aniello Montano, Il
prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, Bruno Maiorca, Nicola Abbagnano.
Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma, 2003. Rosanna Panelli Marvulli, 'Tributo
ad Abbagnano', in abbagnanofilosofo., . Rosanna Panelli Marvulli, Abbagnano.
Una vita per la filosofia, con un saggio di Giovanni Fornero, UTET, Torino, .
Silvio Paolini Merlo, Abbagnano a Napoli. Gli anni della formazione e le radici
dell'esistenzialismo positivo, Guida, Napoli, C. Viano, Stagioni filosofiche.
La filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia, Il Mulino, Bologna, Pietro
Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano
del Novecento, Il Mulino, Bologna, Giorgio Primerano, La prospettiva pedagogica,
Aracne Editrice, Roma, Silvio Paolini Merlo, L'esistenza come struttura: Abbagnano
e l'esistenzialismo, Editoriale Scientifica, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Mito
e ragione mitica. Corollari sull'estetica di Nicola Abbagnano, in Id., Estetica
esistenziale, Mimesis, Milano, . Franco Ferrarotti, Un greco in via Po.
Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano, Edb, Bologna. TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Opere di N. Abbagnano, Sito dedicato, su abbagnanofilosofo. Filosofia
Filosofo del XX secoloStorici della filosofia italianiAccademici italiani Professore
Salerno MilanoEsistenzialistiStudenti dell'Università degli Studi di Napoli
Federico IIProfessori dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Professori
dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di
ToriRefs.: Grice, “Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a
hoot care what the dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. –
Niccola Abbagnano. Abbagnano. Keywords: filosofia latina, filosofia romana,
filosofia italiana, impiegare, implicare, dizionario filosofico. Luigi Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
#abbagnano https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4420041904674437 #griceedabbagnano
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51703112979/in/photolist-2mTsNRZ-2mSUzzj-2mRRj7t-2mQPiYS-2mQiU3r-2mQ81kz-2mPXDFp-2mPNuPp-2mPAuFE-2mPr8cN-2mPmmR4-2mMV4GM-2mMZzKx-2mLLY7G-2mLLZRD-2mLPYcg-2mLLviz-2mLGq3t-2mLR4iH-2mLR4iC-2mLPYbp-2mLLvij-2mLMXvp-2mLR4jj-2mLR4is-2mKFBfD-2mKy4zb-2mKGJPF-2mKFCz2-2mKGJ35-2mKGGuF-2mKGJGG-2mKGJmB-2mKFzRw-2mKygXY-2mKFNT3-2mKHfUW-2mKj2vX-2mKbsp3-2mKfbWa-2mJPC2N-2mFAjs7-2mFiexT-2mFh9gv-2mFiexC-2mKC9pY-2mFmvLR-2mFh9gq-2mFh9gA-2mFmvLW
Grice ed Abbri – i quattro elementi – filosofia
italiana (Agliana). Filosofo. Grice: “I like Abbri; he is the equivalent of
what *I* would be if I present myself as “The Philosopher of Staffordshire” –
for Abbri is obsessed with Toscana – “Toscana e la scienza nuova,” “Filosofia e
scienza nella Toscana del Seicento,” – he has also studied the philosophies
(particelle) of Santi and Volta -- Filosofo. Sii è laureato in filosofia con
Rossi a Firenze con una tesi su Filosofia, chimica e linguaggio; è stato
borsista della Domus Galilaeana di Pisa e successivamente ricercatore
confermato presso il Dipartimento di filosofia dell'Firenze. Dal 1976 collabora
con l'Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, oggi Museo Galileo,
come membro del Comitato scientifico dell'Istituto e, dal 1986, anche come
membro dell'editorial board della rivista Nuncius. Inoltre, negli stessi anni,
è entrato a far parte del comitato editoriale delle riviste Prospettiva EP e
Arkete; è nominato professore straordinario di storia della filosofia moderna e
contemporanea presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università della
Calabria, Cosenza, dove ha anche insegnato storia della filosofia medievale.
Dal 1990 ha diretto, con Franco Crispini, la collana Storia delle idee della
casa editrice Rubbettino. Professore di storia della filosofia e professore
supplente di storia della musica moderna e contemporanea presso la Facoltà di
lettere e filosofia di Arezzo, Siena; della Facoltà aretina è stato inoltre
preside, nnonché direttore del Dipartimento di studi storico-sociali e
filosofici. Ha ricoperto la carica di segretario della Società Italiana di
storia della scienza. È stato in più occasioni visiting scholar all'Uppsala e
al Centro di storia della scienza dell'Accademia reale svedese delle scienze di
Stoccolma e membro dello steering committee di un progetto europeo sulla storia
della chimica moderna e contemporanea finanziato dalla Fondazione europea per
la scienza di Strasburgo. Attualmente insegna storia della filosofia ad
Arezzo nel Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione
interculturale, e storia della filosofia e filosofia morale nel Dipartimento di
scienze storiche e dei beni culturali a Siena. È Presidente del Comitato della
didattica della LM interclasse di storia e filosofia di Siena-Arezzo. I
suoi studi riguardano la storia delle idee filosofiche e scientifiche, con una
particolare attenzione per la storia dell'alchimia dal Medioevo al Seicento,
della prima chimica, da Paracelso a Lavoisier, della magia e della cultura filosofico-scientifica
europea, dal Rinascimento all'Età dei Lumi, dei rapporti tra religione e
scienza e tra musica e filosofia nell'Età moderna. Si interessa inoltre della
filosofia e della cultura britannica del Novecento, di storia della
storiografia filosofica e scientifica, del rapporto tra femminismo e scienza e
tra storia antica e narrazione cinematografica. I suoi numerosi studi
hanno portato alla pubblicazione di varie opere uscite in Italia e all'estero;
i suoi saggi sono apparsi in riviste italiane e straniere e in volumi editi in
Francia, Paesi Bassi, Svezia, Germania e USA. Si è interessato alla
cultura scandinava e in particolare alle relazioni tra Italia e Svezia nel
secolo XVIII e ha curato la pubblicazione di carteggi inediti di scienziati
toscani con scienziati svedesi e russi. Vari lavori riguardano la
letteratura, la filosofia e la musica nell'Inghilterra del Novecento, con particolare
riferimento a McTaggart, Moore, Bloomsbury Group; il suo libro più recente
riguarda la filosofia della musica nell'800 britannico. Alcuni lavori
riguardano la metafisica e la filosofia della religione di Linneo, Priestley e
la tradizione sociniana e unitariana. In previsione di un lavoro monografico su
Priestley e l'apologetica del cristianesimo, le sue indagini considerano le
radici teologiche e filosofiche dell'unitarismo del chimico e filosofo inglese,
soprattutto la sua lettura delle opere di Fausto Sozzini e della Catechesis
Racoviensis. In altri scritti analizza le vicende delle tradizioni
storiografiche, filosofiche e scientifiche in Italia, con particolare
attenzione all'opera di Aldo Mieli che fu uno dei promotori della moderna
storia della scienza nel contesto internazionale. I suoi lavori più
recenti vertono sui dibattiti contemporanei, nell'ambito delle varie tradizioni
cristiane, relativi ai problemi connessi al gender e gli sviluppi della
tradizione sociniana nell'Età dei Lumi. OPAC del Museo Galileo, su
opac.museogalileo. Bernardette
Bensaude-Vincent, Ferdinando Abbri , Lavoisier in European context: negotiating
a new language for chemistry, Canton, Science history publications, Ferdinando
Abbri, Un dialogo dimenticato: mondo nordico e cultura toscana nel Settecento,
Milano, Franco Angeli, Un altro paesaggio: studi sulla musica britannica del
Novecento, Firenze, Edifir, Miti, sogni e storie: filosofia e musica nel
Novecento britannico, Milano, Franco Angeli, F. Abbri, Un paese musicale :
filosofie della musica nell'Ottocento britannico, Milano, Prometheus, , Ferdinando
Abbri, Professore, Siena, su segreteriaonline.unisi. Dipartimento di
scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale,
Università degli studi di Siena, su dsfuci.unisi. Museo Galileo, su
museogalileo. Nuncius: Journal of the material and visual history of
science, su museogalileo. Filosofi italiani del XXI secoloStorici della
scienza italiani 1951 12 luglio d Agliana. socinianesimo Dottrina
teologico-morale elaborata e sistematizzata da Lelio e Fausto Socini. Del s. (i
seguaci di questa dottrina si davano il nome di unitarii o di Fratres Poloni,
perdurante fino alla metà del Seicento; mentre la qualifica di sociniani appare
solo sul finire del 17° sec., durante l’esilio olandese) sono più comunemente
noti il razionalismo religioso (nella Scrittura non ci può essere nulla contro
la ragione, anche se ci può essere molto sopra la ragione; nella deduzione
della dottrina cristiana dalla Scrittura si deve procedere solo secondo
ragione, poiché ciò che nella Scrittura è detto sopra la ragione non può esser
commentato; dal che deriva che nessun dogma tradizionale, e tanto meno quello
trinitario, e nessuna istituzione, come i sacramenti, possono essere accettati,
in quanto appaiono irrazionali e non esplicitamente ed evidentemente dichiarati
nella Scrittura), il principio della tolleranza religiosa (purché la vita da
loro praticata corrisponda in pieno ai precetti evangelici, fra i quali anche
la non-violenza, tutte le Chiese o tutti i gruppi che riconoscono come norma di
vita i precetti di Cristo vanno riconosciuti come cristiani, quindi non vanno
perseguitati). Questi motivi sono fondati sulla concezione della religione
cristiana come metodo (via) per raggiungere la salvezza, rivelatoci con i suoi
precetti dall’uomo divino, ma mero uomo, Gesù Cristo, per volere di Dio che
l’aveva ispirato, e quindi sulla riduzione della religione a eticità fondata
sul complesso di norme del Vangelo. Concepita la religione in funzione
esclusivamente etica, essa non poteva essere interpretata che razionalmente e
le divergenze teologiche, dogmatiche, non potevano, di fronte alla preminenza
delle norme etiche, non apparire fantasie speculative. Tali principi furono
elaborati e argomentati con una esegesi sottilissima da F. Socini, che aveva
cominciato con il dimostrare razionalmente, con uno dei primi esempi di critica
filologica in grande stile applicata ai problemi religiosi, l’autenticità della
Sacra Scrittura e la preminenza della religione cristiana; ma raccolgono nella
formulazione estrema motivi diffusi già nel Rinascimento italiano e negli
ambienti ereticali del Cinquecento. I motivi schiettamente religiosi furono il
rinnovamento della pietà proposto da G. Contarini e da I. Sadoleto, l’ideale
della imitatio Christi raccolto in ambiente italiano da C.S. Curione e S.
Castellione; altri motivi, connessi e derivati dai primi, furono l’indifferenza
valdesiana per le questioni dogmatiche e la semplificazione dei dogmi condotta
all’estremo da Aconcio sulle orme di Erasmo. Agirono inoltre anche elementi di
origine filosofica, come la coscienza universalistica e irenica tratta dal
neoplatonismo toscano, l’estensione della critica filologica di Valla, l’uso di
argomentazioni familiari all’aristotelismo padovano. In Polonia il movimento
sociniano ebbe la sua capitale nel centro culturale di Raków; il periodo più
fiorente fu quello degli ultimi decenni del 16° sec. e dei primi del 17°. Dura
la persecuzione in Polonia, culminata con l’espulsione. Gli esuli andarono
parte presso gli unitari transilvani, dei quali condivisero la sorte di Chiesa
a mala pena tollerata sotto la preponderanza calvinista e poi perseguitata
dagli Asburgo cattolici; in parte, attraverso Holstein, in Olanda, dove già
erano conosciuti fin dagli ultimi anni del 16° sec. e condannati; ma furono
accolti nelle riconosciute comunità dei rimostranti, e poi dei collegianti, e
poterono esercitare una vasta attività culturale: i loro principi furono
discussi da Spinoza e da Leibniz, e permearono la cultura religiosa olandese.
Dall’Olanda il s. si diffuse, per mezzo della stampa, in Inghilterra, dove il
terreno era stato preparato da Aconcio e dove, se da un lato unì in gran parte
la sua storia a quella della Chiesa unitaria, dall’altro penetrò anche,
attraverso le università, tra il clero anglicano e nella società colta inglese:
sociniani, benché non unitari, furono W. Chillingworth, R. Baxter, J. Milton,
Newton, W. Penn. La ‘controversia antitrinitaria’ del 1687 costituì lo sfondo
storico della Lettera sulla tolleranza (1689) di Locke. Così il s. cooperò alla
preparazione del deismo e della libertà religiosa, e assieme a essi fu
combattuto dal metodismo. In America, dove il s. assunse definitivamente il
nome di unitarianismo, il razionalismo etico di questa corrente religiosa
alimentò figure come T. Parker. Ferdinando Abbri. Abbri. Keywords: socianesimo,
Socini, Sozzini, Fausto Sozzini, catechesis racoviensis, socini -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Abri” – The Swimming-Pool Library. #abbri https://www.facebook.com/media/set?vanity=j.l.speranza&set=a.5258949264117026 #griceedabbri https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702718328/in/photolist-2mLMWS5-2mLR3FA-2mLLuGu-2mLMWRP-2mLR3FW-2mLGptY-2mLR3FL-2mKFE9z-2mKFDTV-2mKDGVQ-2mKFPym-2mHGgw3-2mFzUKN-2mFzUKT-2mFJo9H
Grice ed Accetto – DELLA DISIMVLATIONE HONESTA –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Trani).
Filosofo. Grice: “I learned so much about Accetto, and I hope it showed in my
talk at Brighton on ‘meaning, revisited.’ For Accetto, unlike Strawson, there
is ‘disimulazione onesta’ and ‘simulazione disonesta.’ Accetto notes that there
is an implicature to the effect that ‘disimulazione’ is disonesta per se and
hence he tried to provoke the duchess of Malfi by his little treatise on ‘Della
simulazione onesta’ – “An oxymoron, if ever there was one --,’ the duchess told
the duke --.” Filosofo. Nativo di Trani, visse ad Andria e fu in relazione con
la cerchia del marchese Giovanni Battista Manso, il mecenate napoletano che fu
biografo di Torquato Tasso nonché fondatore dell'Accademia degli Oziosi. Scrisse varie rime, nelle quali evidenziò la
sua delicata coscienza morale e il breve trattato Della dissimulazione onesta:
nato nel contesto della dominazione spagnola in Italia, fu pubblicato a Napoli e
rapidamente dimenticato. Il libello fu poi riscoperto da Benedetto Croce
all'inizio Professoree ripubblicato da Salvatore S. Nigro. La
"dissimulazione", tematica al centro dei dibattiti all'epoca, non è,
per Accetto, sinonimo di menzogna, ma invito al raccoglimento e alla cautela.
L'analisi di Accetto pone la questione, da un piano di politica spicciola, su
un piano di accurata indagine morale: l'autore, alquanto speciosamente,
differenzia la simulazione, moralmente riprovevole perché viziata da intenzioni
cattive, dalla dissimulazione, che invece pareva all'Accetto l'unico rimedio
per difendersi da una società pullulante di simulatori e per trionfare delle
proprie passioni. La ricetta però per risultare vincente richiede una onestà di
animo e un buon equilibrio. Opere
Edizioni originali: Rime di Torquato
Accetto, Napoli: nella stampa degli heredi di Tarquinio Longo, Rime del signor Accetto,
divise in amorose, lugubri, morali, sacre, et varie, Napoli: nella stampa di
Giacomo Gaffaro, Della dissimulazione onesta, Napoli, Edizioni moderne: Rime amorose, edizione critica Salvatore S.
Nigro, Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta, edizione critica Salvatore
S. Nigro; presentazione di Giorgio Manganelli, Genova: Costa & Nolan, nuova
edizione Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta Rime, E. Ripari, Milano:
BURRizzoli, . Note "Le Muse",
De Agostini, Novara, B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Eugenio
Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, 1966 Rosario Villari, Breve
riflessione sulla Dissimulazione onesta di Torquato Accetto, R. Villari, Elogio
della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, RomaBari, Laterza, sapere,
De Agostini. Torquato Accetto, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Torquato Accetto, su Liber Liber. Opere di Torquato Accetto, su openMLOL,
Horizons U. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si
accompagna con la dissimulazione Io tratterei pur della simulazione, e
spiegherei appie- no l'arte del fingere in cose che per necessità par che la
ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di
meno; e benché molti dicano: “Qui nescit fingere nescit vivere”, anche da molti
altri si af- ferma che sia meglio morire, che viver con questa con- dizione. In
breve corso di giorni o d'ore o di momenti, com'è la vita mortale, non so
perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa,
aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera
essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando
imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo. Basterà dunque il discorrer della
dissimu- lazione, in modo che sia appresa nel suo sincero signifi- cato, non
essendo altro il dissimulare, che un velo com- posto di tenebre oneste e di rispetti
violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per
di- mostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nel- l'ordine
dell'universo sia il giorno e la notte, cosí con- vien che nel giro delle opere
umane sia la luce 16 e l'ombra, dico il proceder manifesto e nascosto,
con- forme al corso della ra- gione, ch'è regola della vita e degli accidenti
che in quella oc- corrono. Alcuna volta è necessaria la dissimulazione, e fin a
che termine La frode è proprio mal dell'uomo, essendo la ragione il suo bene,
di che quella è abuso; onde nasce ch'è im- possibile di trovar arte alcuna, che
la riduca a segno di poter meritar lode: pur si concede talor il mutar manto,
per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di fare, ma
di non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si
suol valere della dissimulazione, che però non è frode; ed anche in senso tanto
moderato, non vi si dee poner mano se non per grave rispetto, in modo che si
elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono alcuni che si trasforma-
no, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta
con prodiga mano in ogni pic- ciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú
bisogna, perché scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro cre- da.
Questo è per avventura il piú difficile in tal indu- stria; perché, se in ogni
altra cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il
contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in
pratica di buona riuscita. È dunque dura impresa il far con arte perfetta
quello che non si può essercitar in ogni occasione, e però non è da dir che
Tiberio fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; e
ciò considero perché, dicendo Cornelio Tacito: “Tiberioque etiam in rebus quas
non occuleret, seu natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba”;
non solo disse prima: “plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat”, ma
conchiude: “At patres, quibus unus me- tus, si intelligere viderentur”, ecc.;
ecco che si accorgea- no chiaramente della sua intenzion in quelli continui ar-
tifici. In sostanza il dissimular è una professione della qual non si può far
professione, se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma-
schera ogni giorno, sarebbe piú noto di ogni altro, per la curiosità di tutti;
ma degli eccellenti dissimulatori, che sono stati e sono, non si ha notizia
alcuna. 1Della disposizione naturale a poter dissimulare Quelli in chi prevale
il sangue o la malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto indisposto a
dissimu- lare. Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa
facilmente celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor
malinconico, quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente
le na- sconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran conto de'
dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleran- zia; e la collera, che è fuor
di misura, è troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato
dun- que è molto abile a questo effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle
tempeste del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è tranquillo l'animo,
parer turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile,
se non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che
sogliono attribuir a certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri,
stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire che, in ogni paese, son di quelli
che l'hanno e di que' che non vi si sanno ac- commodare; ma piú è certo che gli
uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la
volontà si gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in
que' versi: Voi che vivete ogni cagion recate pur suso al cielo, sí come se
tutto movesse seco di necessitate. Se cosí fosse, in voi fora distrutto libero
arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per mal aver lutto. Il cielo
i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto che 'l dica, lume v'è dato
a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie del
ciel dura, poi vince tutto, se ben si nutrica. A maggior forza e a miglior
natura liberi soggiacete; <e> quella cria la mente in voi, che 'l ciel
non ha in sua cura. Dell'esercizio che rende pronto il dissimulare Da chi ha
per non plus ultra le porte delle natie con- trade, o che da' libri non
apprende il lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con difficultà si
viene al consiglio della dissimulazione; perché in persona cosí molle e poco
intendente, riesce molto dura questa prati- ca, la qual contiene l'esser
d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi non s'è
tanto ri- stretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena autorità che
l'uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo, e riserba pur a tempo, quelle
deliberazioni che domane per avventura saranno buone, ed oggi sono per-
niziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò di Ulisse,
“qui mores hominum multorum vidit et urbes”, o l'aver letto ed osservati molti
accidenti, è cagion potente a produrre una gentil disposizione di metter freno
agli affetti, acciò che non come tiranni, ma come soggetti alla ragione, ed a
guisa di ubbidienti citta- dini, si contentino ad accommodarsi alla necessità,
della quale disse Orazio: Durum, sed levius fit patientia quicquid corrigere
est nefas. Sí che tant'altezza di spirito si accresce per mezzo della vita
occupata negli affari del mondo, e nella considerazione del tempo passato, per
non contradir al pre- sente e poter far giudicio dell'avvenire. Stando la mente
cosí sodisfatta, non le parrà nuova qual si sia mutazio- ne che le si vada
rappresen- tando, ed in conseguenza dipenderà da lei, e non dal precipizio del
senso, l'espres- sion di quan- to le succede. Che cosa è la dissimulazione Da
poi che ho conchiuso quanto conviene il dissimu- lare, dirò piú distinto il suo
significato. La dissimulazio- ne è una industria di non far veder le cose come
sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di
Enea: Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem. Questo verso contiene la
simulazion de la speranza e la dissimulazione del dolore. Quella non era in
Enea, e di questo avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi
affanni: ricordava però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando
la rabbia di Scilla e lo strepito degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne
valse come per sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate rui- ne, tutte le
rie venture che lor già davan noia; e col dol- cissimo “meminisse iuvabit”,
conchiude: Per varios casus, per tot discrimina rerum tendimus in Latium, sedes
ubi fata quietas ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae. Durate, et vosmet
rebus servate secundis. Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo dolente,
perché “Talia voce refert curisque
ingentibus aeger.” Si vede in questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della
fortuna, e prima fu espresso da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore,
quando in altra figura dava di se stesso nuova alla sua Penelope; della qual
disse: Hac autem <iam> audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem
corpus sicut autem nix liquefit in altis montibus, quam Eurus liquefecit,
postquam Zephyrus defusus est liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur
fluentes: sic huius liquefiebant pulchrae genae lachrymantis flentis suum virum
assidentem. At Ulysses animo quidem lugentem suam miserabatur uxorem. Oculi
autem tanquam cornua stabant vel ferrum. Tacite in palpebris dolo autem hic
lachrymas occultabat. Ecco la prudenza con che Ulisse mettea freno alle la-
grime, quando era tempo di nasconderle; e la compara- zion di liquefarsi
Penelope, come la neve, mi dà occa- sione di soggiunger quello che sia l'umido
e 'l secco, di- cendo Aristotile: “humidum est quod suo ipsius termino
contineri non potest; facile autem termino continetur alieno. Siccum est quod
facile suo, difficulter autem ter- mino terminatur alieno”. Da che si può
apprender che il dissimular ha del secco, perché si ritien nel proprio ter-
mine; e questi son gli occhi di Ulisse rassomiliati, in tempo di dolore, alla
fermezza del corno e del ferro, quando que' di Penelope eran molli e non avean
termine 25 prescritto, conforme a quelle ch'eran versate nell'animo di
Ulisse, tenendo il ciglio asciutto, ed a questo par che corrisponda quella
sentenza di Eraclito: “Lux sicca, anima sapientissi- ma”. 26 IX. Del bene
che si produce dalla dissimulazione Presupposto che nella condizion della vita
mortale possano succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al
mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di
nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o
perché portan pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene
agli uomini, se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si
conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il
bello de' corpi che stanno soggetti alla mutazio- ne, e veggansi tra questi i
fiori, e tra' fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a
prima vista dis- simula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una sem- plice
superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch'ella
sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso: quella non par
che disiata avanti fu da mille donzelle e mille amanti; perché la
dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose,
anzi di quanto per la terra riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché
della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer cosa terre- 27 na,
quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato
dal favor dell'età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di
que' colori che han da dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte.
Giova dunque una certa dissimulazion della natu- ra, per quanto si contiene tra
lo spazio degli elementi, dov'è molto vera quella proposizione che afferma di
non esser tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde
sempre, perché ivi tutte le cose son bel- le dentro e fuori. Or, passando
all'utile che nasce dalla dissimulazione ne' termini morali, comincio dalle
cose che piú bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual si riduce
nella destrezza di questa medesima dili- genza. E leggendosi quanto ne scrisse
monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina inse- gna
cosí di ristringer i soverchi di- siderii, che son cagion di atti noiosi, come
il mo- strar di non veder gli errori altrui, ac- ciò che la con- versazione
riesca di buon gusto. 28 X. Il diletto ch'è nel dissimulare Onesta ed
util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di piacere; perché se la vittoria è
sempre soave, e come disse Ludovico Ariosto, Fu il vincer sempre mai lodabil
cosa, vincasi per fortuna o per ingegno, è chiaro che 'l vincer per sola forza
d'ingegno succede con maggior allegrezza, e molto piú nel vincer se stesso,
ch'è la piú gloriosa vittoria che possa riportarsi. Que- st'avviene nel
dissimulare, con che, dalla ragione supe- rato il senso, si riceve intiera
quiete; ed ancorché si sen- ta non poco dolor quando si tace quello che si
vorrebbe dire, o si lascia di far quanto vien rappresentato dall'af- fetto,
nondimeno piace poi grandemente d'aver usata so- brietà di parole e di fatti. A
questa conseguenza di sodi- sfazzione, ha da rivolger il pensiero chi disidera
di viver con riposo; e ciascun, che vuol ben accorgersene per gl'interessi
suoi, vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí ben conosca che tanto è
nostro quanto è in noi medesi- mi. Non dico che non si han da fidar nel seno
dell'amico i segreti, ma che sia veramente amico; ed è degno di gran
considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove parla a se stesso della
vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che stia nel mezzo
“prudens simplicitas”, dicendo: Vitam quae faciunt beatiorem, iucundissime
Martialis, haec sunt: res non parta labore, sed relicta; non ingratus ager, focus
perennis; lis nunquam, toga rara, mens quieta; vires ingenuae, salubre corpus,
prudens simplicitas, pares amici, convictus facilis, sine arte mensa; nox non
ebria, sed soluta curis; non tristis torus, attamen pudicus; somnus qui faciat
breves tenebras; quod sis esse velis nihilque malis, summum nec metuas diem nec
optes. Il prudente candor dell'animo è dunque il centro della tranquillità.
“Hoc opus, hic labor”. 30 XI. Del dissimulare con li simulatori Quelli
che si applicano al piacer della parte ch'è in noi soggett'alla morte,
sprezzando l'uso della ragione, si mutano in abito di fiere; perché tali son da
riputarsi, come fu espresso da Epicteto stoico, dicendo: “Certe misellus
homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At melius <etiam> quiddam
habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni duntaxat es deditus? Ob huius
societa- tem declinantes a meliore natura quidam, lupis similes efficimur, dum
sumus perfidi et insidiosi et ad nocen- dum parati: alii leonibus, quia feri,
immanes ac trucu- lenti: maxima vero pars vulpeculae sumus”. Da che si può
considerar un de' duri impedimenti nel dissimulare; poiché il guardarsi da lupi
e da leoni è cosa piú pronta per la notizia che si ha della lor violenza, e
perché poche volte si riscontrano; ma le volpi son tra noi molte e non sempre
conosciute, e quando si cono- scono, è pur malagevole usar l'arte contra
l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto chi piú saprà tener apparenza di
sciocco, perché, mostrando di creder a chi vuol in- gannarci, può esser cagion
ch'egli creda a nostro modo; ed è parte di grand'intelligenza che si dia
31 a veder di non vedere, quando piú si vede, già che cosí 'l giuoco è
con occhi che pa- ion chiusi e stan- no in se stessi aperti. Del dissimulare
con se stesso Mi par che l'ordine di questo artificio metta prima la mano nella
persona propria; ma si richiede prudenzia in estremo, quando l'uomo ha da
celarsi a se medesimo, e questo non piú che per qualche picciolo intervallo e
con licenza del “nosce te ipsum”, per pigliar una certa ri- creazione
passeggiando quasi fuor di se stesso. Prima dunque ciascun dee procurar non
solo di aver nuova di sé e delle cose sue, ma piena notizia, ed abitar non
nella superficie dell'opinione, che spesse volte è fallace, ma nel profondo de'
suoi pensieri, ed aver la misura del suo talento e la vera diffinizione di ciò
ch'egli vale, essendo di maraviglia che ogni uno attend'a saper il prezzo della
roba sua e che pochi abbian cura o curiosità d'intender il vero valor
dell'esser loro. Or, presupposto che si sia fat- to il possibile di saperne il
vero, conviene che in qual- che giorno colui ch'è misero si scordi della sua
disav- ventura, e cerchi di viver con qualche imagine almeno di sodisfazzione,
sí che sempre non abbia presente l'og- getto delle sue miserie. Quando ciò sia
ben usato, è un inganno c'ha dell'onesto; poiché è una moderata oblivio- ne,
che serve di riposo agl'infelici: e benché sia scarsa e pericolosa
consolazione, pur non se ne può far di meno, per respirar in questo modo; e
sarà come un sonno de' pensieri stanchi, tenendo un poco chiusi gli occhi della
cognizion della propria fortuna, per meglio a- prirli dopo cosí breve risto-
ro: dico breve, perché fa- cilmente si muterebbe in letargo, se troppo si
praticasse que- sta negligenza. Della dissimulazione che appartiene alla pietà
Quando considero che il vino fu trovato dopo il dilu- vio, conosco che non
bisognava minor quantità d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due cose:
una di Noè, che ne restò ignudo, e ciò ne dimostra che 'l vino è mol- to
contrario alla dissimulazione, e quanto questa s'im- piega a coprire, tanto
quello attende a scoprire; l'altra della pietà delli due figli, che con la
faccia indietro rico- prirono il padre, dissimulando di vederlo a tal termine,
quando dal lor fratello, già alienato da ogni legge di umanità, era schernito
ignudo colui che l'avea vestito delle proprie carni. Oh quanti son al mondo che
imitano questa mostruosa ingratitudine, facendo materia da ride- re chi loro
doverebber'esser oggetto d'amore e di reve- renza! Pochi son gl'imitatori di
que' due che seppero tro- var il modo di volger le spalle, per pietà, al padre,
non come molti fanno, che si lascian la paterna necessità dietro le spalle. Non
solo que' pietosi figli si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar
di non averlo ve- duto in tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a
scusar i disordini, ed in particolare que' de' superiori, ogni volta che alcuno
di loro v'incorre. Altri pietosi uffi- ci mi si rappresentano nell'istoria di Giuseppe
che, ven- duto da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di 35
piú riconoscerli per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada mansuetudine,
dissimulava il dono di quegli ele- menti che lor in apparenza vendeva, perché i
medesimi sacchi ne riportavano i danari a casa; finché, fatto venir anche
l'ultimo de' fratelli, e usati tutt'i modi di manife- star a tempo la sua
benignità, “non se poterat ultra cohi- bere Joseph multis coram adstantibus”.
In questo ebbe fine quella sincera ed innocente dissimulazione; e segue nel
Genesi a narrarsi la sua pietà: “unde praecepit ut egrederentur cuncti foras,
et nullus interesset alienus agnitioni mutuae. Elevavitque vocem cum fletu,
quam audierunt Aegyptii, omnisque domus Pharaonis, et dixit fratribus suis: -
Ego sum Joseph -”. Era egli nell'Egitto con suprema gloria, e già chiamato
salvator del mondo; con tutto ciò, non tenendo conto dell'offese, dissimulò
d'esser fratello, per dimostrarsi piú che fratello. Io non so chi possa ritener
le lagrime, leggendo quella pietosa istoria, dalla qual si può apprender la
dolcezza del per- dono e del dissimular l'ingiurie, e massimamente quan- do
vengon da persone tanto care quanto son i fratelli. Come quest'arte può star
tra gli amanti Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è pic- ciolo, e
come disse Torquato Tasso: Picciola è l'ape, e fa col picciol morso pur gravi e
pur moleste le ferite; ma qual cosa è piú picciola d'Amore, se in ogni breve
spazio entra, e s'asconde?. Nondimeno è pur tanto grande, che non ha luogo da
potersi in tutto nasconder, è quando è giunto al suo cen- tro, ch'è il cuore,
se non si mostra per altra via, accende quella febre amorosa della qual era
infermo Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco: E se non fosse la
discreta aita del fisico gentil, che ben s'accorse, l'età sua in sul fiorir era
fornita. Tacendo, amando, quasi a morte corse; e l'amar forza, e 'l tacer fu
virtute; la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse. Quindi si può considerar come,
mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme, ne fan publica
pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peggio, quando amor prende
stanza ne' petti umani, accen- dendogli da dovero, perché i sospiri, le
lagrime, la palli- dezza, gli sguardi, le parole, e quanto si pensa e si fa,
tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antio- co, nell'amor verso
Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò l'incendio nelle vene
e ne' polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante Didone, mentre Amor in
figura di Ascanio trattava con lei; ma niuna cosa mancava, perché già si
vedesse accesa, come Virgi- lio va significando: Praecipue infelix pesti devota
futurae expleri mentem nequit, ardescitque tuendo Phenissa et puero pariter
donisque movetur. Ed ancorché andasse velando gli stimoli della piaga interna,
nel progresso del suo affetto, At regina gravi iamdudum saucia cura vulnus alit
venis at caeco carpitur igni, pur, quello che la lingua non avea publicato, fu
espresso nelle strida della piaga ch'ella stessa disperata si fe', conchiudendo
Virgilio: Illa, graves oculos conata attollere, rursus deficit: infixum stridet
sub pectore vulnus. Di Erminia si ha, da Torquato Tasso, che avea dissi- mulato
il suo pensiero, e ch'ella poi disse a Vafrino: 38 Male amor si nasconde.
A te sovente desiosa i' chiedea del mio signore. Vedendo i segni tu d'inferma
mente: - Erminia - mi dicesti - ardi d'amore. - Io te 'l negai, ma un mio
sospiro ardente fu piú verace testimon del core; e 'n vece forse della lingua,
il guardo manifestava il foco onde tutt'ardo. Il medesimo dolor che tormenta
gli amanti, se non ba- st'a far che dicano i loro affetti, si muta in ambizione
amorosa di dimostrarli; e se gli animi onesti si contenta- no di non
manifestarsi, con gran fatica si riducono a portar intiero il manto che ha da
coprir tanti affanni. L'ira è nimica della dissimulazione Il maggior naufragio
della dissimulazione è nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú manifesto,
essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta le fiamme nel viso, e con orribil
luce fulmina dagli occhi; e di piú fa precipitar le parole, quasi con aborto
de' concetti che, di forma non intieri e di materia troppo grossa, manifestano
quanto è nell'animo. Molta prudenza si richiede, per rinchiuder cosí gagliarda
alterazione; e di chi è trascorso a tanto impeto, disse Platone: “tanquam canis
a pastore, ita de- nique revocatus ab ea quae in ipso est ratione mitescat.”
Era Achille in questa passione contra Agamennone, quando “truculento intuens
aspectu: - O vir - inquit - ex dolo totus atque imprudentia factus ac genitus,
et quis tibi Graecorum posthac libens pareat? Ma l'ufficio della ragione,
significata per Minerva scesa dal cielo, va temperando: “ - Non venit - inquit
- a caelo, Achilles, ut te iratum in ultionem iniuriae acceptae erumpere vi-
deam, sed ut ira<cundia>m tuam compescam - Sí che Omero, in questa
occasione di Achille, spiega insieme quanto importi la dissimulazione. Da due
potenti stimoli procede tanta licenza di parole nell'ira, cioè dal dispia- cere
e dal piacere, perché ella è appetito, con dolore, di far vendetta che si
dimostri vendetta, per dispregio che 40 crediamo fatto di noi, o d'alcuno
de' nostri, indegnamen- te, come disse Aristotile; ed a questo dolor segue il
di- letto, che nasce dalla speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto
di vendetta: e però Aristotele soggiun- se: “recte illud de ira dictum est
quod, defluente melle dulcior, in virorum pectoribus gliscit”. Dunque, da cosí
fatto misto di amaro e di dolce, dee guardarsi chi non si vuol mostrar
facilmente turbato, come sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e
tutti quelli che si fan vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la
conside- razione di quanto è maggior diletto vincer se stesso, in aspettar che
passi la procella degli affetti, e per non deli- berare nella confusione della
propria tempesta; ma nel sere- no dell'animo che, ritirato ogni pensiero
nell'altissi- ma parte della mente, potrà sprezzar molte cose, o non curar di
vederle. Chi ha soverchio concetto di se stesso ha gran difficultà di
dissimulare L'error che si può far nel compasso, il qual si gira nel- l'opinion
di noi stessi, suol esser cagion che trabocchi ciò che si dee ritener ne'
termini del petto; perché, chi si stima piú di quello che in effetto è, si riduce
a parlar come maestro, e parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa pompa
del sapere, e dice molte cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto.
Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior
fati- ca, ancorché paia d'esser ozio. I concetti che risuonano nelle parole,
non solo portano l'imagine di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli
mentali (già che non posso dir carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sa-
pere. Questo è il concetto primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli
altri; e se non è con misura, ne procedono molti e vari ragionamenti, e di
necessità però si scopre quanto è nel pensiero; ma chi di sé fa quella sti- ma
che di ragion conviene, non commette alla lingua maggior giuridizzione di
quanto è il lume dell'intelligen- zia che la dee muovere. 42 XVII. Nella
considerazione della divina giustizia si facilita il tollerar, e però il
dissimular le cose che in altri ci dispiacciono Convien di trattar di alcune
cose piú in particolare, che ricercano d'esser tollerate, ch'è lo stesso a dir
dissi- mulate, poiché sono molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo
gran teatro del mondo, nel qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed
or non dico di quelle che son invenzioni de' poeti antichi o mo- derni, ma
delle vere mutazioni del mondo stesso, che da tempo in tempo, in quanto agli
accidenti umani, prende altra faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa
il tutto simigliante a Dio, che lo creò e lo serba col dono della sua providenza,
la qual per lo gran mar dell'essere ogni cosa conduce con prospero viaggio; e
disponendo la medesima regola sopra il merito o demerito delle ope- re umane,
si vieta nondimeno alla debolezza de' nostri pensieri il passar negli abissi
de' consigli divini, alli qua- li si dee infinita riverenza, avendosi da
ricever per giu- sto quanto consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non
vediamo nelle cose mortali quell'ordine infallibile che si manifesta nel moto
del sole, della luna e dell'altre stelle, anz'in molta confusione spesse volte
si truovano i negozii di qua giú, non manca però la certezza dell'eter- na
legge, che tutto sa applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non
sempre vien pronta, si aspetti come decreto inseparabile dal giudizio divino,
che per tutto va penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A que- sta
verità, ch'è via di quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò
piú distinto il modo di accom- modarsi a quelle. 44 XVIII. Del dissimular
l'altrui fortunata ignoranzia Gran tormento è di chi ha valore, il veder il
favor del- la fortuna, in alcuni del tutto ignoranti; che senz'altra oc-
cupazione, che di attender a star disoccupati, e senza sa- per che cosa è la
terra che han sotto i piedi, son talora padroni di non picciola parte di
quella. Veramente chi si mette a considerar questa miseria, è in pericolo di
perder la quiete, se insieme non s'accorge che la medesima for- tuna, che
talora fa qualche piacere alla turba degli scioc- chi, suol abbandonar l'impresa,
e quando piú luce, si rompe, lasciando scherniti que' che non son degni della
sua grazia; e di piú la gente di questa qualità, non ha che pretender per
l'acquisto di quella gloria, che solamente appartiene a chi sa da dovero; e se
qualche uomo di ec- cellente virtú, alcuna volta sta quasi sepellito vivo, in
ogni modo si ha da udir il grido del suo merito; e non solo la voce ne dee
risonar tra quelli che vivono nel me- desimo tempo, ma se ne va passando da un
secolo all'al- tro; perché il vero valor è che fa per fama gli uomini
immortali, come disse il Petrarca; e prima di lui Dante: vedi se far si dee l'uomo eccellente sí
ch'altra vita la prima relinqua. Di questa maniera si libera il nome dalle mani
della morte, ed un'anima piena di cosí alta speranza, non sente noia che a
qualche indegno e da poco, per poco tempo, si faccia applauso, es- sendo un
salto di fortuna che se ne passa senza lasciar ve- stigio, come il fumo
nell'aria. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia Orrendi mostri
son que' potenti, che divorano la so- stanza di chi lor soggiace; onde
ciascuno, che sia in pe- ricolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di
ri- mediar, che l'astenersi dalla pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da'
sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que'
dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicu-
rando le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora
di star sepolto, che il tesoro delle cose mortali. Il capo che porta non
meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la sapienzia; e però spesso
è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non
dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e
dell'altrui ti- more. Anche lo splendor della fortuna ha da esser cauto nel
palesarsi, già che, passando a dimostrazioni di soverchi arnesi e di oziosi
ornamenti, oltre al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco
nella pro- pria casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e
forse il tutto. Ma piú dura è la fatica di dover pi- gliare abito allegro nella
presenza de' tiranni, che so- glion metter in nota gli altrui sospiri, come di
Domiziano disse Tacito: “Praecipua sub Domitiano miseriarum pars erat videre et
aspici, cum suspiria nostra subscribe- rentur, cum denotandis tot hominum
palloribus sufficeret saevus ille vultus et rubor, a quo se contra pudore
muniebat”. Sí che non è permesso di sospirare, quando il tiranno non lascia
respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo
vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lagrime che dalla benignità
della natu- ra son date a' miseri come propria dote, per formar l'onda che in cosí
picciole stille suol portar via ogni grave noia e la- sciar il cuor, se non
sano, al- men non tanto oppresso. Del dissimular l'ingiurie L'ingiuria, che si
può dissimulare, e nondimeno si manifesta nel disiderio della vendetta, è fatta
piú da colui che la riceve che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il
decoro dell'onesta tolleranzia, in che si accordano tutt'i filosofi, che per
altre opinioni, in varie set- te, non son di conforme parere, dicendo
Tertulliano: “tantum illi subsignant, ut cum inter sese variis sectarum
libidinibus et sententiarum aemulationibus discor- dent, solius tamen
patientiae in com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint
pacem: in eam conspirant, in eam foederantur, illi in adfect<at>ione
virtutis unanimiter student, omnem sapientiae ostenta- tionem de patientia
praeferunt. Alcuni, non distinguen- do la forteza dal temerario ardire, son
pronti ad ogni qualità di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor
modo, vogliono penetrar negli altrui pensieri e dolersene come di offese
publiche. I sensi cosí fieri son vicini ad estremi mali, e l'esperienza
dimostra che le picciole in- giurie, se non si lascian passar sotto qualche
destrezza, sogliono diventar grandi; ed a tutti color che son potenti, molto
piú convien di ritirar la vista da simili occasioni: perché ogni un che possa
poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per accommodarsi a tollerare; ma chi ha
forza di risentirsi, sente stimolo di correr a precipizio, e molti di questi
che stanno in alta fortuna, scordati non solamente di usar perdono, ma della
proporzion della pena, prendono mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avviene
ch'essi pur rimangono in tanta turbazione de' fatti loro che, oltre all'odio
publico, son anche in odio a se medesimi, per la perdita della quiete interna,
ch'è bene inestimabile ed appartiene all'innocenzia. Del cuor che sta nascosto
Gran diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è
collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star
chiuso, per l'ordine naturale si mantiene; e quando gli occorre di star
nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle operazioni
esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde,
nell'elezzione, si con- sideri quello che fu detto da Euripide Sapienti
diffidentia non alia res utilior est mortalibus. L'esperienza, che si suol
doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva oscura per
l'incertezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto va- gliasi degli
abissi del cuore, ch'essendo breve giro, è capace d'ogni cosa; anz'il mondo
intiero non lo riempie, poiché solo il Creator del mondo può saziarlo. Si ammira,
come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne' termini de' palagi, ed
ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro
persone e de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può
ogni uomo, ancorch'esposto alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella
vasta ed insieme segreta casa del suo cuore, perché ivi soglion esser quei
templi sereni, de' quali cantò Lucrezio: sed nihil dulcius est, bene quam
munita tenere edita doctrina sapientium templa serena, despicere unde queas
alios passimque videre errare atque viam palantes quaerere vitae. Applicando io
però questi versi al senso che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una
quiete, che con- duce al piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto
fallace. La dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male Era
tanto stimata da Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di
valersene nel suo regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di
aver fatto assai dalla parte sua perché non gli fosse caduta dalle mani, disse:
Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi? et venit super me indignatio.
Egli con tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo
fe' volentieri; e però s'era per- suaso che non avesse da seguir mutazione
nelle cose sue, ben assicurate dalla prudenzia, che in sé raccoglie- va
dissimulazione, silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in miseria, fu
voler di Dio, che si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una
invitta costan- za e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera
gloria si menò appresso come catenati tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina
felicità con duplicate sodisfazzioni; e quella sua giustizia, che nel termine
della sem- plice natura si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per
affermare che i servi di Dio, in ogni condizio- ne, son sempre beati. Dunque
Giob era tale, anche nel tempo de' suoi tormenti; ma per non uscir dalla
materia 53 di che vo trattando, dico ch'egli, facendo il conto con la sua
conscienzia, dicea: “Nonne dissimulavi? nonne si- lui? nonne quievi?”, volendo
significar che a questa dili- genza non suol mancar piacer alcuno; e quando
succede qualche accidente che perturbi tanto sereno, vuol il cielo che, dopo
l'avversità, si accresca splendor agli animi che son alieni dagli affetti della
terra. In un giorno solo non bisognerà la dissimulazione È tanta la necessità
di usar questo velo, che solamente nell'ultimo giorno ha da mancare. Allora
saran finiti gl'interessi umani, i cuori piú manifesti che le fronti, gli animi
esposti alla publica notizia, ed i pensieri esaminati di numero e di peso. Non
averà che far la dissimulazio- ne tra gli uomini, in qualunque modo si sia,
quando Id- dio, che oggi “est dissimulans peccata hominum”, non dissimulerà
piú; ma poste le mani al premio ed alla pena, metterà termine all'industria de'
mortali, e que' sa- gaci intelletti, che hanno abusato il proprio lume, si accorgeranno
come allora non gioverà l'arte del cucir la pelle della volpe dove non arriva
quella del leone, che fu consiglio di un re spartano: perché l'onnipotente Leo-
ne, facendo ruggir il mondo dagli abissi fin alle stelle, chiamerà tutti; e
ciascuno dee saper e dire circumdabor pelle mea, come disse Giob. Quell'aurora
porterà un giorno tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi
sarà arte da far vedere il bianco per lo nero. S'udirà il decreto, che sarà
l'ultimo delle leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre, al
piacer ed alla pena, alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di
fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e,
con la spada accesa, troncherà il filo d'ogni vano pensiero. Come nel cielo
ogni cosa è chiara Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la
dissimulazione, nell'altra non occorre mai; e lasciando di trattar delle anime
infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli
orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente felici.
Ivi hanno lo specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca
il suo nome, come osserva Gregorio Nisseno, dimostra efficacia di vedere,
perché theós viene a theáome, ch'è mirare e contemplare. Veggono i beati colui
che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è
manifesto, perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono
a possedere il sommo bene, tanto piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può
succedere occasion di custodire in- teresse alcuno. Ma qui, dove siamo vestiti
di corruzzio- ne, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissi- mula
per rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia one- sto, pur è travaglio; onde
si dee aspirar al termine di questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo
dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero lume che, anche
per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella divina
essenza, i beati go- dono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine dell'uomo,
essendo la piú alta operazione dell'intelletto, per mezzo del lume della gloria
che lo conforta; perch'essendo la divina essenza sopra la condizione
dell'intellet- to creato, può questi vederla, non per forze naturali, ma per
grazia; e come uno ha maggior lume di gloria del- l'altro, cosí può meglio
conoscerla, ancorché sia impos- sibile vederla quanto è visibile, perché il
medesimo lume della gloria, in quanto è dato a tal intelletto, non è infinito.
Or, considerando cosí sodisfatti, cosí felici, ed in eterno sicuri, gli
abitatori del Paradi- so, si vede come non han da nasconder di- fetto alcuno; e
per conseguenza la dissimulazio- ne rimane in ter- ra, dove ha tutti i suoi ne-
gozii. The first stage X produces a screech volunaarity so that the rest of the
world should think that x he is in the state wwhich the NON-voluntary
production would SIGNIFY. Stage 2, produce
X is now supposed not only TO SIMULATE pain-behaviour but also to be recognised
as simulating pain-behaviour. Stage three
X screes so that Y not only recotgnises that the behaviour is voluntary
but also recognises that X intends Y to recognise his behaviour as voluntary.
We have underminded that this is a straightforward piece of DECEPTION.
DECIEVING consists in trying to get a creature to accept certain things as
SIGNS of something or other wihout knowing that this is a FAKED case. Were
would weuld have a sort of PERVERSE faked case in which something is faked but
at the same time a CLEAR thindictation is put in that the faking has been done.Y
can be thought of as initially BAFFLED by this conflicting performance. There
is this creature simulating pain but ANNOUNCING, that this what he is doing.
What on earth can it be up to me. If Y does raise the question of why X should
be doing this, Y might first come up with the idea that X is engagnen in some
form of make believe – a game to which Y is expected to make some appropriate
contribution. This is stage 4. But we may suppose, tthere might be cases which
coud NOT be handled in this way. If Y is to be expected to be a participant
whith X in some form of play, it ought to be possible for Y to recognise what
kind of contribution Y is supposed to make. And we can envisage the possibility
that Y has NO CLUE on which to base such recognition, or again that though some
form of contribution seems to be suggested, when Y obliged by coming up with
it, X instead of producing further play-behaviour geets corss and perhaps
repeats its original and now problematic performance. This is stage 5, at which
U supposes thanot that X is engaged in play that buta what I is doing is trying
to get Y to believe or accept that X is in pain. In relation to the particular
example which I have been using, to reach the position ascribed to in in stage
five, Y would have to solve, bypass, or IGNORE, a possible problem presented by
X/s behaviour. Why SHOULD X produce what is NOT a genuine but a FAKED
expression of pain if what X is trying to get Y to believe is that X IS in
pain? Wy not just let out a natural bellow? Possible answers are not too hard
to come by. For example, it would be UNMANLY, or otherwise uncreaturely, for X
to produce NATURALLY a natural expression of pain, or that X’s NON-NATURAL
faked production of an expression of sincere pain is NOT to be supposed to
INDICATE EVERY feature which WOULD be indicated by a NATURAL production. The
non-natural production or emission, for example, of a LOUD BEELLOW might
properly be taken to indicate pain, not that THAT degree of pain wich would
correspond with the DECIBELS of the particular emission. This problem would
not, however, arise if X’s performance, instead of being something which, in
the NATURAL INVOLUNTARY case, woud be an EXPRESSION of the STATE of X which (in
the non-natural faked case) is is intended to get Y to believe in, were rather
something MORE LOOSELY connecterd with the state of affairs (NOT NECESSARILY A
STATE OF X) which it is intended to conveye to Y. X’s performance, that is,
would be SUGGESTIVE, IMPLICATURAL, in some recognizable way, OF THE STATE of
affairs WITHOUT being a NAUTRAL involuntary response of X to THAT state of
affairs. We reach then stage 6. Where the correlation is meant to be something
other than inconic. A stage in which the communication vehiles do not ave to
be, initially A NATURAL SIGN of what which it is used to communicate. Provided
a bit of behaviour could be expected to be seen by the receiving creature as
having a discernible connection with a particular piece of information, that
bit of bheaviour will be usable by the transmitting creature, provided that the
creature can place a fiar bet on the cconnetion being made by the receiving
creature. Any link will do, proided it is detectable by the receiver, and the
ooser the links creatures are in a position to use, the greater the freedom
they will have as communicators, since they will be less and less restricted by
the need to rely on a proor natural connection. The widest possible range is
given where creatures use for these purposes a ANGE of communication devices
which or gamut of communication devices which have NO ANTECEDENT connection at
all with the things that they communicate or represent, and the connection is
simply made ofbecause the sassupmtion of such an artificial connection is
prearranged and foreknown. Here creatures can simply cash in on the stock of
information built into them. In some cases, the devices might have other
features above the one of being artividial. They might infolve a finite number
of roto devices and a FINITE set of fmodes or forms of combination –
combinaroty operations, which are cableble of being used over and over again.
The creatures whihcll have what some have thought to be characteristic of a
language, a communication system with a finite set of initial devices, together
with semantic provisions for them, and an understanding of what the functions
of those modes of comination are. As a result, they can generate an infinite
set of complex communication devices, together with a correspondingly infinite
set of things to be communicated. This gives a rationale ro communiationThe
muth exhibits the conceptual link Torquato Accetto. Keywords: dissimulazione
onesta, dissimulazione disonesta nell’animali – mimesis – camuffare,
camouflage, laboratorio di mascheramento – vegetato: camuffamento uffiziale
dell’esercito italiano. vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito italiano,
simulation as the key concept to unify the only sense of ‘sign’ x consequentia
y, y seq-uitur x, segno naturale divenne segno artificiale – segno di una
proposizione p – un gesto segna la proposizione p, la correlazione e iconica –
ma se intenzionale, it cannot be ‘natural’. Passage in ‘Meaning revisited’ --. --
Giulio Cesare, Medici – grigio – esercito, bande nere.-- Accetto. Refs. Luigi
Speranza, “Grice ed Accetto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria. #accetto https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4587639647914661 #griceedaccetto
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702434246/in/photolist-2mUvuF5-2mTzWxT-2mTdSm7-2mSEtHs-2mPAuFE-2mNzeEc-2mMNvR2-2mLPXhF-2mLR3pP-2mLR3pU-2mLLuq7-2mLPXhv-2mLQ1Vx-2mKy7Ab-2mKCcUt-2mKy8R7-2mKDxM4-2mKDxZ3-2mKCmez-2mKCmXo-2mLMHZZ-2mPrdWj-2mKGVLR-2mKGVCQ-2mKFQLS-2mKG3XG-2mKRpLn-2mKD233-2mKCnei-2mJPC2N-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mKuzCc-2mFHLVW-2mKMfL7-2mKNhgB-Ck9fTK
Grice ed Achillini (Bologna). Filosofo. Grice: “It is
from Achillini that I draw the idea that ‘mean’ is essentially a ‘consequentia’
relation – he speaks of the sillogismo fisiognomico (those spots do not mean
measles, YOU mean that you have measles, since you painted them yourself!” –
but then he was ‘of’ Bologna, and thus a physician, more than a philosopher!
Bless his little heart!” Grice: “The fact that the Loeb Classical Library has
Aristotle’s Physiognomica helped!” -- Grice: “I like Achillini; he is my type
of logician.” “Possibly, his most generalised implicature is his little
philosophical tract on ‘de prima potestate syloogismi,’ translated during the
second world war as “la prima potesta del sillogismo.’ His example: “all men
are mortal, Garibaldi!” -- Filosofo. Essential Italian philosopher. Grice:
“What fascinates me about Achillini is, first, that he belonged to a varsity
older than mine, Bologna; second, that he was a Renaissance occamist, as Matsen
has shown.” Alessandro Achillini (Latina Alexander Achillinus)
filosofo. Achillini è nato a Bologna e ha vissuto la maggior parte della
sua vita. Era il figlio di Claudio Achillini, membro di un'antica famiglia di
Bologna. E 'stato celebrato come docente in filosofia presso Bologna e Padova ,
ed è stato designato "il secondo Aristotele." Lui era di natura molto
semplicistico. E 'stato qualificato nelle arti di adulazione e di doppio gioco
a tal punto che i suoi studenti più argute e imprudenti spesso lo consideravano
come un oggetto di ridicolo, anche se lo hanno onorato come insegnante. Egli
possedeva anche un bel carattere vivace. Secondo la descrizione di un collega,
che era bello, alto ma ben proporzionato, allegro, felice, spesso sorridente, e
affabile. Achillini mai sposato. La sua reputazione tra i suoi colleghi era
ammirevole ed era molto rispettato. E anche se era ben Achillini lettura e
formidabile in un dibattito, è stato detto di essere un po 'rigida e rigido
nella sua docenza. Dopo la sua morte, molte persone sono state estremamente
devastati. Le sue opere filosofiche sono state stampate in un volume in
folio , a Venezia , e ristampato con notevoli aggiunte. E 'morto a Bologna e fu
sepolto nella chiesa di San Martino. Tra le sue scoperte notevoli, è conosciuto
come il primo anatomico per descrivere le due ossa tympanal dell'orecchio,
chiamato martello e incudine . Ha mostrato che il tarso (parte centrale del
piede) è costituito da sette ossa, ha riscoperto il fornice e l'infundibolo del
cervello. Inoltre ha descritto i condotti delle ghiandole salivari
sottomascellari. Suo fratello è stato l'autore Giovanni Filoteo Achillini
, e il suo pronipote, Claudio Achillini, era un avvocato. Fu costretto a
lasciare Bologna a causa della espulsione della potente famiglia Bentivoglio di
cui era un partigiano. Poi anda a Padova dove è nominato professore di filosofia. Iniziò
ad insegnare quando aveva 21 anni. Ad eccezione 1506-1508, è stato professore
di filosofia a Bologna. Achillini era un professore presso Padova. Achillini
insegna a Bologna per ventotto anni, che è più lungo di chiunque abbia mai
insegnato a Bologna in la filosofia. Padova ha uno statuto, che se un
professore è riuscito a leggere in qualsiasi giorno assegnato, o non è riuscito
ad avere un certo numero di studenti che sarebbe essere documentati e poi ci
sarebbe stata una diminuzione di stipendio per evento. Achillini non soddisface
il requisito per la lettura, a cui è stato penalizzato 351 lire bolognesi.
Anche riceve due lettere fortemente formulate dal Comune di Bologna, affermando
che la sua assenza non era autorizzata, e se avesse continuato avrebbe
penalizzato severamente (500 ducati d'oro per la prima
infrazione). Partecipa molti comitati di dottorato come membro per l'esame
e l'approvazione dei candidati. Ci sono registrazioni di lui che frequentano
almeno novanta volte al presente procedimento. I procedimenti sono esami di
dottorato o di elezioni dei nuovi membri della compagnia di collegiali medici.
Inoltre, e ben versato in teologia. I suoi disegni iniziali indicano un
interesse ad entrare al sacerdozio. Egli sembra aver iniziato gli studi al
seminario. L'anno in cui è entrata la tonsura nella Cattedrale di Bologna. E
anche se poi sposta la sua attenzione al mondo accademico, rimanne un filosofo
attivo per tutta la sua vita e ha contribuito a due Congressi Generali
dell'Ordine Francescano; uno a Bologna e un altro terrà a Roma.. Mentre in
residenza a Bologna, è accreditato come strumentale nel generare interesse per
Guglielmo di Ockham. L'estensione del riconoscimento alcuno di Achillini è
difficile da discernere, ma si ritiene che i suoi contemporanei e
all'università istigato una breve rinascita Ockhamistica, come evidenziato
dagli ultimi lavori dei suoi studenti. pubblicazioni Le “Note anatomiche
del grande Alexander Achillinus di Bologna” dimostrano una descrizione dettagliata
del corpo umano. Paragona ciò che trov durante i suoi dissezioni a ciò che altri
come Galeno e Avicenna trovano e note le loro somiglianze e differenze. Afferma
ci sono sette caratteristiche in sede di esame del corpo al posto del credeva
sei data nel libro di Galeno sulle sette. Queste caratteristiche sono sette
dimensioni: il numero, la posizione, la forma, la sostanza come in sottili o
spessi, sostanza in polposo o ossea, e carnagione. In questo saggio, dà anche
indicazioni come come procedere con alcune dissezioni e le procedure, come la
castrazione, l'estrazione della pietra, e la rimozione della gabbia toracica di
esaminare ulteriormente il cuore ei polmoni. E 'stato anche distinto come
un anatomista, tra i suoi saggi che sono De humani corporis anatomia (Venezia),
e Expliciunt Annotationes anatomicae in Mundinum Magni Alex. Achilini Boron.
Editae per euius fratrem Philoteum (Bologna) – Achillini Bononiensis opera lima
ejusce actoris repollita et extersa ac denuo maxima cura ac diligentia impressa
(Venezia). Di Achillini Annotationes anatomicae è stato pubblicato da suo
fratello, Giovanni Filoteo, E 'stato
pubblicato in un piccolo formato di diciotto fogli con un paio di poesie di sei
e due righe ciascuna. Ulteriore lettura Franceschini, Pietro Dizionario della
biografia scientifica Herbert Stanley
Matsen -- la sua dottrina di "universali" e
"trascendentali": uno studio in rinascimentale Ockhamism . Bucknell
University Press. Gallerie online, storia della scienza collezioni, University
of Oklahoma Biblioteche immagini ad alta risoluzione delle opere di e / o
ritratti di Alessandro Achillini in e il formato .tiff. INDEX TOTIVS OPERIS
DVBIORVM, ÇAPITVLORVM, ET EORVM QVAE NOTATV DIGNA VIDENTVR. finiti vigoris fit
Deus telligat. Vtrum prima forma quæ estvi tor. Virum quodamordinerecedant
intelligentiæ mediæ àpri. ma. 16 Virum intellectus possibilissubijciatur
accidentibus. Verum incelle&uspossibilis sit formadansesschominé. In libro
dc.Orbibus. Cælum eftingenerabile. Cælum non est calidumnifivirtualiter Cælum
nonindiget Athlante,ncq; animacogente. Cælum eft naturæncutræ, Dubium secundum
. Vtrum specizdifferant stella, & o r Stella est continuasuoorbi. Stella
eftdextrumcæli, Noucm gradus felicitatis secundum Aristotelem & Commé
Intercælosnoncft corpus replensvacuum. rarorem, ibidem . Quid siccopulatio.
Quomodo intelligitur propositio dicens recipiens debetelle Verum quaruncung; intelligentiarum
perfe& ioattendatur ibidem Vtruntalis sit proportiomoventiú,
qualiseftrefiftentiarī. ibi. Omnes diversitas stellarum pene proportionabilem
habet Nonetfellaterræ aliquando propinqua,& aliquandoree Tantum motu diurno
cælum stellarum mouctur. Puncto velocissimo diurni motus non describitur æquino
Aialis. Sufficit Afrologis imaginarium esseorbem, quem putant Infra Solem sunt
Venus& Mercurius. Vtrumtalisfit proportio motus ad motum in velocitate,
Regularis.cftmotuscæli. ibidem Verum apud Thcologá independentia inferat
infinitate. ibid. Dubium quartum. Vtrum intelligentia sit. Solius naturalis est
subftantiaabftra & áelledernóftrare. Dubium sextum.Verum
intelle&usmoucatur. Deus non est condensabilis, ncq;rarcfa&ibilis. Deus
noncftintentionaliter variabilis. Intelligentiæ mediæ sunt ingenerabiles &
incorruptibiles. Incelligentiæ mediæ sunt nonaugmentabiles & non
diminuibiles. Intelligentiæ mediæ non sunt rarefa&ibilcs, autcondensa Intd
qualis cf desidcrijad desiderium. An homo cognoscar infinitatem Dei. Quid per
infinitatem intelligendum sit. ibidem ibidem per se entiores. Vtrum possibile
sit imaginare Deum esse potentiale. ibid. Vtrum Deus conservar intelligentias.
ibidem Vtrum ex maiore de necessario sequatur conclusio de necella ibidem Ve
rum 1. de generatione, tex.com.13. probetur ab Aristotele materiam esse æternam
. ibidem rio in figura prima. -- penes appropinquationem summo. VBIVM
primum.Vtrum in Vtrum tantum Deum Deus in VTRVM in calofirmateria. Cælum est
necessarium & æternum. Vtrum possibile fitcs homo antequam moriatur
intelligat substantias separatas. Dubiumtertium. Vtrůcccentrici, &
epiciclis intponendi. 48 Cælinon sunt perforati. Virum quanto naturæ lune viciniores
materiæ, cantosingim timus finis, sit primus mo Vtrum Deus, liberomoucatcæ Cælum
non est rarefa &ibilcncquecondensabile. 7 Cælum non est senescibileneque
fatigabile. ibidem Dubium quintum .Vtrum Dæmon sit. ibidem Deus non est
alecrabilis. Primus orbis mouet alios. Maxima sphærarum est stellata. Cælum est
incorruptibile. Cælum non est alterabile nisi intentionaliter Aggregatum omnium
cælorum est quasi vnum animal.Vtrum ponenda sir creatio. Vtrum
intelligemtiæmcdiæsint Cælum est cancumadiuum. productz. % Cælum est corpus
spirituale & divinum . Cælum est grave aut leve. 30 Cælum non est
augmentabilencg; diminuibile. Cælum non est sensibile nisi visu.
Stellamoucturad motum sui orbis. Vnum est centrum mundi. in Sole.In libro de
Intelligentijs. Vtrum Deus fic intelle&usagens. Quid intellectus adeptus.
stanci. primum mobile. ncq; per accidens. denudatum à natura recepti. ibidem.
mota. tumpot eft. aliquomodo. Vtrum intelligentiæ inferiores intelligant
superioram . 13 VIRUM intellecus sit VIRTUS materialis. Virum intellectum
possibilem habeat omnis HOMO. Vtrum intellectus possibilis sit pure pocentialis.
bis cius. Vtrum felicitas sit Deus. Nullo motum ouentur corpora cælestia nisi
circulari. Virum latitudo intelle&u ũlitvni formiter difformis. 33 Vtrum
sequatur, Deus est infiniti vigoris, ergo mouetinin Verum valcat hoc
naturalicer mouct: ergo ipsum movet quan Vtrum infinitum sit cognoscibile.
Virum in substantia ponendus sit gradus. ibidem Verum aliquis sit appetitus
inclinationi naturali conformis Deus est ingenerabilis & incorruptibilis.
Deus non est augmentabilis nec diminuibilis. non bonus. Vtrum intelligentiæ se
conservent. Verum intelligentiæ dependcantam phancasmatibus. ibid. Vorum Plato
ponat formam quæ nonc idea. ibidem . biles. Intelligentiz mediz non sunt
alecrabilcs. lum. ibidem Non est intelle&usagens in Deo, nisi identice nec
possibilis Deus non est localicer mobilis neq; persc, ncq; per partem,
Vtrum vniversales itnotius SINGULARI. Intelligentiæ mediæ non sunt
intentionaliter variabiles. Vtrum species prius apprehendatur quam genus.
Inintelligentijs medijs est aliquo modo intellectus agens, & Vtrum formæ
intentionales educantur deporencia materiæ. inrelle& us possibilis.
Intellectus possibilis est generabilis, & corruptibilis. Dubium septimum.
Vtrum cælum recipiat else ab intelligencia. Vtrum vniversale sit innarum intelle&ui
possibili, Vtrum scientia sit ipsum scitum. Vtrum corpus subratione qua mouetur
sit subiectum. Vtrum omnium sensibilium corporum formas philosophus naturalis
quidditatiue consideret. An cælum philosophus naturalis quidditatiuc
consideret. An naturalis scientia pcedat ordinedo&rinæ metaphysicam. Quare
in mathematica non possumus a posteriori demon II2 Quomodo movens primum
consideratur a metaphysico. Dubium uerit. o&auum Vtrum cælum mutationem
termina vndecimum.Vtrum cælum sit sphæricut . 92 duodecimumVcrum cælum sit
luminofum dese. Non est lumen lunæ reflexum tantum. Dubium Dubium Vtrum morus
cæli fuerit æternus. Cælum movetur sine fatigatione & pæna. thematicam,
naturalem, & metaphysicam . VBIVM primum.Vtrum vniversalia ex i Intellectus
agens deus. fant inintelle&u. Vtrum vniversale sit nomen tantum. ios Verum
vniuersales it ens rationis. Vtrum vniversale sit respc&iuum. Vtrum
vniversale sit extra animam in re abstractum . Vtrum vniversalia sint extra
animam. Vtrum vniversalia substantiarum sint substantia. Vtrum vniuersale sit
corporale. Vorum vniuersale sit corruptibile. Vtrum vniversale existat nullo
Singulari illius existente. An felicitas considerat in scientia speculatiua. An
felicitas sit vita. An felicitas sit sempiterna vita. An tanta sit æquiuocatio
dicatur de vivo & lapideo. Vtrum ad felicitatem requiratur scientia
moralis. Quomodo exdi&o speculatiuos equatur practicum. IIS Quid
demonstratio SIGNI, causæ tantum,& causæ & eltc. De quibus causis
considerat naturalis, mathematicus, & dini Verum cuiusq; causati scientia
sit per omnes cius causas. Intelligentiæ mediæ sunt localiter mobiles per
accidens ab alio nonå se. sensatum sit in intellectu. Intellectus possibilis
est augmentabilis & diminuibilis. Vtrum vniuersalia sine obic&uni
intelle&us. Vtrum vniuersalia ina&usinr in intelle&u. Intelle &
us est realiter alterabilis, terminatiue, non subiectiua Intelle&tus
possibilis eft localiter mobilis per accidens, Intellectus possibilis est
intentionaliter variabilis. Vtrum forma inintelle&u habeatesse singulare. Verum
vniuersale verius habeat dscinintelle&uquàm ex Cælum est intelle&iuum,
& appetitivum. bie &tum neq; tali mutationem ut ab ir ura d non esse.
Vtrum coelum sit sub ic & um principale naturalium. Vtrum fubic&um
attributionis in naturalibus sit cælum. Non concederet Aristoteles cælum fuisse
creatum neq annihilabitur. Apud Aristo.non incipit mundus esse neq;desincr. Ad
omnes operationes iniftis inferioribus cælum concurrit. Cælum iftis
inferioribus non imponit necessitatem . naturali neq causæ finalis. Efficiens
duplex. Non est influentia cæli instrumentum diftin&um a motu & primum
efficiens à naturali consideratur. Quomodo corpora cælesia sunt in loco. extra
. Vtrum vniuersale fit idem vel diuersum á singulari. Vtrum vniuersale fit
causa fingularis. Quomodo, materiaà mathematico consideratur. Quomodo naturalis
quatuor causas considerat. Vtrum melius sitponereinrationeformali subiedimobile
1Virum ex nihilo aliquidfiat. quàm moueri. sophianaturali. Vnde Quid ficmoueri
localiter,fecundum forinam ,& fecundum materiam. Quæ intelligibilia
cósideranturà mathematico, qàmetaphy. Dubium cercium decimum.Verum quiescente
cæloparient Vtrumvnum& idemfitcaulasubie&i& accidentis. contenta,
Vtrum vniuerfale fic in singulari. Cælum quatuorcausashaber. Vtrumvniuersaliadeclarentquidditatem
fingularium. ErrorGalenidecertitudincMedicinæpra&ticæ.
Vtrumvniuersaliaprædicenturdesingularibus. ftrare. Quomodo ccelum alteratur. In intellectu possibilieftintellc&tusagens.
Ratio formalis subie&I naturalis philosophiæ. Cælum estcffc&iúumhabentiumnacuraniininferioribus.
Nontotumgenuscausæformaliscósideraturàphilosopho Cælum eft conferuatiuumhorum
inferiorum luminc.nus. Coelumestcompofitumexmateria& forma. Cælum
cftviuens,& non eftnegativum , Cælum eftaniinal, & noneftsensibile. TRTM
naturatum sitfubic&um inphilo Cælum eft finaliter, formaliter, &
materialitercausatum. Cælum est esse Aiue conservatum. Vtrum subiectum
contincat omnes veritates ad scientiam pertinentes. Nonestmutatumcælum
adellemutationenonhabentelu Vtrum aliquid quodnonmoucturexsc,sitsubic&uminna
turaliphilosophia Non fuit mundus generatus,neq;corrumpetur.' Vtrum subiectum philosophiæ
sit ampliusquàmcorpus. Dubiumnonum. Vtrum cælunifitfinitæmagnitudinisin
Quidsitordocorporum inphilosophianaturali. adu. Quidfitordoperfectioniscorporumnaturæ.
Dubium decimum .Vtrum coeluitiilicvnum. Virum motus coelifit naturalis. In
intellectum humanum nondire&eagiccælum . In Tractatúde Vniuerfalibus. Vtrum
moralis scientiafitexcludeda àtrinaphilolophiæ di uisionc pofira ab
Arift.6.metaphysicæ tex.com.2.in m a Vtrùm vniuersaliasinescientiarci.
Vtrumvniuersaliafinirforniæ Vtrum vniucrsaleànaturadenominatadifferat: Vtrum morssequaturadnaturammateriephilosophia
naturalis prima ordine doctrinæ præparans intelle&umad Verum vniuersale quantum
eftdescnoneftinintelle&u,nec felicitem. Medicinam subalternarinaturaliphilosophiæ.
Vtrumvniuersalesensibilium,cuiusnulluinsingularefucrit
Quidmateriaprimaquidfecunda,&quidformasimplex, tra. In Libro de Physico
auditu. Vtrum natura fitfubic&tumlibri phyficorum, Naturalisnonhabetde cælo
perfectissimam cognitionem. Ante sensum ellevegetationem. An homo sit æquivocum.
Vcrumfinitiadinfinitumnullasit proportio. IVnde do &rinaordinaria. Vtruinmagis
vniuersalefit primo cognitum. Vtrum philosophi naturalis sit probaresuaprincipia.
Quæ principiapolsintinscientiaprobari.Virum formaappetatmateriam Vtrūpriuatio fit
causa appetitus materiæ definitiomateriz Quid materia secunda. Duplex
generalissimum substanciae. Deaccidencibuscælinorandum . Vtrūformaantcquagenereturpræcxiftarinmateria.
Vtrum infinitumfitignotum. Vtruminductiofitbonaconsequentia. Vtrum
principiasintcadem . Priuatio,quarcprincipiumperaccidens. Quid generatio fimpliciter
& secundumquid. Sperma propria esse masculi et non feminæ. Et quiddeopi
altcrumfcilicetperformamnionc Galeni. Opinio Alexandri de intelle& u
possibili. Dubium verummateriahabcataliquamformasub Materiacæli,nunquam
fincpriuationc. Principium perquodindiuiduuinefthoceftforma. Trinitasprincipiorumplatonica.
Intelle&us possibilis corruptibilis & generabilis.
Quareinconceptudifferentiænoincluditurgenuscuiusest Metaphysicæ,triplex subicctum.
Differentia. Quid fit realiter distingui. Vtrum
materiasinequantitatefirdiuisibilis. Vtrum tresdimensionesfintpassiones quantitatis.
Vtrum compofitum ex materia & formacllcfitacceptum a Vtrum materiafitprodu&aàDco
Vtrum mareria fic forma Propositiones per se notæin philosophia naturali. Vcrum
polsibilesitrotocontinuoquiescentepartemillius Diuisioformæ, & naturæ. De
principiomotus augmentationis, & alterationis. In libris de Elementis TRVM
materiaexistat. Quid sittransmutatiosubstantialisquidac Quomodo ipsaestmediuminterens&
nonens. Dubiumfecundúan SortenonexistenteSortessitho. Dubium tercium quid
cftmateria. Uam. Materia non ch operatiuanisipaciendo. Materianonperfccxistitsedinaliofcilicetcomposito
Sper Quómodo logica considerat de ente reali. Quæ ressintprimaprincipia.
Terminigenerationis& corruptionis. quid. Quomodo materiaeftcns Cogitatiuavlcimatapræparatioadintelle&um
. Andemonstrationesinmathematicaprocedantpercausam.
Quomodomateriamediumdiciturinternihil & ago. Vtrum eadem sintnobisnota
& naturæ. Appetitus duplex materialis & cumfenfu Quomodo materiæ acciditq
fit potentia. Melius eft dicere causas esse notiores natura quàm naturæ. Quæ diffinitio
descriptiua. Demonftrationesin philosophia naturali, quæ a priori. Quomodo
aliquideßin prædicamento ad aliquid. Quomodo homo cognoscitin cognitionenaturæ.
Virum materiasir suapotentia. Quomodo artificinorioreftcaula.
Verummateriasitpotentiaomncsformæ. Formal apidisextraintelle&tumestvniuersaleintentio,
aliud Vtrumtria principiaexæquoprincipient motum à fubicéto. Vtrum vniuersalia sint
realia. Quomodo consuctudo alteranatura. Verum fingulare fit per se intelligibile.
Vtrum vniuersalia sint prius nota singularibus. Primum cognitumà nobis
fingulare,& secundocognitum Quomodo exnonenteperaccidensfitaliquid. Vtrúm cadem
proportion materiæ sit potétiæ oésformæ, Vtrum intelligentiæhabcantmarcriam .
Vtrum materiafitminusperfe&aaccidente. el vniveriale. A b intelle& uagente
non datur definitio. Quomodo intelligentiæ sunt mobiles. Vtrum quantitas
realiter diftinguatur à materia. metaphysico. Vniuerfalia ratione intelle&usinquofunthabent
aliquid Vtrum matcria fit Deus æterni. Quid maximum fit & quid minimum non.
Termini accidentales ex quibus fitaliquid. Quomodo conucniuntq,uomodo differüt.
Quid generatio simpliciter, quid secundum Quomodo ipsacftinprædicamento. Vtrum
transmutatioficripofsitdeindiuidnovniusspeciei Quomodo materia civnumcumpriuatione
ad indiuiduum ciusdem specici. Quomodo priuatio fub forma comprchenditur.
Dubium quartum vtrum materia sit substantia. Virum insubstantial sit contrarictas.
Vtrù philosophu snaturalisdebcatprobaremateriäсssc Quarcmagispriuatiocftidemmateriæquàmformæ
Materiahabctdifferentiam,circunscriptiuam,nonconficuti Vtrum tantum criafint principiarerum
naturalium Vtrum generatio fit subita. Auicennae opinio de forma corporcitatis.
Materia prima consideratur à philosopho naturali. Matcriacftinduobus prædicamentis.
Dubiumquintumvtrummateriafitforma Materiam nonestina&umotiuointellectus torum.
Dubium vtrum materiapossitexisteresincforma Opiniones tres de præ existentia
forma in materia. Philofophi naturalis eft Quarcformasubstantialiscontrarium
probarematcriamesse,formameffe, non habet. compositum effc. An frigiditas aquæ minorsitfrigidicas
terræ. moucri localiter. Vtrum principia sint contraria. Vtrum generatio
accidentalis sequitur alterationcm Sex positionis differentia.
Materianonestcompositum,ncq;aliquodquatuorclemen Vniuersale triplex Conceptü
fpecificădat intelle&us agens, & nó gencricũ. Vtrum incælosirmateria.
Vtrum materia possitellesinc priuatione. Quid requiritur ad hoc vtaliquafintideinfimpliciter.
Concretum principaliterfignificatqualitate,& quare. Vtrummateria Auat. A
Muliere duplicem exire humiditatem. Vtrum priuatio fit principium Quomodo
priuatioprincipiumperaccidens Quomodo cælumvariarlocum secundumformam .
Differentia materiæ eft poccntia, &nona&us nisi negatiuc. Matcria
nonhabetformamabipsainseparabilem, fedquam Scientiæ naturalis duplicia sunt
principia. Virumens ficvniuocum , Vtrùm
quanrirastermineturterminisproprijgeneris. Virum totum fitsuæpartes. Viruni
forma fitab agente. Vtrūmctaphysicisit probare substantia abstractus esse Virum
ficdarçminimum. Verum priuatio fit principium per se. Materia libet perdere
poteft. Virum materiaapperat. Materiatertia,& quarta. stancialem fibi
propriam cidentalis Dubium o&auum, vtrum materia prima sit una numero omnium
generabilium ,& corruptibilium . nat sint summa. Verum aërficfrigidus.
Remotæ potentiæ numerantur numerarione specierum. Materia est potentia
Cubic&iua ntelle&ui. Dubium vtrum materialitquantitas. Dubium vtrum
quantitatisuccederepossitaliaquantitas Dubium vtrum quantitas præueniat formam
subftantia leminmateria. In Quæstione de subiecto Physionomiæ . VID princpium
cognitionis tantum, & co Principiorum in complexorum proprietates
Principiorum complexorum quærit metaphysicus proprietates corruptibilitatis Verum
ambæ qualitates quasynum elementumsibidetermi Mareria non cftvnumesseina&u.
Potentia describit materiam. Potciitiæ propinquæ materiæ sunt quatuor. Dubium vtrum
essentia sit esse. Subic&um,quomodopersenotuminscientia Physionomia,&
chiromantiascientiæ. SiestElementum, præsupponitur, quiaipsumeftfubic&um
Physionomia &chiromantia naturalisubalternantur considerationi Artic.
Tertio princinalitercósiderandüeltcirca mixta Quomodo
intelle&usfitpra&icus. Quæ operationespraxesdicuntur. Eidem scientiæ
subalternaripra&icam& speculativam. Artic.Quarto principaliter
considerandum circa animatave getaciva , aut sensitiua. Vtrum deturminimum
innaturalibus. Vtrum calidicas, frigiditas, ficcicas,& humiditas, sint
qualita- Cor esse primam fenfusredicem secundum Arist. 264 Quæstio de priina
syllogismi potestace. nobis. Vtrum terrasitvbiq; habitabiles. Cogitativam
virtutem componere. Materia non eftspecies. Dubium nonum vtrum possit
elleqrinco de supposito sint Condensare & rarefacere non perscsequuntur
qualitatespri multæ materiæ mas . Dubium vtrum materia sit per se
intelligibilis. Materia non potest esse &iue neque formaliter mouereintcl
uitare. Materianonestdeseina&uenticaciuo. Dubium vtrummateriasitsuapotentia.
Vtrum terrarespe& ucælifitvtpun &um . Vtrumterrasiessetlucida,&
existeret in cælo videretur á Dubium 18.vtrum quantitas in terminata fit
quantitaster minata nomia. Dubium verum materia primasır causa generabilitatis
& Homo secundum quod natura bonus subiectum in physio Contra Scotum de
subiecti continentia. Materia non eå quidditas nisi improprie. Ens et esse sunt
idem. Essentia et existentia sunt idem . Forma estesseactu. In demostratione
simpliciter passio de subiecto concluditur. Quid subiectum primum per
attributionem. Quarc substantiain metaphysica subiectum eftper attribu Dubium .vtrum
totum sit suæ partes. Dubium vtrum forma ante generationem habeat este
principalitatis. reale in materia. Dubium vtrum privatio sit res Contra Galenum
de numero complexionum. An in compofito substantiali
pluressubltantialesformarepe De via in physionomia & chiromantia. riantur.
Scicntiaalterumduorummodorumdiciturpra&ica. Vtrum cælum componatur ex
quiditatibus, & videturelit, Quomodo theologiatora pra&ica. quialubente
continetur, & sub corpore Prudentia circa quæ. Artic. Quinto principaliter
considerandum de homine. anip Experientia quid. fo animam intellectivam
expectet sensitiva. Vrrum aliquidmoucat se. te. Vtrum figuram aliquam sibi
determinet elementum. Vtrum vnum elementum sit locus naturalis alterius. Vtrum
vnum elementum in alterum immediateta an(mura Vtrum ignis sit primo calidus Vtrum
elementa media æquáliter habeantde grauitatc& lc Homo in quantum lanabileå
naturali consideratur. Ta , & tamen propositioestignora, Quid requiriturad
hoc vt subie&um fit adæquätum Quid requiritur ad hoc vtfubic&um sit
primum primitate Aegrotabile in ratione formalisubie&imedicinæcaderenon Genita
ex putrefactione alterius sunt rationis a generare Dubiū 12.vtrú materia fir
generabilis& corruptibilis Vtrum terrasit frigidior aqua. fitnul. Dubium
Is.vtrü materia fine quantitate habcat partes Dubiumzz.verummateria Solum
ponenda sunt prædicamentorum Quantitasestquod passiocftnota.& idquod est
ciuscau sit. pars quidditatis. & quo aliquid est Quomodo aliquando genera
logicalia. nationis primæ sub antiæ. Dubium vtrum priuatio principium. potest. In
in materia . quæruntur in naturalibus . resprima Quæstio de subiecto medicina,
Materia efteffepotentia . rionem, Dubium vtrum formasubstantialis Quid bonum
animi. sitprincipium indiui Rario formalis subie&i,quid Latitudines in
elementis compleri per contraria. Non cft potentia dc effentiali diffinitione
materiz. Compositum est vtroque participans. ripossit. Subic&ũnon debet
prædicari de principijsfubie&i,& quare. Materia inférior aliquomodo
præfcindipoteft. Quare qualitates elementorum di&tæfunt effc elementisfub Verum
qualitatessymbolæ elementorumsinteiufdemfpe Itantiales ciel Quo mod o intelligiturpriuationem per
secorrumpi. Materiaapudphilosophumestintelle&a Vtrumterrasitcentrummundi. Maceriacælinonpoteftpræscindiàforma.
Lectum. Dubium. vtrummateriasitgenus Anaërfitprimohumidus. Dubium vtrum materia
appetat formam . Dubium vtrum appetitus fit naturalismateriæ Arric. Secundo
principaliter considerandum est composicum Quomodo medicina partim practica,
& partim theorica, lic militer & theologia, similiter & logica.
generabile. Verum tantum quatuor sint elementa. Virum prima qualitates sint
formæ substantiales elemento genitis per propagationem contra Scotum. Run gnitionis
& cffc. Propriumnonageneresolumfluit,sedådifferentia,& gene Genita per
putrefa & ionem non esse eiusdem rationis cuna De elleanabellentia
distinguatur. Caput secundum devno. Error Auer. de necessarij SIGNIFICATIO nci
Caput tertium ,de vero Caput quartum, de bono, Ens tripliciter eft quid.
Quidditatiuum de quibus dicitur. Capursextum, dere, pagina. Caput septimum,
decodem subiecto. Quomodo pars formæ fluit. ElTeidemin forma quatuor habet
gradus. Caput nonum, decodem secundum materiam. de eodem difinitione. Quomodo
Deus eftf elicitas modo intelligitur dediftin&ione ex natura rei Verum
distinctio ex natura rei sit accepta ab Arist. Vtrum diffinitio& definitum
ex natura rei distinguatur ra rei non realiter An communicabile, &
prædicabile differant Differentia individualis est ipsa forma in composita ex
materia An Deo accributa propriamhabeant infinitatem. Accidens non realiter
distinguia substantia reis ubic&a Materiam & formam realiter
distinguivult Scotus, & Thomas oppositum, similiter& Aver. rant . liter
ili. Vtrum diftin&tioperdiffinitionemfitdiftin&iopersolum Anomnia quæ
sunt idem realiteralicui, fintilli formaliter de eodem habilitate.
Dedifferentiainterpositionemquæeftprædicamentum ,& positioncm quæ
estdifferentiaquanti. idem. ter. An fialiqua fintidem essentialiter, illasint
idem realiserant.. Quomodointelle&uspossibilis & agens sunt vnum, &
quo- Ansiali qua sint idem se totis subiective, illa sint essentiali modo duo. differant.
De subiecto & propria passione, quomodo suntidem. An fiali
quasetotisfubic&iuc differant, illafccotisobie&tiuc differant. Vtrum a&us
intellctus possibilis collatiuusfitin primaope Ansi aliqua fecoisfubic& iuc
differant,illafctotisobic&i dedistin&ionc rationis ratione intellectus.
Vtrum fit aliquis conceptusfi&us. ue idem. obie Aiue. Vtrum omnis
diftin&iofitrcalis aut rationis. Verum conceptus a rebus quarum sunt
conceptus, sint ratio Verum omnis distinctio sit aliquid positiuum. ne
distinAi. . In libro de Distinctionibus. Intellectus & voluntas sunt
idem Quid eftaliquidsynonyma. decncis SIGNIFICATIONIBVS pagina. Quomodo
speciesre intelligibilis, a&usintelligendi,&habi tuis intellectus sunt
idem . Cogitatiua,& intellectus idem materialiter Igncitas, leuitasest
simpliciter,& forma ignis substantialis. Differentia inter hominem metaphysicum,
&hominemna Vtrum prædicatio specicide genere fit pe rse. Anista
propofitiofitpersc, homo albus est homo albus. De sensu communiquid Auer. &
Vtrum CONCRETVM & abftractum formaliterdifferant.
Quomodophantalinatasuntintelle&tus speculatiuimate Vtrum humanitas sit animalitas.
Ria de distinctionercali. Caputo & auumdecodem secundum formam.
Aninierdistin&ionesdatasàScoristisfitordo. Vtrum diftin&io secundum modum
differtàdiftin&tionele Vtrum omnis distinctio ex natuta reisit distinctio
ratio cundum esse. Memorativam in medio ventriculo cerebrimanifeftari. Potentia
substantialis prior est accidentali.& de prædicamento substantiæ. Vtrum
fialiquaessentialiterdifferant,realiterdifferant. Vtrum fiali quarealiterdifferant,
illa essentialiter diffe verum ex coq essentialiter dicitur aliquidcaliquo
dicatur Vtrum sialiquas et otisfubic&tiue differant, illaeffentiali
rerdifferant. vniversaliter de codem & femper. decodemacuvelpotentia An
fialiquaessentialiterdifferant, illa secotisfubic&iucdif Quæ sit maxima identitas.
Vtrum seclula operationc intelle&us possibilis resrationc differant. An si
aliquas intsetotis obicctiucidem, illasintsctotissub ie&iueidem. Qữo genus &
differentia ratione distinguantur,& nonrc. Vtrum
prædicamentarcalitedrifferant. An relation differatà fundamento. De diftin
&ione caloris naturalis ab artificiali. Verumcum Sortesnoneaipsesitens Materiam&formamnondistinguisecundumesse,quomon
Entis diuisio de distinctione modali. Duo modi realis distinctionis. Vtrum
fialiqua realiter differant.illa formaliter differant An si aliqua sint
essentialiter idem , illa sint sctotisfubic&tiuc Quomodo dequo Vtrumintelle&usagens&
possibilisdistinguanturexnatu teria&
forma. Ens,res,autsubatantiagenerasuntanalogicedi&tadeDeo dediftin&ione
formali. Turalem secundum Scorum Intellctum appetere contra Scotum.&
secundum Thomam appetitivam cognoscere Quomodo intelligitur secundam
intelligentiam esse vnam decodem secundum dispositionem. San&tum An
diversitas & differentia coincidant in idem. Vtrum omnia formaliter diftin
&ta realiterdifferant. ter idem Caput de distinctione essentiali. de'eodem secundummodum
dedistin&ionesetorissubie&iue. Vtrum
distinctiosecûdumessesiesufficicnsadhocvt contra dictoria verificentur de
aliquo. formaminsubie&o, &multaindiffinitione. Vtrum omnia quæsuntidem formaliteralicui,
fincidemrca Vtrum elle diffinitioneidem, sit esse idem secundum esse. nis. Vtrum omnia
formaliter distincta ex natura rei diffe de codem secundum else de distin &ioneserorisobic
& iuc. opus intelle& us. Vtrum quælibetconceptus ftinguatur.
abalioconceptu, solaratione di Vtrum omnis diftin &iofitde genere
relationis: decodem inredemonstrata. decodem effentialiter. Vtrum ex
comparatione intelle&uspossibilis, fiantrespe&us, Ansialiquasiti
demserotisfubic&iua, illasintidemsetotis qui sunt genus aut species. rant.
ter. Caput1s. decodem secundum positionem Vtrum sialiqua sintidem rcaliter, illafint
idem essentiali Vtrum distinctio fitrcfpc&iuum fitiones habere possint. Melius
est non videre quædam, quàm videre,quomodo in Proportio maior est, quæ maiorem
habet denominationem. telligitur. Regulæ tres proportionum secundum Ari
Quomodo sensus in prædicamento qualitatis, actionis, palo An deus cognofcatchimeramantaligidfi
um .An incelle&tusina&u, vtintellc&us intelligentiarum propo
Proportionis divisio Vtrum veritas differatàpropofitionevera.
Inintellc&tuardo. pliciterabftra&arum aliquam veritatem videat persuam ftotclem
. Q &uplaquare duplael quadruplz. In
quæstione demotuum propor Voluit Arif.deum cognoscere hæc inferiora, Motys (equitùr
dominium. Alessandro Achillini. Achillini.
Keywords: corpo umano, singulare, individuo. Refs.: Grice, “Achillini’s problem with
transcendentals and universals,” Luigi
Speranza, "Grice ed Achillini," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. #achillini https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.4420043214674306 #griceedachillini#achillini #https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.6933100940035175 #griceedachillini #achillini
#https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.6933100940035175 https://www.facebook.com/media/set/?vanity=j.l.speranza&set=a.6934916853186917
#griceedachillini https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51644734661/in/photolist-2mU6TPi-2mN8u25-2mLPWN4-2mLLtU7-2mLLtUc-2mLGoHK-2mLPWN9-2mKDA7K-2mKGNop-2mKy9jM-2mKGM71-2mLQgtW-2mKDJ7x-2mLLNb7-2mKFRhm-2mKNw7A-2mKwuhr-2mKD7QN-2mKbak3-2mKbaAP-2mFELkF-2mFFLJw-2mD7Yvt-BRpkTs
Grice ed Acito – implicatura
corporativa – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pozzuoli). Filosofo. Grice: “Acito, who would have thought it, made me read Cuoco’s brilliant novel
on Plato based on an epigram by Cicero (“You know, Plato was there, in
Taranto!” – Acito has also written on corporations – whatever they are (the mob)
– and on Macchiavele -- Filosofo. Del periodo fascista e attivista del regime. Studiato
a Torino. Iscritto all'Albo degli Avvocati di Milano, divenne direttore della
rivista “Tempo di Mussolini”. Selezionato al Premio San Remo per libro “Machiavelli
contro l'anti-Roma.” Partecipa come rappresentante italiano al Congresso
dell'Unione Europea degli Scrittori a Weimar.
Insegna diritto, storia e dottrina del fascismo a Genova. “Il Popolo
d'Italia,” “L'Oriente arabo”. “Odierne questioni politiche della Siria, Libano,
Palestina, Irak; “Popolo d'Italia”; “Corporazioni e sindacati nello stato, nella
storia, nei partiti politici” (Milano, Trasi); “Il volto della rivoluzione”;
“Storia della rivoluzione”; “La dottrina dello stato”; “Realtà nazionali”; “Il
Fascio e la Verga” (Milano, Morreale); “L'idea unitaria dello stato” (Milano,
Sonzogno); “La idea romana dello stato unitario nell’antitesi delle dottrine
politiche scaturite da diritto naturale”; “La dottrina dello stato in Cuoco”; “Contributo
allo studio del pensiero politico del secolo XVIII” (Milano, Sonzogno); “La
corporazione e lo stato nella storia e nelle dottrine politiche dall'epoca di
Roma all'epoca di Mussolini: introduzione allo studio del diritto corporativo”
(Milano, Pirrola); “Catalogo della mostra di sculture e disegni di Vincenzo
Gemito” (Milano Castello Sforzesco Milano, Orsa; “Il trattato di ben governare:
opera inedita di Tommaso da Ferrara del 1500”; “Tempo di Mussolini”; “L'ordinamento
dello stato corporativo nel pensiero di Mussolini e nelle decisioni del Gran
Consiglio del Fascismo” (Tempo di Mussolini); “Le origini del potere politico:
"Omnis potestas a Deo" nelle discussioni degli scrittori politici del
Trecento” (Tempo di Mussolini); “Machiavelli contro l'Antiroma, Tempo di
Mussolini. “Il concetto di popolo” Tempo di Mussolini, “Il problema morale
della rivoluzione” Tempo di Mussolini”, “La crociata anti-materialistica dell'asse”;
“Tempo di Mussolini”; “Storia e dottrina del Fascismo”, “parte generale:
Nozioni fondamentali” (Milano, Guf). Onorificenze Medaglia di Benemerenza per i
Volontari della Guerra Italo-Austriaca nastrino per uniforme ordinariaMedaglia
di Benemerenza per i Volontari della Guerra Italo-Austriaca (19Medaglia
commemorativa dell'Unità d'Italianastrino per uniforme ordinariaMedaglia
commemorativa dell'Unità d'Italia Medaglia commemorativa delle campagne
d'Africa (1882-1935)nastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa delle
campagne d'Africa, Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia Croce al merito
di guerranastrino per uniforme ordinariaCroce al merito di guerra. Frank-Rutger
Hausmann, Annuario ufficiale delle forze armate del Regno d'Italia, Istituto poligrafico
dello Stato, I professori dell'Pavia, Amedeo Bianchi, Professore all’Università
Bocconi: Notizie sulla famiglia Acìto Filosofia Filosofo Professore Pozzuoli
MilanoStudenti dell'Università degli Studi di Torino Avvocati italiani del XX
secoloProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori
dell'Università degli Studi di Pavia Decorati di sciarpa littoria Personalità
dell'Italia fascistaCavalieri dell'Ordine della Corona d'Italia.. È con
Roma che nasce il diritto e nasce lo stato, perciò lo stato romano è lo stato
giuridico. Infatti, il fondamento giuridico della società e dello stato, impide
che a Roma si sviluppa la demagogia. Persino la repubblica a Roma è aristocratica. Il senato, che impersona lo
stato, è un corpo eminentemente aristocratico e il popolo stesso, inquadrato
negli ordini della milizia, non degenera. Lo stato presso i romani afferma la potenza
del suo carattere unitario, sintesi delle prime gentes rurali e militari.
Questa qualità fa nascere il SENSO DI DIRITO che il genio romano applica nella
formidabile organizzazione politica e sociale dello stato. Questa
organizzazione statale che si reassume nel genio di Giulio Cesare e che detta
l’impalcatura all’impero, altro non è se no la crezione dello stato unitario,
che è una gerarchia di AUTORITÀ, FONDATA SUL DIRITTO, tutelata dalla forza
militare, al quale [diritto] il CIVIS resta subordinato, ma nel quale [diritto]
trovoa la regolazione giuridicamente definita e GARANTITA DEI SUOI RAPPORTI
PRIVATI. SUBORDINAZIONE perciò incondizionata DEL CITTADINO ALLO STATO. IL
PRINCIPIO DI AUTORITÀ domino tutta la COSTITUZIONE POLITICA dello stato romano
e ne regge la potente struttura. Il cittadino romano non conosce l’antitesi ed
ha una morale sua PROPRIA. IL MOS MAJORUM ANIMA I COSTUMI di Roma. Il
successive consolidarsi del capitaismo, se pure di capitalism puo parlarsi
nell’epoca antica, o meglio l’avidita delle richezze, CORRUPPE quello STATO DI
PRIMITIVITA. Mentre il mondo dell’economia a schiavi si estendeva, il
paganesimo non agi come MODERATORE DEGLI ISTINTI INDIVIDUALI. Optimates
and Populares, (Latin: respectively, “Best Ones,” or “Aristocrats”, and
“Demagogues,” or “Populists”), two principal patrician political groups during
the later Roman Republic from about 133 to 27 BC. The members of both groups
belonged to the wealthier classes. Skip in 1s FAST FACTS Facts
& Related Content Date: c. 133 BCE - 27 Areas Of Involvement: Patrician
Related People: Lucius Domitius AhenobarbusQuintus Caecilius Metellus Celer Marcus
Porcius Cato Marcus Aemilius Scaurus Titus Annius Milo...(Show more) See all
facts and data → The Optimates were the dominant group in the Senate. They
blocked the wishes of the others, who were thus forced to seek tribunician
support for their measures in the tribal assembly and hence were labeled
Populares, “demagogues,” by their opponents. The two groups differed,
therefore, chiefly in their methods: the Optimates tried to uphold the
oligarchy; the Populares sought popular support against the dominant oligarchy,
either in the interests of the people themselves or in furtherance of their own
personal ambitions. Finally, it is well to remember that the Senate’s authority
was based on custom and consent rather than upon law. It had no legal control
over the people or magistrates: it gave, but could not enforce, advice. Until
133 BC any challenge to its authority was little more than a pinprick, but
thereafter more deadly blows were struck, first by such Populares as Tiberius
and Gaius Gracchus, then by Gaius Marius, and finally by the army commanders
from the provinces. Gli Ottimati (in latino: Optimates, cioè i migliori)
erano i componenti della fazione aristocraticaconservatrice della tarda
Repubblica romana. Nascita della fazione Modifica In origine
influenzavano la vita politica romana, essendo la gestione della Res Publica
appannaggio soltanto di quella ristretta cerchia di nobili che avevano le
possibilità e la cultura per dedicarsi alla politica. In seguito alla
Secessione dell'Aventino, però, le classi popolari e piccolo e medio
borghesiriuscirono a ritagliarsi una fetta di potere, da esercitare mediante
loro rappresentanti: i tribuni della plebe, magistrati dotati di potere
legislativo (per esempio il diritto di veto su qualsiasi legge o decreto del
Senato), nonché di auctoritas, ovvero l'autorità morale. Inoltre erano
conferiti della sanctitas, ossia la sacra inviolabilità della loro persona, che
rendeva ogni atto sovversivo, finalizzato a danneggiarli materialmente o
fisicamente, un delitto gravissimo. Per rispondere a questa organizzazione
politica del popolo, anche i patrizi romani si allearono tra di loro nel
movimento politico degli "optimates" (it. "ottimi",
"nobili"), cioè il partito aristocratico. Organizzazione del
movimento. Modifica In effetti la fazione aristocratica non era un vero e
proprio partito politico secondo l'accezione moderna del termine (nonostante
sia a volte chiamata Partito Aristocratico). Era bensì una confederazione di
nobili, ciascuno dei quali era politicamente indipendente (o quasi) dagli
altri, grazie ad una diffusa rete di clientele e di alleanze che ciascun nobile
gestiva in modo autonomo. L'appartenenza ad un'unica fazione era resa però
evidente dall'alleanza di tutti i nobili "optimates" con il Senato,
dal comune interesse a conservare tutti i privilegi nobiliari, nonché dalla
comune avversione nei confronti dei "Populares" (l'organizzazione
politica dei ceti popolari e borghesi) e dei "Tribuni della Plebe".
Gli Ottimati, infatti, desideravano limitare il potere delle Assemblee della
plebe ed estendere il potere del Senato romano, che era considerato più stabile
e più dedicato al benessere di Roma. Si opponevano anche all'ascesa degli
uomini nuovi (plebei, di solito provinciali, la cui la famiglia non aveva avuto
esperienza politica precedente) nella politica romana. L'ironia era che uno dei
principali campioni degli ottimati, Marco Tullio Cicerone, era egli stesso un
uomo nuovo. Oltre ai loro obiettivi politici, gli ottimati si opposero
all'estensione della cittadinanza romana fuori dall'Italia (e si opposero
perfino ad assegnare la cittadinanza alla maggior parte degli Italici).
Favorirono generalmente alti tassi di interesse, si opposero all'espansione
della cultura ellenisticanella società romana e lavorarono duramente per fornire
la terra ai soldati congedati (erano convinti che soldati felici erano
probabilmente meno disposti a sostenere generali in rivolta). La causa
degli ottimati raggiunse l'apice con la dittatura di Lucio Cornelio Silla (81
a.C.-79 a.C.). Sotto il suo potere, le Assemblee furono private di quasi tutto
il loro potere, il totale dei membri del Senato fu portato da 300 a 600,
migliaia di soldati si stabilirono nell'Italia del Nord e un numero ugualmente
grande di popolari fu giustiziato con le liste di proscrizione. Limitò i poteri
dei tribuni della plebe, ridusse i consoli e i pretori ai compiti cittadini
della direzione politica e dell'amministrazione della giustizia e vietò di
ricoprire una medesima carica prima che fossero trascorsi dieci anni. Tuttavia,
dopo le dimissioni e la successiva morte di Silla, molti dei suoi provvedimenti
politici furono gradualmente ritirati, ma furono più durature le innovazioni
nel campo del diritto e del processo penale. Appartenevano agli
"optimates" importanti uomini politici quali Lucio Cornelio Silla,
Marco Licinio Crasso, Marco Porcio Catone detto Il Censore e Catone Uticense,
il già citato Marco Tullio Cicerone, Tito Annio Milone, Marco Giunio Bruto e, a
parte il periodo del Triumvirato, Gneo Pompeo. Voci correlate. Modifica
Repubblica romana Plebe Patriziato Romano Lucio Cornelio Silla Marco Tullio
Cicerone Gneo Pompeo Marco Licinio Crasso Tito Annio Milone Collegamenti
esterni. Modifica ( EN ) Ottimati, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorit GND ( DE ) 4172652-2
Antica Roma Portale Antica Roma Diritto Portale Diritto. Alfredo Acito. Acito. Keywords: sindacato, stato
unitario, idea unitaria del stato, Cuoco, storia di Roma, popolo d’Italia,
materia e spirito, anti-materialistico, anti-materialistica, popolo,
popolazione, Peacocke – sistema di comunicazione per una popolazione –
idioletto – procedimento idiosincratico – idioletto, dia-letto – comunita,
immunita. . Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Acito,” The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51645020698/in/photolist-2mKDBHk-2mKDBsF-2mLQkSq-2mLGMqJ-2mLQmWz-2mLNgXu-2mLQifX-2mFGenm-2mFEXBy
Aconzio (Trento). Filosofo. Grice: “I like
Aconzio way of LISTING the devil’s strategies – and naming tdhem after abstract
nouns represented by females: superbia, … etc. – He says he philosophised on
‘dialettiica’ but only for his fellow Italians, and writing to Russell (Lord
Bedford) he adds, ‘it would be fastidious to present them to you!” – When
Elizabeth received his copy of ‘Il timore di Dio,’ she asked, alla Hardie, ‘And
what, Mr. Aconzio, is the meaning of ‘of’?” -- Grice: “I like Aconzio, and so
did my mother – a High Anglican! Aconzio’s claim to fame is twofold: his
“Stratagemata” which resembles Speranza’s study of Apel – only that Aconzio is
‘stratagemata satanae’ – and his “De method” which inspired Feyerabend, an
American professor at the newish varsity of Berkeley in the New World, to
philosophise ‘Contro il metodo.’” – Grice: “There is a small passage in “Del
metodo” – and an even smaller in “Stratagemata” – where Aconzio seems to have
invented (but soon disinvented) the idea of a conversational implicature!”
-- Filosofo. essential Italian
philosopher. Grice: “What I like about my fellow Brit, Aconzio, is that unlike
Feyerabend with his ‘Anything goes,’ Aconzio cared to write about ‘method.’ Ora è
noto per il suo contributo alla storia di tolleranza religiosa. E 'stato
tradizionalmente pensato per essere nato a Trento, anche se era probabilmente
Ossana. E 'stato uno degli italiani, come Pietro Martire e Bernardino Ochino,
che ha ripudiato la dottrina papale e, infine, ha trovato rifugio in
Inghilterra. Come loro, la sua rivolta contro romanità ha preso una forma più
estrema di luteranesimo, e dopo un soggiorno temporaneo in Svizzera ed a
Strasburgo arriva in Inghilterra subito dopo Elizabeth adesione s'. Studia
legge e teologia, ma la sua professione era quella di un ingegnere, e in questa
veste trovalavoro con il governo inglese. Al suo arrivo a Londra si une
alla Chiesa riformata olandese a Austin Frati , ma è stato infettato con ana-baptistical
e pareri Arian" ed è stato escluso dal sacramento da Edmund Grindal,
vescovo di Londra. Gli fu concessa la naturalizzazione. E 'stato per qualche
tempo occupati con drenaggio Plumstead paludi, per i quali si oppongono i vari
atti del Parlamento sono stati passati in questo momento. E inviato a riferire
in merito alle fortificazioni di Berwick e sembra che era conosciuto in
Inghilterra sia per il lavoro come ingegnere e di un riformatore religioso e
sostenitore della tolleranza durante l'inizio della Riforma. Prima di raggiungere
l'Inghilterra pubblica un trattato sui metodi di indagine, "De Methodo,
hoc est, de recte investigandarum tradendarumque scientiarum ratione"
(Basilea). Il suo spirito critico lo pone al di fuori tutte le società
religiose riconosciute del suo tempo. La sua eterodossia si rivela nella sua
"Stratagematum Satanae libri octo," talvolta abbreviata in
Stratagemata Satanae. Gli stratagemmi di Satana sono i credi dogmatiche che
affittano la chiesa cristiana. Aconzio cerca di trovare il comune denominatore
dei vari credi. Questa è la dottrina essenziale, il resto e irrilevante. Per arrivare
a questa base comune, dove ridurre il dogma a un livello basso, e il suo
risultato è in generale ripudiato. "Stratagemata Satanae" non è
stato tradotto in inglese fino al 1647, ma in seguito è diventato molto
influente tra i teologi liberali inglesi. John Selden applicata alla
Aconzio l'osservazione, "bene ubi, nil melius; ubi maschio, nemo
pejus" -- "Dove buono, nessuno meglio. Dove male, nessuno
peggio." La dedica di un tale lavoro alla regina Elisabetta illustra la
tolleranza o lassismo religiosa durante i primi anni del suo regno. Aconzio poi
trova un altro patrono in Robert Dudley, primo conte di Leicester. Saggi:
Stratagematum Satanae libri octo, De methodo sive recta investigandarum
tradendariumque artium ac scientarum ratione libello, De methodo e Opuscoli
Religiosi, opuscoli filosofici, Giorgio Radetti, Firenze: Vallecchi) Somma
brevissima della Dottrina Cristiana Una esortazione al timor di Dio; Delle
Osservazioni et avvertimenti che haver si debbono nel legger delle historie
Traduzione in inglese, Tenebre Scoperto (Satana stratagemmi) , London
(facsimile ed., Scholars' Facsimiles & ristampe. Trattato Sulle
Fortificazioni, Paola Giacomoni, Giovanni Maria Fara, Renato Giacomelli, e O.
Khalaf (Firenze: LS Olschki). Riferimenti Attribuzione Chisholm, Hugh, ed. " Aconcio, Giacomo
". Enciclopedia Britannica, Note finali: Di Gough Index a Parker Soc.
Publ. Di Strype Grindal , 62, 66
Dictionnaire di Bayle G. Tiraboschi, Storia della letteratua italiana (Firenze,
Smith, Elder & Co. link esterno Allgemeine Deutsche Biographieversione
online a Wikisource Opere di Jacob Acontius a Post-Riforma Digital Library. Molti riformati italiani vedremo cercarvi
rifugio.Colà erasi ricoverato Jacobo Aconzio, valoroso giureconsulto di Trento,
il quale nel 'opera “De Methodo, sive recta investigandarum tradendarumque
scientiarum ratione (Basilea1558) aveva ripudiata ladialettica ordinaria, propo
nendo un nuovo metodo di giungere al vero collo scomporre e ricomporre più
volte la cosa,ed esaminarla sotto aspetti diversi, passando dal noto al
l'ignoto. Alla divina Elisabetta regina d'Inghilterra, da cui ebbe ripetute
attestazioni di stima, dedicò "Gli Stratagemmi di Satana in fatto di
religione (Basilea 1565), libro allora molto acclamato, e tradotto in varie lingue,
ov'egli studia di ridurre a pochissimi idogmi essenziali del cristiane simo ,
nello scopo d'indurre le sêtte a vicendevole tolleranza. Aveva avuto per
compagno Francesco Betti romano ,che al mar In Chap. 3, Caravale
investigates the long publishing success of Acontius’s Satan’s Stratagems in
seventeenth-century England. After reconstructing the popularity of Acontius
among the Dutch Arminians in the 1610s and 1620s, the chapter focuses first on
the religious debates that involved Catholics, Arminians and Latitudinarians in
1630s England and then on the heated controversies which characterized the
English Civil War in the 1640s. Particular attention is given to debates at the
Westminster Assembly of Divines, where the Presbyterian Francis Cheynell
suggested forming a Committee to examine Acontius’s book, which had just been
(partially) translated into English and published by John Goodwin in 1647. The
condemnation of the book issued by Cheynell’s Committee did not stop Acontius’s
supporters from circulating his book widely. Indeed, new editions of Satan’s
Stratagems were published in the early 1650s. This chapter follows this
exciting publishing story as a significant part of the cultural and
intellectual history of Revolutionary England. What was hidden behind the
intriguing title exalting Satan’s Stratagems? This chapter aims to answer this
question in an attempt to understand the extraordinary success of Jacob
Acontius’s masterpiece and contextualize its line of thinking. The reader will
find a careful reconstruction of the author’s intellectual biography (ca
1520–1566) from his early career as a notary in Trent, Italy to his conversion
to Lutheranism in the mid-sixteenth century, his escape from the peninsula and
his sojourn in England as an engineer. Acontius soon became involved in
religious controversies in England in the early 1560s, which is when he wrote
his major work, Satan’s Stratagems, arguing consistently for an extremely broad
and tolerant vision of Christianity. The book is analyzed in detail and
comparisons are made with his previous publications and other major
contemporary books on similar topics. 1565. Satanæ Stratagemata libri octo, J.
Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad
Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. 1565. Jacobi Acontii tridentini de
Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem,
hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo. 1648.
"Satan's Stratagems, or the Devil's Cabinet-Council discovered, ...
together with an epistle written by Mr. John Goodwin and Mr. Durie's letter
concerning the same." London. J. Macock. Sold by J. Hancock. 1648. 4to.
British Museum. George Thomason's copy, now in the British Museum, contains his
correction of the date to 1647, and records its purchase on February 14 of that
year. The translation contains three dedications, one to the Parliament,
one to Fairfax and Cromwell, and one to John Warner, lord mayor. The translator
announces that if his work was well received he would complete it, but only
four of the eight books were published. The stock was then sold apparently to
W. Ley, who reissued it, with a new title, "Darkness Discovered; or, The
Devil's Secret Stratagems laid", London. J. M. 4to. With a doubtfully authentic etching of
the Italian author, ‘James Acontius, a Reverend Diuine.' This translation is an
English version of Jacopo Aconcio's celebrated work, "Satanæ Stratagemata
libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione
edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. Basileæ, ap.
P. Pernam. 1565. 4to. The Dictionary of National Biography says that this is
the genuine first edition, of extreme rarity. Brunet records an
octavo edition of the same year, place, and publisher, but with a variant
title: Jacobi Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis
negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc.
libri octo. Basilea.P. Perna. 8vo. Reprinted, Basileæ, 8vo; and 'curante
Jac. Grassero,' ib.,, 8vo; ib., ap.Waldkirchium; Amsterdam,1624; Oxon., G.Webb,
1631, sm. 8vo; London, 4to; Oxon., 1650, 12mo; Amsterdam, Jo. Ravenstein,
1652, sm. 8vo; ib., 1674,sm.8vo; Neomagi, A. ab. Hoogenhuyse, 1661,sm.8vo. The
Dedication of the first edition, to Queen Elizabeth, begins,with grandiloquent
flattery, Divæ Elisabethæ, etc. Les Ruzes de Satan receuillies et comprinses en
huit liures. Basle. P. Perne. 4to. Also, Delft, 1611, 8vo, and ib., 1624, 8vo.
Further, Bâle. 1647. sm. 8vo (German translation), and Amsterdam, 12mo (Dutch
translation). The Satanæ Stratagemata is a book which had a considerable
influence in the development of opinion. In all, I record twenty-one editions
of it , five of them of English imprint , and all of them publications of about
one century, 1565–1674, the era of the Reformation. Aconcio's argument was the
simplification of dogmatic theology. In general, he reduces the doctrines of
Christianity to a strictly Scriptural basis. He argues that the numerous
confessions of faith of different de nominations are simply the ruses of the
Evil One, the 'Stratagems of Satan,' to tempt men from the truth. He protests
against capital punishment for heresy, and favours toleration among all
Christian sects. Such liberal theology is distasteful alike to Calvinists, who
accused Aconzio of Arianism, and to Catholics, who index his essay. The Tridentine
Index Libb. Prohibb. places "Satanæ Stratagemata" among anonymous
books, but the Roman Index of 1877 describes the essay accurately. Acontius (Jacobus) -- Jacobi Acontii
tridentini de stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem,
errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc., libri octo. Basileæ, P. Perna,
in-8 Première édition d'un ouvrage singulier qui jadis a fait beaucoup de bruit
parmi les théologiens protestants, mais qu'on ne lit plus guère aujourd'hui. Il
doit se trouver dans ce volume un traité du même auteur, intituli: "De
ratione edendorum librorum," qui a paru égalementent 1565, et qui aétéréim
primé dans l'édition des "Stratagemata Satanis", donnée par Jacq.
Grasser, à Basle, chez Conr.Waldhirche, en 1610, in-8, sous un titre qui
diffère de celui de la première édition. Les autres éditions de ce livre
n'ont pas de valeur. La plus répandue parmi nous est celle d'Amsterd., Jo.
Rawestein, pet.in-12; celles d'Oxford, 1631 et 1650, pet, in-12, ne le sont
guère moins. LES RUSES de Satan, recueillies et comprinses en huit livres, p
pet. in-4. Cette traduction a été reproduite à Delft, de l'impr. de B.
Schinckel, 1611, et aussi en 1624, in-8.; ce pendant les exemplaires n'en sont
pas communs; celui del'édit. , qui était rebé en mar: ., n'a été vendu que 6
fr. chez La Valliere, mais il serait plus cher aujourd'hui. L'ouvrage est
traduit en Namand, en allemand et aussi en anglais. L'auteur, nommé Jacobus
Acontius sur le titre de ce livre, avait pour nom italien Giacomo Concio. M.
Graesse cite à l'article Acontiues l'ouvrage suivant, qu'il dit très-rare. UNA
essortazione al timor di Dio, con alcune rime italiane, nuov, messe in luce (da
G. B. Castiglione). Londra (senz'anno), in-8. Aconce
.De stratagematibus Satanæ in religionis negotio, per superstitionem,
errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. LibriVIII. auctore
Jacobo Aconcio. Basileæ,1565, in-8. et Amstelodami, 1674, in-8. Cet
ouvrage impie a été dédié à Elisabeth, reine d'Angleterre. Il en aparu une
traduction française à Basle en 1565,in-4.; à Delft, en 1611, et en 1624, in-8.
L'auteur s'est proposé, dans cet ouvrage, de réduire , à un très-petit
nombre , les dogmes de la religion chrétienne, et d'établir une tolérance
réciproque entre toutes les sectes qui divisent le christianisme: c'était
le vrai moyen de déplaire à toutes. Un singolarissimo saggio in
favore della tolleranza apparve nel 1565 per opera del giureconsulto trentino
Giacomo Aconzio o Aconcio, saggio che fu posto erroneamente fra i libri di
magia per il suo strano titolo, "De stratagematis Satane in religionis
negotio, per superstitionem , errorem , hæresim , odium, calumniam, schisma,
etc." (Basil.). Esso per contro è il primo libro, al dire dell'Hallam
(op. cit. ii, cap. 2, p. 84), in cui, secondo la tendenza sociniana, si sia
cercato di ridurre gli articoli fondamentali della religione cristiana al più
piccolo numero possibile, escludendo, per esempio, quello della trinità e tutti
gli altri non razionali. E ciò allo scopo di trovare un punto di appoggio
comune e di universale consenso per tutte quante le sette, in cui è scisso il
cristianesimo, e quindi una base sicura per la tolleranza reciproca di tutte le
credenze. L'Aconcio si leva vivissimamente non solamente contro la pena di
morte, ma contro qualunque pena inflitta ai pretesi eretici, ed esce in questa
esclamazione. Se il sacerdozio riesce a prendere il disopra, se gli si concede
questo punto, che non appena un uomo avrà aperto la bocca il carnefice dovrà
venire a troncare tutti i nodi col suo coltello, che cosa di venterà lo studio
della Scrittura? Si penserà che essa non vale guari la pena che altri se ne
occupi; e, se mi è permesso di dirlo, si daranno come verità i sogni
dell'immaginazione. O tempi infelici! o infelice posterità, se noi abbandoniamo
le armi con le quali soltanto possiamo vincere il nostro
avversario! (CANTÙ, Op. cit ., II, 451). Il saggio ebbe subito
gran voga e fu tradotto in francese, in inglese, in tedesco ed in olandese.
Anzi esso godette nel secolo seguente in Olanda di una immensa popolarità ed
autorità. Aconcio intanto viene citato fra molti altri scrittori del suo secolo
d'autori della tolleranza nel libro di Mino Celso senese, sotto il cui nome si
ritenne per un pezzo si celasse o Lelio Socino od altri, ma di cui invece
consta che fuggì da Siena nel 1559, vagò tra i Grigioni tre anni, e quindi si
ridusse a Basilea, ove cercò sempre di mettere concordia fra i dissidenti (1).
L'opera si intitola: "In haereticis coercendis quatenus progredi liceat,
Celsi Mini Senensis disputatio. Ubi nominatim eos ultimo supplicio afici non
debere, aperte demonstratur, Cristling. Fu ristampata senza indicazione di
luogo, con due lettere di Beza e Dudicio in senso opposto; e inoltre ad
Amsterdam col titolo, "Henoticum Christianorum, seu Disputatio Mini Celsi,
etc. Lemmata potissima recensa a D. 2. (Dom .Zwickero). È una lunga
dissertazione accurata, ove tra l'altro si sostiene bastare abbondantemente
contro gli eretici le ammende e l'esiglio. Loscritto di Gioacchino Cluten: De
Haereticisan sint comburendi? Argent., contiene, oltre alla prefazione del
Castellion alla sua Bibbia latina, una raccolta di passi di più scrittori in
favore della tolleranza (2). Una difesa, piena di giustizia e di moderazione,
della causa della tolleranza è pure quella del teologo sociniano tedesco
Giovanni Crell (1590-1633), intitolata, "Vindiciae pro religionis
libertate. Essa fu tradotta poi dal Le Cene in francese, e riveduta dal
Naigeon, sotto il titolo, "De la tolérance dans la religion. Al dire
dell'Hallam, ancora nel 1760 l'Holbach l'avrebbe tradotta e ripubblicata. Il
SENKENBERG nelle aggiunte alla Bibliotheca realis iuridica del
Lipenius,Lips.,1789,p.187, ricorda una edizione, s . I. 1562. Non ho potuto
vedere il saggio; ma tale indicazione andrebbe poco d'accordo con quanto altri
riferiscono, cioè che Mino Celso citi già l'ACONZIO.Giacomo Aconzio. Aconzio. Keywords: satana, diavolo, implicatura di
satana – stratagemmi -- negozio – religione, per superstizione, errore, eresia,
odio, calunnia, scisma, ecc. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice ed Aconzio," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51645661908/in/photolist-2mKFLGp-2mKyfRQ-2mKCjcP-2mKDEmw-2mKFLtt-2mLGQbZ-2mLNmZZ-2mLNmDP-2mLLVWY-2mKwuhr-2mKiHaD-2mFMJfh-2mFE929-2mFKvYG-2mFJ86C-2mDbqna-2mDbqVp
Acquisto (Monreale). Filosofo. Grice:
“I like Acquisto; he was a priest, but you’d hardly notice it; but then he was
jailed and few priests get that! They must be real bad boys! But blame it on the mess that the Capri area
found itself at that time – In any case, he reminds me of Manser, the Waynflete
professor of metaphysics – Acquisot was very systematic –I would think his
semiotics, strictly, is exposed in a chapter in the second part to his
masterpiece, the ideologia – the first is psicologia, and the third is logica –
in Ideologia, he is a Lockeian – words stand for ideas – and ‘linguaggio’ is
the most effective ‘means of communication’ to transmit them – native or
natural signs, like a ‘grido’ do communicate, but that’s it – ‘I’m in pain,’
but not ‘The cat sat on the mat.’’ – He is hardly original but then neither is
Leibniz, or Locke or Kant, for that matter – His emphasis is on the atural
versus artificial and pours scorns on those philosophers who tried to improve
on the Latin language – created by the Umbrians, he claims --.which is
artificial enough!” “raffaele d'acquisto – n. Monreale -- arcivescovo
della Chiesa cattolica Incarichi ricopertiArcivescovo di Monreale
Nato1º febbraio 1790 a Monreale Ordinato presbitero5 febbraio 1814
Nominato arcivescovo23 dicembre 1858 da papa Pio IX Consacrato arcivescovo2
gennaio 1859 dal cardinale Antonio Maria Cagiano de Azevedo Deceduto7 agosto
1867 (77 anni) a Palermo Filosofo. Fu uno dei principali
esponenti della storia del pensiero filosofico in Sicilia nell'800, fautore di
quella linea ontologista che vide, allora, moltissimi seguaci in Sicilia e che
mise in collegamento la riflessione filosofica siciliana con quella presente
nel resto d'Italia, in particolare con la dottrina ed il pensiero di Vincenzo
Gioberti. Il suo pensiero risulta una sintesi fra la psicologia cartesiana ed
il dinamismo di Leibniz a cui si aggiunge la tradizione teologica e filosofica
cristiana che prende come punti di riferimento sant'Agostino e san Bonaventura
da Bagnoregio. Pubblicò numerose opere i cui contenuti spaziavano dal
pensiero intorno a Dio al creazionismo, dall'onnicentrismo all'analisi
dell'uomo come essere vitale che è insieme Potenza, Sapienza ed Amore.
Indice 1L'età giovanile 2L'età adulta, l'insegnamento universitario e le
opere 3La carica di arcivescovo ed i moti insurrezionali 4Gli ultimi anni 5Il
pensiero filosofico 6Opere principali 7Genealogia episcopale 8 9 10 L'età
giovanile Benedetto D'acquisto nacque come Raffaele D'Acquisto a Monreale il 1º
febbraio 1790 da Niccolò D'Acquisto di professione calzolaio e da Maria Di Meo.
Sin da giovanissimo manifestò uno spiccato interesse verso lo studio e per
questo motivo fu iscritto dai genitori alla scuola del seminario di Monreale.
All'interno del seminario il sacerdote Benedetto Signorelli rimase
favorevolmente colpito dalle grandi doti e dall'ingegno di Raffaele D'Acquisto
e decise di fornirgli i mezzi economici necessari per continuare gli studi in
quanto i genitori non potevano garantirgli l'accesso all'istruzione superiore.
Fu in segno di riconoscenza nei confronti di questo sacerdote che Raffaele
decise di cambiare il suo nome in Benedetto. Da quel momento in poi verrà,
infatti, ricordato come Benedetto D'Acquisto. Nel 1806 all'età di 16 anni
entrò a far parte dell'Ordine dei Frati minori riformati a Palermo dove prima
compì gli studi superiori in filosofia e teologia e poi divenne insegnante
nello stesso convento. Successivamente otterrà anche la laurea in filosofia
presso l'Università degli Studi di Palermo; insegnerà tale disciplina anche in
corsi universitari presso il collegio San Rocco di Palermo sito in via Maqueda
nel centro della città. L'età adulta, l'insegnamento universitario e le
opere. Concorse alla cattedra di filosofia all'Palermo, ma la scelta della
commissione esaminatrice cadde su un altro candidato ed allora anda ad
insegnare filosofia presso il seminario arcivescovile di Palermo. Vinse il
concorso per la cattedra di etica e diritto naturale all'Palermo e venne eletto
arcivescovo, vi dedica le sue energie intellettuali migliori che gli valsero
anche la carica alla vicepresidenza dell'Accademia di scienze, lettere ed arti
di Palermo. Questo è anche il periodo in cui pubblica le sue opere principali
ed in cui il suo pensiero raggiunge una grande fama. Tra gli saggi più
importanti di questo periodo si possono ricordare “Elementi di filosofia
fondamentale”, il “Sistema della scienza universale”; la “Genesi e natura del
diritto di proprietà” (Palermo -- lodata
persino da Napoleone III); “Trattato delle idee o Ideologia” in cui porta a
compimento la costruzione della sua filosofia teoretica e lo studio sulla “Necessità
dell'autorità e della legge” in cui tratta tematiche inerenti al
diritto. Pubblica una delle sue opere più importanti intitolata la “Cognizione
della verità” che rappresenta una sintesi armonica fra la filosofia e la
teologia. In quest'opera sottolinea gli stretti rapporti tra il Creatore e le
sue creature pur nella loro sostanziale ed infinita distinzione e differenza e
presenta un'antropologia filosofico-teologica che concepisce l'uomo sotto un
triplice aspetto (puro, trascendentale, fenomenico), caduto per sua libera
scelta nell'errore e nel male, ma che pure ha in sé la condizione necessaria ma
non sufficiente per la sua elevazione verso la verità e verso il bene,
condizione che soltanto grazie ad una rivelazione esterna diventa sufficiente
ed attuabile. Questo saggio rappresenta il punto massimo del pensiero del
filosofo monrealese. Oltre a questi scritti D'Acquisto ci ha lasciato
anche un trattato di logica dal titolo “Organo dello scibile umano”, pubblicato
postumo a Palermo ed un manoscritto inedito e privo di titolo attualmente
conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo. La carica di
arcivescovo ed i moti insurrezionali Benedetto D'Acquisto fu nominato
arcivescovo di Monreale il 23 dicembre 1858 da papa Pio IX. Appena entrato
nell'arcidiocesi dovette confrontarsi con un periodo turbolento caratterizzato
dalla rivolta di Monreale del 4 aprile 1860, dall'arrivo delle truppe garibaldine
e dal conseguente tramonto del regime borbonico. Con la costituzione del
Regno d'Italia versò una cospicua somma di denaro per equipaggiare la neonata
Guardia Civica. Questo gesto gli meritò l'attenzione e la gratitudine di re
Vittorio Emanuele II che in occasione della sua visita al duomo di Monreale
volle premiare Benedetto D'Acquisto con la commenda all'Ordine Mauriziano con
la motivazione di essersi distinto egregiamente nel campo della filosofia.
Tuttavia nel 1866 scoppiò a Palermo la Rivolta del sette e mezzo, una violenta
insurrezione antigovernativa che in breve tempo si estese anche ai territori
limitrofi in particolare Monreale e Misilmeri. In questo contesto D'Acquisto fu
nominato presidente del Comitato insurrezionale di Monreale con l'obiettivo di
mantenere l'ordine pubblico nella cittadina normanna, ma non poté fare molto,
perché di lì a poco la situazione degenerò ed i rivoltosi misero a ferro e
fuoco la provincia di Palermo, causando la morte di 21 carabinieri e 10 guardie
di pubblica sicurezza. Dopo sette giorni l'insurrezione fu domata dalle
truppe governative ma Benedetto D'Acquisto fu arrestato. Il generale Raffaele
Cadorna, inviato dal governo come regio commissario con il compito di reprimere
la rivolta siciliana, nella sua relazione al Consiglio dei ministri accusò
D'Acquisto di avere incoraggiato il moto rivoluzionario e lo qualificò come
"notissimo e pericoloso reazionario". Fu rinchiuso in prigione prima
a Monreale e poi in altre località per circa un mese insieme ad altri uomini
illustri come Giuseppe de Spuches, famoso letterato, poeta ed archeologo.
Rimesso in libertà provvisoria nel 1866, ngodette del provvedimento di amnistia
e ritornò a Monreale per continuare la sua missione pastorale. Gli ultimi
anni Ritornato nel suo luogo natìo, si dedicò, dopo la diffusione del colera,
all'assistenza di coloro che avevano contratto tale malattia. Tuttavia si
ammalò anche lui e morì a Palermo. Fu tumulato nella chiesa di Santa Rosalia,
una piccola parrocchia in campagna alla periferia di Monreale, ma dopo una solenne
cerimonia le sue spoglie furono traslate nel duomo di Monreale. Il suo
pensiero filosofico, nell'ambito teoretico e delle relazioni logiche e
dialettiche, si avvicina molto a quello platonico ed agostiniano con vistose
influenze anche del pensiero di Fidanza. Nell'ambito dell'ontologia si rifà
alla scuola metafisica di Monreale, il cui più importante esponente fu Miceli,
di cui Acquisto rappresenta il naturale seguace e studioso. Il nucleo centrale
della sua filosofia consiste nella sintesi fra psicologia ed ontologia.
Egli colloca nella coscienza il fondamento teoretico della conoscenza
scientifica e divide le idee in tre categorie: l’idea sensibile che riguarda il
mondo materiale, l’idea intellettuale concernenti il proprio essere e l’ideea
necessaria relative a Dio. Questi tre tipi di idee co-esistono
contemporaneamente nello spirito umano. A queste tre categorie ne aggiunge una
quarta definita come idee "di rapporto" che permettono all'individuo
di esprimere giudizi e formulare ragionamenti. Nell'analisi del processo
conoscitivo crea la sua nozione di onni-centrismo in cui riesce a trovare un
equilibrio fra due poli apparentemente all'opposto: l'individualità e
l'universalità. Nella sua concezione onni-centrista riesce a far
coesistere l'io individuale con l'io trascendentale sviluppando così un'unità
reale fra intuizione sensibile ed intelletto. Dall'unità tra intuizione
ed intelletto si crea l'intuito intelligente che contiene in un nesso
ontologico tutta l'umana vitalità e che mette in relazione l'individuo con
l'intuito dell'azione creatrice dell'essere assoluto. Questa visione avvicina
molto Acquisto a Rosmini e Gioberti. Il filosofo monrealese tratta anche delle
relazioni fra morale e diritto. L'azione derivante dall'attività dello spirito
può rimanere all'interno dello spirito stesso senza manifestarsi all'esterno e
trasformandosi così in un atto giuridico. Questo atto giuridico costituirà la
legge morale che conduce l'individuo a conformarsi alla natura, alla ragione ed
a Dio. Tutto ciò rappresenta la sintesi perfetta fra l'essere naturale e l'essere
spirituale. Infine nella sua opera Corso di diritto naturale afferma che
il diritto di proprietà è presente in ogni individuo che lo utilizza per
raggiungere il suo scopo naturale. Il diritto, dunque, nella vita
dell'individuo tende essenzialmente alla conservazione, allo sviluppo e al
perfezionamento della natura umana. Il diritto POSITIVO, invece, ha l'obiettivo
di far prendere coscienza all'individuo delle proprie azioni e di creare una
perfetta armonia fra il diritto stesso e la moralità. Ma soltanto l'onnipotenza
di Dio puo portare alla coesistenza perfetta e senza contrasti fra fede e
scienza. Opere: “Elementi di filosofia fondamentale”; “Saggio sulla legge
fondamentale del commercio fra l'anima ed il corpo e su di altre verità che vi
hanno rapporto”; “Prolusione alle lezioni di diritto naturale a Palermo); “Discorso
preliminare alle lezioni di diritto naturale ed etica”; “Memoria estemporanea
sul diritto e dovere del proprio perfezionamento”; “Sistema della scienza
universal”; “Corso di filosofia morale”; “Corso di diritto naturale e filosofia
del diritto”; “Cognizione della verità”; “Trattato delle idee o Ideologia”; “Genesi
e natura del diritto di proprietà”; “Necessità dell'autorità e della legge”; “Teologia
dogmatica e razionale; Ragionamento sulla resurrezione dei corpi”; “Organo dello
scibile umano”. Genealogia episcopale Cardinale Scipione Rebiba Cardinale
Giulio Antonio Santori Cardinale Girolamo Bernerio, O.P. Arcivescovo Galeazzo
Sanvitale Cardinale Ludovico Ludovisi Cardinale Luigi Caetani Cardinale
Ulderico Carpegna Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni Papa
Benedetto XIII Papa Benedetto XIV Papa Clemente XIII Cardinale Giovanni Carlo
Boschi Cardinale Bartolomeo Pacca Papa Gregorio XVI Cardinale Antonio Maria
Cagiano de Azevedo Arcivescovo Benedetto D'Acquisto V. Di Giovanni, D'Acquisto e la filosofia
della creazione in Sicilia, Firenze 1868. V. Mangano, Benedetto D'Acquisto
filosofo monrealese, Palermo 1890. G. Millunzi, Storia del seminario
arcivescovile di Monreale, Siena 1895. F. Lorico, Vita di Benedetto D'Acquisto,
Palermo 1899. V. Mangano, La filosofia sociale di monsignor Benedetto
D'Acquisto, Palermo 1900. G. M. Puglia, L'arresto di mons. Benedetto D'Acquisto
arcivescovo di Monreale, Palermo; Dizionario dei siciliani illustri, Palermo
1939. Monreale Duomo di Monreale Rivolta
del sette e mezzo Sant'Agostino San Bonaventura da Bagnoregio Antonio
Rosmini Benedetto D'Acquisto, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Benedetto D'Acquisto, . David M. Cheney, Benedetto D'Acquisto, in
Catholic Hierarchy. L'ontologismo
rivoluzionario nella Logica di Benedetto D'Acquisto di Antonio Fundarò, dal
sito dell'Istituto siciliano di studi politici ed economiciISSPE. Predecessore Arcivescovo
di Monreale Successore Archbishop Pallium PioM. svg Pier Francesco Brunaccini, Giuseppe
Maria Papardo del Pacco, Arcivescovi di Monreale Fino al 1500Caro Giovanni
Boccamazza Pietro Gerra Ausias Despuig Juan de Borgia Llançol de Romaní XVI
secoloJuan Castellar y de Borja Enrique de Cardona Alessandro Farnese Ludovico
de Torres I Ludovico de Torres II XVII secolo Arcangelo Gualtieri Jerónimo
Venero Leyva Cosimo de Torres Giovanni Torresiglia Francesco Peretti di
Montalto Ludovico Alfonso de Los Cameros Vitaliano Visconti Giovanni Roano e
Corrionero XVIII secolo Francesco del Giudice Juan Álvaro Cienfuegos Villazón
Troiano Acquaviva d'Aragona Giacomo Bonanno Francesco Testa Francesco
Ferdinando Sanseverino Filippo Lopez y Royo XIX secoloMercurio Maria Teresi
Domenico Benedetto Balsamo Pier Francesco Brunaccini Benedetto D'Acquisto
Giuseppe Maria Papardo del Pacco Domenico Gaspare Lancia di Brolo XX secolo Antonio
Augusto Intreccialagli Ernesto Eugenio Filippi Francesco Carpino Corrado Mingo
Salvatore Cassisa Pio Vittorio Vigo XXI secoloCataldo Naro Salvatore Di
Cristina Michele Pennisi. DELLA NATURA DEL LINGUAGGIO, E DELLA SUA
INFLUENZA NELLA FORMAZIONE DELLE IDEE. Per estensione della idea generale
s'intende la sua capacità di applicarsi al numero degli individui; la
comprensione è riposta nel pumero delleideesemplicidellequaliessa
sicompone;perció quanto è maggiore lacomprensione tanto minore è l'estensione,ed
all'inverso. Ritrovare l'origineprimitivadellinguaggio,dopo infinite
vicissitudini ed incalcolabili trasformazioni, oltre di essere fuori del nostro
assunto , sarebbe la cosa più difficile. I fenomeni quanto sono più ovvi e
generali altrettanto la loro radice è sepolta nelle te nebre . Moltissime e
svariate sono state le opinioni dei filosofi intorno all'origine
del linguaggio, e forse an cora la lite non è stata decisa. Varie lingue si
sono parlate,dalla corruzione e dalle trasformazioni di que ste ne sono risorte
delle altre,e da queste ancor del l'altre. Se cosa di certo potrà trovarsi, la
speranza di tal trovamento si deve porre nel fatto, cioè nella co stituzione
dell'uomo e nella natura dello stesso linguaggio. L'uomo è dotato di
sensibilità e di facoltà attive e libere : égli prova sensazioni , è affetto da
piacere e da dolore ; in ciò è passivo : egli reagisce sopra le stesse
sensazioni, ed a suo piacere analizza , ricompone , e n e forma de nuovi
prodotti,ed in ciò è attivo e libero; egli ha dunque delle sensazioni e delle
idee e forma giudizi ; tutto ciò è effetto del lavoro interno dello spirito
umano , e non v’interviene convenzione per conto alcuno. Dall'altra parte avvi
nel linguaggio ciò che nell'uomo ha anche costituito la natura,evisitrovasempre
lo stesso, propagato in tutle le lingue senza alcun can giamento o alterazione,
e che dovrà per necessità tro varsi in tuttelelingue possibili.L'uomo èstato
for nito degli organi vocali; egli mette per essi natural mente de' suoni
;questi sono o semplici emissioni di fiato , tali sono i suoni detti vocali ;
altri sono delle intonazioni che dipendono dall'azione libera di alcuni organi
vocali, tali sono icosi detti suoni consonanti, e questi stessi suoni non
possono prescindere dai suoni vocali perchè o li precedono, o li seguono, non
po tendosi dare esercizio di organi subordinati senza l'esercizio degli organi
subordinanti. I suoni vocali sono la manifestazione de' sentimenti, e le intona
zioni,oconsonantileespressionidelleidee,quelli ac cennano allapassività,questiall'attività;quellisono
comuni all'uomo ed alle bestie, questi all'uomo sola mente,e mettono la gran
differenza fra le une e l'al tro. Tutto ciò è ancor opera della natura; bisogna
in fine riconoscere un legame ancor formato dalla stessa natura : questo legame
è il rapporto fra lo spirito e gli organi corporali, e fra questi e gli
oggetti;la con dizione, che stringe sempre più e muove questo le game, è il
principio d'imitazione che eminentemente possiede l'uomo; egli per parlare ha
un modello n a turale da imitare,cioè la natura e le idee. Tutto ciò adunque
che si ricercava alla perfezione del linguag gio era stato dato dalla
natura;che altro mancava alla esistenza di una lingua, se non la combinazione
vo lontaria dei suoni vocali e delle intonazioni per for mare la pittura e
l'espressionedelleidee.Ma questa pittura, questa espressione nel linguaggio
primitivo (1) Gli organi che concorrono alla formazione de'suoni articolati
sono la trachea o canna della gola per la quale passa l'aria, e ri passa ne
pulmoni; la laringe che è un canale cilindrico corto alla tesla della trachea ;
la glotta che consiste in una piccola fissura fra due membrane circolari dove
si forma il suono e la diversità ed intensilà de'tuoni ; la cavità della bocca
e delle narici in cui il suono
vieneriflessoerisuona;questiorganisonodestinatiallapro duzione de' suoni vocali
; la lingua colle suc vibrazioni,identi, le labbra coi loro movimenti sono gli
stromenti delle intonazioni,le quali combinate con i suoni rocali danno in
risullalo la voce ar licolala . dovean essere da una parte corrispondenti
ai bisogni ed allo sviluppo dell'uomo, perciò i suoni articolati, prodotti dalle
funzioni naturali degli organie dall'esercizio libero dei poteri interni
moventi gli organi m e desimi,e che esprimeano isentimenti e leidee,do veano
essere in poco numero , che sono le radieali di tutte le lingue, restando in
arbitrio dell'uomo l'in fletterli e modificarli a sua volontà secondo che cre
scevano i bisogni della vita , e s'estendevano i rap porti e cogli oggetti
della natura e cogli altri uomini. Dall'altra parte, come il tutto era
preparato alla per sezione dell'uomo, cioè l'intelligenza, e gli organi di
rapporto col mondo ; questi riceveano naturalmente l'azione degli oggetti
esterni e produceano i senti menti , quella trasformava i sentimenti in idee
per effettodeirapporti naturali onde erano connessi;egual mente erano preparati
gli organi onde pingere ed espri mere coi suoni le idee; era quindi necessario,
che la stessanatura,secondo gl'intimirapporti di questior gani, producesse i
suoni in corrispondenza alle prime idee necessario risultato dell'esercizio
delle facoltà. Ciò che ela ha realizzato per un procedimento naturale. È un
fatto costantissimo nella natura dell'uomo cioè che egli per la sua suscettività
prova sentimenti, per la sua intelligenza li trasforma in idee, e per la sua
attività ne determina i movimenti muscolari nel corpo, iquali
sonodirettisopral'oggettorappresentatodalle idee; cosi la stessa attività mette
in funzione im u scoli degli organi vocali per significare agli altricon i
suoni l'idea che gli è presente nello spirito, que L'oggetto esterno
ha una costituzione tutta propria, che forma la sua specifica natura; dalla
specificità di questa natura origina il modo e la legge dalla sua azione sopra
l'organo del corpo umano ; quest'organo, per lo stimolo impressovi dall'azione
esterna entra in movimento, il quale, sebbene fosse la continua zione
dell'azione esterna, tuttavia è modificato e spe cificato dalla legge
fisiologica risultante dalla costitu zione dell'organo medesimo: questo
movimento or ganico cosi specificato modifica realmente lo spirito,
eviproduceprimamenteunsentimento,ilqualeper l'azione delle facoltà è seguito da
una idea. Questa idea per l'attività intelligente diviene una norma della sua
determinazione e direzione verso l'oggetto rap presentato dalla idea, onde
prenderlo e mettersene in possesso. La stessa attività sotto la scorta della
stessa idea, mette in esercizio i muscoli degli organi vocali per esprimere colla
voce la idea, e per essa il suo oggetto. La volontà,nello eccitare i movimenti
orga nici del corpo, può avere un doppio motivo prodotto da un diverso
interesse,cioè o immediato, o mediato : è immediato quello per cui eccita il
movimento nei muscoli,per esempio della mano,per prendere l'og getto
rappresentato dalla idea;è mediato quello,per cui mette in azione gli organi
vocali per significare o far nascere negli altri l'idea che è presente al suo
spirito, col fine, sia di simpatizzare con essi,sia per determinare la loro
volontà a proprio vantaggio, e per sto procedimento si effettua nell'uomo
sotto l'influenza delleleggifisiologiche e psicologiche.Eccone ilmodo:
avere da costoro o un'azione, o l'oggetto che desi dera , sia perchè non
gli noceia. La causa dunque del doppio movimento è lastessa,cioè lamedesima
idea, i motivi solamente differiscono, essendo uno il possesso dell'oggetto
rappresentato dall'idea,e l'altro la premura di manifestarla aglialtri;onde lo
stesso èilprocedimentodelmovimentodellamano,ede gli organi vocali eseguito
sotto l'impero delle stesse leggi fisiologichee psicologiche, sebbene perun di
verso riguardo. Perciò se naturale è la presa dell'og
gettosignificatodalleidee,naturale è purelavoceche esteriormente la esprime
:ciò ha bisogno di ulteriore sviluppo. Nella esterna espressione delle
idee dello spirito , cioè nel linguaggio parlato, avvi un processo inverso
aquellocolqualeegliacquistaleidee,ma collastessa legge di continuità. Il
processo, pel quale nello spi rito si forma l'idea,ha il suo principio nella
azione dell'oggetto esterno :questa azione è sempre conforme alla naturale
costituzione dell'oggetto, alla sua rela tiva posizione e stato in rispetto
agli organi esterni; quindi di tante diverse specie e di tante gradazioni nella
stessa specie sono le azioni che gli oggetti esterni esercitano sopra gli
organi. L'azione dell'oggetto, ar rivando all'apparecchioesternodell'organo,lo
stimola e vi produce un movimento rispondente all'indole ed alla forza
dell'azione dell'oggetto agente, ed allo stato di
organizzazionedellostessoapparecchio:questomo vimento cosi modificato si
comunica alla struttura ed al processo nervoso dello stesso organo, nel quale
il movimento riceve un'altra modificazione e qualificazione; il
movimento cosi modificato e qualificato interessa e modifica lo spirito, e
produce in esso il s e n timento,che per l'azione delle facoltà diviene idea,
la quale nello spirito è il segno della esistenza del l'oggetto esterno e della
sua qualità : l'idea devesi considerare come la interna parola, per la quale lo
spirito sente , conosce ed è assicurato dalla esterna realtà e dei suoi modi
per la modificazione reale che egli riceve dalla forza reale del di fuori
attuata nel movimento, e dalla indole dello stesso movimento de terminata e
dalla natura dell'azione dell'oggetto ester no,e dalla struttura
dell'apparecchio esternoedella costituzione interna dell'organo e del cerebro.
Dal l'oggetto esterno fino allo spirito avvi una continua zione di movimento,
modifiealo però in diverse guise una connessa coll'altra fino all'ultima
modificazione che riceve dall'organo centrale del cerebro. Il movimento nella
sua essenza non è che la forza materiale attuata e manifestata sensibilmente
per le due forme primitive del tempo e dello spazio;e per ciò esso è
nell'azione dell'oggetto esterno, nelle at tuosità dell'apparecchio, e nella
costituzione del tes suto nervoso del cerebro : riceve le diverse modifica
zioni e specificazioni della natura dell'oggetto in pri ma , indi dalla
organizzazione dell'apparecchio esterno dell'organo e della tessitura interna
dei nervi ed in ultimodel sensoriocomune ; queste modificazioni e
specificazioni diverse del movimento si possono con siderare come tante
articolazioni dello stesso movi 202 203 mento, che costituiscono,
per cosi dire, la parola fi siologica cheintendelospirito,perlaqualeconosce e
la realtà dell'oggetto esterno nella forza attuata nel movimento , che è
l'elemento generico , e la qualità dello stesso oggetto nella modificazione e
specificazione dello stesso movimento,che formano l'elemento spe cifico delle
idee ; questo è il processo naturale nella formazione delle idee. Volendo poi
lo spirito manifestare al di fuori i suoi sentimenti e le sue idee, si serve
dello stesso elemento generico cioè del movimento, che esso eccita agendo
soprailcerebro:questomovimento eccitatonelce rebro, e da questo propagato ai
tessuti nervosi riceve le peculiari modificazioni dall'esercizio delle facoltà
dello spirito in conformità al sentimento ed alle idee che vuole egli
esprimere, per le quali si mette in azione il sistema dei muscoli e muove gli
organi vo cali, e gli apparecchi degli stessi organi , cioè il pulmone e la
trachea per la emissione dell'aria ; la glotta dove l'aria diviene sonora, che
è ilmezzo di espres sione del sentimento; il palato, la lingua, i denti e le
labbra, dalla funzione dei quali il suono riceve le diverse modificazioni, le
quali formano le intonazioni o i suoni consonanti, che servono a manifestare le
forme del sentimento cioè le idee e le loro qualità ; quindi nell'aria emessa
divenuta suono che in fondo è m o vimento, si ha l'elemento generico, il quale
forma la base del linguaggio, e l'elemento specifico che consi stenelle
modificazioni che ricevelostessosuono.Onde i suoni vocali sono le prime
modificazioni del suono 204 ܕ generale, indi le intonazioni o le articolazioni dello stesso
suono,le quali si combinano in guise diversis sime con isuoni vocali,edaqueste
combinazioniri sulta il linguaggio articolato; queste intonazioni sono sempre
precedute o seguite da suoni vocali; poiché l'elemento specifico del linguaggio
non può sussistere senza il generico che ne è la base, di cui le intona zioni
sono modificazioni prodotte dall'esercizio delle facoltà.Isuoni , che esprimono
le circostanze e le po sizioni necessarie dell'oggetto che si vuole significa
re, formano le parti elementari che si trovano in ogni lingua delle parti del
discorso:lecombinazioni poi dei suoni vocali con i consonanti per esprimere
l'oggetto e le sue qualità dipendono dalle esterne circostanze in cui possono
trovarsi gli uomini,come sonoilcli ma,ilgeneredi vita,lareligione,ed
altro,lequali come influiscono sopra lo sviluppo della facoltà, cosi
determinano lacombinazione de'suoni vocali con icon sonanti . Nella formazione
delle idee vi sono due estremi,il primo è l'oggetto esterno allo spirito, ed il
secondo è lo stesso spirito che dà esistenza alla idea. L'agente esterno nelle
stesse circostanze sempre agisce allo stesso modo , é cosi gli organi essendo
nello stesso stato , per cui l'idea è sempre la stessa; laddove nella espres
sione esterna della stessa idea, cioè nel linguaggio , essendolospirito,ilprimo
estremoche suscitailmo vimento, secondo le disposizioni da cui egliè affetto
per la influenza delle esterne circostanze, muove gli organi vocali in modi
diversi e combina in diverse guise isuoni vocali con i consonanti, per
cui lo stesso oggettop.e.l'astrodelgiornonelle diverse lingue ha diversi
nomi,come sole,sol,soleil,yacos eco. Perchè poi potesse rendersi stabile la esterna
m a nifestazione dei sentimenti e delle idee, che è fugi tiva nel linguaggio
parlato, lo spirito si serve delle figure; ad alcune delle quali associa ed
attacca in prima i suoni vocali, ad altre i consonanti, quali figure di vengono
SEGNI dei suoni, come leparole lo sono delle idee, e le idee degli oggetti; e
come il punto e le linee possono combinarsi di diverse maniere; quindi la
diversità e la moltiplicità delle figure ossia delle letlere. Dunque l'elemento
di base oggettivo alla for mazione delle idee, della parola, della scrittura è
lo stesso, cioè il movimento: lo specifico, nella formazione della idea, è il
modo di agire dell'oggetto esterno sull'organo e dell'organo sullo spirito;
nella formazione della parola è pure la costituzione degli organi e
l'articolazione dell'aria che si porta al senso degli altri; nella formazione
della scrittura è ancora la costi tuzione degli organi e la loro azione sopra
una m a teria esterna che viene specificata. Lo stesso spirito è il fine del
processo fisico e fisiologico nell'acquisto della idea, ed il principio dello
stesso processo nella espressione esterna della idea;ilegami hanno lastessa
connessione e la medesima continuità si nell'uno che nell'altro processo:lo
spirito nella espressione delle sue idee imita il modo naturale della
loroacquisi zione. In tutti i segni adunque degli oggetti, cioè nelle idee,nelleparole,nellascrittura
vi ha l'elemento generico e lo specifico : il generico in fondo è lo stesso,
cioè il movimento, il quale non è che laesterna m a nifestazione della forza
intrinseca a tutti i corpi , l'e lemento specifico è riposto nella
trasformazione dello stesso movimento secondo la struttura degli organi che
sono in funzione, e la natura dell'oggetto che ve la determina ; perciò i movimenti
possono diversificare di tanti modi , quante sono le esterne impressioni, il
loro grado di forza, e la costituzione degli oggetti che le cagionano, la
struttura e lo stato degli organi in ternied
esterni.Nell'essereassicuratolospiritodella esistenza di un oggetto per mezzo
della idea vi sono perciò due condizioni della diversità de' movimenti ; una
esteriore, che deriva dal modo di agire dell'og getto esterno allo spirito ; e
l'altra interna, che nasce dalla naturale struttura e dallo stato degli organi
, i quali modificano e trasformano ilmovimento ricevuto dall'esterno. Cosi
nel manifestare lo spirito le sue idee , é per esse la cognizione degli oggetti
vi hanno due condi zioni, una è la reazione dello spirito, la quale è da esso
determinata giusta la informazione che egli ha della idea ; e l'altra è riposta
nel movimento degli organi interni e nella funzione degli organi vocali che
produconoilsuono,ilqualepuò modificarsiindi versissimi modi ed in tanti suoni
articolati , quante sono le idee e le loro qualità , come è chiaro, della
moltiplicità e delle parole, e delle diverse lingue. Il suono nel linguaggio
risponde ed esprime il sentimento che è la base della idea, e l'articolazione
del suono alle forme del sentimento cioè alle idee ed alle loro proprietà; come
il sentimento nello spirito ri sponde al movimento organico che ve lo cagiona ,
e la idea all'indole peculiare dell'armonia del movimento sotto la quale è
prodotto. Questi fatti sono connessi e legati l'uno all'altro in un processo di
continuità tanto nella formazione della idea,quanto nella produ zione del
linguaggio, ma in un ordine inverso ed al terno . Lo spirito legge nelle sue
idee le esistenze degli o g getti col processo che comincia dalla loro azione ,
e per un processo inverso, che ha principio dall'azione dello stesso spirito,
egli esterna e manifesta le stesse idee fino alla scrittura, alla pittura, alla
scoltura ec. Uno è il movimento, ed indefinite le modificazioni
chelodiversificano;unoèilsentimento ed indefinito il numero delle idee nelle
quali si trasforma; uno ė il suono , ed indefinito il numero delle parole
'nelle quali è articolato;unico è ilpunto del flusso dal quale nasce la
linea,ed indefinito il numero delle figure, e le combinazioni che di essi
possono farsi, d'onde le diversità delle lettere nelle diverse lingue : tratti
g e nerali hanno le idee, le parole , le figure. L'unione del pensiero col
linguaggio, e di questo colla scrit tura ha ilcentro e la base nello spirito,
il quale,per il movimento modificato delle leggi fisiche ed orga niche riceve
leimpressioni nellasuaunità,eda que sta riversa il prodotto e lo propaga al di
fuori per mezzo delle stesse leggi.Se le condizioni che formano l'elemento
specificodellinguaggiofosserosemplificate e ridotte a principi non sarebbe
difficile la formazione di una lingua universale. È bensi da osservare che la
totalità dell'armonia della costituzione del corpo umano , ed in essa la spe
cialità degli organi che la compongono, è modificata ed informata negli
individui da talune cause esterne ed interne , le quali , agendo sopra di esso
potente mente e perennemente vi determinano un tempera mento costante ilquale
poi,come modifica di un modo speciale i sentimenti e le idee,cosi modifica
diversa mente il movimento degli organi vocali nella produ zione delle
intonazioni , le quali commiste ai suoni vocali producono una diversa
articolazione, e quindi la diversità delle parole che significano presso
diversi individui la stessa idea ed il medesimo oggetto.Qui si trova la ragione
del linguaggio diverso presso le diverse nazioni,lequali,secondo
lediverseposizioni e circostanze morali , politiche, fisiche e topografiche,
parlano diverso linguaggio come hanno diversi costu mi.La nazione greca,che
fucolta,civile e voluttuosa, parlava u n linguaggio ornato , polito e splendido
; R o ma,che parve nata a comandare,ebbe un linguag gio nobile, robusto,
magnifico. Le lingue che ebbero nascita da questa madre portano tratti
differenti non solo della loro madre, ma ancora fradi esse.La spa gnuola porta
il carattere di gravità, di pomposità e di alterezza: la francese è vivace,
spiritosa ed animata: l'italiana molle, gentile ed amena ; l'inglese sobria,
sentenziosa e concisa:quelle delsettentrione aspre, Il linguaggio
convenzionale è uno dei più potenti mezzi che contribuiscono al soddisfacimento
di questi bisogni; e mentre il linguaggio si accresce per lo svi luppo delle
facoltà, tende a sempre più perfezionare le facoltà. Ma i segni
convenzionali,che compongono il linguaggio, non possono aversi senza i segni
natu rali;poichènonpuòdarsifragliuomini convenzione alcuna senza che prima
s'intendano, nè possono in tendersi senza i segni naturali, i quali sono a
tutti comuni, perchè prodotti spontaneamente dalla loro n a
tura,eperciòperquestituttigliuomini s'intendono; devono per tanto ammettersi
prima i segni naturali per iquali eglipo s'intendono,ed intendendosi sopra gli
stessi segni naturali fondano il linguaggio con venzionale, il quale è di
quelli una estensione. I segni naturali sono le grida, ed i gesti, i qua li
sono varii come lo sono le grida. Questi segni sono generalmente da tutti
intesi, perchè esprimono in tutti le medesime idee ed i medesimi sentimenti.
Che se al grido si unisce ilgesto, il segno di espres sione diviene più
indicativo e sicuro : infatti questo linguaggio siparla nella vivacità
dellepassioni,quando non ha luogo l'esercizio delle facoltà intellettive. Ora
dure ed austere.La lingua e l'eco del costume, come il costume lo è della
natura e carattere delle idee , le quali sono più o meno perfette, in maggiore
o m i nor numero secondo il maggiore o minor grado di sviluppo e di perfezionamento
delle facollà, ed il maggiore o minor numero dei bisogni che si suscitano
nell'uomo. se il gesto si unisce al grido, ed il movimento de'm u scoli
corporei al movimento de muscoli degli organi vocali per rendere più sicura ed
espressa la manife stazione dell'interno sentimento e della idea,non su
difficile mettere in movimento imuscoli degli organi della lingua de' denti e
delle labbra per rendere più completo e più perfetto il suono per la
manifestazione più esalta più commoda e più espressiva della idea, e surrogare
alle gesla le intonazioni che suppliscono alla loro imperfezione. Si osservi
infatti, quali sono le risorse della natura che ruole esprimere gli interni
sentimenti e le idee. Mentre il bambino ha soli sentimenti e non ha for mato
idee degli oggelli che lo modificano , egli si espri me per ilmezzo delle
grida, iquali diversamente m o difica secondo la diversità de'sentimenti che
egli prova ; quando le sue facoltà cominciano a svilupparsi, ed a formare idee,
egli comincia a dare una certa preci sione alle sue gesta , ed insieme una
certa articola suoni vocalileintonazioni , le sue idee, sebbene noi , con
che intende esprimere non sono tura , e per e per opera della l'istinto della
imitazione na uso delle parole comincia a far non l'intendiamo convenzionali;
indi, perchè che ascolta, e che gesto diretto sopra , per il mezzo del attacca
l'oggetto presente al suo allo stesso oggetto sguardo, mente: tutto ciò succede
nel bambino. Questo natural procedimento naturale che si fa per gradi essere
pergradi perfetti imperfettinel bambino, dovelte ed istantanei nell'uomo primiero,ilqualenacqueadulto,colpienosviluppo
delle sue facoltà : egli conobbe i suoi poteri naturali, co nobbe la natura
degli oggetti che lo circondavano , ebbe nette e precise le sue idee, perciò fu
facilissimo per la manifestazione delle sue idee accoppiare le in
tonazionisempliciaisuoni vocaliancorasemplici,d'on de risultò la voce articolala
anche semplice,al prof ferimento della quale uni anche il gesto, e fu c o m
preso. Questa voce divenne il segno radicale che si attaccò alla idea,ilquale
per l'abitudine divenne per-, manente.Formata questa lingua primitiva;divenne
essa il tipo della formazione di tutte le altre. Quesla
teoriaèconformeaciòchesi legge nel Genesi cap.2, v. 19, 20. Formatis igitur,
Dominus Deus, de humo conctis animantibus terrae, et universis volatilibus
coeli, adduxiteaadAdam,utvideretquidvocaretea:omne enim quod vocavit Adam
animae viventis, ipsum est nomen ejus. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta
animantia et universa volatilia coeli, et omnes bestias terrae. Cosi anch e
impose il nome ad Eva, haec vocabitur virago, perchè,quoniam deviro sumpta
est,e ciò perchè egli conobbe che ella era , os ex ossibus meis, et caro de
carne med. La Divinità in fine dovea dare l'ultimo complemento a tutti gli
elementi della sua opera , ed attualizzare tutti irapporti necessari fra questi
elementi.Ilprimo uomo adunque, come naturalmente provò sentimenti, come per
l'eserciziodellasua intelligenzalitrasformó in idee , come naturalmente per i
primi mise fuori suoni yocali, per la seconda produsse le intonazioni; così
dovette combinare le intonazioni colle vocali e produrre la parola articolata,
imagine e pittura della idea, allo stesso modo come trasformò in idea il sen
timento coll'esercizio delle facoltà della sua intelli genza. Questo lavoro
delle facoltà non fu che istan taneo nell'uomo che nacque sviluppato,ed
istantaneo su il linguaggio. Fu opera della Divinità l'esistenza, e la
perfezione dell'uomo primiero mediante la per fezione e lo sviluppo delle sue
facoltà, cosi fu opera della stessa Divinità l'esistenza del linguaggio m e
diante l'esercizio degli organi vocali dati all'uomo per questo fine. Fuvvi
dunque nella lingua primitiva la base posta dalla natura, e questa base devesi
trovare in tutte le lingue; fuvvi l'opera e l'esercizio delle facoltà, e questo
sirinviene in tutte lelingue;ilprimo elemento è in variabile,esitrasfonde da
generazioneingenerazione senza mutamento o alterazione; il secondo è varia
bile,e cangia coi tempi, secondo i climi, i bisogni, il genere di vita , ed il
progresso dei lumi , ed esso è la causa della moltiplicità delle lingue e della
loro varietà. Dietro tali considerazioni chiaramente si scorge, che il
linguaggio articolato è il segno in fatto della grande differenza che distingue
l'uomo da tutti gli altri viventi, a cui mancano le intonazioni, perchè manca
l'esercizio libero delle facollà della intelligenza, e mancano in conseguenza
la precisione e la perfe zione delle idee,e sono perciò limitati ai semplici
suoni vocali, perchè limitati alle sole sensazioni. Nell'uomo però
in cui sonvi non solo le sensazioni, ma ancora interviene l'esercizio libero
delle facoltà , sonyi e le vocali,e le intonazioni,e la combinazione,ed il con
certo delle une e delle altre, per la espressione delle idee.Ibruti
naturalmente,peresprimereleloro sen sazioni, si servono de'suoni vocali
diversamente m o dificati ed espressi, e tale espressione è intesa dagli
individui della stessa specie. Non potrebbe l'uomo anche fare lo
stesso,essendovi in esso gli stessi a p parecchi e le stesse condizioni?
certamente che si, ma l'uomo ha pure idee, ed h a il mezzo onde esprimerl ,
cioè le intonazioni ; chi impedisce d'impiegarle e c o m binarle per la
espressione delle idee come per le vo caliesprimeisentimenti.Era
forsedifficileilframet tere le intonazioni necessarie alle vocali spontanee?
come non era e non è difficile il combinare il sen timento coll'esercizio delle
sue facoltà ed averne in risultato l'idea, cosi non gli fu difficile combinare
e modificare le vocali necessarie all'espressione del sen timento colle
intonazioni,che potevano contornarle e. precisarle alla esatta pittura della
idea. Si forma un nuovooggetto,unamacchina,p.e.mancailnome, l'espressione ; che
sifa, si combinano due o più ter mini che esprimono gli elementi , e se ne
forma un solo.Questo esempio èsensibile,ma infinitiesempi simili si osservano,
sebbene poco considerati in tutte le lingue come nella greca , nella latina ed
in tutte le altre ; come dunque in tutte le lingue per l’unione delle voci
radicalisiformarono le derivate;cosi nella lingua primitiva dalla unione delle
vocali e delle intonazioni analoghe si formarono le radicali. Ma come avrebbero
potuto trattenersi a memoria tante voci? come si trattengono a memoria ed
ilvocabolo nuova mente composto, e le voci derivate. L'oggetto che è
presenteallo spirito, gli elementi ed i loro nomi particolari, che si
conservano nella memoria, sono il mezzo di ricordare il vocabolo nuovamente
coniato ; cosi le vocali che esprimonoi sentimenti dell'animoiquali sono
presenti allo spirito , le intonazioni corrispon denti all'operazione delle
facoltà,che ancor è presente allo spirito , sono il mezzo di ricordare la voce
i m piegata alla espressione di quel sentimento precisato, di quella idea ; si
risovvenga che il linguaggio pri mitivo, per ipochissimi bisogni dell'uomo,per
ipochi rapporti cogli altri uomini , non si componeva che delle sole radicali,
e che le voci composte comincia rono ad accrescersi secondo crescevano e
s'intreccia vano ibisogni ed irapporti. Quindiper dimenticare il suono, che era
un prodotto naturale, bisognava di menticare l'idea;ciò che succede ad ogn'uomo
oggi. giorno. S'aggiunga a ciò, che quanto èpiù forle l'impres sione, quanto è
più vivo il sentimento , tanto è più energicà e pronunziata l'espressione ed il
suono vo cale ; quanto più marcata è l'azione dello spirito sul sentimento,tantoèpiùdecisa
l'espressione delle in tonazioniedelleconsonanti,equantoèpiù interes sante e
distinta l'idea, tanto più viva è l'espressione e la parola. Ciò è chiaro e ne
' selvaggi , ed in tutti coloro che sono nell'impegno di trasmettere colle parole
le loro idee ardenti e staccale. La parola è la pit tura e l'immagine della
idea; l'idea è l'immagine dell'oggelto e l'espressione dello spirito ;
l'oggetto e lo spirito sono l'espressione dell'assoluto ; tanto è chiaro a sé
lo spirito,e tanto luminoso allo spirito l'ogget to, quant'è il grado di luce
che comunica l'assoluto allo spirito ed all'oggello : tanto è vivo il
sentimento e distinta l'idea, quanto è più chiaro a sé lo spirito e luminoso
allo spirito l'oggello ; tanto forte è il suono vocale,ed energica
l'intonazione, e precisa la parola quanto più vivo è il sentimento e distinta
l'idea. I sentimenti dell'uomo primiero , che nacque adulto e non bambino , e
tale dovea nascere , i prodotti del l'azione degli oggetti esterni, la
percezione del pro prio spirito,ed indi le sue idee furono vivissimi, di
stintissimi, ed al massimo grado di precisione, tanto per la novità,quanto pel
grado di luce, che la Divinità diffuse e nello spirito dell'uomo di recente for
mato e nella natura, che la prima volta espose al suo sguardo; perciò forte,
marcalo,ed espressivo dovette essere,ma semplice,econcisoilsuolinguaggio,ciò si
rende chiaro dalle indole della stessa lingua , la quale,a giudizio de'più
dotti filologi,può conside rarsi come l'esemplare di tutte le altre: Schlegel
in fatti la chiama la più sublime e la più energica, e per la sua vibrata
concisione , e per le vive e frequenti aspirazioni delle voci, e lo stesso Audisio
la dice di vina.Questa è la lingua ebraica, la quale fu parlata da Adamo
e Gli elementi dunque del linguaggio, che formano il suo tipo
originale,furono tutti dati all'uomo dalla natura, e l'uomo,che trovò in se
preparati e pronti questi ele menti, non fece altro che metterli in opera, ed
ebbe immediatamente il prodotto. Per questo tipo il lin guaggio è mezzo di
comunicazione e centro di rap porti fra tutti gli uomini; perchè in tutti
questo tipo è identico,tutti comunicano e fra loro s'intendono, restando sempre
separati per l'arbitrario : infatti il tipo naturale delle lingue è insegnato
es'impara dalla ragione, perchè in tutti gli uomini ella è uguale e la stessa
:e perchè tale, è in tutti gli uomini centro di unità e condizione identica di
comunicazione,per il mezzo degli apparecchi vocali, che sono uguali e gli
stessi in tutti ; laddove l'arbitrario s'apprende per l'uso e per abitudine ,
perchè introdotto dall'uso e dall'abitudine. Tuttociò come da lume,e ci rende
facilelaco noscenza della natura del linguaggio,cosi riceverà m a g dai suoi
discendenti, ed ebbe questo nome da Eber nella famiglia del quale si conservò
dietro la confusione delle lingue. Ciò fa conoscere l'errore che si commelle
nell'apprendimento delle lingue specialmente antiche,pel quale si daono tante
svariate e moltiplici regole e precetti di che si compongono le grammatiche
specialmente moderne, le quali, gravando la mente non fanno ap prendere con
facilità e perfezione la lingua. In qualunque lingua devesi imparare colla
ragione,cioè colle regole,ciò che è opera della natura e della ragione, vale a
dire,ilfondamento della lingua : la costruzione
perd,ilgenio,iterminidellalingua,leloro inflessioni, e la sua eleganza, essendo
un prodotto dello sviluppo ed esercizie delle facoltà, debboosi imparare
coll'uso. Occupa nel linguaggio il primo luogo quella voce che esprime
l'oggetto dell'idea che o è principio di azione o ne è il termine, o pure
qualche proprietà del medesimo oggetto ; questa voce è stata detta nome ; che
217 gior luce , e sarà confermato dall'analisi che ne fa remo. Il
linguaggio è un fatto il più noto ed il più generale;analizzandoquestofattosiconoscerà
distin tamente ciò che vi ha posto la natura, e ciò che vi è introdotto dalla
volontàdegli uomini. Tuttigliuo mini sono dotati di sensi pei quali ricevono
impres sioni dagli oggetti esterni e provano sensazioni ; tutti hanno una
intelligenza dotata di facoltà, perlequali e possono trasformare i sentimenti
in idee , parago narle , e formare giudizi sopra le idee e gli oggetti
corrispondenti,e preparare in un giudizio la maleria di un altro,e da ciò che
ha conosciuto avanzarsi ad ulteriori conoscenze. Tutti possono cacciar fuori
una massa d'ariadaipulmoni,emettereinazioneglialtri organi vocali che servono a
modificarla, e come non per propria industria ha avuto l'uomo queste facoltà,
cosi non perpropria arte ha conseguito di poter par lare. Infatti prima di
formarsi o la grammatica, o la logica, ciascuna nazione ha ricevuto dalla
natura l'uso della favella e gli elementi necessari e presso tutti si
mili.Chiunquevuoleesprimerelesueidee,emani festare gl’interni giudizi in qualunque
siasiluogo,in qualunque lempo,di tante parti naturalmente fa uso, quante sono
necessarie ad esprimere le idee, ed i giu dizi con tutte le circostanze, le
particolarità, e la gra dazione di colorito e di luce. se esprime
l'oggetto si dice sostantivo, se indica la proprietà si chiama aggettivo, se
però si considerano in astratto, e come separate dai loro soggetti , rien trano
nella classe de'sostantivi come bianchezza, tar ghezza,solidità,ecc.È però da
riflettere,chegliog getticheagiscono sopraisensi,edicuilospiritopuò formarsi
idee sono di un numero incalcolabile ;ildare ad ognuno di essi un nome sarebbe
stata una impresa non che difficilissima, ma si bene impossibile ;l'uomo ha
superato tale difficoltà,con applicare lo stesso nome a tutti quegli oggetti
che presentano le medesime pro prietà ; si è dato il nome di albero a ciò che
hanno d'identico quegli oggelti che sorgono da una radice, che son nutriti
dalla terra, che hanno tronco, rami, foglie ecc., quindi tutti i nomi esprimono
idee gene rali di classe, di genere,dispecie,tranne quei nomi che disegnano un
solo individuo come Pietro, Paolo ecc., i quali si dicono nomi propri a
differenza dei primi che si chiamano appellativi. Ma
dicendosialbero,uomo,nonsisaprebbediqual albero,di qual uomo volesse parlarsi;la
natura ha suggerito un altro mezzo onde togliersi questa per plessità, qual'è
ilpronome, il quale è una parola che rappresenta determinatamente il nome
dell'oggetto , ed ha nello stesso tempo il vantaggio di escludere le frequenti
ripetizioni dello stesso nome.Il pronome ė anch'esso generalissimo, potendosi
applicare ad oggetti diversissimi e ad ognuno di essi secondo le circo
stanze.Indica in prima la persona che parla io;la persona a cui si parla , tu;
e quella di cui si parla quello, questo, colui ecc.; attribuisce ancora
la pro prietà alla cosa designata , come tuo, nostro ; indica similmente le
relazioni degli oggetti con altri di cui si:forma giudizio, come, il quale, le
quali,e nota in fine la presenza, la vicinanza o la lontananza dell'oggetto
designato, come questo, quello, colui. Vi sono altre circostanze ed altre
relazioni che pos sono avere gli oggetti , e che il linguaggio con precisione
esprime; quindi il nome tanto sostantivo c h e aggettivo ha numeri, generi, e casi.
Il numero indica se l’oggetto è uno, o più di uno; il genere propriamente
determina i sessi, o l'analogia che hanno coi sessi; i casi esprimono le
diverse relazioni che un oggetto ha con altri, designate con certe particelle
che si premettono ai nomi ,tali sono isegnacasi come il, del, al ecc. come
nelle lingue moderne ;o da certe infles sioninellesillabefinalidello
stessonome,comepater, patris,patriecc.,yxws,4x8,qxw ecc.,nellelingue an tiche
per la più parte. Il nominativo indica o semplicemente la cosa che è, o pure
che agisce. Il genitivo esprime il possessore; il dativo la persona o la cosa a
cui si reca utile,danno,o qualunque altra attribuzione; l'accusativo la cosa su
cui passa o cade l'azione ; il vocativo mostra l'oggetto a cui si diri gono le parole
; l'ablativo finalmente che si trova in molte lingue, serve ad esprimere tutte
quelle altre p o sizioni che non si potevano commodamente espressare cogli
altri casi. Un oggetto può solamente esistere,può essere in azione , e può
ricevere in sè l'azione di un altro; era perciò necessaria una voce che
esprimesse questi stali ;questa voce è detta particolarmente verbo, il quale
esprime ciò che è di più essenziale nel discorso, cioè o l'esistenza, o
l'azione, o la passione coi progressi del tempo, e le circostanze delle cose, e
contiene in sè un completo giudizio intorno alla natura delle cose
medesime.Essoindicailtempo dell'esistenza,del l'azione e della passione e le
sue gradazioni, cioè il presente,ilpassatoel'avvenire;ammette anche imodi,
l'indicativo che esprime lacosa assolutamente; l'imperativo che chiede o
comanda, il soggiuntivo che esprime il giudizio sotto la condizione o la
subordinazione di qualche cosa a cui si riferisce. Esso finalmente ha numeri e
persone. È prossimol'avverbiochesiuniscetantoainomi quanto ai verbi , e serve a
determinare il particolar luogo,modo,e grado o ad una cosa,oall'esistenza, o
all'azione, o alla passione ; esso ha una vastissima estensione sul riguardo
che può modificare le circo stanze della cosa o esistente o in azione ,ed è una
maniera abbreviata di espressione come hic qui vale in questo luogo ecc. Il
verbo in ogni lingua genera un'altra voce, che vien detto participio, in quanto
serba la significazione del verbo da cui ha origine , ed acquista insieme la
forma del nome ,con che un giudizio viene incluso in un altro , e richiama con
un sol segno alla m e moriaciòcheèstatodetto,osisuppone conosciuto, con
designare nello stesso mentre la persona, il n u mero, l'azione ed il
tempo,come amans amante, co luicheama,amava,oamando. Sebbene sembra che
queste parti avessero potuto bastare ad esprimere inostri pensieri,
purnondimeno affinchè il linguaggio riuscisse a copiare perfettamente i nostri
interni sentimenti con supplire all'espressione degli accidenti e de'siti lasciati
e non indicati dalle parti antecedenti, si sono aggiunte altre voci di gran
dissimo uso,che si dicono preposizioni come super so pra , circum intorno ;
alcune altre che servissero a se parare o a congiungere le idee secondo il
bisogno , tali sono le congiuntive e le disgiuntive come et e , aut o,ecc.
Altreinfine,chesebbenenon abbiano segnatamente attaccata alcuna idea,indicano
però i movimenti del nostro animo , che le facoltà non hanno potuto , a causa
della loro istantaneità analizzare e sviluppare in idee , e che possono
considerarsi come l'espressioni naturali dell'uomo affetto di dolore o di
piacere , o di qualunque altra forte e subitanea affezione heu, oimè ecc.Quindi
colla frequente ricorrenza, e colla combinazione di otto voci riusciamo ad immettere
nel l'animo altrui le nostre idee , i nostri giudizi , e le nostre affezioni
con tutte le loro particolarità , cioè l'oggetto del nostropensiero,lesue
proprietà,igradi delle medesime proprietà,tuttigliaggiunti, l'esisten za,
l'azione, la passione con i loro rispetlivi tempi, modi e numero degli agenti o
pazienti; gli ordini delle cose adiacenti nella natura, la loro successione
nell'animo, il graduato calore degli affetti.Di queste parti alcune sono
invariabili e sempre le stesse nella loro espressione ; altre sono soggette a
certi cambia menti, tuttavia però nello stesso cambiamento serbano
una certa costanza , la quale forma il principio e la natura della grammatica
delle lingue. Tutte queste parti,che devono riguardarsi come il fondamento del
linguaggio , si trovano in tutte le lingue si antiche che moderne ;in esse si
scorge l'o pera della natura sempre stabile e costante in mezzo alle
incalcolabili varietà che subiscono le lingue ;tutto ciò che cangia è opera
dell'uomo , ciò che è costante èl'effettodiuna causa superiore,laqualecomeman
tiene costantemente nell'uomo gli organi e le facoltà, conserva egualmente le
parti essenziali del linguaggio. Non è però lo stesso nelle lingue ciò che è
opera del l’uomo ; questa viene modificata da varie circostanze, tali sono il
genere di vita , i temperamenti diversi , la religione, il costume, la
temperatura dell'aere, la qualità de' luoghi , le gradazioni di sviluppo e
tante altre,che,come influiscono sopra la maniera di pen sare, influiscono
nella maniera di esprimersi, da ciò ladiversitàdellelingue.Sidissepiùsopra
cheisuoni vocali sono l'espressione della sensibilità,e le into nazioni,e i
consonanti il prodotto delle facoltà dello spirito ; la sensibilità ed i
prodotti diessa sono quasi simili in tutti gli uomini, perchè in tutti esistono
gli stessi sensietutti sono capaci di piacereedidolore; iprodotti però delle
facoltà libere dello spirito variano esimodificano
diversamenteintuttigliuomini;onde è che possono darsi alla stessa voce varie
intonazioni, cioè possono i suoni vocali essere combinati con di verse e varie
intonazioni, d'onde risulta la diversità delle voci articolate e la
moltiplicità delle parole. Ma la stessa temperatura dell'aria , la medesima
educa zione, la religione , lo stesso suolo , i medesimi co stumi come
influiscono nell'esercizio e sviluppo delle facoltà,influiscono cosi nello
stesso modo d'intonare, perciò la stessa lingua presso lo stesso popolo,ed in
questo più o meno perfetta, più o meno elegante,più o meno estesa a seconda lo
sviluppo e la collura degli individui dello stesso popolo,della medesima
nazione. Oltrediqueste cagioni intrinseche,avvene un'altra estrinseca che
produce la varietà delle lingue, vale a dire la mistione di altre lingue, e da
questa mistione hanno origine altre lingue che sorgono nuove. Tale sappiamo
l'origine di tutte quelle lingue , e di quei popoli fin dove si estende
l'istruzione dataci dalla sto ria, e con particolarità di quelle a noi più
vicine e le piùfamose,come lagreca,elalatina;tanto l'una che l'altraebbero
originefraipiratiemasnadieri,ecreb berosottoibarbari. i Fenici, i Frigi, i Macedoni,
gli Illirici, i Galati, gli Sciti,e l'eventuale concorso degli errabondi, e
degli esuli diedero origine alla greca nazione,e furono i primi
legislatoridella lingua.Gli Umbri, i Galli, gli Etruschi, i Sabini, i Campani,
i Sanniti diedero origine alla LOQUELA DEL LAZIO O LATINA, ognuno de' quali da
parte sua,introducendoi propri termini,elapro pria maniera d'inflettere,
concorse alla formazione di una nuova lingua non prima parlata, che fu il pro
dotto di vari e diversi dialetti, quale indi,le vicende delle
nazioni,ilprogresso nelle arti,nellescienze,e nella civilizzazione portarono a
quello stato di perfe zione che tanto in esse ammiriamo. L'opera
dell'uomo non è mai stabile,come l'uomo stesso ; ha egli la sua nascita , la
puerizia , l'adolo scenza,lavirilità,la decrepitezza,efinalmente muore per
rinascere la materia sua corporea sotto di altre forme; cosi è delle lingue :
infatti dalla Greca nacquero altre lingue;e di sotto le rovine dell'impero e
della lingua del Lazio sorsero l'italiana, la francese, e la spagnuola.Ma
perquantigradivisipervenne?quante mutazioni,e quante vicissitudini non
bisognarono su bire prima di arrivare al grado di perfezione in cui sonoalpresente?Variecauseviconcorseroesicom
binarono ; gli improvisi eventi degli affari politici, il sito, l'amenità de'
luoghi, l'asprezza delle contrade, l'aspetto più o meno ridente di un altro
cielo,la lem peratura diversa dell'aria, lalontananzaolavicinanza de'mari,delle
selve,de'monti, la diversa indole degli uomini che si unirono , le forme
diverse di governo e di religione , la coltura delle arti, e delle scienze ,
egualmente che i vari dialetti che si resero familiari per lafrequenza
de'negozi diedero all'antico linguag gio forme affatto diverse. Cacciati
gli Ismaeliti da tutta l'Europa,ove aveano per
qualchetempofattodimora,restòl'articoloarabo,
checominciòaprefiggersiainomi;quindinonsicu rarono le desinenze de'suoni
finali, l'introduzione di questo articolo fu la cagione primaria del mutamento
dellalingua liberaepittricedelLazio nellelinguem o derne servili. Abbandonando
gli Arabi la Gallia m e ridionale, la Spagna , le coste di Salerno e della
Italia meridionale, lasciarono tuttavia la desinenza de'versi puerile,senon
vogliam dire,sonante.Non possiam però negare che dobbiamo loro le brevissime
note dei numeri, i calcoli algebrici , vari nomi di astronomia e stromenti di
gnomonica, con alcune notizie di bo tanica e di medicina. Vari nomi di fioried
erbe, in cogniti ai nostri , furono recati dall'oriente dai cro cigeri ;
intanto le arti e le scienze che 'mano mano siavanzavano,lenuove
scoperlechesifacevano,ap portavano nuovi soccorsi e nuovi nomi alle lingue.
Varie maniere di costruire addussero prre gli inglesi ed i francesi
nell'italiano linguaggio,e varie pure di
questoneintrodusseronelloro;cosisiaggiunse sem pre novità a novità, varie leggi
di costruire, diverse maniere d'inflettere, originate in prima dalla negli
genza della pronunzia , anche molto spesso tronca vansi non che le lettere, ma
ben anco le intere sillabe : dal che ne avvenne che gli uomini domiciliati
nello stesso suolo, degenti sotto lo stesso cielo,e sotto la stessa forma di
governo cominciarono per effetto d'imitazione a adottare comunemente tal forma
di pronunziare,checoll'andardeltempo divenneunuso, una legge. La natura ha
sempre prodotto degli uomini di genio, i quali e per la finezza del giudizio, e
per la vivacità della immaginazione si sollevarono sopra degli altri ; ciò che
dal volgo era enunciato di una maniera bassa e triviale, da quelli profferivasi
con scelta, con dignità ed eleganza;furonoessiimitati perchè piace vano, e cosi
discesero e si propagarono nel volgo le maniere più dignitose e più culte di
espressioni , gli ornamenti della lingua cominciarono a mostrarsi in
tutto il loro splendore ; si cercò d'imitare ipoeti, gli oratori, e si
seguirono ne' loro vari stili. Questa fatica e questo diletto che prima
s'ignorava in mezzo al fragore ed allo strepito delle armi , e fra gli in
commodi de viaggi e delle emigrazioni , cominciò a seguirsi , a perfezionarsi
dai filosofi nel libero ozio delle lettere , nel calmo silenzio della
meditazione , nella tranquilla diligenza di scrivere. Cosi il linguaggio
dapprima rozzo ed incolto per la tanta confluenza delle discordi locuzioni,
cominciò a tingersi dello stesso colore,a vestirsi della stessa for
ma,amostrarsiunasolalingua,chesottolalima degli uomini di genio e degli eruditi
apparve finita e perfetta; ove isuoni sembravano aspri,furono con sultate le
orecchie , si adottarono sillabe più scorre voli e sonanti ; ciò che pareva
meno adatto ad espri mere una cosa si corresse e si rese più preciso. Da ciò
chiaro appare che ogni lingua ha le sue parti essenziali esprimenti le idee ed
i giudizi del nostro spirito, cioè i suoni articolati secondo idiversi offici
che ognuna,nella espressione de'nostri pensieri,deve
adempiere,edinciòconsisteilfondamento della lin gua che è opera della natura.
Avvi un modo parti colare di costruzione e di combinazione di queste parti ,
una diversità di suoni e d'inflessioni che costituisce la differenza delle
lingue, ed il diverso loro genio, e ciò dipende dall'opera degli uomini e dalle
circostanze nelle quali si trovano.Ha finalmente ciascuna lingua de celebri
scrittori,de'grandi parlatori,che altri Il primo carattere della lingua,
cioè il fondamento, forma l'oggettodioccupazione della filosofia,laquale
ricerca ciò che avvi di naturale nelle lingue; il se condo appartiene ai
grammalici, che si occupano delle forme e della proprietà delle stesselingue ;
il terzo si tratta dai retori che ne considerano l'eleganza, lo stile e gli
ornamenti. La prima svolge gli elementi naturali e sempre costanti del
linguaggio,la loro unione relativa all'ordine, alla successione, ai tempi,ed
alle circostanze delle idee e de' pensieri che si succedono nel nostro spirito,
ed a questo riguardo illinguaggio è una pittura fedele delle nostre idee;questi
elementi, che sogliono chiamarsi parti del discorso,si ritrovano identici in
ogni lingua.La seconda riguarda la varia desinenza de' suoni, la loro
inflessione, il modo di verso di costruire i medesimi suoni ; questa varia se
condo le diverse lingue, o piuttosto forma la varietà delle lingue, perchè essa
è opera dell'uomo non mica della natura. La terza rintraccia l'ornamento delle
lingue,l'uso dellefigure,ele maniere vezzose,eper cosi dire voluttuose delle
medesime ; essa è il risul tato della coltura e del genio.
6.Eglièverocheunuomo,ilqualeèdotatodi organi sani che funzionano normalmente,e
di un'anima ragionevole, può formarsi idee degli oggetti che agi scono
sopraimedesimi organi,puòimprimereleidee nella memoria, può richiamarle quando
l'esige il bi 227 proccurano e si studiano d'imitare; in essi trovasi e
deve ricercarsilaproprietàdellalingua,perchèessila recarono allo stato di perfezione
e di pulitezza. sogno,può riflettereedastrarre,tuttaviasenzaillin guaggio
la nostra condizione sarebbe troppo degradata ; e quantunque i bisogni comuni
ed i vantaggi della vita avvicinassero gli uomini e li mantenessero fra loro
uniti, purnondimeno, senza la facoltà di manifestarci scambievolmente gli
interni sentimenti e le idee , le società reslerebbero stazionarie'ó molto
imperfette. Potrebbero i gesti in certo modo esserci utili,essendo
l'espressione energica della natura :ma di qual aiuto sarebbero in distanza o
nelle tenebre? come potreb bero indicare le cose passate ed a lungo intervallo
da noi ? in qual maniera esprimerebbero tante varie m o dificazioni si
dell'animo nostro , quanto degli esseri fuori di noi con tutte le gradazioni
delle varie loro tinte e colori , con quella esattezza e precisione con cui
sono espressedaisuoni articolati?igestinon po trebbero mai indicare inostri
interni sentimenti,iloro gradi d'intensità , e certe oscure e delicate affezioni
di cui l'animo è affetto. È opera del linguaggio ar ticolato il delineare e
pingere con esattezza,con precisione e nella sua totale adequatezza tutto ciò
che sentiamo,che sperimentiamo e che vogliamo trasmet tere nell'altrui animo
;esso analizza e scompone nelle sue parti i sentimenti , e dà ad ognuna di esse
un segno preciso.Egli è vero che noi possiamo avere idee sensibilideglioggetti
esterni,elepossiamo trattenere a memoria senza l'uso de' segni, che anzi non
può prodursi un segno prima di averne formato l'idea che deve attacarsi a
questo segno.Ma tante idee sono di tal carattere, che tosto formate
sparirebbero senza al taccarle al segno che le rende permanenti, e noi sa
remmo nella dura fatica di sempre formarle di nuovo, talisonoperlapiùparteleideecomplesse
necessarie, intellettuali, e tutte le nozioni astralte di virtù,vizio,
giustizia, bellezza, deformità, differenza, uguaglianza. Senza l'uso delle
parole le scienze non avrebbero p o tulo avere esistenza;poichè non avvi
scienza pura mente empirica,cioè,che non abbia principi generali :
l'individuale,essendo mutabile,non avendo necessità, non può esser base e
fondamento di scienza ; or le nozionigenerali,iprincipi necessari non avrebbero
potuto aver permanenza nello spirito senza i segni ; i segni li rendono stabili
e pronti all'uso,ed isegni hanno servito d'occasione alla loro formazione, a
tanti ritrovati,a tante ricerche:leparoleperchè?come? onde?da
chi?quando?essenza,relazione,causa,at tributo sono fonti fecondi onde lo
spirito possa met tersi in movimento e scoprire delle nuove vedute. Tutte le
scienze sono nate,si sono accresciute ed hanno acquistato quel grado di
estensioneediperfezione in cui le troviamo per aver ricercato ilperchè ed
ilcome di un effetto, e tutti i passi e le idee, cominciando dal perchè e dal
come sino all'ultimo risultato,sono state segnate dalle parole e
permanentemente registrate nel linguaggio. Tante riflessioni potrebbero addursi
intorno all'in fluenza del linguaggio sopra le idee ed il perfeziona mento
delle nostre facoltà; ma non volendo esagerare nė deprimere i vantaggi dello
stesso linguaggio ci li mitiamo a ciò che è della massima
importanza. Quasi tutte le operazioni riflesse del nostro spirito
sonocomplesseerisultanodavarielementi;ma questi elementi sono cosi connessi
nella unità del sentimento, che sembranoessereunsoloesempliceelemento;vero è
che l'altività dell'analisi,penetrando nel seno dello stesso sentimento,ne
distingue glielementi confusi;ma questa distinzionenon sarebbe
permanente,durevole, e lucida senza il linguaggio e le parole, ognuna delle
quali disegna ciascuno degli elementi distinti,non che i rapporti che si
scovrono fra essi elementi. Un sol fatto sembra la sensazione, il giudizio, il
raziocinio : l'analisi li decompone, ed il linguaggio nola e dise gna ciascuna
parte della decomposizione , e presenta successivamente e distintamente il
tutto;onde volen dosi replicare e riconoscere l'operazione, basta repli care e
ripetere le parole. Il linguaggio in generale deve considerarsi come il più
possente aiuto della memoria , anzi esso costituisce una memoria artificiale.
In vero, lo sviluppo e la coltura dell'uomo non con siste precisamente nella
prontezza ed esaltezza del giu dicare, nella sola faciltà di ragionare,ma nella
pron tezza di aver nuovamente le idee, le operazioni pas sate che possono
servire al bisogno presente;per ri produrre con prontezza le idee è necessario
che fos sero nette e scolpite, e tali si rendono per il linguag
gio;illinguaggio,agevolando lamemoria,contribuisce moltissimo allo sviluppo ed
alla coltura dell'uomo ; infatti sono in ragione direttalacivilizzazionede'po
poli, e la perfezione del linguaggio. Le paroledelle quali si compone
illinguaggio non sono che suoni articolati : esse per questo riguardo
sono oggetto proprio ad agire sopra il senso dell'u dito, e produrre
modificazioni ed idee nello spirito , i suoni articolati considerati in se
stessi nulla espri mono , sollanto producono sensazioni , modificano a loro
modo lo spirito , e tante sono le modificazioni quanti sono i suoni articolati
che agiscono sopra l'u dito : di tutte queste modificazioni e di queste idee lo
spirito ne ha coscienza, e ne ha memoria.Noi sap piamo che l'esperienza diviene
più tenace,più solida, più infallibile quando è comparata : infatti acquistiamo
le idee precise ed esatte delle distanze, quando si c o m bina l'esperienza
della vista con quella del tatto. Or ogni idea di qualunque natura ella sia, a
qualunque classe essa appartenga è una esperienza, è un sentimento distinto che
si deposita nella memoria ;intanto questa idea,questa interna esperienza non
riceve l’ul tima perfezione, l'ultima mano d'opera, siccome non si figge nella
memoria onde possa a piacere richia marsi , che allorquando si combina colla
esperienza dell'udito, colsuono articolato,quando all'idea, che abbiamo
attualmente nello spirito e nella coscienza , si attacca la modificazione che
produce il suono articolato; questo suono tanto per essere giudicato iden tico
alla idea a cui si attacca, quanto per essere si multaneamente presente allo
spirito, diviene rappre sentativo dell'idea,come l'idealodiviene del suono, e
fa sì che l'idea sia compresa tulta e ristretta dentro la capacità e la
periferia del suono,ed acquista m a g giore sensibilità per la sensibilità del
suono in cui è ristretta ed a cui è attaccata , e cosi riceve
l'ultimo contornamento, l'ultima precisione e finitura. Cosi le parole
cielo,mare,monte,temperanza,giustizia ecc. Questo vantaggio è comune a tutte le
idee ed in questo influisce più potentemente il linguaggio sopra le idee. Ciò è
chiaro non solo nelle idee sensibili, ma ancora nelle intellettuali, nelle necessarie,
siano sem plici,siano complesse,e con particolarità nelle idee de' numeri, e
nelle idee universali. Il numero non è che l'aggregato di molte unità omogenee
; esso si forma col ripetere ed aggiungere l'unità a sè stessa. Noi non
possiamo, sotto il m e desimo atto di conoscenza,abbracciare più di quattro
ocinqueunità insieme;ma illimitede'numeri non si arresta al quattro o al cinque
, esso è indefinito. Supponghiamo di avere coll'idea il termine dell'unità ed
il segno dell'addizione, cioè uno e più, e proce dendo progressivamente uno più
uno più uno più uno, ciascuna di queste addizioni, ed indi il numero che ne
risulterebbe sarebbe cosi confuso che noi non po tremmo affallo determinarlo,e
molto meno potremmo formarne idea onde poterla distinguere da un'altra; come
infattipotremmo senza isegni avere l'idea 2000 e distinguerla da 1999? in
questi numeri come ogni parola si affigge ad ogni passo della progressione,la
parola ne determina e precisa il numero e l'idea, e per mezzo de' segni noi
distinguiamo l'una dall'al tra, e le mettiamo in combinazione ed in rapporto,
ene formiamo la scienza; queste scienze dunque, la necessità e l'utile che ne
deriva si devono al linguaggio. Le ideegeneralinonhannoalcunmodellonellana
tura a cui corrispondano , ma sono il prodotto della azione dello spirito sopra
le idee individue. Noi non possiamo numerare tutti gli oggetti della natura,
che sono o possono essere in rapporto con noi , perchè non possiamo tutti colle
loro differenze e proprietà trattenerli nella memoria, e riprodurli
distintamente quando vogliamo, per la stessa ragione non possiamo dare ad
ognuno un nome proprio, essendo essi di un numero indefinito; questa impresa è
superiore alle nostre forze. Ma lo spirito dell'uomo , che ha nella sua
attivitàdellepotentirisorse,paragonandogliog getti, ed interponendo fra essi la
identica sua cogni zione, conosce ciò che l'uno è all'altro, e questi ad un
altro,ecosidiseguito,evedendolesomiglianzee le analogie da una parte , e le
differenze e dissomi glianze dall'altra , per effetto della sua identica ve
duta ed indivisa interposizione fra questi oggetti e le loro qualità, riunisce
quanto in essi trova d'identico, l'astrae da ciò che li diversifica, ne forma
una concezione di tal natura che tutti gli contiene e li rappresenta; tale
concezione non è che una veduta reale dellospirito,ma
chenonhaalcunarealtànellanatura; essa è più o meno estesa nellasua
compreensione, d'on de nascono le idee generali di specie, generi, classi,
ordini, famiglie. Or tali idee , non avendo originale nella natura, perchè
semplici vedute dello spirito,senza un segno che le rappresenta svanirebbero,
nè potreb bero aversipresenti al bisogno ; laddove laparola rende permanente
l'idea generale, tutta , per cosi dire, la chjude nel suo ambito, e
rappresentando tutta l'idea generale, rappresenta tuttele idee identiche
contratle in un solo gruppo, ed identificate in una sola idea, a questo
riguardo ogni termine generale è l'espres sione concisa di un completo e
perfelto metodo ; poiché contiene ed esprime confronti, giudizi, astrazioni e
maniere di generalizzare; e siccome il termine gene rale si considera come
unico e semplice in sè stesso, cosi circoscrive e fissa i limiti della
idea,eledà l'ul timo grado di precisione. Le parole adunque non solo associano
le idee in dividuali in un modo indipendente dall'ordine di acquisizione, onde
poterleconfaciltàrichiamare,ma sono ancora necessarie per fissare irapportide'con
fronti, i termini de' giudizi, per dividere gli oggelti della natura e le loro
proprietà , per astrarre, per g e neralizzare,e per rendere facile in fine le
scienze tutte. Ogni idea dunque ha bisogno di una parola che la rappresenti; se
è concreta per renderla indipendente dalla sua sensazione,e per tenere raccolte
in una m a niera permanente tutte le idee semplici di cui si compone, e per
richiamarla tosto alla memoria: se è astratta per tenere riunite in un solo
gruppo le idee astratte di cui è composta, e formarne un modello distinto e
durevole nella memoria. Il vantaggio però più generale e proprio del lin
guaggio si è quello, per cui tutti gli uomini mettono in comunicazione
tutteleloro idee,iloro sentimenti, ilorobisogni ed imutui soccorsi;poichè
essendo co muni i segni che l'indicano, ne segue che colui che ascolta
esegue le stesse operazioni interne di colui che parla,cioèeccitainsè,edunisce
successivamente nel suo spirito quelle idee che si sono eccitate successi
vamente in colui che parla,con questa sola differenza, che questi analizza il
proprio pensiero ed attacca ad ogni elementoun termine,laddovequello
sintesizza, riunendo cioè le idee con quell'ordine con cui ven gono
indicatedalleparole.Questo vantaggioperònon ha egualmente in tuttiilsuo pieno
effetto, perchè le parole presso tutti non hanno lo stesso grado di pro prietà,
di precisione e di analogia, quindi variano i modi d'intendersi come variano i
mezzi di comuni carsi. L'influenza del linguaggio su questo rapporto è di una
utilità indefinita,poichè,colla comunicazione delle idee e de sentimenti, lega
fra loro gli uomini, e consolidà le basi della umana società. Coltivato e
diretto dall'arte, applicato ai vari oggetti si trasforma e veste vario
stile;ma ciòmerita l'attenzionede're tori, e degli oratori. Sebbene
igeroglifici,lecifrealgebriche,isegni te legrafici, gli emblemi ed altri segni
convenzionali pos sano rappresentare le nostre idee,tuttavia il sistema de'
suoni articolati è da preferirsi a qualunque altro mezzo di espressione, tanto
per la facilità, pel numero , quanto perché può adattarsi a tutti i luoghi, a
tutti i tempi, ed a tutte le circostanze per la portentosa varietà
dell'articolazione ed inflessione de' suoni.La
scritturaèunaespressionedellinguaggiocome questo laèdelleidee;essaperciòèsempre
relativaedinra gione diretta del linguaggio , talchè la perfezione di quella
dipende dalla perfezione di questo ; poiché,come
laparolarappresental'idea,lascrillurarappresenta le parole. l'autore non ebbe
più tempo a pubblicarla , sì che restò inedita con l'altro trattato teologico
su'sacramenti. La dottrina intanto di que st'altra opera che titolava Organo
dello scibile umano o Lo gica, scritta forse più che quindici anni fa, è sempre
con forme al sistema dell'autore, e benchè sembri non uscir dalle vie segnate
alla logica da Aristotile e dagli scolastici, trovi tuttavia nell'Introduzione
quanto oggi si richiede da un trat tato di logica che non voglia la nota di
logica formale , sic come si dice. La logica, vi è scritto, ha la sua derivazione
dal greco “lógos” che in latino si traduce “verbum,” cioè parola, discorso, perchè
essa nella sua essenza non è che l'atto vivo che prorompe dalla virtù
ragionevole « dello spirito umano , che colla sua unità abbraccia e trascorre
dalla potenza dalla quale emana all'obbietto che lo fa nascere ; essa
primamente distingue ed unisce questi « due termini , i quali possono
considerarsi come due sil « labe fondamentali che connette l'atto logico , e risulta
la parola feconda è che senza dividersi in sè si protende, abbraccia, e
s'interpone fra tutti gli esseri che esistono e « che possono esistere ; ne
conosce i rapporti e le relazioni, li distingue e li riunisce in un sistema
vastissimo e comprensivo. Questa forza logica ripassa sopra la fecondità a
dell'atto creatore e conservatore della Causa prima , il quale senza scindersi
produce la immensa varietà degli esseri e li coordina in un sistema portentoso
; lo riflette e lo riverbera in sè , e per le relazioni che tra essi scorge li
rias ime in unico sistema cosmico. Questa forza che si annunzia nella parola
vivente ed operosa , con la penetrante Questo m s . porta il titolo: Elementi
di Filosofia fondamentale.
Organodelloscibileumano,oLogicadelP.BenedettoD'Acquisto da Mon reale professore
di Diritto Naturale e di Etica nella R. Università degli studj di
Palermo.Consta di quaderni 6,tutto di mano dell'autore,e disposto per la stampa
: oggi è presso i fratelli Matteo e Filippo L o rico di Monreale,nipoti del
D'Acquisto,insieme all'altro ms. su’Sacramenti, di carte, e contenente 18
capitoli. sua luce scorta e dirige le operazioni delle altre facoltà dello
spirito al trovamento del vero che è l'obbietto natu « rale della intelligenza
dello spirito ; e trovatolo dà il modo onde poterlo convenientemente mostrarlo
agli altri ». Così il nostro filosofo dà a fondamento della logica formale una
logica che oggi è detta reale , e all'arte logicale prepone la scienza del
pensiero.Ilquale appunto secondo che congiunge diversi estremi piglia
nell'esercizio logico diversi stati o gradi progressivi come son detti
dall'autore. Chè , « il primo grado « si trova , ci dice il nostro , nella
nascita dell'atto logico e « nel primo è radicale , nel quale esiste la potenza
, l'oggetto e l'atto , il quale separando nel primo istante la potenza «
dall'oggetto , congiunge indi l'uno all'altra ed emerge l'è, a prima parola
logica che esprime la nascita dell'individuo « umano; il quale è ciò ch'egli
è,ma sebbene è ciò che è, non dice però sono; allora dice sono, quando intende
il SIGNIFICATO (SEGNATO) della parola vivente è: e ciò succede in virtù del «
secondo atto , il quale comprende ed abbraccia il primo, che coll'interporsi
distingue la potenza e l'oggetto contenuti « cell’atto,e dice sono;ciò che
costituisce il secondo sviluppo « logico ; il quale forma il piano generale in
cui la potenza « conoscendo ed affermando sè stessa , conosce in sè ed af «
ferma tutte le modificazioni ed in esse tutti gli oggetti m o « dificanti,
pe'quali la potenza si manifesta in diverse guise. « L'atto logico adunque s'interpone
tra le sostanze degli oggetti , le distingue e le congiunge , ed il risultato è
l'idea generale dell' essere; terzosviluppo. L'atto logicos'interpone tra
l’essere ed il suo modo, li distingue e li congiunge; ed il resultato è
l'oggetto qualificato. L'atto logico s'interpone tra la qualità di un oggetto e
quella di un altro, le di stingue e le congiunge , ed il resultato è l'idea
specifica « della qualità. L'atto logico s'interpone tra l'azione di un essere
e quella di un altro , le distingue e le congiunge, e il resultato è l'idea di
causalità.Infine, l'atto logico s'interpone tra tutti questi resultati dello
sviluppo graduato dello stesso atto logico ,ed il resultato è l'idea
comprensiva del sistema. L'alto logico adunque ha una capacità univer- «
sale ed una forza comprensiva che si estende ed abbraccia tuttociò che è. L'atto
di ogni facoltà si limita alla individualità; l'atto logico trapassa la
individualità , e si eleva alla massima generalità. Ho voluto riferire, o
Signori , questo lungo passo , si perchè è già di un'opera inedita, e sì perchè
si abbia come il nostro appuntava nelle altissime ra gioni della scienza quella
che comunemente si crede non e s sere che solo disciplina pratica, e spesso
vanamente sottile, del discorso umano. È sempre , intanto , la stessa dottrina
che va ripetuta per più capi , e che si ha spiegata poi in tutta la sua sintesi
stupenda nel Sistema della Scienza Universale . Nella quale opera il D'Acquisto
ha lasciato un bel monumento ,come al trove ebbi a dire, della filosofia in
Sicilia a metà del secolo XIX. Questo sistema della scienza universale ha il
suo perno nell'atto infinito che sostiene come creativo, conserva tore e
imperativo , l'universale ordine delle cose , in cui l'au tore trova che tutto
è vita , tutto forza e movimento di un'immensa armonia ($ 544);tanto che esso
sistema è lo specchio di tanta universale armonia, metafisica, fisica, m o
rale,naturale esovrannaturale,laquale ha principio nelDio che concepisce ,
produce e accorda il concetto e il prodotto della creazione primaria e
secondaria , e ha termine nel Dio della rivelazione , della grazia e della
redenzione. Vero è che il nostro filosofo, fedele al suo metodo , non va sulle
prime alle alte regioni della ontologia; ma è vero eziandio che non si chiude
mai , secondo l'uso de'psicologi , negli stretti limiti della psicologia e
della ideologia : e però il suo libro dà un vero sistema comprensivo delle
universali ragioni della Ved . il nostro libretto Sullo stato attuale e
su'bisogni degli studi filosofici in Sicilia , p. 52 e segg. Palermo. Saprà
bene il lettore che il Contı , nella sua lettera al pro fessorNaville sulla
filosofia contemporanea in Italia (ved.Appendice alla Storia della Filosof.), poneilD'Acquistotra’seguaci
del metodo comprensivo scienza , esposto seccamente e quasi con metodo
geometrico, ma sempre con la medesima profondità di speculazione e logico
rigore. Che se poi quest'opera del nostro senta forse più che altra dell'odore
delle dottrine del Miceli , basta ri cordare l'occasione sopra notata ond'essa
nacque , perchè si abbia pronta spiegazione delle molte reminiscenze miceliane
che occorrono frequenti al lettore. In quanto adunque a n a tura della nostra
cognizione e a quel che in essa si accolga e scopra la riflessione, il sistema
ripete le dottrine stesse e l'analisi minuta che si hanno nella Psicologia ,
nel Saggio sulla legge fondamentale del commercio tra l'anima e il corpo
dell'uomo , e nella Ideologia ; m a per quel che concerne la ontologia , qui si
ha tutta la teorica compiutadella creazione e dell'ordinamento idealo e reale,
metafisico, fisico e morale delle cose , con le « investigazioni altissime
dell'umano sa pere » : tanto da chiamare appunto per questa ragione Si stema
della Scienza Universale il sistema di cui l'autore non tirava, a suo dire, che
brevi linee, ma cosiffatte « da som « ministrare dal punto supremo della sua
altezza le vedute « anticipate indicanti i nessi essenziali e le vere tendenze
« della scienza,che poi illavoro dello spirito umano potrebbe « condurre ad
effetto » (p. 14 ). L'ideale e il reale vanno iBenedetto D’Acquisto.
D’Acquisto. Acquisto. Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Acquisto” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Grice ed Acri – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Catanzaro). Filosofo. Grice: “Acri has
explored quite a few topics – all in the good Lit. Hum. Oxon. tradition – and
since he tutored at an even older varsity, kudos! He has explored ‘Amore’ and
he expands on the Athenian dialettica – he in fact distinguishes between turbo
and sereno – He left his notes on sereno as an unpublication, but a tutee cared
to publish them ‘Unpublication’ – There is turbo, and there is turbato – as
applied to ‘colloquenza’ qua conversational dyad, Acri speaks of the colloquenza itself as
being ‘turbata’ – he relishes on that – if there is no ardimento, and the
Romans loved one – what’s the good to argue? The second phase of the dialettica
is ‘serena’ – I find the distinction genial and in a way corresponds to my
epagoge/diagoge distinction – the ‘turbo’ is dyadic – say A wants to influence
B (turbo 1), B gets influenced and expresses it in a second conversational move
(turbo 2). – Dialettica turbata – they reach the principle of conversational
helpfulness and they arrive at the ‘sereno’ – dialettica serena’ – until the
next turbo arises, that is1” - Grice: “I like Acri – he is a platonist, and he
is explicitly against the positivists, whom he contrasts to the ‘filosofi sobri.’
His own theory of ideas is hardly platonic, but finds its base on Vico, which
is nice – since, if an Italian does not understand Vico, no one will! –Acri
explores the connection between ‘idea’ and ‘expression,’ and considers the
‘radice’ (root or stem) of expressions – he has commented extensively on
‘Cratilo.’ In any case, he is a sensualist, so at the root of it all is what he
calls, after Aristotle (“De Interpretatione”) ‘il fantasma’ and the ‘imagine.’ Italian philosopher, author
of an essay on Plato’s and Vico’s theory of ideas. “Abbozzo” essential Italian philosopher. Grice: “I love Acri’s
rendition of the Cratilo into the vernacular!” Filosofo. Opere: “Del sistema in genere”;
“Prose; “Abbozzo d'una teorica delle idee”
(Palermo: Stab. tip. Lao, -- In memoria di Alfonso della Valle di Casanova);
“Sulla natura della storia della filosofia” (Bologna: Nicola Zanichelli successore
alli Mrsigli e Rocchi); “Cratilo – Menone – Apologia di Socrate, Critone -- Dizionario
Biografico degli Italiani. IL CRATILO. Due solenni
questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone in
questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor propria
ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa qualunque
vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda. Platone
ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le confuti
anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di Socrate,
così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or
potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un
nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni
nome da chiunque posto Due solenni questioni intorno all'origine della lingua
toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi
abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome
che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza:
Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben
apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla
seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome
parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che
sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di
Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto a qualunque cosa sia
retto, deriverebbe che tutti i nomi, sì veri che falsi, sarebbono del pari retti,
e che la cosa medesima potrebbe aver nomi altrettanti, quanti individualmente
dagli uomini le fossimo posti, e che tosto anzi gli avesse, che quel sopressa
li pronunciassero. Inoltre, se le cose non han già sol esse una stabilità lor
propria da natura (contro il dir di Protagora, esser elle a mo' ch'a noi
paiono; giacchè se così fosse, non potrebb'esser uno più sapiente di un altro);
ma stabilità pari ad esse han pure le azioni loro, per modo che, se unoe ha da
tagliare una cosa, per ret tamente ciò fare, ei non la dee tagliare a ca
priccio suo, ma nel modo che la natura della medesima richiede di tagliarla e
che taglisi e con quello con che debbe tagliarsi; così pur segue che il
nominare le cose, send'un'azione, noi non le dobbiamo nominare a libito nostro,
ma nel modo che la lor natura richiede di nominarle e che nomininosi e con che
deb bonsi nominare. Arroge, che se il giudicare poi di quello con che fassi una
cosa, cioè del suo stromento, se sia ben fatto, non pertiene al l'artefice che
lo fa, ma a colui che ne usa a modo (giacchè il giudicar di un pettine se sia
ben fatto e acconcio al tessere, non per tiene a falegname, ma a tessitore, e
il giu dicar di una nave, di una cetra, se sian ben ſatte, non pertiene ai loro
fabbricatori, ma a piloto e a citarista); così pur segue, che il giudicare del
nome di cosa qualunque, se sia ben fatto, cioè se la indichi ed insegni vera
mente, non pertenga a chiunque nè a chi lo pone, ma a colui che a modo ne usa,
al dia lettico; e per conseguenza rimane chiaro che il porlo non è opra di
chiunque, ma di solo colui, che ragguardando al nome che in ispezie a ciascuna
cosa da natura conviene, colle let tere e colle sillabe è in grado di render
l'idea del medesimo. A questo discorso non sapendo Ermogene che rispondere, prega
Socrate, che voglia spie gargli e fargli conoscere cotesta ragione, che il nome
ha in sè da propria natura; e quindi soggiugnendogli ch'ei non ammettendo la
sen tenza di Protagora, esser le cose come paiono a ciascuno, non poteva tener
vero quello che in virtù di tal opinione Protagora affermava dei nomi, Socrate
allora il conforta a ricorrere ad Omero, il quale distingue nelle cose stesse i
nomi ad esse dati dagli Dei da quelli dati dagli uomini; avvegnachè gli Dei
chiamino le cose con nomi, che ad esse rettamente convengono. E così movendosi
a spiegare Socrate, secondo Omero, come ad Astianatte, Ettore, Oreste,
Agamemnone, Atreo, Pelope e Tantalo bene stieno que nomi ch'hanno, dalla
menzione di quest'ultimo naturalmente viene condotto a spiegar la ragione del
nome pur del suo padre, cioè di Giove, e quindi sale a quello di Saturno e di
Urano. Intanto rispetto ai nomi che sono posti agli uomini ed agli eroi, egli
avverte di non doversene troppo fidare, perchè molti di essi, dicegli, sono
stati presi da que de pro pri progenitori, o sono stati posti secondo gli
auspici e voti per loro, come Eutichide, for tunato, Sosia, salvato, ecc., e
per ciò dando l'addio a tali nomi, passa a spiegare quelli delle cose che sono
sempre nello stesso modo ed immutabili, vale a dire ai nomi Dii, demoni, eroi,
uomini, ed al nome corpo ed anima, dai quali l'uomo è composto. Ma desideroso
Ermogene, nel modo che aveva inteso la ra gione del nome di Giove, di saper
anche quella del nome degli altri Dei, Socrate, dopo aver formalmente
protestato, che per riguardo agli Dei, affatto nulla di loro ei sapeva nè con
quai nomi tra loro si chiamassero, nondimeno dice, che si accingeva a dar la
spiegazione di tai nomi, secondo l'opinione ch'ei credeva avere avuto gli
uomini nel porre i nomi ai medesimi; e così fra questi pel primo comincia da
quello di Vesta.Il nome per esser retto, come si disse, bi sogna ch'esso abbia
una certa natural conve nevolezza con quello ch'ei nomina; per dunque conoscere
se un nome sia retto e stia bene colla cosa da esso nominata, bisogna pur
conoscere l'essere della cosa medesima. Or intorno all'es tempi di Socrate e di
Platone; l'una degli Eraclitiani, che credevano le cose esser sempre in moto;
l'altra degli Eleatici, i quali opinavano, che fossero sempre in riposo.
Secondo il proprio sistema ciascuno spiegava pure i nomi; onde Socrate, nel dar
l'etimologia del nome Vesta, riferisce anche la sentenza di queste due scuole
filosofiche dicendo, che gli Eleatici il nome di Vesta, Eatix (Hestia), perchè,
second'essi, in antico in vece di obaix (ousia), essenza, en tezza, si diceva
anche aix, esia, il derivavano da siva (einai), essere, mentre gli Eraclitiani,
prendendolo per sinonimo di oaix, osia, il de rivavano da 33siv (othein),
cacciare, spingere. Dopo questo passa ai nomi degli altri Dei, e quindi a
quello del sole, della luna, delle stelle, della terra, dell'aria, delle
stagioni e dell'anno; e quantunque la maggior parte di questi paia spiegarli
secondo il sistema di Eraclito; tuttavia havvene alcuno, la cui spiegazione può
anche convenire al sistema degli Eleatici; finchè ve nendo ai nomi della
prudenza, scienza, sa pienza, giustizia, fortezza, virtù, vizio, ecc., e a
quelli della tristezza, del diletto e a tanti altri, quasi tutti ei li spiega
un po' lepidamente ed ironicamente, ridendosi degli Eraclitiani, col riferire
tutto al loro modo, come se le cose fossero sempre in moto. Ma questo modo di
dichiarar la ragione del nomi, come facevano gli Eraclitiani, semplice mente
per mezzo di una superficiale e succes siva decomposizione del medesimi in
altri nomi, non appagava intieramente Socrate. Impercioc chè, dice egli, se uno
interroga intorno alle parole, da cui è composto un nome, e poi di nuovo
intorno a quelle, da cui sono composte queste medesime, e così continua sempre
oltre ad interrogare, è necessario venire alla fine ad una parola, la quale non
si può più decom porre, e di cui nulla più sappia quegli che ha a rispondere.
D'altra parte però se uno non sa dar la ragione dei primi nomi, non sa certo
darla del derivati, che si debbono spiegare per mezzo del primi. Per la qual
cosa a rintracciar la ragione del primi nomi ei si fa nel seguente modo. I nomi
tutti, sì primi che derivati, deb bon dichiarare come veramente ciascuna cosa
è. Ora se noi non avessimo nè voce nè lingua, e dovessimo indicare le cose,
certo, come i muti, colle mani e col capo e con tutto l'altro del corpo noi
tenteremmo di significarle, elevando le mani verso del cielo per indicar quel
che è alto e leggiero, e per l'opposito abbassandole verso terra per indicar
quel che è basso e grave. Dal che rettamente ei conchiude che il nome per esser
retto, cioè per poter indicare come vera mente una cosa è, dee pur anco essere
un'imi tazione, che la voce fa di quella cosa, ch'uno per mezzo della voce toglie
ad imitare onde fi gura e il color delle cose, la musica il loro suono, così
l'arte del nominare imita la loro es senza per mezzo di sillabe e lettere. E
per di mostrare poi come per mezzo di sillabe e let tere uno possa ciò fare,
oltre al distinguere egli le lettere in consonanti e vocali e semi vocali ecc.,
ei fa pur osservare in molte di esse un valor loro proprio, facendo avvertire
nel l'elemento r il valore d'indicare il moto e ciò che è aspro e duro,
nell'elemento l quello d'in dicar ciò ch'è liscio e molle, e così un proprio
valore dà egli a molte altre lettere. E di que sta cognizione pertanto intorno
al valor delle lettere, come anche della cognizione della na tura delle cose
fornito lo istitutore dei nomi, afferma Socrate, che in quel modo, che i pit
tori per render l'immagine che vogliono effi giare, or adoprano un colore or un
altro ed or ne mescolano molti insieme, così egli nel far ciascun nome per
ciascuna cosa, adope rando l'elemento or di una lettera or di un'al tra ed or
mescolandone più insieme, secondo che l'immagine della cosa ch'ei voleva
nominare pareva richiedere, abbia formato i primi nomi; e quindi da questi
primi, sempre coll'imita zione per mezzo di sillabe e lettere, abbia pur
composti tutti gli altri, e che questa sia la vera ragion de nomi. Secondo un
tale ragionamento pare che Socrate, che è quanto dir Platone, propenda per la
sentenza di Cratilo, il quale affermava, avere gli esseri in sè da natura la
ragion del loro nome. Nondimeno non esser tutti i nomi retta mente posti
conforme alla natura delle cose, che nominano, il dimostra poi nel seguente
modo. Il nome, dice egli, è uno stromento, il qual si fa per indicar e insegnar
le cose come veracemente sono. Or ogni stromento sup pone un artefice; e buono
essendo quello che è fatto da un buon artefice, e cattivo quel che è fatto da
un cattivo, ne segue che anche i nomi saranno altri bene, altri mal fatti.
Cratilo pretende che tutti i nomi, come tali, cioè in quanto son nomi, son
tutti ben fatti e retti; per modo che se uno dà a qualcuno il nome che non gli
conviene, costui parrà sì ben averlo, ma esso appartiene propriamente a colui,
la cui natura viene dichiarata dal nome. Dun que se tutti i nomi sono retti,
ripiglia Socrate, non più anco si potrà dire il falso. No, non si può dire il
falso, soggiugne Cratilo, perchè dire il falso è dir quel che non è; or quel
che non è, non si può pensare nè dire. E che dunque, replica Socrate, fa colui
che ti chia masse o ti salutasse col nome di Ermogene, mentre che tu sei
Cratilo? costui non chiame rebbe, non saluterebbe te, ma un altro? di rebbe
egli qualche cosa o direbbe nulla? Costui, risponde Cratilo, non farebbe altro,
ch'un van un'altra prova. Il nome, dice egli, secondo quel che da noi si è
ammesso, è una imitazione, la quale si fa per mezzo delle lettere e delle
sillabe, come la pittura imita coi colori; e per ciò in quel modo che la
pittura, se, nello effigiare le cose, vi adatta i convenienti colori, effettua
bene e belle le loro immagini; così pure l'arte del nominare, se per mezzo
delle lettere e delle sillabe imitando l'essenza delle cose, saprà ad esse
adattare tutto quello che conviene e che loro è simile, bella ne effettuerà
l'immagine; che se no, effettuerà sì bene un'immagine, ma non già bella, per
conseguenza i nomi ch'essa fa, gli uni saranno ben fatti, e gli altri no.
Cratilo a questo energicamente si oppone, di cendo che se in un nome si muta,
si traspone, o si toglie o si aggiugne una lettera, non so lamente non
iscriviam bene tal nome, ma non lo scriviamo affatto, anzi esso diventa subito
un'altra cosa che il nome. Socrate concede ciò aver luogo ne numeri, a quali se
uno toglie od aggiugne un'unità, subito diventan essi un altro numero da quel
che eran prima, ma non già nelle qualità e nelle immagini delle cose; poichè se
le immagini dovesser aver tutto quello che ha la cosa di cui son immagini, non
sa rebbero più immagini, ma rimarrebbero la cosa stessa di cui elle appunto
sono le immagini; e per ciò neanco i nomi debbono aver tutto quel che ha la
cosa di cui sono nomi, nè es serle in tutto e per tutto simili; perchè, se così
fosse, ne avverrebbe, che gli esseri sarebbero tutti doppi, e non si saprebbe
più dire qual fosse proprio la cosa e qual solo il nome. Per la qual cosa a
giudicare se un nome sia ben fatto, basta che in esso si trovi il tipo della
cosa di cui esso è nome; e quantunque si debba concedere, che più retti e belli
sian que nomi, che per la gran parte son composti di lettere convenienti;
tuttavia non si può sostenere, che un nome, il quale non abbia le lettere
simili alla cosa che nomina, non possa indicare la medesima. Ed in conferma di
questo Socrate adduce il nome azXood:ng (sclerotes), durezza, nella cui
composizione in vece di entrarvi ilr, il cui valore è appunto d'indicare ciò
che è duro e aspro, v'entra anzi il X, l, che indica tutto il contrario, ciò
che è molle e liscio; nondimeno quand'uno il pronuncia, tutti sanno quello
ch'ei vuole dire e quello ch'egli ha in mente; così che fa pur d'uopo
conchiudere, che le cose s'indicano non solo per mezzo dell'imi tazione delle
medesime, che si fa colle lettere e colle sillabe, ma ancora per mezzo dell'uso
e della convenzione. Che se dunque tutti i nomi non son posti convenientemente
secondo la natura della cosa che nominano, ei si vede quanto senza fonda somi
glianza tra essi e quelle, che chi conosce i nomi conosce anche le cose. Del
resto, anche dato, continua Socrate, che per mezzo del nomi si possano
conoscere le cose; tuttavia essendo essi, anche quelli che rettamente conforme
la natura delle cose sono posti, solamente imma gini delle medesime, il miglior
modo di cono scerle sarà investigarle per esse, una per l'altra a vicenda, se a
sorte cognate sono, e ciasche duna per sè, e così venirle a contemplare nella
verità loro, e non solo nelle loro immagini. Intanto come questa verità, questa
cognizione si possa conseguire lasciando ad investigare un'altra volta, pel
presente ei si contenta di far vedere, che qualcosa di stabile e fermo è nelle
cose, e che oltre ad esservie un viso bello, ei v'ha poi un bello in sè, che
non è passeggiero nè soggetto a movimento o flusso, ma immu tabile e sempre lo
stesso; pel che rettamente conchiude dicendo, che non retta gli pareva la
sentenza di Eraclito, il quale voleva che tutto fosse in centinuo flusso.
Cratilo però alle ra gioni di lui non si acqueta, onde Socrate il prega, che
più attentamente volesse ancora esaminare la cosa, e, quando gli venisse fatto
di trovare la verità, si piacesse di fargliene partecipe.Così termina il
dialogo, dal quale si vede, come già in principio di questo argomento dicevamo,
che Socrate, e nella sua persona Pla tone, quantunque confuti la sentenza di
Ermo gene e quella di Cratilo, nondimeno, ancorchè espressamente nol dica,
molto di vero ei rico nosce in amendue, anzi le rettifica. In fatti, se concede
a Ermogene esser lecito agli uomini porre nomi alle cose; non gli concede però
ciò essere lecito a tutti, com'ei pretendeva, ed afº ferma non potersi porre a
capriccio, se hanno ad essere ben posti, ma richiedersi un'arte, e per ciò
esser opra di solo colui, che è in istato di rendere per mezzo del nome l'idea
della cosa che vuol nominare; come dall'altra parte, se ammette con Cratilo
avere i nomi da natura lor ragione, non conviene però che tutti sieno
rettamente posti e stieno a capello; e se pur gli concede migliori essere i
nomi che per mezzo di lettere e di sillabe esprimono la na tura delle cose che
nominano; tuttavia non gli consente, che assolutamente non abbiansi a chiamare
nomi quelli che non sono così for mati; giacchè l'esperienza ci dimostra
esservi nomi, i quali, senza che abbiano alcuna lettera simile o corrispondente
alla natura della cosa da lor nominata, per via del solo uso noi ve niamo posti
in grado di ottimamente intenderli e riferirli a cose, che non hanno punto di
si mile col medesimi. Chi è versato nella lettura delle opere di Pla tone
facilmente si persuaderà, che questo divino oltre all'addurre le prove
dell'immortalità dell'anima umana, scopo suo fu pur anco di rappresen tarci il
quadro del filosofo morente; nel Gorgia, oltre lo scopo di far vedere i difetti
dell'oratoria politica e sofistica, ebbe pur anco quello di far la difesa di se
stesso, perchè non si fosse dato alla vita pubblica; noi dunque ora nel Cratilo
dobbiamo pure investigare, se egli oltre al di mostrare, che la vera origine e
ragion de nomi non si dee derivare nè dalla stessa natura sola nè dal solo
arbitrio umano, abbia pur avuto intenzione di dimostrare ancora qualch'altra
cosa pratica. Erano ai tempi di Platone intorno allo essere delle cose, come
abbiam già detto, due sentenze, l'una degli Eraclitiani, i quai credevano
ch'esse fossero in un continuo flusso o moto; e l'altra degli Eleatici, i quali
opina vano, che fossero sempre in riposo. Ciascuna di queste due scuole (come
tutti in ogni tempo, e come anche vediamo aver fatto il nostro Vico), per
confermare le loro dottrine, i loro sistemi, ricorrevano all'etimologie delle
parole, credendo in queste trovare la ragione di quelli. Ma, quantunque lo
studio delle etimologie talora conduca alla cognizione delle cose, Platone tut
tavia non vi aveva molta fede, sì perchè ne nomi stabiliti a sorte dall'uso e
dalla consue tudine, di rado e forse quasi mai è possibile trovar la loro
ragione e la verità di quello che nominano; sì perchè nemmanco sulla strada più
vera e più sicura ci mettono quelli, che dall'in gegno e dalla potenza umana
fur posti. Imper ciocchè chi pose i primi nomi alle cose, com'egli dice, li
pose, quali credeva che queste fossero; or sei non aveva una retta opinione
delle cose, e ad esse pose i nomi secondo l'opinione ch'ei n'aveva, noi
rimarremo ingannati, se il se guiremo. Per far vedere adunque in che vano e
fragile fondamento si appoggiassero le scuole filosofiche che così facevano, e
metter in chiaro l'insufficienza di questo loro metodo per venire alla
cognizione delle cose, Platone in questo dialogo facendo una lunga esposizione
di etimologie, sebben acute ma strane, di cui molte forse raccolse da vari
libri, mise in ridi colo l'abuso di tale studio, validamente dimo strando, che
le cose debbonsi piuttosto cono scere per mezzo d'esse medesime, che per mezzo
de' nomi, che sono soltanto una loro adombra zione; e così, come metodo a ciò
acconcio ed efficace, colloca poi egli alla fine del dialogo, come opposta
diametralmente alle opinioni degli l'iraclitiani, la sua dottrina delle idee.
Che se a questo avessero badato certi eru diti (!), non mai avrebbero creduto
che Platone (1) Proclo spezialmente fra gli antichi, e fra i moderni il
Menagio, ad Diogen. Laert., pag. 149, e il Tiedemann, Argum. dialogg. Plat.,
pag. 84 e seguente. etimologie, che espone in questo dialogo. E nel vero, an
corchè sia difficile il distinguere dappertutto quello ch'ei dice per gioco e
quello che dice da senno; tuttavia al veder, che nello spiegar la ragione de
nomi di Teti, di Poseidone (Nettuno), di Demetra (Cerere) e d'altri, ei lascia
le etimologie prossime e ovvie, e in vece ne arreca delle rimote, anzi talvolta
ne inventa delle strane e bizzarre, spezialmente quando adduce quella oltremodo
ridicola di Dioniso (Bacco), niun certo può disconoscere ch'ei non ischerzi.
Arroge, che il protestaregli, per bocca di Socrate, che quello che per riguardo
all'eti mologia de nomi dichiarava, il diceva non come cosa sua propria e che
sapesse, ma come cosa che teneva per ispirazione della musa di Euti frone,
ognuno avrebbe dovuto accorgersi o al men sospettare, che Platone non poteva
far buono tutto quello che per ispirazione della musa di questo sciocco e
superstizioso fanatico ei diceva. Per la qual cosa lo Schleiermacher è di parere
che Platone avesse in mira di bef farsi in questo dialogo di Antistene; ma,
oltre che molte cose in esso occorrono che mala mente si potrebbero attribuire
a questo filosofo Socratico, come rettamente osserva lo Stallbaum, ei si dee
ancora avvertire che gli studi di An tistene erano piuttosto dialettici e
retorici, che grammatici, e non si trova documento veruno, il qual ne accerti
ch'ei si occupasse anche della ragione de nomi. E se poi non si può assolu
tamente negare, che nelle sue giocose etimologie abbia pur egli avuto in mira
Prodico, perchè questi nel dar la ragione della differenza de nomi, di
necessità spesso doveva anche spie garne le etimologie; scopo suo però fu piut
tosto di beffarsi di tutti quel filosofi, che, come abbiam detto, nelle etimologie
de nomi cre devan trovar confermati i loro sistemi, e spe zialmente di mettere
in canzone i sofisti, che in coteste arguzie ponevano molto studio e tanto si
dilettavano, i quali appunto egli dileggia, quando ironicamente spiegando il
loro nome, afferma che significa eroi. E in fatti che Protagora molto
attendesse anche all'interpretazione degli scrit tori spezialmente poeti,
abbiam già veduto nel dialogo del Protagora, intitolato dal suo nome, nel quale
insieme con Prodico ed Ippia ed altri espone a Socrate il suo sentimento
intorno ad un passo oscuro d una canzone di Simonide. E che, oltre all'aver
lasciato precetti intorno alla retorica, come ci attesta Cicerone nel Bruto. i
2: « scriptae fuerunt et paratae a Protagora rerum illustrium disputationes, quae
nunc com munes appellantur loci, º molto pure si occu passe intorno alla
proprietà dei nomi e della collocazione delle parole per rendere bella l'elo
cuzione, lo aſſerma lo stesso Platone nel Fedro, pag. 267, C, ed Aristotele
nclla Retorica, lib, ini, ori gine e ragione de nomi abbia pure disputato.
Questo pare chiaramente indicato nel Cratilo, alla pag. 295 (Stef 391. C), anzi
da quel, che ivi dice Ermogene, sembra che tal questione facesse parte del suo
libro della Verità, reo A), 3sizg, come vedremo. I seguaci di cotesto sofista
adunque sono quelli, contro dei quali è diretta spezialmente l'ironia e lo
scherzo di que sto dialogo, poichè cotesti sono quelli, che, come il loro
maestro Protagora, approvando la sentenza di Eraclito, il quale stabiliva, che
tutte le cose perpetuamente scorressero, come un fiume, avevano ad essa
accoppiata la loro, cioè che l'uomo fosse la misura di tutto e che le cose
fossero come a lui appariscono; e per ciò credendo che tutto continuamente
fluisse e che i nostri sensi a questa mutazione delle cose si accomodassero in
guisa, che sempre esse fos sero come a loro apparivano, venivano pur a credere
tali essere i nomi delle cose, quali dal senso e dall'intelligenza di
ciascheduno venivano percepiti, cioè naturali. Da questo si vede che in cotesti
Eraclitiani-Protagoristi non si deb bono comprendere, gli antichi e veri
seguaci di Eraclito, ma solo i posteriori, che, material mente intendendo
Eraclito, facevano una cattiva e falsa applicazione dei suoi principii. E se
dum que di tutte le sette filosofiche, come sappiamo, era anticamente costume
di riferire i loro sistemi ai sapienti più antichi e spezialmente ad Omero, non
dee dunque far maraviglia, se i detti nuovi Eraclitiani-Protagoristi, chiamati
appunto Omeriani da Platone nel Teeteto (pag. 179. E), tentassero pur di
derivare le loro spie gazioni e interpretazioni de nomi da Omero ed anche da
Esiodo, e se in questo dialogo conforti poi Socrate Ermogene, se non ammet teva
la verità di Protagora, a ricorrere ad Omero, e se quindi egli pure, secondo
questo poeta, gli faccia parecchie spiegazioni del nomi. Il Cratilo,
interlocutore di questo dialogo e da cui anzi lo stesso dialogo s'intitola,
Aristotele (Metaph. 1, 6), Apuleio (de dogm. Plat.2), e Diogene Laerzio (III,
6), narrano essere stato, prima di Socrate, maestro di Platone, e che gli abbia
insegnato le opinioni e dottrine di Eraclito. L'Ast però (Platons Leben und
Schri ſten, pag. 19) opina, che il Cratilo interlocu tore del presente dialogo
sia diverso dal Cratilo che fu maestro di Platone, affermando non altro potersi
raccogliere dallo stesso dialogo, se non che il Cratilo, ivi interlocutore, era
se guace di Eraclito, e non già che sia stato mae stro di filosofia e che abbia
avuto Platone per discepolo; e per ciò pretende non esser pro babile, se così
fosse, che Platone l'avesse messo così in canzone senza riguardo veruno. Questa
sentenza a noi non pare di gran momento; poichè hoi non abbiamo sufficienti
argomenti Cratili, amendue filosofi e della scuola di Eraclito, onde poter
dubitare qual di loro sia stato maestro di Platone. D'altra parte, Aristotele,
Apuleio e Diogene Laerzio avevan certo notizia e del Cratilo maestro di
Platone, e del Cratilo inter locutore di questo dialogo; non avendogli essi di
stinti, rimane chiaro che sì quello che questo sono il medesimo Cratilo. Per
riguardo poi a quello, ch'ei dice non esser probabile, che Platone abbia messo
in canzone così ingratamente il suo maestro, noi facciamo osservare, che Pla
tone non gli fa dire da Socrate alcuna cosa dura, anzi l'ironia, che regna
nella esposizione delle etimologie, è pur così coperta, che può anche sfuggire
a non mediocri ingegni. Volendo Platone render conto, perchè si fosse scostato
dalle opinioni eraclitiane del suo primo mae stro Cratilo, ed avesse poi
seguito quelle di Socrate, ei non poteva più giurare in verbo del suo primo
maestro Cratilo, nè rappresen tarcelo superiore a Socrate nelle ricerche e di
scussioni didattiche, ma sì bene rappresentar celo, come veramente egli era, e
cercar, per quanto poteva, di farci conoscere il modo di verso dell'esposizione
scientifica d'amendue, come anche intieramente il loro carattere. Per questo
appunto Platone non si contenta già di far abbattere da Socrate in questo
dialogo le opinioni, che Cratilo aveva intorno alla ragion de nomi, ma il fa
udire ancora una lunga ſi lastrocca di spinose etimologie, che Socrate espone
ad Ermogene, la quale se par essere un dileggio verso coloro a cui viene fatta,
non è però fuor di proposito, perchè Cratilo era così dato alle dottrine di
Eraclito, che tutto contento ed incantato beccava qualunque cosa gli fosse
detta in confermazione di quelle, e tanta era la sua ostinatezza in quel che
soste neva, che dicendogli Socrate alla fine del dia logo migliore essere il
metodo di conoscere le cose per mezzo di esse stesse nella verità loro, che
solamente per mezzo delle loro immagini, cioè per mezzo dei loro nomi, a tal
patente ragione ei non si arrende ancora. L'altro interlocutore del dialogo,
anzi il primo che entra in discorso con Socrate, è Ermogene, figliuolo
d'Ipponico e fratello di Callia. Anche questo afferma Diogene Laerzio (nel
luogo ci tato) essere stato maestro di Platone nelle dot trine della scuola di
Elea. Ma questa asser zione viene rigettata dall'Ast (nell'opera citata, pag.
2o), e dal Groen Van Prinsterer (Pro sopographia Platonica, pag. 225), il qual
ul timo crede, e con lui concorda lo Stallbaum, che il testo di Diogene Laerzio
sia stato cor rotto da un ignorante, il quale abbia intruso il nome di Ermogene
dopo quello di Cratilo, nell'opinione, che siccome dei due rappresen Platone,
così il fosse anche stato quello dell'Eleatica, Ermogene. A questo aggiungasi
ancora, che Aristotele ed Apuleio, i quali affermano essere stato Cratilo
istitutor di Platone, ciò non di cono più di Ermogene. Altro è che questi fosse
seguace delle dottrine degli Eleatici, altro è che in esse abbia pure istruito
Platone; giacchè trattandosi di un fatto, sì per istabilire la sua verità, come
per abbatterla, è del tutto neces saria una prova positiva, la quale, quando
manca, è nullo tutto ciò, che pro o contrada qualunque si dice. Per la qual
cosa, se l'unica e dubbia autorità di Diogene Laerzio non si dee tenere da
tanto per farci credere vero tal fatto, neanco per negarlo pare a noi esser suf
ficiente la prova negativa dello Stallbaum e del Groen Van Prinsterer, i quai
dicono, il poco ingegno e la poca dottrina di Ermogene essere un argomento
bastante a far sì, che niuno il possa creder essere stato maestro di Platone.
Imperciocchè come veramente stesse di dottrina Ermogene, non è poi cosa facile
a dichiarare, stante che il merito scientifico degl'interlocu tori, che Platone
mette ne suoi dialoghi in iscena, non si dee giudicare dal grado, in cui egli
ce li rappresenta e ce li fa parlare; giac chè quando si tratta di coloro ch'ei
vuol con futare, ei fa da loro anche dire cose strane ed assurde, le quali essi
mai non sognarono, ma ch'egli però dalle loro dottrine deduce, per sempre far
maggiormente spiccare il contrasto della verità, ch'ei difende. D'altra parte
poi, se si dovesse giudicare da questo dialogo, pare che per niuna parte
Ermogene la ceda a Cra tilo. E nel vero, per non dire che la discus sione,
fatta in principio tra Ermogene e So crate, è sottile anzi che no, e suppone in
Ermogene un non mediocre ingegno, bisogna avvertire che la lunga esposizione
delle etimo logie secondo il sistema di Eraclito, è diretta a mettere in
canzone non altri, che coloro che tal sistema seguivano; e per ciò pare anzi
che d'in gegno un po' tardo ben si potrebbe tacciare Cratilo, che non mai in
udirle di tal corbelleria s'accorga, ma non Ermogene, il quale, udendole,
scorgendo per mezzo di esse beffarsi Socrate dei seguaci delle dottrine di
Eraclito, veniva sempre più confermato in quelle contrarie degli Eleatici,
ch'ei sosteneva. Del resto ch'Ermogene non pigliasse tutte per vere le
etimologie di Socrate, non solo si vede da quello, che in udirle non mai egli
fa alcun segno d'ammira zione o di contentezza, come se fosse giunto alla
cognizione di qualcosa grande e nuova, ma nemmanco di piena approvazione;
giacchè, appena che ha udito l'etimologia di un nome, senza più, quasi sempre
passa subito a inter rogar Socrate di quella di un altro, e se talor mostra
d'averne per buona alcuna, la sua con a Socrate, Pare che un po' ci tocchi o ci
cogli ecc., daivet, xtvòvvsústg o doxsig rt Xéyetv. Ma, che ancora? Che
Ermogene più per curiosità e diletto che per altro, se ne stesse ad ascoltar
l'espo sizione delle etimologie di Socrate, argomento certo n'è, ch'ei pure
celia collo stesso Socrate, come (per non citar altri luoghi) quando udita
l'etimologia del nome ivtavróg, anno, ironica mente gli dice, che aveva già
fatto molti passi nella sapienza, e spezialmente quando Socrate, nello spiegare
il vocabolo 3) aſºspdv (blaberon), nocevole, dicendogli che propriamente si do
vrebbe chiamare 3ov) arrrepoijv, boulapteroun, ei gli soggiugne che all'udirlo
pronunziar così bel nome, gli pareva veramente che zufolasse il preludio
dell'aria di Minerva. Il timore e la superstizione, che dà a dive dere Socrate
in questo dialogo, nel protestare che per riguardo agli Dei e ai loro nomi, ei
punto non ne sapeva, ma che solo diceva quello che ebbero in opinione gli
uomini in porre loro i nomi, indicano manifestamente, che l'Euti frone, per
ispirazione della cui musa, ei dice tenere le spiegazioni, che dà dei nomi, è
quello, da cui è pure intitolato un dialogo di Platone. Così appunto opinano
l'Ast e lo Stallbaum. Quest'uomo è il tipo della leggerezza e della
superstizione; ei si vantava di saper meglio che alcun altro le cose divine, e
tanto era il suo entusiasmo, come dice egli stesso (!), quando di esse parlava
e mandava fuori i suoi oracoli, che eccitava il riso e pareva maniaco.
Verisimil mente dunque nell'interpretare la mitologia degli antichi poeti e
spezialmente di Omero, e nel cercar la ragion de nomi degli Dei e nel darne la
spiegazione, vi poneva molto studio e vi met teva pur lo stesso entusiasmo e
furore, come nel mandar fuori gli oracoli. Forse sarà anche stato della scuola
di Eraclito. Onde piacevole e grazioso pare lo scherzo di Platone, in far per
bocca di Socrate dar l'etimologia de nomi a Cratilo, il qual non era men
entusiasta e maniaco in beccar ciò, che parevagli confer mare le sue dottrine
eraclitiane (giacchè, quanto a Ermogene, egli stava, come abbiam veduto, a
udirle più per curiosità e diletto, che per altro); mentre così facendo
Platone, a chi era di perspicace ingegno dava, per mezzo dell'ironia, a
divedere, che a lui non andava a grado, anzi disapprovava il poco ragionevol modo
degli Eraclitiani, nello spiegare i nomi e nel pretendere di trovare quasi in
ciascun verso di Omero qualche cosa di oscuro e mi sterioso, togliendovi quel
suo proprio colore, semplice e naturale. In qual tempo sia stato composto
questo dia logo da Platone, e qual loco gli si debba as ri mane ancora a
vedere. Lo Schleiermacher il pone dopo il Teeteto, il Menone e l'Eutidemo, e
pretende che debba servire di compimento a quel primo; ma ognun vede che
l'argomento della scienza, che trattasi nel Teeteto, non viene ampliato nè
discusso nel Cratilo; anzi tutto il contrario, quel che affatto alla fine del
Cra tilo è appena indicato, viene poi diffusamente discusso nel Teeteto; chiaro
dunque egli è, che questo il dee seguire e non precedere. L'Ast il colloca non
solo dopo il Teeteto, ma anche dopo il Sofista, il Politico e il Parmenide;
anzi crede che il Cratilo faccia parte ed appartenga ad una trilogia o
tetralogia, che non fu da Platone compiuta; e per prova ne adduce le prime
parole del dialogo: Brami tu dunque che in cotesta questione anche qui Socrate
c'entri' le quali ei dice essere del tutto nude, secche e immotivate. Inoltre
che quest'opera non sia un lavoro compiuto, seguita egli, si vede da quello,
che nell'ultima sua parte i passaggi da una cosa all'altra sono scuciti e duri,
e molto, che non ista in immediata relazione con quel che precede, vien posto
senza alcuno appa recchio e introduzione, mentre le ricerche, che si connettono
coll'argomento principale e che eccitano un grande interesse, vengono al l'improvviso
abbandonate. Ma checchè ne voglia dire l'Ast, quantunque le prime parole del
dialogo indichino a precedente discussione tra Er mogene e Cratilo, tuttavia di
questa trilogia o tetralogia incompiuta, ch'ei pretende, non s'in contra
indizio veruno nelle opere di Platone, nè si trova che l'argomento del Cratilo
venga da lui trattato in qualche altro suo dialogo. Questo scritto può stare da
sè, ed io non veggo la ragione, perchè l'Ast il voglia far seguire al Sofista,
al Politico e al Parmenide, e non anzi a tutti questi precedere. E nel vero,
per non dire, che l'irrisione, che domina nell'espo sizione delle etimologie
nel Cratilo, non troppo acconciamente può stare vicina alle gravità e serietà,
con cui sono trattati il Sofista, il Po litico e il Parmenide, l'argomento del
Cratilo non ha che fare con quello di questi; nè si ravvisano ancor in esso
vestigia della scuola pitagorica, come nel Parmenide, ma appena si fa menzione
in un suo luogo dell'armonia de corpi celesti; nè appare ch'ei segua il me todo
dell'investigazione tenuto dai filosofi Me garici, i quali erano versatissimi
in trattare le quistioni di questo genere, come lo segue nel Sofista, nel
Politico e nel Parmenide; nè fi nalmente si vede ch'egli molto insista sulla
sua dottrina delle idee, ma appena ne fa cenno alla fine del dialogo, e la dà
soltanto ancora come un suo sogno. Per l'opposito, niuno può disconoscere, che
tra il Protagora, l'Eu tidemo e il Cratilo vi regni un'affinità quasi irri
sione drammaticamente ci rappresenta Platone il vano fasto di Protagora e di
tutti que sofisti che si millantavano essere maestri di virtù, e se
nell'Eutidemo poi egli si beffa delle meschi nità delle arguzie e de lacciuoli
dialettici pur de' seguaci di Protagora, anche nel Cratilo, come abbiam veduto,
con ischerzo e con ironia viene egli a dimostrare l'inutile sforzo de' Protagoristi-Eraclitiani,
che per mezzo dell'inter pretazione del vocaboli tentavano di venire alla
cognizione delle cose e di stabilire i loro sistemi. Per la qual cosa, sebben l'autore
in quest'opera sia lungi dal comico che domina nel Protagora e nell'Ippia
Maggiore, l'andamento però e la condotta della medesima, come anche la molti
plicità degli esempi e le minutezze, con cui, secondo il metodo di Socrate,
procede Platone in principio di essa, e finalmente ancora lo scherzo e l'ironia
che si scorge nell'esposizione delle etimologie, danno a bastanza a divedere,
ch'ella moltissimo si approssima ai dialoghi po polari Socratici, ch'egli
scrisse i primi, e che da lui sia stata composta in una età, in cui egli non
era ancora del tutto scevro da pro tervia e petulanza giovanile. Non pertanto,
quan tunque da solo quello, che si fa menzione in questo dialogo delle vocali a
ed o, le quali furono introdotte in Atene, sotto l'arcontato di Euclide (l'anno
2 della 94 olimpiade, 4o3 prima dell'era volgare, e 26 dell'età di Platone),
non si possa di certo conchiudere, che dopo tal anno sia stato questo scritto
composto, per la ra gione, come ottimamente osserva lo Stallbaum, che queste
vocali potevano già essere in vigore in uso privato, prima che pubblicamente
fos sero sancite e passate ne' monumenti pubblici (ved. il Matthiae Gramm.
Ampl., tom. 1, pag. 22, annot.); tuttavia non si può dubitare, che questo
dialogo da Platone sia stato disteso in quel tempo, in cui egli aveva già
concepito i principii della sua dottrina delle idee e deter minato con essa di
confutare i Protagorei e gli Eraclitiani. Or tanto le cognizioni richiedentisi
per poter ciò ben fare, quanto le sottili inve stigazioni circa la ragion de
nomi, che in que st'opera si ravvisano, paiono indicare esserelle un lavoro di
Platone non così giovane, ma sì bene di lui d'alquanto già più maturo. Che se
poi tra il Protagora e il Cratilo, che hanno tra di loro un'affinità che non si
può disconoscere, noi abbiamo inserito l'Ippia Maggiore ed il Gorgia, non è già
che crediamo il Gorgia essere anteriore al Cratilo (anzi la di fesa che nel
Gorgia fa Platone di se stesso, perchè non si fosse dato alla vita pubblica, ma
alla filosofica, indica chiaramente che tale scritto è un lavoro di un uomo più
che maturo), ma non per altro così ci parve di fare, se non perchè abbiam
voluto far seguire l'un dopo celebri sofisti della Grecia, Protagora, Ippia e
Gorgia, ne quali Platone graziosamente smaschera il loro vano sapere ed
acremente li frusta. Però se uno bada, che i Protagoristi-Eraclitiani, che
Platone dileggia in questo dialogo canzonando le loro etimologie, questi
medesimi poi con con cludenti ragioni validamente egli confuta nel Teeteto,
facilmente ei si persuaderà, che il Cratilo a questo dee stare unito e
precederlo, anzi che susseguirlo; e per conseguenza che noi, nell'assegnargli
il posto che gli assegniamo, nel suo vero l'abbiam collocato. Three sections on
Plato in Acri’s essay on ideas: Plato’s Parmenide, Plato’s Sofista, Plato ed
Anselmo. Gl’Intelligibili e il Parmenide di Platone. L'uno quale
Platone lo disamina nel principio della seconda parte del Parmenide è un
intelligi bile , e la contraddizione in cui lo involge è tale per colui che lo
considera come idea contro l'in tenzione di Platone medesimo.Ecco,se tu fissi
l'uno nel nome suo,se tu appunti l'occhio nell'uno come uno, esso non è più uno
, cioè non è idea. Impe rocchè all'uno fissato nell'uno,contratto in sé,sen za
espansion di sorta, non compete relazione alle idee di parte e di tutto, di
principio, mezzo , fine, cioè all'idea di quantità, e neanco all'idea di quan
tità parvente come a dire la figura, e neppure al l'idea di luogo nè a quelle
di moto o di stato,nè a quella di qualità,né a quella di relazione di si
miglianza, di egualità,di medesimezza e dell'idee contrarie,nè a quella di
tempo,nè a quella di es sere o divenire,né da ultimo all'idea di senso,di
opinione, di scienza. Adunque l'uno irrelativo non è quanto,nè quale,né in
luogo,nè in tempo,non ė medesimo, nè simile, né eguale a sè e neanco il
contrario, non è, non diventa , non si sente , non s'opina, non si sa.
Dunque l'uno irrelativo non é uno: cioè a dire l'uno elemento dell'idea uno non
è l'idea uno che si componë e di quello elemento e di molti altri.
Gl'intelligibili e il Sofista di Platone. Nel Sofista Platone tratta della
comunione delle specie , come se le specie precedessero la comu
nione,pigliandoa esempio l'essere,ilmoto,lostato, il medesimo e il diverso. Ma
la comunione precede le specie; imperocchè l'essere non è tale senza pri ma
comunicare col medesimo, nè ilmedesimo è tale senza prima comunicare con
l'essere, nè il medesimo è ciò ch'è senza il diverso,nè questo è ciò ch'è senza
quello. Alla mente di Platone certo la comunione delle specie si mostra come
necessa ria; tuttavia le si pasconde che le specie prima di essere specie sono
elementi le une delle altre , e la comunione è per lei esteriore e di specie
già in tiere e fatte. Più giusto sarebbe stato lo affermare ed esaminare la
comunione degl'intelligibili, cioè di quei semi che pe'loro congiugnimenti
diventa no specie o speciose o spettabili se cosi dire si vo glia. Aosta nel
capitolo primo del Monologio or meggiando i passi di s.Agostino per provare Dio
dice : tutti beni son beni per una qualche cosa ch'è bene per se stessa; e nel
secondo dice : tutte quelle cose che sono grandi per alcun che sono gran di, il
quale è grande per se stesso; e nel terzo a g giugne che tuttociò che è , per
un qualcosa pare che sia , la quale è per se stessa ; e nel quarto aggiugne :
se le nature delle cose si distinguono per disuguaglianza di gradi,e alcune
nature si re putano migliori di altre conviene che ci sia alcuna
tra quelle cosi eminente da non averne altra a sė superiore. Imperocchè,se,tale
distinzione di gradi è cosi infinita che non sia alcun grado superiore di cui
altro superiore non si rinvenga; la ragione conduce a questo , che la
moltitudine di esse n a tare non sia chiusa da alcun termine.Ma ciò diuno
reputa non assurdo se non chi è affatto privo di r a gione. È dunque di
necessità alcuna natura,la quale é talmente superiore ad alcuna od alcune,che
al tra non ve n'abbia, a cui sia ordinata come inferiore. Queste argomen
tazioni si posson paragonare a quelle che fa Platone per provare le specie per
sé. Egli dice : Ne' sen sibili c'è meschianza e confusione di contrarie no te;
imperocchè una cosa è bella e brutta, giusta e ingiusta, grande e piccola, e
via via; bella, giusta, grande per un rispetto,e per un altro brutta, iugiu
sta,piccola;dunque ci dev'essere un bello che per nessun rispetto sia brutto ,
un giusto per nessun rispetto ingiusto , un grande per nessun rispetto
piccolo,e viceversa;delle quali specie contrarie par tecipa il sensibile. La
differenza è in ciò, che Pla tone si fonda più su la contrarietà delle note che
apparisce ne'sensibili,e Anselmo più su la grada zione di esse note;e
dovechéPlatone a filodilo gica è necessitato a dare a tutte il valore m e d e
simo di specie, Anselmo lo dà ad alcune, come alla grandezza e non già alla
picciolezza , all'essere e non già al non essere,al bene e non già al male; e
da ultimo Platone vuol provare una moltitudine inconfondibile di enti per
sè,e Anselmo di un solo. Ma di quest'argomento suo che ci conviene pen sare ?
Ecco, premettiamo che al tempo dei Dottori si vedeva nelle idee una certa
costituzione già fer ma; esse aveavo fatto presa;e che poi per istinto
dubitativo generato dalla riforma o meglio gene ratore di essa parve che si
disciogliessero,e si cer cò rifare la loro sostanza medesima. E l'argomen
tazione propria alla filosofia medievale è nell'espli care ciò ch'è implicato;
e dimostrare un'idea vale dischiuderla da un'altra dove giaceva intiera e for
mata , da un'altra della quale non si dubita. E , stando a questa filosofia, il
contenuto di un'idea è quasi indipendente da quello delle altre, e ai sil.
logismi come esplicativi si dee assegnare un gran valore anche pigliati
singolarmente. Ma non c'è, si può dire , componimento e accordo e universa lità
mirabile nella Somma di S. Tommaso ? Si, ma l'universalità dalla religione è
data alla filosofia, la quale assume l'ufficio di sconnetterla,scomporla e
verificarla a parte a parte. E il contrapposto dell'u niversalità della materia
con la singularità e la di. visione e lo spezzamento della forma è
notabilissima nel libro mentovato , che recapitola maravigliosa mente il
pensiero del suo tempo. Per un'altra filoso fia al contrario l'argomentazione
non sta ne' sillo gismi netti,che anzi li ha a sdegno,ma nella gene razione
dialettica e necessaria,in guisa che tanto vale per essa dimostrare un'idea
quanto farla con cepire nelle viscere d'un'altra e poi evocarla alla luce.
Però avvertisco io che il suo generare, la sciando da parte le frasi nuove,è in
fatti un porre una serie di equazioni facendo si che l'ultimo ter mine che si
vuol generare appaja eguale al primo termine che si risguarda come
generatore,in virtù di molti medii che celano graduatamente la reale
dissagguaglianza. Ecco uno schema dell'argomen tare suo:a è vicino a m,perchè
vicino a b,e o vicino a C, e c vicino a d, e d vicino a e, cd e v i cino a f;
col divario che dov'io dico vicino essa dice eguale.Da ultimo c'è un'altra
filosofia,non ne mica a quella dei Dottori, anzi benevola,anzi re verente come
a madre figligola, la quale non sup pone l'idea intera e formata, e neanco vuol
rifarla da capo o generarla come dice l'altra,a cui è ni micissima perchè
quella é superba , m a la costi tuisce di principii che già preesistono,la
compo ne.In breve una è esplicativa ovvero resolutiva,l'al tra generativa,
almeno di nome e in apparenza, e l’nltima è costitutiva o compositiva. E
inoltre questa il contenuto di un'idea costituisce per modo che si colleghi a
quello di tutte l'altre,ond'essa è deside rosa d'universaleggiare e procedere
alla larga c01 tra la prima che singulareggia e procede per or dini distinti,
minuti , sottili; e, contro alla seconda che vuol generar le idee una
dall'altra, ella crede che vivano insieme ciascuna della vita dell'altre, e
risplendano insieme ciascuna dello splendore del l'altre. E la sua
argomentazione sta non già nello esplicare o nel generare, bensi nel bene
allogare; inguisachè un'idea è dimostrata quando posta in mezzo alle altre
con esse fa buon accordo. Onde il sillogismo, non già come esplicativo o come e
guagliativo, sibbene come dispositivo è l'argomento suo, e non ha valore da
solo ma insieme ai mol tissini altri per efficacia reciproca. Ma tornando ora
lá d'onde ci siamo mossi di ciamo che si può dir buono, grande, giusto tutto
ciò che partecipa alla grandezza, alla bontà, alla giustizia , e che altresi
pare si possa dire che la grandezza, la giustizia , la bontà c'è perchè ci sono
cose grandi,giuste,buone;esenza dir quale delle apparenze risponda al vero ,
affermiamo che ricorre qua la questione de'generi,cioè se son reali fuori noi o
son concezioni astratte , e che l'argo mento di sant'Anselino come quello che
presuppone un intricatissimo viluppo di ragionamenti da solo non può avere
piena evidenza. Acri. Keywords: la colloquenza
turbata di Socrate e Cratilo, l’enigma del numero in Platone, abbozzo d’una
teorica delle idee. Refs: Platone in Italia. Luigi Speranza, "Grice ed
Acri," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice,
Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714373873/in/photolist-2mUztEY-2mUvToR-2mTdg92-2mSQAsN-2mRV5s7-2mPZ2Vc-2mN9ZxJ-2mMPFDK-2mMJh5e-2mKFrQ6-2mLKdDg-2mKJpEg-2mKxDSr-2mKMcL9-2mKAhh3-2mKj1Jg-2mKfutu-2mKjPhh-2mJWMoD-2mFVDb9-2mFM2pY-2mFM2r6-2mFUCxX-2mFVDaT-2mFUCxG-2mFSoA1-2mFSozE-2mFUu9N
Grice ed Addiego
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Turi). Filosofo. Grice: “I like Addiego;
his obituary looks fine, ‘amateeur mathematician and professional philosopher;’
of course he was a priest and priests tend to get the nicest obituaries written
by members of their respective orders! Henry
VIII once said, “I shall follow Occam and not multiply religious orders beyond
necessity!’ Some say he went a bit too further! My St. John’s used to be a
Cistercian monastery!” “One good thing about Addiego is that instead of trying
to prove the immortality of the soul, or the existence of God – “These are
Strawsonian presuppositions,’ he would say – he rather played with Platonic
numbers and geometries! His mathematical explorations caught the attention of
the Pope who invited him to Rome, thus leaving his ‘paese,’ the lovely Bari – and
beyond!” -- Vincenzo maria d’addiego (n. Turi), filosofo italiano, nominato
Preposto Generale dei Padri Scolopi. Entra
giovanissimo nell'ordine degli scolopi.
Papa Leone XII lo chiama a Roma e con un Breve apostolico lo nomina
preposto generale dei padri scolopi.
Alla sua morte il Pio VIII gli rese l'estremo saluto nella casa professa
di S Pantaleo. D. Resta, Turi. La perdita del loro Preposi to Generale P.
Vincenzo Maria D'Addiego, rapito ai vivi in pochi istanti nella notte dei 31
del p.sp.. marzo, ha immerso in grandissima costernazione I Religiosi delle
Scuole Pie. Nativo egli di Turi nella Puglia, vesti giovinetto le divise del
Calasanzio, e fatti con somma lode isuoi studj nel Collegio Reale di Napoli ,
diretto dai religio si suddetti ivi professa per lo spazio di quaranta e più
anni prima le belle lettere, e poscia la Filosofia e le Matematiche ,
nell'insegnamento d'entrambi accoppið sempre la pietà, lo studio l'amorevolezza
el'industria alla precisione de'metodi. Fu due vol te Provinciale; e dopo
lepassate luttuose vicende nominato Delegato Generale pel riordinainento delle
Scuole Pie nel regno delle due Sicilie, ebbe la consolazione di veder coronate
le sue fatiche da un esito felicissimo. Chiamato Breve di Leone XII , di
gloriosa ricordanza, al Governo Hi
tiftta la sua Religione, la regole con dolcezza e prudenza, si mostrò padre con
tutti, e a tutti su specchio einodello di quelle rel giose virtù , che più
belle appariscono in chi tiene l'altrui direzione Vicino al termine del suo
ogorevole incarico, stavaeliane Tando alla tranquillità della vita privala,
dalla quale la sola Defienza aveva pniuto cayarlo; quando piacque all'Eterno di
premiare (come speriaino) con franquillità ben maggiore imeritiche si aveva
procacciati nella crislis na e religiosa carrier. Domani sicelebrerà la Stazio
De rrella Chiesa di S. Giovanni in Laterano. TRATTENIMENTO PEL NEL LETTORE Che
D. D. D. NECESSITA DEGLI SU LA MIGLIORAMENTO MACCHINE pubblicamente SIGNORI I
Giuseppe GIUSEPPE DE GIOVANNI Studenti di COLLEGIO Filosofia e DELLE SCUOLE PIE
SOTTO LA VINCENZO D'ADDIEGO . FRANCIONI Rivera Cesare D. PASCALE REALE
DIREZIONE DEL MARIA MARTINO BATISTA SPERIMENTI DELLE sperimentano CONVITTORI
Matematica FISICO ZNALED COLLONES /1000 NAPOLI 1810. COL PERMESSO DEL GENERALE
, NELLA STAMPERIA MINISTRO FLAUTINA. DELLA POLIZIA. S u m a t quisque , quod
suum credit , nihil mihi vindico , Sgravesand in Prafat, Mihi satis fuerit ,
suum cuique habuisse honorem, Dalham in Præfat. I chierici regolari poveri
della Madre di Dio delle scuole pie (in latino Ordo Clericorum Regularium
Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum) sono un istituto religioso maschile di
diritto pontificio: i membri di questo ordine, detti comunemente scolopi o piaristi,
pospongono al loro nome le sigle S.P. o Sch. P. Lo stemma dell'ordine reca il
monogramma coronato di Maria e le lettere greche MP e ΘY, abbreviazioni per
μήτηρ θεοῦ (madre di dio) Le origini dell'ordine risalgono alle scuole popolari
gratuite (scuole pie) fondate da san Giuseppe Calasanzio a Roma. Calasanzio e i
suoi compagni diedero inizio a una congregazione di religiosi per
l'insegnamento: papa Gregorio XV elevò la compagnia a ordine regolare con breve.
Gli scolopi si dedicano principalmente all'istruzione e all'educazione
cristiana di giovani e fanciulli.[2] Il fondatore dell'ordine, Giuseppe
Calasanzio, giunse a Roma nel 1592 e venne nominato Teologo e precettore dei
nipoti del cardinale Marco Antonio Colonna. Si iscrisse alla
Confraternita dei Santi Apostoli. Nel mese di maggio cominciò le visite ai
rioni di Roma, portando aiuto ai poveri. Un giorno, mentre passava in una
piazza, fu colpito in modo insolito dallo spettacolo di una turba di sudici e
malvestiti ragazzi che giocavano tra grida scomposte, atti sconci, litigi e
bestemmie. Di colpo comprese qual era la missione per la quale era giunto a
Roma dalla sua patria lontana: la scuola. Così, in un ambiente di ristrettezze
e povertà, sul finire dell'autunno dell'anno 1597, in due povere stanze attigue
alla sagrestia e messegli a disposizione dal parroco Don Brendani della chiesa
di Santa Dorotea in Trastevere, aprì "la prima scuola popolare gratuita in
Europa", come riconobbe anche Ludwig von Pastor, che nella sua monumentale
opera Storia dei Papi scrisse ebbe origine la prima scuola popolare gratuita
d'Europa. E lì, in tempi in cui l'istruzione era privilegio delle classi più
abbienti, sviluppò il suo progetto della scuola come strumento di promozione
umana e salvezza educativa per i ragazzi di strada (metodo preventivo, attinto
da san Filippo Neri). Nel 1602 fondò la "Congregazione secolare delle
Scuole Pie".
Vincenzo Maria d’Addiego. Addiego. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Addiego” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690279730/in/photolist-2mKGciu-2mFSG47-2mFMjWm-2mFMjW1-2mFMjVQ-2mFMjVV-2mFVWWK-2mFUQMr
Grice ed Adorno – il
gusto degl’antici per gl’antici – filosofia siciliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Siracusa).
Filosofo. Grice: “I like Adorno; he more than anyobody else I know UNDERSTANDS
the change of mind set from the Hellenic embassy at Rome and the ‘gravitas’ of
the Romans who found that relativistic talk on justice ‘sophistical’! Scipione
and the Roman aristocracy – just to be different – enjoyed it and embraced it –
and it turned out that, as antiquities became more popular with the Romans,
they recovered the many schools of philosophy that have thrived in the
provinces: Velia, Crotone, Girgenti.” Filosofo. Laureato in Filosofia a Firenze
e professore a Bari, Bologna e Firenze, è stato presidente dell'Accademia
Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria", del Museo e istituto
fiorentino di preistoria e dell'Accademia delle Arti del Disegno. Ha diretto la
pubblicazione del Corpus dei papiri filosofici greci e latini. Ha studiato il rapporto tra l'insegnamento
socratico e la sofistica, estendendo i suoi interessi a Platone, allo stoicismo
e all'epicureismo; inoltre ha approfondito aspetti della cultura greco-latina e
cristiana tra il primo secolo a.C. e il sesto secolo d.C., nonché del pensiero
tardomedievale e umanistico. Utilizza il metodo filologico per la descrizione
degli autori del pensiero antico della scuola ionica, di Socrate, di Platone,
della prima Accademia, delle scuole ellenistiche, di Epicuro, di Seneca,
ecc. La sua formazione culturale affonda
le radici negli ambienti intellettuali e politici fiorentini e in particolare
risente dell'influenza crociana nell'interpretazione della filosofia come
riflessione teorica mai disgiunta dalla situazione storica reale. In nome di
questa concretezza antimetafisica e della necessità di una descrizione storica del
pensiero filosofico, aderisce al metodo marxista e alla filosofia del
linguaggio facendo sì che i testi classici vengano interpretati nel loro autentico
e concreto sottofondo politico e culturale.
Opere: “I sofisti e Socrate”; “La filosofia antica”; “Studi sul pensiero
greco”; “Socrate”; “Dialettica e politica in Platone”; “Platone”; “I sofisti e
la sofistica nel 5°-4° sec. a.C.”; “Pensare storicamente”. “Pitagora di Samo. I suoi
viaggi, la permanenza in Magna Grecia. Le suggestioni e la polymathia di Pitagora”. Esigenze e problemi in Magna
Grecia e ad Velia dal VI secolo all'inizio del V l. su RAIEnciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche. l'11 dicembre 22 dicembre ). Adórno, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche alla voce corrispondente.
Maria Serena Funghi , Hodoi dizēsios. Le vie della ricerca: studi in
onore di Francesco Adorno, Firenze, Olschki, Francesco Adorno, su TreccaniEnciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Francesco Adorno, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di
Francesco Adorno, su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Filosofia Filosofo del XX secolo Filosofi italiani del XXI secolo Storici
della filosofia italiani Accademici italiani del XX secolo Accademici italiani Professore Siracusa Firenze Studenti dell'Università
degli Studi di Firenze Professori Bari Professori dell'Bologna Professori
dell'Università degli Studi di Firenze. E interessante
sottolineare che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste dell'Asia
Minore, emigra in Crotone, Italia (Magna Grecia) circa nel 5~0, dopo aver fatti
molti viaggi in Egitto e in Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le
piu tarde scuole pitagoriche hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo
alterne vicende simili a quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi
contrasti tra la classe dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate,
che favod il popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che
e amico di Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora
abbandona la Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato
là da una fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora,
testimoniano appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene Laerzio,
IX, l) sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di Pitagora. Evidentemente
il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda che fosse, ormai
acquisita. Erodoto riferendo dubitosamente la leggenda di Zalmosside, un tracio
vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di Pitagora e che, poi,
liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama di mago e dove insegna
l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma che questo gli era
stato narrato dai greci abitanti l'Ellesponto e il Ponto (cfr. Erodoto, IV, 95).
La vita e la figura di Pitagora le troviamo avvolte nella leggenda dai tempi piu
antichi. Con una certa sicurezza si può dire ch'egli nacque a Samo, da
Mnesarco, irù torno al 570 circa. Emigra da Samo nella Magna Grecia nel 530 per
un dissidio sorto con Policrate tiranno di Samo. Muore sul principio del V
secolo. Possono non essere leggendari i suoi molti viaggi, in particolare
quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta. Risale probabilmente a
Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si svolge una vita
pitagorica, cui partecipano sia gli uomini sia le donne. Fama di dotto e di enciclopedico
e fama di uomo superiore Pitagora dove, dunque, avere già prima del suo ultimo
viaggio che lo trasporta a Crotone. Per quanto scarse, fondamentali sono le
testimonianze di Eraclito, Senofane ed Erodoto, che confermano l'esistenza
reale di Pitagora. Pitagora a Crotone, fondatore di una setta, di quella vita
pitagorica di cui parla anche Platone (Repubblica, 600b), scienziato e sacerdote
a un tempo, sacerdote e medico di anime, si perde nella leggenda, o meglio
nelle ricostruzioni dei tardi filosofi neo-platonici e neo-pitagorici. “La
Vita di Pitagora,” del neo-platonico Porfirio e la “Vita pitagorica” del neo-platonico
Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai neo-pitagorici Apollonio di
Tiana, Moderato di Gada e Nicomaco di Gerasa. Solo che il neo-pitagorismo puo
sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove esigenze, da una lunga e
continua tradizione che si scandisce in tempi diversi, ogni volta tornando alla
leggenda pitagorica e proiettando in essa ciò che rispondeva a un certo tempo e
a una certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo di pitagorismi. Di
tappa in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio delle varie
stratificazioni, si può risalire sino a Filolao, pitagorico di cui possediamo
alcuni frammenti. Risalire oltre è estremamente difficile e pericoloso. Gli
stessi scritti andati sotto il nome di Pitagora – i versi d'oro, i tre saggi su
educazione, politica, e fisica -- sono composti da pitagorici che rivivano il
sacro verbo del divino Pitagora. Lo stesso Aristotele, cosi propenso ad
interpretare posizioni diverse in funzione del proprio pensiero, non cita mai direttamente
Pitagora, ma parla sempre di coloro che vengono detti PITAGOR-ici (Metaf., I,
5, 985b). – cf. Speranza non cita direttamente Grice, ma parla sempre di coloro
che vengono ditti GRICE-iani. D'altra parte di quello che può essere stato il
Pitagora storico - anche il nome ha destato sospetto, ché ‘Pitagora’ significa
l'annunciatore del Pizio, e la leggenda vuole ch'egli fosse figlio di Apollo pizio
o di Mercurio - non sappiamo altro dalle fonti piu antiche se non ch'egli,
figlio di Mnesarco, nativo di Samo, si sarebbe occupato di una quantità di
studi," (Lct&I Lct't'ct -- Eraclito) - e che quindi sarebbe stato
spinto da un largo desiderio di sapere. Forse di qui la fama di Pit-agora, l’annunciatore
del pizio, che per primo usa il termine ‘filosofo’, desideroso, filos, appunto,
di sapienza, sofia, che sostenne l'immortalità dell'anima e forse la tras-migrazione
delle anime, che, giunto a Crotone, fonda una conventicola politico-religiosa.
Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti mathemata per indurre
che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che per Pitagora le cose sono
numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora la fisica pitagorica. Si
pensi, comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”, che c'è in
Eraclito (fr. 41), nel greco significa solo studio, apprendimento, e che nelle
fonti antiche, riferentisi a Pitagora, mai troviamo il termine “numero”
(&.pL&(.L6t;). Il termine “numero” lo si trova, invece, in alcuni
frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione riferisce che e Filolao a
divulgare la sapienza pitagorica, tradendo quello che è stato detto il
"silenzio pitagorico" cioè l'assunto che la setta doveva mantenere il
segreto sull’inziazione. Solo che altra tradizione riferisce anche che il
silenzio sarebbe stato rotto da Ippaso, pitagorico piu antico di Filolao, da Archippo,
da Liside e cosi via. E costruita nei circoli pitagorici la leggenda di
Pitagora uomo divino, già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni di
Pitagora; e ben si conosce l'austerità dei pitagorici del IV secolo, austerità che
ci è testimoniata da Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per il pitagorismo
suscita il desiderio di conoscere quale era stata la sua storia. Si scoprono
nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono saggi di pitagorici anteriori
a Filolao. La leggenda del silenzio pitagorico nasce cosi, e -cosi nasce
l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di aver violato il segreto pitagorico
(Maddalena, I pitagorici, Bari, p. 90, n. 32). Aristotele, poi, sostiene che al
tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici si dedicano allo
studio delle matematiche e lo fecero progredire. Essi, dunque, nutriti nello
studio delle matematiche, credeno che i principii delle matematiche sono i
principii delle cose (Meta/., l, 5, 985b, 23-26). Evidentemente qui Aristotele
si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa colomba
mecanica. Dunque il pitagorismo, fondato sulla scienza dei numeri e della geometria,
dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso l'influenza di
Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai primi immediati
suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può chiarire il complesso
problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici, ne pone altri. Altri pitagorici
però dicono che dieci sono i principii, ordinati in serie: limite/illimitato,
dispari/pari, uno/molteplice, destroy/sinistro, maschio/femmina,
in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo, luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo.
In modo simile pare che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo
da loro, sia ch'essi l'abbiano appreso da lui (Metaf., I, 5, 986a-986b).
ALCMEONE, medico della scuola di Crotone, vive circa al tempo in cui a Crotone
fu Pitagora. A Pitagora, dunque, si puo far risalire il motivo delle
opposizioni, delle cose vedute come determinantisi e quindi opponentisi. Forse
di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nella lonia, di Anassimandro e di
Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora conosce gli studi
(!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione geometrica della realtà
scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni entro la linea
dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura quantità,
incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè numerata, onde
dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve, come facile è
l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente tale e la tesi
dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita. Piu tardi, sia da
Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale tesi della realtà
scandentesi nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto per l'implicita
opposizione contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle altre unità
(molti per sé). In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei contrari,
del pari e del dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e, sottesa, una
discussione serrata nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente con Filolao
che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx” pitagorici divenneno il numero,
“cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e ancora il contorni di una cose,
il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi a delineare già nel pitagorismo
due momenti storicamente determinabili. Uno originario, del tempo di Pitagora,
in cui il tipo di indagine è vicino a quello di Anassimandro e di Anassimene.
Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea in un senso piu strettamente
matematico e musicale, che però spiega come i suoi sostenitori (Filolao ed
ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi pitagorici, recuperando certi “!L«&~!LCX't'CX”
di Pitagora. Piu complicato ancora è stabilire storicamente l'aspetto
religioso-magico di Pitagora, l'effettiva consistenza della setta d'iniziati
che fonda a Crotone, i suoi rapporti da una lato con gli sciamani e il leggendario
Abari, sciamano venuto dal nord (Dodds, “I greci e l'irrazionale”, Firenze, pp.
171 sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la scuola medica di Crotone. Ancora
durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora e famoso per la sua multi-scienza,
ma anche per il suo atteggiamento di uomo attraverso cui parla il divino, per
il suo atteggiamento magico-religioso. Si dice che tale suo fascino suscita
nella Ionia meraviglia e forse anche diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici;
test. e framm.,” I, Firenze, p. 4) ed si sostenne che Pitagora e un
aristocratico che si trova in contrasto con il mondo ionico e milesio,
razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi fenomeni (O. Gigon, “Der
Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis Parmenides”, Basilea, pp. 120
sgg.). È questa un'ipotesi plausibile, che da un lato spiega il contrasto con
Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato da una corte lussuosa, e
dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone, governata
aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre in
via ipotetica si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici Pitagora
benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi il motivo
dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese, dal
demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che
oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una
incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti
egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e
nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro,
e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne
nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc.,
1788, VIII, fr. 4). Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone
(“Carmide”, 156d-e) -abbia fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora,
un medico che, accanto alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso
incantatore, ch'era tipica pratica dei medici di Crotone, tra cui non va
dimenticato che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa, influenza i
primi pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e della
compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare, rifacendoci
in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza di
Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che il
vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o “apeiron”,
il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature, essendo una
specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”, IV, 6,
213b 22-27). Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è criticata
in un frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio, IX, 19), non del
tutto aleatoria è l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del primissimo
pitagorismo. La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei contrari per
la forza della respirazione, di due moti contrari, emissione ed immissione,
costituenti l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia pitagorica.
La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal soffio vitale (anima).
L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò, nell'uomo, il venir meno
dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi morte dei singoli, non
del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo muoe, perché non puo ricongiungere il principio con
la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone (fr. 4). Qui, forse,
anche il motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della trasmigrazione,
è terapeuticamente la cura del corpo che non può non essere accompagnata dalla
cura dell'anima. E come il corpo si cura ristabilendo l'equilibrio, cosi
l'anima si cura ristabilendo l'equilibrio, purgandola, purificandola mediante
un apprendimento, mediante un’incantagione. E se l’insegnamento consiste
nell'iniziazione alla visione dei contrari e del respirante· cosmo,
l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il sodalizio pitagorico a
Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in cui se da un lato il
maestro iniziava ai “mathemata” putificatori, dall'atro, mediante una dieta, ;a
prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di vita, tendeva alla cura
dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita all'unisono con la vita
del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari, certi aspetti del dionisismo
e de.i misteri cretesi, certi tabu, ricongiungendosi a tradizioni apollinee,
sirveno benissimo a costituire questa vita pitagorica che in altri tempi, per
altre esigenze assume ben diversi significati. Si venne cosi a costituire,
probabilmente fin dal tempo di Pitagora, tutto un complesso di norme
dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in cui, secondo il racconto di
Dicearco (Porfirio, Vita di P., 18-19), che fossero ammessi ad ascoltare il
verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”) e a far parte del
sodalizio uomini e donne, e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre distinzione
tra acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare -- e
matematici, coloro che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono
probabilmente i continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A
Pitagora, dunque, si possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei
dieci contrari (da cui poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e
musicale) e vivente del respiro (da cui la cosmologia); la concezione dell'immortalità
dell'anima e della presenza dell'anima là dove sono esseri (e forse a questo
allude il celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità dell'anima e la
trasmigrazione si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si narra che una volta,
passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora impietosito
pronunziasse, ‘Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un mio amico: l'ho
riconosciuto udendone la voce!’ (fr. 7); la cura medico-incantatrice
dell'anima, ove sono presenti tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia
meridionale, e tradizioni agrarie e mistiche che probabilmente proprio allora
si costituisce in quelle associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che
giuocano in senso politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia
pure in via ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo
tempo, e accolto con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO,
di Pitagora dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora
giunse a Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e
combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu
vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge
che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici
hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si
siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai
primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica
un'eccessiva chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che
l'aristocratico CILONE DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il
sodalizio pitagagorico, che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a
molti altri, la casa, ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che
sfuggirono alla morte Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra
fonda un circolo pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi
Simmia e Cebete, i famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone.
Archippo si rifugia a Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e
il pitagorico ARCHITA, amico di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due
versioni, l'una risalente a Dicearco (fr. 34 Wehrli), l'altra ad Aristosseno.
Secondo la versione di Dicearco, prima dell'esplosione violenta dei Ciloniani
che porta all'incendio della casa di Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da
Crotone. Pitagora si recato a Metapmto dove e morto ancor prima dell'incendio. Secondo
la versione di Aristosseno (fr. 18 Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito al
massacro, perché non era presente. Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per andare,
infine, a Metaponto dove e morto, probabilmente (cfr. Porfirio, Vita Pit., 56).
Data l'indefinitezza della figura storica di Pitagora e del suo insegnamento, eopportuno
delineare solo certe suggestioni la cui origine si possa effettivamente far
risalire a Pitagora, suggestioni che hanno dato luogo a motivi molteplici e a
interpretazioni che si son delineate su vie diverse (la via della legislazione,
dell'aritmetica, della mistica, del SIMBOLO, della medicina), e che hanno
profondamente inciso, per un verso o per l'altro, a seconda di certe esigenze o
di altre, sulla cultura italic meridionale, costituendo, nella circolazione
delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo italico. l primi pitagorici.
lppaso. Il medico Alcmeone. Si può dire che i primi pitagorici, quelli che
Aristotele avvicina ad ALCMEONE DI CRONOTE, sono quei pitagorici che
stabiliseno le dieci serie di opposti. Sono gli scolari di Pitagora o i
discepoli piu vicini al maestro i quali pensano si al numero come rapporto e
armonia, ma tra i componenti dell'armonia poneno oltre tutti gli opposti, anche
l'uno e il molteplice. Ma come potevano accordarsi l'uno e il molteplice? (E.
Paci, St. d. pensiero presocratico, Torino, p. 83). Proprio questo disaccordo o
opposizione, tra l'uno da un lato e il molteplice dall'altro, impegna la
discussione di Eraclito, mentre, per altro verso, imposta la polemica di
Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso* matematico della parola non troviamo
accenno nei primi pitagorici, se non piu tardi con Filolao. Nei primi
pitagorici si tratta-nell'esigenza di definire la quantità indefinite, il
contorno di una cose, di un disegno, costituito di punti. In altri termini, i
pitagorici scoprono, attraverso quanto, mediante Pitagora, e pervenuto dalla
geometrizzazione di Anassimandro, che “intendere” significa “misurare”, e “de-finire,
appunto di-segnare. E poiché il ‘di-segno’, lo schema, sotto questo aspetto la
forma, la de-limitazione è linea. Un piano e un insieme di line. Un solido e un
insieme di piani. Una linea e un insieme di punti. Si puo dire che ciò, senza
di cui nulla è, e il punto, e che, dunque, la qualificazione, l'intelligenza
delle cose è dovuta al punto stesso e alla variazioni spaziali dei punti, onde
una figura e una schema, la cosa, e pure, numeri. Ciò che rende conto della
realtà stessa, delle cose, e la misura. Ora, se l'unità è il *punto*, si
capisce come l'unità sia unita accanto ad altre unità. Di qui l'opposizione
uno/molti, e, nella configurazione della cosa-punti, le opposizioni
pari/dispari, limitato/illimitato, destroy/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento,
diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo. E poiché il dis-pari è in-divisibile, e
cioè riferibile all'unità, il dispari e anche bene e luce, mentre, all'opposto,
poiché il pari è divisibile, riferibile alla molteplicità, il pari r anche *male*
e tenebre. Nella tavola pitagorica delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti
dispari e una figura-punti pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra
facessero i primi pitagorici, con una squadra (gnomone), si de-terminano in
modo che i lati della squadra resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i
lati resultano disuguali, e quindi mentre i primi sono sempre rapportabili
all'unità, i secondi sono rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito
di gnomoni dispari, il rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*,
il rettangolo molteplicità, e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero quadrato
e di un numeri oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che assume significato
la famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto poi, i pitagorici giurano,
dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva dal fatto che la rappresentazione
geometrica della quaternaria è costituita da 10 punti messi in forma di triangolo
avente quattro punti per lato, la cui somma 1 + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La
quaternaria costitusce il numero perfetto, poiché racchiude in sé i numeri delle
TRE proporzioni musicali (proporzione ottava 2:l, proporzione quinta 3:2, proporzione
quarta 4:3), delle quattro specie di enti geometrici -- punto = l; linea = 2;
superfice = 3; solido = 4) cioè di ogni cosa (cfr. Mondolfo-Zeller, “La
filosofia dei greci nel suo sviluppo storico” Firenze, p. 676). E questa un'interpretazione
piu tarda. Unità-molteplicità resta, dunque, l'opposizione fondamentale.
Compresa l'unità, la misura, l'armonia, rimane incompresa la molteplicità, la
dis-armonia: il calcolabile (razionale) e l'incalcolabile (irrazionale,
incommensurabile). Oppure gli uni rimaneno accanto agli uni e, dunque, ai molti
dell'indefinito spazio (quantità), che fu forse il respiro di cui, sembra,
parla Pitagora, o il vuoto cui accenna Aristotele. Solo che l'indefinito, de-finendosi,
è un insieme di punti, è il contorno di cose che tuttavia si scandisce come
pari e dispari, come infinito e finito, come comprensibile e incomprensibile,
il tutto vivente dell'infinito (respiro), e quindi esso stesso, perché
indefinito, incomprensibile, irrazionale. Di qui prende le mosse la critica di
Parmenide di Velia, che, senza dubbio, ha rapporti coi primi pitagorici, anche
se può essere leggendario ch'egli sia stato avviato alla filosofia, come dice
Diogene Laerzio, da Aminia, figlio di Diocete, pitagorico (IX, 21). Ma di qui,
crediamo, anche le due facce dello stesso Pitagora, da un lato volto ai “mathémata”,
alla geometrizzazione, alle tecniche, e dall'altro al silenzio, alla via
sacerdotale, come si dirà piu tardi, che coglie, come in un'iniziazione, di là
dall'opposizione del finito e dell'infinito, del pari e del dispari, il divino
respiro del tutto, la suprema armonia. Da questo, comunque, discende anche il
significato medico dell'insegnamento di Pitagora e dei primi pitagorici, come
particolarmente si rileva in ALCMEONE DI CROTONE, che se anche si accosta a
Pitagora avendo già una sua certa formazione di origine milesia, poteva sopratutto
attraverso il motivo dei contrari e dell'equilibrio, lui medico, accettare
parte dell'insegnamento pitagorico. Come alla fisica ionica si ricollega
probabilmente la primitiva dualità pitagorica apeiron/péras, cosi da quella
stessa fisica trae verosimilmente Alcmeone alcune opposizioni: umido/asciutto,
caldo/freddo, amaro/dolce, le cui potenze constata nella pratica della
medicina, e che introduce in questa corrente pitagorica (M. Timpanaro-Cardini, pp.
119- 20). Dice cosi Alcmeone che la salute si mantenne dall'equilibrio delle
forze, dell'umido, del freddo, del caldo, dell'amaro, del dolce e cosi via,
mentre il dominio di un solo provoca la malattia (fr. 4), onde l’uomo muoie
perché non puo ricongiungere il principio con la fine (fr. 2). E cosi non è un
caso che medici e pitagorici siano stati anche CALLIFONTE e DEMODENE DI
CROTONE, e poi di Taranto, medico e maestro di GINNASTICA. Ed è probabilmente entro questa cerchia di
interessi e di problemi, anche se discussa n'è la datazione, che rientra
l'anonimo trattatello cosmologico-medico “Sul numero sette” (m:pl
~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse piu antichi) descrivono il
dominio del numero sette nell'universo, mentre i capitoli ultimi (XII-LIII) discutono
le malattie partendo dalla premessa che gli animali e le piante che vivono
sulla terra hanno una natura simile a quella del cosmo, i piu piccoli come i
piu grandi (c. VI). A parte Pitagora, maestro e medico, nei primi pitagorici
sembra abbiano prevalso, entro la visione totale di Pitagora, interessi piu particolari
e tecnici, o per la medicina, o per la traduzione di una cosa in punto-figura,
dai quali si venne poi formando quella
che sarà la cosmologia pitagorica (come può darsi sia il caso di Petrone
d'Imera che ha una visione del cosmo in forma triangolare; o di Cercope, o di
Brotino, o di Xuto, di cui in effetto non sappiamo quasi niente); o per la
mnemotecnica (Parone) o la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza segreta,
gli acusmatici con a capo Ippaso di Metaponto si ribellano contro i matematici,
divenendo tali essi stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori matematici del
primo pitagorismo, egli che divulga il dodecaedro, iniziando le ricerche
sugl'irrazionali.o incommensurabili, poi
proseguite da Teodoro e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di lui sono
molto discordanti e in discussione è anche il periodo storico in cui sarebbe
vissuto. Ssecondo E. Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi
contemporaneo di Archita. Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle
testimonianze (tutte molto tarde, aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche)
sappiamo ch'egli trova gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica
(di qui l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi
dei periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è
stato avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes," pp. 180
sgg.; M. Timpanaro, cit., pp. 105 e 78-83). La circolazione delle idee
Epicarmo, commediografo, vissuto tra il 550 e il 460, nato forse a Cos,
nell'Ionia, o a Megara Sicula, vissuto fin da bambino nella Isola di SCILIA e
particolarmente a SIRACUSA, alla corte di Gelone e di Gerone, ove, sembra,
conosceSenofane, ha, per i frammenti che di lui ci sono rimasti, pochi
purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è chi in EPICARNO ha rintracciato
motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del primo pitagorismo
(l'opposizione di pari e dispari: particolarmente interessante il fatto che,
parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le unità e il cangiamento
delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere o togliere
pietruzze - fr. 2, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari influssi
senofanei. Originario di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto a
Siracusa, fin da bambino, alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il primo
grande poeta della commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un
trecento frammenti e molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie
mette in parodia la mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse
naufrago), o si diletta di rappresentare figurine umane, tipizzandone i
caratteri (Il contadino, Il megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca
di delineare ora uno ora altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar
rintracdando una filosofia di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato,
sottolineare il significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi
motivi propri del primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per
rendersi conto di come circolasno le idee e di come tali idee dovessero far
presa ed essere discusse non in un certo ristretto mondo di intellettualima in
piu vasti strati, costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va
scordato, a questo proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente
uno dei primissimi. Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della
festa orgiastica) come la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri)
hanno origine da feste e riti collegati con il culto di Dioniso, e che il
dionisismo e all'inizio, religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle
p6leis, e che via via s'imposne con la caduta dell’aristocrazie. La commedia
sempre mantene il suo carattere popolare e, almeno piu tardi, popolare e
politico, tanto che in effetto non poté mantenersi che in Atene democratica, ivi
compreso il caso limite del conservatore Aristofane che, appunto, liberamente
pone sulla scena la sua polemica politica contro gli uomini nuovi e i filosofi
rivoluzionari. Probabilmente Epicarmo è il primo. Non senza interesse è che Platone
(“Teeteto”, 152 d. c.) dica che nel genere della commedia Epicarmo è degno di
stare a pari con Omero ad avere collegato e ahicolato in commedia vera e
propria quelli che originariamente sono canti fallici e parodie popolari di
miti distaccati gli uni dagli altri. Ora, proprio il fatto che Epicarmo scrive
commedie e che, dunque, si rivolge a un certo pubblico, usando una certa
tecnica di discorso, porta a pensare che quelli che distaccati dai contesti
(che non abbiamo piu) sembrano possibili "sistemi " autonomi, dovevano
essere in effetto motivi comprensibili a tutti, rispondenti anche se presi in
giro a esigenze e problemi diffusi in un piu largo mondo. Sotto questo aspetto e
per quel poco che di lui ci è rimasto, Epicarmo non fu né pitagorico né
eracliteo né senofaneo. In lu, pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei
stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una
riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di
fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà,
dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui
l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di
assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea
o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del
metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo
a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con
l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro
alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge
dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti
di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la
polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le
genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e
il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra
cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di
queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni,
l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche
stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia
nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei
culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e
sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di
Pericle, quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite
dall'impero persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e
in Sicilia i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non
sembra, dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e
Pitagora ed Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in
sé, in quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in
Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia
sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e
politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento
di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del
tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in
questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre
persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi
preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli
uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a
loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno,
ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni
azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la
fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni
azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si
difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov
aocpLa!LiiT(I)V), trova per essi, e le
combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv.
442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali
potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali
ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di
come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi
problemi che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è
appunto entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica
contro i pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via,
dell'unica via (636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide,
cittadino di Elea, colonia focese sulla costa della Campania, vissuto tra il
520 e il 440 (tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio del “Parmenide”
(127b), narra che una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e Zenone
vennero ad Atene e si incontrarono con Socrate, allora giovanissimo, mentre
Parmenide era già molto innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque anni. Calcolando
sulle indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate giovanissimo poteva
avere allora sui diciotto anni, e poiché sappiamo che Socrate nacque nel 470i69,
l'incontro tra Parmenide e Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per
cui Parmenide dovrebbe essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto
Platone non precisa esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto,
183e; Sofista, 2l7c). Secondo Diogene Lacrzio (lX, 1), invece, Parmenide
sarebbe nato nel 544/400. Probabilmente Diogene Laerzio desumeva la sua cronologia
da Apollodoro e dalla tradizione che s'era sforzata di far coincidere le date
di Parmenide con quelle di Eraclito e di Senofane (Diogene L., IX, l, 20).
Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra che si occupa di politica e che
ordina la propria patria, Velia, con ottime leggi (Plutarco, .Adv. Colot., 32).
Anche il poema di Parmenide va sotto il titolo “Intorno alla Natura” (sembra si
dividesse in due nette parti, la prima intitolata la vmta, la seconda
l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi. 41 mente
indicative), abbia risentito e discusso il motivo senofaneo dell'uno che tutto
comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia Senofane ad aver fatto tesoro
dell'unica via di Parmenide. Può darsi che Parmenide discuta Eraclito e
polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu facilmente, con l'opposizione
unità-molteplicità, che implica nell'opposizione stessa di piu esseri il non
essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che proprio dall'insegnamento e
dalla problematica dei pitagorici -- si dice che Parmenide fosse stato iniziato
alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico -- sia sorto in Parmenide il
problema di quale sia la via che rende possibile il sapere e comprensibile il
reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a seconda della presa di
posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato su uno o altro dei
motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte, colorendo quindi di
una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide. Proprio questo,
tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che sviluppare o portare a
estreme conseguenze un certo "sistema," in effetto cerca, nella
molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità del sapere, nella
diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le strutture che
rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il proprio punto di
vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle posizioni. Alcuni frammenti
che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi, inseriti e citati in testi
piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide calato in un preciso
ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità del reale.
Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo pensierò
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi
imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le
opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza (fr. l, vv. 29-30). La molto
dibattuta questione e "ora devi imparare - cioè renderti conto - di come
siano possibili le opinioni dei mortali," sono due espressioni molto
precise che sembrano indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da
un dibattito su questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse,
e, dall'altro lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende
possibile il sapere, comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di
opinione (36~ac) si può parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc).
Sembra lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema
fosse piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che,
scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica
via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere
e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema,"
perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero
esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5). Abbiamo qui il
punto su cui Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca
senza di cui non è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la
verosimiglianza delle opinioni (cfr. fr. l, vv. 31-32) intorno alla natura.
Ora, può essere interessante sottolineare che il proemio (ne sono rimasti 32
versi e forse è intero) del poema, che a sua volta nettamente si divide in due
parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione, di cui non leggiamo
che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che rivelerebbe, com'è stato
detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una serie di luoghi, di
tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche popolare, che evocano
l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin dove vuole il mio cuore,
anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero [guidato sulla via molto
famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede il sapere (fr. l, vv.
1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac., IV, 5, 5), per Parmenide sede
della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si raccoglie il
molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta, fin dai tempi
piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità dell'apprendere, perché
sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in quest'attacco del
proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale capacità intellettiva
- naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla distinzione Notte e
Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del sole, ed ecco un altro
topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce, liberando il capo dai
veli (fr. l, vv. 9-10), lo ha condotto cioè fino al punto primo delle
tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle contraddizioni
oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la porta che mette
ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la chiudono l'architrave
e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere, grandi battenti di
cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno uso (fr. l,
vv. 11-14). La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe Parmenide,
perché ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare), onde, appunto,
la dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via (che~ invero
lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la giustizia, “dike”
(fr. l, vv. 26-28), cioè il giusto pensare, che è via lontana dall'uomo comune
(tanto è vero che Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”). Ma ora -
prosegue la dea - devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema della ben
rotonda verità c le opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza. Ma
tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché
possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr.
l, vv. 28-32). L'accettare i dati dell'esperienza, di ciò che appare
all'immediatezza dei sensi, implica molteplicità e dispersione, contraddizione;
la definizione dell'indefinito implica il frantumarsi del reale in unità
opposte fra loro, onde accanto alle cose che sono bisogna porre un non essere.
Il pensiero, invece, coglie sé come discorso (logos), ma discorso che è unitd
(mente, nas) ove ogni singolo membro del discorso si articola all'altro in una
continuità che costituisce e presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa
realtà. Infatti a seconda di come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto
erranti membra, cosi la mente accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che
pensa - l'intima struttura delle membra - negli uomini, in tutti e in ognuno.
Ché il pensiero ~ ciò che prevale (fr. 16). E allora quella stessa realtà, che
nell'immediatezza sensibile e nella definizione puntuale appare molteplice e
disarticolata, onde si pongono esseri accanto a esseri e quindi essere accanto
a non essere, non appena si colga il pensiero, che è discorso e unità
comprensiva (mente), quella realtà molteplice è essa stessa unità, cioè
pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il perire, l'opposizione. Ma
guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono invece per opera della
mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione
con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte, seguendo un
certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4). Parmenide punta subito
sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia unità, o meglio comprensione
totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si concentra,
né una serie disgregata di punti accanto a punti, ma totalità. In Parmenide,
dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma
di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano
le cose cosi come appaiono all'occhio, ai sensi, le une accanto alle altre,
ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là
dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del
tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente: e
non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra (vuv) tutto insieme, nella sua
compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) (fr. 8, vv. 5-6) o soltanto nella
sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha corretto l'Untersteiner.
Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò ... quali sono le vie di
ricerca che sole son da pensare ": fr. 2, vv. 1-2) si risolvono in effetto
in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il
reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica sempre
dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL NULLA è NON
DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non puoi né
conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo ": fr. 2, vv. 7-8), e
se il pensare dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere
(fr. 3). Per la parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia:
solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è " (fr. 6); e poiché
il pensiero è n~s(vou<;), mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso,
cioè articolazione della molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il
pensare sono la stessa cosa, l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta
(finita), circolare. Per me," dice la dea, "è uguale da qualunque
punto cominci: poiché là tornerò di nuovo" (fr. 5). Pensare, dunque, e
dire non si può che l'essere, per cui la via che è e che non è possibile che
non sia (fr. 2, v. 3) è la via che, non essendo contraddittoria, è l'unica che
persuade, ed è perciò la via della Verità ("questa è la via della persuasione,
poiché segue la verità (fr. 2, v. 4); mentre l'altro modo di atteggiarsi di
fronte alla realtà, quello della sensibilità, è una via che non è e che è
necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr.
l, vv. 5-6). La conclusione cui la prima via conduce, e non può non condurre
("e, come era necessario, il nostro giuizio fu quindi di abbandonare una
delle vie, perché impensabile e innominabile, e infatti non è la strada della
verità, e che l'altra è ed è vera (fr. 8, vv. 16- 18), è che l'essere è e che
solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare l'essere, e non si può
non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito, cioè compiuto - ché a
lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se fosse due o piu di
due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa che distingue e
che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è, per cui
l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "), senza
origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o risolversi
nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando
i legami, ma lo tiene ben fermo": fr. 8, vv. 13-14). L'Essere in quanto
essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte
dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se
stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in
un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è (cfr. fr. 8, vv.
1-35). Totale unità, perfetto e quindi finito, indivisibile, immobile e
immutabile, identico a sé, tutto presente sempre e, dunque, atemporale e
aspaziale, tale l'Essere, quale necessariamente il pensiero può pensarlo senza
contraddizione; o, meglio, QUESTI I SEGNI, crljji4TCX (fr. 8, v. 2), non
contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a uno solo (a è), e quindi
persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE) l'Essere. L'Essere, dunque, non
si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero che, alla fine, Parmenide non può
non pensare l'Essere che come sfericità compatta. Esso è compiuto tutto
intorno, uguale alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni
parte con ugual forza giacché· è necessario che non sia in questo o in quel
punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni parte identico a se stesso,
urta in ugual maniera nei suoi confini (fr. 8, vv. 42-45, 49). Parmenide crede
cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria opposizione
unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso egli dice.
Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente sanno, uomini
a due teste ... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è lo stesso e
non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può esser percorsa
in due sensi (fr. 6, vv. 3-5, 7-9). Si può in questi versi scorgere una critica
ai primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito.
Risolta, dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il
perire, quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano
contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta
nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri,
cose che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose.
Cosi facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose,
mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette
le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che
puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto,
convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di
luogo e mutare lo splendeQte colore (fr. 8, vv. 38-41). E qui va sottolineato
che Parmenide non dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica
cosa. Ma dice essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la
contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel
contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio
·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali
nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo
è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni
assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce,
e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso, ma non
uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza
luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione
Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da
seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè,
bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio
lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le
cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione,
illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà
definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre
l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per
cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare,
il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro
valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza
debba configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il
tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). Si chiarifica cosf il motivo della
Notte e del Giorno del proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte
dedicata all'Opinione. L'unica via, che è quella del pensiero e sulla quale
conducono le vergini Eliadi, porta oltre le distinzioni originarie di Giorno e
di Notte (oltre quelle distinzioni che son servite all'uomo per definire e
intendere il reale) annullando ogni distinzione nell'unicità dell'essere che è.
Solo ora, solo quando si sia consapevoli di ciò, possono sussistere i due
mondi, il mondo della verità e quello dell'opinione, come due modi diversi di
cogliere l'unica realtà: sentita e tradotta in parole da un lato (opinione), e,
dall'altro lato, còlta col pensiero e tradotta in una sola parola, la parola
per eccellenza, è. Quando si sia consapevoli di questo, si coglie il valore
ipotetico delle opinioni, che possono determinare e ritagliare una certa realtà
verosimile. Di qui - crediamo - tra le opinioni, si pone l'opinione di
Parmenide su come sia costituito il cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che
oscuri accenni in Aezio. Quella di Parmenide sembra fosse una visione dell'universo
concepito come un complesso di cerchi concentrici, costituenti tutti una sola
circolarità, che, forse, era l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della
Sfera, e, sotto altro aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo
cosi risposto Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per
non contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza
il tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto,
l'unico piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e
delle parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa.
Sarà questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva
giungere alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie,
che, in altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le
antilogie dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni
eleatiche dei Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si
precisano chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e
difensore di Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è
e in cui tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio
del “Parmenide” Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide
e Zenone vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto
bianco, ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone
si avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo
(Parmenide, 127b). Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un
saggio che scrive per difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli
compose per amor di polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto,
per cui, Platone fa dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se
fosse o no il caso di darlo alla luce (128a). Platone, forse, per dare avvio alla
sua discussione, probabil-mente nei confronti dell'eleatismo megarico, si
riallaccia di proposito a Zenone e a Parmenide mettendoli in rapporto con
Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate di cui poi i megarici furono
discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la notizia di Zenone ad Atene
insieme a Parmenide, in un'epoca, il 455-450, in cui sembra difficile, per
ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene, o avesse circa
sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone sia stato
effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa, e che sia nato tra il 500 e
il 490. Discepolo di Parmenide, Zenone nacque ad Elea nel 500/490. ·Platone
(Parmenide, 127b) narra che nel 452 circa Zenone, venuto con Parmenide ad
Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le fonti lo presentano come uomo
prestante e altamente intelligente, che prese attiva parte alla vita politica
della sua città, dove sarebbe eroicamente morto combattendo il tiranno Ncarco,
quando, preso da Nearco e torturato, per non parlare si spezza la lingua con i
denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra che la struttura originaria del
saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse antinomica, e che [Altro punto
sospetto è che Platone dice che il saggio che Zenone scrive e stato fatto circolare
senza il permesso dell'autore. Potrebbe questo essere indice che Platone, in
effetto, non espone la tesi vera di Zenone, anche se, nella finzione del
dialogo, Zenone stesso approvi, con qualche riserva, il sunto che dei punti
salienti dà Socrate. Platone, nel Parmenide tende a dimostrare l'impossibilità
di pensare l'essere di Parmenide che porta dietro di sé l'altrettanta
impossibilità di pensare i molti, onde, postici sul piano di Parmenide, risulta
impossibile il discorso, un qual- sivoglia giudizio. Non interessa ora la
soluzione di Platone e il suo tentativo di poter pensare l'Essere come
dialetticità corrispondente alla dialetticità del pensiero, per cui si rendeva
possibile porre un tutto oggettivo. come ordine dialettico e misura su cui
scandire, attraverso la conoscenza di sé, lo stesso ordine politico. È tuttavia
importante sottolineare che nei confronti dell'uno di Parmenide e delle opere
di Zenone (che accettando l'ipotesi di Parmenide e anche accettando che l'uno
di Parmenide si può, all'estremo, ritenere assurdo, vuoi dimostrare che
altrettanto assurdo è porre unità accanto a unità, come i pitagorici, quando si
ritenga che queste siano realtà per sé e non puri nomi), la polemica di Platone
chiarifica quella che storicamente dev'essere stata l'aporia fondamentale in cui
doveva trovarsi il lettore del saggio di Zenone. In verità - abbietta Zenone
nel Parmenide di Platone - questo mio saggio vuol essere in certo modo una
difesa della dottrina di Parmenidc contro quelli che cercano di metterla in
ridicolo sostenendo che la tesi dell'esistenza dell'uno va incontro a molte
conseguenze ridiwlc c contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio saggio
quelli che asseriscono l'esistenza dei molti c render loro la pariglia e anche
di piu, cercando di mostrare che la loro ipotesi dell'esistenza dei. molti va
incontro a conseguenze ancor piu ridicole di quella dell'uno se si vuole andare
in fondo alla ricerca (l28c-d). In effetto qui Platone corregge la sua prima
affermazione che Zenone e Parmenide avessero detto la stessa cosa ("dite
su per giu la cosa medesima ": 128b}, e per i suoi intenti lascia cadere
la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale, perché, in genere, è con
questi abili accenni che Platone distingue quello che a lui importa da quello
che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla verità storica. Zenone,
quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che sostiene il molteplice e il
moto. Platone che vede in Zenone il difensore dell"Uno di Parmenide, lo
chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro, 26ltl). ] dunque, sarebbe
parmenideo alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto di Parmenide porti
alla finale contraddizione dell'impensabilità - proprio sulla via del pensiero
- dell'Uno stesso. Solo che la facile critica dell'annullarsi dell'Uno deve
tener presente che, ammessa la esistenza dei molti, di punti accanto a punti,
come enti reali, si cade nelle stesse contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone
non dice mai cosa sia l'Essere. Zenone nega che posti i molti come esistenti,
sul piano logico i molti esistano, confermando cosi la tesi parmenidea che i
molti in quanto tali, in quanto definizioni, non sono che puri nomi. Ammessa,
dunque, pitagoricamente, l'esistenza di punti reali costituenti le cose,
bisogna necessariamente ammettere che ciascuna di tali unità in quanto punto ha
una grandezza, anche se minima, onde in ogni punto vi sono infiniti punti e
quindi ogni punto-unità sarà infinitamente grande; se il punto poi non ha
gradezza, poiché le cose si costituiscono come aventi grandezza per l'unione
dei punti, come sarà mai possibile che punti senza grandezza diano luogo a grandezze?
n punto dunque, se non ha grandezza, non è (fr. l, 2). Ancora: ammesse piu cose
costituite di punti, esse saranno ad un tempo in numero finito e infi.t;lito,
il che è contraddittorio: saranno in numero finito, perché non possono essere
piu o meno di quante sono; infinito perché tra l'una e l'altra ve ne sarà
un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra ancora all'infinito (fr. 3).
Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé, bisogna ammettere o che
sono continue, onde la molteplicità si annulla nella continuità, che, essendo
divisibile all'infinito, è costituita di infiniti punti a loro volta divisibili
all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni cosa, limitando l'altra, occupa
uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno spazio: ma allora ogni spazio in
quanto luogo implica un altro luogo e cosi all'infinito, sino all'unico luogo
cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele, Fisica, 209a-210b; Simplicio, Fisica,
140, 34, 562, 1). Entro questa linea rientra anche il cosiddetto argomento del
grano di miglio. Un grano o la decimillesima parte di un grano di miglio fa
rumore: ora se fra un grano di miglio e un medimmo c'è proporzione, vi sarà
proporzione anche tra i suoni, per cui se un medimmo di miglio fa rumore lo
farà anche un solo grano (Aristotele, Fisica, 250a~ 19; Simplicio, Fisica,
1108, 18), ma ciò non avviene. Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei
termini dei primi. Se l'uno, o la totalità, è impensabile irrelativamente,
altrettanto impensabili sono i molti qualora si pongano quali realtà accanto a
realtà. Nessuna parte del molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà
senza una relazione con un'altra" (fr. 1). Poiché i molti sono impensaolli,
se non. determinati come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL
CONTINUO si può rappresentare come retta all'infinito, fino al nulla, i molti,
se posti come realtà per sé, non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile
se non in quanto estensione ed estensione che si qualifica) altrettanto inconcepibile
è il moto, o meglio la possibilità dello spostamento e del passaggio da punto a
punto, ché, dato, ad esempio, un segmento AB, tra A e B posta una metà A',
necessariamente tra A e A', vi sarà una metà A" e cosi vita all'infinito –
eis apeiron -- (argomento della dicotomia, cioè della divisione in due:
Aristotele, Fisica, 233a, 239b, 263a; Simplido, Fisica, 1013; 4). Evidentemente
non vi è allora passaggio tra un ipotetico primo punto A e il punto della linea
accanto ad A, onde si può dire che Achille piè veloce" (in A) non
raggiungerà mai la tartarugà che sia un passo avanti (in A"), ché, in
effetto, logicamente, né l'uno né l'altra si muovono (argomento dell'Achille:
cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio 1013, 31), tanto piu che la linea,
essendo costituita d'infiniti punti, è divisibile all'infinito, e quindi,
all'infinito, si annulla. Analogamente LA FRECCIA non raggiungerà mai il
bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo sempre ferma al punto di
partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio,
Fisica, 1015, 19; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio, Fisica, 199, 4). Infine,
dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone avrebbe dimostrato la
contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o la definizione dei
dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo l'argomento detto
dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che va ad una certa velocità,
se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà, ad esempio, a dieci
chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un altro punto mobile
che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello stesso mobile va a
venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice Aristotele - è quello
delle due serie di masse uguali che si muovono in senso contrario nello stadio,
lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla fine dello stadio, le
altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è, secondo Zenone, che la
metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr. anche Simplicio, Fisica,
1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con cui, accettata la premessa
che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di deduzione in deduzione, si
dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi, non si possa se non negare il
moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista”
andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre della DIALETTICA, come arte
del confutare), ci sono rimasti attraverso le discussioni e le critiche di
Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti fossero proprii del
saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso Platone (che fa
intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della molteplicità), ne
tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere conseguenza di
quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità della
fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO SPAZIALE,
portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale su cui si
determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di movimento
divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili o
contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i punti-
cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri interi
delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri irrazionali, sia
contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita, della mutevolezza,
alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri nomi quella stessa
vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone, tenendo presenti certe
posizioni a lui contemporanee o immediatamente posteriori - lasciando da parte
le implicazioni che vi hanno veduto certi storici, riferendo le tesi di Zenone
ad alcune delle concezioni della matematica e della fisica moderna, - sembrano
potersi indicare nei seguenti punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in
termini matematici; 2. conseguente impossibilità di pensare, e quindi di
definire, sia l'Essere come totalità, sia la molteplicità; 3. consapevolezza
che ogni ricostruzione matematica è valida, in quanto ipotetica e che
altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica. Sul piano storico si
determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale aspetto della
problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito sul
continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come
determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo
stesso, cioè nell'infinita unità (Me- lisso); o si è risolto l'uno su di un
piano puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie,
né il pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che
nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi
fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del
continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito,
ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni
punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti
punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno
all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie
di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè
un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito).
Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare
l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale
stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella
consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della
Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i
termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia).
Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici (111) del poema di
Empedocle di Girgenti, che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò
che pare potersi ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita
di quattro elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era
donatrice di vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di
vita per i mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico
detto nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli
elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot),
l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la
realtà tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina
la forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte
aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno
sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella
lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad
Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie
sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap-
porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 54-55) e con Parmenide,
durante un suo viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G.,
p. 477). Fu di parte democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle
abbia scritto piu opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i
titoli (Politica, Della med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura
(ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti, del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi
frammenti. 62 sorge la vita vera e propria, che è amore e contesa
a un témpo, unità e distinzione, finché per il predominiò di Odio le quattro
radici si di- stinguono totalmente restando masse accanto a masse. In effetto
il ciclo cosmico è sempre tutto insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in
questo scorrere e trapassare dall'unità dello sfero alla distinzione delle
radici, dall'uno all'altro polo, ove l'essenza delle radici resta sem- pre
quella che è, mutandosi le cose per la tensione delle due forze op- poste: le
due forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai
l'infinito tempo di questa coppia sarà vuoto (fr. 16). D'altra parte la massa
dell'acqua, o quella del fuoco, o della terra, o dell'aria, è costituita,
ciascuna, d'infinite particelle d'acqua, di terra, di fuoco, di aria, onde nel
momento d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme, mentre nel momento di Odio
si distinguono separandosi e tutte le particelle di acqua si unificano nell'acqua,
quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella terra, quelle di aria
nell'aria. Aristotele poteva cos( sostenere che Empedocle cadeva in
contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando, infatti,
per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora il fuoco
si .raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de- menti;
quando, al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno, è
necessario che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro
(Metaf., l, 4, 985a m). A parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta
proprio di Empe- docle è che la realtà è costituita di infinite particelle di
acqua, di terra, di fuoco, di aria, che, distinte per qualità, sono, come
sfondo originario su cui tutto si ritaglia, una unità indistinta, ove le
distinzioni avvengono per la tensione delle due forze. E allora, per Empedocle,
la vita, l'esistenza, è appunto il momento intermedio, che non è né pieno amore
né pieno odio, ma, appunto, la tensione i cui momenti estremi sono come termini
ideali di un ciclo, che in quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione
stessa. I dati dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è,
è riducibile a quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi
(aria e fuoco). Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che
è i quattro elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità
ongmaria e di una distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo,
oscilla il costituirsi di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e
di repulsione, cui si giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che
ciascuno vive quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo
frammento. Angusti poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo
una piccola parte di una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono
rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a
caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto.
Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate
dalla loro mente. Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto
la mente umana possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a
un tempo, in quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un
lato non può cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero
(fr. 27-28) d'amore, ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è
piu (a lui, all'essere, è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli
occhi e afferrarlo con le mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi
al cuore dell'uomo (fr. 193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto,
proprio perché la realtà quale appare all'uomv è unione e distinzione degli
elementi, che i due termini estremi sona unità totale e fusione delle radici e
distinzione delle quattro radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e
l'altra (tu dunque saprai solo questo cui poté assurgere la mente umana -- fr.
2), fondata sull'esperienza di ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è
dato sentire, vedere, toccare, vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di
forze vitali nella loro opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia, supplico,
di ciò che è giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno. Tu,
dunque, uomo, con ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu fidando
all'occhio che all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara fede del
gusto, e a nessuna delle altre membra, per quante è una via di conoscenza, nega
fede, ma conosci ogni cosa in quanto è palese (fr. 4). E poiché, appunto, la
via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è la via
dell'esperienza diretta (fr. 193), è questa che pone l'uomo di fronte alla
realtà costituita di terra, di fuoco, di acqua, di aria, e a questa Empedocle
richiama. Su via! Vedi un po' se nelle testimonianze che ti ho dato ho commesso
qualche errore, parlando della forma ((Lopq~~) degli elementi. Guarda, dunque,
il bianco sole il cui calore ovunque si spande, e tutte le costellazioni infuse
di vaporosa chiarezza, e la pioggia che reca freddo e nuvole ovunque, e la
terra donde scaturisce tutto ciò che è saldo e compatto (fr. 21). Non solo,
dunque, si dimostra l'esistenza del fuoco, dell'acqua e della terra per via
puramente sperimentale, ma anche l'esistenza dell'aria, cioè dello spazio come
pienezza corporea, escludente il vuoto che è non essere inconcepibile, mediante
la prova famosa della clessidra. Empedocle descrivendo il processo respiratorio,
dimostra l'esistenza dell'aria come corpo, immergendo una clessidra nell'acqua.
Quando una fanciulla, giuocando con una clessidra di lucente rame, ne copre il
foro con la sua mano ben modellata, e la immerge nella cedevole argentea pozza,
il volume dell'aria che preme dall'interno dell'orifizio impedisce all'acqua di
entrare, finché la fanciulla non libera la corrente d'aria compressa. Allora,
non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra in quantità uguale (fr. 100, 8-21).
E, cosi, sperimentabili sono le due forze (amore e odio) dalla cui tensione
nascono e muoiono tutte le cose, senza che gli elementi subi- scano variazione.
E manifesta è la lotta tra Amore e Odio anche nell'insieme del corpo umano. Quando
sotto l'azione di Amore, gli elementi si riuniscono in una sola massa, allora i
corpi fioriscono di crescente vita; quando sono disgiunti dalla funesta
Discordia, allora le membra errano separatamente verso le prode estreme della
vita (fr. 20). L'uomo, dunque, in quanto momento intermedio dell'oscillazione
pendolare del tutto, trovandosi come al momento culminante della tensione su
cui la realtà tutta si scandisce, avendo in sé gli elementi e le forze su cui
si struttura la realtà, può conoscere la realtà stessa in quanto le sue
strutture coincidono con le stesse strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione
di Empedocle che il simile conosce il simile, che fra le parti vi è
un'attrazione simpatetica. Si pone cosi in maniera consapevole il problema del
conoscere, possibile in quanto le strutture della realtà coincidono con le
strutture del soggetto, in una identificazione delle parti del soggetto alle
parti dell'oggetto (con la terra vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con
l'etere l'etere divino, e col fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore
l'Amore e con la funesta Discordia la Discordia (fr. 109), ch'entrano in
comunicazione mediante effluvi emananti dalle cose e che penetrano nei sensi
per mezzo di pori. t evidente in Empedocle una forte preoccupazione
metodologica, per spiegare il ritmo della realtà tutta, una e, nell'unità,
molteplice. Fondandosi sui dati di un'esperienza totale, si rende verosimile
l'ipotesi fisica del tutto i cui termini opposti, idealmente dati (la fusione
di tutti gli elementi, la separazione degli elementi accanto agli elementi),
diano conto di quella che è in atto la presenza della realtà. Ipoteticamente
son cosi concepibili i due estremi dell'unica oscillazione e. la formazione e
la disgiunzione della situazione attuale. Dalla fusione del tutto, poi, via
via, si costituirono le cose: dapprima, ad esempio, sulla terra spuntarono
teste senza colli, ed erravano le braccia nude prive di spalle, vagavano occhi
soli sprovvisti di fronti (fr. 57). Molti esseri nacquero con doppie facce e
petti, e buoi con facce d'uomini, o sorsero busti umani con teste bovine, e
forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose (fr. 61). Per
giungere infine, attraverso il punto intermedio della parziale unificazione e
disgiunzione, alla totale disgiunzione degli elementi. Una, dunque, la realtà,
e molteplice a un tempo. Immobile nell'essere dei suoi elementi, mobile nello
svariare dellè congiunzioni e disgiunzioni, entro il ritmo delle due forze
opposte che governa il tutto, il tutto che sempre è, pur nelle sue facce
molteplici. Si capisce cosi come anche Empedocle {leghi ogni antropomorfismo,
come egli canti l'essere uno vitalità, “cpp-l)v”, ineffabile, che per tutto il
mondo si slancia con veloci pensieri (fr. 134), come l'appello alla natura sia-
un appello polemico, di contro a certe credenze popolari, un appello
all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita
che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo.
Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in
tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste
cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente. Tu
dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa
(fr. 2). L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli distoglie l'amico
Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò che appare
nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini volgari, per
richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se nella trama
serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se con spirito
puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno presenti e
molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono nell'uomo, ciascuna
secondo la sua natura (fr. 110). Attraverso l'indagine della natura, di
esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse,
l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola
in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica
con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi
vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati
venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i
coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la
pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda
acqua che nutre l'albero e le messi future (fr. 111). Di qui, probabilmente, e
da altri testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle
mago e taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora,
che non a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle
fa sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento
di mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios., 515c); che arresta la
pioggia, che salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo
moltiplicare gli esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a
sostegno di proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e
certi testi di Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando Empedocle
nel suo tempo (nacque nel 492 circa e muore nel 432), nella sua città, Girgenti,
in un'epoca di grande attività economica e politica, in una Sicilia in cui
sappiamo che circolano le idee di Senofane, di Pitagora, della scuola medica di
Crotone, di Parmenide, di Eraclito, la figura e la personalità di Empedocle non
hanno nulla di straordinario. Egli e uno scienziato, che, atraverso una serie
di esperienze, formula, tenendo presenti i risultati di Parmenide, di Eraclito
e la polemica di Senofane, l'ipotesi del tutto che costituito di quattro
elementi, fusi e confusi in una sola unità come sostrato, si distinguono ed.
esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il metodo di Parmenide e uno
metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un metodo empuiStlco e
razionale, che imposta, a sua volta, il problema del rapporto fra natura e uomo
che; parte della natura, può, in quanto sappia il ritmo della natura stessa e
la sua costituzione, modificare sé e la natura. Sotto questo aspetto la fisica
di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale, tesa, attraverso l'indicazione del
metodo e delle vie dd conoscere, a purificare gli altri, la maggioranza dei
cittadini ignoranti, legati a tradizioni, a riti, a concezioni che Empedocle,
conscio di una piu ardita cultura, sente come estremamente invecchiati e falsi.
Cosi, leggendo i pochi frammenti che sono rimasti dell'altro suo carme, “Le
purificazioni” {xot&otp!Lo(), si ha la consapevolezza precisa di trovarci
di fronte a un uomo vissuto in un certo ambiente, che ha la coscienza di
respirare una nuova atmosfera culturale, effettivamente civile, e in questo
senso purificatoria, di avere. contribuito a fare avanzare la scienza, che non
può essere solo patrimonio di alcuni, ma che diviene davvero operante in quanto
si divulghi, formi una diversa coscienza critica, un diverso equilibrio e
rapporto umano che diviene, dunque, azione politica, naturalmente entro i
termini di una certa situazione storica. In quanto rivolta ai piu, ai
concittadini di Agrigento popolosa e arretrata, la sua lezione può apparire
come profetica. Ma come storicamente, per non equivocare, non diremmo Empedocle
taumaturgo, cosi neppure lo diremmo profeta o mistico. Il suo discorso ai piu,
il carme pun"'ficatorio, è, in effetto, molto chiaro nella sua genesi,
quando lo si riconduce a quello che probabilmente ha voluto essere. Il discorso
di un saggio che rivolgendosi a un pubblico, a una massa, senza dubbio
arretrata, usa un linguaggio comprensivo per quel pubblico, al quale egli
appare, appunto perché sapiente, come un dio e un sacerdote di una nuova
religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi essere incantatrice, indicando
ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella necessaria discordia, la strada
dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque parola medica e politica. Amici,
che abitate la grande città che declina al biondo Acragante, sul sommo della
cittadella, uomini usi a fare buone opere, fidi porti di ospiti, che non conoscono
la perfidia, a voi salute. Io al vostro cospetto non piu· mortale, ma un dio,
mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono degno, coro- nato di bende e di
fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi seguono in grandissimo numero,
chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli uni vogliono oracoli, altri
di malattie innumeri domandano la parola che sana, lungamente da aspre doglie
trafitti (fr. 112). La via che guida a salute, la parola che sana. Aristotele
dice (secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” perduto) che come Zenone
di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA RETORICA, l'arte del dire.
E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un medico, e discepolo di Empedocle,
e che Empedocle scrive anche un trattato di medicina, e che ha contatti con i
medici di Crotone, con i medici pitagorici e con i medici agrigentini Pausania
e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza di queste notizie, ma sono
sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme Purificatorio
(ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una specie di
discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea dei discorsi
medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di Crotone (anche
se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a coincidere, data
una precisa concezione del tutto, con il movimento politico delle democrazie
sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle. Ora, se
in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere sull'uomo
come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere con .certe
visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su quelle, tende a
purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di torbido e
d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo cosmico, ove
nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano mitico si puo
sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il volgo dall'uso
dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti. Empedocle,
cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è divino, onde compito
dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si scandisce il tutto, tendendo
all'equilibrio delle forze, di Amore e di Discordia, senza far prevalere
Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe l'uomo stesso, per cui, anche
se l'aspirazione è all'unità totale e divina, tuttavia l'uomo, proprio perché
uomo è anche discordia e lotta, senza di cui neppure si renderebbe conto di
Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza di cui non istituirebbe
quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto, onde Empedocle sarà
cantato da LUCREZIO (1, 710 sgg.). Cosi se nel carme “Sulla Natura” leggiamo:
poiché Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo onore insorse,
compiutosi il tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in alterna vicenda per
ampio giuramento (fr. 30); nel Carme purificatorio éos1 suona il frammento 115.
V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dèi, suggellato di larghi piuramenti:
se mai alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte una lunga vita, macchi le sue
membra di sangue, o seguendo la Discordia empio spergiuri, vada errando tre
volte diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte
le forme mortali, permutando i penosi pensieri della vita. Perché la forza
dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida terra, la terra
nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici dell'aria, l'uno li
riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi anch'io sono, fuggiasco
dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle Discordia. Ma l'uomo è anche amore,
amore che si pone, mediante la discordia, come termine di realizzazione, onde
se da un. lato a questo porta l'indagine sperimentale e metodologica,
dall'altro a questo è possibile aniare i piu·mediante certe tecniche di
discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un tempo medicina e politica. Gran
parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso guaritore e resuscitatore di
morti, uomo divino e profeta, derivano da certi passi del Carme Purificatorio,
che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di Empedocle unà specie di santone,
accomunandolo non senza perché àlla leggenda di Pitagora, e, per altro verso, a
Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena della verità divina rivelatasi
attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche la morte di Empedocle è rimasta
avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella secondo cui Empedocle, per
disfarsi dell’estranea tunica di carne (fr. 126) che lo riveste, per tornare
(ed è evidente, in Plutarco e in Porfirio da cui è tratto il frammento, l'interpretazione
orfico-pitagorica) alla patria celeste, si sarebbe gettato nel cratere
dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei calzari di bronzo del filosofo
(cfr. Strabone, VI, 274; Diogene Laerzio, VIII, 70; Suda, s.v.). Ma altrettanto
sintomatica è l'altra leggenda secondo cui Empedocle, dopo aver resuscitato una
donna, durante la notte, dopo un banchetto, chiamato da una gran voce, in mezzo
a un immane bagliore, sarebbe scomparso in un'apoteosi, tornando, egli divino,
tra i numi del cielo (cfr. Eraclide Pontico, in Diogene Laerzio, VIII, 67
sgg.). Qui, d'altra parte, s'innesta LA RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica
la portata. Non preoccupiamoci - egli dice - dell'Essere e del Non-essere,
tanto l'uno e l'altro sono la stessa cosa. Che ci sia o non ci sia quel mondo è
lo stesso, perché non è conoscibile (Del non ente o della natura). Se ci
crediamo, accettiamolo. Ma esso non incide affatto su questo nostro mondo
umano, che è il mondo dell'illusione e dell'opinione su cui si agisce facendolo
e ordinandolo mediante la parola e l'arte della parola (RETORICA). L'Elogio di
Elena di Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno scherzo, ma è senza
dubbio uno scherzo assai serio, che proprio, in quanto esercitazione, mette
chiaramente a nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA, indipendentemente (come
Protagora) da ogni preoccupazione d'ordine logico-gnoseologico. La parola
domina tutta quanta la vita affettiva. Con la parola discipliniamo gli affetti.
La retorica, dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini, meglio nella
istituzione della vita sociale. È appunto giuocando passione con passione, sentimento
con sentimento, che possiamo costruire una società umana. E poiché la passione
di una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la
passione di un altro, di qui l'importanza del sapere usare le parole, volta a
volta, l'importanza delle tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio
del come accentuare parole, o porre parole accanto a parole. Cosi non .1 caso
Gorgia nell'Elogio di Elena vede subito la relazione che corre tra la retorica
e la poesia. Le parole della poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e
particolari esperienze. L'anima attraverso i discorsi uditi si modifica. Il
discorso cosi è visto come espressione da una parte e dall'altra come capacità
di modificare il modo dei rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e
opinione. E sentimento e opinione sono parole. E la parola che trasforma e
costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere
le virtu, indi- [Figlio di Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a Leontini,
in Sicilia, probabilmente tra il 485 c il 480. Sembra sia stato discepolo di
Empedocle ed abbia risentito gl'influssi della scuola di Velia e di quella
pitagorica. Con sicurezza sappiamo che nel 427 venne ad Atene, ambasciatore di
Leontini, per chiedere aiuti contro Siracusa. Ad Atene ha molto successo e
determina un notevole influsso sulla letteratura oratoria. Itinera poi in
Tessaglia, in Beozia, ad Argo. E certo a Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni.
Senza dubbio e altre volte ad Atene e qui tenne un famoso Epita/io. Muore
vecchissimo - quasi tutte le antiche testimonianze dicono a 109 anni - in
Tessaglia presso Giasone, tiranno di Fere. Suoi discepoli furono: Menonc
tessalo, Licofrone, Isocrate, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Prosscno di Beozia,
Polo di Girgenti, Licimnio, Protarco, Alcidamante di Velia. Le sue opere piu
famose sono: “Intorno al non ente o intorno alla Natura”, “L'elogio d’Elena”;
“L'apologia di Palamede”; “Epitafio”; “Discorso olimpico”; “Discorso pizio”.
Forse è di Gorgia anche un trattato su L'arte oratoria.pendentemente da cosa
sia la Virtu con il V grande. Sotto questo aspetto estremamente importante,
proprio per rendersi conto dell'appello al concreto dei primi sofisti, appare
il fatto che Gorgia, ad esem-pio, non intende ricercare cosa sia la Virtu, ma,
a chi gli chiedeva cosa è Virtu, risponde. La virtu di chi? Del bambino,
dell’uomo virile, o del vecchio? della donna o dell'uomo? (cfr. Platone,
Menone, 71e; Aristotele, Politica, I, 1260a, 17). La seconda fase dei
pitagorici secondi. Le indagini matematiche. Ippocrate di Chio Secondo la
leggenda, dalla distruzione della casa dei pitagorici a Crotone si salvarono
Liside e Archippo. Liside si sarebbe rifugiato a Tebe, ove, sembra, avrebbe
fondato un circolo pitagorico di cui un prosecutore sarebbe stato Filolao,
fiorito nella seconda metà del V se- colo, che sul finire del 400 sarebbe
andato in Italia. Archippo si sa- rebbe, invece, rifugiato in Taranto, ove avrebbe
proseguito l'opera di Pitagora, proseguita a sua volta da Archita di Taranto,
uomo politico di vaglia, contemporaneo e amico di Platone. In realtà di Filolao
e di Archita sappiamo molto poco.1 Non ~enza una qualche ragione, anzi,
particolarmente per quel che riguarda Fi- lolao, si è giunti a dubitare che gli
stessi frammenti che si ritengono proprii dell'opera (Sulla natura) di lui,
siano in effetto rielaborazione, se non falsificazione, di Speusippo, il nipote
di Platone e suo succes- sore nella direzione dell'Accademia, che avrebbe
composto un libretto Sui numeri dei Pitagorici (cfr. Throlog. Arithm., p. 82,
10 De Falco). Platone nel Fedon pur discutendo alcune tesi pitagoriche, rivela
un suo pitagorismo, soprattutto per quel che riguarda il mo- tivo dell'armonia
dei contrari, e cosi:, in piu passi degli altri dialoghi l in particolare nel
Filebo e nel Timeo, sembra riallacciarsi a certi mo- tivi che paiono tipici di.
Filolao (armonia del limite e del non limitato, armonia cosmica), e di Archita
(armonie musicali). Ad ogni modo l'ac- cenno che nel Pedone Platone fa
direttamente a Filolao è molto so- spetto: O come,.Cebète, non avete, tu e
Simmia, udito parlare di questi argo- menti, voi che siete stati discepoli di
Filolao? Si, ma niente di preciso, Socrate. Anch'io, veramente, solo per averne
udito parlare di queste cose (Fedone, 61tl). Chi abbia un po' di pratic~ dei
testi platonici sa che generalmente Platone usa questi giri di frase allorché
vuoi mettere sugli attenti in- torno a certe dottrine. Nel caso preciso Platone
avverte che la tesi che sta per esporre, appunto quella dell'armonia del tutto
cui si giunge at- traverso l'analisi di se stessi (ché le nostre strutture
corrispondono alla ragion d'essere del tutto) non è né tesi di Socrate né di Filolao,
ma interpretazione personale, volta a certi scopi precisi e diversi. Tal-
volta, effettivamente, dietro alcune tesi platoniche si nascondono mo- tivi
esistenti, ma che in realtà avevano storicamente tutt'altro signifi- 1
Scarsissime sono le notizie sicure su Filolao e su Acchita. Di Filolao sappiamo
che visse nella seconda metà del V secolo: fu senza dubbio contemporaneo di
Socrate (dr. Feàone, ove Socrate parla di Simmia e Cebete di Tebe che avevano
ascoltato Filolao). "Demetrio negli Omonimi dice che Filolao fu il primo a
pubblicare i libri dci Pitagorici, col titolo Della natura " (Diogene L.,
VIII, 84-85). Su questo e sull'esistenza di un'opera di Filolao si è molto
discusso e la questione è ancora aperta. Di Acchita di Taranto, sappiamo che
visse a cavallo tra il V e il IV secolo, che fu uomo politico di vaglia,
signore di Taranto, amico di Platone (cfr. VII lettera, 338b, 339a) che riusci
a far partire Platone da Siracusa, quando Platone nel 361/60 si trova in quella
città semi-prigioniero del tiranno Dionisio (VII lettera, 350a). Secondo
Aristosseno (fr. 48 Wehrli) Acchita, quando fu stratega, non fu mai sconfita~:
ritiratosi dal comando, cedendo all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato.
Questo, con tutte le cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto
un certo aspetto, di Archita: Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le
conclusioni dell'Uno massiccio di Parmenide, rielabo- rato un pitagorismo a
modo suo, pur rifacendosi a certi motivi che po- tevano scaturire dalla
discussione di Filolao nei confronti dell'Essere di Parmenide. E questo
particolarmente appare da certe pagine del Par- mmide e del Filebo, ove sono
alcune espressioni che sembrano coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao,
ma che in effetto vanno molto oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai
frammenti di Filolao. Es- sendo, dunque, possibile una distinzione tra Platone
e Filolao, senza arrivare a sostenere una troppo raffinata falsificazione da
parte di sco- lari di Platone, che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a
bella posta, la cosa piu probabile sembra sia la seguente:- del secondo
pitagorismo ciò che appare di piu altamente metafisica, in un'aspirazione
all'ordine supremo del tutto, è in effetto rielaborazione platonica in primo
luogo, poi rielaborazione di Aristotele. Piu probanti, per tentare di
avvicinarsi alle tesi storiche del se- condo pitagorismo, sembrano certe pagine
di Platone in cui si pole- mizza contro coloro che si occupano di geometria, di
aritmetica, di astronomia, di teoria musicale: loro difetto sarebbe, secondo
Platone, di non essersi elevati al primo principio, alle strutture dialettiche
dell'essere, per ri~anere sul piano delle ipotesi e della traduzione del visibile
in termini geometrici e aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c
sgg.). L'abbiezione di Platone, che implica tutt'altro problema, il problema
della ragion d'essere del tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel
suo contenuto - che ai pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto,
rifacendoci a certi frammenti di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta
da Aristotele tra i pitagorici del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici
del tempo degli atomisti, sembra che si possa realmente parlare di un secondo
pitagorismo, facente capo a Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto
matematici o per lo meno in quanto sono partiti da osservazioni o da scoperte
di carattere aritmetìco e geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo
- nome generico, - entro cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti
coloro che si sono occupati di matematica e di armonia. Tale il significato
della testimonianza di Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli
atomisti, afferma: vi furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle
scienze matematiche, le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello
studio di esse, vennero nell'opinione che i principii delle matematiche fossero
i principii di tutti gli esseri. E poiché i principii della matematica sono,
naturalmente, i numeri, parve loro di vedere nei numeri, piu che nel fuoco,
nella terra e nell'aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono
(Metaf., 958b). Aristotele, dunque, non solo distingue tra i pitagorici del
tempo di Pi~agora, cui sarebbe attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e
i cosiddetti pitagorici di un tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in
particolare, attribuisce il progresso delle scienze matematiche, in- tese come
scienze del numero, e la tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a
numero, cioè a quantità. Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la
tesi che elementi del numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il
secondo, finito; e l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita
di entrambi gli elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf.,
986a). Mentre nei primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde
vedemmo la critica di Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di
risolvere sul piano matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri
termini con Filolao e poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte
aritmetiche e àltre musicali abbiano -portato a impostare il pro- blema della
pensabilità del reale sul piano del discorso, possibile qua- lora si riduca a
quantità il pensabile stesso, ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e
misurabilità resa possibile dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu
uno o altro punto della serie, ma il discorso stesso come armonia di punti (finiti
e infiniti), cioè come condizione di quelli e quindi come "
parimpari," per cui ogni aspetto comprensibile del reale è pari e dispari,
è unità (monade) e diade. L'unità e la molte- plicità si conciliano cosi in una
serie infinita di numeri, che si ritmano nell'unità del discorso, come armonia,
e come armonia dei contrari: l'armonia nasce solo dai contrari: perché
l'armonia è unificazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi
discordanti (Filolao, fr. 10). Il che non significa èhe per Filolao l'uomo
colga l'essenza ultima della realtà: la causa o le cause prime - saranno questi
i problemi di Platone e di Aristotele. Egli pone semplicemente e concretamente
la possibilità di pensare il reale : la sostanza delle cose, che è eterna, e la
natura stessa richiedono conoscenza divina, non umana; solo che nessuna delle
cose che sono e noi conosciamo 106 sarebbe potuta esistere, se non
ci fosse la sostanza delle cose che compòngono il cosmo, delle limitanti e
delle illimitate (fr. 6). Ora, poiché le cose appaiono come aventi qualità
infinite, esse non sarebbero pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse,
cioè se non si potessero ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile
me- diante la numerabilità e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu-
meri, divisipili (pari) e indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui
corrono rapporti di misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè
quell'unità che è condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si
conoscono- dice Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile
pensare né conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il
dispari e il pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due
mescolate. Molte forme ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa
le rivela (fr. 5). Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di
conosce- re o di cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale
sia la condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la
scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno
tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole
cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma questo,
armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co- noscibili
esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar corpo e
distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di quelle
limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte le cose
con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste nell'armonia, nel
numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna menzogna accolgono
in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la menzogna. La
menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e dell'inintelligibile
e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria della specie dei numeri
(fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico, per cui ciò che nel-
l'immediatezza sensibile appare come continuo e indefinito, illimitato, diviene
intelligibile in quanto si numera, in quanto ciò che si defi- nisce non è piu
né acqua, né terra, né fuoco, né altra qualità, ma è traducibile in figure, in
forme (mediante lo gnomone), costituite di piani, di linee, di punti; e i
piani, le linee, i punti (gli originari punti, o ciottoli dei primi
pitagorici), i numeri interi della serie (tutti uguali l'uno all'altro), si
articolano fra di loro, in una unità discorsiva, che dunque non è nessuno dei
punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi ad un tempo pari e dispari,
una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose sono necessariamente o
limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e illimitate. Soltanto cose
illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in Giamblico si legge. Secondo
Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia oggetto conoscibile, se tutti
gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3); cosi. come non ci sarebbe
conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla constatazione che nulla è
pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si colgono le figure ddle
cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune, viene l'affermazione di
Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi illimitati e di elementi
limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le sue parti (fr. 1). Ora, se
è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le figure, le forme, “idee”, delle
cose si costituiscono di numeri, è altret- tanto vero che ogni cosa ha un suo
numero, e che, reciprocamente i numeri si determinano come figure: punti,
linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi e cosi via. Nascevano di qui i
problemi grossi dei rapporti tra le figure, che tradotti in numeri ponevano il
problema delle proporzioni, a loro volta fondamento delle tecniche, ad esempio
ar- chitettoniche, statuarie, e musicali. La natura del numero e la sua grande
potenza - dice Filolao - le si vedono ... anche in tutte le attività e in tutte
le parole degli uomini, sia nelle attività tecniche che nella musica (fr. Il).
E Archita: la scoperta del calcolo ha fatto cessare le discordie e ha
accresciuto la concordia. Non è possibile che ci sia sopraffazione da che esso
è stato trrntc: c'è invece parità. Per esso infatti ci accordiamo nelle
relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri ricevono dai ricchi e i ricchi
dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli altri di avere la loro parte.
Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i torti (fr. 3). Quanto al
cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione del- l'universo ed alla
sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un lato può darsi che Filolao
abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e forse risalenti allo stesso
Pitagora (come, ad esempio, il motivo della sfericità della terra, del moto dei
punti, costituenti le figure, del moto inteso come respiro dell'universo),
dall'altro lato il tentativo di tradurre in figure piane e solide, gli elementi
come il fuoco, la terra e cosi via, può essere sospetto, soprattutto per quel
che riguarda le figure solide e i loro rapporti, “sterometria”, perché la
stereometria, come appare chiaramente da Platone, che ne fa un solo accenno
nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel Tim~o, fu studiata da Teeteto
- discepolo di Teodoro che è senza dubbio alquanto posteriore a Filolao. Può
cosi essei:e giustificato il sospetto di una rico- struzione a posteriori,
formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo primo e secondo (l'accentuazione
dell'armonia musicale, il tentativo di matematizzare l'astronomia rifacendosi
all'aritmetica e alla musica), in cui sono presenti anche ipotesi platoniche,
democritee, eudossiane. In effetti i frammenti che si dicono propri di Filolao
o i frammenti di altri pitagorici del tempo o anche anteriori, sono troppo
pochi, brevi, e inseriti in testi troppo posteriori per giustificare sia una
concezione cosmologico-cosmogonica propria di Filolao, sia una concezione
cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court. Non solo, ma non va scordato
che possiamo ricostruire tale concezione pitagorica solo attraverso
testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di Simplicio che non cita
Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da Aristotele, e da Aezio
che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco, intorno al quale
ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato alla decade,
alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che non ha dunque
posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato da un primo
alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che sembra risalire
a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in- determinato spazio
vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con distanze uguali dal
mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si trovano sopra la 109
parte centrale sono dalla parte opposta rispetto a quelle che si
trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto alla parte
centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte (Filolao, fr.
17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da esso si
generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono o la
torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato,
l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si
determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la
realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente intorno
al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo: la terra
e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché ruotante
insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti (Mercurio,
Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao dice che il
sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che è nel
centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna e,
infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi, sempre
secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la parte
estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro
purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in
cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare
dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo
Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi
celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la
dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là
dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la
tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è
quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia,
trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr.
Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra,
infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina
dell'armonia delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita
direttamente i pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una
posteriore interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento
degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e
questi sono consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi
grandi, ne nasca un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che
sono quaggiu, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può,
dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e
della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta
velocità. Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in
relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò
dicono armonico il suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che
questo suono non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre
dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e
quindi non possiamo distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto
perché sono in contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che
accade ai fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu
(De coelo, II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco,
che è al centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del
tutto, cosi: sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo
musicale. L'anima, in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come
l'uno centrale, il focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra
gli elementi contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce,
essendone la condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto
questo aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima,
ché l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la
condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che
è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche
se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei, dovrebbe
venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le dottrine
cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha fatto
risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del primo
e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e sistemazioni
posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe conce- zioni
proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da Teeteto (cfr.
la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale icosaedro, aria
uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale dodecaedro), sono state
piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao (cfr. E. Sachs, Die
fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette pitagoriche sono in
realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono interpretazioni che,
comunque, rispondono ;~ problemi e ad esi- genze di altri pensatori in altre
situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei secondi pitagorici, o
almeno dei 111 matematici della seconda metà del V secolo, è il
valore dat~ all'i(lotesi, intesa etimologicamente come il presupposto che
permette un. certo ragionamento; ipotesi matematiche che permettono appunto di
pensare e che hanno estrema importanza per le tecniche, come sottolinea Fi-
lolao. Di qui la critica di Platone a coloro che si sono occupati di geo-
metria, di aritmetica, di astronomia: essi hanno formulato i(lotesi, ma da
queste non sono giunti ai fondamenti primi, o meglio, al contrario, a queste
.non son giunti dalla suprema ragion d'essere (cfr. Ref1., 510c); e la critica
di Aristotele secondo cui i pitagorici sarebbero rimasti sospesi fra il
sensibile e l'intelligibile (Metaf., I, 987a). Ha cosi ragione Abel Rey (La
science dans l'antiquité, Parigi) quando sostiene che i pita- gorici hanno
insistito sui " primi principii della scienza che non sono però i primi
principii in se stessi assolutamente parlando." Entro questi termini può
essere opportuno ricordare che a Filolao sembra si debba la scoperta e lo studio
della proporzione o medietà ar- monica (di quarta, di quinta, di ottava),
accanto alla proporzione arilm~ tica (le cui proprietà furono formulate
da.Archita) e a quella geometrica. Queste ricerche e studi appaiono come
l'aspetto piu saliente del secondo pitagorismo, insieme a un altro problema che
si presentava loro, e che, forse, entrava in contrasto con la teoria dei
punti-unità dei primi pi- tagorici, il problema degli incommensurabili o numeri
irrazionali (detti prima indicibili, 4ppYjTat; poi irrazionali, 4>-oyo'),
che tuttavia po- neva le basi di nuovi rapporti e misure, la possibilità del
passaggio dalle figure piane (geometria), alle solide (stereometria). Di qui da
un lato il problema della duplicazione del quadrato e dall'altro il problema della
duplicazione del cubo, che vennero spostando il problema da un'inda- gine piu
strettamente aritmetica a una indagine che divenne sempre piu strettamente
geometrica. Non sappiamo con precisione a chi risalga la teoria delle grandezze
irrazionali. Probabilmente si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo
applicare il teorema detto di Pitagora (la duplicazione del quadrato) al
triangolo rettangolo isoscele, ci si accorse ch'era impossibile misurare e
indicare con un numero la diagonale del quadrato di lato l. Senza dubbio il
motivo degli irrazionali fu poi approfondito da Teodoro di Cirene e quindi da
Teeteto, come risulta chiaramente da Platone. Quanto alla duplicazione del
cubo, o problema di Delo (cosi detto perché secondo la leggenda, conservataci da
Eutocio, l'oracolo di Odo avrebbe richiesto agli abitanti di Delo di duplicare
uno degli al- tari del tempio, clie aveva forma cubica), sembra che per primo
vi si 112 sia dedicato il matematico Ippocrate di Chio, che venuto
ad Atene per ragioni di commercio vi si stabill insegnando matematica tra il 450
e il 430, scrivendo i primi elementi di geometria ed entrando in rap- porto coi
maggiori esponenti della cùltura ateniese. lppocrate applicò alla duplicazione
del cubo il metodo, da lui stesso scoperto, detto apagogico, che consiste nel
ridurre un problema a un altro problema, di modo che, se il secondo è risolto,
o dimostrato, lo è ugualmente il primo. Egli stabilisce cosi che il problema
della duplicazione del cubo era di trovare due medie proporzionali fra due
numeri dati e non una sola media come per la duplicazione del quadrato (cfr. P.
H. Michel, La science hellène, in Hist. génér. des Sciences, Parigi, l, p.
236). Sempre a Ippocrate di Chio sembra si debba l'impostazioné del problema
della quadratura del circolo, cui credette di poter giungere mediante lo stu-
dio dell'area delle lunule, che, se non risolse la quadratura del circolo,
servi a formulare nuovi teoremi. In questa epoca il problema della quadratura
del circolo fu ripreso e discusso anche da lppia di Elide, che mediante la
curva la lui detta di Ippia o
quadratrice, se non risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della
trisezione dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando
indefinitamente il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un
cerchio; e da Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV
secolo, che oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non
a caso ci siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a
questioni precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si
era formulato con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come
inesistente, ché nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo
di ricerche (volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la
realtà, o delle condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle
che esplicano il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da
costituire una ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende
ciò che allora s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto
(come avverrà con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in
senso gene- rale, diremmo che la filosofia della seconda metà del V secolo, fu
la matematica, la fisica, lo studio di quello che è il modo umano di pen- sare
e di parlare, la retorica, l'indagine di come gli uomini istituiscono rapporti,
di come l'uomo è religioso. Entro questi termini culturali ed entro questo tipo
di ricerche rientrano esattamente anche le indagini di Democrito.'A tal
proposito sembra, anzi, interessante ricordare che già sulla metà circa del II
secolo si venga sempre piu definendo il campo pro- prio della dialettica e
particolarmente della retorica come scienze a sé, approfondendone il
significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco che sappiamo della
Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a Carneade si recò a
ROMA per l'AMBASCERIA DEL 155, il quale vedeva nella retorica l'arte con cui si
formano uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet., I, p. 333.
Sudh.); o dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre
Ermagora di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative
alle questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten),
delineò la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere
generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono
essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella
giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in
Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce
come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole,
o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi
stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche,
indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui
il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per
prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo
dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un
ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e
strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in
modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre
sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica
crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in
un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che
piu forte- mente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che
si vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta
l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti
con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra
difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di
quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui
esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili
a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e
sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze,
che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua
logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati,
e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato,
dall'e·sposi- zione che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di
Ze- none, di Cleante e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante
e a Crisippo, la stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo
cos1 solo sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi
in una catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per
analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e
la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile
discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un
atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul
probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla
logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno
o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto
ba- sate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale
diamo quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente
ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella consapevolezza
critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si libera
accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le mosse, ha
possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e volontà umana
possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date una mossa
piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la spinta a
un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di girare,
cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in nostro
potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli stessi
gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e delle
menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno e
l'indole degli animi (Cicerone, De fato, 41-43; Aulo Gellio, Notti Attiche,
VII, 2). Altro di Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili
discussioni sugli indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente
certi sviluppi relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli
uomini sono uguali e, idealmente almeno, hanno quindi tutti gli stessi diritti da natura (il giusto
è per natura e non per convenzione, come anche la legge e la retta ragione,
secondo dice Crisippo ": Diogene L., VII, 128), le interpretazioni
allegoriche degli dèi, alcune affermazioni paradossali, sono certo posteriori a
Crisippo, e se prestiamo fede alle ricostruzioni di Cicerone, furono proprii
della Scuo- la e in particolare di Diogene di Seleucia o di Babilonia e di
Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone di T arso, successero nello scolarcato
della Stoà durante il II secolo. Secondo Antipatro si deve rivelare ogni cosa,
perché il compratore non ignori nulla di ciò che conosce il venditore: e per
Diogene il venditore deve dire i difetti di ciò che vende, fin quanto vuole la
legge; per il resto agisca senza inganno e, poiché vendè, venda nel modo
migliore... E mentre Antipatro dice: " M a come? Mentre devi provvedere
agli uomini e ren- derti utile al consorzio umano, a tale scopo sei nato, e
riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo è inseparabile
dall'utile comune e vice- versa, terrai nascosto agli uomini quel vantaggio che
può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro è tacere. (Cicerone,
De officiis, III, 51-52). In effetto sembra che se da un lato molte delle
discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di esercitazioni
dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali esercitazioni ponevano il
problema della eticità su di un piano casistico, che venne, non poco, spostando
la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo una maggiore duttilità nei
confronti delle singole situazioni politiche, mentre il motivo dell'ugua-
glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione naturale assu- meva
significato polemico di fronte alle sempre piu gravi sperequa- zioni sociali,
anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove tutto si dispone in ben
precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva giustificare proprio
quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento polemico, invece, tanto
meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III secolo (Bione di
Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli, Telete), che, mantenendo
il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo di società, nelle loro
satire e diatribe e meliambi, forme letterarie propriamente popolari e rivolte
al popolo, vennero puntando l'accento sulla sperequazione tra ricchi e poveri:
Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non toglie ai ricchi la loro maialesca
ricchezza? A quali signori, dunque, a quali celesti dovremo rivolgerei, per
avere il giusto compenso, quando il Cronide, che tutti ci ha generati, che
anche a noi ha dato la vita, degli uni si mostra padre [dei ricchi], degli
altri patrigno [dei poveri]? (Meliambo I, v. 9, w. 23-27). Alla morte di
Crisippo, avvenuta ad Atene tra il 208 e il 204, sco- larca dell'Accademia era
Telecle, successo a Lacide di Cirene, ch'era stato a capo della Scuola dalla morte
di Arcesilao (240 circa) al 223. Di Lacide, ch'ebbe notevole fama di maestro,
che fu circondato da molti discepoli venuti ad Atene da· tutte le parti del
mondo greco, sappiamo solo che espose per scritto il pensiero del maestro.
COs1, poco o niente sappiamo di Telecle, morto verso il 178, e meno ancora del
suo successore Evandro, che lasciò la direzione dell'Accademia a Ege- sino di
Pergamo, al quale successe il discepolo Carneade. Di altri Ac- cademici di
questo periodo sappiamo solo i nomi, Aristippo di Cirene e Pitodoro, che dedicò
i suoi scritti all'esposizione delle argomentazio- ni di Arcesilao (si cfr.
Diogene L., IV, 51; Il, 83; lndex Herc., XXVII, 9; Cicerone, Lucullus, VI, 16;
Suda, s. v. Aotxu31Jc;). La loro importanza sembra, dunque, soprattutto dovuta
all'avere costituito una tradizione arcesilea, prendendo le mosse dalla quale
Car- neade,1 in un approfondimento delle argomentazioni di Arcesilao,
serratamente discusse gli scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non fosse sta-
to, neppure io sarei : Diog. L., IV, 62) e le tesi stoiche elaborate dai
discepoli di Crisippo, Diogene di Babilonia, alla cui scuola fu Car- neade
(Cicerone, Lucullus, XXX, 98), e Antipatro di Tarso, contempo- raneo di
Carneade, del quale si dice che mai osò attaccare Carneade nella scuola o in
piazza, preferendo difendere lo stoicismo attraverso gli scritti (Numenio, fr.
5). Nato a Cirene nel 219 circa o nel 214, in una città ricca di tradizioni
scientifiche e culturali - da dove erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene
tra il 219 e il 214, Carnéade venne ad Atene in un'epoca che non è dato
precisare. Ad Atene si preoccupò soprattutto di rendersi conto delle varie com-
ponenti culturali: ascoltò Egcsino di Pergamo, scolarca dell'Accademia, Diogene
di Ba- bilonia, scolarca della Stoà e discepolo di Crisippo. Fu uomo di
vastissima cultura, dia- lettico sottile, buon parlatore. Successe nello
scolarcato dell'Accademia a Egesino di Per- gamo. Probabilmente fu proprio la
sua fama di dialettico e di buon parlatore che fece decidere gli ateniesi ad
inviare a Roma Carneade insieme allo scolarca della Stoà Dio- gene di
Babilonia, e allo scolarca del Peripato, Critolao, in qualità di·ambasciatore
presso il senato romano (155 a.C.). Gli ateniesi, condannati da Roma a pagare
una·forte multa per avere saccheggiato Oropo, inviarono Carneade, Diogene di
Babilonia e Critolao, a Roma perché cercassero di far ritirare il
provvedimento. Giunti a Roma e non ascoltati subito dal senato, i tre
ambasciatori presero contatto coi giovani romani, discutendo con loro di
filosofia. Chi fece la massima impressione, per la sua arte dialettica, per
avere un giorno esaltato la giustizia e il giorno dopo, con altrettanti
argomenti convincenti, sostenuto che la giustizia è stoltezza, fu
Carneade. gli accademici Aristippo e
Lacide, - Carnel).de, ad Atene, ascoltò le lezioni e le discussioni dei
maggiori maestri, dallo scolarca dell'Accade- mia Egesino di Pergamo a Diogene
di Babilonia, scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”, VI, 16; XXX, 98).
Studioso e lettore attento di scritti filosofici di ogni provenienza dice
Cicerone che Carneade co- nosceva a fondo ogni parte della filosofia:
Va"o, XII, 46, - ottimo parlatore e sottile dialettico, sembra che per
queste sue doti sia stato scelto da Egesino a succedergli nello scolarcato
dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non abbia scritto nulla, indica
chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della filosofia come
sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non tanto un
atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un continuo
richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibi- lità umane
verso cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la
discussione di Carneade si svolge al di dentro della stessa lo- gica dello
stoicismo. Carneade non oppone allo stoicismo altra conce- zione, sia pur
rovesciata, ché sempre si sarebbe trattato di una " filo- sofia," ma
egli, riconoscendo con lo stoicismo, o meglio con Crisippo, che i fondamenti
del discorso umano sono da un lato i dati dell'impressione sensibile e
dall'altro lato l'attività del soggetto che ordina e unisce in nessi e
implicazioni quei dati stessi, proprio per questo, non po- tendo la ragione
umana uscire da se stessa e dal proprio discorso, sottolinea l'illeceità del
passaggio dal discorso umano ad un presun- to discorso della realtà. E,
soprattutto, usando il metodo delle anti- Carneade visse fino al 129 circa.
Intorno al 137, vecchio e ammalato, aveva lasciato la direzione dell'Accademia,
che passò al discepolo Carneade di Polemarco che prem.ori al maesto (131). Lo
scolarcato dell'Accademia fu quindi tenuto da Cratete di Tarso, al quale, morto
nel 129, successe Clitomaco di Cartagine. Carneade non lasciò scritti. Su di
lui e sul suo modo di pensare scrisse Clitomaco, che, probabilmente, fu la
maggior fonte di Cicerone. Per utilità ricordiamo che dopo Platone scolarchi
dell'Accademia furono: Speu- sippo (347·339), Senocrate (339-314), Polemone
(314-270), Cratete di Atene (270-268), Arcesilao (268-240), Lacide (240-223),
Tclecle (223-178), Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di Diogene di
Babilonia e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma nel 155, sappiamo
molto poco. Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, successe nello
scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso: soprattutto si occupò di dialettica e
di retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante (264-232),
Crisippo (232-208), Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i frammenti di
Critolao, nativo di Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su di lui.
Successe nello scolarcato del Liceo ad Aristone di Ceo che scrisse una “Storia
del Peripato”, in cui sono inseriti i testamenti degli scolarchi suoi
predecessori. Critolao fu il quinto scolarca del Liceo, dopo Aristotele:
Teofrasto (322-288/86), Stratone di Lampsaco (288/86-27-2/68), Licone di Troade
(272/68-228/25), Aristone di Ceo, Critoli10. A Critalao successe Diodoro di
Tiro. 274 logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di
affidarsi a una qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la
possibilità che una dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui,
di contro ad ogni tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi
o del divino, l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle
proprie possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo
tipo di filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della
serietà dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di
scienza delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per
volta il limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la
consapevolezza dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero.
Carneade, certo, non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda
i limiti della logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e
della Legge, e senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della
libertà e della umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di
Carneade alla consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al
significato e alla funzione che ha il fi- losofare, non è un vuoto appello, ma
una concretissima presa di po- sizione, nei confronti di tesi che finivano per alienare-
l'uomo, in una situazione storica particolarmente favorevole a simili evasioni
ed evi- tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto alla
discus- sione svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica,
della veracità o meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capa-
cità di discernere i ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della ne-
cessità della epoché (discussione, del resto, anche se piu approfondita, molto
simile a quella svolta da Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la
precisa problematica posta da Carneade nei confronti del- l'impossibilità di
porre da un lato una realtà fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là
dove dev'essere necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una
legge universale, e, dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per
cui almeno alcune cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si
decide né per l'una né per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre
l'inconciliabilità tra libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire
il proprio mondo e d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è
legge. Ma nel sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguen-
za ed a consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran
parte del pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel
quale si vede bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce
e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono
dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della
scuola aristotelica, che svincolando il filo- sofare dalla ricerca delle cause
prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine
delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per
altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche
ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone,
con- tro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione dell'u-
niverso. Ed infine pensiamo agli stessi Stoici, in particolar modo a Zenone e a
Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale,
che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte
degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove
giovani si erano formati - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe
proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di
implicazioni dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non
è, presa in sé, né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter
affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto
impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi
l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio
perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro
(antilogia), ogni di- scorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità -
la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le
impres- sioni e i relativi ricordi, per cui la stessa dialettica, intesa come
scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nei discorsi, non ha alcun
criterio assoluto e quindi è vana, sf come vano sul piano ontologico si rivela
il criterio dell'analogia con cui gli Stoici hanno costruito la loro
cosmologia, la loro concezione del divino, della Provvidenza, con cui provano
l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Co- struzione
umana, gli umani discorsi e le umane verità, le une e gli altri validi entro i
termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa
giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio
utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e,
nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto
alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile
proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste
affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della
stoltezza, perché in servizio del vantaggio a ltrui nuocerebbe a se stessa
(Lattanzio, Div. inst., V, 276 16, 2-3). C'è, dunque, un diritto
civile, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la
giustizia in due parti, chiamando l'una so- ciale e l'altra naturale, Carneade
le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera
giustizia, e la seconda è 1..erto naturale giustizia, ma non saggezza
(Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto
negare la giusuz1a o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia,
ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di
là dall'uma- no discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del
tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia
Cicerone, confutò la giust1z1a, non già perché pensasse che essa dovesse essere
ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla
giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo
stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la co- smologia, la
provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi
stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni
stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle antilogie sia
ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all"' ironia"
socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone,
Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De
finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra
parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di
quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si
costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a
porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso
tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un
possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione.
Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito
non· contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un
sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul
probabile o cre- dibile (7tr.&«vov- pithan6n ). Molto si è discusso sul
significato che ha in Carneade la tesi del credibile. " È invalso
l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp.
515-16}, di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithan6n,
che darebbe fondamenmente si scandisce e la volontà come capacità di realizzare
in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla
soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando il
filo- sofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la
funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la
costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa,
del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro
l'astrologia e la dialettica di Platone, con- tro il sillogismo di Aristotele,
contro la matematicizzaione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi stoici,
in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici,
alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico -
non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali,
particolarmente semitiche, ove giovani si formano - poteva aver quell'esito,
che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si
costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna
delle quali non è, presa in sé1 né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio
per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto
impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi
l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio
perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro
(antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità -
la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impressioni
e i relativi ricordi, per cui la stessa DIALETTICA, intesa come scienza che
dovrebbe distinguere il vero dal falso nel discorso o dialogo, non ha alcun
criterio assoluto e quindi è vana, si come vano sul piano ontologico si rivela
il criterio dell'analogia con cui gli stoici hanno costruito la loro
cosmologia, la loro concezione del divino, della provvidenza, con cui provano
l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Cotruzione umana,
le umani discorsi e l’umane verità, le une e gli altri validi entro i termini
della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è
storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal
momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di
una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto
naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio,
sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la
giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in
servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V,
276 16, 2-3)... C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto
naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti,
chiamando l'una so- ciale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue,
dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda
è terto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il
che, ancora una volta, non significa affatto negare la giust1z1a o opporre alla
tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di
cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'uma- no discorso e dalle
situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su
cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giusUZla, non già
perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i
suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento
certo e solido (Rep., III, 7, 11). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che
riguarda gli dèi, la co- smologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale
e naturale) e cos1 via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire
fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà
sia ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti,
sia all'ironia socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto,
Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII,
XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim).
D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e
di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui
si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a
porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso
tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un
possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione.
Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito
non· contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un
sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul
probabile o credibile (7tt&otv6v- pithanon). Molto si è discusso sul
significato che ha in Carneade la tesi del credibile. " È invalso
l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp.
515-16) di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon,
che darebbe fondameoto al suo probabilismo, come anche di considerare il
probabilismo del tutto a parte rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per
con- tro, un attento esame della questione porta a concludere che, anche a
proposito del problema dell'azione e del motivo della probabilità, Carneade non
ha fatto che attenersi al classico metodo della ritorsio- ne polemica nei
confronti dello stoicismo. Crisippo sostenne che il probabile conduce all'assenso,
ma non certo all'assenso della rap- presentazione comprensiva; mentre tale
assenso infatti è criterio di verità, la probabilità è causa permanente di
errore; ci si potrà difen- dere da esso percorrendo interamente ogni
enunciazione, evitando che il conflitto delle ragioni in pro ed in contro ci
distolga dalla rappre- sentazione comprensiva, evitando soprattutto che
l'indebolimento del- l'assenso ci porti a !asciarci sfuggire la
rappresentazione comprensiva. Ebbene, Carneade rispondeva all'incirca nei
termini seguenti: il vostro criterio, o stoici, della rappresentazione
comprensiva non è in fondo che un pithan6n, ossia una di quelle probabilità che
voi considerate come perenne fonte di errori; la vostra dialettica, che è tutta
la vostra scienza, fondata sulla persuasione e sulla probabilità diviene una
pura e semplice arte di persuadere, una retorica; la vostra pretesa di costi-
tuire, partendo dalla sensibilità, una scienza del vero e del falso, è vana;
per l'azione è sufficiente la persuasione, come mostra lo stesso sapiente
stoico; e la persuasione rende inutile la conoscenza compren- siva; la vostra
teoria della conoscenza non ha dunque oggetto; pro- prio e solo alla
persuasione voi siete costretti a ridurvi; il pithanon è l'unico punto che vi resta
di tutta la vostra filosofia." La rappresentazione ha due aspetti, uno
relativo all'oggetto, l'altro al soggetto. Rispetto all'oggetto essa vera o
falsa... Rispetto al soggetto ap- pare vera o faisa: e quella che appare vera
si chiama persuasive, “pithane”. Ora, quella rappresentazione che appare vera,
e in modo abbastanza chiaro, è per Carneade criterio di verità... per la.
condotta della vita e l'acquisto della felicità... Talvolta accade anche che
una tal rappresenta· zione sia falsa. Ma siccome questo capita di rado, si pu~
prestar fede a quella che per lo piu è vera, poiché noi non possiamo regolare
giudizi e azioni che in conformità di ci~ che è il piu consueto (Sesto
Empirico, Atlv. math., VII, 166-173). Il criterio primo e comune secondo Carneade
è dato dalla rappresentazione persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non
sono mai isolate,.ma formano come una catena nella quale ciascuna è collegata
con le altre, il secondo criterio sarà la rappresentazione persuasiva e insieme
non contraddetta, “aperispastos”. Come alcuni medici comprendono chi ha davvero
la febbre non da un solo SINTOMO, ma dal concorso di tutti, cosi l'accademico
dal concorso delle rappresentazioni giudica la verità; e se nessuna delle
rappresentazioni concomitanti la contraddica come falsa, dice che è vera quella
che gli appare. Ma ancor piu della rappresentazione non con- traddetta è
persuasiva e perfetta generatrice di giudizio quella che ag- giunga al non
esser contraddetta anche l'esser esaminata in ogni parte (" diexodeuméne
"), per esempio, per quel che riguarda il giudicante, il giudicato, il
mezzo attraverso cui si giudica, la distanza e l'intervallo,. il luogo, il
tempo, la disposizione, l'attività, e cosi via. Nelle contingenze comuni, dice
Carneade, usiamo per criterio la sola rappresentazione persua- siva; in quelle
un po' importanti la non contraddetta; in quelle poi che in- fluiscono sulla
felicità, quella esamimta in ogni parte (Sesto Empirico, Adv. math., VII, 176
sgg.). Cicerone e Sesto sono le uniche fonti per avvicinarsi alla pos1z10ne di
Carneade. Cicerone sembra attingesse - ma personalmente li rielabora, agli
scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco di Cartagine, che fedelmente
espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo, comunque s'intenda o s'interpreti
la tesi del pithan6n, sia pur attraver- so la ricostruzione che
dell'atteggiamento di Carnede dà Cicerone e l'esposizione che del cosiddetto
scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente emerge è il
continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo umano, ad
assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o venerabile che
sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee, rende conto di
ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un accantona- mento
delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma di- struggitrici di
quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo ed entro i termini
delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto dell'impressione
che fece in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in cui, dopo aver
sostenuto il valo- re della giustizia con argomenti convincenti, con
altrettanti convin- centi argomenti ne dimostrò l'assurdità. Ma ci rendiamo
conto anche delle preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade,
e il suo darsi da fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene
di Babilonia stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA (156-155),
per convincere il senato a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a
pagare una forte multa per aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e
se ne andassero al piu presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA NEL 155 è un
episodio, ma è un episodio che è pure un SINTOMO e che, anche se con cautela,
può indicare un termine bi-fronte: la conclusione di quella ch'ela problematica
propria del pensiero greco, e l'inizio di tutta una problematica rispondente a
situazioni diverse, a diverse richieste ed esigenze, nell'incontro tra due
culture diverse di origini diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a
culture orientali, non piu filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo
greco attraverso Roma. Certo non fu all'indomani del 155 che tutto divenne
diverso. Ma è sicuro che già coi primi discepoli di Carneade (dei quali
peraltro sappiamo pochissimo: Carneade di Polemarco, premorto al vecchio
Carneade, che venne meno nel 129 erica, Cratete di Tarso, Clitomaco che
fedelmente espose il pensiero del maestro), e particolarmente con Carmada e Metrodoro
dai quali deriva Filone di Larissa (160-79), che fu a Roma e del quale Cicerone
ascolta le lezioni, e Antioco di Ascalona (130-68), si puo determinare una
problematica diversa, rispondente, appunto, a situazioni diverse e a diverse
richieste. E cosi troviamo entro la scuola stoica modificazioni e compromessi
che dettero luogo alla cosiddetta media stoa, indicativi anch'essi di
situazioni diverse e di diversi controlli umani e politici, ove in nome
dell'ordine e della razionalità del tutto, del diritto naturale e della legge
universale, si puo riconoscere Roma la capitale del mondo, caput mundi),
recuperando gia vecchie concezioni astrali e cosmologiche dei caldei, sia certi
aspetti piu mistici e religiosi di Platone. Non solo, ma non è un caso che proprio
in questi tempi, tra la fine del II e l'inizio del I secolo, vi sia un
rifiorire dell'epicureismo e si diffonda un epicureismo romano che già
condannato dal senato romano, nel 173 o nel 154, con l'espulsione degli
epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi licenziosi (Ateneo, XII,
547a), è indicativo di una opposizione nuova, di un appello alla plebe, fino
all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in Epicuro piu che una dottrina
un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere LUCREZIO e l'epicureismo
romano se non si tengono presenti proprio quelle situazioni di cui parlavamo, e
senza di cui è difficile rendersi conto del delinearsi di una nuova civiltà,
frutto di un incontro, di uno scontro e di un dialogo, diversi da quelli da cui
si generò il complesso delle compo- nenti della cultura greca: la quale, a sua
volta, offri i suoi elaborati strumenti, ma in una modificazione dei suoi
contenuti. Roma si assicurò il dominio dell'Egeo nel 190, nel 188 (pace di
Apamea) conquista l'Asia Minore fino al Tauro, nel 168, con la battaglia di
Pidna, la Macedonia fu definitivamente sconfitta, e, nel 148, con la seconda
battaglia di Pidna, divenne PROVINCIA ROMANA. Nel 146, a causa di un'ultima rivolta
della lega greca, Roma, dopo avere distrutto Corinto, rese tributarie tutte le
città greche, trann~ Atene e Sparta. Il poeta Antipatro di Sidone, nato verso
il 170, cosi canta la distruzione di Corinto. Dov'è, dorica Corinto, la tua
ammirata bellezza, dove le tue corone di torri e le ricchezze antiche? Dove i
templi degli immortali e le case? Dove le spose sisifee e le miriadi di folla?
Nessun VESTIGIO è rimasto, infelice, di te. Tutto ha rapito, tutto ha divorato
la guerra. Noi sole, le alcioni, immortali Nereidi oceanine. Restiamo a testimoniare
il tuo dolore (Ant. Pal., VII, 87). Sono versi come tanti ve ne potevano
essere, si come tante erano state le guerre e le distruzioni durante la lunga e
tormentata storia della Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro
significato simbolico, come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu
il primo poeta greco che volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto
indicativa è la vicenda di Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia,
e, dopo la battaglia di Pidna (168) tra i mille ostaggi inviati a Roma da
Emilio Paolo. A Roma entra in dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo
circolo, descrivendo, infine, la grandezza di Roma, con chiara consapevolezza
che tutto un mondo culturale e civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si
richiedeva, altre sono le esigenze, altra divenne la cultura. Oserò avanzare
l'ipotesi che quanto il resto dell'umanità [i greci] de- ride è il fondamento
della grandezza romana, cioè la superstizione. Questo elemento è stato
introdotto in ogni aspetto della loro vita pubblica e pri- vata con ogni
artificio per impressionare l'immaginazione a un grado tale, che non se ne
potrebbe concepire uno piu alto. Molti probabilmente si stu- piranno
nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu fatto per impressionare le
masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i citta- dini fossero
filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose; ma in ogni Stato
le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni.
Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile
e con altri inganni di tal genere. Non a caso, ma a ragion .veduta, gli antichi
insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La
folha. ~ la .incapacità sono nostre [dei greci] poi- che cerchtamo dt
dtsperdere tah liluswni (VI, 56). E non è, forse, senza interesse ricordare che
proprio IL CIRCOLO DEGLI SCIPIONI ha accolto ostilmente la celebre opera
(Scritto sacro) di Evemero di Messana (vissuto tra il 340 e il 260 a. C.), in
cui Evemero, rifacendosi a certe tesi sofistìche sull'origine storica della nascita
degli dèi, sosteneva che gli dèi non sòno altro che uomini celebri e famosi in
vita, che, per i loro meriti verso il genere umano, furono divinizzati dopo la
morte.compimento del pensiero greco e Roma. La cultura e tradizioni greche a
Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra la seconda
metà del secondo secolo e la prima metà del primo a. C., tra l'ambasceria dei tre
filosofi a Roma (155) e la morte di Cicerone (43), si trova di fronte a un
insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo
non si possono risolvere con quella specie di categoria che è divenuto il
termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem., 21)
nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia
critica philosophiae, Il, Lipsia, p. 193) e da allora adottato da tutta la
storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio dell'ultimo secolo
avanti Cristo e di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosi parlato
di “eclettismo” per lo stoico Boeto di Sidone (morto nel 119 circa), per gli
stoici Panezio (180-109) e Posidonio (135-51), per Mnesarco (1 sec. a.C.)
successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di
Larissa (160-79) e Antioco di Ascalona (1.30-&1), successi nello scolarcato
dell'Accademia a Clitomaco (187-110), per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al
di fuori dell'”eclettismo” e, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone
di Sidone, Fedro, Filodemo, Patròne, culminante in Roma con Tito LUCREZIO Caro
(98/95-54/51), mentre con Enesidemo (di cui non si sa con certezza il secolo in
cui visse, ma sembra il 1 a.C.) si avrebbe un ritorno all'originario
scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza
di testi e di una documentazione precisa che permettano una ricostruzione
storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per
Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è
Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia
assunto un diver~ significato rispetto a quello di Carneade. Ciò che sappiamo
di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che
Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del
significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i
termini de! mondo romano, della sua cultura e della sua storia, in un momento
drammatico per la salvezza della repubblica) ha operato di quei dibattiti, di
quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove
richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di
Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente una sua cultura ed una sua
formazione, si veniva trasformando in “impero”, in mezzo a lotte e a dolori, a
guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e
culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare
con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE DELLA TRADIZIONE
ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale
(168 a.C.), a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio
che furono Cuma e L’ETRURIA prima (fin dall'viii secolo a.C.), TARANTO, la
MAGNA GRECIA (282-266) – Crotone, Velia --; la SICILIA (264-210) poi. A tal
proposito Cicerone (106-43 a.C.) è piuttosto preciso nel dichia-rare
l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che
avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo
della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una
determinata concezione, piu che una filosofia, vede una tradizione, un modo di
vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente
determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della città e un
tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e contadino-MIITARE,
dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche
terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia –
Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di "pitagorismo,"
dall'altro lato s'incontravano con la situazione ARISTOCRATICO-contadina del
popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive Cicerone - sono un ammiratore
dell'ingegno e della virtu dei nostri connazionali, ma soprattutto per quegli
studi a cui si dedicarono molto tardi, trasferendoli dalla Grecia nella nostra
città. È vero che fin dalle prime origini di Roma, durante il periodo regio,
gli ordinamenti, e in parte anche le leggi, regolarono a perfezione gli
auspici, le cerimonie religiose, le assemblee popolari, gli appelli al popolo;
il consesso dei senatori, la ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta
l'organizzazione militare. Però, quando lo stato lazio o romano e liberato dal
regime monarchico, si verifica un progresso meraviglioso e uno slancio
incredibile verso ogni specie di primato. Non è certo questo il luogo per
parlare dei costumi e degli ordinamenti dei nostri ante-nati né della costituzione
e del governo dello stato lazio o stato romano. Esaminando in questa sede le
attività culturali e filosofiche, molti fatti mi fan credere che esse pure
siano state desunte dal di fuori e siano state non solo ricercate, ma anche
mantenute e coltivate. I nostri ante- nati avevano infatti quasi sotto gli occhi
un uomo di straordinaria sapienza e rinomanza, Pltagora, che visse in Italia al
tempo in cui liberò la patria Lucio BRUTO. Poiché la dottrina di Pitagora ebbe
larga diffusione, a mio parere penetra anche nella nostra città, e questa
congettura non è soltanto probabile, ma è anche confermata da alcuni INDIZI. Infatti
le grandi e potenti città dell'Italia meridionale – Crotone, Taranto, Velia --,
che appunto fu chiamata Magna Grecia, sono al culmine del loro splendore ed ivi
ha grande risonanza il nome di Pitagora prima, e piu dei “pitagorici”. Chi può
pensare che i nostri connazionali siano stati sordi a quei richiami di alta
dottrina? Anzi ritengo che per ammirazione verso i pitagorici anche IL RE NUMA
che regna tra il 714 e il 671, molto prima del tempo di Pitagora, e stimato dai
posteri un pitagorico. Essi infatti conoscevano le teorie e le massime di
Pitagora, e dai loro pro-genitori avevano avuto notizia della equità e della
saggezza di quel re. Ma, facendo una confusione cronologica sull'età di quegli
uomini, perché si perdeva nella lontananza del tempo, credeno che colui che
primeggia per sapienza e un alunno di Pitagora. E questo basti per la
congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici, benché se ne possano raccogliere
molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo l'argomento della presente
discussione, Si dice che essi solevano esporre in poesia certi insegnamenti piu
segreti e rilassare nella tranquillità le loro menti affaticate dalle meditazioni
con il canto e la musica. E CATONE, scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini”
che presso i nostri ante-nati vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno
dopo l'altro cantassero, accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli
uomini illustri. Risulta da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto
applicato ai suoni musicali e la poesia. Per quanto anche Le Dodici Tavole
rivelano che già allora si coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che
non e lecita la diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura
di quei tempi è che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano
al suono della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola
filosofica di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO,
console nel 307 e nel, 296, che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto
Tuberone, di cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno,
discepolo di Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi, è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre
istituzioni vi sono ancora molti particolari che risalgono ai pitagorici. Ma li
tralascio, affinché non appaia che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama
di avere appreso da noi. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è
certamente antico presso di noi, però non riesco a trovare nomi da citare per
il periodo anteriore a LELIO, detto sapiens, oratore, stoico, console nel 140,
e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi erano giovani, mi risulta che furono mandati
dagli Ateniesi come ambasciatori presso il senato lo stoico Diogene e
l'accademico Carneade (155 a. C.) (Cicerone, Tusculanae disp., IV, 1-3).
Sembra, questa, una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura
di Pitagora è chiaramente mostrata l'UNILATERITà della cultura romana. Non
sappiamo fino a che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a
mostrare il quadro di una antica AUSTERITà romana, cui puo servire il topos
della vita pitagorica, e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una
consapevole riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a
certi modi di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in
effetto, realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta
alla complessa problematica della cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul
tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente,
economicamente, militarmente, si presentano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha
presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i
conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i
tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi a
Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un mondo, senza dubbio, in gravissima
crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che l'uomo politico, l'oratore
(e si badi che Cicerone nettamente distingue il retore, il tecnico dei
discorsi, il professore o precettista di retorica, dall'~atore, che pur deve
conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è chiaramente dimostrato dal “De
inventione”, un manuale di retorica, al “De Oratore”), non può concretamente agire,
determinare una certa condotta piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella
situazione presente, se non avendo coscienza della propria responsabilità, che
tuttavia scaturisce dal riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo,
e a cui si giunge rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a
quella struttura stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa,
soprattutto quando le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in
astratto, e si tenga conto delle varie situazioni storiche dall'85 al 44, per
ricostruire, piu che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee
attraverso cui si venne determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo
romano, e la trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa,
in una nuova atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile,
quando non lo si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando
non se ne colga la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu
strettamente retoriche e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato
del “vir bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa
inserirsi in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche,
avviando quella società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta
“honestas”. Si capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di
uomo e di società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce
altresl come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente
presentati i vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a
seconda delle concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono
venuti a trovare gli uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari
tipi di oratoria esposti da Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a
quella di COTTA, di CRASSO e di ANTONIO, a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di
BRUTO - e i fondamenti filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli
uomini politici. Cosi, attraverso questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione”
al “De Oratore”, all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la
retorica ha da trasformarsi in ORATORIA, cioè in filosofia, nel senso che la
verace persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare
(ELOQUENZA) istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve
possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei
caratteri, di ciò che ragionevolmente anche del- l'ordine del tutto e della
realtà e del divino può essere accettato (consensus gentium), donde, nel
conflitto tra "filosofia" e "retorica," il significato dato
da Cicerone alla psicagogia del Fedro platonico e alla retorica di Aristotele,
e, ad un tempo, accanto alle ipotesi (discussione giuridica di casi
particolari), alle tesi (discussione di problemi generali), e quindi a certi
aspetti della virtu e delle concezioni degli stoici la cui casistica e
discussione scolastica, offre larga mèsse per le tesi" -, ma anche alla
duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il
contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega
ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà criticando e esclu- dendo
sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un
"brillante espositore di dottrine altrui," come si è detto, né un
uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se
non in quanto con- trasto e conflitto furono propri dello stesso Cicerone.
Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci
atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè sempre in ogni questione
quello che abbia maggiore carattere di probabilità, senza essere vincolati a
regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità. (Tusc. disp., IV,
4). Vi è piuttosto, in Cicerone, una sottile noia nei contronti delle di- spute
di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un concreto agire umano sia il
ragionamento sia la problematica morale sia la problema- tica relativa
all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche retoriche e le tecniche
dialettiche, o una o altra concezione etica o religiosa, al fine di persuadere
a un certo modo di vita che sia salvazione della libertà romana, della
cQflcordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale consapevolezza portava
Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della cultura greca, pur
usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica, pur rifacendosi ai
grandi oratori latini, pur usando con- cetti e motivi elaborati dai greci,
aveva cercato di dare una consapevo- lezza critica (filosofica) al popolo
romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né
meramente precettistica e sco- lastica: Magnifica e gloriosa cosa è per i
Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo,
adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1). Stando
cosi le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone,
ricostruire precise posizioni di pensatori precedenti (Pane- zio, Posidonio,
Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, e cos( via), ché, sempre, anche quando
Cicerone cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di
quegli autori, egli usa quelle fonti in fun- zione di un suo fine, in funzione
del pro e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e,
nei confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile,
attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è
ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la
stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il
senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una
problema- tica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e,
dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e
correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla compo-
sizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure,
appaiono evidenti quattro punti fondamentali. La cultura greca, in senso
stretto, a parte i contatti con il mondo greco prima del 168 a.C., penetra in
Roma sotto forma di inse- gnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai
liberti greci, soprat- tutto per ciò che riguarda la retorica. 2) Quella stessa
retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente ~recierano richiesti dai
romani delle classi superiori, m quanto strumento per una formazione culturale
che servisse alla vita politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di
Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro
culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro
lato entrarono in rapporto con personalità ro- mane, furono a Roma, insegnarono
a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente
e in occidente. 4) Nes- sun romano, discepolo di piu di un maestro greco e
attento a correnti diverse, fu, tra il secondo e il primo secolo a.C., filosofo
di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo,
oratore, finché pro- prio in questo, in questo saper governare, consisterà per
essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium,
ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente
dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della vita
contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato
negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica"
romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas,"
attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i
problemi e gli ideali di vita con l'av- vento del principato e dell'Impero. Filosofia,
retorica, politica e diritto. Da Catone a Cicerone. Rispetto al primo punto
sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del De Oratore, in cui
Cicerone riferendosi ai tempi immedia- tamente posteriori alla conquista del
mondo greco, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il
suo dominio su tutte le genti - assicurò un certo otium, non vi fu giovinetto
posse- duto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i
suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne
della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un
qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere
col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli
oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei
maestri greci, fu veramente con incredibile studio che i ro- mani
s'infiammarono per l'eloquenza... (De Oratore, l, 4, 14). I romani delle classi
aperte al governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus
honorum) aveva la retorica, e poiché incon- trarono presso i greci e le scuole
gr.eche la piu ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei
greci, trovand6 numeroso per- sonale insegnante tra i molti. schiavi che
procuravano le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di
Taranto ('Zl2), quando da Taranto·fu condotto come schiavo. a Roma Livio
Andronico, che venne poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato
i figli (Hieron., Chron., 187a). Con Andronico, accanto all'insegna- mento
privato del greco, ebbe inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque
insegnava Andronico (Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo
inì:eres~ qui ricordare - ebbe anche inizio, in Roma, sul calco della scuola
greca,'l'insegnamento secondario. L'inse- gnamento primario, cioè
l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al
periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degli
etruschi e il metodo di insegnameoto della scrittura, derivato agli etruschi dai
greci (cfr. I. Marrou, Storia dell'èducazione nell'antic/Utà, Roma, p. 333).
L'insegnamento secondario latino appare molto piu tardi, verso la metà del m
secolo a. C.. Questo ritardo non deve. meravigliare; l'insegnamento secondario
classico si basava in Grecia sulla spiegazione dei grandi poeti e prima di
tutto su Omero. Come avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale
studio dal momento che non possedeva una letteratura NAZIONALE? Di qui il
paradosso, che non è forse stato abba- stanza messo in rilievo, che la poesia
latina è stata precisamente creata per fornire una materia d'esegesi
all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo
romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto di un'educazione unicamente
data in greco. Il primo poeta IN LINGUA LATINA, che anche il primo professore
di letteratura IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio Andronico di TARANTO, segnalato
come il primo in data dei maestri di gr.eco che hanno insegnato in Roma. Egli
tradusse IN LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia o la loquela dei lazini l'Odissea,
servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio. Tale traduzione e per Andronico
un testo che egli spiega, praelegehat, parallelamente ai classici nella
‘loquela graii’ (Svet., Gram., 1, 1).
Naturalmente non fu questa l'unica fonte della poesia nella loquella dei lazii,
ma per molto tempo conservò il carattere, per noi strano, d'essere intimamente
vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario:
due generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, ac- canto ad autori greci,
continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango
di .classici" (Marrou, cit., p. 334). Quando Roma conquistò
definitivamente la Grecia, i romani delle classi superiori conoscevano
benissimo il greco e già lo usavano come lingua diplomatica, per cui non
ebbero· piu bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e
insegnata per tutto il secondo secolo e il primo a. C., in greco. Ma i!
discorso, sul piano del conte- 16 nuto, è lo stesso di quello
fatto per l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto
fondamentale dell'insegnamento supe- riore, servi ai romani, che avevano
possibilità di fare carriera poli- tica, come strumento di cultura, come
esercizio e preparazione, .s1 come per l'insegnamento secondario serviva la
grammatica e l'esegesi dei testi poetici. E perciò essi, almeno in principio,
si rifecero, indi~ scriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica,
indipenden- temente dai possibili contenuti di pensiero che pur erano dietro
quelle tecniche. Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolgesse
me- diante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toc-
cavano o le tecniche persuasive, rientranti nella deliberativa, o le tecniche
proprie della controversia, ove si discuteva il pro e il contro di casi parti-
colari in relazione a testi di. legge, in modo astratto e precettistico; ma
questo spiega anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali
(''tesi"; anche se già si ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e
come "tesi" in Teofrasto, esse vennero poste in primo piano da Erma-
gora di Temno) si potesse assumere, indifferentemente, a seconda della
"tesi" messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate
dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti
dagli accademici. L'entusiasmo che nel 155, a Roma, suscitò Carneade presso i
giovani colti, col suo doppio discorso sulla giustizia (cfr. I vol.), rientra
in questo quadro, sL come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da
parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo
studio della retorica, dunque, non presentava soltanto l'insegna- mento di una
precettistica, ma implicava un piu vasto sapere: discus- sioni sulla dialettica
e sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuri- dici, di psicologia, e,
quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il
materiale poteva essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie
greche, e usato, poi, a seconda del- l'una o dell'altra causa politica o
giuridica, deliberativa o relativa a controversie. Proprio questa neutralità
della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima
grande sofistica, dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani.
Polibio (XXXI, 24) testimonia che nel 167 circa era in Roma grandissimo numero
di maestri greci. Del 161 è il Senato consulto che proibisce la residenza in
Roma ai retori e ai filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un
conservatore DELLA RAZZA DEL CELEBRE CATONE il Censore (234-149)1 si
preoccupasse del- 1 [Nato nella Sabina, a Tuscolo, nel 234, Marco Porcio
Catone, di una famiglia 17 ] l'introduzione
in Roma delle tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche
e scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della
cultura greca, si preoccupava dei Greci e probabilmente dei Greci del suo
tempo, ch'egli considera dei degenerati. t sf bene - scrive nei celebri “Praecepta
ad filium” avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. RAZZA
CATTIVISSIMA e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei greci, e
fa' conto che sia un profeta che ti dice questo. Se, quando che sia, codesta
gente ci darà la sua scienza, manderà tutto in rovina; e peggio ancora, se
verranno qua i suoi medici. Congiurano di ammazzare con la loro medicina tutti
i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e
possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi,
anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur.
hist., 29, 7). Ad ogni modo lo stesso Catone fu grande oratore e si rese tanto
conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne teme le
possibili applicazioni. I conservatori romani paventarono, ora, certi di
agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )><'r tutta la sua
lunga. vita. Vita parca, dura, laboriosa, dice egli stesso, vissi sin da
principio, coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando,
seminando le selci (p. 69, Maleovari). Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse,
contadino-soldato egli fu )><'r tutta la vih. Questore in Sardegna di
Publio Scipione Africano nel 204, edile nel 199, pretore nd 1::18, console e
comandante di eserciti in Spagna nel 195, e nominato censore 'nel 184 e
soprattutto il suo nome fu legato alla durezza della sua censura, tanto che fu
detto, )><'r distinguerlo da altri Catoni, Catone il Censore. Inviato nel
153 a Cartagine, in qualità di ambasciatore, ne torna con la convinzione che
gl'interessi di Roma esigessero la distruzione di Cartagine: "Delenda
Carthago" divenne il suo slogan. Muore nel 149, a ottantacinque anni.
Plutarco riferisce un epigramma su Catone, che in due versi sintetizza la figura
fisica e morale di Catone. Tutto denti, mordace, occhi verdi, rossigno è
Catone, e Persèfone teme ancora d'accoglierlo nell'Ade. Se una specie di
enciclopedia dove essere il suo “Praecepta ad filium” (vi si trattava di
medicina, di agricoltura, di retorica, di giurisprudenza e di arte militare),
un vero e proprio trattato di arte agraria è il “De agr'icoltura”, il primo
libro in prosa nella locuzione dei lazini giunto fino a noi (dalla classe degli
agricoltori provengono gli uomini migliori e i piu valorosi soldati. Meno in
balla di cattivi )><'nsieri sono coloro che attendono al lavoro dei
campi. Non altro che pochi frammenti possediamo della sua grande opera storica
·in 7 libri, le “Origines” (I libro: storia di Roma sotto i re; II e III libro:
storia delle primitive città. italiche; IV e V libro: storia della prima e
della seconda guerra punica; VI e VII libro: storia degli avvenimenti fino al
149). Orazioni Catone scrisse (ben quarantaquattro volte dovette difendere se
stesso) durante tutta la sua vita (delle 150 che compose, di un'ottantina
leggiamo oggi scarsi frammenti). Celebri sono rimaste certe sue lapidarie
sentenze. “Orator est, Marce fili, VIR BONUS DICENDI PERITUS” “Rem tene, verba
sequentur" (dai Praecepta ad filium). Tutto cose, fatti, conti, come
risulta dalle biografie antiche (Livio, 39, 40; Cornelio Nepote; Plutarco), la
sua durezza, il suo talento, il suo buon senso da contadino, il suo
utilitarismo, il suo ideale d'uomo forte, non ozioso, la sua stessa dirittura,
hanno servito a creare la figura del ROMANO O LAZINO per eccellenza (a parte la
sua ambizione, e il non troppo bello episodio del suo essersi dato all'usura)] aspetti
della cultura greca, si come nel v-Iv secolo i conservatori ateniesi dello
stampo di un Aristofane e di un Senofonte, o del piu grande Platone, temettero
la sofistica. Non a caso, anzi, Catone s'ispira piu volte a Senofonte e si
senti vicino al Socrate, moralista e predicatpre, presentato da Senofonte nei “Detti
memorabilia” e nel “Convito” (il principio delle Origines di Catone, fr. 2, è
una traduzione del principio del “Convito” di Senofonte). Non solo, ma è
interessante a tal proposito ricordare che le opere di Senofonte, che Cicerone
testimonia essere sempre state in mano di Scipione Emiliano (in particolare i
·Memorabili e la Ciropedia) e lette da Catone (cfr. Tusc., Il, 26, 62; Ad
Quint. frat., l, l, 23; Gato maior, 59, 79-81), fano parte della Biblioteca dei
re di Macedonia, messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di
Cizio, e che, dopo il 168, Paolo Emilio ha trasferito a Roma, come proprietà
privata, in casa sua, e posta a disposizione dei propri figli e degli amici
loro. Il Socrate senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano
il.grosso della biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto
secondo cui Zenone di Cizio si.sarebbe convertito alla filosofia leggendo il
Socrate di Senofonte e ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve
certo a Catone rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia
che di Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca,
Bari, pp. 314 sgg.). Ad ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci,
cominciarono a circolare a Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale
e quei contenuti, quella necessaria cultura di cui parlavamo, e che, a seconda
della situazione politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore.
D'altra parte, per rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo
essere assunti passi o·tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di
Crisippo, e, piu tardi, di Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di
Antioco, o i loro modi di intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta
presente la classe cui appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O
LAZINI, da P. Cornelio Scipione Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a
Pompeo, a Mario e Silla, a Cicerone. Non va, intanto, scordato che nella
seconda metà del secondo secolo cominciò a circolare la grande sistemazione
della retorica dovuta a Ermagora di Temno, vissuto a metà del 11 secolo. Il
manuale di Ermagora duo essere, per quel che ne sappiamo, una specie di summa e
di ordinamento dei vari aspetti in cui si era discusso il problema della
retorica dai sofisti agli stoici, dai quali ultimi deriva Ermagora stesso, in
una teorizzazione della retorica. Egli, dopo avere insistito sulla distinzione
tra ipotesi e tesi, dando particolar valore alla tui -- due sono i generi delle
'questioni'," scrive Cicerone. L'uno è il genus infinitum, l'altro il
genus definitum. Definito è quello che i greci chiamano ipotesi, e noi nella
loquela lazia, causa. Infinito quello ch'essi dicono tesi e noi possiamo
chiamare pro-posito (Cic. Top., 21, 79), imposta la distinzione dei discorsi
retorici sullo stato della causa. Ermagora divide a sua volta lo stato della
causa in due grandi aspetti, l'aspetto razionale (yévot; Àoytx6v, genus
rationale) e l'aspetto legale (yévot; VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in
Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes, Lipsia, i fragmm. 6-23). Ermagora cosi
teorizza da un lato una retorica razionalistica e filosofica, dall'altro invece
una retorica spiccatamente giuridica, una interpretatio iuris sorgente dalla
stessa pratica giuridica. Da un lato, quindi, la retorica ermagorea mira al
vero, dall'altro al GIUSTO: ai due massimi valori, cioè, della filosofia
stessa, nella sua parte teoretica e nella sua parte morale (A. Plebe, Breve
storia della retorica antica, Milàno, p. 114). Accanto alle altre conoscenze,
offerte dai testi del pensiero greco, e dai maestri greci che venivano a Roma o
alle cui scuole (Rodi, Atene) ci si recava, prese sempre piu piede, sulla fine
del II secolo, l'esigenza di una sistemazione e razionalizzazione del DIRITTO,
tanto che sulla fine del 1 secolo, anche per l'impulso dato da Cicerone,
sorsero, accanto alle scuole di retorica, scuole vere e proprie di DIRITTO in
cui insegnarono magistri iuris, iuris periti. La conoscenza delle leggi e del
complesso delle leggi, come insegna Ermagora di Temno, sirve non poco alla
retorica ed all'azione politica. Materiale per tale sistemazione, soprattutto
quando si pensi che il significato della legge giusta e universale era discusso
e studiato in particolare da uomini che tende- vano al potere politico e che
per nascita e censo ne avevano la possibi- lità, era offerto dalle varie
elaborazioqi e approfondimenti che della Legge e del diritto avevano dato e
davano gli Stoici, risalendo poi, attraverso essi, alle testimonianze di Platone,
di Aristotele, di Dicearco. Quasi tutte le nozioni - scrive Cicerone - le cui
parti sono riunite ora in corpi dottrinali, costituenti questa o quell'arte, un
tempo erano disperse e non formavano un insieme. Cosi, in musica, il ritmo, i
toni, la melodia; in geometria, le linee, le figure, le dimensioni, le
grandezze; in astronomia, le rivoluzioni del cielo, il sorgere e il tramontare,
i movimenti degli astri; in grammatica, la spiegazione dei poeti, la conoscenza
della storia, il significato delle parole, la pronuncia; nella stessa retorica,
l'invenzione, l'elocuzione, la disposizione, la memoria, l'azione. Il rapporto
di questi elementi fra loro era ignoto. Sembra senza legami, disarticolati. Si
è coscer- cato al di fuori, in un altro campo, di cui i filosofi si
attribuiscono l'intiera proprietà, un metodo che in qualche maniera cementasse
questi materiali sparsi e li costringesse a entrare in un sistema razionale.
Poniamo dunque l'oggetto del diritto civile: mantenere, sulla base delle leggi
e dei costumi, i principi di giustizia che regolano gli interessi dei cittadini
nelle loro reciproche relazioni. Distingueremo, quindi, i generi, riducendoli a
un certo numero, il piu piceolo possibile. Il genere è ciò che racchiude due
specie o piu, simili tra loro per un carattere comune, ma separate per una
differenza propria. Le specie consistono nelle suddivisioni che si raccolgono
sotto il genere di cui sono formate. E tutti i termini che servono a desi-
gnare generi o specie, avremo cura di definirli con il loro esatto valore. La
definizione, infatti, è una spiegazione breve e precisa dei caratteri che sono
propri dell'oggetto che vogliamo definire... Si tratta, insomma, di ricondurre
il complesso del diritto civile a un piccolissimo numero di ge- neri, dividere poi
.ciascuno di questi generi in diversi membri o specie, far vedere infine, con
una definizione, il valore proprio di ogni termine: avremo cosi una teoria
completa del diritto civile, ed una scienza t:stesa e feconda invece che
difficile e oscura (De Oratore, I, 42, 187-190). Se cos{, per il yhoç
ÀO')"x6v, il genere razionale, e per le "tesi" si cercava il
materiale negli aspetti piu vari del pensiero greco e nei modi con cui esso
poteva essere usato - retoricamente si potevano benissimo accostare tesi diverse,
e, soprattutto, frasi diverse, sganciate dai loro contesti, - per il yhoç
VOIL'x6v, il genere legale, il materiale e offerto, formalmente, dalla logica,
dalla dialettica, e, per il contenuto, dal rapporto v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;,
che impostato da Platone (cfr.. Leggi, 957c), poteva essere interpretato
secondo il "diritto naturale" approfondito da alcune posizioni
stoiche. L'esegesi del diritto e delle leggi, l'esegesi delle tecniche
retoriche, la loro funzionalità a seconda di certe situazioni ed esigenze
politiche, implicavano una piu vasta cultura, la richiesta di conoscenze e
sistemazioni - come chiaramente si vede attraverso Cicerone - atte ad essere
usate di volta in volta. Cicerone verrà a costituire come il nodo di questo
processo, svoltosi dall'età di Scipione alla morte di Cesare, nel consapevole
tentativo, egli homo novus, di conciliare l'oratoria usata dagl’ARISTOCRATICI
con l'oratoria dei "populares" (o, meglio, di certi ARISTOCRATICI che
mossero il popolo), mediante, appunto, una piu alta e vasta cultura, che fosse
terreno comune, comune parentela, con cui determinare la persuasione alla pace,
non solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del popolo e tra
aristocrazia e popolo: naturalmente attraverso l'oratoria di un uomo capace di
questo, attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dal- l'alto. Ma di qui, per
Cicerone, l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in la lingua
degl’abitanti del lazio, perché fosse possibile costituire nel mondo romano o
del lazio una consapevolezza critica (filosofia), che doveva, nel suo ideale, determinare upa misura e un
rapporto tra le classi, che fa davvero dello stato una res publica. Tale
prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei
lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da Scipione Emiliano ai Gracchi
a Silla. Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di
politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni
almeno, come nell'Emiliano, trovò la sua espres- sione, il suo linguaggio,
nello stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu
il modello aristocratico del vir bonus, del salvatore della patria, dell'uomo
misurato, che si sacrifica per lo Stato e la sua unità, e la cui eloquenza
riflette, appunto, tale modo di vita. Si pensi a Scipione, a Lelio, ad Antonio,
a Crasso, a Rutilio Rufo, a Scevola pontefice, a Cotta. Oppure si tratta di
muovere e commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e allora altro
è il tipo di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa ricorso. Si pensi
all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di Sulpicio. Sotto questo aspetto sembra
chiaro perché nel 99 Crasso, allora censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola
di retorica in la loquela dei lazini, creata l'anno prima da Plozio Gallo, su
ispirazione di Mario. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico,
come ora Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si
erano formata una vasta cultura, mediante cui tendevano a persuadere della
propria concezione non solo la propria classe, bens( tutto IL POPOLO ROMANO o
il popolo del LAZIO. Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che
per l'oratoria ha la cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per quella
cultura stessa (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, l, 4), consapevoli del pericolo
che l'oratoria venisse insegnata in la loquela del Lazio. Non è un caso che la
fondazione di una scuola di retorica in la loquela del Lazio e ispirata da Mario,
un "popolare," che Cicerone dice essere sné eloquente né colto (Cic.,
Pro Fonteio, 19, 43). L'arte del ben dire, in quanto insegnata in quello
ch’Ovidio chiama la ‘loquela graia’, accompagnata da lunghi studi, divenne
patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia. Plozio Gallo, attraverso la
sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le stesse armi piu che ai populares
allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione dell'anonima “Retorica ad
Erennio”, composta, sembra, tra 1'86 è 1'82. È un trattato di retorica in la
loquela dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni, di recente, l'hanno
ritenuta di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di
tipo molto moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole
della loquela ‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora,
in cui si reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per
avvicinare l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla
reale vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e
dibattiti agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità,
I, p. 336). Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge
frumentaria del tribuno saturnino (Ret. ad Er., l, 21)? Si può assolvere
l'uccisore del tribuno P. Sulpicio, ucciso nel1'88 per ordine di Silla (Ret. ad
Er., l, 25)? Il Senato delibera, durante la guerra sociale, 91-88, sulla
questione di accordare il diritto di cittadinanza agli ITALICI chi non sono
lazini (Ret. ad Er., III, 2). Morte tragica di Tiberio Gracco (Ret. ad Er., IV,
55). Naturalmente non tutti i soggetti sono tratti da un'attualità cosi scottante,
e l'argomentazione non è sistematicamente orientata nel senso favorevole ai
populares - un buon retore deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia non c'è
dubbio che l'atmosfera generale della scuola risentiva della posizione politica
del fondatore (Marrou, cit., p. 336). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie
chez Cicéron, Parigi), invece, ritengono che non bastino le citazioni dei
Gracchi, gli elogi dei populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini,
per accertare che la Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o
lazini. Già Antonio, che, secondo Cicerone (De Oratore, I, 21, 94), aveva composto
un trattato di retorica, e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De
Oratore, Il, 24, 199 sgg.). Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette
in primo piano i populares. Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario,
è altrettanto vero che tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er., IV, 54, 68), spesso
evoca la politica aristocratica e cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano
(Ret. ad Er., IV, 13, 19; 32, 43), non solo ma in certi casi, come nella lotta
contro Saturnino, approva il consensus bonorum (Ret. ad Er., l, 12, 21), e non
pochi sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret. ad Er., l, 10, 17;
15, 25; 16, 26). Il Michel (p. 72) trae di qui la conclusione che l'autore
della “Retorica ad Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra
populares e OPTIMATES e ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia
politica di Roma. In effetto la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si
ispira ad Aristotele, a Crisippo e ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta,
sull'esempio, appunto, di Ermagora, di presentare una summa dell'arte del dire,
in una sistemazione dei vari aspetti della retorica in un tutt'uno coerente,
facendo uso nelle esemplificazioni, non solo degli esempi oratori greci, ma,
SCRITTA DA UN ROMANO, nel LAZIO, per romani, anche dei mggiori esempi dell'oratoria
romana. Si vedono cosi, chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La
teoria dell'arte del dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai
contenuti filosofici ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella
classificazione dei tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo,
deliberativo. Nella divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea,
in invenzione, elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece
dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria,
che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del
discorso, exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per
la casistica e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di
orazione dei grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande
Antonio, quanto dei Gracchi. Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad
Ermnio è il primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in
realtà, le fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso
Cicerone, il quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla
Retorica ad Erennio, di dare una base meno precettistica e piu
culturale-filosofica alla retorica, discutendo poi della funzione e della
cultura necessaria all'orator, che deve svincolarsi dall'assumere
unilateralmente una o altra precisa concezione, dall'accettare una o altra
posizione, ha classificato e opposto tipi di retorica, cui corrispondeno tipi
di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un lato, l'indice chiaro
dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai lazini del Lazio di una
sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario del sapere
retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del CON-VIVERE civile,
si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e, dall'altro lato,· è
l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia senatoriale
nella quale si era sviluppato l'ideale del “vir bonus” subisce la concorrenza
delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu democratico,
penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui il nuovo
aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che perora per un
magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere un grande
dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console, risponde
alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa defensionale
che scandalizza Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo del popolo (Cic.,
De Oratore, l, 52,. 226). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei dibattiti
aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora sempre se
l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. Talvolta lo istruisce adulandolo
(Michel, cit., p. 45). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione,
oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento
politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo
fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini
entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa,
del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo
novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che
alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una contemperanza
dell'antico ideale del vir bonus senatoriale, il cui modello e la figura di
Scipione l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il
raggiungimento di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine,
attraverso la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto
Cicerone non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente
impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una
moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il
Senato. In Cicerone, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno
senza dubbio giuocato mo.):ivi di'lersi, concezioni e dottrine diverse, che, se
prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con
l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i
contesti ciceroniani. Cicerone non espone dottrine altrui, ma usa tesi e
aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla,
o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta
drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto
quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda
conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane
esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione
dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce
quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose
future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e
preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale,
mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza
che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis, l, 4,
11-12). Cosi, sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire
gli Accademici, e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi
all'uso fatto da Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti
dell'analisi aristotelica per la formalità delle definizioni; sul piano della
condotta forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia
aristoteliche, sia stoiche, potevano servire le tecniche retoriche elaborate da
Aristotele, da Crisippo, da Ermagora; sul piano piu strettamente umano, della
possibile comunione umana, poteva servire la delineazione di una humanitas il
cui incontro è la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio,
che sembra fosse l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di
Panezio, in cui, certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di
Aristotele e il motivo accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu
alto piano politico si ricercava una legge universale, un diritto naturale che
giustificasse un certo ordine sociale, una certa legalità, per cui potevano
servire altre tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad
una quiete ultra mondana, soprattutto dovuta a :situazioni immediate e tristi
della vita, poteva benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone
sull'immortalità dell'anima o alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di
Aristotele, accanto a una visione del divino la cui fonte può essere Cleante,
insieme al topos della filosofia intesa come consolatio. Ora, se tagliamo via
Cicerone e poche testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione
ciceroniana, poco o nulla resta delle opere dei pensatori greci tra il secondo
e il primo secolo. Di qui, per le ragioni dette sopra, la difficoltà di
ricostruire, attingendo a Cicerone, dottrine e posizioni compiute, storicamente
esatte. Si pensi, ad esem- pio, al caso di Platone. Se le opere di Platone
fossero andate perdute e si dovesse ricostruire Platone mediante Cicerone, non
avremmo certo Platone ma Cicerone stesso, che usa frasi e motivi di Platone. Lo
stesso dobbiamo dire per gli accademici da Clitomaco a Filone di Larissa ad
Antioco di Ascalona, gli ultimi due direttamente ascoltati da Cicerone e per
gli stoici Boeto di Sidone, Antipatro, Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato
da Cicerone, e per tutti gli altri cui si riferisce Cicerone. Non è,
evidentemente, possibile ricostruire, ad esempio, la dottrina e una compiuta e
sistematica filosofia di Panezio attraverso Cicerone, per poi, con un Panezio cosi
ricostruito, spiegare Cicerone. Ciò che possiamo è, invece, renderei conto
delle questioni suscitate in Cicerone, in funzione della sua problematica, dai
pensatori greci da lui citati e discussi, i quali, a loro volta, hanno senza
dubbio, almeno per ciò che ne sappiamo, risposto alle esigenze, ai problemi,
alle richieste che provenivano da Roma, fin dal tempo di Carneade e di Polibio,
in un complesso e Ìn un ampiamento di orizzonti, anche geografici, per cui se è
vero che il mondo romano si grecizzò, è altrettanto vero che il cosiddetto
mondo greco si romanizzò, o meglio si venne determinando tutta una nuova e
diversa atmosfera culturale, in cui anche certe parole, pur rimanendo le
stesse, vennero ad assumere altro significato. Il celebre DOPPIO DISCORSO SULLA
GIUSTIZIA, che Carneade tenne a Roma nel 155, era ancora riportato e discusso
da Cicerone circa un secolo dopo. Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita
la fama e l'importanza, ma, certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti
fondamentali della riflessione romana s'era venuto a imperniare sul motivo
delle condizioni che rendono possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno
dimenticate da un lato la storia di Roma e delle sue conquiste dal 200 in poi e
dall'altro lato la problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le
capacità del potere. A parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI
CARNEADE, la sua forza filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che
di quel discorso rimaneva piu crudo e scottante era, non solo la sottile negazione
della dottrina stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non
va ricercata né in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale,
ma l'esito di quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza della
giustizia nel senso comune sottolinea ch'essa è sempre, soprattutto nei
rapporti tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della
parola. Se Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire
ciò che, con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata
prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è
possibile vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta
inazione. Se lo stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di
giustizia. Lo stesso va ripetuto per i romani. Quello di Carneade poté suonare
come un richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla
consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla
verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le
cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile
romano e dell'utile di una certa classe dirigente venivano ammantate
dell'orpello del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna il vecchio Catone,
particolarmente per la verità pericolosa ch'era implicita nel discorso di
Carneade non va scordato che Polibio scrive che la grandezza romana sta
nell'avere imposto un certo ordine e una certa legge giuocando sulla
superstizione, tenendo a freno le masse mediante il timore dell'invisibile:
Polibio, VI, 56, tutto questo impone, d'altra parte, una piu approfondita discussione
e giustificazione. Carneade, è stato detto, non condanna l'impero romano: mette
solo in rilievo il fatto che esso non ha alcuna base etica; e questo stimola
altri a cercarne una (T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Bari). Non
solo, ma va aggiunto che se al tempo di Carneade il concetto di impero non esiste,
se non nella sua figura giuridica, e proprio la riflessione sulla
giustificazione del comando di un singolo o di un gruppo in Roma, nella delineazione
di un modello di uomo giusto, e del potere di Roma sugli stati e le città
conquistate, che venne a costruire, appunto, il concetto di principato e di
impero. Entro questa linea,· nei termini di questa esigenza di rendere
giustificabile e, per ciò stesso, razionale e, dunque, convincente, l'azione
della classe, che ha possibilità politiche, e l'azione di Roma, sembrano chiarirsi
molti degli atteggiamenti assunti e dagli Stoici, e dagli stessi Accademici, i
quali tutti, nel corso del n secolo e della prima metà del 1, ebbero contatti
diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe dirigente romana,
a cominciare da Polibio e da Panezio: Mentre, per altro verso, la deli-
neazione di un ordine razionale e universale cui adeguarsi, fondamento e
giustificazione dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe possibilità
di carriera si allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei nuovi
ricchi o dei cavalieri, mise in crisi il monopolio del potere dei nobili,
giustificando, appunto, in nome della comune ragione, le possibilità
dell'inserimento politico da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione
universalistica e imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine
politico basato su quella razionale uni- versalità, di cui il
"princeps" - l'"orinor" in principio - è il depo- sitario e
il propagandista, non poco poteva servire la tesi del giusna- turalismo stoico,
qualora se ne giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da
Carneade, che cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva
a negare l'azione e gli atti giusti. Ora tale giustificazione imponeva una
revisione, entro i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica,
che fu tentata da Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di
Scipione Africano, s1 come da parte degli Accademici (da Carmada e Metrodoro a
Filone di Larissa e Antioco di Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia-
lettica e la discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno
delle modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu
niente a che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte,
va scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera
intorno alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu
tardi, Antioco fu amico di Lucullo e che a Roma visse e scrive Filone di Larissa.
Chi tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie fasi del
pensiero tra il 150 circa e Cicerone, non può non tener conto della storia
interna di Roma, soffermandosi in primo luogo dapprima sull'esigenza da parte
senatoriale di giustificare il proprio operato e la propria virtuosità fino a
giungere a costruirsi con Scipione Emiliano minore l'ideale modello del vir
bonus, salvatore della patria, che assomma in sé I'auctoritas, il cui consiglio
è dato alla potcstas (all'esecutivo), piu che con la parola, con la propria
figura morale e la propria condotta, divenendo princeps della città. In secondo
luogo, tenendo presente il conflitto tra la classe senatoriale e l'impoverita
borghesia italica rurale, culminante nel conflitto tra lo stesso Scipione e
Tiberio Gracco (dell'uccisione di Tiberio, Scipione dirà: iure caesum) e poi
tra Scipione e C. Papirio Carbone, fino a che, morto Scipione, improvvisamente,
nel 129, la notte precedente il giorno in cui egli dove pronunciare un discorso
in senato contro le proposte di legge sulla questione agraria (fu chi disse che
Scipione venne fatto uccidere da Papirio Carbone), sembrò potersi attuare la
rivoluzione in virtu di Gaio Gracco (nel 122), rivoluzione però stroncata dalla
oligarchia senatoriale; e, in terzo luogo, tenendo presente il celebre
conflitto tra Mario e Silla, fino a giungere a Pompeo e al primo triumvirato.
Entro questi termini sembra chiarirsi perché il problema fondamentale - quali
che di volta in volta ne siano state le soluzioni - fosse il problema delle
condizioni che permettono la vita politica: o in una negazione delle tecniche
retoriche - particolarmente da parte senatoriale, - puntando sul retorico
modello di una figura esemplare, e, per la sua esemplarità, convincente; oppure,
via via negata la retorica come arte a sé, neutra, in un'affermazione della
retorica filosofica, psicagogica - onde piu volte l'uso di Platone e di
Aristotele, - che, ricorrendo a tecniche diverse, caso per caso, seducesse ad
una razionalità, istituente ordine e misura, entro i termini della legge,
specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui, anche, la sempre piu
accentuata importanza data alla conoscenza del diritto e alla sua sistemazione.
Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il conflitto dapprima tra contenuti
e retorica e poi tra retorica degli affetti e retorica filosofica, la
problematica tra il porre una virtuosità in assoluto, che alla fine nega ogni
possibilità di azione, e, quindi, anche ogni possibilità di convin- cere a quella
virtuosità stessa, e il porre una possibilità di rapporto umano, fondato solo
di volta in volta sul giuoco degli affetti, il riflesso di tutto ciò, anche
nella sua aderenza, caso per caso, a precise esigenze politiche, è molto chiaro
in Cicerone. A tal proposito, anzi, sembrano particolarmente illuminanti certi
passi di Cicerone, in cui egli condanna l'insegnamento retorico di Cleante e di
Crisippo. È vero che Cleante scrisse un trattato di retorica e anche Crisippo,
ma in modo tale che se uno desidera diventar muto, non deve leggere niente
altro (De fin., IV, 3, 7). Troppo rigida ed esclusiva la loro logica per
divenire eloquentia (De Oratore, Il, 38, 157 sgg.), essi non hanno possibilità
di discutere altri argomenti, ché uno solo è il loro, onde mancano di inventio
(Topici, 2, 6). Essi perciò non possono convincere alla virtu, per alta e pura
che sia la virtu da essi proclamata (cohlc, sottolinea Cicerone, fu il caso
dello stoico romano Rutilio Rufo, che per non adulare le passioni del popolo, per
non scendere dinanzi ai giu- dici ad usare la tecnica del pathos, non fu capace
di difendersi: De Oratore, I, 53, 227-54, 231). Sotto questo aspetto
sembrerebbe aver ragione Carneade, dimostrando che sul piano umano lo stoico
non può che contraddirsi, ripiegando sul probabile e sul convenevole, negando
con ciò stesso la propria tesi, tanto è vero che gli stoici non pongono alcun
passaggio tra il saggio e virtuoso e il non saggio e malvagio (di qui, per
Cicerone i paradossi degli stoici: cfr. Paradoxa stoicorum), giungendo alla
fine a sostenere che nessun uomo è saggio, tranne pochissimi, che, d'altra
parte, non hanno possibilità di convincere gli altri per lo stesso fatto che
gli altri sono non saggi, per cui il saggio stoico resta in conclusione assolutamente
avulso da ogni tipo di vita politica, rinnegando con questo lo stesso proprio
concetto di giustizia e di razionalità. In realtà vi sono negli stoici cose
troppo incompatibili con l'oratore quale noi formiamo. Questa, ad esempio: ad
ascoltarli, tutti coloro che non sono saggi sono schiavi, nemici pubblici,
folli; d'altra parte non v'è uomo che sia saggio. Sarebbe, dunque, una grande
assurdità affidare la cura di guidare il popolo, il senato, qualsivoglia
assemblea a chi fosse persuaso che tra i suoi ascoltatori non vi è uomo
sensato, non un cittadino, non un uomo libero (De Oratore, III, 18, 65). Tale
impossibilità di guidare la vita politica, sottolinea Cicerone, non ha permesso
agli Stoici piu antichi di scrivere intorno allo stato (De legibus, III, 5-6,
13-14). Solo Dione stoico, aggiunge, se n'è occupato. Chi sia Dione stoico non
sappiamo a meno che non si tratti di Diogene di Babilonia, che secondo Ateneo,
XII, 526, scrisse De legibus, e, insieme a lui, Panezio di Rodi. Su questo
argomento dei magistrati, alcune questioni furono studiate molto sottilmente
prima da Teofrasto, poi dallo stoico Dione. Tu dici? Anche dagli stoici fu
trattato questo? Non proprio, salvo da colui che ho ricordato, e poi da quel
grande e coltissimo uomo di Panezio. Gli stoici antichi soltanto astrattamente
e pur con acutezza hanno trattato dello Stato, ma non in questa maniera pratica
per l'utilità del popolo e dello stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). È vero.
Lo stato che potremmo delineare attraverso i frammenti di Cleante e dì Crisippo
sarebbe lino Stato universale, fondato sul motivo del diritto naturale,
razionalmente ordinato, ove la legge sarebbe specchio della legge del tutto,
del logos, ma dove anche, data la distinzione stoica tra saggi e non saggi e la
incomunicabilità tra gli uni e gli altri, si avrebbe un solo saggio ché tutti i
saggi si identificherebbero in uno e molti uomini, i non saggi, i quali soli,
alla fine, si dimostrerebbero capaci di azione e di vita sociale, che sarebbe
però ingiusta, asociale, apolitica, dove non potrebbe non avere il sopravvento
che la retorica degli affetti e delle passioni. L'abbiezione di Cicerone
avrebbe potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa di Carneade nei
confronti degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone tende a rendere
convincente sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in quanto utili a un
certo fine politico. Certo a Carneade, per quel poco che di lui sappiamo, non seppe
rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di Tarso. Si dice che Antipatro
non ebbe mai il coraggio di scendere in discussione con Carneade direttamente e
ch'egli tentasse di difendere le posizioni dello stoicismo ortodosso per
scritto (cfr. Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 8, 6), limitandosi ad
approfondire gl'indifferenti tra cui avrebbe posto il dovere e la fama validi
entro l'ambito umano (cfr. Cicerone, De fin., III, 17; anche Seneca, Ad Lucil.,
92, 5; 87, 38), mentre Diogene di Babilonia, il collega di Carneade al tempo
dell'ambasceria a Roma, discepolo di Crisippo, avrebbe particolarmente
approfondito alcuni aspetti della dottrina stoica, in forma precettistica e
tecnica (la dialettica, la retorica, la musica), ma in modo tale che, ponendosi
su di un piano piu logico che ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo
rinnovare i contenuti stessi dello stoicismo. Panezio avrebbe poi tentato il
recupero di tutte quelle tesi stoiche che, utili per un tipo di politica e di
giustificazione di una certa azione, avrebbero potuto assumere, entro una
precisa visione del tutto, una loro forza sul piano umano. In realtà, dietro
l'atteggiamento piu pratico - come sottolinea Cicerone - piu umanistico di
Panezio, che puo esattamente servire ai fini dell'azione di Scipione Emiliano,
v'era la possibilità di svi-luppare la logica e la dialettica di Crisippo,
indipendentemente da corrispondenti strutture ontiche, battendo l'accento
sull'aspetto ipotetico del discorso e sulla retorica nel modo in cui, attraverso
Zenone e poi' Crisippo, s'e delineata in Diogene di Babilonia. Studi recenti
(cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene di B., Filosofia) hanno messo in chiaro
la stretta relazione posta da Diogene tra filosofia e retorica. Se la filosofia
viene ad essere stoicamente 2 [Di Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo
molto poco. Discepolo di Crisippo, successe nello scolarcato della Stoà a
Zenone di Tarso. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante
(264-232), Crisippo (232-208), Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. A Diogene
di Babilonia successe nella direzione .della scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro,
nel 129, Panezio. la scienza del ben
pensare, attraverso cui si determinano le condizioni senza le quali non v'è
discorso cioè i dati e l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un
discorso sintattico e proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui
anzi consiste l'esperienza si capisce come l'arte del dire, in quanto
espressione dell'arte del pensare, possa avviare gli altri a ben pensare,
costituendo un· ordine. sintattico e armonico, sociale, specchio appunto
dell'ordine razionale cui si giunge attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi
del pensiero a se medesimo. Ipotetiche le premesse, anapodittici i sillogismi,
formalmente il di- scorso è necessario e può costituire, sul piano umano, un
ordine altrettanto necessario e perciò stesso razionale, a cui serve la
retorica, valida qualora, appunto, sia introduzione e avviamento al ben pensare
e per ciò al ben vivere, insignificante, anzi da respingere, qualora resti su
di un piano neutro di contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il
contra.sto tra retorica pura e retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza,
e il parallelo, posto da Diogene, tra retorica e medicina (fr. 91, III Arnim),
per cui la vera retorica è terapeutica ed è psicagogica. Di qui, formalmente e
per la sua funzione terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene tra
retorica e musica (fr. 92, III Arnim). La funzione della retorica, che, in
quanto seducente in vista del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali,
si fonda su tecniche precise che potevano essere benissimo riprese dalle
analisi sulla retorica e dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei
caratteri umani (Gorgia, Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche
l'accorgimento dell'inganno o dell'illusione seducente (cfr. fr. 105, III
Arnim), sapendo con opportunità (eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (fr.
122, III Arnim), prende un suo carattere preciso in quanto serva a porre ordine
e composizione (croveaL(i, syncsis) nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot,
cuagoghia) politica, cioè sociale (fr. 102, III Arnim). Retorica e politica
venneno, in tal modo, a coincidere in funzione della costituzione di un
rapporto umano che fosse rapporto razionale, simile all'ordinarsi necessario di
un discorso, in una misura per cui ciascuno si ponga là dove è bene che sia,
come lè parole in una strut- tura grammaticale e sintattica. Non a caso, cos(,
sembra che tra i pen- satori greci, suoi contemporanei, Catone il Censore
avesse, accanto all'ideale del Socrate senofonteo, una qualche simpatia per
Diogene di Babilonia, che, d'altra parte, e anche questo sembra opportuno sottolineare,
era stato a Roma già prima della CELEBRE AMBASCIATA DEL 155 (cfr. Cicerone, De
senectute, 7, 23). La medit Stoà. Panezio. Polibio. Il diritto naturale. La ncostruzione
di Cicerone. Le lodi che Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento
che Panezio avrebbe reso realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della
virtu e della giustizia stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà,
molto poco. Sappiamo ch'egli nacque nel 180 circa, a Rodi, città in quel tempo
culturalmente attiva, politicamente legata a Roma. Uomo aperto e curioso, non
vincolato fin dal principio a una precisa scuola, non formatosi ad Atene,
sappiamo che Panezio visse a Roma parecchi anni, ch'entrò in dimestichezza con
Scipione Emiliano, che ne fu consigliere ed amico, che fu con lui ad
Alessandria e durante le campagne d'Africa, dal 146 al 142, e che divenne, in
Atene, scolarca della stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso, nel 129, proprio
all'in- domani dell'improvvisa morte di Scipione. Può darsi sia un caso, ma è
un caso che può far pensare. Panezio lasciò lo scolarcato (non si sa se anche
in quell'anno sia morto) nel 109. In effetto Panezio non fu uno stoico di
scuola, né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che avrebbe potuto
giuocare su di lui il pensiero dello stoico eretico [Nato nel 180 circa a Rodi,
Panezio, amico e discepolo di Diogene di Babilonia, visse a Roma parecchi anni,
entrando in dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu consigliere. Lo
segui in Africa e in Asia tra il 146 e il 138. Nel 129 fu nominato scolarca
della Stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso (su Antipatro cfr. vol. 1). Lascia
lo scolarcato nel l09 e sembra sia morto in quello stesso anno. Delle sue
opere, andate perdute, si ricordano soprattutto una Sul dovere! (ITcpl wii
x~o~), che sarebbe stata scritta al tempo del suo soggiorno a Roma, ed una
Sulla provvidenza (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la fonte del De olficiis di
Cicerone. Si conoscono inoltre i seguenti titoli: Sulla tranquillità dell’animo
(ITcpl IÒ&u!l-(«ç); Sul ,Oflt!Nio (ITcpl no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl
atlp~m:(J)'\1); Di Socrate dei socratici (ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II E(J)xpcmxwv);
Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello scolarcato della Stoà, a Panezio successe
Mnesarco, del quale non sappiamo nulla se non che segui pedissequamente il
maestro. A parte Posidonio (dr. oltre) e i romani che seguirono Panezio, un
altro discepolo di Panezio, del quale occorre fare almeno il nome, fu Ecatone
di Rodi, che si occupò in particolare di problemi morali e i cui manuali
divulgativi ebbero larga diffusione. In essi si discuteva soprattutto il pro-
blema dei conflitti dei doveri, in una delineazione della piu rigida morale
stoiea e in una distinzione tra virtU teoretiche e virtU non teoretiche,
riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che non era stata certo quella di
Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio: "Secondo gli Stoici, non v'è
alcun grado intermedio tra la virtU e il vizio. Come un legno deve essere
diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o ingiusto... Ecatone, nel secondo
libro Sui beni, sostiene che la virtU è sufficiente alla felicità... non dando
alcun valore a tutto ciò che si crede possa turbarla. Panezio e Posidonio
invece sostengono che la virtU non è sufficiente, ma occorrono anche buona
salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza" (Diogene L., VII, 127-128).
Per il resto cfr. sempre Diogene Laerzio, VII, passim. Ci sono stati tramandati
i titoli delle seguenti opere di Ecatone: Sui fini (ITcpl T&ÀW'IIi; Sui
beni (ITcprciyat.&wv); Sullt! virtu (ITepl cip&:Twv); Sul dovert!
(ITcpl xat&ljxo~ ; Sulle passioni (ITcpl ncx&ciiv); Sui paradossi
(ITcpl natpct36~(J)'II); Sentt!nze (xpc't«'). Boeto di Sidone, del quale, di
fatto, non sappiamo niènte (cfr. J. F. Dobson, Boethus of Sidon,
"Classica! Quarterly," pp. 88-90), se non che avrebbe fatto un
commento ai Fenomeni di Arato (su Boeto cfr. Diogene Laerzio, VII, 54, 143,
148, 149). Anche se indirettamente, cioè al di fuori e indipendentemente dalle
dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio avrebbe risposto a Carneade,
rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso "probabilismo"
di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a suo contenuto - se non vi
fosse una presunta verità, neppure si potrebbe parlare di probabilità, di
capacità d'assu- merne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro a sé o innanzi a
sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui ciascuno, a seconda
della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso del cosiddetto pla-
tonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge del tutto - niente
affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine di realizzazione,
come dovere, cui l'uomo ~onoscendo sé, entro i limiti della propria natura,
deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu genuina natura
umana, l'istintr proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che Cicerone (sembrano
ispirati a Panezio parti- colarmente il De natura deorum e il De otficiis) e
anche altre testimo- nianze. (sia pur assai frammentarie) sottolineano come i
piu appariscenti di Panezio: da un lato un rigoroso immanentismo naturalistico,
dall'altro lato - entl'Ò i termini di quella che è la natura nella sua totalità
- il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a quella natura stessa, ciascuno a
seconda della propria natura. Sembra cos' interessante ricordare che Diogene
Laerzio (VII, 41), su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio, sottolinea
che mentre Zenone e Crisippo ponevano per prima la logica e per seconda la
fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla
fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v rpuatxwv
clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione della
fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le testimonianze
sottolineano avere Panezio ne- gato rispetto alle posizioni degli stoici
precedenti. Panezio avrebbe so- stenuto che il cosmo non muore e non invecchia,
ch'esso è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un
principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis)
periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza
(rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino:
l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept .&eou Myov (Epifanio, De
fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor., Il, 46, 118; Filone,
De aet. mundi, 76; Diogene L., VII, 142; Arnobio, Adv. nat., Il, 9; Stobeo,
Ecl., I, 20 e Il, 7). Sembre- rebbe cos' potersi riferire a Panezio, anche se
non direttamente citato, la concezione riportata da Cicerone nel De natura
deorum secondo cui natura e divinità coincidono nel senso che il divno è la
stessa ragion d'essere (L6gos) del tutto, forza vitale e organizzatrice
(egemonica), non separata dagli esseri individuali, esistente .anzi nel
costituirsi di quegli esseri, che quanto piu realizzano e conservano se stessi
(la propria natura), tanto piu realizzano e conservano l'universo mede- simo,
ché diversi tra loro per gradi, non lo sono affatto per natura. L'ordine,
quindi, e i rapporti tra le cose non sono dovuti a una "sim- patia"
delle cose tra loro né alla necessità del fato, bens1 ad una ra- zionalità che
rende pensabile e giustificabile la realtà stessa e i suoi molteplici aspetti,
e che esclude da sé sia il motivo della divinazione sia il motivo dell'anima
immortale, separata dai corpi (cfr. Cicerone, Lucullus, XXXIII·, 107; De
divinatione, l, 3, 6,. 7, 12; Il, 42, 87-47, 97; Tusc. diss., l, 32, 79-33, 80;
Diogene L., VII, 149). Piu di questo non possiamo dire della fisica di Panezio.
D'altra parte, sia il fatto che alcuni interpreti antichi hanno veduto nella
concezione fisica di Panezio una diretta influenza della concezione platonica
(va sottolineato che il riferimento è al Timeo ed è dovuto all'interpretazione
che del Timeo dà Proclo, In Plat. Timaeum, 50b), sia i continui riferimenti
delle testimonianze all'aristotelismo di Panezio, al suo essere non solo filoplatone
ma anche filoaristotele (Stoic.lnder Herc., col. 61, Com- paretti 534), avendo
Panezio sostenuto l'eternità del cosmo, sempre tutto in atto, l'unità di anima
e corpo, portano a pensare che per Panezio la realtà, tutta in atto sempre, nei
suoi aspetti molteplici, sia quella che è, in sé né buona né cattiva,
comprensibile in quanto ricondotta ad una sua universale razionalità,
rasserenante qualora appunto se ne comprenda da un lato la sua necessaria
razionalità, dall'altro lato che, entro quella stessa razionalità, ogni cosa è
là dove è bene che sia, ogni cosa attua se stessa pienamente in quanto attui la
propria natura, cioè la propria ragione, secondo le risorse che la natura ha
dato. Poiché, d'altra parte, è un fatto che all'uomo è dato rendersi conto di
ciò (tra l'uomo e la bestia vi è grandissima differenza; la bestia, solo in
quanto è stimolata dal senso, conforma le sue abitudini a ciò che è vicino e
presente, non curandosi affatto del passato e del futuro; l'uomo, invece,
poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella vede la concatenazione dei
fatti, le cause efficienti di esse e le cause occa- sionali, e ne conosce quasi
i precedenti, confronta le cose simili e con- giunge intimamente le cose future
alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita -- Cic., De
off., I, 4, 11), tale consapevolezza e comprensione è ciò che Panezio chiama
ragione di contro all'istinto e agli impulsi degli animali e alla natura
propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro aspetto, essi stessi impulsi e
natura, sono razionali. "Due sono gli elementi naturali dell'animo: l'uno
è posto nell'istinto, 35
detto dai Greci op!J.i) (hormè: impulso), che trascina l'uomo qua e là;
l'altro è posto nella ragione, che insegna e rivela all'uomo cosa si debba fare
ed evitare. È quindi vero che la ragione deve comandare e l'istinto obbedire. I
movimenti dell'animò sono di due specie e consistono nel pensiero e
nell'appetito: il pensiero si applica soprat- tutto alla ricerca del vero;
l'appetito spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero
alle cose piu grandi e di far sentire all'appetito il peso della
ragione..." (Cic., De off., I, 28, 101; l, 36, 132). Di qui,
evidentemente, l'affermazione di Diogene Laerzio che secondo Panezio due sono
le virtu: virtu teoretica e virtu pratica (VII, 92). In altri termini, insomma,
l'istinto, l'impulso sono tali in quanto non compresi; compresi, l'istinto e
l'impulso cessano di essere irrazionali, onde la razionalità - e ciò è dato
all'uomo consiste nello stesso impulso qualora sia ordinato nella
consapevolezza di quelle che sono, appunto, le risorse che la natura ci ha dato
(•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv
xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot;
d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve
conservare le proprie tendenze... Perché si possa pm facilmente conseguire quel
decoro, che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la
natura dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di
quella superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva
l'onesto e il decoro ed alla quale risale la cono- scenza del dovere":
Cic., De off., l, 30, 107); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria
natura ("come nei corpi ci sono grandi dUie- renze... cosi negli animi vi
sono varietà anche maggiori": Cic., De off., I, 30, 107), cosi che anche
se le altre ci sembrano migliori e piu impor- tanti, misuriamo alla sua regola
le nostre attitudini; non ~ opportuno in- fatti andare contro la natura e
cercare di ottenere quello che non si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia
il decoro, perché non ~ lecito far nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di
Minerva, ci~ quando la natura ~ contraria. Ma non v'è cosa piu decente della
coerenza e di tutta la vita e delle singole azioni, e non si può conservarla
se, per imitare l'altrui, trascuriamo la nostra natura... Tanta questa
differenza fra le nature umane, che talvolta per gli stessi motivi uno è
costretto a darsi la morte ~ un altro no... (Cicerone, De off., l, 31,
110-112). Concepita la realtà come razionalmente .strutturata, strutturato ra-
zionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò per
cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio
impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'or- ganismo quanto piu
ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in
atto nei suoi organi), ne consegue che 36 l'uomo scoprendo sé come
ragione, quanto p1u vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio
dell'uomo, che ordina e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a
seconda delle proprie possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo
"natura," secondo la propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur
nell'interpretazione che ne dà Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di
Panezio sia stato quello di insistere sul fatto che nell'ordine razionale del
tutto ciascuno ha il suo giusto posto, in una specie di ordine gerarchico, per
cui da un lato ne deriva che ciascuno deve rea- lizzare sé razionalmente, cioè
misuratamente, entro i propri limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato
ne deriva anche che ciascuno deve rimanere al suo posto, al posto che natura
gli ha dato. Non a caso Cicerone, in funzione del suo ideale politico,
riallacciandosi alla idea- lizzata figura di Scipione, svilupperà
particolarmente proprio questo motivo, fino a giungere a far rientrare entro
questo quadro la difesa della proprietà privata. Se è vero che formalmente gli
uomini sono tutti uguali, perché partecipi di ragione (cfr. Leggi, l, 7-21
sgg.) e che per ciò, formalmente, non esistono cose private per natura, è
altret- tanto vero che, in concreto, come ciascuna cosa e ciascuno nell'ordine
del tutto è distribuito al suo posto, cosi ciascuno ha il diritto a ciò che gli
è toccato in sorte. Come il primo dovere della giustizia è di non offendere
alcuno, se non si è provocati da ingiuria, cosf dovere della giustizia è di
usare delle cose comuni e delle cose private come proprie. Non vi sono però
cose private per natura, ma per antico possesso... Tuttavia, poiché quei beni
comuni per natura diventano di proprietà privata, ognuno si tenga ciò che ebbe
in sorte; se poi qualcuno desidererà per sé l'altrui, violerà il diritto
ddl'umana società (Cicerone, De officiis, l, 7, 20-21). L'uomo di Stato dovrà
soprattutto badare che ciascuno conservi il suo e che la pro- prietà
pri\>ata non sia diminuita da parte dello Stato..._, L'eguagliamento delle
fortune è la' peggiore delle pesti. Gli Stati furono costituiti e le comunità
cittadine furono ordinate appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà.
Gli uomini infatti, sebbene siano spinti per istinto natu- rale ad unirsi fra
di loro, cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni
(Cic., De off., Il, 21, 73). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo
posto," sia entro l'ordine del tutto sia entro le società specchio della
politéia cosmica (l'argo- mento platonico anche se con frase stoica è
particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è
da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomi~i": Leggi,
I, 7, 23) si veniva delineando lo scioglimento del rigido motivo stoico
dell'ordine dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel tutto e nella società
di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé, un proprio dovere,
che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la comune ra- gione) ed è
uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si pone da un lato come
realizzazione della ragione propria di ciascuno e, dall'altro lato, in
ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf che ciascuno sia se
stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un ordine sociale.
L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli uomini agli
altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella
socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore verso la prole, induce
a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi motivi gli uomini cercano
di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla vita e alle sue comodità, e
non solo per se stessi, ma per la moglie, per i figli, c per tutti gli altri
che essi amano e debbono proteggere... Né invero è piccolo privilegio della
ragione umana che soltanto l'uomo possa cono- scere cosa sia l'ordine, il
decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non v'è altro animale che
conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose visibili; e la ragione
naturale trasportando per analogia queste pro- prietà dagli occhi all'animo,
tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la bellezza, l'armonia c
l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano atti indccorosi cd
effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia o si pensi a
capriccio... (De off., l, 4, 12-14). Di qui il concetto, sviluppato da
Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come
ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di
interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la
universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il
virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il
dovere asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se
nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che
idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo
posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi
il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli
compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a
quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione
con- siste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso
che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci .lo chiamano
xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano xcx&;jxov.
E cosf 38 definiscono questi doveri, in modo da stabilire come
dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere comune .quello del
quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo Panezio, sono i casi che
si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se si
deve prendere una deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi
ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l'ar- gomento
preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le gio- condità della
vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo
giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale deliberazione rientra nell'utile.
Si è, infine, incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con
l'onesto: mentre infatti l'utilità ci trascina verso di sé e l'onestà anche ci
chiama a sé, avviçne che il nostro animo vacilli nel pren- dere una decisione e
rimanga perplesso fra opposti pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno,
dunque, in quanto viva seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il
proprio singolo mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti,
conoscendo sé1 (cognitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza
(7tprnov, prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica,
era possibile, nella realiz- zazione pratica della ragion d'essere, che è lo
stesso ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre
ilcomplesso ·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De
ofJ., 1), in cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella
giusta misura, di volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo
un abito civile, che va dai rapporti sociali 1 (De of J., I, 7-34) all’educazione,
dal modo di vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1,
37), al decoro delle abitazioni (1, 39) e
cosi via; dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel
supremo bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere,
estetica- mente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi-
sura. "Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste
il decoro, che i n greco si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off., l, 27,
93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore
aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire
benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rap- porto di equilibrio e
di rispetto, in cui sta l'humanitas e la charitas generis humani: charitas,
cioè rapporto di decoro, che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto
di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto
dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è
anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che
spiegare. Qualunque 39 cosa
infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si manifesta
non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che
costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assen- natezza e
prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero...
La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime sembrano
decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le parti
dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di astrazione,
ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che si presuppone
in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in teoria che in
pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un decoro generale,
che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo subordinato, che
riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi definito:
"Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in quanto la
sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi, invece, si
definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è consentaneo
alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e temperanza ed una
certa nobiltà... A noi la na- tura stessa ha assegnato una parte, dotandoci di
superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò, dalla natura
stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza, della moderazione,
della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di comportarci
verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione del decoro
generale e quali parti contempli il decoro particolare. Come infatti là
bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle:.membra attira gli sguardi
e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra armonia,
cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di quelli con i
quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti e dei fatti.
Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma
anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal decoro, deve prima
di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla conservazione
delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non potremo mai
sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza... (Cic., De
off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato, di una
realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un organismo
vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate e non piu
discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei confronti
di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto volta a
costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale modello,
inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici,
particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del
Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della
Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione
40 di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di
realiz- zazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quel-
l'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il
proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza mo- rale di certo
stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del
conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un
loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con
temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è
povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato
i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle
classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della
temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma
anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le
sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si
potessero sfruttare- le indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu
etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come
un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale
negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar
significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo
stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui
tutto si scandisce: la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di
uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di
cia- scuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in
tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o
classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola
Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo,
l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e
alla legge universali, in nome della comune umanità razio- nale, per cui tutti
gli uomini sono uguali, quando si era venuta formu- lando e!ltrO l'àmbito della
prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere
politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali
delle Città-Stato, quali in par- ticolare si erano venute determinando dopo la
morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva
avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in
quanto costru- zione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione
della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello
formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini,
invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione
universale, che non esistono a sé, ma nel co-
41 stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è
bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto
naturale assume una venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti,
per natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso
dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, di- verso
dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da natura,
in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno non può
non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là dove
deve essere, po- tendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto, nel
rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto
dell'ordine costi- tuito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la
conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A
tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio,
dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella
Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo,
costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le altre
città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico Stato. Non
possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione politica di
Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi paneziane abbiano
subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo nella situazione
storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa, sia pur con tutti
i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni religiose (come
malinconica- mente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle singole
situazioni poli- tiche delle città greche, condizione della possibile
realizzazione dell'ar- monia delle genti ed internamente ad ogni stato
dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto
Panezio abbiano esal- tato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e
che Polibio, rifa- cendosi al motivo dicearchiano della "politèia"
mista, ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica
romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da
Sci- pione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e
della Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome
della f Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno
dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd
168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della
casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e
consigliere di lui, Polibio accom- pagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie
spedizioni: sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine
(146), sia in quella contro Numanzio (134). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per
una caduta da cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua
Storilt, che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI,
5, 58), libertà della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua
parte nella storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu
in.viato quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli
Scipioni, e divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio
della sua Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende
umane e sui fatti, •pragma- tica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto
stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma
di governo i Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza
precedenti ndla storia, abbiano conqui- stato quasi tutta la terra abitata? (I,
l). Il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto
piu straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte
rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e
tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico
raccolga per i lettori in una uni- taria visione d'insieme il vario operato con
cui la fortuna portò a compimento le cose dd mondo (I, 4). E nel VI libro si
legge: Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma
sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si
inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli
Spartani è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi ba- stano
a provare la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano
[al tempo ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano
l'autorità. Il loro potere era cosi ben diviso e distri- buito, che neppure i
Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd
complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene,
perché considerando il potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di
forma monarchica, valutando quello del Senato lo si sarebbe detto
aristocratico; se qualcuno inqne avesse consi- derato l'autorità dd popolo,
senz'altro avrebbe definito lo Stato romano democratico. Le prerogative di
ciascuno di questi organi ai tempi della guerra annibalica e, tranne qualche
piccola eccezione, ancora .ai nOstri giorni, sono le stesse (VI, 11). Il
rapporto tra le diverse autorità è cosi ben congegnato, che non è possibile
trovare una costituzione migliore di quella romana. Quando infatti un pericolo comune
sovrasti dall'esterno e costringa i Romani a una concorde collaborazione, lo
Stato acquista tale e tanto. potere, che nulla viene trascurato, anzi tutti
compiono quanto è ricercandone principi, cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo
e nello spazio, in una spie· gazione razionale e scientifica del reale
succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda conto di come Roma abbia potuto
divenire il centro della storia.
43 necessario e i provvedimenti non risultano mai presi in
ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e collettivamente collabora alla
sua attuazione. Ne segue che i Romani sono insuperabili e che la. loro
costituzione è per- fetta sotto tutti i riguardi. Quando poi, liberati dai
timori esterni, essi go- dono del benessere seguito ai loro fortunati successi
e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità, come suole accadere,
qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia, subito la costituzione
interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se difatti uno degli organi che
lo costituiscono diventa troppo potente in confronto agli altri e agisce con
tracotanza, non essendo esso indipendente come abbiamo detto, ma essendo i
singoli organi legati l'uno all'altro e controllati nella loro azione, nessuno
di essi può agire con violenza e di propria iniziativa... (VI, 18). Non va ora
scordato che questi testi del VI libro, sulla costituzione romana, seguono ad
alcune pagine dedicate da Polibio alla nascita degli Stati, alle loro varie
fasi, alla loro decadenza e ricominciamento dal punto di partenza, in un
andamento ciclico (VI, 1-10). Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad
Aristotele, per la teoria della naturale trasformazione delle forme di governo,
divenuta oramai un t6pos ("essa è stata esposta con particolare acume da Platone
e da altri filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è
la monarchia la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge
l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa
avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella
oclocrazia (potere della plebe). La moltitudine, abituata a consumare i beni
altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e
ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la
violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a
quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca"
(VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç,
politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano,
deca- dono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista sembra che la
costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna
delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in essa la piu
alta forma di demo- crazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine
dello stato costi- tuito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati,
sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in
XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per un certo tempo,
salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e
popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è
presente in Polibio la lotta condotta da Scipione con- tro Tiberio
Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche,
attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere
recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che
rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustificava
la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. La
repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione è cosa del popolo
(res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito
in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata per accordo
nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima causa poi di
siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto
associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ nella
solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di
abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo po- trebbe rimanere isolato1.
Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa
natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché
rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la
società... Tutta la popolazione, che è costituita da un rag- gruppamento di
gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato
che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente,
onde essere duraturo. Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa
è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.1Da questa suole sorgere
il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello
popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che
già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e
delle vicissitudini negli ordina- menti politici; è proprio del filosofo
conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al
governo dello Stato, moderan- done il corso e mantenendolo in propria potestà,
questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento
pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento,
moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1che ho
men- zionati per primi (Cic., De rep., l, 25, 26, 29). Il circolo sembra cosr
chiudersi. Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di
motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la
visione di un tutto razionalmente ordi- nato, ove ogni cosa è là dove deve
essere, dove è giusto che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di
un'azione politica, il tentativo di un ordi- namento dello Stato, che trova il
suo fondamento e la sua giustifica- zione, la sua legalità, nello stesso ordine
universale, nell'ordine natu- rale, che, in quanto a tutti comune, per la
comune razionalità, se for- malmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto,
in nome del diritto naturale, del vinculum iuris e della
giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per
natura e, dunque, per legge. Entro questi termini si vede bene; da parte
romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che
il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la
sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di
modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto
coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine
costituito, rovesciare la respublica, venendo meno alla giusti· zia e al
diritto stesso, su cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e
della sua classe dirigente in funzione dello ius gentium. "Il
consolidamento del territorio o della giurisdizione di una na- zione,
specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non può non far
sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge nazionale e
legge delle tribu o dei distretti: e la risposta non può essere rimandata a
lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere a questa
pratica necessità, e il contenuto effet- tuale di questo sistema dipenderà in
ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare... Roma incontrò
questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia giuridica,
quando l'in- fluenza della filosofia politica greca era forte e il diritto
romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne di quanto
non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e fissate in
una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva
necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi
romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci
con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente
sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente
·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium -
un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma.e
delle vicine tribu da ultime assogget- tate - con lo ius naturale che la
filosofia stoica aveva insegnato a consi- derare come un sistema 'comune' a
tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai
Greci al tardo Medioevo, trad. it., Venezia, 1959, pp. 136-37). Il motivo del
diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da fondamento e da
giustificazione per l'azione politica della classe diri- gente senatoriale e,
piu tardi, attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione Emiliano (quale
si rivela anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto al tempo di
Cicerone, quale giustificazione della posizione assunta dalla classe degli
uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della legge
razionale su cui si scan- disce il tutto) a giustificare la
conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere
quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica
di Cicerone. Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della
concezione paneziana, retori- camente espressa volta a volta a seconda di certe
situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della "res-publica,"
essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi platonici, aristotelici e stoici,
l'avversione di Cicerone per i popolari e per Cesare e la sua avversione per
gli epi- curei, la cui filosofia, egli arriva a dire, dovrebbe essere
condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge (De finibus, II, lO,
30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto aveva dato Epicuro,
coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava non un ordine dato,
scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un ordine e un
equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razio- nalità è conquista e
azione, e la formulazione che, attraverso una rie- laborazione del concetto di
giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il motivo della
legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante, Crisippo,
Panezio) vien data del di- ritto naturale da Cicerone: lucidissima formulazione
di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di discussioni
politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una precisa presa di
posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che non poterono
stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né
il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che non vollero e
non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno (Massime Capitali,
XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti
reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non
recare né di ricevere danno (Mass. Cap., XXXIII). L'ingiustizia non è di per sé
un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a
coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass. Cap., XXXIV). Da
un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti, poiché rap- presenta
l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle parti- colarità dei
vari luoghi e di ogni genere di principt causali segue che una medesima cosa
non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI). Cicerone, invece, proprio di contro
alla tesi contrattualistica e con- venzionalistica di Epicuro e di contro
all'altrettanto contrattualistica e storicistica tesi di Carneade, ambedue
estremamente pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte, cercava
giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica, dice. Vi è
certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti,
costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto
distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta inutilmente agli onesti né
muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è lecito
apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non
possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo...; essa non sarà
diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna,
immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà
comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò
questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato
la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a
sfuggire a quegli altri che solitamente sono con- siderati supplizi (Cic., De
rep., III, 33). Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti
gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso
partito politico. Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute
iniziali de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: Riallacciamoci, dunque,
nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata
tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche
Stato sia mai stato costituito... Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e
conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci
insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate
a quel genere di costituzione, occor- rendo anche inserirvi i principi morali
senza sancire ogni cosa .per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla
natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione...
(Leggi, l, 19-20). Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi
postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla
ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro
termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde discende che il
tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epi-
curea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né
delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: "Te lo concedo, se
me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di acque" -
il dialogo si finge svolto in campagna - "non temo che mi senta al- cuno
dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto l'uguaglianza di tutti gli
uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo
universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in
partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune
ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico,
infatti, la comune ragione è la Ragione universale che realizza se
stessa me- diante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve
man- tenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e
sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa
visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la
funzione cosmica (ordi- natrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si
delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in
quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere
conveniente- mente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e
che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, ri-
spetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro
quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della
formulazione della parola"della legge e della sua interpretazione, in
quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giusti- zia, o,
meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della
legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giu- stizia formale e
giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fon- damento medesimo
della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per·altro verso, studio
delle tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che fin dal principio le
persone che ruo- tarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con
Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo "
stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche, militari,
oratori e giuristi, a co- minciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C. circa),
avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica, amico di
Panezio; C. Fan- Dio, genero di Lelio, console nel 122, anch'egli amico di Panezio,
autore di Annales, contrario alla proposta di C. Gracco di concedete la piena
cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agli ltalici; Blossio di Cuma
discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Au- gure (174
circa-87), Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco,
Sp. Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q. Elio
Stilone (154-dopo il 90), maestro di Varrone e di Cicerone; per giungere a Q.
Mucio Scevola Pontefice, nato nel 140 circa, morto nell'87, vittima delle lotte
civili, celebre per la sua giu- stizia, giurista di grande valore, autore di
libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un fondamento al diritto, e di
un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di concetti
giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli giurista,
discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al quale Cice-
rone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le conce- zioni stoiche
sul divino; a M. Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti- giano
di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Vale- rio Sorano; al
celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da
Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro.
Cicerone definl Catone stoico com- piuto, soprattutto per la sua dirittura e
constantia sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla
libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C., si tolse la vita.
II suo suicidio è rima- sto un topos della letteratura stoica e della
teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra
abbia discusso con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55 sgg.). 4.
Posidonio. Le sctenze. Ipparco di Nicea È stato detto che il gran merito di
Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51 a. C.,
"fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la massa di
credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una forma
singolare ed elo- .quente. II vasto insieme dei suoi scritti esprime con
una.pienezza unica Io spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra
cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. È per questa
ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di
filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la
fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. Egli li
Posidonio, nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la
patria, dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita
delle città greco- siriache. Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora
diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio
lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia,
altrove. Dal 95 a.C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove,·divenuto celebre
per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scien- tifiche e
storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la
pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne
visitato dalle mag- giori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo,
e Cicerone si recò apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa.
Delle moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli
traman- dati: Fisica {~cnxòç ).6yoçl; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OUl; Sugli
dèi (IIe:pt &t:wvl; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl
à(XLI'6116l\ll; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione”
(IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima” (IIcpl ~U)('ijt;l; Introduzione al lin-
guaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l ; Contro Ermagora {Upòt;
'Epi'(Xy6p(X11 l ; Srtl cri- terio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni
(IIcpl 7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; “Sulle
virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc;l; Protrepttci
(IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc;l; Esege# del Timeo di
Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l ; Sulle meteore (IIe:pl
!.I.ETC6lp6l11 l ; Strlla gran- dezza del Sole {Ilcpl TOU 'H).(ou
l'cyi&ouc;l; Su Zmone (IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul
;Oltre Polibio (TIZ I'CTii Ilo).(~L0\1l ; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l ;
Lettere ('E7rLCJTOì.r&t l- 50 univa i vantaggi di uno stile
attraente e colorito a quelli di una enci- clopedia" (E. Bevan, Stoics and
Sceptics, Oxford, 1913}. D'altra parte, si è anche detto, il fatto che il
nucleo degli scritti di Posidonio fosse tratto dalla filosofia corrente delle
scuole e dalle credenze popolari accresce la difficoltà che sorge quando si
cerca di attribuirgli con sicu- rezza molte idee che ritroviamo presso
scrittori a lui posteriori. "Que- ste idee possono infatti essere giunte a
questi scrittori attraverso la mediazione di altri" (Bevan, cit.). Senza
dubbio dietro molte cogni- zioni di Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di
Filone l'Ebreo, di Strabone, di Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono
anche quei molti manualetti di filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico,
che sappiamo circolare nel 1 secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi
comuni, di sentenze correnti, di detti popolari. Impossibile rico- struire
attraverso le fonti una posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché
a seconda delle fonti usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso
dall'altro; tuttavia mediante quelle fonti stesse, cri- ticamente vagliate, è
possibile cogliere un Posidonio volto, piu che a costruzioni astratte, a
raccogliere dati, descrivere e catalogare fenomeni, a rendersi conto e a
rendere conto di quei dati e di quei· fenomeni stessi, dai normali agli
anormali all'osservazione, si tratti di fenomeni fisici o di fenomeni
cosiddetti psichici, o di fatti storici, in un tenta- tivo, sembra, di dare una
spiegazione integrale dell'universo o, com'è stato detto, di "rendere
l'universo familiare agli uomini." Già un primo sguardo ai testi da cui si
traggono le testimonianze su Posidonio o entro cui si trovano citazioni da
Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli interessi di lui in campi
molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che Posidonio servi da fonte e da
informazione a uomini di culture diverse e mossi da interessi diversi. Chi si
limi- tasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un Posidonio studioso di questioni
morali e sociali; chi si limitasse a Galeno avrebbe un Posidonio stu- dioso di
fenomeni psichici; chi si limitasse a Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad
Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore di fenomeni naturali, geometrici,
astronomici, astrologici, geografici, storici; chi si limitasse a Cicerone e a
Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio assai vicino a un Cleante e a un Crisippo,
particolarmente in fisica. Abbiamo citato solo alcuni nomi di autori dalle cui
opere è possi- bile trarre informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai
indi- cativi per mostrare da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana
e, dall'altro lato, l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o
ad altra precisa dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe
fonti, da cui sem- bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta
tra un 51 principio positivo
e attivo e un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo
presente l'origine orientale, siriaca di Posi- donio, ha fatto di Posidonio un
mistico, legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti,"
che di contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe
inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come
starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo
stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico,
negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non
sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono
stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché
"scienti- fici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando
precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione
di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale,
dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro
Panezio, riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il
pneuma diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~nLV ot1Y.(j) .ro
niv cfr. Arnim, II, fr. 473). Posidonio, ancm:a di contro a Panezio, avrebbe
ripreso la tesi della ciclicità del tutto i cui termini estremi, toccantisi,
sono dovuti alla conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui l'universo, che
si scandisce per degradazione nelle due zone del razionale e del- l'irrazionale
(aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare o terrestre e
mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le anime umane -
nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle ricostruzioni dello
Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando tutte le fonti, appare
l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di Posidonio, in cui mentre
da un lato .sarebbero penetrati motivi mistici e irrazionali di provenienza
orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero stati spie- gati da Posidonio,
al di là delle tesi propriamente stoiche, mediante la concezione aristotelica
dell'universo distinto nelle due zone, celeste e sublunare, e la concezione
platonica dei due aspetti dell'anima, la razionale e l'irrazionale, in una
conseguente ripresa del dualismo pla- tonico, proprio del Timeo (sembra che
Posidonio abbia scritto un commento ·al Timeo) nella tensione tra Intelligenza
e Necessità. Posido- nio, dunque, avrebbe posto a fondamento del tutto due
principi attivo l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo l'altro (~ò n«oxov, tò
paschon), in quanto materia sostanziale non avente alcuna qualità (Diogene L.,
VII, 134). "La materia e sostanza di tutto, Posidonio disse che è senza
qualità e senza forma, non avente né una forma distinta per sé né una qualità
in sé" (Doxographi Graeci, p. 458, 811). L'altro principio, il principio
attivo o divino, è alito caldo, pneuf!Ja e fuoco, forza vitale che, pur senza
forma, si diffonde e dà forma alla materia informe, esso l6gos dando a tutti
una ragione, una propria ragion d'essere. "Dice Posidonio : .&&6c;
la-rL 7tV&:U(.Lot vo&:pòv 8L~xov 8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio
è alito razionale diffuso per tutta la materia" (Commenta Lucani, ed. H.
Husener, ad. v. 578, p. 305). Ne discende che la realtà qual è scaturisCe nelle
sue qualificazioni, cominciando dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra),
dalla tensione tra il principio attivo e quello pas- sivo in una gradazione che
va dal superorganico (l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino,
inesistente in sé quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico,
dal razionale (di cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite,
al corpo, come termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. Di qui
la distinzione tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo, cor-
ruttibile, già oltre la natura e sottoposto al fato. "Dice Posidonio che
il fato è terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il fato"
(Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto mancanza di
organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim- patia") è
propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto corpo,
impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo aspetto
dell'anima irrazionale). Le passioni non sono, quindi, dovute ad un errore di
giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto altrettanto reale
dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità (anima razionale),
mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò facendosi specchio
di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma che si dif- fonde e
si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. Animato il tutto per la
razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il tutto si diffonde
sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo come nesso tra
l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il principio divino,
vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi intermediari. Secondo certi
stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria è tutta piena di anime,
venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano agli uomini sogni e
presagi" (in Diogene L., VIII, 32). E tale tesi è da Cicerone (De
divinatione, l, 64) attribuita a Posidonio. Di qui, sembra, il motivo
posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il
significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi,
attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario
Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati
Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza
dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio, 53 si capisce d'altra parte
com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti dello stoicismo
primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" - secondo Diogene
Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi, innanzi tutto la
fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda l'"etica,"
soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle passioni,
dell'irrazionale e del male, del fato, che sono propri della natura umana, ad
essa radicati e che si risolvono solo, platonicamente, in un controllo delle
passioni, in una sapiente misura, per cui è possibile da parte di chi sa, di
chi ha com- preso e studiato le umane passioni e gli umani caratteri,
un'educazione dell'anima, mediante l'indicazione di un ordinamento delle
passioni stesse, in cui consiste la razionalità, in un amore di sé come
armonia, specchio dell'armonia del tutto, che diviene ad un tempo amore degli
altri, in quanto tutti, cose e uomini, sono come organi di un solo orga- nismo
(dr. in particolare, per l'analisi delle passioni e per la loro terapia,
Galeno, De plac. Hipp. 6t Plat., libri IV e V). Sotto questo aspetto, la
funzione del filosofo, in quanto saggio, è d'essere educatore e, per ciò
stesso, socialmente e politicamente impegnato. Molti piu frammenti e
testimonianze abbiamo relativamente alle ricerche ed alle scoperte scientifiche
di Posidonio. Innanzi tutto sap- piamo che gran parte delle sue descrizioni di
fenomeni, dei suoi cal- coli, delle sue dottrine, sono dovuti a osservazioni
dirette, a minuziose raccolte di dati, opportunamente vagliati e non solo
catalogati. Sap- piamo altres1 che Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città
greca sull'Oronte, fondata un secolo e mezzo circa prima della sua nascita),
abbandonò ancora giovane la patria, dilaniata da lotte intestine, da guerre tra
città e città, nella corsa al potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della
oramai distrutta casa seleucida. Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del
suo disprezzo per la vita molle delle città grcco- siriache e per la
"miserabile farsa delle loro operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.).
Da Apamea Posidonio venne ad Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel
115 a. C. Dopo la morte di Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa
settentrionale fino alle colonne d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi
proprt occhi calare il sole di là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5,
138; che vide alberi popolati di scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita
l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi barbari vide teste umane appese
alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5, 198); e, sempre spinto dalla sua
curio- sità e dall'esigenza delle sue ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden-
tale conquistato e ordinato da Roma. Da circa il 95 a. C. in poi fissò la sua
dimora in Rodi, la patria di Panezio, ove scrisse le sue opere, insegnò,
divenne celebre, cittadino onorario di Rodi, di cui occupò 54
anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a Roma, visitato dai
romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o che da lui
veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone. Sono tutti
dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era scolarca della
Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di professione, non fu
scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò molto, raccolse u n
notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con un partito, né fu
cliente, tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città rimasta piu libera del
mondo dominato da Roma. Il complesso delle sue ricerche e delle sue
osservazioni lo portarono non solo a raccogliere e a descrivere un materiale di
prim'ordine in tutti i campi delle scienze naturali (astronomia, meteorologia,
geo- grafia), ma anche a formulare teorie che furono fondamentali per ulteriori
ricerche e che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo proprio dei precedenti
grandi ricercatori di Alessandria. In astro- nomia, Posidonio, riallacciandosi
alla misurazione del diametro del sole ottenuta da Aristarco e migliorata da
lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di Archimede, giunse a dare la
misura del diametro del sole e della distanza di esso dalla terra che piu si
approssima alle misure calcolate oggi, spiegando anche perché il sole appare
piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel cielo aperto (cfr. Plinio, Nat.
·hist., II, 85; VI, 57), mentre descriveva il fenomeno della rifrazione atmo-
sferica (cfr. Cleomede, Sul moto circolare dei corpi celesti), Posidonio poi,
rifacendosi all'analisi che delle maree avevano dato Eratostene e Seleuco di
Seleucia, mediante osservazioni proprie, fatte dalle coste della Spagna
atlantica, sostenne che le maree sono dovute agli sposta- menti della luna,
descrivendo, per primo, i tre periodi delle maree: alta e bassa marea
quotidiana; alta e bassa marea mensile; alta e bassa marea annuale. Il fenomeno
è, secondo Posidonio, dovuto all'influenza della luna e degli altri astri sulla
terra, entro l'ambito della simpatia universale. Celebri furono anche le
descrizioni e catalogazioni, meto- dicamente effettuate da Posidonio, dei
fenomeni sismici, ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante l'ipotesi che i
movimenti terrestri fos- sero dovuti all'aria circolante nelle cavità
sotterranee, e la descrizione della formazione delle comete. Si è detto,
infine, che Posidonio è stato il fondatore dell'"etnologia." In
effetto, Posidonio, rifacendosi a de- scrizioni di popoli date da Erodoto e da
Polibio, alle analisi dei carat- teri umani e dei popoli di certi testi
ippocratici, mediante osservazioni proprie, ha cercato di determinare i
caratteri fisici e i tratti psicologici di ciascun popolo, spiegando tale
rapporto psico-fisico con l'influenza dei climi. Egli ha cosi nettamente
distinto ·i popoli europei del nord
55 dai popoli europei del bacino mediterraneo. Ha
sottolineato che i popoli del nord e quelli delle zone tropicali, gli uni per
il troppo freddo, gli altri per il troppo caldo, hanno intelligenza ottusa,
mentre i popoli che vivono in clima temperato hanno intelligenza vivace, e in
loro prende il sopravvento il l6gos, la razionalità, fonte di civiltà e di
equilibrio. Ogni natura (piante, animali, uomini) si determina qual è nel suo
luogo naturale, ma quando viene trasportata in altra regione si adatta poco a
poco ai caratteri del nuovo ambiente, finché ne assume la natura propria.
Abbiamo, non a caso, citato il nome di Archimede (cfr. sopra, I vol.) e il nome
di Ipparco. Ipparco di Nicea, in Bitinia, nacque intorno al 180, mori nel 125,
visse ad Alessandria e a Rodi, dove compf la maggior parte delle sue
osservazioni. Non è qui il luogo per descri- vere le scoperte di Ipparco e i suoi
calcoli. Basti ricordare ch'egli ottenne la possibilità di determinare la
posizione delle stelle (calcolò la posizione di circa 800 stelle) e di farne un
catalogo, appurandone la grandezza a seconda della loro luminosità, calcolando
la loro longi- tudine e latitudine, mediante processi matematici, per i quali,
usando pratiche babilonesi, determinò i fondamenti della trigonometria. Posto
un circolo, egli lo divise in 36 gradi, ogni grado in 60 minuti e cia- scun
minuto in sessanta secondi. " Dividendo poi il diametro in 120 parti,
Ipparco cercò di calcolare, con procedimenti teorici, di cui troviamo
l'applicazione in Tolomeo, e non con semplici approssima- zioni pratiche, il
valore delle corde in rapporto a queste parti del diametro. Non solo, ma per rendere
piu comodi e piu rapidi i calcoli astronomici nei quali dovevano essere
utilizzati i diversi valori delle corde, ne stabiH una vera 'tavola'
cominciando da un angolo di una metà dì grado e successivamente procedendo per
metà di grado. Si vede di quale aiuto poteva essere una tale tavola, e quale
·precisione un simile procedimento trigonometrico dava alla espressione matema-
tica delle osservazioni astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an-
tiquité, in Histoire de la Science, a cura di M. Daumas, Parigi, p. 266). Su
questa base scaturisce il tentativo di Ipparco di applicare le costruzioni
geometriche alla realtà concreta dei fenomeni osservati. Solo dopo la piu
attenta .osservazione del movimento di ciascun astro, delle sue eccezioni,
della sua grandezza e periodo, per cui Ipparco, oltre la tavola trigonometrica,
si costruf degli strumenti nuovi (per la misura del diametro apparente del sole
e della luna, costruf uno stru- mento migliore di quello che s'era fatto
Archimede, in quanto munito oltre che di un punto visivo mobile, di un punto
visivo fisso con cui con esattezza si otteneva il dia~etro angolare
dell'astro), è possibile passare alla costruzione geometrica che renda ragione
delle apparenze. 56 Ipparco cosi, studiando il sole, dimostrò per via
di misurazione la ine- guaglianza delle stagioni, mediante gli eccentrici e gli
epicicli, deter- minando la posizione del sole per ogni giorno dell'anno,
giungendo quindi a formulare la celebre teoria della "precessione degli
equinozi." Ipparco, infine, sempre sul piano del calcolo e della
misurazione con- tinuò l'opera geografico-matematica di Eratostene, sviluppando
l'uso delle coordinate geografiche, cioè introducendo paralleli e meridiani,
indicando cosi le regole geometriche mediante cui è possibile disegnare carte
piane del cielo e della terra. Sembra che per la rappresentazione del cielo
abbia proposto una proiezione stereografica e per quella della terra una
proiezione ortografica (cfr. Brunet, cit., p. 273). A parte i risulçati di
Ipparco, ciò che soprattutto interessa sotto- lineare qui è il tipo della sua
ricerca, che, sul piano di un Archimede, di un Eratostene, sul piano di quella
ch'era divenuta la ricerca propria dei "filosofi" di
Alessandria"', indipendentemente da pregiudiziali teo- logiche, da
costruzioni già date "a priori," si fonda sull'osservazione
sperimentale, e, attraverso questa, senza rimanere preso dalla pura
enumerazione dei fenomeni, vien determinando una teoria, che serva a rendere
ragione dei fenomeni osservati, attraverso il calcolo e la misura- zione
matematica (che assumono il valore di strumento, si come gli strumenti veri e
propri che servono per quelle misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è
esempio il nuovo astrolabio inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come
abbiamo detto, colpisce particolarmente chi studia come si sono costituite le
scienze dei primi "filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un
Archimede, un lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione
diretta e allo studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca,
che diviene scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse
limitazioni, dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni
medesime, è l'allon- tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati
discepoli di Aristotele, che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per
il peri- colo sempre implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone
si era mantenuto sul piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia
intesa come teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati,
sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere.
Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente
Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla
catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso
la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano
concretamente a spiegare in unità una molteplicità di fatti. Tutto ciò,
naturalmente, era pio facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna
scienza di trovare 57 le
condizioni dell'una e dell'altra. Piu difficile lo fu per ·la fisica e
particolarmente per l'astronomia. L'astronomia, e per altro verso la fisica,
dopo Platone - si pensi in special modo alla soluzione del Timeo, delle Leggi e
dell'Epinomide, e all'importanza politica ch'ebbe per Platone quella soluzione
- andò ·a cozzare contro il motivo (d'altra parte ripreso da Aristotele) del
movimento circolare e uni- forme dei cieli. Con esso, che, in quanto movimento
perfetto e razio- nale, veniva identificato con la divinità, entrava in
contrasto il rispetto dei fatti e diveniva estremamente astratta la riduzione
della fisica e dell'astronomia a teologia, ché la soluzione
geometrico-matematica dei fenomeni (la "salvazione dei fenomeni")
correva il rischio di passare da strumento esplicativo a costruzione per sé
stante entro cui, poi, dovevano essere costretti i fenomeni. I termini del contrasto
si vedono bene quando si pensi all'accanto- namento della teologia operato in
Alessandria dagli "istorici" e poi, andando oltre essi, dai
"filosofi" che usarono la matematica e la geo- metria come strumenti
esplicativi dei dati Bsservati e sperimentati, finché alla loro volta in altri
ambienti (sempre per sottintese esigenze politiche) quelle ipotesi
geometrico-matematiche tornarono ad avere la funzione che avevano assunto in
Platone e in Aristotele, definitiva- mente teologizzando la filosofia. Per
altro verso, tale contrasto si vede bene allorché si dia il debito peso alla
polemica di Epicuro e all'ipotesi della struttura dell'universo costituito di
atomi e di semi vitali, e al "casuale" incontro di quegli atomi, ove
la razionalità non è piu un dato, una forma per sé, ma una conquista. Sia pur
giungendo a solu- zioni diverse - a parte la componente del primo scetticismo
.e della seconda Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il
motivo della "simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi-
tuzione di una fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe
esperienze religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in
ambienti popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. · Ora,
una piuttosto ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo
d'indagine proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni,
uso .di certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione
dei dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze
irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori
dell'usuale. Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di
rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo
stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è
possibile pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi
non qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma" : da un
lato urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla
tensione dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde
l'ordine e la razionalità non son presupposti, "forme," ma si
costituiscono nella stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la
misura e la razionalità sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e
la saggezza, e dove la religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere
dalle forze irrazionali (documentate dall'esperienza, testimoniate dalle
tradizioni religiose popolari, dai misteri) dall'altro lato nell'operare,
mediante il l6gos, su quelle forze, costituendo un'armonia che è la stessa
razio- nalità. Giuoco di forze l'universo, giuoco di forze l'uomo; il l6gos,
che è soffio vitale (pneuma), scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella
con-passione (simpatia) dell'una e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi
dell'una e dell'altra cosa, dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le
reciproche influenze e simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad
esempio, le maree dovute alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le
anime (pnéumata) che per gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. Sembra, cosi,
chiaro come per Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti
della natura e dei fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto
consapevolezza dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è
possibile rendere "familiare l'universo," dall'altra parte, entro un
tale universo familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare
all'uomo, operando sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una
testimonianza preziosa di Seneca (Lettere a Lucilio, XIV, 90). Seneca discute e
critica la tesi posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver
"portato un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc., 90, 6-7),
non può ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività,
che mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche,
che naturalmente modifi- cano e trasformano la natura in funzione del benessere
umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle
tecniche per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case
riscaldate, comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. "Non posso
concedere a Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né
saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili. La sapienza sta piu in alto, non
delle mani maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet,
animorum magistra est)" (Lett. a Luc., 90, 7, 25-26). Nella polemica di
Seneca - e si vedranno le ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito
liberatore, il compito di purificare l'anima, di curarla, per condurla alla
contemplazione del divino, in un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi
l'atteggiamento proprio di Posi-
59 donio, anche nel campo piu strettamente politico, ché,
appunto, anche la politica è saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè
capacità da parte del saggio di costituire, di creare un ordine tra le
passioni, in un equilibrio che è conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad
un tempo, giustizia. Sappiamo, ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato
Posidonio a Rodi e che con Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da
inviar- gli la Storia del proprio consolato, perché il grande storico la usasse
per la sua opera (può essere abbastanza sintomatico che la richiesta di
Cicerone sia rimasta senza risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati,
delle singole dottrine scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi
posidoniana relativa all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in
funzione della cultura enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la
formazione dell'oratore (cfr. particolarmente, De Oratore, III, 55 sgg., 57,
61, 87 sgg.). Anche; tale deviazione ciceroniana è piuttosto indicativa, come
lo è il fattiféhe, appunto, il successo che ebbe Posi- donio nel futuro della
cultura fu dovuto essenzialmente alla mèsse di notizie, di dati, di istorie,
che si sono ritrovate in lui, usato soprat- tutto come una specie di
enciclopedia del sapere. Sembra, infine, che Posidonio, sottolineando i
rapporti intercorrenti degli oggetti che scaturiscono dalla tensione tra i due
principi nell'or- ganarsi delle cose sotto la spinta del l6gos, del pneuma,
abbia da un lato giustificato sul piano di un'ipotesi le possibili influenze
dell'una stella sull'altra e delle stelle e degli astri sulla terra e sulle
cose della terra, ivi compreso l'uomo (astrologia); dall'altro lato, posto che
per gradi di affievolimento, non giungendo il 16gos a tutto, vi è una zona che
rimane come abbandonata a sé, pura quanticl, abbia con ciò giu- stificato non
solo le passioni e il caso, ma anche indicato la possibilicl di operare,
mediante .il 16gos umano, su quella zona, qualificando certe cose, cioè
trasformando il loro primigenio aspetto in altro. Posi- donio, pare,
giustificava cosf tutta una serie di esperienze che aveva determinato la
tradizione astrologica (di provenienza caldaica) e tutta un'altra serie di
esperienze che, pur rifacendosi all'astrologia, si era delineata per un verso
nella fiducia di costituire delle tecniche mediante cui con la natura
trasformare la natura (alchimia, magia), e per altro verso operando su certe
cose, in rapporto diretto con una o altra influenza stellare, influire sulle
stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli dèi (magia astrologica). Anche se,
indirettamente, alcune testimonianze hanno fatto pen- sare che Posidonio abbia
raccolto del materiale intorno alla storia della magia e abbia descritto
esperienze magiche, e abbia inoltre composto una specie di storia
dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto 60
distinta dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale, cÒmunque,
sostiene che tra gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli "astro-
logorum praedicta" (De divinat., II, 88), e il silenzio, in merito, di
fonti piu tarde, non permettono un piu lungo discorso. Ha, invece, una sua
importanza l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca nella
citata Lettera a Luci/io. Dopo avere negato che le tecniche e le invenzioni
siano frutto della filosofia e della saggezza come avrebbe voluto Posidonio,
Seneca cita Democrito: il medesimo Democrito trovò come si leviga l'avorio,
come un sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo, come anche
oggi, cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf colorati. Ora,
anche se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte perché era un
saggio (Seneca, Lettere a Lucilio, 90, 33). Cultura e politica nell'ultima
fase della Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L'avvento di Augusto l. La Nuova
Accademia: da Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stratonica a Filone di Larissa
e Antioco di Ascalona. Cicerone È noto come, ancora una volta, bisogna rifarsi
a Cicerone per rico- struire, molto approssimativamente, quello che fu il
pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno e l'altro per un
certo periodo della loro vita scolarchi dell'Accademia (Filone dal 110 all'88
a. C. circa; Antioco sembra dall'87 al 68); e come, in effetto, sia la
posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro, si
possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue intenzioni.
Secondo l'Academicorum index herculanensis (XXV, l, 36; XXIV, 28; XXIX, 39.;
XXX, 5), a Carneade, ritiratosi per vecchiaia e malattia nel 137, successero
nello scolarcato dell'Accademia, prima Carneade di Polemarco, morto nel131, poi
Cratete di Tarso, al quale, morto nel 129, successe un altro discepolo di
Carneade, Clitomaco, detto Asdrubale, nato a Cartagine riel 187 circa. Carneade
di Polemarco e Cratete di Tarso non sono piu che dei nomi.1 Dello stesso
Clitomaco" sappiamo pochissimo. Venuto ad Atene 1 Per la vita di Carneade
cfr. I volume. Dci primi successori di Carneade sappiamo pochissimo, in realtà
solo i nomi: Carneade d i Polcmarco, scolarca dal 137 al 131; Cratctc di Tarso,
scolarca dal 131 al 129; Clitomaco Asdrubale di Cartagine, scolarca dal 129 al
11o. Sembra che Clitomaco, per un qualche disguido con Carneade, nel 140 - nato
nel 187 circa a Cartagine, aveva allora 47 anni - abbia aperto una scuola per
conto suo. Ciò renderebbe conto del perché Carneade ritiratosi
dall'insegnamento nel 137, piuttosto che Clitomaco abbia designato alla sua
successione, prima Carneade di Polemarco, poi Cra- tcte di Tarso. Solo dopo la
morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco, ritenuto il piu fedele interprete
del pensiero di Carneade, poté essere nominato scolarca dell'Accademia. Delle
sue molte opere (400 secondo Diogene Laerzio, IV, 67) non abbiamo che notizie.
La piu celebre è una storia della dottrina sulla sospensione dell'assenso, in 4
lihr'i. Si ricorda anche uno scritto sulle sètte. Per il resto si veda sopra,
s{ come a veda sopra ciò che riguarda le varie correnti determinatesi in seno
all'Accademia al tempo di Clitomaco.
95 su1 ventiquattro anni (cosi secondo l'lndex
herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67, sui quaranta),
aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e approfondi le
tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr. Diogene L., IV, 67
- Clitomaco fu noto soprattutto per i suoi scritti con i quali divulgò il
pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni, dandone
evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non aveva
scritto nulla). Non sembra un caso, anzi, che con- temporaneamente a Clitomaco,
di contro a lui, altri discepoli di Car- neade abbiano sostenuto che
diversamente andava interpretato Carneade. Delle moltissime opere di Clitomaco
(circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative
all'esplicazione del pen- siero di Carneade (Diogene L., Il, 92, cita anche un
suo scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., III, 22, 54, un
suo scritto consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione
della città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre
la tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due
dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda
sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi
disce- poli. A Clitomaco successe nel 110/109 Filone di Larissa. Nato a
Larissa, in Tessaglia, nel 160/159 circa, Filone fin da giovane potE _ascol-
tare l'insegnamento dell'accademico Callide che a Larissa dirigeva una
diramazione dell'Accademia. Sui ventiquattro anni, nel 136 circa, passò ad
Atene, entrando nell'Acca- demia, sotto la direzione di Clitomaco. A Clitomaco,
mono nel 110 a.C. circa, suc· cesse quale scolarca dell'Accademia. Filone resse
l'Accademia fino all'88. Nell'88, allo scoppio della guerra mitridatica, si
recò a Roma, dove prosegui il suo insegnamento, e dove, sembra, mori intorno al
79. Nulla·~ rimasto dell'opera di Filone se non scarsi frammenti e
testimonianze di un suo scritto Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro,
composto a Roma, che si sarebbe non poco spostato dallà linea
Carneade-Clitomaco-Carmada seguita da Filone finchE sog· giornò ad Atene.
Antioco nacque ad Ascalona, in Palestina, tra il 140 e il 130 a. C. :Venuto ad
Atene da giovane, segui per molti anni l'insegnamento di Filone. Nell'88 quando
Filone si trasferl a Roma, Antioco si recò ad Alessandria, passando prima per
Roma dove conobbe Lucullo. Nell'86 era sicuramente ad Alessandria con Lucullo.
Nel 79 era ceno ad Atene, scolarca dell'Accademia. Segui poi Lucullo nella
spedizione di Siria, durante la seconda guerra mitridatica, assistendo alla
battaglia di Tigranocerta (69 a. C.). Mori nel 68 circa. Delle molte opere di
Antioco .non possediamo nulla se non ciò che riferisce Cicerone, in panicolare
di una, il Sosus. Il Sosus fu composto da Antioco, al tempo del suo sog· giorno
ad Alessandria, per controbattere e confutare lo scritto dell'antico maestro
Filone giuntagli da Roma e che lo aveva indignato. Si veda nel testo i termini
e il significato della polemica Filone-Antioco. Se già Filone.aveva dato un
nuovo indirizzo all'Accade- mia, per cui si disse ch'egli era stato il
fondatore di una quana Accademia; piu deciso ancora verso un aspetto piu
dogmatico fu l'indirizzo dato da Antioco per ciò detto il fondatore della
quinta Accademia ("Di Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state tre:
la prima e piu antica fu quella di Platone, la seconda, o media, quella di
Areesilao, uditore di Polemone, la terza e nuova quella di Carneade e
Clitomaco. Alcuni ne aggiun· gono una quarta, quella di Filone e Carmada, e
altri ne contano una quinta, quella di Antioco": Sesto Empirico, Pyrr.
hypoth., l, 220). 96 ampia intitolata, appunto, Sospmsione del
giudizio, in quattro libri, nei quali venivano esposte e discusse le tesi di
Arcesilao e di Carneade. Non dirò nulla - sottolinea Cicerone - di cui si possa
sospettare che sia una mia invenzione: riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto
con Car- neade fino alla vecchiaia, uomo di acutezza veramente cartaginese, c
so- prattutto accurato e zelante. Abbiamo di lui quattro libri sulla
sospensione dell'assenso (de sustinendis.assensionibus)... Ho esposto sopra,
sull'autorità di Clitomaco, come Carneade spiegasse il suo probabilismo.
Ascoltate ora come tale problema sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro
da lui dedicato al poeta Lucilio, dopo averne dedicato un altro, sullo stesso
argo- mento, a L. Ccnsorino, che fu console con M. Manilio (Cic., Lucullus,
XXXI, 98; XXXI1, 102). A quanto sembra Cicerone riteneva che Clitomaco fosse
stato un espositore accurato e fedele di Carneade (del suo zelo analitico e
della sua prolissità parla anche Sesto Empirico, Adv. math., IX, l, che,
d'altra parte, accomuna sempre il nome di Clitomaco a quello di Carneade,
Pyrrh. hypot., l, 220, 230), soprattutto per ciò che riguarda quello che
dovètte essere il motivo piu discusso nella scuola, in polemica con i fondamenti
della logica stoica, e cioè il motivo dell'assenso cui si accom- pagnava la
possibilità o meno del criterio del probabile, che a sua volta coinvolgeva la
possibilità o meno della fiducia nell'azione. In due modi, aggiunge Clitomaco,
si può intendere l'affermazione: il sapiente sospende l'assenso; l) che il
sapiente non dà il proprio assenso a nulla; 2) che si trattiene dal rispondere,
senza dichiarare se approva o no, senza negare, senza affermare. Clitomaco
ammette la prima inter- pretazione, c non dà mai il suo assenso: adotta anche
la seconda c, tenendo ferma la sola probabilità, risponde si o no, a seconda
che ciò che si presenta sia piu o meno probabile..., ma solo per quelle
appercezioni che spingono all'azione, e per quelle, mediante cui possiamo,
quando si venga inte~ro gati, rispondere in uno o altro senso, non seguendo
che le apparenze, dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso (Cic.,
Lucullus, XXXII, 104). Sembrerebbe, dunque, che la interpretazione data da
Clitomaco della posizione di Carneade - sulla scia di Carneade egli mostrava
anche come tutte le tesi che sostengono la possibilità di un sapere assoluto
siano controvertibili: cfr. Sesto Empirico, Adv. math., IX, l - s i risol-
vesse sul piano della totale sospensione, allorché si tratta del vero in
assoluto, onde il sapiente non solo non può proclamare alcuna verità, ma,
conseguentemente, neppure accettare una qualsiasi opinione: se tutto è
opinione, nulla è opinione, ché assumendo una qualsiasi opi- 97 nione già si distinguerebbe
tra vero e opinabile. Solo che allora, pro- seguendo coerentemente su questa
via, sarebbe impossibile il criterio del "probabile," sia pur sul
piano dell'azione (dice Sesto che "gli Acca- demici assentiscono a
qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con simpatia, accompagnata da un
forte volere" : Pyrrh. hypot., l, 230). Se l'una rapppresentazione vale
l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del volere, sia da preferire
all'altra, sia piu probabile dell'altra. E per ciò verrebbe a cadere anche la
retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv. math., II, 20 sgg.), che di
contro alla dannosità della retorica comune, basata sofisticamente sulla
possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera retorica
consisterebbe nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la discussione
delle varie opinioni dei filosofi. Ma se l'una opinione vale l'altra, l'un
giudizio vale l'altro, nep- pure è possibile pensare bene o pensare male, ed
altro non resterebbe che il silenzio. Tali, sembra, le obbiezioni che in seno
alla scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli di Carneade, i quali
tesero a dare del mae- stro un'interpretazione piu temperata e meno esclusiva.
Su questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si mossero particolarmente Carmada
e Metrodoro di Stratonica. Certo, delle molte discussioni che fiorirono intorno
al modo di interpretare il genuino pensiero di Carneade poco o nulla sappiamo,
se non, appunto, che l'Accademia sembrò un "uni- verso coro" (Sesto
Emp., Adv. math., IX, 1). Cosi, di Callide che diresse una diramazione
dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che ne diresse una ad
Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un'opera Contro i retori, di
Melanzio di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie esteriori
(cfr., per Callide e Zenodoro, lndex herc., XXXV, 36; XXXIII, 8; XXIII, 2; per
Hagnone, Quintiliano, lnst. or., II, 17, 15; per Melanzio ed Eschine, Cicerone,
Lucullus, VI, 16; De Oratore, l, 45; Diogene Laerzio, II, 64). Tutti, comunque,
appaiono impegnati intorno alla questione della "sospensione
dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di contro a certa
verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa impostazione
logico-empiristica, che non poteva non condurre al silenzio, dall'altro lato di
contro al peri- colo, portando ad estrema conseguenza la "sospensione del
giudizio" sul piano teoretico, di rimanere in silenzio, cioè nell'assoluta
impossi- bilità di pensare e di agire. Entro i termini di tali discussioni si
mossero Carmada e Metrodoro di Stratonica. Di Carmada si dice che fosse
bravissimo oratore, che celebre fosse la sua memoria (cfr. Cicerone, Tusc.
disp., l, 24, 59; De Oratore, II, 88, 360; Lucullus, VI, 16), che, fedelissimo
di Carneade (ne imitava perfino la voce: Cicerone, Orator, XVI, 51), ne
seguisse il metodo (cfr. Cicerone, De Oratore, I, 18, 84),
discutendo le varie opi- nioni, non tanto per far prevalere l'una o l'altra,
quanto per richiamare sempre chiunque ad un controllato atteggiamento critico,
in cui, d'altra parte, consisteva per Carneade, come già per Clitomaco, la
retorica da opporre alla cosiddetta "retorica comune." Ma proprio
perché fosse possibile la riduzione dell'atteggiamento carneadiano a tecnica
retorica, mediante cui, dalla discussione di tutte le opinioni, escludendo ogni
passaggio dall'opinione al vero in assoluto, si potesse assumere, sul piano
pratico, una certa opinione che servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia
nellfl spinta all'azione, era necessario scostarsi dalla sospen- sione assoluta
propugnata da Clitomaco. Ugualmente sembra che Me- trodoro di Stratonica -
sottolinea il Dal Pra - " sia stato del parere che conveniva senz'altro
riconoscere l'inevitabil~tà dell'assunzione di qualche opinione e di qualche
posizione; lo scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed
alcuna posizione; piuttosto egli attri- buisce alla sua opinione o posizione un
valore ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. Per
mantenersi nello scetti- cismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza
tra verità ed opi- nione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia
una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la
condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano, 1950, pp. 227-28). In
effetto la discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene
- sul piano della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica,
scaturita dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla
cosa significata. Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che
corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri
delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti
realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale
(in senso aristotelico); allora, posto che rimane sempre in dubbio che la
rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e
che, quindi, lo stesso discorso. sia arbitrario, ne deriva che si debba
sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa
di qualche altra cosa, perché ciò implicherebbe sempre l'affermazione o la
negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente; su questo piano, probabilmente
essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del discorso verace
e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno all'afasia di
Pirrone. Oppure, se si ritiene (riallaccian- dosi al tipo di logica scaturita
dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza necessaria di
Aristotele, e delineatasi attraverso la tema- tica dei sillogismi ipotetici di
Teofrasto e l'implicazione di Diodoro Crono e di Filone Megarico),,che il
discorso si fondi su rappresenta-
99 zioni (già esse giudizi e proposizioni, e non soggetti e
predicati), non perciò analizzabili, sulla cui veracità ed esistenzialità
assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di altre, ne deriva che il
discorso si costituisce di rapporti tra rapprèsentazioni-giudizi, la cui
implica- zione è dovuta al ricordo e, dunque, all'anticipazione. Perciò verace
o no è il discorso, se corretta o meno è la implicazione, indipendente- mente
dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla reale ineremea (di qui i sillogismi
ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle possibili strutture della realtà);
se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul piano della verità in sé e della
esatta corrispondenza tra rappresentazione e cosa rappre- sentata, parlare di
sospensione del giudizio e di non assenso, mentre sul piano del discorso si può
parlare di probabilità relativamente a ciò che esso significa, assumendo quel
discorso che appare come il meno con- traddittorio, cioè il piu probabile, il
piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). In altri termini, se sul piano del vero non
c'è nessun "criterio" che permette di sostenere che le cose sono
comprensibili (per cui può anche darsi che lo siano), onde non si può parlare
né di vero né di falso, sul piano, invece, delle rappresentazioni, quali si
presentano alla mente, indipendentemente dal loro corrispondere o meno alla
cosa, si può par- Jare, relativamente a ciò che appare, di verità e di falsità.
Il remo che nell'acqua appare spezzato e fuori dell'acqua diritto, può darsi
che in sé sia spezzato o diritto: perciò su questo sospendiamo il giudizio;
solo che è vero che ai sensi appare··spezzato ed è vero che ai sensi appare
diritto, ma anche che, se piu evidente è attraverso l'impres- sione stessa,
ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è diritto ed è falso che è spezzato, e
perciò l'assenso è di probabilità (per l'esempio del remo, o per quello del
colore cangiante delle piume del collo della colomba, cfr. Cicerone, Lucullus,
XXV-XXVI). Tale, sembra, la posizione di Fi- lone di Larissa che, discepolo
diretto di Clitomaco, al quale successe nella direzione dell'Accademia, alla
morte di Clitomaco, avvenuta nel 110/109 a. C., fu piu vicino alla
interpretazione che di Carneade ave- vano dato Carmada (di cui furono scolari
Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non abbiamo che i nomi: cfr. lndex
herc., XXXV, 39; Cicerone, De Oratore, II, 88, 360; Plinio, Nat. hist., VII,
24, 89) e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari Metrodoro di Pitane e
Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i nomi: cfr. lndex
herc., XXXVI, 11 e XXXV, 33). Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh. hyp., I, 235),
brevemente esponendo la tesi di Filone di Larissa, scrive: "Filone afferma
che relativamente al criterio stoico, cioè la rappresentazione catalettica, le.
cose sono in- comprensibili; ma relativamente alla natura delle cose, esse sono
com- prensibili." Il criterio stoico non garantirebbe cioè se le cose
siano o no 100 comprensibili. Ma proprio questo, appunto perché
non si· può dire quando una cosa sia o non sia compresa, non esclude che le
cose in quanto tali siano comprensibili. "Noi," sottolinea Cicerone,
che in questo passo, su sua testimonianza, si riferisce a Filone, "non
neghiamo quello che ·si presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle
stesse cose che voi stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi
sembrano probabili" (Le~cullus, XXXII, 105). Di qui deriverebbe la sottile
distinzione posta da Filone tra evidenza e ' percezione: evi- denti o incerte
le cose in quanto presenti alla mente in modo piu o meno forte, ciò non
significa ch'esse siano di per sé percepite e non percepite (cfr. Cicerone,
Lucullus, X, 32; Xl, 34). E cosi, all'abbiezione che Antioco di Ascalona -
discepolo dapprima di Filone, ma poi deci- samente volto a uno stoicismo del
tipo di quello di Cleante - avrebbe mosso a Filone: se assumiamo la
proposizione alcune rappresentazioni sono false, e quindi affermiamo esse non
differiscono in nulla dalle vere, si cade in contraddizione, perché, accordata
la prima e riconosciuta dunque una qualche differenza tra le rappresentazioni,
la prima viene negata dalla seconda che dichiara le rappresentazioni false
simili alle vere; Filone avrebbe risposto: "l'abbiezione sarebbe giusta se
toglies- simo del tutto la verità: ma non lo facciamo; noi discerniamo tanto il
vero quanto il falso, solo ch'essi si presentano sotto l'aspetto della
probabilità, poiché non abbiamo alcun segno che indichi la perce- zione"
(Cicerone, Lucullus, XXXIV, 111). Sembra, dunque, che Filone svolgesse la propria
discussione su due piani diversi. Da un lato, egli, riallacciandosi ad una
certa tradizione (da Democrito a Carneade), negava la possibilità (sia coi
sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle che sono le strutture proprie
della realtà, che resta di là dalle possibilità umane, e intorno a cui si
sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi; dall'altro lato, perciò,
entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la possibilità di costituire
discorsi piu o meno probabili. Di qui la funzione della esperienza e della
ragionata esperienza e della ragione che, se rimane sospesa sul piano
dell'essere, è valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca, la discussione
delle opinioni, dei pro e dei contra, sul piano umano: " p e r navigare,
seminare, sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le quali la sola
probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucul- lus, XXXIV, 109). • Si
capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella storia del pensiero
greco, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica si dovesse
rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discus- sione la
possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipo- tesi e
prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la 101 pensabilità del reale, onde
la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste
l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o,
per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. E per ciò
Filone poteva sostenere che egli, in effetto, rappresentava il piu intimo
platonismo e, dunque, l'Ac- cademia, interpretando il platonismo da un: lato
sul piano dei dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi
della maturità di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul
mito e sul verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della
vita pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era
stata una prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre
l'intento. Filone ha sostenuto nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla
sua stessa bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo
irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano... Chiamano nuova
quest'Accademia, se nell'antica si deve collocare Platone. Comunque, Platone,
nei suoi scritti, non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro,
interroga su ogni argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. Tuttavia,
si chiami pure, se si vuole, antica Accademia· quella di cui ho parlato ora, e
nuova quella che si è continuata fino a Carneade, quarto successore di
Arcesilao, e che non si discostò dai principr del suo fon- datore... Arcesilao
diresse i propd .attacchi contro Zenone, non per per- tinacia, o per ambizione
di vincere, ma a causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto
Socrate a confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito,
Anassagora, Empedocle e quasi tutti gli antichi. Sostennero che nulla si può
conoscere, nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli
gli intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel
profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può
esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre.
Arcesilao, cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate
s'era mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche
Lucullus, XXIII, dove sono an- cora citati Anassagora, Democrito, Empedocle,
Socrate, Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono,
Alexino, i Cirenaici). Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle
discussioni dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di
altre, in una continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si
costituisca come regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve
(male) alla vita, al convivere. Non sembra, perciò, un caso, secondo la
testimonianza di Stobeo (Ecl., Il, 40), che Filone, in un suo libro sulla
funzione della filosofia, paragonasse la filosofia alla medicina e il filosofo
al medico, che sostenesse che la f).Inzione della filosofia consiste nell'av-
102 viare a purgarsi dalle opinioni unilaterali e perciò stesso
false (I libro), determinando quindi i beni e i mali (II libro), quale possa
essere il fine - cioè la felicità - cui l'uomo deve tendere (III libro), quali
le varie forme di vita - per chi, in senso particolare; e come, entro i termini
della convivenza politica, in senso generale, - quali, per l'uomo comune - per
chi non è sapiente - i precetti e le regole da seguire (IV libro). Pur- troppo
il rapido sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degli Accademici di Cicerone
- nei quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica di Filone -
non permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando una
verosimile ipotesi, che potesse inter- pretarsi in chiave platonica, Filone
abbia proposto l'ipotesi stoica del- l'ordine entro cui tutto si scandisce ed entro
cui ciascuno deve assu- mere il posto che gli spetta. Tale sembra
l'interpretazione di Numenio (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 9, l) e di Agostino
(Contra Ac., III, 18, 41), i quali sostengono che Filone dapprima nemico
giurato degli stoici, sarebbe poi passato allo stoicismo (Numenio), riducendo
lo stoicismo a platonismo (Agostino). Senza dubbio Cicerone (Varro e Lucullus),
discorrendo dell'aspro conflitto che sarebbe scoppiato tra Filone e An- tioco
di Ascalona, fa intravedere questo passaggio di Filone. Ad ogni modo,
interessante sembra la notizia (Cicerone) che Filone avrebbe particolarmente
sottolineato l'utilità pratica della piu generale tési stoica dell'ordine,
quando da Atene (nell'88. circa, all'epoca della prima guerra Mitrìdatica)
passò a Roma (da dove non si sarebbe piu mosso, e dove forse mori nel 79
circa), entrando in diretto. contatto con gli uomini che in quel tempo
conducevano la politica romana. Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a
Roma, scrisse un'opera in due libri, che pervenuta nelle mani del suo ex
scolaro Antioco di Ascalona che, allora, si trovava ad Alessandria, ne suscitò
grande indignazione. Mentre ero proquestore ·ad Alessandria - fa dire Cicerone
a Lucullo, che fu appunto ad Alessandria come proquestore nell'87, - con me era
Antioco, egià prima di noi era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di
Antioco, che per parecchi anni aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu
uomo di valore e celebre in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna
oggi alla ribalta. Spesso ho ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre,
dall'una e dall'altra parte con dolcezza. Fu proprio allora che i due libri di
Filone, recentemente portati ad Alessandria, per- vennero per la prima volta,
tra le mani di Antioco. Quest'uomo, per na- tura dolcissimo (nulla avrebbe
potuto essere piu mite di lui), violentemente si arrabbiò. Me ne sorpresi, ché
fino ad allora non l'avevo mai visto in quelle condizioni. Appellandosi alla
memoria di Eraclito, gli domandava se quei libri gli sembrassero di Filone, o
se ma:i avesse ascoltato aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche
altro accademico. Eraclito diceva di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né
era possibile dubitarne. Erano presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e
Tetrilio Rogo, uomini dotti, i quali assicuravano di avere ascoltato a Roma
sostenere quegli stessi prin- cipi da Filone, e che avevano copiato i due libri
dal manoscritto dell'autore. Antioco trattò allora Filone ancora peggio e alla
fine non poté tenersi dal pubblicare contro il suo maestro un libro intitolato
Sosus (Cicerone, Lucullus, IV, 11-12). Antioco, nato ad Ascalona in Palestina
(cfr. Strabone, XVI, 2, 29), tra il 140 e il 130 (di circa venticinque anni piu
giovane di Filone), venuto ad Atene in gioventu, segu( per molti anni
l'insegnamento di Filone, facendo parte dell'Accademia di cui difese con zelo
le tesi fondamentali, discutendo particolarmente contro la posizione stoica di
Mnesarco (successo nel 110 a Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano.
Circa al tempo in cui Filone lasciò Atene (88 a. C.) per andare a Roma, Antioco
lasciò Atene per recarsi ad Alessandria. Forse era passato prima per Roma.
Certo si legò di amicizia con Lucullo. Nel 79 Antioco era ad Atene, scolarca
dell'Accademia, e là lo ascoltll Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della
dittatura di Silla. Nel 74, quando Lucullo fu nominato console e condusse le
truppe durante la seconda guerra mitridatica, che vittoriosamente per Roma si
concluse con la battaglia di Tigranocerta (69 a. C.), Antioco segu( Lucullo in
Siria. Mod nel 68 a. C. Senza dubbio Antioco, come risulta dal Lucullus di
Cicerone - in cui da un lato per bocca di Lucullo si espone la tesi di Antioco,
IV-XIX; e dall'altro lato si difende, per bocca di Cicerone stesso, la
posizione di Filone e dell'Accademia in genere, XX-XLVII, - era passato da un
atteggiamento piu strettamente critico, da una posizione vicina a quella di
Carneade, di Clitomaco e di Filone (del Filone almeno del periodo di Atene) ad
una posizione piu dogmatica, avvici- nandosi decisamente a tesi stoiche:
anch'egli, sembra, al tempo in cui entrò in piu stretti contatti con l'ambiente
romano e particolarmente con un uomo come Lucullo. La malignità di Cicerone,
secondo cui alcuni avrebbero sostenuto che Antioco aveva abbandonati i suoi an-
tichi amori e le tesi di Filone, quando anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi
in futuro sarebbero stati detti "antiocheni," è una malignità assai
indicativa quando si pensi che i discepoli di Antioco erano soprat- tutto
romani (cfr. Lucullus, XXII, 69-70). Curiosa sembra allora la rot- tura tra
Antioco e Filone, se essa è dovuta, come pare, all'irritazione che Antioco
provò per il passaggio da parte di Filone allo stoicismo, passaggio documentato
dall'opera di Filone, scritta a Roma, giunta ad Antioco che si trO\'llva ad
Alessandria. Antioco scrisse allora 11 ~osus, in cui, soprUtutto, secondo
quanto riferisce Cicerone, cerca di demo- lire il motivo del
"probabilismo" e della"sospensione." Gli argomenti contro
la tesi del "probabile" e contro la "sospensione" ricalcano
la linea con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso sostenevano la
"fantasia catalettica" e l'"assenso" e con cui Platone, nel
T~~teto, affermava che l'atto del giudizio è dovuto all'anima (Cicerone,
Lucullus, VII, 19-22); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco,
il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un
certo fonda- mento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a
vivere secondo l'ordine del tutto. Ma è la conoscenza delle virtU che innanzi
tutto ci assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. In esse
sole, diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione
degli oggetti, ma comprensione stabile e immutabile; lo stesso è per la
saggezza, per l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità.
Se tale invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando
donde viene e come è nata... Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche
severe, perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede
alcuna comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della
sua azione? Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un
prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se
non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. Se la saggezza stessa
ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza?
E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna
idea certa da seguire? Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non
sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? È chiaro anche che
bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad
agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. Se no, la tendenza
(traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci
è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. Ma la
rappresentazione che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta
vera, il che sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser
distinta da una rappresentazione falsa. Come l'anima potrebbe essere spmta a
ricercare un oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme
o estraneo alla natura?... Se la tesi di Filone fosse vera sopprime- rebbe
interamente la ragione che è luce e fiaccola della vita. In ogni ri- cerca, è
la ragione che offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene, poiché
la virtU non è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca. Desiderio
di conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non si
scoprono cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti; si
parla di scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi in
chiaro. Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la 105 percezione e la comprensione.
La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che
conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone,
Lucullus, VIII, 23-26). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica
di Antioco nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui
sembrerebbe che, alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba
es- sere rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in
Filone, come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento,
scientificamente determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato
dagli Stoici. Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo
primitivo atteggiamento, scostandosi dalla linea di Car- neade, di Clitomaco,
dello stesso Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva
dire che nel nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu
il vecchio maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma
ipotetica e probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo
essere altrettanto probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o
l'una o l'altra, potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in
discussione particolarmente lo stoicismo di Cleante (cfr. I vol.), cercando di
mostrare la contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione
catalettica ad un tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che
impressiona e come assenso, cioè giudizio. Posto, appunto, che la
rappresentazione è di oggetti, la rappresentazione stessa non può essere
giudizio, ché il giudizio si ha solo nella proposizione, e se la
rappresentazione la poniamo nel senso di Cleante, evidentemente essa non è una
proposizione, se mai un termine della proposizione. Impossibile l'assenso
relativamente a ogni rappresentazione, ogni rappresentazione (non giudizio) si
presenta vera tanto quanto ogni altra rappresentazione, per cui lo stesso
giudizio che si determinerà nel costituire i nessi e le implicazioni tra le
rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu avvicinato a Diodoro Crono e ai
megarici), non potrà mai esser volto alle strutture e ai nessi in sé dd reale.
Sul piano della verità, dunque, lo stesso stoico, se non vuol ca· dere in
contraddizione è costretto a sospendere il giudizio, o a rima· nere in
silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo morale, sul conveniente, sull'eulogon,
o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e, poi, Carneade (polemizzando con
Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni sull'epoché per mettere in
contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza di contro avanzare una
loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c con Filone si cercò di
dare un valore positivo e non piu solo critico nei confronti dello stoicismo,
al "probabile" carnea- 106 diano, assumendo, perché sia
possibile l'azione una probabile ipotesi. E qui Antioco aveva buon giuoco: la
tesi del "probabile," divenuta po- sitiva e non piu critica, poteva
esser ricondotta alla prima tesi della sospensione del giudizio e perciò
all'indifferenza di tutte le rappresen- tazioni, per cui si poteva ritorcere
l'accusa fatta agli stoici, che cioè come gli stoici dovevano rimanere in
silenzio e inattivi, cosi in silenzio e inattivi dovevano rimanere gli
Accademici. Per venir meno all'una e all'altra accusa, Antioco, riallacciandosi
all'interpretazione che della fantasia catalettica di Zenone aveva dato
Cleante, e cioè che la rap- presentazione coincide esattamente con il
rappresentato e che perciò i nessi tra le rappresentazioni ripercorrono i nessi
tra le cose, giungeva, sia pur con altra terminologia (con terminologia
stoica), a rifar sua la logica di tipo aristotelico, e, non rendendosi conto
che, in effetto, la logica degli stoici era una logica
"proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto benissimo
Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla realtà in discorso
di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva interpretare Platone in
chiave aristotelico-stoica. Quali sono le qualità che diciamo percepite dai
sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice che sono direttamente
percepite dai sensi, ma :he in un certo qual modo lo sono: "questa cosa è
bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è odorosa, altra ancora è
aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di comprensione dell'anima,
non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un cane." Poi si passa,
per il resto, ad una serie ~he collega insieme i caratteri piu salienti, come
quelle proposizioni che abbracciano una percezione completa di realtà: "se
è uomo, è animale mor- tale partecipe di ragione." Di questo genere sono
le nozioni delle realtà impresse in noi e senza di cui ogni intelligenza, ogni
discussione, ogni problema sono impossibili. Se tali nozioni (in greco ennoiaz)
fossero false o impresse in noi in rappresentazioni tali che le vere non
potessero essere distinte dalle false, come potremmo usarne? Come potremmo
vedere quel che si accorda e quel che non si accorda con una cosa? E alcun
luogo sarebbe lasciato alla memoria, che tuttavia è di fondamento, a un tempo,
non solo della filosofia, ma di tutta la vita e di tutte le arti..Come potrebbe
esserci, infatti, memoria di cose false? Ci si ricorda di ciò che non si è
\'eracemente afferrato con l'anima?... (Cicerone, Lucullus, VII, 21-22).
Antioco cosi, poiché il criterio stoico dimostrava, secondo lui, la coincidenza
tra strutture della ragione e strutture della realtà, cui si giunge mediante le
percezioni, sosteneva che, in effetto, gli stoici ave- vano servito,
approfondendo la genesi del processo conoscitivo, a dar conto della tesi
platonica, secondo cui l'ordine del tutto è razìonale e coincidente con le
strutture del pensiero, onde l'indirizzo dato all'Ac- 107 cademia da Arcesilao prima
(media Accademia), aveva cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino
pensiero di Platone, che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici,
voleva restaurare in funzione anche della vita associata e della moralità, non
a caso rial- lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro,
di qui, come Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e dell'"anima
mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta in atto, nel suo
scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di Zenone-Cleante, accantonando,
d'altra parte, in questa, a sua volta, interpretazione dello stoicismo in
chiave platonico-aristo- telica, certe tesi piu propriamente stoiche, come
quella della confliJgra- zione, probabilmente anche per influenza degli stoici
Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia (la stessa attività
divina che farebbe dopo la conflagrazione? E ammessa la conflagrazione, non
ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile divinità?: cfr. Filone l'Ebreo, De
aeternitate mundi, 54), ma derivandone, attraverso le conces- sioni fatte
proprio dagli ultimi stoici al rigidismo morale primo, una propria interpretazione
dell'imperativo stoico: "vivi secondo natura." E ora, entro il quadro
che siamo venuti delineando, assume un suo particolare significato
l'esposizione che per bocca di Varrone, Cicerone (Varro) fa della posizione di
Antioco, che scaturisce dall'interpreta- zione che ·Antioco dava della vecchia
Accademia, di Aristotele e degli Stoici. Per influenza di Platone, vasto,
diverso, ricco, si costitu{ una forma di filosofia una e identica sotto una
doppia denominazione, cioè la filosofia degli accademici e quella dei
peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle cose, non differiscono che per il
nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{ dire, l'eredità della sua filosofia
a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi discepoli piu brillanti per il
sapere e per la dottrina furono Senocrate di Calcedonia e Aristotele di
Stagira... Gli uni e gli altri, completi della fe- condità di Platone,
formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad un tempo.
Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la consuetudine di
Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò che Socrate non
approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane, in un ordine
delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae). In principio tale
filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era alcuna differenza
tra i peripatetici e l'antica Accademia... Stabilivano la stessa distinzione
tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice fu la
ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita e dei
costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del
ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da
quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. 108
Nella prima parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla
natura, ci si raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella
natura, va ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre
azioni~ Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei
beni, consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario
all'anima, al corpo, alla vita. Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel
complesso, gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la
bellezza; nelle parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna
delle parti del corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la
chiarezza per la voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. Dicevano
beni dell'anima tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e
riferivano gli uni alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano
proprie la prontezza nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù
dall'attività della mente e dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri
interessi, e, per cos{ dire, le nostre consuetudini, le quali in parte si for-
mano con un assiduo esercizio, in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i
beni dell'anima. Quelli della vita (terza specie) consistono in certe ag-
giunte che possono facilitare la praùca della virtu. Infatti la virtu (del-
l'anima e del corpo) si mostra anche ill" alcuni vantaggi che non
dipendono tanto dalla natura, quanto da una vita felice. Affermavano perciò che
l'uomo è membro della città e del genere umano, è cioè unito ai suoi simili
mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò che pensavano del sommo e naturale
bene, cui riferivano tutti gli altri beni che servono ad accrescerlo o a
conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza, la gloria, la grazia. In tal
modo ponevano tre specie di beni... Questa teoria comprendeva l'ob- bligQ di
condurre una vita attiva e la fonte del dovere stesso: in altri ter- mini,
raccomandava di obbedire ai precetti della natura... Della natura poi (questo
seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a due principi: l'uno efficiente,
l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione modifi- catrice del primo.
Nella causa efficiente, vedevano una forza; l'oggetto sot- tomesso alla sua
azione era una specie di materia. Ad ogni modo non concepivano l'una senza
l'altra, ché le parti della materia non sarebbero coerenù se non fossero
trattenute da una qualche forza, e la forza non può trovarsi fuori della
materia, poiché tutto ciò che è deve essere in qualche parte. Tale unione dei
due principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste qualità le une sono
primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie sono uniformi e
semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi. Cosi l'aria...,
il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse sono scaturite le
forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce. Per ciò si
chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. Ve ne sono due,
l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le altre, cioè
l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo l'azione di
questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano formati gli
astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle quattro di cui
sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa materia
non 109 avente alcuna specie
e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose sono espres- sione, di cui tutte
sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che può essere modificata in tutti i
modi e in tutte le sue parti: donde segue che, per essa, perire non è affatto
annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che possono essere tagliate e divise
all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{ piceòlo che non possa essere
diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi percor- rono intervalli ugualmente
divisibili all'infinito. Da tal moto e dalla materia sorgono i fenomeni che
abbiamo chiamati qualità], che, nella natura giustapposta e continua, hanno
formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori del mondo non v'è alcuna
particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti del mondo tutti gli esseri
di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla natura senziente, in cui
risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla vi è di pio forte che
possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del mondo, essa stessa
mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa specie di prudenza che
veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che ha particolar cura del
cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende umane. Talvolta
chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere altrimenti da ciò che
mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{ dire fatale e immutabile
dell'ordine eterno. Altre volte, invece, la chiamano fortuna, poiché produce
quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità delle cause e la nostra
ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e accademici trattano quindi
la terza parte della filosofia, la parte che ha per oggetto la ragione e la
dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di verità non risiede nei
sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose: la consideravano come
la sola degna d'essere cre- duta, perché solo essa contempla ciò che, sempre, è
semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi chiamavano idea, sull'esempio di
Platone (e tale termine noi postiamo esattamente tradurlo con spedes) La
scienza, secondo questi filosofi, non riposa che sulle nozioni dell'anima e sui
ragio- namenti. L'opinione sulle sensazioni non illuminate dalle nozioni]. Per
questo approvavano le definizioni delle cose, e le usavano in tutte le que-
stioni controverse. Approvavano anche le spiegazioni delle parole, cioè le
ragioni per cui un certo termine era stato applicato a un certo oggetto,. il
che chiamavano etimologia. Infine, prendendo per guida gli argomenti, quasi
segni infallibili delle cose, giungevano alla prova e alla conclusione di ciò
che volevano chiarire. In questo consisteva tutta l'arte della dialettica,
l'arte in virtU della quale la ragione deduce conseguenze. Insieme alla dia-
lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano progredire l'arte oratoria, che
consiste nello sviluppare tutto il seguito di un discorso composto in modo da
persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate da Aristotele e da Zenone di
Cizio, si conclude, affermando]: penso come il nostro amico Antioco, che cioè
nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera riforma della vec- chia accademia
piùttosto che una nuova dottrina (Cicerone, Van-o, IV-XII). Varrone, Cicerone e
la funzione della cultura A parte Antioco, o chi per lui, il testo di Cicerone
sopra riportato non ha tanto importanza se considerato a sé, quanto perché in
esso è chiaramente delineata una concezione che sembra oramai divenuta comune,
e che, indipendentemente dalle singole discussioni delle scuole . su singoli
argomenti ed aspetti, assume significato in quanto viene a costituire un
sistema di sfondo, una visione abbastanza generale e ge- nerica (divinità,
ordine .dei cieli, mondo nella sua totalità, uomo e uomo che in quell'ordine
del tutto trova i principl, la regola della vita) che serva da prima ed
elementare cultura. Si capisce come qui giuo- cassero, di là dai loro contesti,
testi singoli di Platone (dal Sofista al Timeo), dell'Epinomide, del primo
Aristotele, gli aspetti pio generici della fisica stoica, in un tutt'uno
abbastanzà· coerente che costituiva questa specie di religione cosmica entro
cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita, proprio della classe colta
e' dirigente. È stato giustamente detto che tale religione del Mondo trascende
ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene comune di ogni per- sona che
abbia partecipato della b "paideia" greca : "oggi, diremmo, che
abbia seguito il suo bravo corso scolastico" (Festugière, La révélation
d'Hermès Trismegiste, II, p. 343). Non solo, ma non poco in- dicativo sembra il
fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si riflette l'esposizione
manualistica da un lato, dall'altro lato la presentazione per argomenti) siano
state compilate dai loro autori quando, usciti dai propri diretti impegni nelle
loro singole scuole, sono entrati in contatto con la classe colta e dirigente
del mondo romano, rispondendo evidentemente a ben precise richieste e .dando ad
esse. chiarificazione e consapevolezza, in un arco che va da Polibio a Panezio
ad Antioco e Filone. Per altro verso, invece, in seno alle scuole
(particolarmente di Atene: Accademia, Stoà), si discutevano singoli problemi,
donde il nascere, poi, ad uso delle scuole stesse, di manuali in cui - ad
esempio per la scuola stoica - si elencavano questioni di morale, modi diversi
di vita a seconda delle singole situazioni, sistemazioni delle ricerche della
scuola sul linguaggio e sulle tecniche del dire (cfr. Diogene di Babilonia,
Antipatro di Tarso, Cratete di Mallo, che insegnò a Per- gamo), introduzioni
generali alla. stessa dottrina (cfr. Apollodoro di Sdeucia); oppure - per
l'Accademia e ad uso delle discussioni - si elencavano le opinioni diverse
intorno alle piu varie questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a problemae
cos1 via (si cfr., ad esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò, fuori
dalle singole scuole, fuori da precise problematiche che rispondevano a
specifica preparaziOne, as- "sunse entro l'àmbito della cultura romana, la
funzione da un lato di lll
introduzioni generali, dall'altro di manuali utili alla preparazione
sulle singole materie. E quando si pensa alla classe che in Roma aveva in mano
le redini del governo e al modo di funzionare della politica romana (non si
scordi l'importanza che ebbero anche i processi), ci rendiamo conto del perché
la maggioranza di questi manuali, di cui è rimasta me- moria, o siano manuali
d'introduzione (dacxyoylj, eisagoghè} alla filosofia (intesa come concezione
culturale generale) o manuali di retorica, di dialettica, o esposizioni di una
certa· serie di opinioni o sentenze su singoli problemi (non a caso in
quest'epoca, 1 a.C., si formarono i cosiddetti Vetusta Placita, una epitome in
sei libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla
scuola di Posidonio), o manuali di morale e di casistica morale (si vedano
sopra i titoli delle opere di Ecatone di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i
termini di una preparazione generale, manuali divulgativi intorno alle singole
scienze (particolarmente di astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale),
cui potevano servire i clo~ti acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scien-
ziati del m e del u secolo. E se è vero che tali Introduzioni e Manuali
servivano già per i giovani greci, che venendo alle scuole di Atene, di
Alessandria o di Pergamo, non aspiravano certo a loro volta alla professione
dei loro maestri, ma a formarsi, appunto, una cultura ge- nerale che servisse
poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che offriva l'amministrazione dei
singoli regni, ciò è tanto piu vero per i giovani romani avviati alla carriera
politica, nel disfacimento di quei regni stessi. Le discussioni svoltesi in
seno all'Accademia e alla Stoà, partico- larmente in quest'ultima, per ciò che
riguarda i modi di vita, le posi- zioni di Panezio, di Posidonio, di Filone e
di Antioco, le introduzioni e i manuali, le dossografie e le esposizioni di
singole questioni, si ri- flettono in Cicerone.2 Chiaramente, anzi, attraverso
gli aspetti piu 2 Di antica famiglia di possidenti, appartenente all'ordine dci
cavalieri, Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino, in un'antica villa dci suoi
antenati, il 3 gennaio dd 106 a. C. Giovanissimo, insieme al fratello Quinto,
Marco Tullio Cicerone fu condotto dal padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore
istruzione. Sotto la guida dell'oratore Lucio Licinio Crasso ebbe a insegnanti
i maggiori maestri greci allora in Roma. Avuta nel 90 la toga virile, CiccJ:one
prese pane alla guerra Marsica, comandata da Pompeo Strabone. Tor- nato a Roma
prosegui i suoi studi sotto la guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Acca-
demia in Atene fino all'88, stabilitosi a Roma dopo 1'88, c sotto la guida del
retore Molonc di Rodi, mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico
Diodoto, che in casa di Cicerone moti nel 49 a. C. Ristabilitosi con Silla
dittatore un relativo ordine, Ciocrone si dette alla carriera oratoria,
trattando cause civili c subito dopo penali. Dell'SI ~ l'ora- zione a favore di
Publio Quinzio, dell'SO l'orazione a favore di Sesto Roscio accusato di
parricidio. Preoccupato per avere difeso Sesto, contro le accuse di Crisogono
potente libcrto di Silla, Cicerone si allontanò da Roma, per un viaggio di
"perfezionamento" 112 problematici deil'opera di
Cicerone, si delineano alcune grandi conce- zioni, entro il quadro di quelle
visioni d'insieme, di cui parlavamo, e che, appunto mediante le discussioni
delle Scuole, i manuali, le in- in Grecia. In Atene ascoltò lo scolarca
dell'Accademia, Antioco di Ascalona, successo a Filone di Larissa, il retore
Demetrio Siro, gli epicurei Fedro e Zenone. Lasciata Atene, visitò le scuole di
retorica in Asia e fu, quindi, a Rodi dove s'incontrò di nuovo con Molone di
Rodi e dove conobbe Posidonio. Nel 77 era di nuovo a Roma, "non solo piu
esercitato, ma quasi mutato" (Brutus, 89 sgg.). Cicerone, che nel frattempo
aveva spo· sato Tercnzia, tornò alla carriera oratoria. Nominato questore nel
75, ebbe la provincia Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e
moderazione. Ritornato a Roma, nel 71 intentò il celebre processo contro Verre
che nei suoi tre anni di pretura siciliana (73-71) 11veva saccheggiata la
provincia. Nel1 .69 fu eletto edile curule, nel 66 pretore urbano. Disse allora
la sua prima orazione politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). Nd 63, insieme a Gaio
Antonio fu eletto console, con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il
partito degli oligarchi contro quello dei popolari e di Cesare, con quattro
orazioni contro il disegno di legge agraria proposto dal tribuno della plebe
Rucio Servilio Rullo. Fu poi la lotta contro Catilina e la lotta a favore di
Murena. Se è vero che durante il suo con- solato Cicerone aveva reso grandi
servigi al partito degli ottimati, è altrettanto vero, come è stato detto,
ch'egli aveva abusato del potere mandando a morte cittadini romani senza
regolare giudizio. Avvenuto l'accordo di Pompeo con Cesare e Crasso (80), Cice-
rone si trovò isolato, sotto l'accusa di Publio Clodio, che passato ai plebei,
nella sua qualità di tribuna della plebe, nel 59 promosse una legge contro
coloro che avevano fatto uccidere un cittadino romano senza regolare condanna.
Cicerone allora (marzo 58) si allontanò da Roma,. mentre Clodio faceva
decretare l'esilio di Cicerone e l'ordine di distruzione della sua casa di Roma
e delle ville di Tuscolo e di Formia. Cicerone si recò a Brindisi, a
Tessalonica e quindi a Dirrachio. Nel 57, il console dell'anno, su proposta di
Pompeo, revocò l'esilio di Cicerone, sostenendo ch'egli aveva agito per il bene
della Repubblica. Cicerone tornò a Roma in trionfo, pronunciò ~razioni di
ringraziamento dinanzi al Senato e al popolo e riusd a farsi ricostruire a
spese pubbliche le sue case. Legato a Pompeo, Cicerone che non era piu
appoggiato dal Senato, cercò da ora in poi, appoggi e forza presso i potenti
dell'ora, difendendo amici e fautori, accusando nemici c gente che potevano
metterlo in pericolo. Con molta intelligenza e moderazione resse il
proconsolato in Cilicia nel 51. Tornato nel 50 a Roma si trovò in piena lotta
tra Pompeo c Cesare. Titubante dapprima, si decise poi a seguire Pompeo c fu
con lui in Oriente. Malato, non combatté a Farsaglia (48) e, dopo la fuga di
Pompeo, rifiutato il comando della flotta, si recò a Brindisi, dove attese
Cesare. Appena Cesare sbarcò (47), Cicerone gli andò incontro. Cesare smontato
da cavallo si accompagnò a Cicerone. Tornato a Roma si ritirò dalla vita
politica. Ucciso Cesare nel 44, Cicerone pronunciò in Senato un'orazione in
favore di una pacificazione c di un'amnistia generale. Marco Antonio invece
eccitò il popolo contro i congiurati. Anche Cicerone fu costretto a fug- gire
d" Roma. La sua lotta contro Antonio è affidata alle celebri Filippiche.
Giunto a Roma Ottavio, che assunse, in qualità di crede di Cesare, il nome di
Cesare Ottaviano, Cicerone tornò a Roma sperando che Ottaviano salvasse la
Repubblica, mantenendo la sua linea politica di difesa del Senato e degli
Ottimati. Ma Ottaviano si accordò con Antonio e Lepido, proclamandosi triumviri
uipublicae costituendae per cinque anni, riserbandosi ciascuno il diritto di
proscrivere i propri avversari. Cicerone fu proscritto da Ant<.onio. Fuggito
da Rom.., si rifugiò nella sua villa di Astura presso Gaeta, ovc raggiunto da
sicari di Antonio, venne ucciso il 7 dicembre del 43. Se le orazioni di
Cicerone, seguite cronologicamente segnano le tappe della sua attività
politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui si venne scandendo il suo
pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e dei suoi fini, di cui
specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in volta usate. In realtà
impossibile è una divisione 113
traduzioni, si c9stituiscono in funzione di certe esigenze proprie del
mondo romano. E quando diciamo mondo romano, non intendiamo qualcosa di
compatto. Tutt'altro: un mondo culturalmente in fieri, delle opere di Cicerone
in retoriche, filosofiche, storiche. Diamo qui, per utilità, l'elenco
cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle orazioni. IOpt!re
retorico-filosofiche Traduzione dell'Economico di Senofonte (85 a.C.: ne
restano alcuni frammenti); traduzione dei Fenomeni di Arato (84 circa: ne
restano alcuni frammenti); De inven- tione rhetorica (80: in 2 libri; tentativo
di sistemazione delle tecniche retoriche); De Oratore libri 111 (55: si dà,
oltre alle tecniche, valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e di
eloquenza); De Republica (in 6 libri, composto tra il 54 e il 51: doveva
includere 9 libri. Il dialogo si suppone avvenuto nel 129 ed ha per principali
interlo- cutori Scipione Emiliano e C. Ldio. Resta una parte del VI libro,
andata sotto il nome di Somnium Scipionis; possediamo inoltre citazioni e
riassunti di Lattanzio e di S. Ago- stino, alcuni frammenti scoperti da A. Mai
in un palinsesto vaticano. Nel l libro dopo avere discusso della natura dello
Stato e della sua origine, e dopo aver passato in rassegna le tre forme di
reggimenti politici tradizionali, monarchia, oligarchia, democrazia, e delle
loro degenerazioni, si sostiene che ottima è la costituzione romana; nel n
libro si fa vedere come si è realizzata la costituzione di Roma; nel III libro
si dimostra che non c'è Stato senza giustizia; nel IV libro si chiariscono i
fondamenti istituzionali senza di cui non vi sarebbe vita morale; nel. V libro
si delinea quale debba essere la figura dd reggitore, del rector rerum
publicarum; nel VI libro si doveva· definire il princeps: ne è un saggio il
somnium Scipionis); De Legibus (composto tra il 53 e il 51, fu pubbli- cato,
sembra, nel 46; doveva essere in 5 o 6 libri; ne restano 3. Il dialogo si finge
tenuto ad Arpino, nel 52, presso il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali
interlocu- tori sonò lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e Attico. Nel I
·libro si discute e si defi· nisce il diritto naturale e il significato da dare
alla legge; nel Il libro si dichiara che le leggi civili debbono avere a loro
fondamento le leggi naturali; si discutono poi le leggi religiose; nel III
libro si discutono le leggi dei magistrati; il IV e il V libro dove- vano
trattare dei giudizi e dell'educazione); Brutus o De claris oratoribus in un
libro (composto nel 46: il dialogo, che ha per principali interlocutori
Cicerone stesso, Bruto e Attico, è una specie di storia dell'eloquenza romana,
culminante in Antonio, Crasso e Ortensio); Orator (del 46: vi si delinea il
ritratto dell'oratore perfetto secondo Cicerone, filosofo ed oratore ad un
tempo); De optimo gent!re oratorum (del 46: è un'introdu- zione alle traduzioni
latine, andate perse, che Cicerone fece dell'Orazione di Eschine contro
Ctesifonte e dell'Orazione di Demostene per la Corona); Paradoza Stoicorum (del
46: elenco di tesi retoriche tratte da tesi stoiche in funzione di discussioni
sulla morale); Hortensius (perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne restano
frammenti e testi· monianze. Doveva essere una specie di grande introduzione
alla filosofia inspirantesi al Protrettico di Aristotele. Servi nelle scuole
eome introduzione alla filosofia. Fu composto, sembra, tra il 46 e il 45); De
partitione oratoria (45 circa: opera a carattere tecnico e istituzionale);
Consolatio (perduta: ne abbiamo qualche frammento citato da Cicerone stesso e
da Lattanzio. Fu sc:Ìitta nel 45 per consolarsi della morte della figlia
Tullia); Academici libri (Cicerone ne stese due redazioni: gli Academica priora
in 2 libri e gli Academica posteriora in 4 libri; degli Academica priora il l
libro, o Catulus, è per- duto, il n libro, o Lucullus, si è salvato; degli
Acllliemica posteriora si è salvato il l libro, o Varro; abbiamo alcuni
frammenti e testimonianze degli altri libri. Furono scritti nel 45. Vi si
espone criticamente la storia del pensiero degli Accademici e in pa'licolare il
pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona); De finibus bonorum et
malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il primo dialogo abbraccia il l e il
n libro; il secondo dialogo il III e IV libro; il terzo dialogo il V libro. Nel
l libro C. L. M. Torquato espone la tesi epicurea secondo cui il bene sta nel
piacere; nel n libro Cicerone confuta la tesi epicurea; nel III libro Catone
espone la tesi stoica secondo cui il bene consiste nella virtU e tutti gli
altri cosiddetti beni sono indifferenti; nel IV libro 114 ove la
grande espansione e le conquiste presentano problemi nuovi, economici e
sociali, per cui lo stesso modo antico di governo entra in crisi, in cui la
classe senatoriale e, ormai, quella degli uomini nuovi Cicerone confuta la tesi
stoica sostenendo che nulla di nuovo se non nelle espressioni. hanno detto gli
Stoici, rispetto ai platonici e agli aristotelici; nel V libro si espone la
dottrina degli· Accademici, o meglio quella di Antioco); Tusculanae
Disputationes libri V (del 45; sono una prosecuzione del De finibus; si
rivolgono ad un pubblico piu esteso che non il De finibus, e, questo, forse,
spiega il maggior peso dato all'ideale dd saggio stoico: nel I libro si
dimostra che il saggio non teme la morte, nel II che non teme i dolori del
corpo, nel III e nel IV che è alieno da ogni passione, nel V che uno è il bene,
la virtu, in senso strettamente stoico); traduzioni del Protagora e del Timeo
di Platone (45 circa); De natura deorum libri Ili (composto tra il 45 e il 44:
nel I libro Velleio epicureo espone la tesi di Epicuro sulla divinità,
confutando le tesi di Platone e degli Stoici ed esponendo le varie teorie sugli
dèi da Talete a Diogene di Babilonia; Vdleio viene quindi confutato da Cotta;
nel II libro Balbo espone la tesi stoica sul divino; nel III libro, di cui sono
andate perdute alcune parti, Cotta confuta la tesi stoica sia relativamente
alla natura degli dèi, sia al loro governo sul mondo, sia al loro inte-
ressamento per gli uomini. Cicerone, infine, sostiene ch'egli attraverso la sua
posizione accademica, ritiene opportuno optare per la tesi di Balbo); De
senectute o Cato maior (composto tra il 45 e il 44, probabilmente finito prima
del De natura deor., del De divinazione e del De fato; il dialogo si finge
tenuto nel 150 tra Catone il Censore, ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e C.
Lelio, ed ha per oggetto la difesa della vecchiaia; la prima ispirazione è
probabilmente dovuta al I libro della Rep. di Pla- tone); De divinazione libri
Il (del 44; si riallaccia al De nat. deorum, per confutare la tesi stoica della
divinazione. Il dialogo si svolge tra Cicerone e il fratello Quinto. Nel I
libro si espone la storia e la critica della divinazione, implicante una ferrea
ne- cessità. Quinto si dichiara favorevole alla tesi stoica; nel II libro
Cicerone confuta la tesi stoica); De fato (scritto dopo la morte di Cesare, 44,
nel De fato si discute a fondo la questione del rapporto necessità-libertà,
rifiutando sia la tesi epicurea che quella stoica); Laelius de amicitia (del
44; il dialogo si finge avvenuto nel 129 in casa di Lelio all'indomani della
morte dell'amico di Lelio, Scipione Emiliano); Topica (scritti nel 44, durante
un viaggio per mare da Velia a Reggio; è un'opera di logica formale e di
tecnica retorica); De officiis libri Ili (composti sulla fine del 44; vi si
tratta dei doveri medi, in una rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata
IItpl "tOÙ Xct&-l)xov-ro~. Nel I libro si delinea in che consiste
l'honestum, nel II in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti
tra honestum e utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e
il De virtutibus, ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio (81); Pro Seztio
Roscio (80); Pro Q. Roscio (76); Pro M. Tullio (72-71: non completa); Verrine
(70; dalla Divinatio in C. Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5
accusat. in C. Verrem); Pro M. Fonteio, Pro .Aula Caecina (tra il 69 e il 67);
Pro lege Manilia o De imperio Gn. Pompei (66); Pro .A. Cluentio (66); De lege
agraria contra P. Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum contra Rullum
(63); Pro C. Rabirio (63); In Catilinam (63); Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro
P. Sulla, Pro .A. Licinio .A.rchia poeta (63-62); .Ad Quirites post reditum
suum (57); Post reditum in Senatu (57); Pro domo sua a d Pontifices (57); De
haruspicum responsis in Senatu (56); Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P.
Vatinium, Pro M. Coelio, Pro Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis
consularibus (56); In L. Calpurnillm Pisonem (55); Pro T. Anneo Milone (52),
Pro C. Rabirio postumo, Pro M. Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege
Deiotaro (50-45), Filippiche (14 orazioni in M. Antonium, del 44). ·si
ricordano, infine, . gli epistolari ciceroniani, raccolti, probabilmente, fin
dal 46, dal dotto liberto di Cicerone, Tirone (Epistolarum libri XVI ad
familiares, Ep. libri XVI ad Atticum, Ep. libri Ili ad Cicer. fratrem, Ep. ad
Brutum) ed alcune opere storiche e poetiche andate perdute, ma, sembra, di
nessun valore. 115 tentano
di mantenere il proprio potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti
interni - senza perdere le proprie prerogative, cer- cando anche, per la
propria opera o la propria azione, giustifica- zioni ideali. La prima
concezione, d'ordine· generale (trascendendo le singole scuole e le loro piu
profonde differenze), quale appare attraverso l'opera di Cicerone, è quella
delineata come di Antioco: visione di un tutto ordinato, gerarchicamente
scandentesi, ove il divino è la stessa ragion d'essere che fa s( che ogni cosa
si articoli all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su tutto si
diffonde (anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione (l6gos). Entro
questi termini, in cui si fondevano aspetti platonici (doH'ultimo Platone) e
stoici (particolar- mente la dottrina del principio attivo e del principio
passivo, del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della legge, e la possibile
interpre- tazione di tali dottrine, il cui esito era una concezione legale del
cosmo), e il cui arco va da Panezio ad Antioco di Ascalona, si vede bene il
costituirsi di una concezione, la quale ideologicamente serv( a giustifi- care
un certo modo di intendere la politica e il mos, quali vennero attuati
sull'esempio di Scipione, dalla corrente senatoriale, che prese, appunto, le
mosse da Scipione Emiliano. Non solo, ma tale concezione, sotto l'aspetto
dell'armonia del tutto e della legalità del tutto, giustifi- cava da parte
~enatoriale l'istituzione di un certo "diritto" a diritto universale
e la teorizzazione di un costume e di una libertà che veni- vano perciò assunti
a costume, a bene, a libertà per tutti. Non poi molto lontana da questa, è
un'altra dottrina che traspare da Cicerone, e che sembra sia stata messa a
fuoco da Filone di Larissa. Identico lo sfondo e la strutturazione
stoico-platonica, essa tuttavia sembra rispondere a una diversa esigenza, che
rivela, di contro alla oramai sclerotizzatasi visione di certi conservatori piu
rigidi, la possi- bilità di una maggiore duttilità di una discussione e
convinzione che si realizzi retoricamente. Essa rivela cioè l'esistenza di
gente che, pur legata alla carriera politica e alla corrente senatoriale
conservatrice, si rende conto dei mutamenti avvenuti, che piu vivi sono i
contrasti entro la stessa classe dirigente, nel venire alla ribalta di uomini
nuovi e in una carriera politica alla quaie non si accede piu solo per nascita,
ma anche da parte di chi ha rivelato le proprie capacità nei tribunali e nei
processi. Pur optando per la visione di un tutto ordinato, tale strutturazione
tuttavia viene assunta non come verità assoluta. Tale accettazione dogmatica,
utile finché unica era la voce, diveniva estre- mamente debole, quando, in una
discussione piu aperta si poteva di- mostrare che, portata alle estreme
conseguenze, giungeva alla nega- zione proprio dell'azione (s( come avveniva in
certe posizioni dello 116 stoicismo) e, alla fine,
all'impossibilità del discorso e, perciò, ad esau- rire la propria forza di
convinzione. Di qui, invece, l'assunzione di quella tesi, e oramai comune
concezione, come ipotesi, come verità pro- babile: era cosr possibile la
discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il muovere a quella
piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le tecniche della
convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la relativa acquisita
saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover essere, come impegno di
realizzazione. E allora accanto al recupero di certo platonismo, stoicismo,
aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti del platonismo, di
quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che come essere,
proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del saggio stoico,
anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale medi~. di una
misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca- pace, possono
servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu perfetta, posta
non come principio, ma come termine di realiz- zazione. Tale la via presa da
Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e all'Accademia, piuttosto
che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando Antioco di Ascalona. Se
avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per ostentazione o per puro
gusto di critica, penso che andrebbe condannata non solo la mia stol- tezza, ma
anche il mio costume e il mio carattere. Ché se nelle piccole cose si biasima
la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso, vorrei, allorché si tratta del
fondamento e del fine della mia intera vita, entrare in conflitto con gli
altri, o frustrare gli altri tanto quanto me stesso? Perciò, se non pensassi
essere inconveniente in una tale discussione, fare quello che tal- volta si· fa
quando si discutono le questioni dello Stato, giurerei per Giove e per gli dèi
penati che brucio per scoprire la verità e che penso come parlo. E come non
potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento che provo gradimento se, su
di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma proprio perché giudico essere
cosa bellissima contemplare la verità, ritengo vergognosissimo affermare il
falso come se fosse una verità. Personalmente, certo, sono incapace di non
affermare mai il falso, di non dare mai il mio assenso, di non avere mai
un'opinione, ma qui si tratta del saggio. Quanto a me, faccio molte congetture
(io non sono un saggio), e non mi volgo a quella piccola Cinosura [Orsa minore]
"guida notturna cui si affidano i Fenici in alto mare," come dice
Arato [Cic., Arat. frg. 7; cfr. Nat. deorum, 2, 106], i quali, tanto piu
esattamente si dirigono, quanto piU, per la sua vicinanza al polo, "ha una
breve rivoluzione," ma dirigo i miei pensieri verso I'Orsa maggiore e le
chiarissime stelle di settentrione, cioè verso ragionamenti in forma larga e
non minuziosamente limati. E per ciò mi capita di andare errando e di navigare
nel vago. Ma, come ho detto, non si tratta di me, ma del sapiente. Quando,
infatti, ciò che mi rappresento ha fortemente
scosso la mente e i sensi, lo accetto e talvolta anche gli do il mio
assenso; tuttavia non lo percepisco; ché nulla ritengo si possa percepire. lo
non sono un sapiente; per questo cedo alle rappresentazioni e non posso
resistere loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone, quando pensa che la piu alta
forza del sapiente è di stare attento a non essere afferrato e a non essere
ingan- nato. Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che abbiamo della gravità·
del sapiente che l'errore, la leggerezza, l'avventatezza (Cicerone, Lucullus,
xx, 65-66). Quando scrisse gli Accademici (nel 45 a. C.) Cicerone aveva ses-
santun anni. In essi, per quel che n'è rimasto (Acad. post. lib" l, Varro;
Acad. prior. lib. Il, Lucullus), alla posizione piu rigida e pio dogma- tica di
Antioco di Ascalona, quale, d'altra parte, si rifletteva .nella posizione di
Varrone reatino e di Lucullo, si contrappone nell'inter- pretazione del
probabilismo di Filone di Larissa (cfr. sopra: si veda anche: "ci sono
molte cose probabili, le quali, per quanto non colte in sé, tuttavia, dandoci
una rappresentazione chiara e distinta, servono a regolare la vita del
saggio": De nat. deorum, l, 12; anche Tusc. disp., V, 33, 82), una piu
duttile concezione, passibile d'essere assunta in funzione retorica, avente per
fine un certo tipo di politica. Cicerone era oramai giunto al pieno della sua
maturità. Se considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel complesso degli
scritti di Cicerone, gli Accademici hanno un particolare interesse, in quanto
chiariscono il doppio aspetto di tutto il pensiero ciceroniano: da un lato
l'esigenza di una concezione filosofica, di una riflessione critica che renda
conto, diciamo cosr, di una "saggezza teorica"; dall'altro lato,
anche mediante quella saggezza, la capacità d'inserirsi nel mondo umano, per
mezzo del- l'arte del dire, sr che quello stesso mondo umano si muova,
scendendo, se si vuole, a compromessi, usando tutte le tecniche della piu
scaltrita retorica. Può darsi che in Cicerone non vi sia una
"filosofia," com'è stato detto, che in lui coabitino piu concezioni,
non poche volte in contraddizione tra di loro, ch'esse siano state desunte,
volta a volta, superficialmente, dai manuali e dalle sillogi, ma è anche certo
che in Cicerone si riflette la problematica di un'epoca, o meglio di una certa
classe di uomini, fluida e in lotta, in una certa epoca, nel suo tenta- tivo di
determinare un modo di vita, che andando oltre l'assunzione della cultura come
mezzo, facesse della cultura il fine, in una sintesi di scienza e retorica, in
un pensiero che è davvero tale se è azione. Non è cosr un caso l'abile ripresa
del motivo aristotelico ("e cosr - esclama Cicerone, - l'uomo, secondo
Aristotele, è nato per due fini, comprendere e agire, come un dio mortale -- De
finibus, II, 13, 40) di una ragione teoretica, di una ragione pratica e di una
ragione poietica (cfr. I vol.), ove, relativamente alla retorica, essa, avendo
per campo il mondo del possibile e non del necessario, fa tutt'uno con la
dialettica. Certo, per intendere la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo
ideale di vita da lui affrescato, il significato da lui dato alla cultura e
perciò al rapporto filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica
illuminata, capace di inserirsi volta per volta nel contrasto degli
avvenimenti, vanno tenuti presenti i momenti estremamente gravi della storia e
della politica di Roma durante l'arco della vita di Cice- rone, dal 106 al 43
a. C. È storia troppo nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le
alleanze e le rotture tra uomini in lotta, i conflitti tra i
"populares" e gli aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le
lotte in nome del popolo o del senato che gli stessi aristocratici e i
cavalieri ebbero tra loro, pur di assurgere al potere. Entro questi termini si
vede bene il tentativo di Cicerone di ostacolare l'affermazione singolare
dell'uno o dell'altro personaggio - non a caso Cice- rone fu in contrasto con
Pompeo e con Cesare, - in nome di un ordine e di una legalità che conservasse
quella res-publica quale si era deli- neata attraverso Scipione Emiliano,
ch'era poi il tentativo di mante- nere un ordine in cui si determinasse la
libertà d'azione piu che degli aristocratici o dei popolari, degli optimates.
"Tutti sanno," ha scritto giustamente La Penna, "di qual largo
favore godette nell'ultimo se- colo della repubblica romana lo slogan della
libertas: uno slogan usato da parti opposte, con contenuto diverso e
indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la libertà e la democrazia
di oggi. Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso campa di sostrati remoti di
cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti per la libertà, benché a quasi
tutti gli storici sia ormai chiaro che quella libertà era, in fondo, la facoltà
per alcune cricche nobiliari di manipolare elezioni e magi- strature, grazie
alla ineducazione politica e alla fame della plebaglia urbana, le cui esigenze
vere o si manifestavano in esplosioni cieche e inefficaci o influivano in
misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno noto... che lo slogan della
libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare sotto l'impero. Augusto
attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem publicam e gli
imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della libertà; nelle
contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami campione della
libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di scarsissimo
interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan della
libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario, vada
sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e se-
curitas è la tranqu~llità nel godimento dei propri beni, senza paura di 119 nemici esterni, senza paura
di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia rerum novarum cupida,
senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto, in buone mani. Questo
processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età augustea..." (Libertas
e Securitas, "Belfagor," p. 'Zll). In effetto tutto questo era già
presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo presente la situazione
storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia da certi aristocratici e
cavalieri che agivano avendo per scopo un potere personale, sia dalle rivolte
popolari, in una struttura sociale in cui il popolo non c'era; ma anche si
chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla cultura, la tensione a porre,
sia pur come dover essere, un ordine e una misura ideali, per muovere i quali
divenivano di grande importanza tutte le tecniche retoriche, onde la retorica
venne pian piano a perdere per Cicerone il significato di mèra precettistica
(come ancora era nel giovanile De inventione), per assumere la funzione di
costituire e di "inventare" un certo ideale e di convincere ad esso.
Se non vanno dimenticati i massacri di Mario, le molte guerre civili, le
proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo, di Crasso e di Cesare, i molti
processi, neppure vanno dimenticati, anche in funzione di questi stessi
conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari, i due schemi retorici che
n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus romana, legato alla sola
tradizione del "forte" popolo romano, indi- pendentemente da ogni
cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine costituito, la cui visione
è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla concezione del saggio di
tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca nettamente dalla politica.
Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era divenuto un ideale, cioè la
figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché saggio, ma saggio perché uomo
d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo Stato verso il bene, sorge
l'esigenza di delineare l~ figura dell'oratore quale uomo politico, che può
indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da realizzare, in quanto
abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò stesso, perché ro- mano,
non solo volta a quella greca, ma anche allo studio della tra- dizione di Roma,
dei suoi costumi, della sua lingua, del suo diritto. Tale, sembra, l'esigenza
messa in chiaro da Cicerone. Da un lato, quindi, l'importanza di una cultura
enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre all'interesse per ascoltare e conoscere
i vari maestri delle varie scuole, recandosi anche nei centri di maggior
cultura, Rodi, Alessan- dria, Atene, il significato dato ai manuali, alle
introduzioni, alla discussione delle questioni, mediante cui formare la propria
personalità, cioè la propria humanitas o cultura; dall'altro lato il valore che
assumono le ricerche dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua, alla sua
cultura. Assume qui un preciso significato storico - di cui già ci si rendeva
conto nel tempo- l'opera cosiddetta erudita di Varrone8 reatino, vissuto tra il
116 e il 27 a. C. A tale proposito, anzi, sembra avere un particolare interesse
la delineazione che Cicerone fa della figura di Varrone e soprattutto della sua
importanza per aver fatto conoscere ai romani la loro storia, le loro
antichità, contrapponendo tuttavia a lui la propria funzione di rendere latino
un aspetto della paidèia greca, costituendo i cardini di una nuova cultura. ...
Che Varrone ci dica quello che fa, poiché le sue Muse tacciono piu a lungo del
solito. Non credo che abbia smesso di lavorare, ma penso che nasconda le cose
che scrive. "Niente a~o," rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è
follia scrivere ciò che poi si 'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una
grossa opera, di cui da tempo mi propongo di dedicare una 3 Nato nel 116 circa
a. C. a Rieti, nella Sabina, da una illustre famiglia plebea, Marco Terenzio
Varrone fu soprattutto uomo di lettere e di vastissima cultura, anche se per un
certo periodo si oc:cupò di politica. Questore nell'86, legato, propretore di
Pompeo nella guerra contro Sertorio (76 e seguenti), uibuno della plebe,
pretore nel 68, legato di Pompeo nella guerra contro i pirati (67), Varrone
vedeva in Pompeo il salvatore delle antiche tradizioni repubblicane. Addolorato
per l'alleanza di Pompeo con Cesare e Crasso, segui di nuovo Pompeo contro
Cesare nella Spagna ulteriore (49). Dopo Fàrsalo si ritirò definitivamente
dalla vita politica attiva per darsi tutto agli studi, ma sempre in funzione di
Roma. Sia pur avendo combattuto contro Cesare, sia pur avendo scritto l'elogio
di Porcia, la moglie di·Catone Uticense avversario di Cesare, Cesare, al quale
Varrone aveva dedicato nel 47 le Antìquitates rerum divi,..,m, gli diede
l'incarico di organizzare un complesso di pubbliche biblioteche latine e greche
(cfr. Svetonio, Caes., 44). Morto Cesare nel 44, Varrone rientrò tra i
proscritti di An· tonio. La sua casa e la sua ricchissima biblioteca furono
saccheggiate e fu in quell'oc· casione che molte delle opere di Varrone
andarono perdute. Varrone si dette alla macchia e fu nascosto da amici fidati,
tra cui Fufio Caleno. Amnistiato poté tornare ai suoi studi. Morl nel 27 a. C.,
l'anno stesso in cui Ottaviano prese il nome di Augusto. Varrone stesso,
secondo Gellio, III, IO, I7, nel I libro delle Ebdomadi, scrivèva che a 84 anni
aveva composto 490 libri: il Ritschl, OfJUJt:., III, 525, riprendendo l'in·
terrotto catalogo dei titoli delle opere di Varrone olfertoci da S. Gerolamo e
aggiun· gendo scritti citati da autori antichi· che non si trovavano nel
catalogo di S. Gerolamo, arriva a citare 70 opere per un complesso di 620
libri. Di tale sconfinata opera di Varrone resta pochissimo: Libri tres rerum
rustìt:iiTUm (scritti a 80 anni); sei libri dei venticinque De linpa latina; un
migliaio di frammenti delle altre opere. Diamo qui un elenco dei titoli delle
opere piu celebri di Varrone: Antiquitates rerum humanarum et divinarum (41
libri); Annalium libri tres; De vita populi Romani; De gente populi Romani; De
Pompeio (3 libri); Legationum libri 1I1; De iure civili (15 libri);
DiscipliniiTflm libri IX (1. De grammatica; 2. De dialectica; 3. De rheto-
rica; 4. De geometria; 5. De arithmetìca; 6. De astrologia; 7. De musica; 8. De
me· dicina; 9. De architectura); Libri tres rerum rustit:iiTflm; De lingua
latina (25 libri); De poematis (3 libri); De poetis; De Jt:aenicis originibus
(3 libri); De actionibus scae- nicis (3 libri); Quaestìonum Plautinarum libri
V; De lectionibus (3 libri); Suationes (3 libri); Orationes (22 libri); De
proprietate scriptorum (3 libri); De bibliothecis (3 libri); De similitudine
verborum (3 libri); Liber de philosophia; De forma philo· sophiae libri' IIT;
De principiis numerorum libri IX; Logistorici (76 libri); Saturae menippeae (4
libri); Pseudo-tragoetiiar11m (6 libri: tragedie da leggere, non da rap·
presentare); Poemata ( I O libri).
121 parte al nostro amico (parlava di me Cicerone); è un
lavoro di una certa importanza, che sto limando e rifinendo. Varrone, dissi io, benché da tempo aspetù questo tuo
lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di cui ti è noto l'affetto,
mi ha detto (certe cose non si possono nascondere), che, !ungi
dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né mai
l'abbandoni. C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in mente di
farti; ma ora, che mi son dato all'impresa di trasmet- tere gli argomenti dei
nostri comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica filosofia che
è cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi tante cose,
accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che tale studio
e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e ad ogni
altra arte?" Varrone rispose: "Tu mi parli di un progetto cui ho
spesso pensato, che spesso ho agitato... Vedendo la filo- sofia trattata con
una cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei
nostri concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle
dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre
quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si
curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere
l'erudizione greca. Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non
potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che
rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica
(due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo
costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù
preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure
ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. Non solo, ma tu, Cicerone,
conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che
questa forza plasma e modifica: abbiamo dun- que bisogno anche della geometria.
Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che
concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve
cercare?... (In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...:
quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e
oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! Tengo, dunque, per me solo
i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola
della mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la
filosofia è il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli
dèi. Ma quelli dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in
Grecia, consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai
rivi che ne derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e
che gli studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel
che ho potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei
concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la
morte del nostro L. Elio, ai Latini. Ad ogni modo, le opere della mia
giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche
gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non
poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere dall'interesse
dell'argomento, comprendessero piu facilmente tali questioni filosofiche, mi
sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei proemt delle mie Antichità, se,
comunque V l sono ClUSCltO. "SI," risposi, "ci sei riuscito,
Varrone; stranieri nella nostra città, errànti come viaggiatori, le tue opere
ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e, grazie a te, possiamo finalmente
conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che ci hai rivelato l'età della
nostra patria, la successione dei tempi, i diritti della religione e del
sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna, la disciplina militare,
la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci hai svelato i nomi di
tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e le cause. Tu hai
diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla nostra
grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto; tu,
certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare
l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o,
I-III, 2-10). Varrone, per quel che ne sappiamo, fu soprattutto un uomo di
studio. Forte di una certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla
scia del suo maestro Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Va"o, III, 12),
applicò alle proprie ricerche sul mondo antico, greco e romano, il metodo
istorico proprio della scuola peripatetica, cercando d'illumi- nare le sue
ricerche intorno ai costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla
letteratura, mediante la visione della vita e della virtu propria degli stoici,
dei cinici, e, pare, in particolare di Posidonio. Ad ogni modo sembra che le
molte letture, la sua curiosità di co- noscere le cose umane, attraverso i
monumenti e i documenti, lo ab- biano portato, nei suoi scritti, oltre alla
descrizione e alla schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf agli
antichi sf come un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in certe
condi- zioni politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce certi tipi
di costume, di religione, di condotta politica. Sotto questo aspetto si chia-
risce come Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore
all'altro, tre tipi di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie-
garsi da parte dell'uomo la propria esigenza religiosa. Il discorso su dio in
forma di favola (teologia favolosa o poetica) risponde all'esi~ genza del
divino propria degli uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino
interpretato come ragion d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia
naturale), è il discorso proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che identificano
il divino con la stessa ragion d'essere o con le possibili condizioni che
rendono pensabile la realtà, quali che poi ognuno ritenga siano le strutture
del tutto (Varrone accettava la tesi accademico-stoica del divino come anima
mund1); il discorso sulla divinità, rispondente all'esigenza dell'uomo in
soCietà (teologia civile) di trovare un criterio all'obbligatorietà della
legge, può essere in con- trasto, per ragioni politiche, con la t~ologia
naturale (ove molte sono le soluzioni e le interpretazioni), per cui, proprio
in funzione della vita associata, secondo Varrone, i discorsi della. filosofia
intorno al divino e alla natura debbono rimanere privati o chiusi in seno alle
scuole, a meno ch'essi non coincidano con le strutture legali di una certa comunità,
servendo anzi a rendere conto di tale legalità. Il che, per altra via, sembra
spiegare il successo di certo stoicismo e di certa Acca- demia nell'àmbito
della classe romana, dirigente la vita politica (cfr. per la testimonianza
sulle tre teologie, Sant'Agostino, De Civitate Dei, VI, 2-5). Gli studi
storico-eruditi di Yarrone su come è che l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra
parte, a sostenere che già gli studi e le dimostra- zioni dei piu grandi
pensatori dimostrano che l'aspirazione naturale dell'uomo consiste nel
realizzare pienamente se stesso (felicità), e che perciò l'uomo è felice,
allorché attua se medesimo sia come anima sia come corpo, ché l'uomo è un
tutt'uno d'anima e di corpo. Vita beata, perciò, si avrà quando
"virtu" (capacità di realizzare sé eccellente- mente) e
"naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per natura, prima
naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano anche quei
beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla. Di qui anche
si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e attiva),
ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né l'altro,
se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita cioè che
sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca dalla
rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria
posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua
sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue
ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura
posteriore e sull'organizzazione degli studi. Purtroppo della sua immensa
produzione - sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres
rerum rusticarum (che scrisse a 80 anni), sei libri dei 25 De lingua latina,
pochi fram- menti e non poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle
sue ricerche in quasi tutti gli autori posteriori. Cos{ sembra che tra le opere
piu lette e sfruttate siano state le Antiquitates rerum huma- narum et
divinarum (in 41 libri) e gli Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De
poematis, il De poetis, il De scaenicis originibus, il De actio- nibus
scaenicis, i Quaestionum Plautinarum libri V, il De jure civili, i Logistorici
- mentre notevole influenza, rispetto all'organizzazione degli studi e degli
insegnamenti, mediante cui costituire il "cur- 124
riculum" che formi l'uomo, che lo liberi con una cultura fondata
appunto sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum libri IX, cosi
suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de geometria, de
arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de architectura. Varrone
era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor· tanza della cultura
per la formazione dei "cittadini." Solo che Cice- rone fu piu preso
nel giuoco politico che non Varrone. Varrone ebbe, certo, uffici importanti (fu
triumviro capitale, questore nell'86, pro- pretore di Pompeo nel 76, tribuno
della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra civile dalla parte di
Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche, pacificatosi con Cesare,
al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò ogni velleità politica,
proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi (Cesare lo incaricò di
mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a sfuggire alla proscrizione
di Antonio (43 a.C.). Purtroppo le sue biblioteche andarono completa- mente
distrutte. Altro il temperamento di Cicerone. Senza dubbio piu ambizioso, egli,
fin da giovane, fu attratto dalla carriera politica. Fu, anzi, in funzione di
questa che Cicerone venne elaborando una concezione, che, riprendendo motivi
circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere un ordine e una
misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella lotta per il potere
di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si tenga poi presente
che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas della
res-publica. Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una possibile
carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del suo tempo
(egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu particolarmente
attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone), preso dagli esempi
di grandi oratori come Sulpicio, di giu- risti come Scevola, di uomini politici
corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di Scipione Emiliano,
Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del retòre, divenuto oramai
solo maestro di retorica, precettista, nell'antica figura del retore uomo
politico, del- l'orator, nel senso di un Demostene, che, tuttavia, deve
inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per la quale
perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una diversa
concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e degli
Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica delle
diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e dei
contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu probabile)
servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo or- dine
politico e giuridico. Per questo Cicerqne, non accettando la tesi 125 varroniana che le questioni
piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole,
affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle
conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto
politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere
(duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta
atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale
politico, in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la "res-publica,"
fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno abbia il posto che gli
compete. Di qui la paura continua di Cicerone (e il compromesso) nei__confronti
di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in nome del popolo, potere
personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si dimostrò difensore del
Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché in Cesare egli vedeva il
possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione Emiliano; riti- ratosi dalla
vita politica durante il periodo in cui Cesare ebbe in mano il potere, Cicerone
riprese la sua attività politica alla morte di Cesare (15 marzo 44), in
appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato, il difensore dei diritti
del Senato, moderatore della "res-publica," contro Antonio. Incluso
nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano e Lepido si trovarono
d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai sicari di Antonio
nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. Cicerone se da un lato appare come
un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo, mediante la sua
visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove tutto ha il suo
giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo si costituisce
legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr. Somnium
Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una specie di
anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da quelle
retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il fondamento
giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana
di Ottaviano Augusto. Entro questi termini si vede bene la linea - anche
cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione (85-80) al De
officiis (44-43), che passando attraverso il De Oratore (55), il De republica
(54), il De Legibus (52), le Partitiones oratoriae e il Brutus (46), si compie
nel senso di un affinamento delle tecniche di persuasione e dello studio di
quelle tecniche stesse, mediante l'Orator (46), i Paradoxa stoicorum (46), i
Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie ipotesi, per avviare -
tale è per Cicerone la funzione protrettica della filosofia, e sembra che
questo fosse il contenuto del perduto Hor- tensius (46) - a certi presupposti
valori, dialetticamente enunciati e 126 retoricamente discussi che
siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata nella
Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De
natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De fato, De gloria,
Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte tutte al tempo
della sua forzata inazione politica, tra il 45 e il 44-43). Inutile ripetere,
ora, quanto ab- biamo detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le
componenti culturali del II-I secolo a. C., e che per necessità di
documentazione abbiamo rintracciato attraverso Cicerone stesso (per la
concezione ci- ceroniana della legge, della r.es-publica, del decoro, dei
doveri medi, del- l'honestum, dell'humanitas, del consensus gentium, cfr.
sopra). Certo, con Cicerone, attraverso la dialettica (in senso soprattutto
accademico-filoniano e tecnicamente stoico: "la dialettica è l'arte che
insegna a distribuire una cosa intera nelle sue parti, a ,spiegare una cosa
nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura con una
interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo e da
ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero e il falso e se
le conseguenze derivino dalle assunte premesse" : Brutus, 41, 152), si
determina il t6pos della filosofia intesa come discorso reto- rico-protrettico
in funzione di una certa forma di vita civile e legale, in una opzione
dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio- nevolmente (piu che
razionalmente) costituito. Filosofia, condottiera dell'esistenza! indagatrice
della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza di te che ne sarebbe non
dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu hai fatto nascere le città;
hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano dispersi; li hai uniti nella
convivenza sociale, ottenendo il reciproco rispetto tra vicini ed insegnando
alle fami- glie a federarsi con patti nuziali; tu. hai rivelato agli uomini le
possibilità comunicative del linguaggio e della scrittura. Hai inventato le
leggi, hai suscitato le comunanze, hai dettato i doveri... Meglio vivere un
giorno a norma di filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato. E chi
saprebbe aiutarci meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del vivere;
tu ci hai salvato dal terrore della morte... (Tusculanae, V, 2, 5-6). E che si
tratti di opzione, di un ordine posto piu che come essere coine dover essere,
di un fine cui convincere e convincersi mediante la dialettica e il discorso
mitico, sembra si chiarisca bene quando si tenga presente la polemica di
Cicerone nei confronti della divinazione, del fato e della simpatia universale,
nei termini in cui derivavano da una massiccia e naturalistico-razionale
interpretazione dello stoicismo teologico. Sotto questo aspetto Cicerone sembra
che rovesci la visione del tutto ordinato e necessariamente articolato in una
simpatia uni- 127 versale,
per cui tutto ciò che avviene, avviene come è bene che sia (Provvidenza),
necessariamente (fato), onde si rende possibile la divi- nazione, ch'era
visione propria di certe posizioni stoiche. La questione di come allora si
possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era questione su cui già
gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare Crisippo), e su cui
gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era assolutamente negato -
almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino e libertà (si
ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro Aristotele, giungeva
a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il contingente e il
possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza della strutturazione
del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia razionalmente costituito, sca-
turendo anzi da un incontro casuale di atomi (Epicuro), si giungeva ad
accantonare la questione dell'ordine in sé, per sostenere che l'or- dine e la
misura sono dovuti alla stessa attività e alle iniziative umane, mediante cui
si sfuggiva al cosiddetto "argomento pigro" (ignava ratio), ch'era la
conclusione cui secondo i megarici (probabilmente i seguaci di Diodoro Crono)
doveva giungere chi sosteneva che il tutto è provvidenzialmente e fatalmente
ordinato. Se per te è destino di gua- rire da questa malattia, guarirai; sia se
ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se per te è destino
non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia
se non ricor- rerai. Ora il tuo destino è l'una o l'altra di queste cose,
dunque non serve a niente ricorrere al medico" (Cicerone, De fato, 12,
28). Non a caso Cicerone, particolarmente nel D e fato (cfr. anche D e divina-
tione), ripropone la lunga discussione sul destino e sulla libertà, pro-
spettando sia le concezioni antologiche (da Crisippo a Epicuro), sia quelle
logiche che negando il possibile e la libertà sul piano .logico (Diodoro), non
escludono su altro piano (allorché si dimostri con Car- neade che strutture
della ragione e strutture della realtà possono non coincidere) che sia possibile
da parte umana volere quell'ordine che, col criterio della probabilità, si pone
come termine di realizzazione, solo miticamente e idealmente posto dietro le
spalle, lasciando all'uomo la possibilità di costituire quell'ordine idealmente
presupposto, a cui con- vincere mediante le tecniche della persuasione. Tale
sembrò allora a Cicerone - nel periodo di pace fredda con Cesare e di inazione
politica diretta - la sua funzione politica ("la filosofia rimase
trascurata fino ad ora, né mai brillò nella letteratura latina; dobbiamo noi
darle vita e splendore, e, se nella mia attività politica io fui utile ai miei
concittadini, lo sia, per quanto è possibile, anche ora che mi sono ritirato a
vita privata": Tusc. disp., l, 3, 5). Nella Repubblica e nelle Leggi egli aveva
delineato quale doveva essere lo stato nella sua fondazione e nella sua
costituzione giuridica, tenendo presente l'ideale figura di Scipione, non
imperator, non rex, ma princeps, moderatore e reggitore dell'ordine ragionevole
della res- publica, si come la divinità lo è del cosmo. Ora, a quell'ordine e a
quella misura si doveva convincere per altra via. Non assunta dogma- ticamente
alcuna posizione o concezione già data - ad ogni posizione come tale si può
opporre altra posizione, - si determina il metodo del- l'opzione per una qual
certa ipotesi, a seconda della sua probabilità e del suo possibile successo in
funzione di una certa concezione che serva alla vita politica e associata
(Accademici). Tale atteggiamento scettico, rispetto alla struttura della
realtà, portava Cicerone in una, volta a volta, rigorosa discussione ed
esposizione delle tesi opposte, ad assu- mere quella certa tesi che servisse a
quel certo scopo, attraverso una retorica convinzione (De fìnibus, Tusculanae
disp., De natura deorum), si che l'ordine e la misura prospettati (ch'erano poi
l'ordine e la misura genericamente stoici e platonici) divenissero termini di
volontà, azione per combattere chi volesse rompere quell'ordine politicamente e
giuri- dicamente costituitosi, in un equilibrio sociale, che, d'altra parte,
esclu- deva l'accettazione supina di un ordine necessario che, alla fine,
poteva portare all'indifferenza per tutto ciò che avvenisse, appunto alla pigra
ragione (De divinatione, De fato, De otficiis). In effetto l'opera di Cicerone
presenta costantemente due aspetti: un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non
crede in nulla, angosciato - in un'epoca in cui morire era facile, in cui le
vecchie tavole dei valori erano travolte - dall'idea della morte, che
attraverso il successo e l'azione e l'opera personale spera nella gloria, unica
eternità ("breve è la vita che da natura abbiamo ricevuto; ma se
nobilmente la ren- diamo, essa lascia sempiterna memoria. Se tale memoria non
durasse piu della stessa vita, chi sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo
delle piu grandi fatiche e dei piu grandi pericoli, di raggiungere la lode e la
gloria- supreme? ... E cosi, in cambio della. vostra condizione mortale avete
ottenuto l'immortalità": Filippiche, XIV, 12, 32: e sono le ultime parole
di Cicerone), che delinea per sé e per gli altri del suo gruppo, della sua
classe, una specie di modus vivendi, un'etica che si risolve in un giusto mezzo
di tipo aristotelico, e per cui, appunto, la virtu sta, di volta in volta, in
un saper dominare se stessi e le cose con misura, con distacco, in una
convenienza che si rivela fin nel tratto, nella voce, nel modo di vestire e di
parlare, in un vivere civile, che si delinea alla fine in un tipo di morale da
"signori," e, perciò, per cosi dire, in un "galateo"; e un
Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in fun- zione della classe degli
optimates, tende a difendere un tipo di res- publica, e per cui, su di un piano
retorico vale la pena di ricorrere 129
anche ai piu consunti t6poi dell'ordine e della misura del tutto, del-
l'armonia dei cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli astri (non si
scordi che Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni di
Arato),.della funzione civile degli àuguri, onde per il popolo servono la
teologia poetica e la teologia civile delineate da Varrone. Non a caso cosi
Cicerone che, per altro verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di
chi aveva le capacità di governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi
assumesse potere personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e
la misura come termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi:
Credo che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica (II,
13, 32). Lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e
dell'autorità degli ottimati... La istituzione e l'autorità degli àuguri è di
vitale importanza per lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma
perché è di vitale importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore
della possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che
l'àugure dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che
potere imporre le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che
poter dare o rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che
potere abolire una legge ingiusta? (II, 12, 30-31). "Con Cicerone, come
con Platone," .commenta il Farrington, "biso- gna sempre porsi la
domanda: queste sono le parole del legislatore o del filosofo?" (Scienza
e· politica nel mondo antico, trad. it., p. 217, n. 33, Milano, 1960); e
prosegue: "questa era l'attività delle due piu rilevanti figure di
letterati (Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente precedenti
e seguenti alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria sul
problema di salvare la società conservando e inculcando la superstizione non è
un fenomeno isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano
testimoniata da Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici
della classe dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo
stoicismo il nuovo mondo d'Occidente" (cit., p. 187). 3. L'Epicureismo a
Roma. Epicurei romam. Filodemo di Gadara. Lucrezio Entro i termini della
problematica ciceroniana, sembra chiaro l'at- teggiamento costantemente
polemico di Cicerone nei confronti dell'epi- cureismo. Cicerone non combatte
tanto l'ipotesi epicurea quale possi- bile ipotesi con cui spiegare la
pensabilità del reale, quanto gli esiti a 130 cui quell'ipotesi
conduce sul piano politico-sociale, particolarmente per quel che riguarda la
tesi dell'ordine razionale e unico del tutto, e la tesi della religiosità della
legge naturale, messe iri forse dalla filosofia di Epicuro, donde derivava
anche la polemica di lui contro la cultura ufficiale, contro la superstizione
usata come strumento politico, ma soprattutto la conclusione che l'uomo,
ciascuno, è responsabile del pro- prio mondo, della costruzione del rapporto
umano, indipendentemente da elaborate discussioni sul divino, sui processi
conoscitivi, sulla dialet- tica e sulla retorica, che sembravano finire in
esercitazioni puramente scolastiche. Va, dunque, ora, tenuta presente la forza
rivoluzionaria dei mo- tivi dell'epicureismo e cioè il deciso sganciamento dell'uomo
da un ordine precostituit.o e razionale per sé; il mondo umano costituito
storicamente dagli stessi uomini entro l'arco della vita umana (e non si scordi
il motivo della convenzionalità del diritto e della giustizia); la liberazione
degli uomini da preconcetti e pregiudizi religiosi e teologico-politici (da cui
la polemica di Epicuro contro un tipo di cultura e di politica); l'appello di
Epicuro ad intendere la natura per quello che la natura è, ascoltando la
"voce delle cose"; la raziona- lità dovuta alla stessa attività della
ragione nella costruzione del pro- prio mondo in un equilibrio e in una misura
che sono conquista e non dati; il risolversi della realtà, umanamente, nel
linguaggio (per cui, poi, in effetto, semanti.camente la logica epicurea poteva
coincidere, escluso che il segno evochi la cosa coincidendo con la cosa stessa,
con la logica stoica del tipo di quella di Zenone di Cizio). Non solo, ma di
qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si rivolgeva a tutti, uomini e
donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro alla semplicità del-
l'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non contraddittorie e intui- tive
sulla costituzione della realtà che rendano capace l'uomo di pen- sare con la
propria testa, liberandosi da pregiudizi e paura, dal mistero della natura, di
cui solo pochi eletti possono parlare (altro aspetto della polemica di Epicuro
contro la cultura), e l'appello di Epicuro all'ami- cizia, all'isolarsi da un
certo mondo politico, in un rapporto di uomini, che, comprendendosi, trovino
nel con-vivere (amicizia) il significato di un mondo costruito dagli uomini
stessi, . in equilibrio e serena armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).4 4
Degli Epicurei di Atene e scolarchi del giardino dopo Epicuro sappiamo, in
realtà, solo i nomi, e che seguirono e diffusero il pensiero del maestro. Ne
abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo Epicuro al 51 a. C., anno in cui,
sembra, l'Areopago di Atene concesse al romano Memmio di edificare sull'area
occupata dalla Scuola di Epicuro. Essi sono: Ermarco, Polistrato, Basilide,
Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno del Giardino, Zenone di Sidone (morto
nel 79-78, ascoltato da Cicerone),
131 Gli esiti, dunque, dell'ipotesi epicurea e ~ella propaganda
epicurea preoccupano Cicerone. Egli è preoccupato perché, spezzato il pregiu-
dizio (politicamente utile) di un ordine già dato, di una divinità che è legge
e dell'immortalità dell'anima, mediante un insegnamento fon- dato su poche e
semplici nozioni - possibili di essere comprese da tutti, - si poteva liberare
il popolo dalla catena del divino e dalla paura dell'aldilà, donde ne sarebbe
derivata, disancorata da una razio- nalità costituita, un'irrazionalità
pericolosissima per quella res-publica difesa da Cicerone: non a caso Cicerone
insiste contro gl'indifferenti dèi di Epicuro, messi "a riposo" (cfr.
De nat. deorum, I, 44, 123), non pio elementi perturbatori dell'operare umano,
e contro l'ipotesi dell'incontro fortuito degli atomi e del clinamen (cfr. De
nat. deorum, I, 25, 69-70; De finibus, I, 6, 19), da cui secondo Cicerone
deriverebbe la stessa irrazionalità del mondo umano: "Come non dovrei
meravi- gliarmi," esclama Cicerone, "che vi sia un uomo capace di
credere che elementi solidi e indivisibili, movendosi di propria forza e
aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a questo nostro mondo, pieno
di tanta armoniosa bellezza? Chi crede possibile questo, non capisco perché non
creda possibile ançhe che, seminando alla rinfusa una certa quantità di lettere
dell'alfabeto, impresse in oro o in qualsiasi altro Fedro (ascoltato da
Cicerone), Patrone (scolarca dal 70 al 51 a. C.). Cfr. oltre nel testo. Cosl,
poco o nulla sappiamo della prima diffusion~:~ dell'epicureismo in Roma, sicura
da prima del 173 a. C., se di quell'anno è l'espulsione da parte del Senato di
due epicurei venuti dalla Grecia Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a;
Eliano, V.v. hist., IX, 12) e dei primi epicurei romani, che avrebbero diffuso
la dottrina di Epicuro in latino. Essi sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui
non altro sappiamo se non ciò che riferisce Cicerone. Cfr. oltre nel testo.
Durante il 1 secolo a.C. furono in Roma e nel circolo epicureo, formatosi a
Napoli e a Ercolano, Filodemo di Gàdara e Silone. Nato a Gàdara, in Silia, nel
110 a.C. cilca, morto dopo il 40, non oltre il 30 (Strabone, XVI, 754),
discepolo di Zenone di Sidone, venuto a Roma, Filodemo entrò in dimestichezza
di Pisone e con lui, nella villa di Pisone ad Ercolano, fondò un vero e proprio
eilcolo epicureo. Tra i molti libri epicurei ritrovati in papili nella casa di
Pisone ad Ercolano, molti sono frammenti e testi dello stesso Filodemo. Sono
pubblicati: L'ordinamento dei filosofi (andato sotto il nome di Intlez
Herculanensis, comprendente un Indice degli Accademici, uno degli Stoici, uno dei
Socrtllia); Su Epicwo (llcpl 'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu) i
Sugli tln (llcpl &c6iv) i Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla musica
(llcpl IJ.O~) i Sugli Stoici (llcpl -r6iv :E-rtn- x6iv) ; Sui segni (llcpl
cnJILII(c,)" X4l cnJILII~") ; .Atluersus Sophisttu. Molto poco
sappiamo di Silone, se non che avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio
cilcolo epicureo, assai vivo durante la metl del 1 secolo a. C. Di lui parlano
Cicerone che lo dice uir optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe
avuto maestro a Napoli. Su di lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal
Cronert in Colotes unti Menetlemos, Lipsia, 1906. Il Papiro ercolanense l 044
dA poi alcune notizie biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima
metl del 1 secolo a.C., morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il
quale avrebbe diffuso in Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante
il peso di ben 125 ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si
disporrebbero in terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli
Annali di Ennio. Non so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un
solo verso. Ma se il concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un
mondo, perché non dovrebbe dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno
faticose c meno complicate, come un portico, un tempio, una casa, una città? Mi
pare insomma che chi tanto infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai
get- tato un'occhiata alla meravigliosa bellezza dci cieli. Per me io rinuncio
ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione; mi basta con- templare
con gli occhi la bellezza di tutto ciò che noi affermiamo sta- bilito dalla
divina provvidenza" (De_nat. deorum, Il, 37-38, 93-94, 98: ove va
ricordato che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi stoica sostc- nua da
Posidonio nel Ilept .&e&v- Sugli dèi, - in contrapposizione alla tesi
ecipurea sugli dèi, esposta da C. Velleio sulla linea del IIept .&e&v -
Sugli dèi - dell'epicureo Fedro di Atene, nel I libro del De natura deorum).
Non solo, ma Cicerone era preoccupato anche perché il motivo epi- cureo
dell'ordine c della misura dovuti alla stessa attività umana, indi-
pendentemente da ogni legge già data e naturale, poteva portare alla rottura
della legge costituita da parte di uomini, che, avendone la capacità,
tendessero ad assumere potere personale (forse anche di qui la fama di Cesare
epicureo), ed infine perché l'epicureismo poteva dive- nire presso chi s'era
nauseato della vita politica quale si svolgeva in Roma, evasione da quella stessa
politica, in conventicole di amici, che sembravano tradire l'azione civile cui
si appellava Cicerone, ma che, per altro verso, potevano essere d'accordo con
Cicerone, contro la tiran- nide (come fu il caso dell'epicureo Cassio, che
uccise Cesare). Sembra, in tal senso, molto indicativo che Cicerone sostenga di
non avere mai letto un rigo degli epicurei latini che avevano diffuso la dot-
trina epicurea tra il popolo, affermando che sono troppo facili, rozzi, plebei
(cfr. Va"o, 2; Tusc. disp., l, 3, 6; Il, 3, 7-8; IV, 3, 5-7); ch'egli non
discuta·mai a fondo le tesi di Epicuro, apponendogli altre tesi (ad esempio
l'immortalità dell'anima, supinamentc accettata dal Pedone, il motivo
dell'ordine e della legge del tutto, dell'ordine e della perfe- zione dei moti
stellari, rivelanti la divinità che tutti accettano, consensus gentium: cfr.
Tusc. disp., I, 11 sgg.; De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli pur ammiri la
personalità e l'esempio della virtu di Epicuro ("e chi nega ch'Epicuro sia
stato un uomo buono, gentile, ben edu- cato? in queste discussioni l'indagine
verte sulle sue idee, non sulla sua condotta; lasciamo alla frivolezza dei
Greci codesta moda bizzarra di far della maldicenza sul conto di quelli da cui
dissentono nella ricerca del vero...; non solo, ma molti Epicurei furono e sono
al presente fedeli 133 nelle
amtctzte, equilibrati e sen m tutta la vita... ma...": D~ finibus, Il, 25,
80-81); e che, infine, decisamente affermi che le posizioni epi- curee e il
loro linguaggio "dovrebbero essere proibiti da un c~nsor~ piuttosto che
rifiutate da un filosofo" (D~ finibus, II, 10, 30). Le stesse ragioni che
muovevano Cicerone a condannare le tesi epi- curee, aveva mosso nel 173 o nel
154 (a. seconda che il console ricordato, L. Postumio, sia quello del 173 o
quello del 154 a. C.) il Senato romano a espellere da Roma due epicurei venuti
dalla Grecia, Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, Var. hist.,
IX, 12). "Per avere introdotto costumi licenziosi," si legge in
Ateneo: cioè dottrine che, rispetto al costume romano, sembravano immorali.
Entro questi termini può essere significativo ricordare un testo della Bibbia,
cioè un passo del Lib~r sapientiae, composto circa in questa stessa età in am-
biente ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei
confronti dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicu- reismo
potevano essere affini per la loro inton~zione mondana - rela- tivamente, anche
se per altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione dell'immortalità
dell'anima e l'annullamento del pregiu- dizio che Dio sia signore e legge del
tutto. Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé la morte, e cre-
dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza: perché sono degni
di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente, dissero fra di loro:
breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è refrigerio alla fine
dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato dall'inferno. Perché noi siamo
nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo stati, perché il fiato delle
nostre radici è un fumo: e la parola è una scintilla che viene dal movimento
del nostro cuore. Spenta questa, il nostro corpo sarà cenere, e lo spirito si
disperderà come aura leggera e la nostra vita passerà come la traccia di una
nuvola, e si scioglierà come la nebbia battuta dai raggi del sole e sopraffatta
dal suo calore. E il nostro nome sarà dimenticato col tempo, e nessuno avrà
memoria delle nostre opere. Perché il nostro tempo è un'ombra che passa, e
finiti come siamo non si torna a capo, si mette il sigillo, e nessuno torna
indietro. Venite dunque e godiamo dei beni pre- senti, e profittiamo delle
creature, come della gioventU con sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e
di unguenti: e non si lasci sfuggire il fior( della stagione. Coroniamoci di
rose prima che appassiscano: non vi sia pratò, per cui non passi la nostra
cupidità. Nessuno di noi sia escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni
luogo i segni della nostra allegria, perché questa è la nostra parte e la
nostra sorte (Libro d~lla sapienza, l, l, 16, 2, 1-9). In tal senso verrà
sempre interpretato, dagli avversari dell'epicurei- smo, il "piacere"
epicureo e in tal modo verranno giudicate le lorc riunioni amichevoli e
conviviali, i loro sodalizi di amici che, sappiamo 134 si
diffusero in Oriente e in Occidente. E cosr sembra assumere un significato
ancora maggiore la lotta degli ebrei di Palestina contro Antioco Epifane,
quando si pensa che probabilmente la diffusione del- l'ellenismo in quel paese
ad opera di Antioco, la sua lotta contro. la superstizione ebraica (cfr.
Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta all'epi- cureismo cui si era convertito il
re Seleucida, se diamo valore ad un frammento in cui si dice che Filonide di
Laodicea, epicureo, era riuscito a piegare, in Antiochia, il re Antioco
all'epicureismo: "piegato dall'aggre~sione di·almeno centoventicinque
opuscoli, Antioco dovette soccombere" (cfr. V. E. R. Bevan, The house of
Seleucos, II, pp. 276-7; anche B. Farrington, cit., p. 147). Ad ogni modo
sappiamo, attraverso Cicerone, che circa nella se- conda metà del 11 secolo a.
C., l'epicureismo, ad opera dei latini Amafinio, Rabirio, Cazio, si era diffuso
in Roma e in Italia, soprattutto presso il popolo (plebs, dice Cicerone, che è
termine preciso e che ha un suo significato giuridico). Sono, appunto, i testi
di questo epicu- reismo facile, plebeo, che evade da discussioni tecniche, che
non si preoccupa di dialettica e di retorica, sono questi i testi che Cicerone
finge di non aver mai letti, e nei quali ci si sarebbe impegnati, attra- verso
un'esposizione della fisica epicurea, a liberare gli uomini dalla superstizione.
Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi
[romani}, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo ante- riore a
Lelio e Scipione Emiliano. Quando questi erano giovani, mi ri- sulta che furono
mandati dagli Ateniesi, come ambasciatori presso il senato, lo stoico Diogene e
l'accademico Carneade; essi non si erano mai occupati di politica, uno era di
Cirene e l'altro babilonese: certamente non sarebbero stati tolti al loro
insegnamento e scelti per quell'incarico, se in quei tempi certi nostri
personaggi in vista non avessero dimostrato interesse per la cul- tura
filosofica. Essi però affidavano allo scritto gli altri loro studi, chi il
diritto civile, chi i propri discorsi, chi le memorie degli antenati: ma pre- ferirono
attendere a questa dottrina, che insegna a vivere bene ed è la piu nobile di
tutte le arti, con la loro vita piu che cori i loro scritti. Pertanto quella
vera e otti~a filosofia che, iniziata da Socrate, trovò finora i suoi
continuatori nei P~ripatetici ed anche negli Stoici che sostenevano le stesse
idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici facevano da arbitri nelle loro
controversie, non è rappresentata da quasi nessuna o da ben poche opere in
latino, sia perché l'impresa era grande e gli uomini troppo affaccendati, sia
anche perché pensavano che tali studi non potevano essere apprezzati da gente
del tutto profana. Frattanto, mentre quelli tacevano, prese la parola Gaio
Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse
soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia
perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, -non
essen- 135 dosi prodotto
nulla di meglio tenevano quel che c'era. Dopo Amafinio molti seguaci della
medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e inva- sero tutta
l'Italia; e mentre la miglior prova della grossolanità di quelle idee sta nel
fatto che sono cosi facilmente apprese e approvate dagli igno- ranti, essi
credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc. disp., IV, 3,
S-7). C'è una categoria di persone che vogliono essere chiamate filosofi, e si
dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io non li disprezzo· in
quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li scrivono dichia-
rano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione e ordinata
disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di stile, io
trascuro una lettura che non offre alcun diletto. Nessuno infatti, sia pur di modesta
cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di quella tale scuola.
Perciò, poiché no!Y'si preoccupano essi stessi della maniera di esprimersi, non
capisco perché" debbano essere !ehi se non fra di loro che hanno le
medesime idee. In realtà, tutti leggono Platone e gli altri della scuola
socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi derivarono, li leg- gono
anche . coloro che non accettano o . non si entusiasmano per quelle teorie; ma
quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro seguaci. Allo
stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che ritengono giuste tali
teorie (Tusc. disp., Il, 3, 7-8). Pertanto quei tali leg- gono i loro libri con
quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in mano se non coloro che
pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo (Tusc. disp., I, 3, 6).
Amafinio e Rabirio, non seguendo alcuna tecnica, trattano con stile volgare
(vulgari sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di tutti. Non sanno definire
nulla, nulla dividere, nulla concludere con retta interrogazione: ritengono,
infine, che non vi sia alcun'arte, né per la parola, né per il ragio-
namento... In fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito, potrei espri-
mermi con piu facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande, respinte le cause
efficienti, parlare del concorso fortuito dei corpuscoli (cosi chiamano gli
atomi)?... (Varra, Il, S-6). Ogni volta che ci penso, mi fa spesso mera- viglia
la stranezza di alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la conoscenza della natura
ed esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo vene- rano come un dio;
si proclamano infatti liberati per merito suo da gravi padroni, cioè da un
terrore continuo ed eterno e da un timore che giorno e notte li tormenta. Da
quale terrore? da quale timore? Quale vecchierella è tanto pazza da temere
codeste fole, che voi evidentemente temereste se non aveste studiato la scienza
della natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo dell'Orco, luoghi
pallidi di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp., I, 21, 48). Su
testimonianza dello stesso Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di fondo,
nella sua polemica contro un certo tipo di cultura ("lo studio della
natura non forma un tipo d'uomo bravo a van- 136 tarsi e a straparlare
e a sc10nnare quella cultura che è tanto ricer- cata dai piu": Gnom. Vat.,
45), nella sua semplicità d'interpreta- zione della natura, opposta alla
complessa interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la censura
senatoriale del 173, in Roma e in Italia, particolarmente presso il popolo;
tuttavia non abbiamo suf- ficienti testimonianze e documenti per potere
affermare il successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel
popolo medesimo in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati,
in una ribel- lione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da
chi aveva in mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche,
aristoteliche e stoiche. In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non
esisteva un popolo organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale
da dare al popolo una certa ideologia. Si capisce perciò perché, in Roma e nel
mondo latino, piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari,
piu successo l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero
costituiti a dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e
riti), alcuni aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale.
Tanto piu chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia
di fronte alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di
certo Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di Lucrezio (99-95/55-51
circa), la ·sua interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum
natura, ·in 6 libri). A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che
Cicerone, il quale pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo
meno rivide alcune parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su
proposta di Pomponio Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che
del valore della sua poesia parla al fratello in una sua lettera privata del
54, forse quando mori Lucrezio (Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt:
multis luminibus ingeni, multae tamen artis"), mai, in tutta la sua produzione,
faccia direttamente cenno a Lucrezio (anche se per sottinteso piu di una
volta), da un lato fingendo di non avere mai letto i piu antichi epicurei
latini (il che poi non è adatto vero, se in una lettera a Cassio, Ad. fam., XV,
16, l, 19, l, poteva scher- zosamente discutere dei termini tecnici usati da
quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio dello stesso anno in cui
Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto, appunto, della sua ignoranza
di quei testi); dall'altro lato, cercando di minimizzare l'opera di Lucrezio,
non solo tacendone, ma cercando di ridurla a un lavoro scritto per igno- ranti,
non degno d'essere letto da uOmini di cultura e inutile per il popolo, per il
quale invece è necessaria la "costante guida e l'autorità degli ottimati"
(non sembra un caso che proprio là dove Cicerone cerca di minimizzare il
significato della fisica epicurea, sostenendo che 137 è tesi sragionevole e
assurda, tenga presente, mediante citazione indi- retta o chiaramente allusiva,
proprio certi passi dell'opera di Lucrezio). Tutto questo, in effetto, rovescia
la prospettiva dell'attività cicero- niana. Cicerone, in privato, poteva
benissimo condannare la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene
utilissime per ordinare lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la
carica rivoluzionaria del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il
pericolo, relegan- dolo tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da
ignoranti, insistendo sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità
dell'ipotesi fisica degli epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in
ambienti plebei non ha avuto alcun successo politico. A ben guardare, qui ci
troviamo di fronte ad altro: al pericolo rappresentato da alcuni gruppi di
seguaci dell'epicureismo, scaturiti non dal popolo, ma da certi aristocratici,
in contrasto con la politica di Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola
di sicurezza e costruendosi, insieme agli amici, mondi a parte e certo piu
sereni e meno drammatici del quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da
Roma, nelle proprie ville, potevano destare il sospetto di congiurare, in
quelle loro riunioni, contro la res-publica, contro la morale ufficiale, in una
vita - era l'accusa - dedita al "piacere" e depravata, una volta che
s'erano sganciati dall'ordine del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di
Cicerone). Entro questo tes- suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere
davvero popolare - e perciò stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che
poteva vera- mente diventare il principio di un'educazione del popolo, in
maniera assolutamente opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del-
l'equilibrio e dell'armonia legale della res-publica. Di sicuro sappiamo che
sulla fine delu e il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori
romani alcuni epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati
dai ricchi giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene
capiscuola del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco,
Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno
del giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla.
Ad Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (morto sul 79J78, ascoltato da
Cicerone, maestro di Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da
Cicerone, e da cui Cicerone riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I
libro del De na- tura deorum ), Patrone, capo del giardino tra il 70 e il 51 a.
C., e dopo il quale non abbiamo piu notizie di scolarchi epicurei ad Atene. Può
essere a tale proposito interessante ricordare che Cicerone proprio nel 51
scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio aveva dedicato il De
rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo di Fedro e dell'amico
Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi quod in philosophia
vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al fatto che per diritto
il "giardino" apparteneva alla scuola di Epicuro (cosi suonava il
testamento di Epicuro), di non fare speculazioni edilizie sul terreno del
"giardino" da Memmio stesso comperato, anche se l'Aeropago gli aveva
dato il permesso (Ad. fam., XIII, 1). Evidentemente la Scuola epicurea di Atene
andò dispersa, dopo il 51. Cicerone sostiene ch'egli aveva conosciuto Epicuro
di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di Sidone, "corifeo"
di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat. deorum, I, 21, 59) e Fedro,
anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di Fedro e di Zenone ho seguito
le lezioni, benché null'altro riuscissero a dimostrarmi tranne il loro zelo e
tutte le opinioni di Epicuro mi sono sufficientemente note": De fin., l,
5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo alle lezioni di Zenone che il nostro
Filone soleva chiamare corifeo degli Epicurei e lo facevo per suggerimento
dello stesso Filone...": De nat. deor., I, 21, 59). Non sap- piamo quanto
di nuovo, rispetto all'originario epicureismo, abbiano detto gli epicurei di
questo tempo. Senza dubbio Zenone, per quel che possiamo ricavare da alcuni
frammenti del suo discepolo Filodemo di Gàdara, approfondi e chiari la genesi
della conoscenza, secondo la linea epicurea, sottolineando il significato
ipotetico della condizione della pensabilità della realtà, in quanto che a
porre gli atomi si giunge per analogia prendendo le mosse dall'analisi
sperimentale delle cose stesse (cfr. Filodemo, Sugl'indizi e sul modo di
servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt 01)(.LE:~~ae:Cùv). Del ragionamento
per analogia, fondamento dell'indu- zione, cosi diceva Filodemo: "Quando
giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a nostra portata sono mortali, tutti
gli uomini sono mortali,' il metodo dell'analogia sarà valido solo se assumiamo
che gli uomini che non sono in condizione .di esserci manifesti sono, sotto
tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono alla nostra portata, sicché si
deve assu- mere che anch'essi siano mortali. Senza questo presupposto il metodo
dell'analogia non è v.alido" (Degli indizi, Il, 25). Di qui, forse,
induttivamente e per analogia, l'ipotesi che l'incontro fortuito degli atomi,
donde nascono i possibili mondi e il mondo degli uomini (gratuitamente, per cui
allo stesso uomo è data la libertà di costruire il proprio mondo umano), sia
dovuto al clinamen .(sulla que- stione del "clinamen," di cui non v'è
traccia in ciò che oggi leggiamo di Epicuro, cfr. I vol.). Certo, Cicerone,
subito dopo avere citato Zenone e Fedro, discute e critica come un'assurdità il
motivo del "clinamen," affermando che tale motivo è l'aspetto piu
nuovo - e se ci poniamo dal punto di vista stoico-platonico, piu
contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il resto Cicerone - si come fa per
l'epicureismo romano che riporta a tempi piu antichi in cui ancora non era
conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica - tende a riportare al piu antico demo-
critismo (cfr. in particolare De finibus, I, 5, 18-20). Senza dubbio
l'insistenza di Cicerone sul termine "fato," l'insi- stenza di
Lucrezio sulla "catena necessaria," a cui si contrappone il
"clinamen," fa sospettare un'interpretazione del testo epicureo
dovuta alla polemica nei confronti del "fato" stoico, che, tuttavia,
era posi- zione già implicita nell'antiteleologismo di Epicuro (cfr. I vol.).
Nulla vieta, perciò, di pensare. che il motivo del "clinamen," nei
termini in cui lo conosciamo attraverso Lucrezio, Cicerone (piu tardi Diogene
di Enoanda), sia stato formulato, in una coerente interpretazione di Epi- curo,
proprio all'epoca di Zenone, Fedro, Filodemo di Gàdara, tutti e tre in polemica
contro il sistema stoico e particolarmente contro la fata- lità che da esso
derivava. Se i moti tutti - dice Lucrezio - fossero concatenati, se il nuovo
sem- pre con ordine fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dai primordia,
col deviare, principio a nessun moto che rompa le leggi imposte dal fato, s{ che,
all'infinito, non segua una causa dall'altra, donde, io domando, qui in terra,
donde verrebbe mai ai viventi questo libero potere, sciolto dal fato, per cui
andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra propria volontà? (Il, 253 sgg.). E
Cicerone, dopo avere esposto il tema del "fato," proprio degli
stoici, oppone ad esso, anche se polemicamente, il tema· del
"clinamen" epicureo: Ma Epicuro pensa di evitare la necessità del
fato mediante la declina- zione dell'atomo: oltre il peso e l'urto, vi è dunque
un terzo movimento [e qui è chiara la citazione da Luc:rezio: "Bisogna
ammettere che esiste negli atomi oltre la spinta e il peso, un'altra causa del
moto e che di qui, dal clinamen, ci derivi...": Lucrezio, II, 286 sgg.],
allorch~ l'atomo devia dalla verticale dello spazio il meno possibile (eltJchiston,
dice): tale declinazione, se non in termini propri, almeno in realtà, egli è
costretto ad ammet- terla senza causa, poich~ l'atomo non devia sotto l'urto di
un altro. Come potrebbe infatti urtare un altro, se sono tutti trasportati in
linea retta dal peso, come vuole Epicuro? E se l'uno non è mai spinto
dall'altro, ne segue ch'essi neppure si toccano. D'onde risulta, se l'atomo
esiste e se declina, che declina senza causa. Epicuro ha prospettato questa
dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre trasportato da un peso necessario e
naturale, che non vi fosse alcuna libertà in noi, eh~ la nostra anima sarebbe
mossa solo perch~ costretta dal moto degli atomi. Democrito, l'inventore degli
atomi, ha preferito ammettere che tutto avviene necessariamente, piuttosto che
togliere agli atomi i loro movimenti naturali (Cic., De fato, X, 22 sgg.). 140
Certo il piu noto degli epicurei vissuti m Italia fu Filodemo di
Gàdara, che, se anche in circoli ristretti, fece conoscere direttamente
Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera e propria comunità di amici
di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (il console del 58, nemico di
Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di Ercolano, ove raccolse una
non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo, nato nel 110 a.C., a
Gàdara, in Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di Laodicea, che aveva
convertito Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa una forte corrente
epicurea), proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte del suo maestro
Zenone di Sidone, visse fin dopo il 40 a. C., non oltre il 30 (cfr. Strabone,
XVI, 754). Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri della villa
ercolanense dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano costi- tuire la
biblioteca di Filodemo: gran parte sono opere dello stesso Filo- demo, di cui
molti testi sembrano, piuttosto che lavori destinati· al pub- blico, veri e
proprii appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco- lanense dei Pisoni,
i suoi Monumenti e la sua biblioteca, Torino, 1883; Ch. Jensen, Die Bibliothek
von Herculanum, in "Bonner Jahrb.," pp. 49, 61; R. Philippson, s. v.
Philodemos, in Pauly-Wissowa, XIX, 2, col. 2444-2449). Nella villa dei Pisoni,
oltre la biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di statue e tra esse
quattro busti con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro, Ermarco epicureo,
Zenone di Sidone. Anche questo è indicativo, ed è. indice della presenza di una
vera e propria comunità epicurea. Intorno a Calpurnio Pisone, illustre nobile
romano, la cui figlia fu la moglie di Cesare, s'era formato, pernio Filodemo,
un cir- colo epicureo. Ed epicureismo significava, tenendo presenti i
fondamenti della dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai pregiudizi,
trovare, eva- dendo dalla quotidiana vita politica e dagli affari, sereni
rapporti di amicizia. Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio - quando i
venti scon- volgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio; non
perché faccia piacere che qualcuno si trovi in sofferenze, ma perché è dolce
scor- gere i mali di cui siamo liberi. E dolce è assistere, senza che tu
partecipi al pericolo, agli aspri scontri di guerra in campo aperto. Ma nulla è
pio dolce dello starsene nei ben muniti luoghi, edificati dalla serena dottrina
dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua e là
vagare, e sbandati cercare la via della vita e manovrare con l'ingegno e far
valere la propria nascita e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte di
giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi menti degli
uomini, oh ciechi petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar la persona
alle· gramente tra amici, con una spesa non grande, stesi su di un soflice
prato, 141 lungo un ruscello
corrente, sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello e
primavera cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo,
indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel
ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani,
nella sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico
amante delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai
manicaretti e brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e
ascolterai discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol.
palatina, Xl, 44). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste
riu- nioni tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene,
in Siria, si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di
come in esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla
cultura ufficiale, intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della
liberazione umana,· la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il
fato divino l6gos, in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde
il prevalere della fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro
queste comunità, il culto di Epicuro. "Un dio, fu un dio...": dirà nel
suo poema Lucrezio. E lo stesso Epi- curo aveva affermato: "Agisci sempre
come se Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato scritto:
"Sia festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni anno il
decimo giorno del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il ventesimo
giorno di ogni mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in memoria mia
e di Metro- doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su testimonianza di
Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXV, 5) sap- piamo che ancora nel 11 secolo d.
C., in Roma, si celebravano queste feste: "Epicurei vultus per cubicula
gestant et circumfei:unt secum. Natali eius sacrificant, feriasque omni mense
custodiunt vicesima luna quas icadas vocant" (sul culto di Epicuro cfr. A.
J. Festugière, Epicure et ses dieux, Parigi, 1946; anche P. Boyancé,
L'épicurisme dans la société et la littérature romaines, in "Bulletin Ass.
Budé," Suppl. Lettres d'Humanité, 4, 1960). E già Epicuro aveva scritto a
Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli della stessa natura,
meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a te" (Lett. a
Menec., 134); e aveva detto: "l'uomo sereno procura serenità a sé e agli
altri" (Gnom. Vat., 79). Con il commento dei Libri di Epicuro, con tl suo
approfondi- 142 mento di
certi aspetti della dottrina epicurea, particolarmente per ciò che riguarda le
passioni e le condizioni della conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad
Ercolano, appoggiato da Pisone, un con- tubernium epicureo (come dirà Seneca:
piu che la dottrina di Epicuro, fu il suo contubernium a educare gli epicurei:
Ep., I, 6), una comunità di amici il "cui accordo tra loro," sosterrà
Numenio, "era simile a quello che deve regnare in una repubblica ben
ordinata" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5). Secondo il De Witt
(Organisation and procedure in Epicurean groups, in "Class.
philology," 1936; Epicu- rean contubernium, in "Trans. and Proc. of
the Philol. Assoc.," 1936), seguito dal Boyancé (cit.), anzi, il llepl.
7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di Filodemo chiaramente indicherebbe
l'attività di Filodemo volta a organizzare la scuola in forma conventuale,
costituendo un modello d'ideale vita politica, di libera vita associata, da
opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come esigenza di crearsi mondi
a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte, dall'inutile e assurdo morire,
che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva nelle lotte politiche della
Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo (Herc. vol., 1005, 4) la
coniazione del termine "quadrifarmaco" (-re-rp«<pcXp(.L«Xov:
tetrafdrma- con) - la medicina composta di quattro elementi - con cui egli
indicava la funzione liberatrice della filosofia epicurea, mediante la quale
l'uomo si cura dal timore della divinità (1. non si tema la divinità, che la divinità
non si occupa dell'uomo), dal tiinore della morte (2. non si tema la morte, ché
quando v'è l'uomo non v'è la morte, quando c'è la morte non c'è l'uomo),
sapendo che facile è il piacere (3. tieni presente la facilità del piacere), e
che breve è il dolore (4. tieni presente la brevità del dolore). Tutti e
quattro gli elementi si trovano approfonditi in Epicuro (cfr. in particolare
Ep. a Menec., 123, 124, 183), ma è senza dubbio assai indi- cativa la
formulazione in massima da parte di Filodemo, il puntare, ora, soprattutto,
sull'aspetto terapeutico della concezione epicurea della natura e sul rifugio
ch'essa offre: sia nei convivi, sia nelle libere discus- sioni fra amici, sia
mediante poesia, con cui ci creiamo dilettevoli mondi a parte. Tale il significato
dato alla poesia da Filodemo e tale l'epicu- reismo - non dottrinario - di
Orazio, che sappiamo aver frequen- tato il gruppo intorno a Pisone, e, se
vogliamo, di Catullo e di tutto il complesso dei poeti muovi. Sembra facile ora
capire cosa inten- ·desse Filodemo quando sosteneva il valore edonistico della
poesia e della musica, si come, per altro verso, di contro a Diogene di
Babilonia (cfr. sopra), la capacità mediante la retorica di costruire mondi
umani, ché non scienza è la retorica, ma un'arte pratica, cioè l'arte di agire
(prasst) in un mondo che non è già dato, ma è dovuto alla stessa atti- vità
dell'uomo, rivelantesi attraverso il linguaggio che ha, sempre, una 143 realtà storica, si come la
stessa giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi squisitamente epicurea: cfr. I
vol.). Entro questi termini sembra,' cosi, assumere non poco significato
l'ultima parte del V libro del De rerum natura di Lucrezio,6 in cui, mediante
Epicuro, riprendendo l'antica linea che risale a Empedocle, ad Anassagora, a
Democrito, a Protagora, a certe posizioni sofistiche e socratiche, teofrastee,
si sottolinea con forza la storicità della natura e del mondo umano, di una
natura che scaturita dall'accozzo fortuito di infi- niti atomi, - sottolineiamo
che Lucrezio mai usò il termine "atomo," - s1 come ha dato luogo ad
infiniti possibili mondi, ha dato luogo al mondo degli uomini. E s1 come non
v'è perché al sorgere delle cose, se non gli ipotetici atomi-spérmata e il
vuoto, il peso e il "clinamen," cui si giunge attraverso l'analisi
delle cose, condizioni non contraddit- torie che rendono pensabile la
molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e superiori principi
razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il divino l6gos) delia
umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo della vita di Tito
LucrC7.io Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse, dove sia nato, quali
le date esatte della sua nascita e della sua morte. Seoondo San Gerolamo, che
probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu di Svctonio, Lucri!Zio
sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un filtro amatorio, nei'
momenti di lucidi~ avrebbe scritto il ,suo poema; si sarebbe suicidato all'~ di
44 anni. Donato, invece, nella Viu di Virgilio, anch'egli derivando da Sv~
tonio, afferma che Virgilio, nato nel 70, prese la toga virile a sedici anni
ncllo stesso anno in cui Lucrezio mori. Seoondo S. Gerolamo, dunque, Lucrezio
sarebbe nato nel 95 e morto nel 51; secondo Donato sarebbe nato nel 98 c morto
nel 54. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al fratello, Quinto (11, 93},
che ~ senza dubbio del febbraio del 54, si legge un giudizio su Lucrezio
relativo alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che sappiamo essere avvenuta
dopo la morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone stesso. C'~ chi ha sostenuto
che Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania (un circolo epicureo era allora
fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo, cosf come non si può dire se
Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea famiglia. La gente Luac2:ia era
allora assai dillusa in tutte le classi, in tutta Italia. Senza dubbio il poema
di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto probabilmente alla•sua morte. Sulla
notizia di San, Gerolamo che Lucrczio sarebbe impazzito per un filtro amatorio
(certo tali pozioni erano molto in uso nella Roma del tempo), che avrebbe
scritto il poema nei momenti di lucidi~ alternati da momenti di cupa'
depressione c angoscia (alcuni testi del poema rivelano depressione, incubi
visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre· senti anche in Epicuro: cfr. IV,
1125 sgg.; lll, 1055 sgg.; l, 127; IV, 35 sgg.}, che si sarebbe suicidato, si ~
molto discusso c fanwticato. Il De rerum n/llura, in sci libri, formalmente
incompiuto, fu dedicato da Lucrczio a Mcmmio. Sembra che il Mcmmio di Lucrczio
sia Gaio Mcmmio, questore nel 77, pretore nel 58, che amante della letteratura
greca, non di quella romana, colto, intel- ligente, piacevole conversatore,
pigro c impaziente di lavoro intellettuale (cfr. Cice- rone, Brutus, 247},
oondussc con sé (57-56) quando fu proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i
quali Catullo. E sarebbe quello stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi,
esiliato da Roma per brogli elettorali, ad Atene, ottenuto il diritto
dall'Areopago di costruire sull'arca ovc sorgeva la casa c il giardino di
Epicuro, rifiutò a Pauonc, allora scolarca del Giardino, il favore di non
profanare quel luogo sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone, Ad fam., XIII, 1)] scaturita
nel tempo, cosi, di fatto, ci sono gli uomini. E se ipotetica- mente gli uomini
scaturiscono da incontri e particolari disposi~ioni di "semina," per
cui dapprima si può mitizzare una certa genesi del- l'uomo ancora non uomo,
finché in una qualche organizzazione dei "semi," come sono nati certi
mondi e certi animali, nella lotta per la vita oggi estinti, ed altri tipi di
bestie, rimaste bestie (cfr. V, 773-924), nasce il primo mondo 1egli uomini,
piu che di uomini ancora di "be- stioni," viventi in istatc ferino,
alla fine, sempre per una qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali,
scaturisce la razionalità e, ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il
linguaggio, questo o quel lin- guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua
storia, il processo me- diante cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà.
Perché cosi e non altri- menti? Non sappiamo, risponde Lucrezio: "non è
possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio
ne scopre" (V, 1445). L'unica ipotesi è l'ipotesi epicurea, sostiene
Lucrezio, me- diante la quale ci rendiamo conto non solo del costituirsi
sdrammatiz- zato della realtà, ma anche di come l'uomo è uomo entro i termini
della sua stessa realtà umana (ché prima del nascere e di là dalla soglia del
morire, è umanamente il nulla, è altra realtà) tutt'uno di anima e di corpo, di
come per rispondere alle proprie esigenze sono nate le verità degli uomini,
dalle verità dell'uomo· primitivo e ferino, vivente nelle selve, alle verità
dell'uomo razionale e sociale, che ha proiettato tali verità oltre sé in cielo,
perdendo alla fine se stesso (donde poi la superstizione del divino signore,
del divino che come padrone si occupa delle cose umane, la superstizione
dell'anima immortale, che avrà premi o castighi nell'aldilà). Al modo erratico
delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nd cielo, menavano lunga
vita... Stavano nei boschi, ndle caverne dei monti, nelle foreste... Non
conoscevano l'uso di costumanze e di leggi: ciascuno pren- deva di proprio
istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere e a campare
da sé solo. Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti... Si
procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e si ridusse la donna, congiunta
all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro nascere i propri figlioli...
Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire il [loro] giusto... Ma chi
spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il
vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo stesso modo in cui l'impotenza
evidente a formulare la parola induce i bambini a gestire, come fanno quando
col dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno capisce di che si possa
servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle cose i loro nomi e che
di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo è un uscir di cervello
[cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva costui indicare tutto
con le voci, e modulare vari 145
suoni, se, nel contempo, nessun altro era in grado di farlo? E poi, da
dove a costui venne l'idea del vantaggio, da dove ebbe, sin dall'origine la
facoltà di sapere ciò che voleva e di scorgerlo perfettamente distinto, se fino
allora nessuno aveva usato il linguaggio? E non poteva, uno solo, piegare i
molti e costringerli, vinti, a imparare di buon animo i nomi posti alle cose;
non si istruiscono i sordi né si convincono con la logica a fare quanto
debbono: e poi non lo soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo a lungo ed
invano voci dal suono inaudito rintronino loro le orecchie. Infine, è proprio
cosi strano che l'uomo, in cui voce e lingua erano in piena efficienza, usasse
per indicare le cose, varie secondo le percezioni, la voce?... Se le diverse
impressioni fan che le bestie, che pur non hanno la parola, emettano voci
diverse, quanto è piu ovvio che l'uomo abbia cosi, con le varie voci, potuto
iÌidicare la varietà delle cose! (V, 930, 956, 960, 1011, 1020, 1028-1034,
1041-1059, 1089-1090). Lascia che lottando lungo lo stretto sentiero
dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino sangue, essi che parlano per bocca
d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da ciò che sentono, che dalla propria
esperienza, oggi non meno di ieri, non meno d'oggi, domani... Piu facile ora è
capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i grandi popoli, e abbia
stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a introdurre i sacri riti del
culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge fra tanto progresso e in
centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è insito quello spavento che
erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi fa correre nelle festività
tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli uomini vedevano da svegli, ma
piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito numi d'aspetto stupendo. E poi
che, a quanto appariva, essi movevan le membra ed emettevano terribili voci,
ap- propriate alla enorme forza e allo splendido aspetto, a loro, dunque, per
questo, attribuivano il senso e li facevano eterni, giacché se ne rinnovava
sempre la vista, e la forma restava sempre immutata, e poi perché giu,di-
cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza potesse agevolmente sop-
primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia la sorte, perché il
timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi vedevano in sogno -
molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse stanchezza alcuna. Scorgevano
inoltre che i movimenti del cielo e le diverse stagioni si avvicendavano con
successione uniforme, e non potevano conoscere per quali cause. Ne uscivano
dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che tutto fosse guidato dal cenno
divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei numi, perché si vedono
evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il giorno e la notte, ed i
severi notturni segni, e le erranti notturne faci del cielo, e i volanti
fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i venti, i fulmini,
i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. Ah, da quando fece dipendere
dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice umanitàl Da quel
tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali lacrime ai nostri
nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare, velato, intorno ad un
sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a terra davanti ai
templi dei numi, .e alzar le palme, e del sangue di 146 numerosi
quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto pro- prio non è
religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni.
Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e l'etere
immobile sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che fanno il
sole e la luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel cuore
oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non sia
l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle:
perché ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio
generatore del mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa
loro fatica del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con
l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde
forze del tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la
paura dei numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose,
e si vede che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le
terribili scuri (V, 1130-1135, 1161-1235). Ma, prima assai che potesse foggiare
col suono politi canti e dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il
limpido gorgheggiar degli uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami
apprese ai campagnoli per primo come soffiare nelle vuote canne. Impararono in
seguito poco per volta i soavi lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano
con le dita, sonando, dal flauto che si trovò dai pastori per i boschi impervi
e le selve, e i monti e i luoghi deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano
col tempo si manifesta ogni singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del
giorno. Accarezzavano lo spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche
appreso a tenere distinti i ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne
prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i
continui sforzi dell'alacre ingegno all'uomo che progrediva passo per passo
insegnarono a poco a poco la nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di
fare le fortezze, le strade, le armi, e cose simili, gli agi e i conforti,
quanti ve n'è della vita, la poesia, la pittura e la ingegnosa scultura.
Grandemente, in tal modo, il tempo svela ogni cosa singola e il raziocinio la
porta al lume del giorno. Perché scoprivano che un vero prendeva luce
dall'altro, finché con le arti non ebbero raggiunto l'ultimo vertice (V,
1377-1389, 1406-1407, 1445-1456). Questo, sembra, il motivo chiave
dell'epicureismo di Lucrezio, questo suo appello, di contro alla filosofia
teologica ed ai pericoli insiti in essa per il libero farsi degli uomini, per
la stessa comprensione della natura (vera religione è "saper penetrare a
cuore tranquillo i fenomeni": V, 1203), il suo appello all'esperienza e
alla ragione, all'umanizzazione della scienza, mediante cui l'uomo può creare
il suo mondo, conside- rare la natura per quello che la natura è, operando su
di essa, diremmo in una libera "inter-azione," per un fine che non è
dato, ma che è di volta in volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana,
operante, con le tecniche, su di una realtà non già preordinata, ma spontanea e
feconda di tutte le possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di
Lucrezio, e perciò la sua venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con
i suoi precetti veridici, e al desiderio e al timore prescrisse un limite e
fece chiaro qual fosse il supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale
via vi si può giungere diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i
raggi del sole, non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore
dell'universo con le sue tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed
naturae species ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre
·versi tornano nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si
tenga presente il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando
certi aspetti di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di
una religio, in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e
Cicerone n;è testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca
drammatica, in un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente
presente, si capisce bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore ("
mentre l'umanità conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op-
pressa dal peso di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle
regioni del cielo, minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo
un uomo greco [Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per
primo contro di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né
i fulmini né il cielo con il suo rombo minac- cioso ": l, 62-69);
dall'altro lato l'esigenza e il dovere di far conoscere a tutti il libro di
Epicuro: Venere, stringiti a Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo,
implo- rando, inclita, per i romani una pacifica tregua; che con la patria
turbata, né noi con cuore tranquillo potremmo attendere all'opera, né per
seguir tali cose, l'illustre germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar
potrebbe se stesso alla salt~ezza di tutti (1, 37-44)... Né mi nascondo ch'è
opera estremamente difficile esporre in versi latini le ardue scoperte dei
Greci, specie perché dovrò spesso usare vocaboli nuovi - tanto il nostro
lessico è povero, e cosi nuovo è il soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio,
che mi prometto, di una soave amicizia mi persuade che non debbo badare a
fatiche di sorta, e che le notti serene io vegli cercando con quale canto, con
quali parole, ti faccia splendere nella mente h vivida fiaccola, onde tu
penetri a fondo i piu reconditi veri. E veramente bisogna che non i raggi del
sole, che non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore
dell'animo con le sue tenebre, ma la razionale conoscenza della natura: sed
naturae species ratioque (l, 136-148). E cosr non vanno scordati del De rerum
natura due altri punti fon- damentali. Bisogna tener presente, innanzi tutto,
l'insistenza ancora 148 maggiore che non in Epicuro, sull'atomo,
condizione perché sia pensa- bile la realtl, non come atomo geometrico o
.matematico, ma come centro di vita, come seme vitale, onde in ogni cosa è
insito uno speciale potere: il che, non solo spiega meglio l'affermazione prima
che "nulla si genera dal nulla," cioè da una pura quantità che
all'infinito è zero, ma anche il fatto che le qualità si costituiscono dal modo
in cui le po- tenze seminali si organizzano e si dispongono mediante
gl'incontri. Viene da questo la paura che opprime gli uomini tutti: scorgono in
cielo ed in terra prodursi vari fenomeni, fatti, dei quali non possono scor-
gere punto le cause, e che riportano quindi alla potenza di un dio. Ma se
tocchiamo con mano che non può naseere nulla dal nulla, allora piu chia-
ramente sapremo comprendere quello che andiamo indagando: donde: ogni cosa si
generi e come ognuna si generi, senza l'intervento di un dio... Se non vi fosse
per ogni singola specie il suo germe, come si avrebbe un'origine certa e
distinta per gli esseri? Ma poiché viene ciascuno d'essi da un germe specifico
si forman là, di là balzano fuori alla luce del giorno dove sono insiti i primi
corpi e la loro materia, né può ciascuno prodursi da ciascun seme, per questo:
ché in ogni cosa è insito uno speciale potere. Perché vedremmo prodursi di
primavera la rosa-, d'estate il grano... se non perché cofluendo, al tempo
giusto, certi semi, erompe quanto si fa... dal fecondante connubio... A poco a
poco crescono gli esseri tutti, da un germe specifico... (1, 151 sgg.). In
secondo luogo, bisogna tener presente la distinzione, nell•uomo, tra la forza
vitale (anima), che unisce le membra e ovunque è diffusa, e la sua
organizzazione in quella che diciamo razionalitl (animus), o mente (III, 94
sgg.), che, insieme, costituiscono l'Anima, ch'era il modo d'interpretare
epicureamente il motivo di un tutto vitale e fe.. condo implicito nel motivo
dell•anima mundi di origine stoico-platonica. Come, negli esseri vivi, in ogni
viscere suole trovarsi un succo, un odore, un colore speciale; ma dall'insieme
di tutti si forma un solo organismo, si forma una sola essenza, cosf,_
commisti, il calore, l'aria e la occulta potenza del vento, aggiuntavi quella
nobile forza che a loro compane il moto d'ini- zio, donde dapprima negli organi
si desta il moto del senso, che si cela riposta nelle tenebre dell'essere, e di
cui nulla piu addentro nel corpo a noi non s'immilla, diremmo, che è l'anima
stessa dell'anima tutta. E come, occulta, è.commista nel nostro corpo e negli
arti tutti la forza dell'animo e la potenza dell'anima perché risulta composta
d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di minimi, ti si nasconde questa energia
senza nome, l'anima stessa di tutta l'anima, quasi, che domina nel corpo
intero. In tal guisa il vento e l'aria e il calore debbono, mischiati negli
arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer gli uni agli altri, e sovrastarsi a
vicenda, cosf però che risulti di
149 tutti un unico tutto, onde il calore ed il vento e la
potenza dell'aria, cia- scuno per sé, non distruggano il senso e non .lo
disgreghino, cos{ distaccati (III, 267-289). L'insistenza di Lucrezio sulla
seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di ogni seme e
sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi, questi mondi,
e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come Lucrezio ha interpretato
Epicuro. Il ragio- namento è lo stesso di Democrito fino a porre a condizione
della pensa- bilità della realtà gli atomi e il vuoto (cfr. I vol.): dalle cose
visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu divisibili,
ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla incon-
cepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi (libro I); per il
resto, dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli atomi, precisato
come "clinamen," al concetto del peso e del costi- tuirsi delle cose
e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo (libro Il), da cui comincia -
perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è natura, nella
natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima, costituita di atomi
leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della sensazione e degli éidola
(libri III e IV), alla conce- zione della mortalità dei mondi creati e della
caducità del mondo, alle possibili molte ipotesi su ciascun fenomeno celeste e
al sorgere della vita sulla terra (donde poi la storia del mondo umano,
dall'uomo ferino all'uomo razionale e padrone delle arti) (libro V), alla
spiegazione dei fenomeni meteorologici e dei morbi e delle epidemie (libro VI),
Lu- crezio segue la traccia del De natura di Epicuro (di cui, ricordiamo, s'è
trovata una copia in 37 libri, ad Ercolano, nella ~iblioteca della villa dei
Pisoni). Ma, dietro, sempre, rimane in Lucrezio la meraviglia della scoperta,
che dovrebbe essere chiara a tutti, che dovrebbe definitivamente scacciare ogni
alambiccata costruzione metafisico-teologica, ogni timore in una suprema legge,
negli dèi o in un astratto l6gos. Allorché si tenga questo per verità, si fa
chiaro che la natura, da sola, in tutto priva di despoti superbi e libera in
tutto, agisce in ogni sua cosa d'iniziativa propria, senza interventi di dio
(II, 1094 sgg.). Scientificamente, cioè razionalmente, possibile l'ipotesi di
Epicuro, ne vien fuori da un lato che il fondamento della natura - natura na-
turans - non è sottoposto ad alcuna legge, ad alcuna necessità razio- nale a
priori, a nessun proiettato rapporto di causa ed effetto, ivi impli- cita la
necessità di porre cause prime (efficiente, formale, materiale, fi- nale), ma
che l'ipotetico fondamento, cui si giunge induttivamente per analogia, è una
infinita ricchezza, una fluidissima spontaneità; e, dal- l'altro lato, che la
realtà quale è, quale si costituisce (natura naturata), è ad un tempo la stessa
natura naturans sempre possibile di cangia- mento e di modificazioni
qualitative (di qui il motivo del farsi con- tinuo: II, 293-336), su cui è
possibile operare (di qui l'inno a V enere ge- nitrice, che apre il poema),
ché, in effetto, atomi-semi, vuoto, peso, clinamen, sono postulati, sono i
fondamenti, ma non esistono: esiste la natura; esistono gli infiniti mondi, le
loro genesi, le loro storie, la genesi degli animali, la loro evoluzione, la
loro lotta per la vita, la loro estinzione o la loro sopravvivenza, la genesi e
l'evoluzione dell'uomo, e poi la storia dell'uomo, da quando l'uomo è uomo,
quest'organizzazione di semi che ha dato luogo alla ragione; e ad un tempo,
insieme, esi- stono i semi e le loro connessioni e organizzazioni. Da un lato,
come dietro le cose e i mondi quali sono nelle loro organizzazioni, si vede
mentalmente questo pullulare vitale, instabile, di semi (atomi), il cui
complesso. è ciò che Lucrezio chiama "materia," i loro incontri spon-
tanei e infiniti (" clinamen "), il loro organarsi, donde questo o
quel mondo, questa o quella cosa, questa o quella specie e qualità; dall'altro
lato si vedono nascere le cose stesse e i mondi, la spiegazione naturale e
razionale delle cose, dei mondi, dell'esserci naturale dell'uomo - in-
dipendentemente da ogni miracolistico intervento, - e da quella stessa vitalità
(anima), nell'uomo, la mente, !'animo, la razionalità che è un modo con cui si
è venuta organando quella vitalità. La razionalità stessa, perciò, è
"storica," positiva, si come i linguaggi e i costumi, le tecniche,
mediante cui l'uomo istituisce il proprio mondo, costituisce quell'equi- librio
di anima e corpo, quell'equilibrio tra uomini, che non ha nulla di già dato
dietro le spalle, ma è dovuto all'attività dell'uomo. La feli- cità dell'uomo
non sta, dunque, nell'adeguarsi a un ordine già dato, ma nel volere, di volta
in volta, quell'equilibrio e quella misura (il "piacere"), che è una
sua conquista, in una prosecuzione razionalizzata dell'opera della natura, che
è serenità, in una comprensione e in un rispetto della natura
("religio"), per cui, alla fine, la virtu sta proprio in questo
comprendere la natura, in questa critica della religione co- smica e dei miti,
in questa umanizzazione e razionalizzazione della scienza, mediante cui nella
costruzione della propria società, si effettua un'armonia, un giusto mezzo tra
anima e corpo; e in tale armonia con- siste il "piacere," di là da
ogni estetizzante "eroismo," oltre ogni edu- cazione basata sul culto
della virtus, degli exempla, dei mores maiorum. Si vede bene, cosi, come il
piacere e la misura lucreziano-epicurea non siano né la virtu eroica dello
stoico, né il "conveniente," il decoro, la "signorilità"
prospettate da Cicerone; Cicerone per il popolo, per la plebs voleva la
superstitio, l'ordine imposto dagli ottimati, m nome del divino e delle leggi,
o l'equilibrio dovuto alla ca- pacità di un uomo, di un princeps, di cui si
potesse dire che è l'incar- nazione della legge suprema, della legge cosmica, e
perciò stesso salvatore, correttore" dello Stato, mentre per un verso la
filosofia si risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di
edifi- cante conforto sacerdotale-religioso. Proprio di qui il conflitto tra
ciceronianesimo e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono
alcun discorso comune, si di- verso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui
prendono le mosse l'uno e l'altro, ~ non in un punto, nella comune
consapevolezza di una disperata e drammatica situazione·storica, in un terror
della morte, che rende tutto vano, nell'un discorso risolta in u n coraggioso
appello all'uomo e alla sua razionalità, in un appello alla scienza, in un
risolversi dell'uomo entro il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso,
nella speranza di un ordine proiettato retoricamente nei cieli, che si
delineerà, poi, in una salvazione che non dipenderà neppure dalla capacità
umana di adeguarsi all'eterno ordine della legge divina, ma sarà dovuta o a
forze magiche e irrazionali (certo neopitagorismo, gnosticismo, certo
neoplatonismo e ermetismo del 1-n sec. d. C.), o ad un gratuito inter- vento
dello stesso dio, della persona di Dio (primo cristianesimo). Per secoli,
certo, si è taciuto di Lucrezio, e perduto è andato, anche, il De rerum natura
di Egnazio, che, sembra, fosse un seguace di lui. Non va dimenticato, comunque,
che ciò che noi ancora leggiamo è quello che la stessa censura della storia ha
salvato. Ad ogni modo, a parte ii· rigo di Cicerone nella citata lettera al
fratello Quinto, gli ac- cenni di Cornelio Nepote (Biografia di Attico, 12), di
Vitruvio (IX, Proemio, 41), di Ovidio (Am., l, 15, 23-24; Trist., Il, 425-26) e
di Papinio Stazio (Silv., Il, 776: "docti furor arduus Lucreti"),
l'unica fonte bio- grafica è quella celebre .di San Girolamo, in cui si dice
che Lucrezio sarebbe morto suicida per pazzia a causa di un filtro amoroso, e
che avrebbe composto alcuni libri del poema durante gl'intervalli della sua
follia: "Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in
furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos
postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno ae- tatis XLIV"
(Chron. Euseb., VII, 1). Non altro sappiamo della vita di lui, e incerte sono
anche le date della nascita (99-95) e della morte (55-51) (cfr. sopra, Vita).
Sembra che Girolamo abbia usato per tali notizie il De viris illustribus di
Svetonio, il che darebbe attendibilità alla notizia. Certo i cristiani
conoscevano bene il De rerum natura (cfr. Arnobio, Lattanzio) e di esso
discutevano in forma polemica, sf come - in fondo per le stesse ragioni - il
poema lucreziano era stato discusso e minimizzato da Cicerone, il quale non
poche volte afferma che gli epicurei sragionano. Di qui a sostenere,
ricostruendo la vita del poeta all'uso dei biografi antichi, che Lucrezio era
folle, il passo è breve. Non si è forse detto (Vita Vergi/ii di Donato), ad
esempio, che Virgilio, il cantore dei campi, nacque in un maggese? (ed anche
questa notizia di Donato non è forse ricavata dal serissimo Svetonio?). In
effetto, Lucrezio sembra che non abbia avuto, sul piano della for- mazione di
una paidèia popolare, alcun successo, anche se certamente Lucrezio fu in
polemica con il suo tempo e cercò di operare almeno attraverso certi uomini
(forse Memmio, Attico) che, per la loro posi- zione, ne avrebbero avuto la
possibilità. E proprio sotto questo aspetto non va sottovalutata la polemica di
Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora una volta, l'affermazione
ciceroniana che gli argo- menti degli epicurei non vanno discussi
filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. È stato detto - Farrington,
cit., p. 194 - che "nel caso di Lucrezio, il fatto essenziale è che in
un'età in cui lo scrittore piu colto (Varrone) e lo statista piu eloquente
(Cicerone) erano d'accordo sulla utilità d'ingannare il popolo in fatto di
religione, egli rivolge le forze della sua cultura e della sua eloquenza a
sostenere l'opinione contraria. Manifestò apertamente l'intenzione di fare
quanto è possibile a un uomo per liberare la mente umana dai vincoli della religione,
e scongiurare i suoi compagni di non macchiare la loro anima con
quell'abominio." Eppure, non va sottovalutato, accanto al Cicerone uomo
politico e legislatore, la cui opzione per un certo mo- dello filosofico e_
culturale assume un significato preciso quando lo si veda in funzione di una
certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto di Cicerone, problematico
e scettico, la funzione da lui data alla filosofia come possibilità di proporre
un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia pur per altra via, un rifugio
dalla tristezza della vana vita quotidiana. Lucrezio moriva tra il 55 e il 51;
Cicerone verrà ucciso nel 43. Quella decina d'anni fu ancora peggiore di quella
in cui Lucrezio scrisse il suo poema, ancora piu pericolosa. Si chiarisce
allora come l'influenza lucreziana, insieme a quella di Sirone e di Filodemo di
Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in senso negativo, cioè in una giustifi-
cazione dell'abbandono dalla vita politica attiva, in un rifugio in con-
venticole di amici, o nel crearsi mondi a parte mediante la poesia. Sembra,
perciò, di non poco interesse il fatto che proprio coloro che sappiamo essere
stati i maggiori epicurei romani sono morti vittime delle lotte civili, o, a
poco a poco, si sono tutti ritirati dalla politica attiva. Poco o nulla
sappiamo- dopo Amafinio, Rabirio, Cazio - dei primi: T. Albucio, ritenuto un
grecomane, che per un certo periodo fu propretore per la provincia di Sardegna,
e che, condannato per estor- sioni, si rifugiò ad Atene, abbandonando ogni velleità
politica, detto da 153
Cicerone "perfectus epicureus," (Cic. Brutus, XXXV, l) e autore
di scritti a carattere epicureo; C. Velleio, senatore e tribuna della plebe nel
91, a cui Cicerone nel De natura deorum fa difendere la tesi epi- curea; Tito Pomponio
Attico (nato nel 109 a.C.), di nobilissima fa- miglia, compagno di studi di
Cicerone'e, poi, sempre, suo amico (ad Attico Cicerone dedicò il De amicitia e
il De senectute, e a lui scrisse moltissime lettere, raccolte in 16 libri),
evitò la vita politica: per sfug- gire anzi alle lotte interne, dall'87 al 65
visse ad Atene e, tornato in Roma, rimase neutrale durante le guerre civili,
facendosi editore, il primo editore romano. E cosi, lontano da Roma, ad Atene,
dedito agli studi, visse un altro epicureo, Lucio Saufeio (nato nel 110 circa),
cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di Ercolano,
s'era formato il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da Cicerone (cfr.
In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge epicureo, il suo
porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che console nel 58,
censore nel 50, s'era adoperato per impedire la guerra tra Cesare e Pompeo, e
nel 43 rinnovò i suoi sforzi per impedire nuove guerre civili, dopo il 43
definitivamente abbandonò ogni azione, rifugiandosi nella sua villa di
Ercolano, insieme agli amici epicurei. Vibio Pansa, amico di Cicerone, tribuna
e console, mori nel 43, a Modena, combat- tendo contro Antonio; L. Manlio
Torquato, pretore, console, procon- sole, senatore, pompeiana, si uccise nel
46; Statilio mori a Filippi, nel 42 a. C.; Cassio, che insieme a Bruto, stoico,
uccise Cesare, si suicidò a Filippi; Egnazio, seguace di Lucrezio, che tenne in
Roma una scuola di retorica e di grammatica, abbandonò Roma e, insieme a
Rutilio Rufo, si recò a Smirne. Papirio Peto è posto da Cicerone (Pro Sestio,
20-23) tra i combibones epicurei. "Ad uomini tormentati dalle miserie di
guerre civili atroci," ha scritto il Boyancé, L'épicurisme, cit., p. 514,
"dal crollo delle tradizioni ancestrali, la vita epicurea offriva una
specie di porticciolo e di rifugio. L'ambizione scatenata faceva l'infelicità
ad un tempo di coloro che n'erano presi e di coloro ch'erano condannati a
servire loro da stru- menti. Tale ambizione era gravida di scacchi e di rischi
mortali. Quanti pochi tra gli uomini illustri di questo tempo sono in effetto
pacifica- mente morti nel loro letto! Nessuno dei triumviri del primo
triumvirato, né Crasso ucciso in una guerra lontana, ove l'aveva trascinato la
sua ambizione, né Pompeo assassinato a Farsalo da un re satellite, né Cesare
crivellato di colpi in pieno Senato. Dei due piu grandi avversari dei
triumviri, l'uno, Catone, si era suicidato a Utica, l'altro, Cicerone, do- veva
esser messo a morte dai sicari di Antonio. Si comprende che la vita non era mai
apparsa piu minacciata nelseno stesso della città e mai l'insegnamento di
Epicuro sul timore della morte non era apparso 154 piu attuale. Né
tanto piu, anche, era sembrato, in presenza delle incoe- renze e dei crimini
della storia, che gli dèi si disinteressassero degli uo- mini. O se ci
s'immaginava che intervenissero nei loro affari, quali mai dèi sarebbero stati!
Quali dèi crudeli e gelosi! Il messaggio di Epicuro si fece ascoltare in tale
atmosfera, in virtu di filosofi greci come Filo- demo o Sirone, in virtu anche
di Lucrezio." Non solo, ma se Lucrezio aveva sottolineato con forza
l'aspetto rivoluzionario dell'epicureismo, aveva anche tracciato il modello di
una "vita" epicurea, che, a parte i fondamenti dottrinari, si
avvicinava non poco al modello di "vita" stoico, sganciato anch'esso
dai suoi fondamenti dottrinari e rispondente, piu tardi, quando dopo Ottaviano
Augusto e Tiberio il principato si trasformò davvero in impero e in dispotismo,
all'esigenza di fuga dal mondo, per cui un Seneca potrà essere stoico
accettando in gran parte certi aspetti del modello di vita epicureo, mentre i
circoli epicurei, in Roma, assumeranno sempre di piu il carattere di chiese, di
isole, di rifugi. Aveva, dunque, cantato Lucrezio: E tu potresti, talora, dire
anche questo a te stesso: "O miserabile, chiuse gli occhi persino il buon
Anco, che fu migliore di te per tanti aspetti; e in gran numero di poi morirono
re, principi, gente potente che in mano ebbe le sorti di grandi popoli. Ed
anche colui [Serse] che un giorno apri per l'ampio mare una strada, e
sull'acqua fece passar le legioni... E il fulmine di guerra, lo Scipionide che
fu il terror di Cartagine, rimise l'ossa alla terra, come il piu vile dei
servi. Aggiungici i pensatori, gli artisti e quanti han seguito le Muse...
Finito il lume mortale, mori lo stesso Epicuro... Saresti dunque tu ch'esiti e
che ti crucci al morire?... Quando potessero gli uomini, al modo come
nell'animo sentono il peso che con la propria gravezza li opprime, cosi sapere
da che causa ciò avvenga, e donde la macina, direi, si grande del male ci sta
sul petto, vivrebbero non come i piu vivono oggi, che ignorano quello che
vogliono e non domandano di meglio che mutar sempre di luogo, come se fosse
possibile, cosi, deporre il fardello. Questi, venutogli a noia lo stare in
casa, esce fuori dai sontuosi palazzi e torna subito indietro, perché non trova
affatto che si stia meglio fuori. Quello, sferzando i puledri, corre di furia
alla villa come dovesse salvare il fabbricato che brucia, e già sbadiglia che
ancora non ne ha toccato la soglia, o casca morto dal sonno e cerca a letto il
riposo, oppure volta e rientra di gran carriera in città. A se stesso cosi
ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a se stesso ciascuno resta legato, al sé
cui non si sfugge; e, com'è logico, lo odia, perché non vede il malato qual è
la causa del male. Se la vedesse, ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si
sforzerebbe anzitutto di penetrare la natura, perché v'è in giuoco lo stato del
tempo· eterno, non quello di un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi,
per il tempo eterno che avanza dopo la morte, i mortali (III, 1028-1074). E
proprio per questo, al principio del.secondo libro, Lucrezio aveva detto,
delineando la possibile vita del saggio epicureo: Dolce è guardar dalla riva,
quando i venti sconvolgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso
travaglio, non perché faccia piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché
scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si
partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è
dolce piu dello starsene nei ben muniti luo- ghi che edificò la serena
speculazione dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto... (Il,
1-9). Tale, anche per le sempre piu gravi vicende politiche, fu, dopo Lu-
crezio, la linea su cui si posero i gruppi degli epicurei della nuova
generazione. A parte Orazio, particolarmente interessante e indicativa sembra
la doppia faccia di Virgilio (70-19 a. C.), che, epicureo da gio- vane (almeno
come atteggiamento), vicino al circolo napoletano di Si- rone e di Filodemo, si
venne poi indirizzando a una visione del mondo e delle vicende umane (anche se
non dottrinariamente) di carattere stoi- cheggiante. Nel V componimento del
Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli, dopo il suo soggiorno a Roma, dove s'era
iniziato agli studi di retorica, ed entrato in contatto con Sirone e con quella
scuola, di- chiara di avere volto le spalle alle "ampullae rhetorum"
(v. 1), a quella cultura che, in Roma, doveva avviarlo alla carriera politica
(inanis cymbalon iuventutis: v. 5), per abbracciare, contro la "natio
scholasticorum" (v. 4), gl'insegnamenti di Sirone: nos ad beatos vela
mittimus portus, magni petentes docta dieta Sironis, vitamaue ab omni
vindicabimus cura (8-10). Si era nel 45 a. C. Le Bw;oliche, composte tra il 41
e il 39, se da un lato indicano ancora l'influenza epicurea nell'ideale di una
pacificante natura, in cui rifugiarsi ("Tityre, tu patulae recubans sub tegmine
fagi, silvestrem tenui meditaris musam avena..:": l, l sgg.), dall'altro
lato mostrano (cfr. IV, V, VI), di contro alla possibile disperazione epicurea
(il mondo umano lasciato a se stesso), la speranza nell'immortalità çlel-
l'anima, che porterà all'uomo una serenità piu alta, l'esigenza di com-
prendere la natura come un tutt'uno con l'uomo (con accenti molto vicini
all'anima mund; di Lucrezio, alla sua umanizzata e vi- vente natura, ma già
reinterpretata in senso stoico), onde nelle Geor- giche (composte tra il 37 e
il 30, e su invito di Mecenate e di Augusto), e tanto piu, poi, nell'Eneide,
riappare il motivo della Provvidenza, 156 della pietas, della
purificazione dell'anima immortale attraverso il do- lore e la morte, della
speranza in un al di là in cui saranno premi o pene (la descrizione dell'Ade
orfico è in genere ricavata dal VI del- l'Eneide), del destino di Roma,
dell'imperium di Roma che, mediante il suo princeps (il simbolico pio Enea),
porterà pace, ordine e civiltà nel mondo, compiendo la ragion d'essere, la
legge del tutto: tu regere imperio populos, romane, memento - hae tibi erunt
artes - pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos (Aen.,
VI, 851-53). Se è, senza dubbio, vero, com'è stato detto e si ripete che "il
poeta partito da posizioni epicuree, attraverso la meditazione del dolore come
retaggio comune all'umanità, è giunto ad intendere provvidenzialmente il
destino e a ravvisare nel mondo la legge di una superiore giustizia che è legge
di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v. in Enciclopedia filosofica), è
altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al potere di Au- gusto, di
quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio aveva detto: "un
dio, oggi, a noi dette questi ozt" (1, 6). Se il modello di vita, assunto
da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si scoloriva in un
atteggiamento di pacato intimismo e di sor- ridente umiltà (forse la celebre
dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di Epicuro,"
Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi davano a porco,
l'animale che si contenta di poco: cfr. Pla- tone, Repubblica, 372d; ma non va
scordato peraltro il Carmen saecu- lare), il modello di vita virgiliano finiva
in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio nuovo, della rinnovata
pietas, della religio, voluti da Augusto, e identificantisi in lui - in un
compimento del cicero- niano ideale scipionico - correttore e salvatore della
patria, princeps della res-publica, pater patriae. 4. Politica e cultura all'avvento
di Augusto Cesare fu ucciso il 14 marzo del 44 a. C. Dopo quattordici anni di
nuove lotte terribili, di proscrizioni e di gratuite morti, di alleanze e
rotture, nel 30 a. C., dopo la battaglia di Azio, Ottaviano rimase arbitro
della situazione. Sembrò, certo, che solo attraverso lui e la sua abile e
privata politica fosse possibile ricostituire l'equilibrio e l'armonia, avere
la pace. Egli apparve cosi come un patrono, protettore dei sudditi e, perciò,
moderatore e princeps. Si sarà veduta, in lui, non solo la possi- bilità di
salvar(' la res-publica, ma, dando ad Augusto il patronato uni- 157 versale, l'unica possibilità
di una pax e di una libertas, anche se relati- vissime, che pur erano molto, rispetto
al terrore di prima. Paolo Frezza, commentando come Augusto presenta il suo
potere nelle Res gestae: (l l, Annos undeviginti natus exercitum privato
èonsilio et privata i m pensa comparavi, pel" quem rem publicam [ a do
]minatione factionis oppressam in libertatem vindica[vi]. - XXV 2. Iuravit in mea
verba tota Italia sponte sua et me he[lli], quo vici ad Actium, ducem
depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba provi]nciae Galliae Hispaniae Africa
Sicilia Sardinia. - XXXIV l. In consulatu sexto et septimo, p[ostquam bella
civil]ia extinxeram, per consensum universorum (potitus rerum omni]um, rem
publicam ex mea potestate in senat[ us] populique Romani arbitrium transtuli);
e richiamando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani: ("la legge ricorda
ad uno a uno i poteri straordinari conferiti da senato e dal popolo a
Vespasiano: ciascuno di questi poteri o facoltà eran stati esercitati anche da
Augusto: e il documento si riferisce a questo fan. come precedente della
concessione attuale"); ha finemente sottolineato il duplice aspetto con
cui si determina potere di Augusto e il possibile conflitto tra il principe e
le magistr ture della Città Stato, donde l'esigenza da parte del legislatore di
dete minare la "costituzionalità del potere del principe: la sua commensur
bilità con la conformazione dei poteri costituiti ed attribuiti in ser
all'ordinamento della città-stato" (Frezza, Per una qualificazione is;
tuzionale del potere di Augusto, in" Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di
Scienze e Lettere la 'Colombaria'," XXI, Firenze, 19: pp. 112-3). Da un
lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del Stato-Città (e,
dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato
patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti;
dall'altro lato Augusto ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di
sua volontà, all'arbitrio del senato e del popolo romano. Solo che Augusto,
proprio perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente,
come nel caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo,
con un atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello Stato
proc mandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso Stato,
svincolava da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il
potere, essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli al 158 là del Senato
e del Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Se-. nato e il
Popolo, egli, appunto, princeps rei publicae. Con ciò, evidente- mente, la
Città-Stato cessava d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere
cittadini per divenire sudditi e i magistrati magistrati pèr dive- nire via via
funzionari dell'impero e del sovrano. " L a necessità che il principio
polarizzatore delle istituzioni dello Stato-Città, e il principio regolatore
delle istituzioni del principato, rima- nessero l'uno all'altro opposti, ed
insieme la necessità di ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le
soluzioni dei problemi in cui si pre- sentava il contenuto della nuova
esperienza dello Stato: questa è, se non m'inganno, l'antinomia da cui si
genera l'evoluzione storica del principato, ed in cui si puntualizza il limite-
della consapevolezza che gli artefici dell'ordinamento nuovo ebbero
dell'esperienza di cui essi stessi erano i modellatori. Del quale ordinamento
il carattere fonda- mentale è dunque la duplicità. Da una parte il primordiale
sistema istituzionale del potere del principe, che si riassume nella elementare
affermazione di un sol soggetto di tutto il potere di fronte ad una totalità di
sudditi, nella quale tende a scomparire la differenza fra il suddito e il
civis. Da un'altra parte il raffinato. ma non piu autonomo, sistema
istituzionale dello Stato-Città, in cui, come in un prisma, il totale e
totalitario potere del principe si scompone in una molteplicità di settori di
azione, di competenze, di limiti istituzionali all'esercizio del potere
medesimo... Lo sviluppo della storia del principato, di cui la storia giuridica
è un aspetto, si incarica di dimostrarci che, a misura che il potere del
principe si va consolidando come ordinamento, ossia come sistema di rapporti
costanti, lo Stato-Città, come soggetto com- presente nella formula
dell'equilibrio dinamico della costituzione del principato... tende a
scomparire. L'allontanamento dei cittadini dal- l'esercito, e dei senatori dai
comandi militari, l'accesso dei provinciali al trono imperiale, e l'immissione
sempre piu massiccia di provinciali nelle file della classe dirigente, la
formazione di una nuova solida gerar- chia di alti ufficiali dell'impero, ai
quali soltanto incombe la funzione di governo, agli ordini del sovrano, sono,
com'è noto, i fenomeni com- plementari del progressivo scomparire del senato e
della magistratura di Roma dalla direzione politica dell'Impero" (Frezza,
cit., pp. 139-30). Ci siamo un momento soffermati, da un lato sulla situazione
psi- cologica che ha potuto determinare l'accettazione del potere di Augu- sto,
e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della qualificazione
istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto questo possa
servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si è veduto il
confluire e l'intrecciarsi tra il I I e il r secolo a. C., - il prevalere in
quest'ultimo scorcio di secolo, e ancora nel primo quaran- 159 tennio circa del 1 d.C., di
posizioni stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con
Cicerone, e che esattamente rispon- devano e servivano a ben precise situazioni
politiche, particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere
di Augusto e con la sua linea tattica. Non sembra cosi un caso che Augusto
riprendesse il termine di princeps, che si proclamasse primus inter pares,
proprio per il motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde
il titolo di augustus) e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal
modo un potere extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei
due termini e delle magistrature, dei quali Augusto rimaneva l'egemone, il
princ~tJs. Il termine heghemonik_6n, già da Ci- cerone reso in latino con
principatum, stava a indicare, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la
ragione universale, non come principio a ~ ma come atto unificante una
molteplicità, secondo un ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni,
onde si poteva dire che la ragione del tutto (il 16gos) veniva a porsi prima
inter pares, in sé riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto
posto nell'or- dine del tutto. E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire
l'Emi- liano, Augusto, anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé,
ragion d'essere dello Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del
senato e del popolo (cui rende la res--publica), ma di ambedue cor- rettore e
principe. E si badi - anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici
(non in Roma) Augusto veniva chiamato basiléus, re, e ciò tanto piu si
chiarisce quando si pensa al significato che al re si era venuti dando nelle
monarchie ellenistiche (cfr. sopra). E cosi non è, forse, solo un caso che il
filosofo di corte, assunto da Augusto, suo consigliere e consigliere (una
specie di confessore) della moglie di Augusto, sia stato uno stoico, Ario
Didimo di Alessandria (vissuto tra il 69 a. C. e il primo decennio del 1 secolo
d. C. : cfr. Diels, Dox., 80). E qui è forse interessante riferire un estratto
dell'Epitome di Ario Didimo, riportato da Eusebio (Praep. ev., XV, ·15, 1-9),
in cui Ario Didimo, in sintesi, delinea la concezione generica dello stoicismo:
Chiamano dio l'intero cosmo con le sue parti. E dicono che il cosmo è unico,
limitato, vivente, eterno e divino. In esso infatti sono contenuti tutti i
corpi, e nessun vuoto esiste in esso. ~ chiamato cosmo non 5olo il qt~ale
costituito da tutta la sostanza esistente; ma anche ciò che secondo un'ordinata
disposizione ha una struttura di tal genere. Perciò, secondo la prima
definizione, dicono che il cosmo è eterno; secondo l'ordinata dispo- sizione,
lo definiscono generato e mutevole secondo infiniti periodi, passati e futuri.
E la qualità costituita da tutta la sostanza esistente è il cosmo eterno e
divino. Ma è detto cosmo anche l'insieme costituito di cielo, aria, 160
terra, mare e delle nature che sono in ciascuno di questi elementi. t
detto cosmo anche il domicilio degli dèi e degli uomini, ovvero l'insieme
costi- tuito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle cose che sono nate in vista di
quelli. Infatti, a quel modo che diciamo città in due sensi, come domicilio e
come insieme degli abitanti e dei cittadini, cosf anche il cosmo è come una
città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi hanno il governo e gli uomini
sono i sudditi. Tra gli uni e gli altri v'è comunione, perché partecipano della
ragione, che è legge di natura. Tutte le altre cose sono nate in vista di
quelli. E in accordo con tutto ciò bisogna ritenere che degli uomini si prenda
cura dio che governa l'universo [si confronti anche Platoae, Leggi,. 899d sgg.,
903b sgg.], che è benefico, buono, amante degli uomini, giusto,, e che ha tutte
le virtu. Perciò il cosmo è detto anche Zeus, essendo per noi l'autore della
vita (z~n). In quanto dio fin dall'eternità governa tutte le cose
ineluttabilmente con una ragione concatenata, è detto Fato. t detto Adrastea,.
poiché niente può sfuggirgli [apodidrtiskein]. t detto Provvidenza, perché ha
cura di ciascuna cosa secondo i singoli interessi. Cleante credeva che· parte
dominante [egemonica] del cosmo fosse il sole, perché è il piu grande· degli
astri e quello che massimamente contribuisce al governo dell'universo,. dando
origine al giorno, all'anno e alle altre divisioni di tempo... Crisippo·
identificò questa parte con l'etere purissimo e semplicissimo, perché è il piu
mobile di tutti gli elementi e trascina in giro l'intera traslazione del' cosmo
(Dossografi greci, a cura di L. Torraca, Padova, 1961, pp. 249-50).. Certo
bisogna tener presente che quando si dice stoicismo o plato- nismo, o stoicismo
platonico, o anche aristotelismo stoicheggiante o· platonizzante, in effetto
diciamo qualcosa di molto vago, se non inten-· diamo una vaga visione
d'insieme, uno sfondo culturale, ormai cristal-· lizzatosi ed estremamente
diffuso sia nelle scuole, sia in manualetti di. massime, sul tutto e sulla vita
pratica, circolanti presso il popolo, com'è· largamente testimoniato. Tale
visione d'insieme e legale di un universo• vivente, poteva poi servire, sia sul
piano del diritto e del potere poli- tico, sia sul piano dei singoli
insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un lato ad una morale comune e
religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali del dire (grammatica, retorica
e dialettica) e alle sin- gole tecniche pratiche (le cosiddette singole
scienze); essa risulta compen- diata in manuali che, usando cognizioni e
notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di centoni. Se ciò si vede
bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo di geografia descrittiva
e umana di Strabone (63-25 a. C.), a carattere enciclopedico e informativo, ove
non v'è piu nulla degli interessi mate- matico-scientifici che avevano mosso un
Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di Cnido, altr.ettanto
bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle testimonianze e dai pochi
frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e di Ario Didimo. Vissuti
nella seconda metà del 1 secolo a. C., il primo piu vicino a forme platoniz-
zanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero nello scolar- cato
dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea, Aristone di Ascalona, dal
68 al 51, ascoltato da Bruto e da Cicerone, e Teomnesto di Naucrati), il
secondo a forme stoicheggianti (sembra che lo stoi- cismo ufficiale della
scuola di Atene si sia mantenuto, con gli scolarchi successi a Panezio,
Mnesarco, Apollodoro di Atene, Dionisio, Anti- patro di Tiro, sulla linea di Panezio),
l'uno e l'altro hanno scritto dossografie, opere filosofiche a carattere
enciclopedico, commenti al Timeo, di Platone, alle Categorie e ad alcune parti
della Metafisica di Aristotele (Eudoro: cfr. Simplicio, Schol. in Arist., 6la,
25; Plutarco, De anim. procr. in Tim., III, 2; Alessandro, Metaph., 44, 23),
epitomi (Ario Didimo: cfr. Doxographi del Diels). Entro, appunto, questa
concezione comune platonico-stoica, con ve- nature proprie alla scepsi della
nuova Accademia, in senso ciceroniano (cfr. sopra: e Ario Didimo in Stobeo,
Ecl.; Diels, Dox.), si determinava un tipo di cultura enciclopedica, per cui
poteva servire Aristotele (partico- larmente i libri di logica, usati come
introduzione all'arte del retto ragionare, e i libri naturalistici, biologici,
zoologici, meteorologici), sr come Panezio o Posidonio, e, in specie, i
commenti scolastici ai grandi testi, e, insieme, le dossografie, le epitomi, le
raccolte di questioni trat- tate per problemi e divise per scuole, secondo un
capostipite nella cui linea si facevano rientrare i successori (tale metodo
s'era diffuso, sul- l'esempio di Teofrasto, tra il 111 e il u secolo a. C.,
mediante la Successione dei filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv cpr.ì.oaO<p(J)V, del
peripatetico Sozione originario di Alessandria, che aveva distinto due scuole,
l'ionica e l'italica, e che fu una delle fonti maggiori cui attinsero i
compilatori posteriori, fino a Diogene Laerzio). Un esempio di tali motivi è
rappresentato dall'edizione che delle opere scolastiche di Aristotele, ritrovate
nel 133 a.C., a Scepsi (cfr. sopra, I vol.), consegnate dagli eredi di Neleo al
libraio Apellico (che dal 100 circa, portatele ad Atene, le offrf in pubblica
lettura) requisite da Silla nell'86 a. C., fece, insieme al grammatico
Tirannione, Andro- nico di Rodi (scolarca dal 70 al 50 a. C.: dopo Critolao
erano stati scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo, dei quali poco o nulla
sappiamo). Basti, nel sen~ di cui sopra parlavamo, ricordare quel che Porfirio
dice del criterio usato da Andronico: "Egli divise le opere di Aristotele
e di Teofrasto in argomenti (1tpor:yjL«u(~), mettendo insieme sotto titolo
comune le specula~ioni che trattavano argomento affine (-r~Ì4; o!x&tcxç
01to-&éaetç etç -rcxù-ròv auvcxycxyci>v) (Vita di Plotino, 24, 138); e
162 basti pensare all'ordine con cui si venne a costituire il
corpus aristote- lico (Organon, Fisica, De coelo, De genesi et corruptione,
Meteorolo- gica, De anima, Parva naturalia, libri sugli Animali, Metafisica,
Etica Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica, Retorica, Poe- tica).
Se da un lato è chiaro l'intento di volere istituire il libro della scuola
peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in quest'epoca venga edita,
a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea dell'edizione di Aristofane di
Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in tetralogie, da cui riprese poi
Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il cui Corpus platonicum sarebbe
poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è chiaro l'intento di offrire
una enciclop.edia delle scienze unificate, in un unico sistema. E ciò non
significava affatto che, a cornice del quadro aristo- telico, della divisione
della filosofia (come cultura di fondo) in logica, fisica, etica, non potesse
servire la struttura generale dell'universo, entro i termini teologico-ontici e
del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi stoici e dell'Aristotele di
alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era stato il platonismo, il
primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche, l'importanza delle introduzioni
alle visioni totali di un cosmo ordinato e, perciò, all'astronomia; e le
relative sinopsi sco- lastiche. Edizioni di testi, dunque, introduzioni
generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela tutto un modo di
pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si pubblica, sono i
testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il complesso della
visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per altra via si
costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che vanno sotto
l'eti- chetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è poco indi-
cativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di astro- nomia;
mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficial- mente, le altre
linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non è forse senza
interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone (detto "
peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone stoico), discepolo
di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra, alla morte di
Andronico nello scolarcato del Peri- pato di Atene. Egli avrebbe scritto una
serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle opere di
Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In Cat., 5).
Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non alto valore
scien- tifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a ql«tV6fUV«),
com- posta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria circolare dei
corpi celesti (Kux).~x1J .3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di Cleomede (1
a.C.), e, infine, il De mundo (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il nome di Ari-
stotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la seconda metà
del I secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di Andronico, e
dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (ri- sulta già noto nella
Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il 190 d.
C., ma già contro di esso avevano polemiz- zato Taziano, morto nel 172 e
Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di
alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo:
ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477
sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche al-
l'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il
tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si
resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia conce- zione
dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti
ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dal- l'Epinomide e,
probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo
di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo ha maggiori velleità, e si
presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una
specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni
aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e
ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento,
eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il
pneuma, la Prov- videnza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme
del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi
platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica,
mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Ari- stotele e
nello stoi~ismo un compimento del platonismo. Sotto questo aspetto, il De
mundo, che si apre con un elogio della sapienza (I), per passare quindi a
descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali
elementi, i fenomeni propri a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed
eternità del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la
stessa divinità, trascendente (l'altis- simo) e immanente a un tempo, che tutto
governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio,
mezzo e fine del tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro
di scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di
cui abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festu- gière
(cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teolo- gica dei due
primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente
dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca. Gli
Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi,
moderatore e guardiano dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore
e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi
chiamarlo Destino? Non t'in- gannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle
cause. Vuoi chiamarlo Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è
provveduto ai bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli
senza ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non
è errato: da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo?
Non avrai torto: egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue
parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales quaest.,
Il, 45). Aveva detto Varrone: "Bisogna tener presente che tutti gli dèi e
le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste cose siano
parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di coloro che fanno
di Dio l'anima del mondo. Tutta la vita universale è la vita d'uno stesso
Essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono po- tenze, membri, o
parti" (fr. 15 b Agahd). Il De mundo si colloca, anche cronologicamente,
tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai chiaramente la
koinè cultu- rale-politica quale si venne configurando tra la fine del 1 secolo
a. C. e la prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu che scientifica
teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di questioni na- turali, che,
per il resto, usando notizie acquisite, si delineano in ma- nuali di
volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe di un sapere
ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco inte- resse il termine
architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato richiama
la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato dà il
significato esatto di questa visione misu- rata e normativa dell'universo, cui
ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa dell'uomo,
indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita, da
dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi
ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie
particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola
filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a.C. e i primi
anr1i del I d. C., fondata da Quinto Sestio (nato circa nel 70 a. C.), cui
successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da
Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta-
quattro, della su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei
Sestii." Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di essa,
attraverso Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di
Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli
della Scuola, e di cui Seneca dice che non fu "filosofo cattedratico, ma
vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche
testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la Scuola come configurantesi entro
i termini del piu generico stoicismo, che soprat- tutto doveva servire da
fondamento all'insegnamento etico, alla forma- zione del cittadino, e da fondamento
all'insegnamento di materie par- ticolari: questioni naturali, politiche,
retoriche, di medicina (ricor- diamo di Fabiano i titoli pervenutici di alcune
sue opere: Libri cau- sarum naturalium, De animalibus, Libri t:ivilium), di cui
abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cor~elio Celso della Scuola dei Sestii.
Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrisse una grande enciclopedia, di cui
non è rimasto che il volume De re medica, già esso estremamente indicativo di
un metodo e di un tipo di richlesta (gli altri volumi erano dedicati
all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla filosofia e al
diritto). Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera origi- nale - si
pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco, torse, secondo
Max Wellmann, Celsus, in "Philol. Untersuch.," Berlino, 1913, di un
certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore come fonte per la storia
della medicina e delle scuole medi- che (1), è una preziosa opera divulgativa e
descrittiva, che poteva servire non poco ad una preparazione specifica,
soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei sintomi delle malattie
e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che farmaceutici (V-VI: veri
e propri trattati di farmacologia), degli interventi chirurgici (VIi: è per la
prima volta descritta l'operazione della cateratta) e delle malattie delle ossa
(VIII). D'altra parte non va qui scordato il medico Asclepiade (vissuto circa
tra il 124 e il 45 a. C.), di Prusa, in Bitinia, che nella prima metà del I
secolo a. C., fbndò in Roma la prima, privata, scuola di medicina
(pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo nel 14 d. C.).
Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato . in molte città di Oriente e in
Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di Erasistrato (cfr.
I vol.), ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea degli
atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro costi-
tuzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi stessi, fosse
l'unica dottrina che poteva permettere al medico di ope- rare sulla natura del
corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri, o
determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando,
appunto, "mediante la stessa natura," soprat- tutto per mezzo della
dieta, s( da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri,
rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). Non è
un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in
medicina prevalse la teoria 166 pneumatica, di chiara ispirazione
stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo
discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette
avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il
nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri
a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo
rivelantesi at- traverso il battito del polso. Certo egli cercò soprattutto di
compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di
Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio (metà del I a. C.),
appar- tenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descri-
vere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro
esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d.
C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la medicina
si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il fondamento
della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola pneumatica,
rifacentesi ad uno scritto del Corpus hip- pocraticum, il De flatibus, fu
fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli altri volumi
dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume dedicato
alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra dicevamo. E ciò
tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività degli scienziati
tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno teorici, o meglio
usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei tecnici, dei
meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano strumenti e operano,
a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone di Bisanzio) a
finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di monumenti, di
porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Archi- tettura di Vitruvio),
rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di Roma (cfr.
Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella seconda
metà del I secolo d. C.), anche se man- tenendo quella visione d'insieme,
quello sfondo culturale, quella cre- denza in un tutto ordinato e
architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura (del 25-23
a.C.) del grande tecnico e archi- tetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo
di Cesare e di Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura
delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento,
che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono
8t&.&eatc;; e dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la
distribuzione detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere
adeguata alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e
civiltà, di cui l'espres- sione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro
cap. 1), d'onde, anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica,
non solo 167 perché
l'architetto possa realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui
l'architetto deve avere cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di
meccanica, dei materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia,
delle acque, e cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni
scienza, s1 come di ogni consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si
accompagna a molteplici conoscenze e a istruzioni varie... Essa nasce dalla
pratica e dal ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una
continua e minuziosa meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani,
con l'aiuto di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto
al ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione
della ragione, le cose che si eseguiscono... Né l'ingegno senza la scienza, né
la scienza senza l'inge- gno può fare un compiuto artefice. L'architetto deve
essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria; deve conoscere le
leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non
essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere
l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso agli
inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran
numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno
tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa
facil- mente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina), infatti
come un sol corpo ~composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla tenera
età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche
delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze,
donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose (1, l, 1-2, 9,
44-45). Di Enesidemo sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso,
nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio,
Myriobiblon o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo
periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22)
- il che può essere abbastanza interessante relativa- mente alla conoscenza che
Filone di Alessandria poteva avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima
seguace dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i
nuovi accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che
fa pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235,
il quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del-
l'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico
prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo
Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione
di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura
romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani
"a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di
famiglia illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari"
(Fozio, Myr., 169b). A parte un Tu- 2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a
Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera
intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o
Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo na- tivo d.i Egea).
Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo
noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe
vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo.
Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno
alla ricerca, Schizzo introduttivo al pir- ronismo, Elementi, Prima
introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei disce- poli di Enesidemo
(Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema
della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia
biografica. 179 berone piu
antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di
Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente
vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone,
che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che,
riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma,
occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di
pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nel-
l'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che
poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto libe- rarsi
dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. In
effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani
appare con chiarezza che la polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro
i qeo-accademici, "stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un
appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo
di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione
della realtà, ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità
umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda
della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che
viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso
la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova- Accademia,
in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente
cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo
d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di
lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica" : Pyrrh. hypot., l,
235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu
antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164),
sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi)
mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio"
(cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne clas- sificati cinque
(cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere
esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo,"
si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una
testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i
pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e
la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32,
tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263,
un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in
dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180
o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave
allo Zeller, il.quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici
Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo
dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre
invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si
può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo
al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che
discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui
Cicerone ri- prendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo
Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri
che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio
Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro- niani
potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al
"recente" di Aristocle e all'"antico" di Sesto (ma, in
fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la
conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad
altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome,
mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli
otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spie- gare le cause,
su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che Enesidemo
"avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava con
Pirrone e antico a Sesto che lo raf- frontava con filosofi a lui
posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, p. 278). I Discorsi
pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1
secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi,
attraverso Antioco e Cicerone, in una generica con- cezione stoico-platonica,
accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente
scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una
corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione
oppone una ragione di egual valore" : Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8,
"senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma,
cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di
ricerca da parte delle scienze": Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe
mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di Fliunte,
avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene, Sarpedonte,
Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe stato
maestro di Enesi- demo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto, il
medico Eraclide di Eritrea?). 181
Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu tardi, biso- gnerebbe
allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse stato un pensatore
che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di Timone, in
polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo gene- rico, contro il diffuso
dogmatismo scolastico. Egli,.tuttavia, traspor- tando questi elementi su di un
piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che non a
Pirrone, avrebbe criticamente ordi- nato i tropi (dei cosiddetti tropi di
Enesidemo in Filone ne rintrac- ciamo almeno otto), mediante cui mostrare la
necessità della "sospen- sione del giudizio" (epochè), anche nei
confronti del "probabilismo," forse praticamente e politicamente
utile, ma teoreticamente e scienti- ficamente un compromesso, al servizio dello
stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero
stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine
assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il
sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò
che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che
sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si
venivano compilando le "summe" del sapere stoico, platonico,
aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'in- sieme,
cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso orga- nico gli
argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di con- tro alle
evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo plato- nizzante e
aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica
e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente
filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha
scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua
dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi
rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema;
abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta
d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di
qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di
notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica... In
origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la
tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina
dello spi- rito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo;
l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto
del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla
stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla 182
tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico
espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di
applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in
vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de
l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, pp. 553,
554-55). Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro
all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta
l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo
pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso
colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che
permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filo- sofico e in una
discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere
molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso
Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il
"criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio
siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla
giustifica l'affer- mazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla
coscienza di qual- cosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé,
né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può
avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fi- sica, -'-
nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o nega- zione di una
rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non
è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra
le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo
strutturarsi della realtà in rap- porti di inerenza. Di qui scaturisce la
critica sia alla logica propo- sizionale di tipo stoico (in cui l'uso
predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia all'analitica
di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ;~ un
rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano elaborati da
Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni in quanto
tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto rappresentato, e
che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in senso
aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di ine- renza reale
tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso
stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli
uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1
via. 183 Dagli scettici piu
antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i dieci modi
[tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio
[epochè], che chiamano anche, con vocaboli sino- nimi, regole [16goi] e figure
[t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota negli animali; 2) alle
differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle diverse costituzioni dei
sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni, agl'intervalli, ai luoghi; 6)
alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni degli oggetti; 8) alla
relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado; IO) alle istituzioni,
costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogma- tiche. Accettiamo questa
serie dandole un .valore convenzionale... Dicevamo essere la prima regola
quella secondo la quale le stesse cose non producono le medesime
rappresentazioni sensibili, in conseguenza della differenza degli animali.
Questo lo deduciamo dal modo differente del loro generarsi e dalla differente
costituzione dei loro corpi... Se le medesime cose appaiono dif- ferenti ai
differenti animali, potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'og- getto; ma
quale esso sia in realà, ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot., I, 36-78;
cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio, IX,
79-80)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si
riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli
uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla
sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono
tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo,
per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro... Pertanto è
necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare
alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 79-89; cfr. anche Filone
l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 80-81). Terzo modo è
quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle sensazioni. Che le sensa-
zioni differiscano tra loro è manifesto... Ciascuno dei fenomeni sensibili
impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci si mostra liscia,
profu- mata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa possieda,
effettivamente, que- ste sole qualità, o se possieda una qualità unica e .ci
appaia differentemente in conformità della differente costituzione degli organi
del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e alcune non
cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche Diogene
Laerzio, IX, 81)•.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle circostanze
(chiamiamo cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo ch'esso va
considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o innaturale,
nell'essere svegli o addor- mentati, in rapporto all'età, all'essere in moto o
in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o esser sazi,
all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere coraggiosi o
paurosi, addolorati o contenti... Noi assentiamo maggiormente a ciò che ci sta
davanti e c'impressiona nel pre- sente, che a ciò che non ci sta davanti... t
impossibile dirimere questa discre- panza di rappresentazioni. E invero, chi
preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a un'altra, o lo fa
senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma non lo può fare n~
con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di una dimostrazione:
in questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà un giudizio sulle
rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un criterio. Ora questo
criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non meriterà fede; se,
invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero senza recare una
dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione. Se lo
affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una
dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia
vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per
la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? Se senza,
non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di
aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la
dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per essere
confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di una
dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere vera,
se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero, se la
dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e
dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra
meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da
quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né
senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rap-
presentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappre-
sentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni. Talché,
anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospen- sione del
giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l, 100-117; anche
Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 82). Il quinto
modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e ai luoghi; e
invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono differenti... Ora,
poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a una tale distanza,
in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle rispettive
rappresentazioni sensibili..., necessariamente, anche per questo modo,
riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.; anche
Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà questo
tropo come settimo)... Il sesto modo è quello che si riferisce alle mescolanze,
per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade sotto i nostri
sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è possibile dire
quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e dall'altra cosa
insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia l'oggetto
esteriore nella sua realtà pura ... A causa delle mescolanz_e, i sensi non
percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno
l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso
intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che viene
annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio, IX,
84-85, che dà questo tropo come sesto)... Il settimo modo è quello che si
riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente
per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia co- stretti
a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è mani- 185 festo. Per esempio, la
raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem- plicemente, fuori del
composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto del corno appare
nera... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della
realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De
ebrietate, 189 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come
ottavo)... L'ottavo modo è quello della relazione, e per esso in- feriamo che, tutto
essendo relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura delle
cose. Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce
"è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto:
"tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma
in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno
e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a
quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra rispetto
a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso anche
precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni cosa
appare cosi o cosi, relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a questo
senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce insieme
con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi relativamente a
questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a questa quantità e
posizione. Ma anche con ragio- namento proprio si può concludere che tutto è
relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto differisce da ciò che è
relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso relativo; se differisce,
poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice, infatti, che differisce
relativamente a ciò da cui diffe- risce), anche l'assoluto è relativo... Tutto
appare relativamente a qualche cosa. Ne segue che dobbiamo sospendere il
giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h. hypot., l, 135-140; Filone
l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 87-88, che dà questo
tropo come decimo)... Il nono modo è quello che concerne gli incontri continui
o rari di una cosa... Le cose rare paiono preziose, quelle abituali e
abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141, 144; cfr. anche Diogene
Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono)... Il decimo modo, che ha
attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che si riferisce
agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e alle opinioni
dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa, ora a
ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni
Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i
Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre,
invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a
indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando
l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei Laconi
a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa, quando
diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli uomini,
talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di qualche cosa,
che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo- strazione)
opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186
uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti sono
gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri immortale; ché
per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza degli dèi, per gli
altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi costumi a leggi; leggi a
condotta; costumi a credenze favolose; costumi a opinioni dogma- tiche, e cosi
via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non potremo affer- mare quale sia
nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso appaia in rap- porto a questo
indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in rapporto a ciascuno degli
altri fatti. Anche per questo è per noi necessario sospen- dere il giudizio...
(Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo, D~ ~bri~ tate, 193 sgg.;
Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come quinto). Secondo Sesto
Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a tre ("ci sono tre
modi che comprendono tutti questi: quello che di- pende dal giudicante - i
primi quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o sensazione o si
trova in una qualche circostanza - quello che dipende dal giudicato - il
settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il quinto, il sesto,
l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo: "a loro
volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché questo sarebbe il
piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi,
specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non hanno
alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che
paiono persuasivi, non per assi- curare che siano veri..., ma per condurre alla
sospensione, col fare appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e
di quelli dei dogma- tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 79).
Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso che
presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su
rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi,
ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. Sono sempre costruzioni e
discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso teoreticamente,
donde l'im- possibilità di un sapere assoluto. Tutta la difficoltà -
insormontabile - sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea, che è tale in
quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda a ciò di
cui è rappre- sentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso, in quanto
articola- zione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al discorso della
realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle rappresentazioni,
sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività unificatrice e
giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati), afferrante la
"verità," dovrebbero prima giustificare se stessi, trovare cioè in sé
il criterio per cui si può essere certi del "vero" e della
"verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge al
concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei
confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla
verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta
all'attività egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico,
Pyrrh. hypot., Il, 80-84). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura
della realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il
vero sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il
senso e l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti
esterni, ma, se mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque
sarà dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono
impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e
contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto
Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto
all'intelletto: donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti
sentiti, non imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la
natura, ma solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso
esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della
generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun
che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo
giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con
altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose
(Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti
aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile
(vo'l)'t'6v), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né
intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il
sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre,
invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai
singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e
certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei
singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero,
ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio,dei singoli;
solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero
non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la
visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi
anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente
con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si
conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è
intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un
assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà essere percepito comunemente da
tutti o individualmente da alcuni. Ma non può accadere che il vero sia
percepito intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni
individualmente: non può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e
se compreso individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è
oggetto di contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è,
ad un tempo, sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto
intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il
vero è affatto sen- sibile e affatto intelligibile, è cosa che non può
avvenire: i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili,
gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, vice- versa, i sensibili con
gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte
le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui,
di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia affermare che parte del
sensibile sia vero e che vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda,
infatti, se sia non contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose
false siano sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di
meno. E, cosi, ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu
l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri,
né tutti falsi. Non vi è, dunque, il vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math.,
VIII, 40, 48). In altri termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso,
che presumano significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in
e.ffetto, insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la "sospen-
sione," l'epochè). Da questa serie di argomentazioni (i dieci tropi, le
aporie sul "vero"), che Fozio (cit.), nel suo sunto dei Discorsi
pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede bene come
Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni: le prime volte a mostrare
l'im- possibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia mediante i
segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni significanti
quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la coincidenza tra
significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.), un grosso pro-
blema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto libro Enesi- demo
mette in discussione i segni delle cose oscure...": Fozio, cit.); le
seconde (che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a sovvertire i
ragionamenti intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel quinto
libro... propone argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nes- suna cosa
è causa dell'altra...": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra serie di
argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio degli stoici
dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile all'invisibile
proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già in Crisippo la dottrina
dei segni si prestava a una doppia inter- pretazione (cfr. I vol.). Posto che
l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa nell'anima l'immagine
della cosa, ma che ogni rappresentazione è una modificazione, che ci a.fferra a
seconda della sua evidenza, e a cui diamo l'assenso, non tanto perché
corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo conoscere per sapere se corrisponda
o no all'impressione). ma in quanto fortemente presente, ogni rappresentazione
è un segno, da un lato "rammemorante" una impres- sione, dall'altro
lato "rammemorante," data quella rappresentazione, altra
rappresentazione, che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno
che, osservato già insieme con il significato, per esserci dato insieme con
tutta evidenza... ci conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora
non ci si dia con evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si
dice che c'è stata una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il,
97-102). Sotto questo aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara
" logica proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata,
appunto, sui segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo medico
~mpirico e metodico, ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici),
ove la veracità o meno del discorso non presume affatto significare il discorso
stesso della realtà. Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma;
certo, subito dopo di lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne
interpretata in quanto segno indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante
l'oggetto che ha provocato l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso
significherebbe il di- scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione
verrebbe a significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta
im- pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a
porre cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non
osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la
propria natura e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i
movimenti del corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot.,
Il, 101). È chiaro che la critica degli scettici piuttosto che
all'interpretazione del "segno" come rammemorante, si rivolgesse al
segno interpretato come indicativo e significante da un lato la cosa per sé,
dall'altro lato la causa e la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico -
non parliamo contro ogni segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che
sembra essere state inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102)... Il
segno indicativo è inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato
e-mdatore di esso. Se è rela- tivo deve assolutamente esser compreso insieme
con il significato, come il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc.
Se invece è rivelatore del significato, deve assolutamente esser compreso prima
di esso, perché, conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della
cosa resa nota da lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere
conosciuta prima di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere
compresa: impossibile quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore
della cosa relativamente alla quale si concepisce... Impossibile dunque
concepire il segno indicativo... (Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che
questa già fosse stata la critica di Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv.
math., VIII, 49 sgg.) può sostenere che Enesidemo a coloro che affermavano che
la causa si coglie non attraverso i sensi immediatamente, ma per analogia
attraverso i segni indicativi, rispon- deva che ciò è contraddittorio, posto
che la rappresentazione è dall'im- pressione, ché mai si può avere
rappresentazione di ciò di cui non vi è impressione; poiché, d'altra parte,
questa o quell'impressione non modifica tutti allo stesso modo, pur dando
valore al segno rammemo- rativo, resta in dubbio la sua universalità, su cui si
fonda la pretesa ch'esso segno indichi e significhi l'universalità oggettiva
delle conse- cuzioni. In realtà - obbietta lo scettico - il segno è solo un
fatto che ne ricorda un altro di cui è stato in passato il concomitante
(passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro) (cfr. L. Robin, cit., p. 553),
senza pretendere ad alcuna verità. Enesidemo, nel IV libro dei Discorsi pirroniani
cosi dice: se le rappre- sentazioni delle cose [fenomeni] ugualmente appaiono a
tutti coloro che sono stati ugualmente modificati e i segni indicano quelle
attuali rappre- sentazioni, è necessario che anche i segni appaiano a tutti
coloro che sono ugualmente modificati. Ma i segni non appaiono ugualmente a
tutti coloro ugualmente modificati, per cui i segni non sono segni delle
rappresenta- zioni (Sesto Empirico, A d v . math., VIII, 215 sgg.). La critica
scettica si rivolge cosi all'illusione che l'argomentazione per analogia abbia
validità scientifica sul piano della verità oggettiva, si rivolge cioè alla
gratuita trasformazione di una constatata "conse- cuzione" in una
concatenazione causale risalente a ipotetiche cause prime per sé, agenti e costituenti
la realtà. Di qui gli otto tropi di Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la
possibilità di passare dai dati dell'esperienza alla loro causa di cui non si
ha affatto espe- rienza, per, poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle
cause. Come enunciamo i modi della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche,
alcuni espongono i · modi, per i quali, dubitando delle spiegazioni delle cause
particolari, si arresta la superbia dei dogmatici, dovuta, particolar- mente, a
queste spiegazioni. Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali,
confutando qualunque dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla
apparire difettosa. E sono, secondo lui: l) quello per il quale il genere della
spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi,
non ha una conferma palese dalle cose che cadono sotto i sensi; 2) quello per
il quale, essendo largamente consentito di spie- gare in molte maniere la causa
cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola; 3) quello per il quale di
fatti che accadono ~on un ordine, adducono cause che non ammettono ordine
alcuno; 4) quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili,
credono di aver percepito, anche, come accadano quelle che non cadono sotto i
sensi, mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo
uguale alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e
distinto; 5) quello per cui tutti, per cosf dire, spiegano le cause seguendo
ce~e loro proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via
comunemente ammessa e accettata; 6) quello per cui spesso accolgono quello che
si spiega con le loro proprie ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed
ha la medesima forza di persuasione; 7) quello per cui spesso adducono delle cause
che contrastano, non solo con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi;
8) quello per cui spesso, essendo ugualmente incerto e quello che sembra·
apparire in un dato modo e quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di
nozioni incerte costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge,
poi, che non è impossibile che alcuni, nel rendere ·ragione delle cause,
falliscano secondo altri modi misti, dipendenti da quelli che abbiamo enumerali
(Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 180-184). Se mediante gli otto tropi,
riferiti da Sesto come propri di Enesi- demo, è messa in discussione la
possibilità dell'inferenza dall'effetto alla causa - ed è evidente qui la
polemica non solo contro gli Stoici, ma anche contro l'epicureismo e
l'induzione aristotelica, - per cui si giunge alla sospensione del giudizio
anche relativamente alle cause, tanto piu semplice diveniva ora la discussione
che <;onduce al dubbio sulla possibilità di spiegare gli effetti, partendo
da cause che pur si sono dimostrate puramente ipoteùche, di dimostrare che
l'una causa possa pro- durre un effetto e che, alla fine, il rapporto di causa
ed effetto sia proprio della stessa struttura della realtà e non dovuto ai
rapporti ram- memorativi tra le impressioni ricevute. Anche queste sembrano
argo- mentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto Empirico, il quale appunto cita
Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX, 218-266), insieme a tutta una serie
di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica e la dia- lettica stoica
(cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197; Adv. math., VIII, 300-315,
367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp. 308-312). Veniva di qui,
infine, entro i termini della sistemazione in un sol corpo delle argomentazioni
degli scettici, la problematica delineata da Enesidemo sulla possibilità di
definire l'essenza del Bene e delle con- dizioni che permettono una vita
virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu Enesidemo parlava negli
ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi pirroniani). Secondo Sesto
Empirico (Adv. math., X, 42) 192 Enesidemo avrebbe escluso
l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un bene per sé quale veniva definito
dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene Laerzio, IX, 107, e da
Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 - che il bene, non avendo una sua
essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto alla sospensione del
giudizio (Diogene Laer- zio, cit.), che determina un certo piacere (Aristocle,
cit.). Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza della realtà (tanto
è possibile dire che il fondo della realtà è costituito di atomi, quanto dire
che, al limite, sono da porre una materia passiva e un principio attivo),
ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene, teoreticamente è
da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando, piu umilmente,
di non ingannare se stessi e gli altri, ricon- ducendo l'indagine sul piano
umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le conclusioni di
Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra concezione
filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale fosse la
"verità,• ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine
indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde, contraddittorie,
qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come "verità," e,
quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo quadro, è difficile
vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che l"'indirizzo scettico è
una via che conduce alla filosofia eraclitea, in quanto," commenta Sesto,
"l'apparire dei fatti con- trari circa lo stesso oggetto precede
l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e gli Scettici dicono,
appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso oggetto, mentre gli
Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro esistere"
(Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). Sesto, e si capisce, vede in questo
una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude assolutamente che una
posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione di tipo eracliteo,
che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i contrari, è
anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non fenomenica e perciò è
una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi pirroniani, né
Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del pensiero di
Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima sepa- rata dal
corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla Tertulliano (De
anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si trova in Filone
l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione scettica,
ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo di
Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che secondo
Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal- tarsi in una posizione dogmatica
di tipo eracliteo, trovandovi un proprio fondamento ontico, e questo
sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se
arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti
contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio
'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe
essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che...": Sesto
Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per
incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda,
ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo Eraclito, Enesidemo
affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math., X, 216-217:
"seguendo Eraclito Enesi- demo disse che il tempo è corpo... Cosi nella
Prima Introduzione..."; A.dv. math., X, 233: "Enesidemo dice che per
Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX, 337; VIII, 8), alcune delle
quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che all'eraclitismo, altre come
piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte lo stesso Sesto non discute
quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol corpo di pensiero, ma,
dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di quello che poteva essere
l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non dice mai che quelle tesi
eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi pi"oniani, mentre una
volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi perduta, la Prima
Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga discussione
sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è chi ha
sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una posizione
dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato nell'eraclitismo il
fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che Enesidemo sia pas-
sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi dogmatica a. una
seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC] scettici- smo,
alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla posizione car-
neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi pi"oniane, l,
210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo scetticismo
all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp. 314-330, al
quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione delle varie
ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap- penheim,
all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard,
al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. In effetto nulla vieta di pensare
che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi
pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe
essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio
dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei
confronti dei "dogmatici," abbia raccolto e siste- 194
mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso l'esposizione che
della "sospensione del giudizio" aveva offerto Clitomaco, il
discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per non cadere
nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il "probabile" e l'"ipotesi";
o l'opzione, per rendere possibile l'azione e il discorso, di una qualche
opinione, fondata sul criterio della "probabilità" (dr. s<r pra),
Enesidemo cosi poteva dichiarare fallita ogni presunzione della filosofia,
costretto, in effetto, a rimanere su tutto in silenzio (afasia), in un ritorno,
davvero, all'originaria posizione di Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere
una critica ed un'analisi del linguaggio. Duplice è- l'interesse che presenta,
storicamente, la posizione di Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a.
C., egli, pienamente innestandosi nell'atmosfera_ culturale di quel tempo,
viene sistemando in un corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei
problemi, propri delle posizioni scettiche, che probabilmente s'erano'già
venuti delineando con Tolomeo di Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della
posizione scettica rifacendosi ad Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro
lato, entro i termini di una certa cultura, oramai, cristallizza- tasi,
divenuta patrimonio comune, comune concezione, dogmaticamente accettata,
Enesidemo mette in crisi, proprio attraverso la sua stessa sistemazione, quella
cultura, quella coni:ezione di fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza
che viene ad avere, se considerato entro i termini della cultura quale si er,a
venut:t determinando tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C.
E ciò tanto piu sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un
fenomeno isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci
di Ene- sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa
il nome Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea: IX,
106, 116): non piu che il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti
sul piano della posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione
dei tropi mediante cui giungere alla sospensione del giudizio, alla
constatazione che ogni proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so
di essenze è un non-giudizio, basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul
fenomeno. ' Di Zeucsippo di Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis,
suo seguace, che avrebbe conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX,
106) dice che' scrisse un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo
significativo, già usato, non a caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che
testimonierebbe un'attività simile a quella di Enesidemo, in una raccolta di
ragioni pro e contro questioni molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni
pretesa di giungere all'affermazione di un'unica verità, e che richiama la
definizione data da Sesto Empirico dello scetticismo: 195 Lo scetticismo esplica il suo
valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi
maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni
contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospen- sione del giudizio, quindi,
all'imperturbabilità (Py"h: hypot., I, 8). Di Zeucsis fu, a sua volta,
seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe composto un
libro, intitolato Agrippa ("Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea,
pongono solo i feno- meni": Diogene Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre
che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il pensiero di
Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX,
109), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore
Tiberio. Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la dif- fusione
del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d.C. e che può essere
indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come
sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus,
Lipsia, p. 137; anche Dal Pra, op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea
furono contemporanei di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene
Laerzio (IX, 116) subito dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su
Agrippa, e dice che seguace di Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia,
che, medico, rifacendosi allo scetticismo dette un fondamento scientifico e
metodico alla medicina, in un atteggiamento strettamente empirico,
riallacciandosi ai medici della tradizione empirica, vissuti, appunto, nel I
secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C.
e il 150 circa. Cosi, evidentemente, Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera
entro queste date, per cui dovremmo, anche se approssimativa- mente, collocare
l'attività di Agrippa (già noto e che deve avere avuto un'importanza di primo
piano sul rinnovato scetticismo, se Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera)
sulla metà del I secolo d. C. Sesto Empirico non cita mai il nome di Agrippa,
anche se ne rife- risce i cinque tropi, che sappiamo essere stati da lui
formulati attraverso quanto ne dice Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per
altro, attinge nel- l'esposizione dei cinque tropi, a Sesto Empirico. In realtà
Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di origine, insegnamento, nulla sap-
piamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo alle linee fondamen- tali
dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e,
soprattutto, si venne costituendo in un appello alla criticità della ricerca,
in un netto rifiuto della filosofia intesa come concezione universale, in una
programmatica indagine mediante cui la filosofia viene intesa come metodologia
delle condizioni che permettono un pos- sibile sapere. Sotto questo aspetto si
capisce perché Sesto, pur esponendo i cinque modi di Agrippa, o meglio
delineando i momenti mediante cui si sono venuti istituendo gli argomenti
principali della posizione metodologica, non faccia il nome di Agrippa, e
parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto ai "piu
antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad Agrippa, lo
scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo critico-logico. I. cinque
tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un particolare rilievo, ché, con
estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto il lavorio di precisazione dei
modi con cui rimettere in discussione le conclusioni di una concezione, frutto
di tutta una cultura e di una tradizione, con cui rimettere in discussione ogni
soluzione metafisica. "Tali modi gli Scettici piu recenti espongono, non
già perché respin- gano i dieci, ma per confutare, con maggior verità, con
questi e con quelli, la temerità dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh.
hypot., 1,177). Gli Scettici piu recenti tramandano questi cinque modi della
sospen- sione del giudizio: l) quello che dipende dalla discordanza; 2) quello
che rimanda all'infinito; 3) quello che dipende dalla relazione; 4)
l'ipotetico; 5) il diallele. · Il modo che dipende dalla discordanza è quello
per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia
insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di
preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo col sospendere il
giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è quello in cui ciò che
si reca a prova della cosa pro- posta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta,
di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova, all'infinito; si che non
avendo noi da dove comin- ciare un'argomentazione, ne consegue la sospensione
del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione è quello in cui diciamo che
l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al giudicante e al resto che
insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale
esso sia real- mente. Si ha il modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati
all'infinito, cominciano da qualche cosa che essi non concludono per via di
argomen- tazione, ma pretendono di assumere, cosi semplicemente, senza
dimostra- zione, per una concessione. Nasce il diallele, quando ciò che deve
con- fermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla
cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere
l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico,
Py"h. hypot., I, 164-169). Il commento piu pertinente sui cinque tropi di
Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita il conto di riportare, insieme
ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima dovuta sempre agli ~cettici piu
recenti. Dice, dunque, il testo relativamente ai cinque tropi: 197 Che ogni ricerca si possa ricondUrre
a questi tropi, lo dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o è sensibile
o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è intorno ad essa discordanza. Infatti
alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è vero, altri, solo l'intelligibile,
altri, in parte il sensibile, in parte l'intelligibile. Ora che si dice? che
questa discordanza è solubile o insolubile? Se insolubile, affermiamo che
bisogna sospendere il giudizio, ché intorno a ciò in cui v'è insolubile
dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile, domandiamo sulla bl!se di
che si risolverà. Cosi, per esempio, il sensibile... si giudicherà sulla base
di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base di un sensibile, poiché
appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche questo avrà bisogno di
altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è seJ:lSibile, a sua volta, essa
pure avrà bisogno di un'altra cosa che la comprovi, e cosi all'infinito. Che se
il sensibile dovrà essere giudicato sulla base di un intelligibile, poiché
anche sugl'intelligibili vi è discordanza, anche questo intelligibile avrà
bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di che sarà provato? Se sulla base
di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente, nell'infinito; se sulla base di un
sensibile, poiché a prova di un sensibile è stato assunto un intelligibile, e a
prova di Wl intelligibile è stato assunto un sensibile, si induce il diallele.
Se, poi, colui che con noi disputa, per fuggire questa difficoltà, credesse di
assumere, per concessione, e senza dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione
di ciò che segue, farà capo al modo ipotetico, che non può dare risultato. E
invero, se colui che suppone merita fede, noi, anche, supponendo il contrario,
non saremo meno degni di fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa
di vero, lo renderà sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con
una argomentazione; se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione
sarà marcio. Che se il supporre giova in qualche modo per provare, supponga
egli senz'altro ciò che è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per
mezzo della quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è
assurdo supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre,
anche, ciò che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi,
è chiaro: sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che
qualunque cosa sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi.
Alla stessa maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la
discordanza è irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa
il giudizio. Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un
intelligibile, spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n
sensibile, al diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di
discordanza, né potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché,
per tal modo, si cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile,
come l'intelligibile di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò,
assumesse qualche cosa per ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma
anche relativi sono gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente
all'intelligenza, e se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci
sarebbe discordanza di opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198
stato ricondotto ai cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si
sospenda il giudizio intorno alla cosa proposta... Tramandano anche due altri
modi di sospensione. Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso
di per sé, o si comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di
per sé, dicono evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili
e intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio,
né sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non
degno di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si
possa comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà
sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se
invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso
comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per
le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179).
"Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo,
presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una mag-
giore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un
intendimento di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle
maniere tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema
dogmatico, nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il
maggior numero possibile di posizioni dogmatiche stori- camente definite, ma
anche di includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione
insomma obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non
in Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo;
ha infatti con- siderato la questione della discordanza esistente sia nella
filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo)
come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot-
tavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore
vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua
delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si
può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo
passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i
dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro
sistemi e quali tipi di giustifica- zione essi siano soliti addurre di essi;
bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico
tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo
Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente
autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo all'infinito
o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che, rinunciando
all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente verso_ il
dial- 199 lde. Se pertanto
il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi- niti contrasti che si
verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro- cedere oltre, si troverà
nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade: processo
all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre strade conduce
alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha abbozzato una sistemazione
delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non empirici, ma
universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è quella che
mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla ricerca della strada su cui
fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal riconoscimento
eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile; la seconda tappa
è costi- tuita dal tentativo di fondare il sensibile sul sensibile e l'intelligibile
sull'intelligibile (processo all'infinito per la sostanziale omogeneità dei
termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la terza tappa è data dal
tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e l'intelligibile sul
sensibile (diallele ed eterogeneità dei termini su ~ui si vorrebbe gio- care
per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal tentativo di uscire sia
dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a. diallele, mediante
l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa quarta tappa si
ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dog- matico non ha via di
uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfi- ducia nella costruzione
dogmatica, prospettando tutte le forme fonda- mentali in cui essa poteva
organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è diventata
rispettivamente: affermazione del con- trasto, vanità dell'allargamento su
terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe d'un'affermazione che, allargandosi,
non perde la sua arbi- trarietà; vanità del cosiddetto processo logico o
dimostrativo, con la persuasione che esso non è mai altro che un circolo, senza
alcun pro- gresso possibile; vanìtà dell'evidenza e sua relatività. L'istanza
critica espressa in questi termini da .Agrippa risulta dunque piu ampia, pi6
forte, pi6 .organica e precisa di quella espressa da Enesidemo; Agrippa è
riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla considerazione con- tingente;
di questa o quella posizione dogmatica, per inv.::stire pi6 diret- tamente il
dogmatismo nella sua generalità" (op. cit., pp.. 339-41). Di non poca
importanza è poi ricordare che, entro i termini Enesi- demo-Agrippa (seconda
metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.), 1'indirizzo scettico che si
viene costituendo in metodo, si incontra con l'indirizzo della medicina
empirica. Certamente separati in principio (l'indirizzo medico teorico e
l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di loro, risalgono a Ippocrate:
sappiamo già il significato filosofico e metodologico che la medicina assunse
proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I vol.). Probabilmente la denominazione •
medici teorici" (loghil(6t), 200 risale a un'opera in sei
libri del medico Eraclide di Taranto, del I se- colo a. C., intitolata La
scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu discepolo di Tolomeo di Cirene,
con il quale, sembra, si sia, di contro all'Accademia, restaurato l'originario
pirronismo, avrebbe metodologi- camente fondato l'indirizzo empirico della
medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà del I I I sec. a. C.), Serapione di
Alessandria (fine del III, inizio del n a. C.), Glaucia di Taranto e Apollonio
il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.). Serapione - scrive Celso - primo fra
tutti professò che la medicina non ha nulla a che fare con la scienza
razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle scienze sperimentali...
Coloro che prendono il nome di em- pirici, a motivo dell'esperienza, tengono
conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però sostengono essere ozioso
disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni •naturali, essendo la
natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è chiaro per le discordi
opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi potuto ottenere consenso
in tale que- stione, né tra filosofi, né tra gli stessi medici. Se si
considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili; se si considera la
cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò possibile negar fede alla
disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De re medica, l, proemio). Anche se
non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di Enesidemo, di cui parla Diogene
Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto, certo è che dopo Eraclide ed
Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della medicina empirica
s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due indirizzi
confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che dopo
Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà del 1
secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni empiriche, Lico
di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio e un certo
Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, p. 188; anche Dal
Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che dell'opera intito-
lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1 secolo d. C., offre
Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui "dialetticamente," d4:e
Fozio; su di una stessa: questione di medicina si avanzano cin- quanta
argomenti pro e contra, e ricordando che Diogene Laerzio nel- l'elenco dei
seguaci di Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno Zeucsis, detto dai "piedi a
squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera inti- tolata Duplici
discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discus- sione varie opinioni con
il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis medico sia da
identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo certo dire. Certo è che la
vicinanza tra medici empirici e indi-
201 rizzo scettico, senza dubbio chiarissima in Menodoto, è
indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto nel I secolo d. C. dallo
scet- ticismo, di contro alla filosofia verbosa, in una precisazione di quelli
che sono i limiti e le possibilità della ricerca, che non può non svol- gersi,
per essere utile e scientificamente valida, sç non sul piano umano, nella
determinazione di nessi e rapporti che si possono cogliere solo entro i termini
dei "segni rammemorativi," ragionando sui dati del- l'esperienza,
donde i tre punti fondamentali del metodo empirico della medicina, del resto
già presenti nel tripode empirico di Serapione di Alessandria: autopsia
(osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona), historie (raccolta
sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici), mimesi o, se vogliamo,
semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad altro segno, determinare
volta per volta il quadro cli- nico della malattia e il rimedio pratico da
adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause fondate sù concezioni
generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici dogmatici), per cui poteva
servire la polemica e l'appello all'autonomia del discorso scientifico, mai
chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a nuova ricerca (sképsis), de-
lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che, pur per polemica rifa- cendosi
al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume di fronte alla cultura
quale si era venuta configurando tra la fine del I secolo a. C. e il principio
del I d. C~ ben altro atteggiamento piu strettamente logico-metodologico. La
conclusione sull'insignificanza e l'illogicità di qualsiasi discorso, che
voglia significare il discorso del reale (quale ch'esso si creda dimostrare che
sia), poneva in·crisi tutta una cultura acquisita, la fiducia nei risultati di
certe scienze (fisica, astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione
enciclopedica; si rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella
stessa educazione su basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico
all'ontico, richiamando ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni istitu-
zionalizzazione del sapere. Certo, pur discusse criticamente le possibilità
umane di cogliere (di là da ciò che si presenta nella rappresentazione dei
sensi e della ragione e in ciò che mediante l'attività soggettiva si viene
costruendo) l'essenza delle cose e la ragion d'essere del tutto, il discorso della
realtà, negato che sul piano ontologico si possa dire il "vero," che
perciò non esistono né il vero né la verità, proprio nella negazione di un
qualsiasi passaggio dal logico all'ontico, restava fissata e presupposta
l'esistenza di una realtà, ignota e oscura, oltre le possibilità dell'umano
discorso e dell'umana comprensione, ma senza dubbio essa, in quanto realtà, se.
afferrabile, fondamento della verità e della condotta della vita. Si sarebbe potuto,
sul piano scettico, andare piu in là: una cosa è giun- 202 gere a
negare la possibile conoscenza della realtà (il· che presuppone già una realtà:
materia, anima, Dio), altra cosa, non presupponendo alcuna realtà, vedere come
si pongono, discorrendo, le realtà. In altri termini, giunti alla sospensione
del giudizio sulla realtà, si sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi
restando gli argomenti scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si
costituisce la realtà attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il
giudizio, e la storia dd giu- dizio, si costituisce questa o quella fisica,
questa o quella matematica, questa o quella condotta di vita: non vere se si
presuppone una realtà - sia pur ignota e acatalettica, -vere se si possono
vedere, nel tempo, come costruzioni, in cui si annulla la dualità
soggetto-oggetto. Di fatto ciò non avvenne. Di. fatto il richiamo,
fondamentale, dello scet- ticismo a una piu approfondita consapevolezza
critica, si risolveva, nelle sue conclusioni estreme, da un lato in un'esatta
dimostrazione che ogni pretesa filosofica a significare la realtà è un
non-giudizio, una proposizione senza senso, dall'altro lato in una assoluta
"sospen- sio~e dd giudizio," ché, accantonando la realtà (e perciò
presuppo- nendola) e negando verità e significanza a ogni giud,izio - proprio
perché ritenuto sul piano della realtà, - portava alla negazione di
qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia ipotesi che potesse rendere
pen- sabile e costruibile la realtà (donde .anche la critica al cosiddetto
dogmatismo dell'ipotesi epicurea), .e; per le stesse ragioni, l'accanto-
namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la "sospensione del
giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde l'accettazione, in una
rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume storicamente de- terminatosi
("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si attiene all'os- servanza
della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si mantiene impassibile, e
in quelle che sono di necessità mediocremente patisce": Sesto Empirico,
Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo dimostra l'influenza del
neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso, accantonata appunto la
pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione l'essenza della realtà e la
verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino altre vie che possano
giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente ignota e nascosta, che
permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella realtà, o di es- serne
còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità, poteva benissimo essere
intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la ragione, essa stessa
fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò assoluta persona, e su
essa e per essa conformare la propria condotta· di vita (di qui il prevalere
dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le possibili vie imboccate, a
cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che ebbe poi grandissi1,11a
influenza, non si possono vedere bene, se non si tenga presente anche la storia
di Roma e dei paesi assog- gettati a Roma, particolarmente dalla morte di
Tiberio (!/ d.C.) ìn poi, soprattutto per ciò che riguarda la pOlitica
individuale e assoluti- stica dei singoli imperatori e la situazione sociale,
o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica in cui, con l'avvento
dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria, n·"popolo ebreo.•l. Cultura e
crisi politica al principio del l secolo d. C. Il corso dd 1 secolo d.C.
presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un tempo, risponde ad una piu
profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e la potenza dello Stato
romano rimangono forti, se la sua cultura istituzionalizzatasi apparentemente
risponde ai fini dd- l'Impero quale si era costituito con Augusto, in effetto,
da Tiberio in poi, i contrasti interni si fecero sempre piu drammatici. Alcuni
impe- ratori giustificarono il proprio potere assoluto mediante la propria
pro- clamazione a divinità (onde la loro simpatia per certi culti e misteri
orientali, dalle religioni di Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di
Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il loro contrasto, in particolare, con lo
Stoi- cismo, in cui si vedeva la concezione di uno Stato universale e di .un
diritto, l'opzione per una condotta di vita e per una cultura che pote- vano
minare la politica stessa dei singoli imperatori. Sono dati precisi. Già con
Tiberio fu bandito da Roma lo stoico Attalo e messo a morte, perché
repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava Bruto e diceva C. Cassio
l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34 sgg.), mentre Caligola fece
uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da Claudio, fin! poi per uccidersi
sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte Trasea Peto, anch'egli ritenuto
emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e Rubellio Plauto, accusato, come
riferisce Tacito (XVI, 57), d'esser seguace della "arrogante setta degli
Stoici, che rende turbolenti e desi- derosi di disordini." Musonio Rufo e
Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto Vespasiano, tutti i filosofi vennero
espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora insegnante di retorica,
scriveva il Discorso con- tro i filosofi, "peste della città e dei
governi," e, nel 93, Domiziano espulse di nuovo da Roma i cultori di
filosofia preoccupato per gli effetti della retorica, qualora questa non
rimanesse sul piano pura- mente scolastico, di esercitazione. Il potere,
d'altra parte, si restrin- 229
geva sempre piu nelle mani di pochi, cultura e retorica dovevano servire
ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si apriranno in Roma e nei suoi
domini le scuole, che verranno poi sempre in for~pa maggiore controllate
dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre piu povere e la schiavitu
strumento economico, mentre in tutto l'Impero schiavi e militari circolano,
provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé esperienze, culti e culture,
religioni diverse. Cosf, entro tale atmo- sfera generale, entro i diversi
sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche dell'imperatore e della
sua corte entro la quale per sorte si vive, si capisce come la filosofia
potesse soprattutto esser coltivata, da un lato come guida alla vita, rifugio,
consolazione, dall'altro lato come rifles- sione su esperienze religiose, quale
indice di salvazione, di liberazione dal guaio di esser nati uomini. Di qui,
sempre, entro l'ambiente greco romano, fin dal principio del 1 secolo d. C., la
ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo, del pitagorismo, del platonismo
stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali, il recupero di suggestioni
magiche, teurgiche, oraco- lari, di certe posizioni che si configurano nel
cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al commento dei libri del
passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici, orfici, il riapparire dei
misteri, e, infine, non ultima, la suggestione del Cristianesimo. Sotto questo
aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo, sembra abbia avuto una notevole
influenza e funzione. Ad esempio, proprio rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad
argomentazioni scettiche che furono poi sostenute da Enesidemo), dando a lui
ragione nei confronti dei superbi ed atei dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva
rimettere in discus-- sione il problema della verità, ma inserendosi, sotto
tutt'altro aspetto, in tutt'altra esperienza e tradizione, delineando il motivo
della "rivela- zione," mediante cui, poi, recuperare certi motivi
della vecchia cultura. Per altra via, un Seneca, in una situazione politica
cangiata, entro i ter- mini di una crisi di una cultilra, poteva, proprio
riallacciandosi alla pole- mica scettica, trovare i fondamenti della condotta
della vita in uno stoi- cismo, che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con
lo stoicismo della scuola. In certe esperienze religiose di origine orientale
si cercò, di là dalla ricerca razionale, di fronte al suo fallimento, di
trovare il fonda~ mento della vita e della propria salvazione. Pur accettando
l'istanza scet- tica, pur convinti che inafferrabile è l'essenza e la struttura
della realtà, si accantonava anche la via dell'ipotesi probabile, utile a
determinare di volta in volta, non solo una possibile fisica, ma una possibile
condotta di vita, cui convincere (com'era stato il caso di Filone di Larissa e
di Cicerone), e per cui era necessaria una retorica in senso ciceroniano. Essa
avrebbe avuto bisogno però di un foro, di una piazza, di un'assem- blea, Ove
fosse stato possibile discutere e convincere, foro e piazza che 230
non esistevano piu (non si scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esem-
pio, sotto Caligola, un Giunio Rustico, sotto Domiziano, furono perse- guitati
o condannati a morte, per certi loro discorsi pubblici). La retorica perciò si
venne trasformando di nuovo in esercitazione o in tipo di inse- gnamento
scolastico, come si vedrà bene in Quintiliano, il cui ciceronia- nesimo sarà
estremamente istituzionale (non a caso l'autore del Dialogo degli oratori,
attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di Quinti- liano, poteva sostenere
che la verace efficacia della retorica si era venuta perdendo con il prevalere
del dispotismo). E cos{ si capisce ché insieme alla retorica, entro l'ambito
scolastico, .si sviluppassero discussioni di grammatica e di dialettica; da
qui, soprattutto, il commento dei libri logici di. Aristotele, la cui
applicazione poteva, poi, essere ben lontana dai contenuti aristotelici, tanto
che il commento ai libri della logica aristotelica poteva incontrarsi,
formalmente, con certi aspetti della logica stoica. Per altro verso, invece, si
poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e l'ultima retorica rimasta: la
presentazione·di esempi, di modelli di vita. 2. Astronomia e astrologia al
principio del l secolo d. C.: loro esiti. Manilio Particolare interesse assume
ora, entro questi termini, il delinearsi della interpretazione, in chiave
stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano penetrate nel mondo
occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni
astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di
Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride,
attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C.,
in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi
magico-astrologici. Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza
facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che,
por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu
strettamente magici. Da un lato vediamo Ia linea, scaturita
dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che
risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la
sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli
astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e
che prosegue con l'interpretazione clean- tea del logos spermatikos, che, fuoco
supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con
i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e
sulle influenze delle stelle sulla terra. Dall'altro .lato vediamo la linea scaturita
dallo sforzo di rendersi conto dei movimenti stellari in ter~ini razionali,
"salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine
pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un altro piano, su di un piano
fisico in traduzione geometrico- matematica, perché fossero possibili calcoli e
misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori,
indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad
Eudosso di Cnido, Era- clide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria,
fino a .Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo
di "fami- liarizzare l'universo"). Si capisce bene, d'altra parte,
come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i
calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i
calcoli, la neces- sità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi
via, razionaliz- zava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la
necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. Anche se
indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr.
sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matema- tici entro i
termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo Simplicio (In Phys Arist.,
Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Ge- mino (Epitome dei
Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posi- donio, occupandosi del
sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movi- mento, valendosi del metodo
geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi
di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del
cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica
di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti
degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il,
34, 88: "La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico
Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al sole,
alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo: chi
dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione
perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e
permetteva calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti
stessi. Biso- gnava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a
Posidonio, "muo- vere dai principt generali delle qualità del movimento,
dal principio della 7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo
e degli astri" (Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto
all'ipotesi stoica, probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion
d'essere del tutto è un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate
che ovunque si diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato,
"ragione, unica di tutti, che si svolge e vive per l'eternità,"
"comune ragione che in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande
[sole] e i minori lumi" (Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno
scordate le ipotesi aristotelica ed epi- 232 curea. Se da un lato
Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un
primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo
platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impos- sibilità, sul piano
sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro
all"'unica spiegazione," il valore delle "molte- plici
spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i feno-
meni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove acca- dono, e
non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere"
(Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i termini di un meccanicismo
casuale si eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal
concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura
divina... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti
sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili
spiegazioni caddero in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo
dell'unica spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12). Proprio
di contro alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che suscitò
per i suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti,
da una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano
scaturiti a caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza e di empietà di
contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del
tutto animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia
universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli
ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide,
interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in
una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione
aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito
come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos
spermatik6s, che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle
stelle, cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si
vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di
Arato, interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipo- tesi valida da
potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non
sono affatto animati ("Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali
negano che gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo Posidonio
non sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le anime son
come la colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori": Achille
Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto questo aspetto, dando ad
anima il significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra chiaro in
che senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento in sé
ponendo, al limite, un 233
princip10 di vita, una forza attiva, non a caso .detta fuoco, inesistente
in sé se non appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri
costituiscono perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri
sono essi stessi fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri
sono a&JL« .&ei:ov, corpo divino, fatti di etere splendente e infuo-
cato, mai in .quiete, ma sempre in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I,
24, 5 W.), corpi divini, come fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna
la propria ragione seminale, il proprio fuoco, la propria luce, la propria anima,
sono, sia pur ìn gradi sempre piu affievoliti, riper- cussioni e riflessioni
dei fuochi, delle luci siderali. Già qui si saldano le due linee di cui sopra
parlavamo, e..se da un lato ·si ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei
risultati geometrico-mate- matici, dall'altro lato si potevano rendere
razionali le suggestioni di certa magia astrologica, di origine sacerdotale,
che si era venuta dif- fondendo attraverso i cosiddetti Caldei, per cui, in
fine, al vecchio impe- rativo "vivi secondo natura," si poteva
sostituire l'imperativo "vivi secondo le stelle," secondo la tua
stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il riflesso di un certo fuoco stellare,
in una certa situazione e congiun- zione di stelle, assume per riflesso quel
fuoco, quella figura siderale, ha il suo destino che è destino divino,
comprensibile da parte di chi conosce l'ora (oroscopo) delta ct>ncezione e
.Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il moto delle stelle, fare i giusti
calcoli, prendere le giuste misure, ché l'istante della nascita determina
quello della morte: "Na- scentes morimur, finisque ab origine
pendet";. "Fata regunt orbem, certa stant omnia lege" (Manilio,
Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cu- mont, Les religions orienta/es, Parigi, pp.
196 sgg.). Da un lato, dunque, di contro alla libertà di Epicuro che fa l'uomo
responsabile del suo morido, lanciato in una infinità·di mondi, si tende,
"familiarizzando" l'universo, di ricondurre l'universo a una sola
unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo" nel "cosmo,"
l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione del tutto
("simpatia"); dal- l'altro lato, entro i termini di questa
concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando
la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il
costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a
delineare la possibi- lità di uria scienza della. natura e di una teologia
scientifica, che risol- veva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte
credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva
considerare la stessa divi- nazione e predizione del futuro non solo rispetto
all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero
e proprio possesso di un complesso di tecniche. Abbiamo di proposito lasciato
nel vago l'apporto delle. credenze 234 astrologiche, delle
pratiche magiche, delle superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri,
provenienti dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e perché,
in realtà, non possediamo docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo questo,
che con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo
di Platone) si sole- vano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla
loro ori- gine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato,
almeno in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro
lato gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divina- zione
e della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29
sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni
popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e
indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da
non poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro
l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni
(pensiamo qui particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe
raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di
provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da
Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr.
Catai. codd. astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote
babilonese di Bel, autore di Babi- lonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il
280 e il 260 a. C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi.
Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è
un chiaro indice di come sia difficile distinguere provenienze e separazioni
precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si
scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al concetto dell'eternità
divina che, operando mediante le stelle e le loro influenze, è onnipotente su
cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il
primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni e gli avve-
nimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle in- fluenze
siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini sono
fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri
termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente
governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo
dell'antica autocrazia che si rico- nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad
immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di
sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in
Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di
poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciarli" (F.
Cumont, Les reli- gions orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). Sotto
questo aspetto, non vanno dimenticate le
suggestioni di certi rituali egiziani, che me- diante la precisione delle
parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato
alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti
ritroviamo in quei testi che poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll,
Sphaera, p. 372; Cumont, cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre
per altra via si poté intra- vedere la possibilità d'inventare tecniche mediante
cui operare su quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena
(donde, poi, nel n se- colo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi,
entro quest'àmbito della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che
vengono assu- mendo, non pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem
e dì primordiali magie amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i
gemelli e cosi via) e le figure delle stelle di provenienza persiana, in un
insieme di animali fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"),-donde,
poi, l'aspetto mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione
del proprio astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di
prove- nienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I se-
colo a. C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone
l'Ebreo nei confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle
stelle, s( come non è un .caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade,
nei confronti delle pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e,
interpretati in chiave stoica, si risolvono in una vera e propria teologia
razionale, scientifica, nel tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto
questo aspetto si vede bene come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C.
potesse penetrare e fosse accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di
Augusto e di Tiberio. Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni
diverse astro- logiche, interpretate e sistemate entro i termini dello
stoicismo, sembra essere il poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l
composto l Nulla ~ stato tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia
vissuto ed abbia composto il suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e
Tiberio lo si oonget- tusa da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa
opera. Nel proemio vi ~ un chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora
vivo Manilio parla nel libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel
giorno in cui Augusto uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9
d. C., come avvenimento recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio
come da poco succeduto ad Augusto (Au- gusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro,
infine, sembra si accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d.
C. Poich~ il V libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia
morto, appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di
questioni astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico,
nato nel 15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato
nel 4 d. C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto,
morto nel 19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di contra il 9 e il 22 d. C.,
a Roma, in un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte
alla fatalità del tutto, dell'architettura del- l'Universo e della sua
razionalità (del cui scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano
gli accenni ad Augusto, e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo
sconcertante e libero costituirsi degli infi- niti mondi epicurei, alla libera
mater, feconda e libera materia da cui tutto liberamente si genera, di
lucreziana memoria (non a caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si
avvicina in antistrofe il poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la
propria luce e osserva un ordine preciso nel suo nascere e nel suo tramontare.
Nulla v'è di piu meraviglioso, in s1 gran massa, che questo razionale ordine e
il fatto che ogni cosa obbedisce a leggi fisse... Chi potrebbe credere che
tutto questo avvenga senza· uo nume e che il mondo sia stato creato da minime
particelle [gli atomi], unite alla cieca? Non è opera del caso, questa, ma
ordine che proviene da un nume possente (Manilio, I, 476-479, 492 sgg.). Difficile
è dire, relativamente alla costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per
l'aspetto piu propriamente geografico, sia per quello piu strettamente
astronomico, quanto egli si sia servito delle opere di Posidonio - in
par.ticolare, si è detto, delle Meteore, del Protreptico, dell'Oceano. - Certo,
abbastanza evidentemente si rintraccia la linea che va dal Timeo,
all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter- pretazione genericamente
stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio è indubbia una traccia
di motivi astrologici di origine orien- tale. In un codice Angelico (grec. 29,
sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI, p. 188; F. Boll, Sphaera,
p. 53), è esposta una dot- trina di Asclepiade Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr.
B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22) sulle costellazioni della sfera
barbarica e sull'influsso che tali costellazioni hanno sugli uomini nati sotto
di esse, dottrina che ritroviamo in Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se-
condo Firmico Materno (Proemio, III libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe
ripresi dagli scritti di Nechepso e Petosiride; in realtà in un frammento di
Nechepso e Petosiride (Riess, 363) ritroviamo proprio gli stessi motivi
trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla Fortuna e l'oro- scopo, risolti
mediante la disposizione dei segni siderali, i dodekate- moria, le sorti dei
dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la sistema- medie in greco e di
epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore, Germanico libera- mente
rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del rifacimento dei Fenomeni,
modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in campo astronomico; e circa
200 versi di un'oJ)era sempre di argomento astronomico, probabilmente un
rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei Fenomeni, a loro
completamento. 237 zione del
tutto entro i termini di un ordine razionale, di cui appunto tutto - dai cieli,
alle influenze stellari, ai conflitti tra le costellazioni - è rivelazione,
manifestazione di una unica ratio gubernans. In tal senso, già notevole come
indicazione, è una pur breve traccia della struttura e del contenuto del poema,
che, per la morte dell'autore (22 circa d. C.), rimase interrotto (il V libro è
incompiuto): I libro: forma e origine del mondo, i quattro elementi (fuoco,
aria, acqua, terra), posizione della terra nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del
mondo, stelle artiche, natura delle costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la
terra, grandezza delle dodici parti dell'eclittica, circoli paralleli,
meridiani, oriz- zonte, eclittica, via lattea. - Il libro: dodici segni
zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro posizione, loro subordinazione ai
dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte,
Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio sulle membra umane, rapporti
reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle costellazioni, simile a
quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata su chi è nato sotto di
essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la
Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni
tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni
zodiacali, a seconda delle quali si determinano i costumi, la condotta, il
destino degli uomini, sistema geometrico dei decani, in una ripartizione
ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località ordinate sotto il
potere dei do- dici segni (geografia astrologica), conflagrazione universale,
cosmo e micro- cosmo (l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri
(paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri,
ché su tutto do- mina una piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui
l'universo appare fatto sul modello dello Stato augusteo. "Non è opera del
caso, questo, ma ordine che proviene da un nume possente" (1, 492);
"questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle
gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel
cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino
fuoco, principio di vita del tutto, attra- verso la contemplazione
dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità,
l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato,
serenamente. "Soltanto nell'uomo di- scende Dio e vi alita e vi ricerca se
stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe
trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo
sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano
razionale la fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, siste- mando in unità
e ragione, in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma
l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del 238 suo mordente
magico e operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso
intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si
risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri
(astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non
"nascosti," non "volontari," e sui quali per- ciò non v'è
alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di
modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rive- lata a chi sappia
contemplarla: Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi
aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa
essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo
costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama
alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati
essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è
concesso di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo
corpo: ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di
molti cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu
prezioso dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il
cielo tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime
cose; cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il
corpo da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma
considera le potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince
- ratio omnia vincit (IV, 920-32). Fata regunt orbem, certa stant omnia lege
(IV, 14). Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni
delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi
stel- lari: la stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti
geometrici e matematici. Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione
della cosmologia di origine pitagorica (con particolare rife- rimento al
fuoco), che si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una
strutturazione dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal
sistema aristotelico. In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai
massiccia, l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche,
in una sistema- zione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute
determi- nando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale
esito è la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità -
che sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che
se toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini, 239 senza alcuna preoccupazione
per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi
presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione),
giustificava,' per altro verso, il signi- ficato dell'impero di Augusto e di
Tiberio, di quell'impero che appa- riva realizzazione della ragion d'essere del
tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto
questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema
maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç
stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo
celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che
ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacri- fici da nessuno
mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi
questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una
terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per
cantare tema sf alto (1, 1-10). E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto
indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica
nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del
V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la
sistemazione del- l'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle
gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della
società terrena, Manilio esclama: Ma se fosse stata concessa al popolo che
costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto
l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale
necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica,
potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole
l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al
giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto
prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice
congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso,
rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione divina. E non
era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare, mentre era ancora
da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una
volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e
simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque,
ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della
classe al potere, certi riti e culti d'origine 240 egiziana, si
capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, in- terpretata in
chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione
nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva
giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente
sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile
s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le
preghiere non sono altro, per riprendere un'espres- sione di Seneca, che le
"consolazioni di un animo ammalato, ché irre- vocabilmente il fato consuma
il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il
termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest.,
II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come
l'imperatore Tiberio, accantonano le prà- tiche religiose, persuasi che la
Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe
addictus mathematicae plenu- sque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio,
Tiberio, 66) ...Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte
onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di
venerare, senza chie- derle nulla, la superiore potenza che regge l'universo...
Le masse, tut- tavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia"
(Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si
pone un problema meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità
di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente
in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando
suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano
sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene
diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa
del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1
secolo d. C.) si diffondono, di con- tro all'accettazione di un inesorabile
fato, anche quei culti e riti egi- ziani, quei culti mitriaco-solari, che
spezzavano la razionalità e la cau- salità, propagati proprio da certi
imperatori (la cui politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da
quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione,
considerata storica- mènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari
se dapprima può essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla
impo- sizione di un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi
imperatori proprio in contrasto con quella visione causale e necessaria di un
tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde
certi ritorni ad un naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una
ribellione a precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità
in contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la
stoica, come sarà per Seneca) ripropone la possi- 241 bilità di una scelta entro un
complesso di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre,
per· altro verso, la razionalizza- zione di certe forme teurgiche, mimetiche,
alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un
significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità
e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e
irrazionale. Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente
matematico-logico del- l'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e
misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la terra, donde la
possibilità della divina- zione e dell'oroscopia in termini scientifici, per
cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di
un'ipotesi fisico- matematica in termini causali, ci rendiamo conto del perché
Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è la regina delle
scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, p. 241), e perché,
ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi in unità con
Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei risultati del-
l'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal proposito,
anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio degli
astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo e
sugli uomini, mediante calcoli geometrico-mate- matici, sembra interessante
riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi,
i cui argomenti furono ripresi, ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai
polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un
naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa
sorte?...] non giun- sero a dimostrare la falsità dottrinale
dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio
numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni.
Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un
brillante de- stino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il
'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr.
lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori.
Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candi-
damente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un
dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo,
Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi
a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola
l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2,
p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza
(~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont,
cit., pp. 203-4). 242 3. Lo «stoicismo" nella prima metà del
l secolo d. C. Seneca. La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo
punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo,
di pitagorismo, ché ognuna di queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non
piu che ad evocare certi principt isti- tuzionalizzati, certe scelte e opzioni
in favore di problematiche e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad
avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche
se certi testi sono real- mente ricalcati da testi platonici o stoici)
posizioni che, se davvero vo- gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare
di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a
questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di
Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso
questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono
tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal prin- cipio del
1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute
meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro
(morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e
Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di Aurelio
Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio,
Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario
costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati,
fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri
dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di
Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio;
Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola
Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene
e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca
importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se
da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3
a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da
Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio
Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di
Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove
soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo
Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la
carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del
fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui
Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis
fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per
figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non
poco per la cagionevole salute, minacciata anche 243 esistono le vecchie scuole,
dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine
- confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in
senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò
dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio
Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute
del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una
"vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse
accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera
oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per
aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e
sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore
Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione
di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un
uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva,
Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa
(Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di
amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola.
Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare
l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò
Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva
sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da
farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in
·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia.
Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni
durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di
Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a
Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di
consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente
matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di
Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto
dalla madre Agrip- pina, per la successione al trono, a Britannico, figlio
legittimo di Claudio c di Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a
quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono
imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro,
prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un
piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe-
ratore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il
55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di
Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di
piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto.
Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma,
tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58
Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava
di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate
erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c sull'intera
Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari. Una chiara
risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di Burro,
avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da Nerone, -
Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito, che la
sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze all'imperatore, gli
chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll sia le ricchezze
sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a vita·allatto privata,
accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in campagna, dedito solo
agli srudi e a scri- vere. Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca,
sempre piu scellerato c terribile divenne il governo di Nerone'. Si ordi allora
una congiura, di cui a capo fu il nobile Calpurnio Pisone. Vi aderirono
cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui l'eroica liberta Epicari. Sembra
che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non abbia avuto alcuna parte attiva
nella congiura. I congiurati avevano intenzione di liberani di Nerone e di
nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a Scneca come 244
I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono per mancanza di
polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu pontefice che le
continui. In chi ritrovare la·tradizione e la dottrina pirroniane? L'illustre,
possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei suoi aderenti furono
condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Anche Sencca
accusato di segreti accordi con Pisone - fu condannato a morte. La sua morte fu
esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C.
Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono pervenute. Alcune sono andate
perse (Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano,
di cui, nel Medioevo, si fece una rielaborazione dallo stesso titolo; De
matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum;
Villl paJris; Edortationes e De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino
di Brancara per la sua Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di
altre abbiamo frammenti o parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per
Plauzio Laterano; discorsi composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in
onore di Claudio, forse anche quello al Senato per giustificare la morte di
Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura morte, Quomodo amicitia continenda
sit, De superstitione dialogus; probabilmente i Mora/es libri philosophiae non
sono un'opera a si: andata persa, ma una citazione per indicare il complesso
delle opere morali; De motu terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum,
' De forma mundi). Nel Medioevo andarono sotto il nome di Seneca florilegi e
raceoolte di sentenze (De copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle
Lettere a Lucilio; Monita Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae,
ricavati dalle opere morali di Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149
sentenze in ordine alfabetico da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono
redatte per proseguire le Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio
Siro). Quintiliano divide le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae,
Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche,
anche quelle non a carat- tere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La
tradizione manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i
seguenti scritti: De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, A
d Marciam de consolatione, D e uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi,
De brevitllle uitae, Ad Polybir<m de consolatione, Ad Helviam matrem de
consollllione. Conosciuta gi~ da San Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio
apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca e San Paolo, composta da un cristiano;
come apocrife sono le Notae Senecae. ln ordine approssimativamente cronologico
le opere di Seneca pervenute sono: Consolatio ad Marciam (certo posteriore
·all'avvento al trono di Caligola, sembra. sia stata composta tra il 37 e il
40; 'è scritta per consolare Marcia, figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che,
accusato da Sciano di lesa maesd per avere parlato nei suoi Annali con troppa
libem, per sfuggire alla condanna, si suicidò; Marcia ottenne da Caligola di
pubblicare gli Annali del padre, epurati delle parti pericolose; madre di due
figlie e di due figli, Marcia restò profondamente depressa per la morte dei due
maschi, particolarmente del secondo, Metilio; la Consolatio è composta,
appunto, per dare conforto a Marcia colpita dalla sventura della morte di
Metilio); De ira (com- posto certo sotto Caligola, sembra che lo serino, in tre
libri, mutilo dell'inizio del primo, dedicato al fratello Anneo Novato, sia
stato pubblicato subito dopo la morte di Cali- gola, verso il 41; è un'analisi
minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu funesta è l'ira);
Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per consolare la madre,
rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica); Consolatio ad
Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in Corsica, per
conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe potuto farlo
tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello); Epigrammi (alcuni
scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae (sembra del 49, al
ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto dell'annona, forse il padre
di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di Seneca;· il tema fondamentale
dello serino è la "tesi che a torto gli uonini si 245 ma impopolare, scuola di
Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella .dei Sesti, che la
rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo,
è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur
minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat. quaest., VII, 32). Chi ci ha
preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a
tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri
(Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità
della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una
prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni
le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi");
De elementi~~ (indi- rizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato
scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe
stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte
si discute il valore della clemenza, particolar- mente opportuna per un
sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi- nisce la clemenza,
distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, per- dono); De
constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa
esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra
che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita
(sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non conformano
la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle accuse
rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi si
disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del
saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e
dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di riti- rarsi dalla
vita politica attiva, qualora i casi lo .rendano necessario); De wanquillitate
animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina
dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita
contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo
periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore,
probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la questione che
il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta
dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere
meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Prov- videnza,
tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla
tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De
bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo
della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI
e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so
l'esame di chi davvero sia bene- ficante e chi beneficiato, il rapporto
servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che
doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno com- poste tra il 62 e il
64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei
avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non
poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali);
Epi- stulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri,
scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta
opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di
Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae ( o Thebais), Medea, Phaedra
(o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her- cules Oetaeus. Citiamo
infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis,
l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla
deificazione, apo- theosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa
sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in
effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa).
246 delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira,
l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di giudicare
(De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla contro il
detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco possiamo farci dei comandi di Epicuro
in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4).- Possiamo discutere con
Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vin- cere l'umana natura
con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV, 2). - Non mi
sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45, 4). - Non parlo
con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni (Ep., 13, 4; 59,
1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli
quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà l'opzione di
Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse rievocazioni
di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la delineazione di certe
figure di pensatori, le cui con- cezioni siano state coerentemente vissute
(Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un significato di validità,
qualora se ne veda la genesi in certe situazioni precise entro i termini della
tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e operato in un periodo e in un
ambiente estremamente tormentato e drammatico. Sembra cosi di potersi rendere
contò del significato dato da Seneca alla "filosofia," intesa non
come "concezione" o scienza per sé, ma come cultura, come riflessione
cri- cica, formatrice, attraverso la stessa attività del pensiero, della
persona umana - diremmo non come "filosofia teoretica" né come
"filosofia della morale," ma essa stessa filosofia come moralità -
educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria. "La filosofia non sta nelle
parole, sta negli atti: forma e plasma l'anima, dispone la vita, regola le
azio9i; ... senza di lei nessuno pu~ vivere intrepidamente, nessuno
senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur concedendo a Posidonio d'aver
portato un gran contributo alla filosofia, non posso ammettergli che la
filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né saprei darle la gloria dei
mestieri fabbrili ... La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma
delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il pensiero di Seneca e, in
conclusione, il suo àppello a una vita ra- gionevole (non eroica - gli eroi si
ammirano e si presentano come esempi, - non puramente passionale, cioè non
riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione scolastica anche in filosofia
ci perdiamo in cose inutili, impariamo per la scuola anzi che per la vita (Ep.
a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione non contraddittoria, o
perfettamente corrispondente ad analisi logiche e linguistiche, ma da una continua riflessione su esperienze di
vita : dalla presenza, nella vita, del dolore, della paura, da una o da altra
precisa situazione umana, in un certo ambiente, in una certa ora, dalla
riflessione sulla propria vi- gliaccheria, dall'esperienza - vivissima in
Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un insieme di linee spezzate,
contraddittorie. Di qui l'impossibilità di presentare la concezione di Seneca
sul tutto e sulla realtà come rispondente o meno a una precostituita •
filosofia>" estraendo dalle opere di lui - ognuna delle quali risponde
a situazioni precise e individuabili nel tempo, onde andrebbero lette
cronologicamente - una specie di sentenziario morale, unico e valido sempre.
Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca in una delle sue prime
opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei teatri e prega nei
templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi: un solo cenere
eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi. Questo
significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici: "Conosci te
stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere a qual-
siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta per
distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo? Un
corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soc- corso
altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima
volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla
mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso:
nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è
ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22, 3). E che?
Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime
opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il diritto
di professarmi tale direi che non sono infelice... (5, 2). Io non sono un
saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non lo
sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia il
migliore dei malvagi: a me basta togliere qual- cosa ogni giorno dai miei vizi
e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale e
neppure vi giungerò...: io vivo spro- fondato in difetti di ogni genere (De
vita beata, 17, 3-4). La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni
singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e
condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita
del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a
quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio
cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctm- solatio ad
Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di
Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor- 248 sica, consolandolo
per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium, del 43 o 44); alla
riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro Caligola, certo
dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira,
vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti
umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo
l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla brevità della vita {De
brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella
che può essere una vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando
ancora Seneca esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone, del 58
circa); al tentativo di delineare per Nerone lo schema di una ideale condotta
di vita politica in nome della società umana (De clementia, del 55, poco dopo
l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio fallimento poli- tico che lo
ha costretto a ritirarsi dalla vita politica attiva {De constantia sapientis,
De otio, De tranquillitate animi, De beneficiis, De provvi- dentia, opere
scritte tutte tra il 59 e il 61); all'ultima meditazione sulla natura e sul
divino (Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libri, composti tra il 62 e il
64); in un continuo approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene
educazione, costruzione di sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre
anime, educazione e liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando
da capo, discendendo ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre
aperto conflitto morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di
Seneca - Ccmsolatio ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam,
De provi- dentia, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De
tranquillitate animae, De brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio
retorico, e che assume il suo significato piu alto, di ragionamento insieme e
di avviamento, nelle bellissime Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65,
l'anno della morte di Seneca). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera
sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca
tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di
Nerone poi) estre- mamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno secondo
i vecchi parametri. Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la
coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di
valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in
volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari com-
promessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le
"tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi"
ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato
che Lucio Anneo Seneca era 249
figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria,
Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo
Novato,(adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu
console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita
beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). La
madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolar- mente interessata alla
filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma
dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia
materna, moglie di Vitrasio Pollione - prefetto per sedici anni dell'Egitto,
dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò
vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il
giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro
lato, spintovi soprat- tutto dal padre - che temeva per·la salute cagionevole
del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva
un'ec- cessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in
quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò
alla car- riera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32,
anche per aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le
sue affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per
la mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava
neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua
timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a
tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria,
l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2),
Seneca entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie.
"Narra Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani
tutti del suo tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di
morte non per alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare
(Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe,
pur avendone decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita
la quale assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco
(cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde
una qualche dignitosa azione del giovane senatore, che invano chiederemmo quale
sia stata alla meschina e acri- moniosa testimonianza di quello storico. [La
principale testimonianza sulla vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla
di Seneca con piu avveduto criterio, senza predilezione, con un certo studioso
riguardo delle fonti piu ostili e con la sospettosità propria della sua indole.
La narrazione di Dione è inquinata dalla palese avversione che egli nutre per
Seneca e dalla meditata ed infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute
sono le Storie civili di Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera
di Fabio Rustico, che Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole,
Annali, XIII, 20; poche notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile
credere che una condanna a morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di
Gaio per una bella orazione di Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche
Caligola, non può condan- nare a morte un senatore per un successo oratorio,
quando questo non sia pure un successo politico; e Seneca dovette allora
parlare molto, anzi troppo liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi
cercò di restituire la perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò
inesorabilmente di Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del
piu miserabile e bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10,
4; Ad Polyb., 17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const.
sap., XVIII; De benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi,
Seneca, Messina, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta,
mediante l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il
pericolo corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata
in quella certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di
convinzione. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che .senso si possa dire,
che, in realtà, Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni
sua opera, anzi, fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi
minuta e concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i
termini di una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si
rivolgeva, fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini,
sapendo, d'altra parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo
uomini e cose del suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto
di passioni, spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a
Cicerone, soprattutto nell'intenzione di operare mediante la parola su di un
certo gruppo di uomini in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo
ideale di uomo, nel ri- tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo,
liberarlo dalle sue paure, dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad
esempio, il topos della filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui
nessuno può vivere da uomo, senza affanni, senza il terrore della morte:
Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche
il topos della consolatio), in uno sforzo e in una fatica con cui l'uomo
costituisce sé razionalmente, volta a volta, in una conquista personale (donde
l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro); Seneca è da Cicerone lontanissimo nel
modo di intendere la funzione retorica dena filosofia, ché altra è venuta ad essere la situazione
.politica, l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro l'impegno.
Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua con- fessione,
aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di Sozione, di
Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e Claudio far
lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone, apparentemente
realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di formare sé e gli
altri come uomini: uomini che po- tessero, in un reciproco rispetto costituire
una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste come dover essere. Di
qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione di Seneca: da un lato
una descri- zione dell'uomo - triste, infelice, combattuto, impaurito degli
altri, e perciò desideroso di prevalere sugli altri, ma che anche fugge da se
stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe essere, vincitore di ~ in
quanto conflitto di passioni, "con-vinzione" di passioni, in una mi-
sura che dovrebbe essere la stessa razionalità, in ciò eguale agli altri
uomini, ciascuno a suo modo, in un'armonia e ordine che ci trascende dal di
dentro, che si pone come dovere da realizzare, e che trova il suo fondamento in
una ideale razionalità del tutto. Già in tal senso si ve- dano le prime due
opere di Seneca, la Consolatio ad Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa,
dedicata al fratello Novato. Scrive Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI,
6): "A ciascuno viene dato ciò che gli era stato promesso: i fati seguono
il loro corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a quanto una volta per
tutte hanno stabilito ... Da quando vediamo per la prima volta la luce, entriamo
nel cam1nino della morte. I destini compiono la loro opera"; e nel De ira
(III, 43, l, 5): "Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e
renderla tranquilla per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non
sa porre ordine in sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo
rotto nelle passioni, è in realtà non uonto] ...Fin tanto che respiriamo,
finché viviamo tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due
altri motivi dell'atteggiamento senechiano. Una qual certa contraddizione tra
l'ordine del tutto stoicamente scandentesi in una necessità fatale, che fa si
che ogni aspetto della realtà sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione
della ragion d'essere di cia- scuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico
del tutto, e la possibi- lità da parte umana di adeguarsi volontariamente a
quell'ordine. Posto che tutto è fatale, che tutto è come deve essere, anche le
passioni, anche l'uomo disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non
possono es- sere, nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come
l'uomo possa - se già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio- 252
nevole, da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi
conto, rea- lizzarsi secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene;
e anche come, la società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove
predominano questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come
riconoscimento dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del
presunto ordine sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca,
tra quel mondo assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto,
per cui è esclusa ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico
resta avulso da ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è
esclusa ogni possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso
conflitto morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si
giunge, non in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente
conoscitiva, ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso
conflitto morale, nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle
passioni, componendo le pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma
che, appunto, si troya "nuovo," attraverso la stessa riflessione. La
filosofia perciò non è filosofia della morale, ma filosofia morale, che
prospetta, non piu dietro le spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione,
l'ordine e la razionalità della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è
piu un dato, ma una "invenzione," che permette sia la comprensiòne
delle oscillazioni e dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione
comune, la composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la
possibilità della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un
certo tipo di cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo
parlato, ancora vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra
Augusto e Tiberio, - entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale
si era determinata tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui
ebbero in mano le sorti di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che
fu Agrippina, in tale conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della
morale senechiana. Non solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle
oscilla- zioni di Seneca, sia entro i limiti della sua concezione, sia, per
altro verso, relativamente all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha
scritto, fino, pare, a giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in
funzione, certo, del tentativo di modificare se stesso e gli altri. E quando si
dice altri, bisogna pensare non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico,
in questa o quella situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l D e
ira, i l D e vita beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia
sapientis, il De otio, il De tranquillitate animi; a Paolino, cui è dedicato il De brevitate vitae; a
Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati
gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es quaestiones; e, per altro verso,
soprattutto quando Seneca fu maestro e consigliere di Nerone, a Nerone per il
quale Seneca scrisse il De clementia, l'anno dopo l'avvento di Nerone al
potere, dal quale dipendevano quegli altri. Non a caso nel Proemio del De
Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone: "Sono io che decido della vita e
della morte delle genti; il destino e la condi- zione di tutti sono nelle mie
mani; quel che la. Fortuna spartisce a ciascun mortale, lo fa conoscere per,
bocca mia; al mio responso è subordinata la letizia delle città e dei popoli;
nessuna regione è prospera se non per mia volontà, se non per mio favore ...
Caduta e nascita delle città si decidono nel mio tribunale." Sapendo usare
certe tecniche, co- noscendo la psicologia di Nerone, si tentava di realizzare
in altro modo quello Stato e quella società entro la quale e per la quale
Seneca operava. Certo, ogni situazione implica dei compromessi e delle tecniche
d'azione diverse, pur di realizzare, anche approssimativamente, certi fini. Di
qui, nel tentativo di educare all'ideale "saggio" stoico, il trasfor-
marsi del rigidismo della morale stoica, posta, appunto, non piu come dato, ma
come "inventio," dovuta alla stessa capacità (propria del- l'uomo) di
costituirsi come ordine razionale, per cui ciascuno può, co· gliendo i propri
limiti, le proprie condizioni, senza dubbio dati, entro questi, realizzare se
stesso, conoscendo la propria natura, volta a volta scegliere le proprie mosse,
anche se esseJ nelle loro possibilità, sono date. Se chi latra contro la
filosofia, dirà come il solito: "Perché parli da forte piu di quanto da
forte tu non viva? Perché fai la voce sommessa davanti al piu potente e stimi
il denaro uno strumento necessario o ti turbi per un danno ricevuto e piangi
alla notizia che ti è morta la moglie o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon
nome e ti offendi delle chiacchiere malevole? Perché i tuoi fondi sono
coltivati piu di quanto non richiedano le necessità naturali? Perché non ceni
conforme alle regole che predichi? Perché le tue suppellettili sono cosi
eleganti? Perché in casa tua si beve del vino che ha piu anni di te?... Perché
hai fatto piantare alberi che da- ranno solo ombra? Perché tua moglie porta
alle orecchie il reddito di un ricco casato? Perché i tuoi giovani servi sono
vestiti di abiti preziosi? Per- ché in casa tua è un'arte quella di servire a
tavola e l'argenteria non è disposta come viene a caso, ma il servizio è cos{
accurato, e ha persino uno scalco specializzato?..." Se vuoi rincarerò la
dose dei rimproveri e mi muoverò piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora
ti rispondo: "lo non sono un .saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non
che stia alla pari con i migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta
togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei
errori..." "Però," 254 tu dirai, "in un modo
parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o mali- gni, o nemici dei
piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli
predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto
vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio contro i vizi,
comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei. Continuerò a lodare non la
vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre; continuerò ad
adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella distanza... (De
vita beata, XVII-XVIII). Di qui anche un'altra apparente oscillazione di
Seneca: da un lato l'esigenza propria del "saggio" stoico di
ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a costo di
venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu stoica, di operare nel mondo, di
modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la societa
di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come deve
essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il
"saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non piu uomo tra
uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti,
nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è
folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio"
tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui
Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è
ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento che
tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni, in
realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come deve
essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e, perciò,
che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso,
siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una
per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas-
~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva- mente
generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci; :erto, su
di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che
quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo
amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né
mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale.
Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e
il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non
solo, ma un altro peri- colo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a
vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare
l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè
secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento
della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo
una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo
per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per
Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una
certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che
l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un
ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa
riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta
in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre
condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di
realizza- zione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso.
Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è
possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana,
scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli
altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio
della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni,
ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la
virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la
piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a
se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De
clementia, I, 1). L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi
dalle sin- gole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé
razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini,
ché vi- vere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi,
vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo,
entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può
anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto
ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che
le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in
persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza
di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è
solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche
tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché
ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro
in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni);
significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la
parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad
uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale azione
può diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita
politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di
un'auten- tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama
Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita
politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro
che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre
insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non
ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di
farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa
intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose?
Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep.
a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se
tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno
allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio
felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non
vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non
vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando
Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De
tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la
fortuna pre- vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le
spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un
luogo in cui la fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari
con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere
utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve
vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai
cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in
casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele
amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino:
adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci
siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto
dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla
virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribu- nale e ti
si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi
spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la
porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti
con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani
tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu
fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni
della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn la tua voce, e se
qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai
inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo,
con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve...
Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La
cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari,
ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle
condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non
vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di
Atene quando i Trenta Tiranni la stra- ziavano?... Eppure là, tra il popolo,
c'era Socrate, e consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che
disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni,
il lontano castigo della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande
esempio a· quanti lo volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta
despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non
seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera
di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso,
l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice
poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque
della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci
espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non
ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che,
quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli
risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la
celerà: seppellirsi non è salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato,
quando affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei
mali è togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in
un momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare
piu tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti
dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te
ne staccherai spon- taneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi,
quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e
con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi,
perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo
(De tran- quillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando
davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato,
l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla
falsa politica in atto, a quell'Epi- curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6)
che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una
comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve
regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev.,
XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro
nelle 258 opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro
(De oiio; De bre- vitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio,
Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes- _sando l'enornit: impressione
che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui
fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare .:ontro i vizi, contro gli
errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere
e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si
proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a
dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la po-
vertà, e·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un
peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando
cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza
.della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili
piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del
ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli inse-
gnamenti ero andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita
cittadina, poco rimase di tanti bei propositi... Poiché ho cominciato a dirti
con quanto maggiore entusiasmo comin- ciai da giovane lo studio della filosofia
che non lo continuai da vecchio, non mi'vergognerò di confes5àrti quale amore
mi abbia ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si
astenesse dalle carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi
di tale astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per
!;altro degni di ammira- zione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo
abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle
bestie volta alla sod- disfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di
crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le
cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo
lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine
con ampiezza di argo- menti, "non credi," soggiungeva, "che le
a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte
altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o
selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un
uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di
un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per
determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e
che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini
grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema.
Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente,
se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò
tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi,
incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo
difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente
piu svelta, seb- 259 bene
oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi
quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando
i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di
alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle
superstizioni (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22). Di Fabiano Papirio, oratore e
giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo
che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave
stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a
Luc., 40, 12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu
alta di ogni erudizione (De brevi- tale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione
dell'anima, cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altrouna
sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in
insegnamento di tipo profes- sorale, ma determinarsi in una persuasione
psicologica e morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l)
"f;losofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica." Attraverso la
figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio,
di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati
pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine stoico sta ad indicare piu un
atteggiamento di vita che non una dot- trina; atteggiamento di vita che si
fonda su di una concezione generale che assume pochi principi, facili a
raggiungere analogicamente, e che potevano essere desunti da certe volgarizzate
posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un
principio attivo e pas- sivo (Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce
l'articolarsi e il co- stituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni
aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario
Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere interpretate anche certe
pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non
solo, ma entro questi termini, poco importava essere platonici, o aristotelici,
o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine
stoicismo, pitagorismo, platonismo evoca in funzione di un tipo di vita da
contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale
atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti
l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu
detto • Cinico." ~ stato soste- nuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato
stoico, per la sua fede in un or- dine provvìdenziale, a cui, abbandonando le
cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta
sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può
ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su
di lui, 260 cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11;
Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto
(Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel
senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio, "cinico"
era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini, Demetrio, proprio
attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto dell'impossibilità del
passaggio dal discorso umano ad un presunto discors~della realtà, per cui la
realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori di. noi, e per cui unica realtà è
quella umana, o meglio quell'ordine che scaturisce dall'egemonia delle passioni
e per mezzo di cui l'uomo si libera dalle passioni stesse; egli, perciò,
poteva, ma.solo su di un piano indicativo, postulare, simile all'ordine che la
ragione stessa costituisce, un ordine supremo é provvidenziale, presen- tando
se stesso, di volta in volta, come esempio di saggio, di uomo libero, appunto,
dalle passioni, dalle adulazioni di quella ch'era la quo- tidiana vita della
Roma._di Caligola, di Claudio e di Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio
in questi nostri· tempi per dimo- strare ch'egli non può essere corrotto da
noi, mentre noi non possiamo essere educati da lui, uomo perfetto nella sua
saggezza, anche s'egli per primo lo nega, assolutamente coerente nel suo modo
d'agire, di un'elo- quenza adeguata ai piu forti pensieri, senza ornamenti,
senza faticosa ricerca d'espressione, ma che con superba fieqezza, nella foga
della ispirazione, persegue l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la
Provvidenza ha dato simile costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra
generazione non mancassero: il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio
offrisse a Demetrio i nostri beni in assoluta proprietà, ma a condizioni che
non ne potesse far dono, egli, certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non
mi lego ad un simile peso, di ;c.."ui non potrei sbarazzarmi, né l;lscio
che il mio essere, da tutto s~a'nciato, affondi nel profondo pantano delle
ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti? Che neppure accetterei per farne
dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe ingiusto dare... Lasciami libero,
lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,' le mie •vere ricchezze: il regno
ch'io conQsco è il regno della sapienza, grande, sicuro; io, cosf tutto
posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono avere..." (De benefieiis,
VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000 sesterzi,
li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di sublime
grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola]
abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la
sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato
affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De
benefieiis, VII, 11). Demetrio, i l migliore degli uomini, si accompagna sempre
a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di
ammirazione per quel seminudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla
gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci
riesce. 261 La via piu breve
per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla. Quanto al nostro
Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come chi ne lascia ad
altri il possesso (Epist. a L., 63, 3). Non a caso, sotto questo aspetto,
furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini come Trasea
Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della libertas della
Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone, l'altro, Elvidio
Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro Trasea Peto fu
ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un tempo i Tuberone
e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi vogliono la libertà
per sovver- tire gli ordinamenti dell'impero. Invano avrai tolto di mezzo
Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli dei Bruti ...
Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per
la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella Curia ... Egli non
attende ormai che agli affari dei suoi clienti ... Un tale atteg- giamento è
già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et pars est (Tacito,
Annali, XVI, 22). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea, alla
presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si
abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre
il pericolo di compro- mettere la propria sorte con quella d'un condannato...
Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare
il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o
giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio.
Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo
spirito con esempi di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la
lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio...
(Annali, XVI, 34-35). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto,
si vede bene l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo":
esempio di vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l
d'essere, ad un postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero,
oppo- sizione politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i
termini estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di
Seneca. Se egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano
Papirio, e per altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che
avrebbe dovuto essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione
(non teoretica) dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni
concezione vale per quello che essa ha di successo, in certe ben precise
situazioni, cercò, finché gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale,
operando su amici, e, soprattutto, ripetiamo, su Nerone. 262
Formatosi entro i termini di un generico "stoicismo" di sfondo,
Seneca si servi di tale concezione per formulare quello che avrebbe do- vuto
essere l'"uomo ideale" e, per altra via, lo Stato e la società
ideali, indipendentemente dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari
aspetti assunti dalla posizione stoica. Se altra fosse stata la prima edu-
cazione di Seneca, egli avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della
sua polemica morale, anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si
preoccupa affatto di quella che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi
conto anzi - vicinissimo in questo a Demetrio - di come tale questione,
dibattuta nelle scuole, sia divenuta una questione logico- grammaticale, e come
proprio le analisi logiche, in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli
scettici, abbiano portato a dimostrare l'im- possibilità di ogni passaggio
dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla scolastica distinzione della
filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia via la fisica come scienza a
sé - su questo piano egli si riduce a una pura descrizione dei fenomeni fisici
e delle opinioni : cfr. N aturales quaestiones - assumendo quella
"fisica" che poteva apparire meno contraddittoria quale fondamento di
una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse conto che lo stesso
ben pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo vita logica. Seneca
rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in una mèra realtà di
parole, si pre- cludeva ad ogni significato e senso delle cose, sofisticamente.
Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo
e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano finire nel silenzio e
nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli accettava la
sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della realtà, se non
quando questi potevano servire alla formazione di una vita misu- rata. e
razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). Sia pur detto fra
parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguag- gio giuridico,
chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costi- tuisce la realtà,
e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono determinati dai
decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a lungo discusso,
molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò ISv, tradotto
in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono assumere i termini
genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di genere, specie,
quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a
Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa
possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come
un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e,
come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando in 263 quando concedere riposo al
nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche .divertimento. Ma pur questi
divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno
offrirti qualche utilid... çhe còsa meno con- tribuisce alla trasformazione dei
costumi, .::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le
idee platoniche? .Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni?
Eppure basta anche questo,. che Pla- tone nega la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto
ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare con
fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non hanno
né stabilita né solidiù... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a
Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere discusso
il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca afferma: •
Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi nascono tutte
le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a tutto ciò che se
ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa, invece, cioè la
ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne trae le opere
sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è fatta e il principio
che la fa, questo è la. causà, quello la materia; ... le cose tutte sono il
risultato dell'elemento.paziente e della forza ·agente; per gli Stoici l'uniça
causa è la. forza agente" (Ep. .. U4C., 65, 2-4); discutendo Aristotele
dichiara che quattro sono le cause per Aristo- tele: la materiale,
l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Pla- tone, poi, dtce
che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il
modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che
aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia
avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e
tenuto cos{ presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio li ha in se .stesso,
e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli è pieno
di tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~ immutabili,
instan- cabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause: quella di
che, quella da che, quella in che, quella su che, queU::"pr.r· che;
fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill). Seneca,
dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle cause ad
t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed oi>erante,
Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e singole caUse, ma
dipendono insieme da una sola, da quella che opera" (id., 65, 12), cosi,
alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è piu comodo in
simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a nuove
indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in siffatli
problemi, che no~ 264 ti liberano da nessuna passione, che non
scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la preferenza a
quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e
soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi,
il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono
spezzettate, se non si disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e
sollevano l'animo... E la filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione
della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale
contemplazione non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo
consta della materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come
signore e come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo
l'anima... Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la
fine o un paS- saggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non
aver comin- ciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo
potrò stare cos( a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.). Le Lettere a Ludlio sono
tarde, di quando già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita
politica e sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la
"nausea dd secolo,• ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità
reggitrice del tutto, l'ipotesi che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che
non è se non nel suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una
interpretazione stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente
dell'Universo, è tutto ciò che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è
tutte le cose•: Natur. quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa,
ma essendo la ragion d'es- sere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé
tutte le forme, unità e molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima
(sotto questo aspetto si può parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di
Seneca, di un suo stoicismo neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio
e nelle tarde Questioni naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale,
ipotesi: cioè. credibile in quanto utile a vivere da uomini, speranza e non
con- clusione scientifica, ché su tale piano, in realtà, l'analisi della logica
e del linguaggio, dovrebbero anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli
uomini piu grandi ci lasciarono opinioni, non soluzioni defi- nitive, ma
problemi da risolvere... Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli
e in sottigliezze sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei
nodi, intrecciamo parole a doppio significato per darne poi la soluzione.
Abbiamo poi tanto tempo da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con
tutte le forze della nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole,
ma delle cose. Che mi vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono
trarre in inganno soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose
e su queste mi devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia
(Ep. a Luc., 108, 24), non cavilli di parole,
265 capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto
del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere
felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio
vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo
vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una
legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza
scrupolosa, giova mol- tissi~o anche a mantenere quella piu stretta società,
che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che sente di avere molte cose
in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con
l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti
cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo
qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e
quanti signi- ficati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle
parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò costruiti
arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna
scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire
da. quello .che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a
scherzare in ma- teria cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode
il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca
a scio- gliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza?
Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola
o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia
piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba
non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a
Luc., 48, 2~. Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato
detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche
vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei
suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi
morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di
seguito. In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al
limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema
arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di
una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà
dell'esperienza si esauriva in una conclusione. E quando la via è chiusa, il
ritorno alle origini, ai principt, e la ricerca di altre dire- zioni, si
impongono... Il rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al
mondo dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni
teologiche - di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della
carità, dell'amore come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un
momento culturale ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e
veneta del secolo X V , "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il,
Firenze, p. 65). Tale, mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca,
assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo,
nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla problematica di Filone
l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di
certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se diverse furono le
conclusioni di Seneca. <:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso
nei suoi fantasmi, che sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da
questo o da quel fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle
infinite immagini che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel
terrore d'essere sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore,
disperato, determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei
propr~ fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo,
per chi appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto
("chiunque esso sia, o dio possente tra tutti o ragione incor- porea,
artefice di tante meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale intensità per
tutte le cose, le piu grandi come le piu piccole, o infine fato e immutabile
concatenazione di cause tra loro connesse": Conso- latio ad Helviam, VIII,
3), l'uomo desta un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale degli
uomini, molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse, disarticolate
sono le umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento comune· per cui,
attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso senechiano, che non è
sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come capacità di con-vincere la
passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se stesso uomo ("difendi il
posto che ti ha assegnato la natura; quale chiederai: quello di uomo": De
constantia sapientis, XIX, 4), in un rapporto articolato con gli altri uomini,
costituendo una societas, che rivela e postula ad un tempo l'or- dine razionale
del tutto, in una comune razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è
se stesso, quanto piu misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è
proprio - uguali, per cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto
dell'altro, non tanto per ciò che egli è, ma per quello che può essere. Cosa
sacra è l'uomo all'uomo. Come comportarci con gli uomini? Quali precetti
daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi
dovresti giovare! porgere la mano al naufrago, mostrare la via allo sperduto,
dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato...,
eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il
divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti mem- bra di un grande corpo. La
natura ci generò parenti, dandoci una stessa origine e uno stesso fine. Essa ci
ingenerò un mutuo amore e ci fece socie- voli... E quel verso: "Son uomo,
nulla di umano ritengo estraneo a me"
26i (Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore
e sul labbro. Abbia- molo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale
quale una volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda
e cosf si sosten- gano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}. La riflessione su se stesso,
sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una
molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà,
dall'altro lato, attravero questa, porta a com- prendere che l'uomo, mediante
se stesso, in quanto capacità di realiz- zarsi secondo ragione - cioè in una
misura che è conquista e libera- zione, - si libera da sé essendo davvero sé.
Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra
tuttora nell'orecchio: niente -dice -m i pare piu infelice, che colui cui
nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso
(De provitlmlia, III, 3). Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai
quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De
prov., IV, 3-7). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi
perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... n saggio sa che
nessuno nasce saggio, ma tale diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo
verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di
senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la
norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà,
l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della
legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non
ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io
condannare codeste colpe? (De ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato
si giunge all'innocenza (De clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa
esperienza, chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma
dispersa, ma coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di
consolare, attraverso la medita- zione sul dolore, sulle passioni, sulle
sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e
di avviare sé e gli altri, pro- spettando quale dovrebbe essere il saggio, a
tale saggezza, agendo, entro i limiti delle proprie possibilità, perché si
realizzi quella societtu che libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso
~ell'altro, della comune ragione, specchio della postulata universale ragione
di essere, mediante cui si costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico
Impero. Di qui la distinzione senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza
è un ideale, la filosofia uno strumento, riflessione sulle proprie espe- rienze
di vita e, ad un tempo, per ciò, liberazione dalle proprie unila- teralità,
convinzione e persuasione, retorica verace e consolazione, imVC- 268
gno sociale, da distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili,
ma nella loro unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a
L., 88). Sembra chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo
qual è di fatto, in questo mondo, in questa situazione politica, e, dal-
l'altro lato, accanto alle indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da
questo suo attuale non essere uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di
volta in volta disegni il ritratto del saggio, del sapiente, dd- l'uomo
consapevole di sé, misura, coerenza di sé con sé (constantia tra- duce Seneca
l'homologhla zenoniana), e prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale,
che, a sua volta, si scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto,
per cui, infine, accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita
qual è, in quanto termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo
scritto Seneca, o per accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di
proposito, disegna e prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il
"saggio" - anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole
assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Che- vallier, Le milieu .rtoiden à
Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé,"
Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547). Basti qui ricordare alcuni passi
del De con.rtantia sapientir ed una pagina della Lettera 66 che sembra
riepilogare i peculiari tratti del sapiente. Gli Stoici, che hanno scelto la
via piu degna per un uomo, non si curano che essa sembri piacevole a coloro che
la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li conduca sull'alta vetta, che
si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e domina persino la fortuna...
Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle ingiurie, rendersi capaci di
ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e staccarsi dalle cose esteriori,
per non passare la vita nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la
lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX, 3). Tale il saggio: un animo,
che vede il vero, esperto nd conoscere quello che si deve fuggire e quello che
si deve cercare, che delle cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma
secondo il loro valore intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto
delle sue meditazioni, sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti,
grande e impetuoso nella giu- stizia, sordo ugualmente alle minacce e alle
adulazioni, inconcusso nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte
le contingenze e a tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua
compostezza e nella sua forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che
non si piega per vio- lenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per
vicende di fortuna: un tale animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo
volto, se si presen- tasse sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si
mostrasse. Del 269 resto
essa offre molti aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita
e le diverse attività. Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è
concesso andare indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli
atti che sta per compiere (Ep. a L., 66, 6). E non dire, come dici di solito,
che questo nostro sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo
una gloria vana per l'ingegno_ umano e neanche vagheg- giamo il fantasma ideale
di un essere inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo
produrremo, di rado forse e uno solo a lunghi "inter- valli di tempo: del
resto io mi domando se Marco Catone [uticense]... non superi addirittura il
nostro modello... (De constantia sap., VII, 1). Ora, come Seneca delinea due
uomini, l'uomo qual è e l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso,
si costituisce il conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta
chiaramente, parla di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini
quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva
dello Stato universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il
saggio deve lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un
saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae:
l'una grande e veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella
quale non siamo con- finati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il
sole i confini della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha
iscritto la condizione della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di
Cartagine o di qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo
determinati uomini. Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati,
il grande e il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il
grande. Questo Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e
forse anche meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie;
se siano la natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di
terre, di mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la
divinità ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da
cui nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti
di vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o
muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il
mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un
certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla
divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire
che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati
per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza
l'azione non esiste contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio
universale e meno legata all'esistenza di una certa classe che non quella di
Cicerone, di coptro alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla
paura, il richiamo di Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto
naturale, fondamenti di una res publica umana, e, nei confronti
dell 'imperatore, alla concezione stoico-platonica del monarca filantropo,
per cui l'essere imperatore è un dovere. Ma di qui anche il delinearsi del
motivo del tirannicidio; con il conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio
politico, donde la sempre maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense,
e su di un piano di diritto naturale, se non di diritto positivo, la
proclamazione dell'abolizione della schiavitu. Poche righe prima del testo del
De otio sulle due Repubbliche - ricordiamo che il De otio, insieme al De
constantia sapientis e al ·De tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno,
che dalle Lettère a Luci/io, composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto
da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano
del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua
diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio
non si accosterà alla vita pubblica a meno che non intervenga una situazione
particolare." Zenone dice: "egli si accosterà allaita pubblica se non
interverrà qualcosa ad impedirglielo." - Qui seguirò il parere degli
stoici... perché la questione di per se stessa vuole che io segua la loro
opinione: seguire sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del
Senato [nel momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata
abbastanza indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone,
se interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla
posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo
corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il
sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre- cherà se stesso senza poter
servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà,
se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in
avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un
cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di
esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e
darsi subito allo studio... In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva
agli uomini: se è possibile a molti, altri- menti a pochi, altrimenti ancora a
se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse
comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro
che avrebbe potuto giovare essendo mi- gliore, cosi chiunque fa del bene a se
stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere
che potrà riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5). È questo un
testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui
Seneca assume certe posizioni stoiche, il
significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie
esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro-
spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto
con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a
seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il
ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché
in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come
conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la
coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta
il proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la
problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre,
viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica
diversa. Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato,
Seneca fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo
di cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua
libera orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di
Caligola, Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu
tardi nel De constantia sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i
potenti, sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà
il non tollerare nulla: questo anzi è un errore" : XIX, 3), se riusc{ a
mantenere un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente
legato di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di
Caligola. Egli allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella
Consolatio .alla madre Elvia (V, 4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu
proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare
l'imperatrice Messa- lina, che, nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della
bellezza di Giulia, e dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio,
riusc{ a fare sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte,
e, poco dopo, da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca
montatura: forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è .-:he
Seneca, a causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in
Corsica (•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di
primavera l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il
fuoco per l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule":
Epigramma, II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio
alla madre Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la
Consolatio a Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di
farsi richiamare. Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia
di Germanico, che da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio,
Domizio. Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi
sposare, nel 49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece
revocare l'esilio di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore
del figlio Domizio. :t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far
spo- sare il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e,
quindi, a fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con-
trapponendo, per la successione al trono, Domizio a Britannico, figlio
legittimo di Claudio e di Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a
far parte della gente Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora
compiuti quattordici anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca
dall'esilio, in parte per fare cosa grata al pub- blico che riteneva
ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran valore, in parte perché
sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle sue trame politiche e
perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di
Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e note la
proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54, a 17 anni) e la fine di
Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~Seneca fu lontano da tali
intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi
<?-i sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli attinge con
preferenza alle fonti storiche piu ostili a Seneca. Seneca, che Agrippina
revocò dall'esilio per averlo consigliere delle sue trame poli- tiche e maestro
di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un uomo in
tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale fosse in quelle circostanze il
contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi, morto Claudio e
proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già si credeva sovrana assoluta
dell'Impero, dovette su- bito accorgersi che il suo ambizioso edificio era
crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit., p. 30). Non pare
si possa essere cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è che furono quelli,
gli anni in cui Seneca, godendo di un certo ascendente sull'animo del giovanis-
simo Nerone (d'altra parte invidioso dello strapotere della madre), avendo
cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo misu- rato ed
essenzialmente onesto, in mano la possibilità di dirigere in un certo senso lo
Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone ad essere
principe nel senso stoico di moderatore, di guida, di egemonico di una res
puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro preciso significato le
pagine violentissime di Seneca contro il tiranno (particolarmente Caligola, già
chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta, morto Claudio, contro il principe
inetto, burattino, strumento di macchinazioni (Claudio, ap- punto, cosf
sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de morte Claudii, da Dione
chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio, cioè la consacrazione
della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato,
Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la deificazione di una zucca). Se
le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca, contro Caligola e lo scritto
contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a dimostrare quello che un
imperatore non deve essere, il De cle- mentia, scritto per Nerone, l'anno dopo
la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere politico e ministro,
rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello che l'imperatore deve
essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi, cit., p. 59), "il
programma postivo di un vero uomo di Stato." Ben consapevole di precise
situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui "si fanno
cose che ottengono approvazione e che poi vengono punite" (De clementia,
l, 4}, in cui "una persona non può andare a un pranzo con animo lieto,
sapendo che persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni parola"
(De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con estrema cautela, ma sempre
in funzione di realizzare, entro i limiti del possibile, uno Stato armonico,
ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità di costituire una res-publica
hominum, mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed estera, di Nerone
("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che
vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo
che fa parte agli altri di beni comuni a tutti" : De clementia, II, 4, 2).
Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto
formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo
autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene,
per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di principe
- in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità, opera secondo
il principio del monarca filan- tropo (cfr. sopra), con demenza, che Seneca
chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia
(perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener
presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni
appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di
Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo
clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di
Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del
suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei confronti
del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica estremamente abile,
un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con la pericolosissima
linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi cinque anni del suo
regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi, accortissimo in politica
finanziaria, 274 nel tentativo di sollevare le classi meno ricche
limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta dell'abolizione di
tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal Senato : una delle poche
volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per timore di perdere le
proprie ricchezze, la sua libertà). Non solo, ma Nerone si dimostrò rispettoso
delle pre- rogative del Senato e delle procedure giudiziarie, mentre cercò di
risol- vere, in favore dei libecci, il problema della schiavitu. "Intorno
a quel tempo (56), si discusse in Senato"- scrive Tacito- "circa
l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere che fosse data ai patroni
la facoltà di revocare la libertà a coloro che si erano resi colpevoli di
ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo provvedimento, ma i consoli
non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del principe, al quale, tut-
tavia, notificarono il consensodel Senato a tale disposizione. Nerone era
incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta, poiché discordi erano i
pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano perché l'irriverenza
accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto che ormai i liberti
godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da pari a pari le
opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i liberti la
libertà]... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse esser di
rovina soltanto a loro e che non era il caso di meno- mare i diritti di tutti,
poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima. Da essa
in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle
magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa
origine avevano moltissimi cava- lieri e parecchi senatori, tanto che, se si
fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini
liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali,
avevano conside- rato la libertà come un bene di tutti... Poiché prevalsero
tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai
processi contro i liberti caso per caso..., ma che non si prendesse alcun
provvedi- mento generale di deroga..." (Tacito, Annali, XIII, 26-ll).
Tacito non fa il nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci,
sottintendendo che per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il
consigliere che decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune
espressioni riferite da Tacito sono molto vicine a quelle sene- chiane, che
leggiamo sia nel De beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto
piacere a sentire da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi
molto familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione.
Sono schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili
amici. Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale
potere su di essi e su di noi... Quanti di questi 275 schiavi non hanno alla loro
mercé il padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna,
quando .tu stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo
disprezzi! Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a
ragionare intorno ~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci
mostriamo tanto superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico:
"Comportati verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi
verso di te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni
perché sono a piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel
bifolco: non li giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi
ognuno se li dà egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di
servile può aver loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto
con la compagnia di persone piu educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo
solo nel foro o nel senato... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera
l'anima sua._ Mostrami chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro
dell'avarizia, l'altro dell'am- bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6
è piu spregevole di quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà
ora che eccito gli schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei
padroni per aver detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a
Luc., 47). In queste ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo
della seduta del 56. Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e
l'approfondimento della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto
nel 56 circa, l'anno, appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i
liberti di contro agli interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che
lo schiavo essendo tale per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il
padrone né alcun titolo di benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo
non può in nessun caso esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto
umano. Ciò che importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di colui
che dà. A nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette,
tutti invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né
per case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore
credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta.
L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo
(De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è
piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle
buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli
alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o
oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo
qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo
comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis, III, 28). [E nella
lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto
ad un cava- liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo."
"Ma che signi- 276 fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono
parole nate o dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è
possibile slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca al sovrano,
finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di
un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel
tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi.
stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia
capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana
che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in
"Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp. 282-283). A
parte le reali intenzioni di Nerone .e i compromessi, cui, volta a volta, possa
essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di Seneca è
stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri razionali, ove per
"ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità comune a tutti,
che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze umane,
attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu
passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto
razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno
per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e
perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra
chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU
consiste nel vivere secondo ragione" e coerentemente, altrettanto chiara
appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva
socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per
altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi
e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia
pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile
vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi,
sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro
lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno
umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale.
Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una
servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc., 77, 15). Pensare
alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a
morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di
fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta
(Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del
tuo corpo (De ira, V, 15). 277
Ma anche quando la ragione induca a farla finita, non si deve prendere la
spinta all'impazzata e di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla
vita, ma uscirne. E soprattutto eviterà quella passione troppo comune...,
l'inconsulta inclinazione a morire, che spesso prende anche uomini generosi e
di fiera indole, spesso gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita,
gli altri non ne reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi
siano cause incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita
per amore degli altri... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore
degli altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto... Chi non tenga conto della
moglie o dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc.,
104, 3-4). Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca,
ebbero successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la parteci-
pazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone,
culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59).
Certo è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e
dopo la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con
l'inetto Fenio Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna
voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue
dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si
confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV,
53-56). "La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu
saggi consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per
cosi dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua
inclinazione verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad
attaccare con varie accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le
sue ricchezze, che aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e
dicendo che faceva di tutto per attirare a sé le sim- patie dei concittadini,
osando quasi primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose
buone dell'lmpero.erano dovute a lui..." (Tacito, Annali, XIV, 52).
"Seneca si allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in
città, come se fosse trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o
perché occupato negli studi di filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). Furono
questi gli anni del De otio, del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia,
del De beneficiis, delle Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad
Lucilium. In realtà Seneca, attraverso la sua opera, proponendo se .stesso come
esempio di problematica morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur:
Ep. a L., 67, 2), proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per
altra via proseguiva nel suo insegnamento. "Anche quando lo Stato è
oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi. A seconda della situazione
politica, nel modo che la fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci
raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo,
paralizzati dal timore" (De tran- quillitate animi, V, 3-4). Ciò che si
esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a
pochi, altrimenti ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare
interesse assumono ora, anche relativamente alla situa- zione e allo stato
d'animo di Seneca in quest'epoca, le Naturales quae- stiones. Chi vada
ripercorrendo i vari motivi della riflessione senechiana, senza volere
costruire un ben ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre meglio conto che
la ricerca di lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un
lato nel riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di
unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro lato nel riconoscimento che
l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui
propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di rendersi consapevole di sé, di
costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle
passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e coerenza
sociali, per cui la rifles- sione medesima (filosofia) costituisce l'uomo come
misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume sociale, come
rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i propd limiti
(mora- lità). Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo, a Seneca non
interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente scien-
tifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione dell'Universo e
della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se non perciò che
l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano servire a rendere
conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi, l'opzione di Seneca
per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola - tutta la realtà
scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio attivo e di quello
passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa assume un suo
perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere universale, la
natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come scoperta,
attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi) dell'uomo
come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone piu come
ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi stessi e che,
perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso si fa diverso
da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio e di
Posidonio, - anche se ven- gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi stoici,
che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla riflessione su
se stessi, la 279
riflessione sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui
l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa quello
di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto, quella
stessa provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo, su di
un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa riflessione
etica, divenendo termini di speranza, non di dimo- strazione scientifica. Altro
è perciò il piano della fisica, altro quello della logica. E se da un lato la
riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante cui l'uomo si
libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro lato rende
consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione estremamente
infelice e determinata, consapevo- lezza senza di cui, comunque, non vi sarebbe
moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza. Compromettere la realtà ad
un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto è già fatalmente
costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della vita morale, la
possibilità di ren- dersi consapevoli di sé, di educarsi e di correggersi; si come
sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza umana, sostenere la
libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una qualsivoglia con-
dizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche relativamente
all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai, sospende il giudizio,
ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di una quotidiana
esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di fronte
all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi nulla,
tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che circonda e
schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è un'esperienza- la
consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di costituirsi
razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva scrivere in una
delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5): '"Liberazione di
ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende l'umano dolore. Essa ci
ripone in quella pace nella quale fummo prima di nascere_, La morte non è né
bene né male: quello può esser bene o male che è qualche cosa; ciò che per se
stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci rimette a fortuna: non può
esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo scriveva: '"Non v'è
differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché uno è l'effetto: non
essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia questa vita per una
vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa delle cose divine;
oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua natura e ritor- nerà
nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro lato, posto che la
realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e la morte, giunto
alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo l'altro giorno di
pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e credevo volentieri
280 alla opinione dei grandi uomini che di una cosa tanto
consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi abbandonavo
a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102, 1-2). Entro
questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca un'indagine
mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè scientificamente
conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura; mediante cui liberarsi
dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ rendersi conto di quanto
misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto preso dalle sue
passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione della natura,
infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo, avvia l'uomo a
scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da un'infinita
ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi persuadere
che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata, pensa al luogo
che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la visione completa
dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non solo ha creato
l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro sorgere al loro tramontare
·e volgere il suo viso a seconda del moto dell'universo, gli ha dato un capo
rivolto verso il cielo e un collo flessibile. Poi, facendo ruotare i segni
zodiacali (sei durante il giorno e sei durante la notte), ha dispiegato dinanzi
all'uomo tutta se stessa, per ispi- rargli, attraverso la visione delle cose
che gli offre, il desiderio di contem- plare anche le altre. Infatti noi non
scorgiamo tutte le cose né le vediamo nella loro giusta grandezza, ma il nostro
sguardo si apre la via all'investi- gazione e· riesce a gettare le fondamenta
del vero, cos{ che la ricerca può passare dal noto all'ignoto e concepire
qualcosa di piu antico ancora del mondo... (De otio, V, 4-5). E anche questa è
una spertmza e un'esperienza. Una speranza in quanto l'ordine e la razionalità
si pongono come un bene da realizzare; una esperienza in quanto la scoperta
della presenza in sé della propria razionalità, la capacità di porre in sé
misura e armonia ~ tanto lontano dall'essere un fatto umano, che si rivela come
presenza di un valore super umano. Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion
d'essere del tutto, del tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso
stoico; dall'altro lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente,
lo stesso sorgere della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti
ed entro questi del proprio impegno. Di qui, da una parte, U rifiuto
dell'ipotel!i fisica di Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dal- l'altro
lato l'appello epicureo ad un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del
nulla. Certo, a tale concezione di Dio, immanente e trascendente a un 281 tempo, Seneca chiaramente
giunse nell'ultimo periodo della sua medi- tazione, anche se fin dal principio
poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio),
principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime
opere, dal De bene- ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali,
sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la
stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde
le Quae- .rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di
fenomeni) che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una
suprema e provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia
un'oscillazione tra due conce- zioni di Dio: un Dio inteso come natura
naturan.r, mente dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e
custode dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome
conviene (cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14; Il, 45), sempre in atto ed
entro cui si svolgono in pro- cesso circolare tutte le vicende delle cose, il
nascere e il perire, neces- sariamente; e un Dio trascendente, esigenza e
speranza, posto oltre la natura. Certo è che la meditazione su Dio di Seneca
non è una teologia, né una rivelazione da .parte di Dio come lo sarà nel
çristia- nesimo. Si capisce, comunque, in che senso Seneca abbia avuto
un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che di lui essi potranno
dire, Seneca .raepe no.rter; mentre, per altra via, si scrisse, tra il IV e il
v secolo, una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e
San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo,"
ha scritto il Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso
con l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio
nell'abbandono della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini,
nella dot- trina di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è
la .rapientia che distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni supersti-
zione, con lo spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto
vicino al Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza
positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di
moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se
accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare
Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e
risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della
morte" (Marchesi, cit., p. 420). In realtà la problematica senechiana sul
divino è un altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale
dell'uomo. Su questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi
due testi di Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chia-
ramente appare come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica
dal tipo della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica .si fonda
sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità
di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece,
si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se
stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è
né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e
dall'altro lato consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè
retorica e politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come
capace di liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé
del divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della
stessa consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della
constantia. Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu-
tendo sulla natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene,
seguace di Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di
fuoco trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo
contemporaneo, secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la
luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete
son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio
di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico
tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di
leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché
esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... Giorno verrà che le cose
ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso
di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a
noi sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel
secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati
alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare
degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora
lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo
ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide,
IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse
e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi
navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se
avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che
l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi
guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un
prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini,
alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e
dell'atmosfera: e non è solo pazzia
283 dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la
sapienza. Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e
moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte,
è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che
fa [ove è evidente i l rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo] ...
Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia
soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa
tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere
difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{
via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i
limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro
frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è
angusto allor- ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E
cos{ Seneca esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno
d'innalzare le mani al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci
accostare alle orecchie del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te
è Dio, con te, dentro di te... Un sacro spirito risiede entro di noi,
osservatore e custode della nostra malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti
meravigli che un uomo vada verso gli dèi? .Dio va verso gli uomini, anzi, pi6
propriamente, viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è vir- tuosa. Semi
divini sono diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos ire? Deus ad
homines venit, immo quod est propius, in homines ve- nit: nulla sine deo mens
bona est. Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt...). Dopo la morte
di Burro (62 d. C.) e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato e
terribile divenne il governo di Nerone. Le ucci- sioni e i delitti si
susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf allora una congiura. Capo di
essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a gara senatori, cavalieri,
soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro Nerone, quanto da simpatia per
C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La delazione di un liberto e la
debolezza di due congiurati che non seppero resistere allo spavento delle
torture - mentre la liberta Epicari, torturata, eroicamente si uccise piuttosto
che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu chi rivelò che capo della
congiura era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse andata, di proclamare
Pisone impe- ratore - e si aggiunse anche il nome di Seneca, "forse per
procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che cercava ogni mezzo per
sopprimerlo" (Tacito, Ann., l.c.). Sembra, comunque, che una parte dei
congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a Pisone come
possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di Seneca. Di
fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu condannato a
morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era
l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine di morire...
Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché
il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli
si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che
possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. Se avessero di questa con-
servato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtU come compenso di
amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti ora col sem- plice
ragionamento, ora parlando con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici
alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza,
e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la
fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di
Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che
aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti
queste parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po'
commosso dinanzi alla sorte che in quel momento si com- piva, la pregò e la
scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l'avvenire abbattere
da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita vir- tuosa dignitoso aiuto a
sopportare l'accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece,
che anche a lei era stata destinata la morte, e chiese la mano del carnefice.
Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che
,fosse mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era
unicamente diletta al suo cuore: "Io ti avevo mostrato," disse,
"come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito
l'onore della morte: non sarò io a distoglierti dall'offrire un tale esempio.
Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo splendore
della fama sarà maggiore nella tua morte." Dette queste parole, da un solo
colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e
indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita del sangue, si recise anche
le vene delle gambe e delle ginocchia, e abbattuto da crudeli sofferenze, per
non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere trascinato egli stesso a
cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a passare in un'altra stanza.
Anche negli estremi momenti non essendogli venuta meno l'eloquenza, chiamati
gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di
riferire con altre parole. Pertanto Nerone, non avendo alcun rancore personale
contro Paolina, moglie di Seneca, dette l'ordine d'impedirne la morte perché
non si accre- scesse l'odiosità della sua ferocia. All'imposizione dei soldati,
i servi e i liberti legando le braccia trattennero il sangue a lei che non
sappiamo se di tutto ciò avesse o no la sensibilità... Visse ancora pochi anni,
conservando sacra memoria del marito,
nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della
vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta, pregò Anneo
Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di propinargli quel
veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli
Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché
il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all'azione
del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua, spruzzandone i servi
piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove
liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori soffocato. Fu cremato
senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva prescritto nel suo
testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della potenza aveva dato
disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito, Annali, XV, 61-64). E non
molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta in disgrazia, quando
si era ritirato da quella vita politica che non era piu politica e per la quale
non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di una verace vita
ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita politica, cosi
scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi concludendo il suo discorso, la sua
riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al momento della prova,
vtcmo a quell'ultimo giorno che deci- derà di tutti i miei anni, cosf veglio su
me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con
gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte
affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo coraggiosamente a quel giorno
in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere
se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia
la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa
è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano
gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute
filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano
la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~.
Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa
condizione: non temo il tribunale della morte (Lett., 26, 4-7). Per chi non si affidi a semplicistiche e
nette distinzioni manuali- stiche nel delineare la formazione della cultura
nell'arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli inizi del m
secolo d. C., sembra difficile insistere su precise posizioni, diverse le une
dalle altre, chiara- mente distinguibili per èaratteristiche proprie. Parlare
di "neopitago- rismo, " di platonismo medio, di stoicismo cinicheggiante,
di gnosticismo, di ermetismo e cosi via, come di blocchi avulsi da un comune
terreno e da comuni reciproche influenze, che non si scandi- scono nel tempo e
non rispondono a comuni esigenze, è falsare il signi- ficato di una viva
cultura, di problemi concreti, niente affatto cristallizzati, quali, invece,
appaiono a noi nella noia di una tradizione scola- sticizzatasi. Non solo, ma
altrettanto fuorvianti sono le stesse denomi- nazioni indicative: platonismo,
stoicismo, pitagorismo. Tali denominazioni non indicano nulla: se mai possono
evocare uno o altro aspetto di uno o altro platonismo o stoicismo o pitagorismo
determina- tisi storicamente. Sappiamo che se già in Platone vi sono molti
Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono stati poi,
dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi, s1 come
molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per non parlare dei modi diversi
con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele, di
Platone e di Aristotele si sono andati riprendendo, volta a volta, quegli
aspetti che piu rispondevano a certe esigenze e problematiche, in funzione di
concezioni che con Platone e Aristotele, considerati sto- ricamente, non
avevano piu nulla di comune. Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele
abbiano potuto tener presenti certi stoici e come quegli stessi aspetti di
Platone o di Aristotele si siano potuti trasfigurare, in interpretazioni che a
loro volta sono venute trasfigurando le
originarie posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia
profilata da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da
Antioco di Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del
tentativo - d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere
pensabile l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere
stesso in quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio
tardi, si è potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure
geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per
altro .verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in
numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso
stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si
cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica
acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano,
portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa -
condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla
realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la
tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del
tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da
Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo
aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da
Enesidemo ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi
scettici presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità
umane, si vede bene di qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con
l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole,
dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici,
pitagorici, aristotelici. Cos(, renden- dosi conto della validità ddla critica
scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in
termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno
contraddittorie e piu capaci di dare una forma e un senso alla vita (da Antioèo
di Ascalona ad Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici
e platonici). Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno
stoicismo di sfondo, che accetta la concezione di un tutto ordinato e
scandentesi in ben fisse e precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi
regolati da leggi e cos1 via, che è oramai un t&pos, cui poteva servire
certo primo Aristotele ç> certo Aristotele fisico, interpretato in chiave
stoica (si ricordi lo pseudo aristotelico De mundo, composto appunto nel I
secolo d.C.), si poteva sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e
limite, proprio perché l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa
verità trascendente che scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a
Filone l'Ebreo e, per altro verso, ancora a Seneca). Oppure, ancora - certo in
ambienti piu popolari, meno intellettual- mente scaltriti - abbiamo il recupero
di Pitagora mago e taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora
sciamano, egli stesso consi- derato piu che anima in senso greco (forza vitale
e unifiéatrice), anima divina, personale, trascendente, che si incarna di volta
in volta in uo- mini che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi
novelli Pitagora, si presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti.
D'altra parte va sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza
comune, non è neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un
solo aspetto dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono
assunti. A seconda delle difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e
il suo significato in funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a
seconda degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare,
delle tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a
uno o altro aspetto delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di
Aristotele. O ci si rifà all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide,
Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che
si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente
posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O
ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere
conto in ter- mini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione
plato- nico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi
do- vuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio
che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà
tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della
stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi-
cazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un
conflitto fra .i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se,
ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita
("vita pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi
misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci
(dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali
operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi-
tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di
essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di
qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo
matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico
e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche
degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr),
che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da
esercizio e introduzione, da avviamento alla visione 289 platonico-stoica, insieme
agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di
oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le
correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une
chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso
della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa,
in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità
costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto
mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la
coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C.,
che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non
solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone
l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal-
lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine
egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in-
segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel
diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle
molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il
caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da
Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I
a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato
di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma
(I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico
Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico-
simbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro),
da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.).
Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat- tutto ci renderemmo conto di
come una certa tradizione culturale, par- ticolarmente formatasi tra il 11 e il
I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi
(Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla- tonico-matematico, lo
stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi
ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una comune esigenza, ma in
un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo
dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro
autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi
limiti si possono, forse, riprendere i termini pitagorismo e stoicism in senso
molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi,
confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi relativamente
ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos( possiamo anche dire
pitagori••anli e 290 platonizzanti quelle posizioni che, nel
tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto, sulla
scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono il
discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una simbolica
di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non ci si
riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale avrebbe
risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso Platone
(par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe posizioni
stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a parte la
notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il nome di
Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et sensu,
De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4 W.;
Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in
Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a
Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di
Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che
vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti
Cicerone, Rep., l, 15 e la sin- tesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene
come, in questa direzione "pitagorismo," "platonismo," "stoicismo,"
potevano servire a rendere conto di una visione ordinata e armonica della
realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata (razionalizzata)
e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la ragion d'essere
della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico l'astrologia e
la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da cui anche gli
studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante cui operare su
quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri, interpretati come
leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e il costituirsi
delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade) della informe
materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione, non essenza). E
qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo uno nell'unità
di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna realtà
nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le cui
qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del
principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in
lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del
mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può
operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che
sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse
giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del mondo
che ha una realtà 291
temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e
pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità,
pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi
dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di
cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al
limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse
con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il
significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro
lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli
dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio,
terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe
tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte,
nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle incanta-
gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo secondo caso,
invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo d'interpretare il Timeo,
risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà direttamente a Pitagora, o meglio
al Pitagora della leggenda (che sembra già risalire alla perduta Vita di
Pitagora di Aristotele), alla "Vita di Pitagora," di Pitagora
"sciamano," anima personale che s'incarna di volta in volta, che si
allontana per certi periodi dai oorpi, che compie miracoli, di Pitagora, in
realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu Empedocle, a cui, appunto, ora,
Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a caso - sotto questo secondo
aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati un De Pythagora, un De
IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ, Stobeo), la leggendaria
sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi, sostenendo ch'erano dello
stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi dei Detti aurei (Xpua« ~).
: Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e rispetta il giuramento. Onora
quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri, agendo in conformità delle leggi.
Abbi rispetto per i tuoi genitori e per quanti maggiormente ti sono legati da
parentela. Fatti amico di chi è migliore di te per virt6... La Potenza abita
vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati a dominare le seguenti pas- sioni:
il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira... Sii giusto nell'agire e nel par-
lare... Non ti comportare sconsideratamente. Sappi che è destino di tutti 1
Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec. d. C.,. scritto sotto
l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs (cfr. in Stobco, Ecl.,
III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr. in Stobeo, D, 8, 24),
attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte attribuito a lpparco (Stobco,
Ed., IV, 44, 81); un De virtute, attribuito a Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed.,
III, l, 115); un De re publica c un De felicitate (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26;
IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo,
Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo. 292 morire. Le riccb,ezze
sappi ora acquistarle, ora perderle••• Non si deve tra- scurare la salute del
corpo, ma bisogna essere moderati nel bere, nel man- giare, negli esercizi.
Chiama misura quella che non ti nuocer~. Abituati a una vita semplice... Ottima
è la moderazione... [Attraverso una vita ordi- nata e misurata ci si colloca]
sulle orme della divina vimi: sf, per colui che alla nostra anima rivelò la
tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura... Cono- scerai che in tutto c'è una
uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile e nulla ti sfugga... Saprai
che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si procurano: infelici, che
avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e pochi sanno come
liberarsi dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu potresti libe- rare tutti da molti
mali, se a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la pro- pria condizione]. Ma
tu stai di buon animo, perché divina è la stirpe degli uomini, ai quali la
natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu in pane apprenderai
queste cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e guarirai e libererai
l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti parlai; nelle
purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo con giwti- zia, e considera
ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se, lasciato il corpo;
giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e incorruttibile, non piu un
mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto ai D~ti aurei Ierocle di
Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è purificazione e perfe-
zione della vita umana; purificazione dalle affezioni della bruta ma- teria e
del corpo monale; perfezione in quanto restituisce all'uomo la beatitudine
propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla divinità (7tpbç ~v .k(«V
6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante ricordare che questo secondo
aspetto della ripresa pitagorica, in funzione educativa e precettistica, a cui
poteva servire anche la CII vita platonica" e CII stoica" -
interpretata in senso purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo
nelle aree, di- remmo, culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in
quei paesi ove la cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2.
Tra platonismo e pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello.
Moderato di Gades e NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea
che risale al I secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente
razionalistico-matematico, in una inter- pretazione di motivi platonico-stoici,
in funzione di una comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale
linea - a parte il fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui
abbiamo fatto cenno - si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto,
vissuto nel 293 I secolo a.
C., che compose un'opera sui Simboli pitagorici é una Suc- cessione dei
filosofi (sfruttata da Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto
(mpl Tijç -rou 1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo
composta nel I secolo d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui
scritti sarebbero stati conosciuti da Platone attra- verso Acchita (è
dimostrato che le lettere che Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da
_cui si rileva la notizia dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in
circolazione proprio tra il I a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è
il voluto accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita e Ocello).
L'operetta dello pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo
dello pseudo-Aristotele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di
risolvere in ter- mini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una
sola unità in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi
stoici, aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura
del Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in
atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità.
Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo
platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di
loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a
prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si
opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e
al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile,
cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto
Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra
azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza
dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi
Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio-
gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver
trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose
è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia
alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri;
dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure
piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat-
tro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da
questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro
la terra anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti
uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è
l'estate, quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando
l'umido l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le 294
parti piu belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è
immobile e mal- sana e tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è
in eterno moto e pura e salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò
divino. n sole e la luna e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale
il caldo che è causa di vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che
l'uomo partecipa del caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra
provvidenza. Il fato governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di
anime, ritenute dèmoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i
segni di malat- tia e di salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e
a tutte le altre bestie. E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici
apotropaici e ogni specie di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la
sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è
costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La
purità si consegue con i riti della purificazione (Diogene Laerzio, VIII,
24-33). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il
tutto è sempre in atto e che il nascere e il perire delle cose è interno
all'ingenerato ordine dell'Universo, in una trasmutazione degli elementi. Tutto
è perciò calcolabile e riducibile a leggi che co- stituiscono la stessa
espressione in atto della Legge suprema, in una tensione tra principio attivo e
passivo, che molto chiaramente indica l'ispirazione stoica di origine
paneziano-aristoi:elica, risolta in termini pitagorici : A me sembra che il
tutto non sia stato prodotto e che sia ingenerato... Chiamo complesso (6Àov)
ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv). l'ordine nella sua totalicl (-rò
x6cr(J.OV). Esso è l'insieme compiuto e perfetto della na- tura e di tutte le
essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se qualcosa esiste, esiste in lui· e con
lui. Comprende tutti gli esseri diversi, gli uni come parti, gli altri come
produzioni accidentali. Ne segue che le cose contenute nel mondo hanno
afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha alcuna aflinità e alcun
accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono, avendo una natura non perfetta
in sé, avendo ancora bisogno di legame con le cose che esistono fuori di loro,
come gli animali con la respirazione, la vista con la luce... t nel tutto o
nell'universo che ha luogo la generazione e la causa della generazione...
[Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài, le quali si risolvono
neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'uni- verso e la loro
opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre da un lato attiva
e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo; sempre da un lato
governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale universoJl'uomo, in ciò
che lo riguarda, deve essere considerato come avente un rapporto diretto con la
struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di una famiglia, di una
città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che sta per venire meno, se
vuole adeguarsi alla società, alla politica
295 e alla divinità... [Di qui, in tale adeguazione alla
politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la virtU intesa come rapporto
sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed. Harder). Entro questi
termini assumono un particolare inteiesse le pagine di Sesto Empirico (Adv.
math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo, Sesto si riferisce
alla corrente platonico-pitagorica di que- st'epoca, tesa a interpretare in
termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e la ragion
d'essere del tutto, per cui era neces- sario postulare l'identità tra quelli
che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi
(traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi
nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé
il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso matematico
della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno tutto che è
il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere all'ugua- glianza
divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale sembra, attraverso i frammenti
che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici (ITu&otyopLxotl axoÀot(), in
undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae, 48-51; in Simplicio, In Phys;
Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione
di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto nel 1 secolo d. C., parente di
Giunio Moderato Columella, il celebre autore del De rustica. Molto finemente
Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il rapporto stoico, principio attivo
(spirito) e principio passivo (materia), risolvendo i due principt fisici
(forze) in principi aritmetico-geometrici. Egli cosr interpretava la ma- teria
(certo aveva presente il Timeo di Platone) non come realtà per sé, ma come
spazio, .cioè come indefinita estensione logica, condizione perché sia
pensabile ogni possibile costruzione, la cui altra condizione è la
qualificazione, la misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede bene cosr come
per Moderato sia possibile il discorso intorno all'ineffabile Uno tutto, solo
se esso viene simbolicamente indicato come un· numero, matrice di tutto il
numerabile, esso di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è
potenzialmente tutto. Tale, anche secondo Moderato di Gades che raccolse in
undici libri i plaeita dei Pitagorici, il significato della dottrina dei
numeri... Poiché, con li Iberico, nato a Gades (Cadice}, vissuto nel 1 secolo
d.C., Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del De re rustica,
visse a Roma. Scrisse in greco un'opera in undici libri, intitolata Commenti
Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni frammenti
in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.). 296
il discorso, è impossibile spiegare con chiarezza i principi primi,
difficilissimi sia ad essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei
numeri per rendere piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli
studiosi di geo- metria e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere
gli elementi e le loro possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi
sono i primi elementi dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni
non sono gli elementi, ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri
ele- menti. Lo stesso fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere
con parole le forme incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono,
ad esempio, che questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono
questo triangolo qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da
questa figura, concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi
il concetto del triangolo. IIl medesimo esempio si trova nella pagina sopra
citata di Sesto Empirico, Adv. Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i
Pitagorici in relazione alle forme prime... Non potendo espri- mere in parole
le forme incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione
mediante i numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità,
uguaglianza, causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e
conservazione dell'universo, che si comporta sempre nel mede- simo modo,
secondo ·una stessa legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e
che esiste in quanto unità e cospirazione delle parti, parteci- pando della
causa prima (Porfirio, Vita di Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o
identità o uguaglianza (simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non
potremmo parlare di nulla (ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero
senza l'alterità, la differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con
due), per cui ciascuna cosa è una (non potremmo dirla una, se non la
opponessimo ad altra). Chiamiamo, invece, due i l dualistico concetto di
diversità, disugua- glianza, divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è,
appunto, la natura della dualità nelle cose particolari... Infine, poiché
esiste in natura qualcosa che è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è
uno e due, a tali forme e nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi
cosa avesse un ter- mine medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto
(Porfirio, Vita di Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due,
e la dialettica dei due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto
potenzialmente tutto, non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da
sé, di fronte a sé (diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto
l'Unità che la contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il
mondo delle forme intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il
due, le due Monadi sono in quanto presenti all'anima, terza 297 unità che logicamente segue
dalla prima e dalla seconda monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima
e della unità-molteplicità (intelli- gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa
s'incentra l'Universo: volta da un lato verso le specie e attraverso queste
verso l'Uno tutto, dal- l'altro lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto
m'Scorre l'Uno mediante le forme, cioè in quanto si volge alla molteplicità
che, co- stituendo il discorso delle forme, è la sensibilità, la figurazione,
la cui condizione è lo spazio informe, l'estensione pura, la materia, essa
stessa dunque essenziale in quanto nell'intelligibile, esistente non per sé, ma
come riflesso (ombra) della materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata
attraverso Porfirio, sembra ora di notevole inte- resse la testimonianza di
Simplicio sul motivo dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di
Gades. Moderato, seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è
al di sopra dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV),
mentre il secondo uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è
in quanto è definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v
xatl VO'Yj't'6v), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli
sostiene consistere nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa
dell'uno e della specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai
sensibili non parte- cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire
cos{, di essi si adorna, ombra riflessa della materia che è negli
intelligibili, materia ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui
si trova ancora pi6 in basso (~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott,
Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; -rou IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not;
oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou). Anche
Porfirio, nel secondo libro de La materia, riproponendo la tesi di Moderato, ha
scritto che "volendo la ragione mona- dica (6 b.ltati:ot; Myot;), come
dice Platone, costituire da se stessa la genera- zione degli esseri, stabiH la
quantità di tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V), come privazione di
se stessa, privandola appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato
ha chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere
forma, distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia
dato piu nomi a questa quantità, dicendola ricetta- colo informe e invisibile e
'riluttante al massimo a partecipare dell'intelli- gibile,' afferrabile a
stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di se- guito. Tale quantità, dice
Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come pri- vazione della ragione
monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è
,esempio della materia dei corpi, che, diceva Mode- rato, i Pitagorici e
Platone chiamavano quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità
intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come priva- zione, dispersione,
estensione e cos( via, come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto
fugge dal bene..." (Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels). In
realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro
i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si
possono scambiare in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due),
unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita
quantità, l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia
possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici,
costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che
possono dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano
sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due
motivi, che si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza
nella storia dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intel-
ligibili, dall'altro .Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fon-
damento e ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto
tale è al di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle
esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini,
riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri
di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide
di Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista,
Filebo) suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una
massiccia realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in
quanto discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel-
l'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel
senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della
esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide -
Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade,
sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos
spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino
uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile
(mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee
qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno,
nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente
l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di
dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione
dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità.
Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato
di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di
Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di
Alessandria (fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele
(Metafisica, l, 988a, 10-11) discutendo delle cause di Platone. Dice
Aristotele: "le specie sono cause delle altre cose,. s1 come delle specie
è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31) 't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç,
't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Metaphis., ed.
Hayduck), Eu- doro avrebbe corretto cos1: "delle specie e della materia
cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds,
concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato di Gades l'origine
dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the.
origin of the Neoplatonic ((One, in "Class. Quart.). Bisogna qui
aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta monade che ha in
sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa interpretazione
della ma- teria quale si trova nel Timeo, si imposta su di un piano diverso:
anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come realtà a sé
informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza materia si poteva
considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe, condizione della
realizzabilità delle forme, la cui esistenza diviene l'om- bra riflessa
dell'idea materia. Che tale interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee
di Pla- tone fosse interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili inter-
pretazioni che circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da
Filone l'Ebreo, da Seneca, che, proprio perché la riferisce con un . semplice
accenno, accanto ad altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza
nota. Dice Seneca: il mondo delle idee è "il modello che ha avuto
l'artefice davanti a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare.
Non ha importanza poi se egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi
fuori di sé, oppure concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente.
Questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose
che deve fare abbraccia il numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste
figure, da Platone chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili"
(Lett. a Ludlio, 65, 7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la
possibile in- terpretazione della materia intesa non come realtà a sé, bens1
come realtà dovuta allo stesso Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16)
motivo, d'altra parte, presente in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto,
anche se in Filone sia il mondo intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un
atto di volontà di Dio persona. E allora, la testimonianu di Simplicio, che
riferisce la testimonianza di Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato
di Gades, assume una sua prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra
chiaro in che senso Moderato possa dire che la materia esistente non è realtà
per sé, non partecipa in quanto assunta per sé né dell'uno né degli
intelligibili, ma è ombra ri- flessa della materia che è negli inteUigibili, e
in che senso Eudoro cor- 300
regga la frase aristotelica, affermando che l'uno è causa degli intelli-
gibili e della materia. Entro questi termini si trasforma qui sia il concetto
platonico di materia amorfa, di puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in
sé tutte le cose (cfr. Timeo, 50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia
intesa come soggetto (u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l,
1042a, Zl), o anche come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf.,
VII, 7, 1032a, 20), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr.
Diogene Laerzio, VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134)
su cui si esplica l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur
mantenendosi il concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto
pensabile (non con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non
può non essere che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile,
idea di estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che
non è tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto-
Anima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà
per sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria
introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i
risultati della matematica greca è l'Introdu- zione aritmetica,
•ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a cavallo
del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Ma- nuale di armonia cita Trasillo,
scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro nel De
artibus ac disciplinis liberalium lil- terarum, c. IV, Migne Patr. lat., vol.
70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo, tradusse in
latino la diligente espo- sizione della disciplina aritmetica di Nicomaco di
Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su di un piano
logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri (non a caso il
titolo della sua opera fondamentale, di cui pos- sediamo due libri, è
intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu- ?:ione alfarte dei
numen). Come Euclide definisce il punto, quale con- dizione e termine di
qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipen- dentemente da ogni
raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce
tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di
numero ("numero è molteplicità rac- BDiNicomaco,v~nellas econda metà del1secolo,
nato a Gerasa, sappiamo molto poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono
rimasti due libri; intero è perve- nuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue
altre opere (Theologi11 arithmetic11, lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio
111tronomi~~e) non sono rimasti che frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti
di PiiiiKor•, una Vitti di Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti
egisitmi. 301 chiusa entro
term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di
unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr.
an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della
molteplicità implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di
combinazioni e separazioni di numeri, di rapporti e propor- zioni, per
giungere, infine, attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico
tradotto in simboli numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi
termini, ove i principt, impliciti nell'unico principio (unità), divengono,
appunto, gli stessi principi logici, simbolicamente assunti come numeri.
L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa consiste da un lato nella
sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei risultati, sparsi nel tempo, del
sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento deÌle sco- perte matematiche da
Archita a Filolao e via di seguito, entro la linea dei cosiddetti pitagorici,
per essi intendendosi, in fondo, i matematici;- dall'altro lato nel non
indifferente sforzo di presentare un possibile tipo di ragionamento, un tipa di
logica (matematica) che poteva, in via ipotetica e simbolica spiegare -
indipendentemente dal ricorrere alle figurazioni geometriche - le essenze non
corporee, cioè le leggi su cui si scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco
risolveva in tal modo le aporie implicite nell'Unità posta dal Parmenide di
Platone, in un discorso aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso
snodarsi dal- l'Uno del discorso del tutto in termini geometrici (sensibili),
svelando cosi il mito del Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato
dato al numero nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991d: "ogni
figura, ogni sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di
tutte le rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto
questo seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà
quando rettamente si apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi
rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i
fenomeni; chi altrimenti intra- prende tali studi dovrà invocare la
fortuna..."). Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della
predicazione qualora appunto si risol- vano in numeri le condizioni stesse del
pensare, Nicomaco poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I
libro della Intro- duzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si
avvicinano non poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle
categorie di Aristotele), interpretare numericamente le categorie di Aristotele,
identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd tutto. E
ciò tanto pio è chiaro quando .si tenga conto che le dieci categorie si
potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o
tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco 302
di proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1
svolge l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in
una figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per
lato .-:\ , la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf,
racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2 : l ;
quinta 3 : 2; quarta 4 : 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l;
linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le
cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie
che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L.
Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York,
1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle
essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel
poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione
geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr.
aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa,
nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della
realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione
geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il
discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco
di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione
aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è
- con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte
le possi- bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto
si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte
le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque,
Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si dispiega
nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega nel
discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena arithmeticae
se non è di Nicomaco, sembra almeno derivare da lui, si sostiene che Dio è come
un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le cose" (xatl 6·n
"t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç .qj ~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v, mtep!Lat"t'U
(Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh .qjq>6ae'6V"t'at (Theol. arithm., ed.
Ast, p. 4), sf come la monade, l'uno o seme di tutta la possibile costruzione
logica della realtà. Sembra, cos{, che se da un lato mediante il discorso
aritmologico e il discorso geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un
piano puramente logico l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato
poteva rientrare entro la medesima spiegazione la tesi stoica del “logos
spermatikos”. Il divino principio attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo
assumere il signi- ficato dell'unità potenza, perdendo, certo, nella traduzione
in numero- unità, il suo valore di forza (spirito) fisica e spontanea (donde,
poi, da parte di alcuni interpreti di Platone la polemica contro il
materialismo degli stoici, con il conseguente problema della materia, principio
oppo- sto, dunque, all'immateriale Uno divino). In realtà, platonismo (Parmenide,
Timeo, Epinomide), pitagorismo (aritmologia e geometria), stoicismo (il
principio che ha in sé tutte le possibilità che portava a interpretare il mondo
delle idee platoniche come forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in
quanto ragion d'essere), si venivano ad incon- trare in unico sistema, nella
possibilità di una teologia logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae)
cui servivano da introduzione, ma anche da dimostrazione, la teoria
aritmetico-geometrica, la teoria musi- cale (abbiamo un Manuale di armonia di
Nicomaco), lo studio dei rapporti delle leggi stellari (possediamo di Nicomaco
alcuni frammenti di una Introduzione alrAstronomia). In altri termini, le
vecchie disci- pline platoniche in funzione dell'educazione del filosofo:
geometria (piana e solida), aritmetica, teoria musicale, astronomia, venivano
siste- mate, dando la precedenza all'aritmetica, entro cui sono implicite la
teoria musicale, la geometria e l'astronomia, quale avviamento alla
comprensione scientifica del divino, cui, per altro, potevano servire, sul
piano pratico, dei rapporti umarii, della propaganda e convinzione, la
grammatica, ·la dialettica e la retorica. Pitagora- scrive Nicomaco nella
prefazione all'Introduzione aritmetica- definisce la sapienza conoscenza e
scienza della verità implicita nella realtà, concependo la scienza, sicura e
immutabile comprensione di ciò che sta a fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò
che nell'Universo permane sempre identico a sé e non cessa mai d'essere,
neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali (!u>.at), quelli cioè per
la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e perciò nominabile, è detta,
assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l, 1-2) ... Poich~, dunque,
della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se stesso, non avendo alcuna
relazione ad altro, come pari, dispari, numero perfetto·e cosf via, e un altro
aspetto è concepibile in fun- zione di altro e in relazione ad altro, come
doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un terzo e cosf via, evidentemente
due dovranno essere i metodi scientifici mediante cui esaminare a fondo la
quantità: il metodo aritmetico che ha per oggetto la quantità in se stessa, e
la teoria musicale che ha per oggetto la quantità relativa. Ancora: quanto alla
grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in quiete e immobile e l'altra in un
movimento di translazione, di conseguenza due sono le scienze che studieranno
con esattezza la grandezza: la geometria ciò che è immobile e quieto; l'astro-
nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si muove circolarmente. Senza queste
304 è impossibile trattare con esattezza le forme dell'essere o
scoprire la verità nelle cose, nella cui conoscenza consiste la sapienza. Senza
di queste, insomma, è impossibile filosofare rettamente. "Come il disegno
contribuisce con la tecnica alla retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli
intervalli armonici e le rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del
ragionamento scien- tifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico
Androcide [autore di uno scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena
arithm., ed. Ast, p. 40. Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I,
330 sgg.; e 1'Epino- mide, 991 d sgg.]. Tali studi [geometria, aritmetica.
astronomia, teoria musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che
consentono alla mente umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli
intelligibili e agli scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti
infantili, fisici e sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò
che è estraneo ai sensi (1, 3, 1-6). Orbene, quale delle quattro discipline
metodologiche è necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede
le altre, evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto
alle altre, la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e
non solo perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine
cosmico ed esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il
demiurgo dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse
realizzino i propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica
in sé le altre discipline, senza esserne implicata (I, 4, 1-2). Pitagorismo,
educazione e retorica. Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato
di Lemno e il trattato su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se
passiamo all'aspetto predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione
scolastica in funzione educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e
alle leggendarie vite di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di
esempi di vita (non a caso lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di
Pitagora e una Vita di Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti
egiziam). In realtà, e ce n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo
(cfr. sopra) e poi, soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe
suggestioni pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa.
Basti ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere
cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che
l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla
va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i
vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli
platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate
orbite, 305 ma anche gli
animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro
cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti
sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a
prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il
richiamo ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi
(r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa
dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità poteva
essere l'ipotesi pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli iniziati,
cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica, ·la
musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri
discorsi, tecniche terapeu- tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei
piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi
riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n
sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli
dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le
leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito,
le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende
"in senso volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi
immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare
tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo,
un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in
sé chi sia caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo
soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va
considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di
coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di
Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime,
di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per
natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad
esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità
umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la
fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene.
E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di
Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu
amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre
la vena cinica, ravvi- cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in
una comune oppo- sizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e
passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori
e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~ 306
viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96
al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò
realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita
di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato
a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la
dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C.,
Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di
Set- timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene
sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di
Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a
lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che
Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C.
con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la
capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del
pub- blico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden-
temente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera-
peutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi per-
sonaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento,
rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se,
come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo
biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè
la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un
saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di
gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non
fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli,
l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il
suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che
l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua
"sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le
azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da
Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo
che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché
divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive
Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della
sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce
ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico:
cfr. "Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine,
un Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13),
Oracoli, Lettere. è sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si
scordi che anche Se- neca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc.,
108, 13 sgg. - ch'egli era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando
di cinici, dirà Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto
in un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si
conosce ancora quale sia stata la stia filosofia... Alcuni, avendo egli avuto
rapporti con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti
dell'Egitto, pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe
stata che una forma di violenza. :a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli
è mal conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i
maghi, hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli
adepti della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai
sacerdoti e dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo
aver preso un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto
di Platone un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua
sapienza, oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di
un avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti
bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto
spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono parecchie
predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad
attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le
sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene .-:be tutto
quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore,
divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi
sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe
azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un
essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I,
2). Vivrò da pitagorico, disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro
Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove
comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la
loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le
guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si
nutrf di verdure e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro...
Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere
i capelli e divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap., I, 7-8).
Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di
Apollonio: la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio
di Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe
soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in
Grecia, a Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi
in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con
l'imperatore Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti.
Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe
sparito sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei
miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli
avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi
presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re
Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo
sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigel- lino e con Domiziano il
tiranno da cui venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con
Vespasiano e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore,
- Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e
guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di
vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di
Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il
fine che ci hanno fissato le Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato
che la Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo
su di un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il
meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tec- niche
retoriche tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno
spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui
fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della
retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e
il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava soprattutto
l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della metafora, in
stretta osservanza e imi- tazione dei classici), alla retorica affettiva, per
cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante argomentazioni
razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando la
meraviglia, come fu il caso .della retorica proclamata dall'avversario di
Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale,
entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n
secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale
della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e scle- rotizzata da
Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di
un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul
sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attri- buito a Cassio Longino (retore del m
secolo d. C.) e a Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che
già gli antichi non sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si
era letto che Il sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge
di Dionisio o di Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora
anche D. A. Russell, Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la
tradizione della retorica in senso aristotelico (rappresen- 309 tata ancora da Cecilia di
Calatte) il Sublime insiste sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa
come avviamento all'ordine sociale e poli- tico in senso stoico (si pensi a
Diogene di Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo
straordinario, il meraviglioso, il sublime ap- punto. "Veramente
ammirevole è .rempre, per gli uomini, lo straordi- nario" (35, 5).
"Il fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria
è l'evidenza: entrambe comunque ricercano il pate- tico e il concitato"
(15, 2), insieme alla grandezza del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio,
la si ottiene non "a capriccio, procedendo anzi con metodo (2,.2), usando
certe tecniche da cui far scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come
uno dei possibili stili retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo
innamorare di ciò di cui si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla
passirme e all'entusia- smo. Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante
certe appropriate figure del pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza dell'elocu-
zirme e la scelta di un argomento tale da costituire una composizirme (
crov&eatt.;), che, ispirando i piu alti pensieri, vada oltre il quoti-
diano vivere, creando mondi di superiore grandezza (sublimi), velando cosi gli
artifici retorici. Se il Sublime dello pseudo-Longino rispose all'esigenza di
certi retori posti· difronte a un certo pubblico, la Vita di Apollrmio di Filo-
strato risponde esattamente all'esigenza di altri argomenti mediante cui,
suscitando il meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore in una vita
sublime, sospesa tra la realtà e il mistero. E qui bisogna ricordare che
Filostrato scrisse anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le ombre della
guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è il gusto per lo "straordinario,"
e dove, per altro verso, si presentano gli eroi del passato, si come nella Vita
di Apollonia si presenta la figura di Apollonia. Non solo, ma è altrettanto
interessante sottolineare che l'autore del Sublime, nel 1 secolo, d'accordo con
l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito) e con Seneca, sostiene che
la decadenza della oratoria.e della letteratura, il prevalere in certi ambienti
della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza all'applicazione di fredde
regole, è frutto della situazione politica attuale, della perdita della
libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti e nobili ideali per
·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero quel che si dice - le
gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non solo impediscono ai
rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua per la museruola
posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la piu legit- tima,
potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di tutti" (44,
5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime" come stile, ma
all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare 310
mediante immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche, rap-
presentazioni di cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento.
Se entro quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate
condizioni d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti,
intesa al "sublime," .rompendo contro la vita quotidiana, mediante il
miracoloso e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della esercitazione
retorica e romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III secolo da
Filostrato di Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto
la vita di Apol- lonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da lui
inventate, certo una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali e
sulle reali azioni di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la figura
reale del Tianeo. In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci
presenta un Apollonio non tanto filosofo di professione, quanto maestro di
vìta, maestro itinerante, che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che
abbia scritto una Vita, ed Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di
tecniche mediche e incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le
sue parole, con i suoi atti " sublimi," presenta se stesso in
"stile sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i ter-
mini di una conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità
fatta di superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per
prevenire o curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto que- sto
aspetto sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che,
si dice, Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro
con Nerone e Domiziano, e, dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come
quella di un Demetrio cinico, e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti
diverse da quelle di Filostrato, con- tro la superstizione, contro la
religiosità ridotta a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era
stato, nella stessa epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno
dell'insegnamento di Seneca. Secondo Euse- bio, Apollonio di Tiana cosf
scriveva in una sua opera tramandata sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo
che si osservi il culto conveniente alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è
concesso averla propizia e benevola in qualsiasi circostanza, se al Dio che
diciamo Primo e che è Uno e separato da tutte le cose e che dobbiamo
riconoscere superiore a tutti gli aii.ri, non si immolino vittime, non si
accendano lampade, non si consacri alcuna delle cose sensibili. Dio non ha
bisogno di alcuna .cosa... Con lui adopera solo la parola migliore, cioè quella
che non esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore degli esseri, invoca i
beni mediante ciò che in noi v'è di migliore: l'intelletto, che non ha bisogno
di nessun organo... (Eusebio, Praep. evan., IV, 13). 311 E in una lettera, che, tra le
molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si legge: Se gli dèi non hanno
bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro favori? Credo si debba
avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per quanto è possibile,
secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi, ma in situazioni simili,
Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il nuovo Pitagora) potevano
"benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che piu tardi, quando la
figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV secolo, !erode Sossiano
di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella sua Vita di Apoll~nio,
aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era possibile fare l'encomio
della tradizione che aveva costruito la figura di Apollonio, e come accanto
all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di Apollonio (il Cristo
pagano), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni puri- ficatorie
popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i Cristiani, ad
opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo, soste- nendo che Apollonio
rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani, potevano tentare
di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un epistolario tra lui e San
Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era cristiano. 4. Lo
Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto
Interessantissima è la narrazione, da parte di Filostrato, dell'am- biente e
dell'atmosfera politica, della corruzione morale e religiosa, in Roma, al tempo
di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia (libro IV, 35-47). D~ questa
narrazione viene fuori un Apollonia moderatore di co- stumi, che propone se
stesso quale esempio di vita misurata e saggia, simile alla figura e
all'atteggiamento di Demetrio, quale risulta anche da Seneca. E ne viene fuori
pure una delineazione della "filosofia" intesa come riflessione
morale, come avviamento a restituire l'uomo a se stesso, alla propria dignità e
libertà, alla propria razionalità, cJoè al divino, in opposizione alla corruzione
imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento dell'imperatore. Entro questi
termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la paura che l'imperatore e i suoi
accoliti sentivano nei confronti della "filosofia": un controllo
coraggioso del loro ope- 312 rato, un'azione seducente sul Senato
da un lato e sul popolo dall'altro lato, e quindi un'attività antipolitica,
antistatale, antireligiosa. A parte Seneca, abbiamo già accennato a illustri
vittime della poli- tica imperiale, e alla preoccupazione da parte del governo
romano nei confronti di certe prese di posizione, ritenute, a torto o a
ragione, frutto di tesi filosofiche interpretate o come magico-demoniache e
distruggitrici dei culti religiosi correnti, o, nel richiamo, particolar- mente
da parte stoica, all'antico concetto della res-publica romana in senso
scipionico-ciceroniano, come estremamente pericolose per la isti- tuzione
imperiale, a carattere assolutistico-personale. Entro questi ter- mini, in una
ancor forte oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e
al fondamento giuridico-istituzionale del po- tere - se l'imperatore debba
essere tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato
e del Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato, il
re divino in senso orien- tale - si vede bene lo scontro tra il lento e
faticoso costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a
seconda dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese
di posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o
stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e
indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che
per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con
il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo
fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto
personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora
una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a morte da Nerone nel 67
d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco,
questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56, per il suo
atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66; rientrato in
Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore nel 70,
fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di nuovo
esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non vanno
scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua
opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da
Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende
turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea
Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne
accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a
morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio Celere,
condannato a morte nel 69, da Vespa- siano. E cosf non è poco indicativo che
Vespasiano, dopo la condanna 313
di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i filosofi, tranne
Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a Cornuto, fatto
rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere Materno per le
sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché aveva composto un
elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e di Elvidio Prisco,
e lo stesso figlio di Elvidio, allonta- nando di nuovo da Roma tutti i
filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione, perché aveva
scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali avvenimenti - ed anche
questo è indica- tivo - che il retore Dione di l>rusa (30-117), detto
Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi "peste
della città e dei governi," si converti alla filosofia, con particolar
propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il giovane
riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi, ammirandone il
coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in effetto, la funzione
assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d.C., particolarmente a Roma e
nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di Nerone a quello di
Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta a fondazione di
una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la pitagorica, la
cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o l'altra entro
l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole e tradizioni
precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad Apollonio, da
Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla benevolenza,
l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era divenuta la vita
politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo ricordo di Socrate (si
veda,' ad esempio, Seneca, De tranquilli- late animi, VI, 1-2). Entro questa
atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato l'insegnamento di Musonio
Rufo, tutto volto - sul piano di un gene- rico stoicismo di sfondo - a formare
l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa personalità e la problematica morale
di Epitteto. A tale proposito, per meglio intendere quella che fu una conce-
zione stoica di sfondo, merita il conto ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a
Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e amico di Musonio, maestro di Persio
Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si fece edi- tore delle Satire di lui,
e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca, nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone
nel 65), che, nella Farsalia, non poche volte rivela motivi stoici. Cornuto,
insieme a Musonio, fu esi- liato da Nerone nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di
cultura, che scrisse in greco e in latino opere letterarie, tra cui famose
alcune sue interpretazioni di Virgilio, insieme a un De figuris sententiarum e
314 a un De enuntiati011e vel de ortographia, e opere di retorica
precetti- stica, tra cui una dal titolo Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc().
Egli scrisse anche un'opera contro le categorie di Aristotele e un Escurso di
teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv
7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di lui conservatasi. Nel suo complesso assai
prolissa, monotona e, certo, di non aÌto significato, l'Epidramè ha un suo
particolare valore come documento, da un lato, proprio nel suo essere un
manuale divulgativo e un com- pendio di opere precedenti sulle divinità del
pantheon greco - allego- ricamente interpretate entro i termini della teologia
fisica stoica, - della diffusione di quella che dicevamo la generica concezione
stoica di sfondo (certa terminologia cristallizzata è molto indicativa); dal-
l'altro lato, del modo in cui venivano recuperate le antiche divinità m
funzione della ratio physica stoica. Basti un esempio: Il cielo tutto intorno
avvolge la terra e il mare e tutto quel che si trova sulla terra e nel mare...
Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è l'Universo; anche l'Universo ha
un'anima che lo avvolge, e questa viene detta Zeus, soprattutto perché egli
vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi; per questo si dice anche che
Zeus su tutto regna, sf come si po- trebbe dire che pure in noi l'anima e la
natura ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7, ed. Lang). Da quel poco che
conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli soprattutto si volse
all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere, come cura per i
malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di una famiglia
equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque intorno al
30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito Rubellio
Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a togliersi la vita
per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66, fu, in seguito alla
congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo amico Cornuto, c
confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da Gaiba, visse
abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano, che pur
lo aveva risparmiato da una precedente espul- sione, avvenuta nel 71, Tito lo
richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu tardi del 102. Soprattutto
dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia lasciato alcuno scritto.
Del suo insegnamento orale restano appunti e frammenti: apoftegmi, brevi
trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo Gellio, Epitteto in Arriano,
Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si vedano ora raccolte da Hense, M:
Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da cui sono state tratte le
citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui, composto da un certo
Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo insegnamento orale, il
discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'inse- gnamento di Epitteto).
Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta, a quanto pare da
Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non resta alcuna
traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a Pancratide. 315 onesto (k.alol(agathos), la
cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e rispettoso di se stesso e
degli altri: "in realtà, pratica di virtuosità è la filosofia, e non
altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv bt~'t"')3euatç
xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed. Hense). Dedito al solo
insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente. Di lui possediamo
apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni: alcuni apoftegmi sono
riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole di Epitteto; altri,
insieme a vere lezioni, si tro- vano in Aulo Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La
fonte principale di tali citazioni - particolarmente lunghe quelle. riferite da
Stobeo - sembra sia uno scritto di un certo Lucio, fiorito sotto Adriano,
seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato le lezioni. Nessun
ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio, scritto da un certo
Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza dell'insegnamento di
Musonio Rufo sui con- temporanei, particolarmente su alcuni uomini della classe
superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di
Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro opposizione poli- tica,
come fu per Rubellio Plauto (Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea
Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto etico- sociale molto risenti lo
schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano
ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto
risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda
fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna),
misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco,
come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio
atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico
Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive
Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e
ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza,
solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di
espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo,
è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli
abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere
considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande
venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto,
una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande
purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e
coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correg- gerli... (I, 10). 316
Senza dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos
- esso sembra, comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale
dell'uomo per bene, per una società per bene, in un mondo piuttosto per male.
Musonio Rufo, cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini
(Bolsena), nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indo- mani della congiura di
Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola
delle Cicladi). Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché
fossero banditi Verginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i
giovani con l'elo- quenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann.,
XV, 71). La breve annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che
l'insegna- mento di Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare
ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha
da essere l'uomo, un rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato
nella delineazione di quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un
tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico
dello Stato, da opporre allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i
precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago
stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione della divina ragion
d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che sia in una necessaria
catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito alla purezza della vita,
all'amore reciproco, per- fino al rispetto di norme igieniche (in tal senso
vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità, all'astensione dalle carni e
cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo pitagorismo, o, per certa sua
rigidità, di ci- nismo), assumono un loro mordente e una loro portata di
rivolta, qua- lora si consideri l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per
i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia" è cultura e
consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle proprie
possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa attuare
pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser filosofo vuol
dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè
esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti abbiamo per natura,
cia- scuno per ciò che gli compete, la possibilità di essere virtuosi, il seme
della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo
è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale .~eme, che a tutti è ugalmente
comune, onde tutti hanno il dovere d'essere "filosofi," gli uomini
come le donne (III), i poveri come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII).
Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere del saggio, di fronte a chi,
preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una o dall'altra cosa, vive 317 nella passione, è disperso,
non è se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi
chiare le prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né molte
dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato,
l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante
cui ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che
venne poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo
quello di Ze- none di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che,
entro i termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che
riflessa - in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del
realizzarsi dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel
risolvere il rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha
in sé un seme di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a
quella necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema
implicito in una coerente posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi,
di conseguenza, il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il
potere di agire, se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale
possibilità, rendendosene consapevoli (e sarebbe già questa un'attività
propria), consiste nell'accettare lieta- mente l'ordine stesso del tutto, tutto
ciò che avviene. La virtu (bene) consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la
ragione, il vizio (male) nell'esser preso dalle cose, nel dare alle cose e ai
sentimenti un valore unilaterale, disordinato, nello sragionare, per cui tutte
le cose sono indifferenti, considerate dal punto prospettico della ragione, in
rela- zione a ciò che nel vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne
deriverebbe perciò, entro i termini del piu antico stoicismo, che ogni azione
essendo positiva, la differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo,
ma nel come agiamo, o meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol.:
Zenone, Cleante, Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce
mediante la ragion d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò,
tutto è bene, o meglio come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la
natura; si ammetta anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è
passione, cioè è di volta in volta preso da questa o da quella
rappresentazione, che si accavallano in lui, trascinandolo indifferentemente,
in opposte dire- zioni, per cui l'uomo è incoerente, e non da lui dipendono le
cose, e che dall'altro lato, invece, ha la capacità di coordinare quelle
passioni, di non essere piu preso da questa o da quella, ma di costituire sé in
unità e coerenza, valutando le stesse rappresentazioni in un ordine per cui
ciascuna nel discorso si colloca dove è bene che sia; ne segue che non
incoerentemente si può concludere che la libertà umana con- siste, appunto, in
questa sperimentata capacità di vivere secondo ra- 318 gione, o
meglio in questa esperienza di una capacità di scelta tra l'essere preso da
questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur sempre entro i medesimi dati,
rendendosi conto, attraverso il discorso e un retto ragionare, delle stesse
passioni, che, in quanto comprese, ricollo- cate nel loro giusto posto, cessano
di essere passioni, in un'unica vita secondo ragione. In tale direzione sembra
si debba interpretare l'ap- pello alla r~gione e al vivere filosoficamente da
parte di Musonio, e, soprattutto, un frammento - va detto che è un testo
ricavato da un'opera Sull'amicizia di Epitteto, andata perduta, - in cui
Musonio sostiene che bisogna saper distinguere tra ciò che è in potere nostro
(~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è (oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. XXXVIII, Hense). In
nostro potere è il sapere usare le rappresentazioni, da cui la giusta
valutazione delle cose, e perciò la liberazione dalle passioni, dalla vita
dispersa, dall'amore unilaterale per questa o per quella cosa, che, in questo
senso, rimanendo incomprese e, dunque, altre da noi, restano non in nostro
potere. Sembra cosf chiaro perché per Musonio, onori cariche e cosf via non
siano beni, perché non siano beni i piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto
alla vita dispersa, esteriorizzata, ma che l'unico bene in cui consiste l'unica
libertà possibile, e perciò l'unica virtu e felicità, stia in ciò che dipende
da noi, cioè nel saper pensare, nel vivere secondo ragione, nel nostro modo di
atteggiarsi nei con- fronti della realtà, nel cui atteggiamento consiste
l'esperienza della volontà come-intenzione. Se in tale interiorizzazione della
realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità di valutare rettamente cose e
avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere filosoficamente,
virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la razionalità, quel seme di
virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In
questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in questo sentire
l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia degli adulti, che
in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini, sono come ammalati
che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di Roma tra Caligola,
Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque amma- lati gravi,
per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli ad essere
razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per l'uomo in
quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sotto- linea l'importanza
che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che come cose e
strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come
"uomini," e·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma
anche un valore (XIIIh-XIV), da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli
non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una
volta). Se tali debbono essere gli uo-
319 mini, se non v'è società senza reciproco rispetto,
fondato sul ricono- scimento di una.possibile comune razionalità, tanto piu
dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo
dello Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p), sosteneva
Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re
debbono studiare filo- sofia (VIII). Per Musonio non si tratta tanto di
delineare quale debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui
tale questione è trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il
sovrano giusto è il sovrano che sia "filosofo," cioè .virtuoso sf
come tutti gli altri uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di
sapere reggere bene le nazioni o le città e d'essere degno di governare gli
uomini, chi, chiediamo, piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi
piu di lui sarebbe degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo,
sarà saggio, misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto
e di ciò che conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure
fatiche" (VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che anche
durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento
rivolto a tutti coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano
andati a trovarlo, fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli
effimeri governi di Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano
(70-79), nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo
simile a quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto
certe posizioni stoiche, di cui sembra che par- ticolarmente apprezzasse quella
di Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco,
che pur sempre vedeva nel- l'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un
governo personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche,
Vespasiano, ritenendo estrema- mente pericolosi gl'insegnamenti stoici per
l'unità dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che,
tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito (79-81), che riprese la
politica pacificatrice del padre, cercando di dare all'Impero anche un
fondamento ideologico, Musonio venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui
non si hanno. Proba- bilmente morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel
94 dal fratello e successore di Tito, Domiziano (81-96), che deCisamente si
volse ad un ~ccentramento di tutto il potere nelle proprie mani. Tra i
pensatori e i maestri che nel 94 furono costretti ad abbandonare Roma, vi fu il
piu intelligente e solido discepolo di Musonio, Epitteto.., il Diflicile è
precisare le date della vita di Epitteto. Se nella Suda si legge che Epitteto
visse lino all'avvento di Marco Aurelio (161 d.C.), la aonologia del suo
editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un po' piu antica.
Nato nel 320 Egli non si spostò molto né dalla concezione né dal tipo
di insegna- mento di Musonio. Epitteto, come Musonio, non pretese mai di dare
).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di volta in
volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da chi si
recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si intratteneva in discussioni
brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi, si
ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle
estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio - approfonditi nelle loro
varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto
si richiama. Specchio fedele delle con- versazioni di Epitteto, di questo suo
modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un
certo ragionamento, at- traverso il dialogo e la discussione, in situazioni
precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il
complesso degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano
di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di
volta in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso
Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio :
Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia
di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti.
Ma tutto quello che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse
possibile con le stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a
ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi,
com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per
bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in
futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà
e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im- 50 circa, a
Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane
fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor
prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di
ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di
Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre
Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai
libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma
su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi.
Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto,
fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le
sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da
Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi pubblicati
da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di libri andati
sotto il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di summa delle
massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o Manuale.
Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco Aurelio (3),
di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatribe sulle altre
possibili raccolt e dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo. ] portanza
se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno, se taluno
avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che, anche
parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi ascoltatori.
Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi (>.Oyo~),
otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei filo- sofi:
altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che, quando Epitteto
li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti ch'egli voleva
fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne sono io la
causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale titolo abbia
dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due termini:
Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato all'opera il
titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi che parlano
di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes (dialécseis), di
Hypam- némata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr. Aulo Gd- lio, l,
2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in Comm. Enchiridion,
ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl, test. III;
Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano avrebbe
scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie
(conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (dia- tribe) quale è
giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto
libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie
di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi
che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento
di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto dalle
Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto,
dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o
do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri
titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni
diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter
essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni
e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli.
"Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa -
già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II,
Londra, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i
indicas- sero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi
assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli
antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia
stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano
322 già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la
pub- blicazione... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij,
ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono
spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se
mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri
delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo
dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto
indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero
di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo
Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di
discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare
i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte, 406a),
si allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico,
lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica, .di
matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare
(in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad
ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in
senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la
predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e
concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di
insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In
altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il
luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche
pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di
dirigere il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero
rapporto, anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa
concezione, ma non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una
precisa dottrina. Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli
insegnamenti di Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è
accidentale, estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi,
ritornano gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che
dipende e quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il
titolo che ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che,
in effetto, Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto
insegnamento, di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui
l'uomo forma se stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper
pensare significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto
descrizione della realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è
normativa, ma formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà
contenuti, ma si richiama al vivere secondo ragione, mediante 323 certe tecniche retoriche che
5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si
determinano in una dis'cussione che finge il dibat- tito giudiziario o
conflitti di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della
diatriba popolare). Quando nel 94, costretto ad allontanarsi da Roma per
decreto di Domiziano, che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi,
giunse a Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in
ricordo della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola,
divenuta presto un centro di discussioni ("diatriba"), dove
moltissimi si recavano per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le
Diatribe e il Manuale rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epit-
teto aveva quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della ma- turità,
portava con sé sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano
("non è troppo sicura l'occupazione del filosofo, special- mente ora, a
Roma" : Diatribe, Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento
dell'insegnamento del suo maestro Musonio Rufo. Epit- teto era nato intorno al
50, ad Jerapoli, la città santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia
meridionale. Schiavo - c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto,
indicasse la sua condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo
un'antica iscrizione (in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu
condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone,
che faceva parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a
suicidarsi (Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle
diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito.
Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a
tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene, Gregorio Nazianzeno) che
giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà,"
avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: " T e
l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se
non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e
l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico
è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per
delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu
(cfr. Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto
meno pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai
reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza
del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato
della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va
veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba
spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto,
non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con-
creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto,
sul rapporto necessità-libertà, realtà .che è quella che è, ineso- rabile, da
cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda,
indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei
nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo
di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere
dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda
dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si
è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio
queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse
è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad
Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo.
Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte
della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a
distanza di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero,
ognuno per sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti : cosf
fortemente egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli
occhi di ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un
filosofo: non si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~,
III, 23, 29-30). E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua
medita- zione, tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine
sul retto pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di
Crisippo (il problema del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano
all'altro aspetto del problema logico e del problema della li- bertà (essere se
stesso), impostato dai cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di
Aristone non va dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le
Diatrib~ per rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di
Cizio e Crisippo, che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna
affatto a Boeto, a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e
Antipatro, mentre non poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate,
Antistene, Platone socratico, Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle
discussioni, ai con- sigli, ai dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta
in volta da singole domande, da singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~),
Epitteto svolgesse nella sua scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni,"
ch'egli cioè leggesse e commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Cri-
sippo (dice il BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, p. 2, che il •libro
sacro," heiliger Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo, 325 mentre il Bruns, De schola
Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea contro la tesi dello Zahn, Der
Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum Christentum, p. 37, secondo cui
Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e dialoghi, che i termini
OCVotyLyv6laxe:LV e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu volte usati nelle Diatribe
per indicare un modo di insegnamento, non sono sinonimi di 3~a3otL, ma
significano, mantenendo il loro valore originario, la lezione, la lettura o
prelezione e l'esplicazione dei testi). Sulla linea, dunque, dello soicismo
cinico piu che su quella dello soicismo in chiave platonica, Epitteto svolse il
suo insegnamento in un impegno essenzialmente educativo. Probabilmente sviluppo
di un motivo proprio di Musonio, è l'insi- stere di Epitteto sull'educazione
come formazione dell'uomo, me- diante l'educazione a sapere correttamente
pensare, che lo riporta, appunto, a Zenone di Cizio e a Crisippo. Tutti gli
uomini, in quanto animali razionali, hanno una comune ragione, hanno le stesse
guise, gli stessi modi, che, formalmente, sono condizioni del comune pen- sare.
Tali modi, tali guise o principi, su cui si fondano i discorsi, tali prenozioni
{7tpoÀ~IjieLç, prolép,seis) o idee prime, proprie di tutti, e su cui tutti
siamo d'accordo, e sulle quali non siamo in contraddizione, sono, in quanto non
contraddittorie, rappresentazioni sempre vere. La contraddizione, il falso, e
perciò il disaccordo, nascono nell'applica- zione delle "prenozioni"
ai casi particolari. Le prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione
non con- traddice a prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è
utile, e anche desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e
seguirlo? Chi di noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora,
quando sorge la contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi
particolari: quando uno dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro
"No, ma è dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra
loro. Certo Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che
la santid va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla
questione se è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione
filosofica con- siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai
casi particolari in maniera congruente a natura e, per il resto, nel
distinguere tra le cose, quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono
da noi (Diatr. l, 22, 1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a
sé (ogni oggetto si determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò,
nel suo esser detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che
l'un nome non evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la
contraddizione, l'equivoco e il paralogismo sofistico), rap- 326
presentazioni anche le nozioni morali, il vero e il falso stanno nel
discorso, cioè nel giudizio. D'accordo, sotto questo aspetto, con i cinici
(Antistene) e con gli scettici, ma entro i termini della soluzione della logica
di Zenone di Cizio (che permette la predicazione: logica pro- posizionate),
Epitteto può sostenere che la "ragione" è un "sistema di
rappresentazioni diverse" (Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo,"
aggiunge Epitteto, "compito del filosofo, il piu importante e il primo, è
sag- giare le rappresentazioni e distinguerle e nessuna accogliere che non sia
stata saggiata" (Diatr., l, 20, 7). "Cominciamo con la logica allo
stesso modo che, per misurare il grano, cominciamo con l'esaminare la misura.
Se, infatti, non determiniamo dapprima che cosa è il moggio, se non determiniamo
dapprima che cosa è la bilancia, come potremo piu misurare o pesare qualcosa? E
nel nostro caso, se non conosciamo con esattezza e precisione il criterio delle
altre cose, criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere
qualcuna con esattezza e precisione? Com'è possibile? ... Compito della logica
è discernere ed esaminare il resto, e, si potrebbe dire, il misurarlo e
pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E Antistene non
l'afferma? Chi ha scritto che l'osservazione dei termini è l'inizio
dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene L., VI, 3] E Socrate non l'afferma?
Di chi scrive Senofonte [Mem., IV, 6, l] che incominciava
dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato di ognuno?"
(Diatr., l, 17, 6-12). Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è
chi vien preso, di volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi
non sa connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiet-
tivarle in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su
questa linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli
scettici, i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragio- namento
(tutti, sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro,
oò3~ (LWOV: Il, 11, 15), ricorrono ad un ragionamento che può convincere della
loro tesi in quanto non viene meno alle co- muni condizioni che rendono verace
un ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è
felice qualora viva non so- cialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si
servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il discorso stesso)
(cfr. Il, 20). Le proposizioni vere ed evidenti, sottolinea Epitteto, le
adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono: anzi la prova piu
grande dell'evidenza di un'affermazione .è, si può dire, il fatto che sia
trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la contraddice"
(Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono delle condizioni comuni e
neces- sarie (prenoziom) che permettono il discorso, il discorso verace e quel
discorso che, trovando il suo contenuto nelle rappresental:ioni, connette l'una
all'altra le rappresentazioni in un sistema, ove le une e le altre
rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione con le condizioni
stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare l'educazione
filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le prenozioni,
dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni (xpljar.<;
cpcxvrcxat&v ) , mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e dalla
unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle
cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata
rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette
.in grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma
anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne
altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini
(Diatr., I, 6, 10). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la
differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che
mentre l'ani- male irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo
spin- gono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno
quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6,
13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di
rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire
razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare,
bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto,
collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo quello
che ciascuna vale. E se l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé in
quanto vive secondo le sue rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé,
vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni,
costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e
gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una
che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella
ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella
com- prensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di
rap- presentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore
di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato
queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esa-
minare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per
ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare
tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene" : Diatr.,
II, 11, 24.) Certo, il modo come si costituiscono le rappresentazioni, com'esse
vengono sussunte dalle "prenozioni," se le prenozioni, sia pur for-
malmente, siano vere e proprie idee innate, quali siano i modi con cui si
articolano correttamente tra di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena
accennato da Epitteto. Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni
egli le doveva approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per
sua stessa testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo,
diremmo che tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di
Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era,
mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere
unilateralmente e pas- sionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle
diatribe. E cos( dalle diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la
concezione epitte- tiana dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo
presente il fatto che la ragione è attività unificatrice che costituisce il
tutto in un unico discorso, riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico -
ancora qui Zenone e Crisippo - sosteneva che il tutto è come un unico di-
scorso, retto da un'unica ragione, s( come fosse una "città sola."
Questo mondo è una città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e
cosi una sola è la necessità di un movimento periodico e di un ritirarsi di
alcune cose dinanzi alle altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste
rimangono nello stesso posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di
amici, in primo luogo di dèi, poi di uomini intima- mente uniti per natura tra
loro: e bisogna che alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano,
che alcuni godano di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di
chi se ne va (Diatr., III, 24, 9-11). Tutte le cose formano un'unità...
(Diatr., I, 14, 2). Uomo sono, parte del tutto, come l'ora è parte della
giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come l'ora, scomparire (Diatr., II, 5,
13). In questo senso Epitteto è molto preciso: uno l'universo nella sua
totalità, una la ragion d'essere del tutto e la sua sostanza, il cangia- mento,
il nascere e il morire, avvengono entro la stessa unità del tutto. Mietere le
spighe significa la distruzione delle spighe, non dell'Universo, si come il
cader delle foglie, o il seccarsi del fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta,
in tutti questi casi, di mutamenti da uno stato precedente in uno diverso: non
distruzione ma ordinata disposizione e amministrazione. Quale è l'andar via dal
proprio paese, un piccolo mutamento, tale è la morte, un mutamento piu grande,
ma non da ciò che è al presente, verso il nulla, ma verso ciò che al presente
non è. "Non sarò piu allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella
di cui al presente il mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai
voluto, ma quando il mondo ebbe bi-
329 sogno (Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove?
Non in luoghi terrificanti, ma là donde sei venuto, verso amici e parenti,
verso gli dementi naturali. Quanto fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto
era terra in terra, quanto aria in aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade,
non Acheronte, non Cocito, non Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di
potenze divine. E chi è in grado di riflettere su ciò e guardare il sole, la
luna, gli astri e prendere diletto dalla terra e dal mare non è abbandonato piu
di quaDJ:o sia senza aiuto... (Diatr., III, 13, 14-16). Dalla constatazione che
la ragione è attività unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti,
Epittéto passa a poter sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si
titma la realtà è attività unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto,
tutto avviene come deve avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso,
provvidenzialmente ("di ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la
provvidenza, purché si abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel
loro insieme i singoli av- venimenti e il sentimento della riconoscenza ...
Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo soliti riconoscere che sono
indubbiamente opere di un artista, e non costruite a caso e gli oggetti
visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano( ... E la particolare
struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere semplicemente le
impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra
esse ... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?": Diatr., l,
6, 7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire, nella sua
sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e una sua
ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità (ancora
una volta intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del tutto) con la
ragione, dandone la stessa definizione: quale è la natura di Dio? è
intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca
l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3). Ora, se la ragione era stata
definita "sistema di rappresentazioni diverse," e se le
rappresentazioni sono impressioni che in quanto com- prese si costituiscono
come abbietti, non in una semplice recezione delle impronte, ma mediante
l'intelletto in una scelta, sottrazione, somma, composizione di esse, Dio, in
quanto ragione e intelligenza, si costituisce come "sistema di oggetti
diversi," e perciò come attività unificatrice che sceglie, somma, sottrae,
compone, per cui tutto deriva da lui, tutto in lui ha la sua funzione, e tanto
piu l'uomo che scopre sé come ragione, come capacità non solo di usare le
rappresentazioni, ma di saperle usare ("ti abbiamo dato una parte di
noi," fa dire Epitteto a Zeus, "questa facoltà impulsiva e repulsiva,
desiderativa e avversativa, in una parola la facoltà che sa usare le
rappresentazioni ... 330 Solo quel che è piu importante di tutto,
e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da noi, e, cioè, il
retto uso delle rappresenta- zioni:. le altre cose non le hanno fatte dipendere
da noi": Diatr., l, l, 12 e 6-8). Qui, sembra, la chiave per intendere,
relativamente all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non
dipende e su ciò che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e
Manuale, 1), dal- l'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla
libertà; sul non comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni,
asistemati- camente (irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non
in- tendendo, non sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare
correttamente le prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà,
liberazione dall'errore, accantonamento di ciò che non di- pende da noi,
avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno
resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto •ragione,"
pur rimanendo quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o
schiavo: "quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli
dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle
rappresentazioni" (Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo
deve terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina
nella teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla
natura" (Diatr., 1; 6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila
su di esse. Non è poco ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della
lealtà, della tranquillità, d'una condizione d'animo scevra da passioni, da
dolori, da timori, da turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e
amico di Dio, s{ che gli obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto
devo acquistare, non il corpo, non gli averi, non le cariche, non la
reputazione, in una parola, niente. E Dio, poi, neppure vuole che io
l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora, invece, non li
ha fatti... Custodisci il bene che è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il
resto, secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di
questo solo contèntati. Se no, sarai infelice, di- sgraziato, soggetto a
impedimenti e a ostacoli... (Diatr., IV, 3, 7-12). Epitteto prende le mosse da
una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo è un complesso di
rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che l'uomo ragionando
scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso svolgersi, il
criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà raziocinante,
prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la natura, la
potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, - e scopre
sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue stesse
rappresentazioni; finché 331
è solo un insieme disordinato di rappresentazioni-impressioni, l'uomo è
passivo e dominato; allorché, ragionando, ordina e sistema è egli a dominare,
rendendosi conto del valore di ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo
posto, che alcune cose sono in nostro dominio e altre no. Le cose sono di due
maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il
movimento dell'animo, l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose
che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la
riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le
cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né
attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere
impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per
libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono
altrui, t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere
affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna
apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a
dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi
togli· ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e
massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero
a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non
dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non
addottrinato nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli
suoi e propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato
non darla né a se stesso né agli altri (Manuale, IV). Evidente è, per Epitteto,
che tale duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e
dominante, che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le
tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati
dagli oggetti esterni? Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è
un'esperienza- alla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no,
ad un'opzione dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto
ch'egli è ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che
non è una deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza
dell'insegnamento della logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro
coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri
termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra
l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura)
o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse
(secondo natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in
quanto discorso è or- dine, è scelta, o, se vogliamo, volontà
(7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione
del tutto, Dio è volontà in 332 quanto ragione, cwe m quanto
giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come
talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio
che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (pro- airest) che forza la
proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua
o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare
a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve... Se vuoi
sei libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto
accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28).
Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è
che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio
corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché
proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu
utile che salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è
ingannata e non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può
seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è
sviata, l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene
["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza
del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un
certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono,
allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale
realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non
dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti,
fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29, 1-3).
La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né li- bertà in
senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto giudizio e
obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il fatto che
l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre e si
giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come in
atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in se
stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana, aspetto
o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui mentre
tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non il
rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio possibile
quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la loro
natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l, 17),
che, distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e
unilaterali, gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso
(il pensare che è ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non
è in suo possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser
nato maschio o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o
diritto, in questo secolo o in altro, ricco o povero e cos( via). E allora,
quelle ste~se cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re-
stano rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni, per
cui le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le intendiamo
divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che sono, né
beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato, riallacciandosi a
Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto "cinico" dello
"stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra parte, tenuta presente
l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza, in quest'epoca, tra
cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe sociale, in una
distinzione di "tunica" piu che di modo di atteggiarsi: "Stoica
dogmata ... a Cynicis tunica distantia" (Satire, XIII, 121-122); e va
tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle Diatribe, in cui si
delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio, del cinico
(dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che riconosce che
la sua unica posizic;>ne è appunto quella del "saggio"), ma non
interpretato secondo il clichl del cinico giullare, di quelle molte figurine di
filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione Crisostomo ("dei
cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città; ... ai crocevia, negli
angiporti, all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e traviano schiavi e
marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di
pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun bene, ma gran
male• : Dione, Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico" che ha
presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta osservanza,
l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual certa. posizione sociale -
come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se stesso, ché
altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo modo
esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono
beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai
poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua
parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la·sua parte,- che
tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino,
comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto -
uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non
propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale
prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né
condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come
Epitteto potesse dire. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di
ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso,
incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io
amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo
alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai
teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel
fanciullino, tu non abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in
maniera evi- dente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si
adirerà con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà .nessuno, non
bià- simerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi
'vuole divenire cinico non basta si metta la "divisa" del cinico
(mantello corto, bisaccia e mazza), ma deve "purificare la parte ege-
monica dell'anima e disporre una tale linea di condotta: ora la ma- teria con
cui ho da fare è la mia mente, come il falegname ha il legno, come il calzolaio
ha il cuoio: mio compito è il retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo
non ha nessun rapporto con me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando
vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono
cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la
luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo
raggiunto tale perfezione, il vero cinico non se ne può con- tentare, ma deve
sapere d'essere stato inviato da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare
agli uomini, che, in rapporto al bene e al male si ingannano e cercano
l'essenza del bene e del male là dove non è, e non badano dove è ... In realtà
il cinico è esploratore di cosa è amico agli uomini, di cosa nemico, e, quindi,
condotta un'esplorazione accurata, deve venire ad annunciare la veri~, senza
essere sbigottito dalla paura ... Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi
levare in piedi e, salito sulla scena tragica, pronunciare le parole di Socrate
[Platone, Clitofonte, 407 a-h]: 'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?';
che fate, disgraziati? V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate
per un'altra strada dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che
rasserena e rende felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che
ve lo mostra. Perché cercarlo nelle cose esterne? Dov'è che siamo liberi? Nel
giudizio. Coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il
bene. E come è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo,
senza casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi
ha mandato uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi: sono
senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra:
non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il 335 cielo e un solo mantelletto.
Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza timori? Non sono
libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei desideri, quando cadere
nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo, quando ho rimproverato
qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come tratto quelli che vi
mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden- domi, non ritiene di
vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne di un cinico, eccone
il carattere, eccone il proposito (Diatr., III, 22, 19-49). Se la delineazione
dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura ideale di uomo,
che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno, ·ognuno rimanendo
al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti, attuare se stesso,
compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva, ad esempio,
maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico di Epitteto
si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura stoiche. Deriva
di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto, quello della
libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresenta- zioni e al
motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che non
dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine
"libero" e il termine "libertà" sono usati ben 130 volte:
cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa determinazione della
libertà come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello
ad esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge
che Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che
procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti
·di questa ma- niera, è in relazione al dovere": Diatr., I, 7, 1), da un
lato la raziona- lità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di
rappresenta- zioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende
dal di dentro, si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve
essere, tutto è parte in funzione di un fine che è la stessa razio- nalità (la
divinità). Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come
razionalità, e, perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto
della divinità, può scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e
passioni, indiscriminatamente, e il vivere se- condo la sua stessa natura (che
è, dunque, un dovere), cioè razional- mente, ne deriva la doppia considerazione
epittetiana della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a
compenetrarsi in modo convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti,
e tra i primi, e che Dio ~ padre degli uomini e degli dèi, credo che nulla di
ignobile o di meschino sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della
generazione sono mescolati insieme questi due elementi, il corpo comune con gli
animali, la ragione e conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella
parentela infelice e mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono,
infine? Un misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo
miserabile hai un elemento superiore al miserabile corpo. Perché, dunque,
allontanando tal cosa ti at- tacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6). Non sai
che piccola parte sei rispetto al tutto? Questo secondo il corpo; mentre
secondo la ragione non sei peg- giore né migliore degli dèi: che la grandezza
della ragione non si misura in lunghezza né in profondità, ma in pensieri. Non
vuoi, dunque, dove sei uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr., I, 12, 26).
Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non possiede niente
piu impor- tante della proairesi, ma a lei subordina il resto, e tale volontà
possiede libera da schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque, da chi ti
distingui per la ragione.·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui
dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo mondo, non
delle ultime ma delle prime, perché puoi comprendere il governo divino e
riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la funzione del cittadino? Di non
avere nessun interesse personale, di non prendere decisioni su nessuna cosa
quasi fosse isolato, bensf di agire come la mano o il piede, che se
ragionassero e com- prendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si
muoverebbero o desi- dererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben
dicono i filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe alle
malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto
questo gli è stato asse- gnato dall'ordinamento universale e che è piu
importante il tutto della parte, la città del cittadino... (Diatr., II, 10,
1-5). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che
è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo,
nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo,
è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle
passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile
(in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è
senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni
speranza, la capacità di sperare che le cose possano essere diverse da quello
che sono, libere; mondo senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per
altro verso, se attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma
un'esperienza viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la
capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordi- nando e obbiettivando,
cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera
dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello
ch'essa non è. Sotto quest'altra prospettiva, quella stessa realtà che fino a
che resta estranea, incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura
in una realtà buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico
amore per l'unità di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle
rappresentazioni" che condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da
questa o da quella rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la
salute, il corpo, per la vita dei nostri cari e degli altri uomini,
dimenticando ch'essi sono mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e
cosf via), che, appunto, per ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà,
per Epitteto non si tratta tanto di due modi di essere, ma di due modi
prospettici di considerare la stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e
considerando le stesse cose siamo determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti
(irrazionalità); nel secondo caso, pur facendo e considerando le stesse cose,
siamo, non subiamo. Nel primo caso non ci solleviamo dalla vita di cose tra
cose, nel secondo caso, obbiettando e scegliendo, giudicando, ci solleviamo
alla vita razionale, alla vita divina. Da un lato tutto è necessario,
dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario abbiamo la possibilità (e in
questa possibilità consiste la libertà) di valutare quella. stessa necessità,
per cui non la subiamo, ma riconoscendola la vogliamo. "Tu non devi
cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma volere che vadano cosf come
fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se vuoi, sei libero; se vuoi
non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà
tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si capisce allora come, sotto
que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera accettazione di una
realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità in cui consiste la
divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu lunga delle
diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle
cose, ma dalle .opinioni che hanno delle cose (Man., IV). L'essere zoppo s{ è
impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man., IX). Quando
tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la
lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti
trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose
estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso
subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché
questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli
ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non
offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché
quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria
immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man., XX).
Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att., XVII, 19). 338
Si chiarisce cosi la dottrina epittetiana dell’apparenza (fantasia)
(cfr. Man., 1), mediante cui Epitteto sottolinea cosa significhi la distin-
zione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi. In altri ter- mini, la
nostra lnancanza di libertà dipende da una comprensione inadeguata delle cose,
da ricondursi ad una nostra comprensione imprecisa. Possiamo avere una
cognizione delle cose che è una cognizione fantastica, apparente. Se, per
esempio, si stabilisce un errato rapporto causale, la nostra stessa attività,
tesa a ottenere certe risonanze, in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà
in maniera errata e infelice (cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un
errore che è un errore pro- spettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione
tra esteriorità (ciò che non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e
cosi via) consiste nel non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene
Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una scelta per cui tutto si costi-
tuisce in un sistema di rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di
tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, esten-
sivamente e per analogia, in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi,
sta nell'incomprensione, in qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato
(irrazionale) e che, dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due
nostri modi diversi di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose
comprese, proprio in quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto
perché comprese, ci ren- diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o
quel corpo, l'essere bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora,
compren- dendo, sappiamo anche quale, nella grande commedia del tutto il cui
supremo regista è Dio, è la nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene
la quale, tutti, ciascuno per ciò che gli compete (ed in questo consiste la
nostra libertà: cfr. Diatr., IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o
donne, grandi o piccoli uomini, socraticamente, rendendoci con ciò davvero
utili agli altri e a sé. E cosi quanto piu si ama se stessi, cioè la
razionalità, tanto piu si amano gli altri, si vuole sé e gli altri come fini.
Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà
breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu
rappresenti la persona di un medico, studia di rappresentarla acconcia- mente.
Il simile se ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un
uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella
qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene ad un altro
(Man., XVII). Se il pilota ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti,
lasciata stare ogni cosa (Man., VII).
339 Questi i motivi fondamentali del pensiero di Epitteto (e
questi sono i motivi che in breve, in forma gnomica, Arriano ha riepilogato e
sistemato nel Manuale, riprendendoli dall'opera maggiore, le Dia- tribe). Di
qui, d'altra parte, l'importanza data da Epitteto all'insegna- mento, inteso
come insegnamento a· saper ragionare, mediante cui liberare gli uomini dal loro
vivere da schiavi, delineando, infine, un vero e proprio processo attraverso il
quale, dallo studio della logica e dalla scoperta del modo di funzionare della
ragione, si giunga con essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e
dominio delle passioni in cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr.
Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2; 12; 26, 14; IV, 10, 13; l, 12, 24 sgg.). Innanzi
tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di calcolare i nostr.i
desideri, s( da distinguere quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da
noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calco- lato male, scambiando
ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi
ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro oggetti
indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia,
cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de- siderata). In secondo luogo,
obbiettivati i desideri, che consistono nel- l'esigenza di realizzare ciò che
dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e
scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre
repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente o meno; indicando di volta in volta ciò
che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo
come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri
che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da
citta- dino": Diatr., III, 2, 4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà
capace, dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni,
indi- rizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé
come sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto,
che è visione (teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste
la piu profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore
storico di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui,
che non si trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici:
Epictet u. die Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non
dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio?
"Grande è Dio, percM ci ha largito strumenti adatti a lavo- rare la terra:
grande è Dio, perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa
crescere senza che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre
dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in ogni occasione e can- 340
tare l'inno piu sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la
facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la
maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci fosse chi tenesse
questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso
io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei
la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E invece sono un essere
ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non
diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi esorto a cantare
questo stesso canto (Diatr., I, 16, 16-21). - Mi basta poter levare le mani a
Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo
governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia.
Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono
stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato
alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto na- scere, ti
ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta.
Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai
date" (Diatr., IV, 10, 14-16). Epitteto mori nel 125-130 circa, a Nicopoli,
da cui non si era piu mosso dal giorno del suo arrivo, esiliato da Roma (94). A
Nicopoli, ove visse_ solo, tutto dedito all'insegnamento, egli godette di gran
fama, rispettato e onorato da tutti. Solamente da vecchio avrebbe preso con sé
una donna, perché lo aiutasse ad all~vare un orfano che aveva adot- tato
(Simplicio, In Epicteti Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che il suo
insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato, certo, su di una
precisa concezione - e non un insegnamento strettamente scolastico, è
dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi disce- poli e ascoltatori -
a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che probabilmente
pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di Epitteto - nessuno fece
professione di filosofo, se non un certo Jerocle stoico, autore di un'Etica e
di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in Stobeo, Ed.). Va, d'altra parte,
osservato che dopo l'uccisione (96 d.C.) di Domiziano, la politica dei
principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne cangiando, tanto
che si delineò la possibilità di assumere a fondamento ideologico la tesi
politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul piano piu strettamente
giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio Nerva (96-98), il quale
cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori Traiano (98-117) e
Adriano (117-136), che con l'istituzione ufficiale del Consilium principis
svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero ad una vera e propria
unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra perciò non un caso che
anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a chiedere consigli al
celebre "saggio" Epitteto (cfr. Spartiano, Vita Hadriani, 16,
10).Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea
bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il 114, sia stato
uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un grande retore,
il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente che Filostrato
di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul- tura, aggiornato nelle varie
correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta, sfruttare i
motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione di un suo principio, che
chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come elevazione
morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco dalle "verità,"
-in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle
"ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa
pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella
misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco
e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua
eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma.
Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog·
giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e
peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua
patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con
gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove
piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il
Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu
niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel
114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL),
comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici,
politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui
Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i
filosofi e A Musonio. Particolarmente interes- santi sono le cosiddette
orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli
Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica
(XXXVI) e l'Euboica {Vll). 7 in volta, si concreta come cortesia e
generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr.
Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione,
Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo
paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr.
Oraz., 46, 8).. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli
uomini piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il
suo modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica
e la vita sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in
principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e
stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti
del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale,
libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di
potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione
non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei
perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai
crocevia, negli angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e
traviano schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande
varietà di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno
alcunché di bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto
di Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto
contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al
96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure
mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia
avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi
nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra
le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali
"filosofi" ch'egli aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la
peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno,
comprese il significato sia del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione
stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di
governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e·di
Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto
che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel
grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che
possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e
città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i
termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile
ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8 di
cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male),
proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un
male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si
trovò sulla linea, sullo axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei
cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e
costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla fondazione
del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma, dell'equivoco con cui,
con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano portò i suoi
successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con Traiano
(98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita con An-
tonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il grosso
problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi con
l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la fun- zione del principe e la
funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né un
tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo
magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu
ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del
Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a
uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un
organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio anto-
niniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializza-
zione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'im- pero - non
sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi
successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato
unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel vasto
organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e culturali,
nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e
nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e
rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica
prosegue su scala maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E
diventa quindi sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza
dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una
politica intesa· ad assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per
principio o per pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico
ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha
pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro-
messo il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma
già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi sue- 9
cessori una diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali
filosofici del tempo e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito
dell'impero" (G. Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di
Galliena, in "La Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto
questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del
n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci dell'op- posizione stoica, che
potevano dare loro le condizioni che ne giustifi- cassero il potere. "La
maggioranza di ·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano
ostili al principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso
corrispondeva piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma
desideravano che fosse il piu pos-sibil- mente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica
e il piu possibilmente diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide
militare di Caligola e di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con
l'ascensione di Nerva e di Traiano si concluse la pace tra la massa della
popolazione dell'im- pero, e specialmente le classi colte della borghesia
cittadina, e il potere imperiale ... Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento
del potere im- periale alle condizioni reali, non una riduzione di esso"
(M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'Impero romano, Firenze, pp.
140-141). Non fu, perciò, un caso che, poco dopo la morte violenta di Do-
miziano, Dione di Prusa sia stato reintegrato nei suoi diritti civili e che,
dopo aver soggiornato qualche tempo nella sua città, ove par- tecipò
attivamente alla vita politica di quella municipalità, sia rientrato in Roma
chiamatovi dall'imperatore Traiano, divenendo alla fine cit- tadino romano e
consigliere e propagandista delle idee politiche del- l'imperatore, soprattutto
nei paesi greco-orientali, dividendosi tra Roma e Prusa (100-110). Dione,
attentissimo alla situazione politica del suo tempo, si rese conto che per
rendere possibile la convivenza (d'altra parte necessaria) tra le esigenze di
libertà e di autonomia delle antiche "p6leis" greche (che Dione
sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche) e la città di Roma, bisognava che da
un lato le città greche accettassero il potere di Roma e che, dall'altro lato,
Roma fondasse il suo impero, non sul potere personale e tirannico di una città
sulle altre, ma su di un potere capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia
di "nazioni," mediante cui ciascuna si articoli all'altra, a
somiglianza dell'ordine co- smico, retto in unità per sua stessa natura da un
unico principio, ragion d'essere del tutto (e tale avrebbe dovuto essere, sia
pure per analogia, l'imperatore). Di qui il passo a prospettare come possibile
Stato, rispondente alla natura, e perciò vero e divino, la "politèia
regale" di tipo stoico, eia- 10 baratasi tra la fine del 1
secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale che poteva servire ai nuovi intenti
politici e giuridici di.Traiano. Padre e benefattore (1tcx-rljp xcxt
e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone ( 8e:m6't"rjt; ) dei suoi governati,
l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò non dio, ma simile al
dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo
il suo potere come un dovere, in un'attività che è fatica (7tovot;) e non
piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi compiti cui ciascuna città,
ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma
libero - sono chiamati, circondato da amici e consiglieri (il Senato), da
uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul
regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un "filosofo" dovrebbe
essere il vero uomo di governo, personificazione della ragione vivente del
tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il
principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che - e sa- rebbe ideale - il principe non
si circondi, per legge e non a suo ar- bitrio, di un organismo permanente di
filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza
dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non solo certe tesi
stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva sostenere
ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove ragione e
legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene
Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire nell'attività àltrui in una
reciproca collaborazione in funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma
anche la concezione di sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo par- lato,
quale, ad esempio, appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra
abbia avuto presente (cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion
d'essere o natura che ha la potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un
cosmo, in un ordine, avendo nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra,
aria, acqua, terra e fuoco, ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si
che ciascuna cosa attui ciò che le è proprio, in una equa distribuzione delle
parti (laoJ.LoLpt~), e, per ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~),
specchio di quello che, dunque, ha da essere un impero universale, retto da
un'unica potenza razionale. Tale, per analogia - e che di analogia si tratti lo
dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz., 36, - deve essere lo Stato degli uomini
ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella che nell'universo è la divinità, e ove
ciascuno - e in ciò tutti sono uguali - sia libero di attuare pienamente ciò che
gli compete, in una reciproca collaborazione, in funzione del tutto, che non
sarebbe senza la giusta distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero
somigli al cosmo, sia un'eucosmia. •Questa," racconta ai suoi concittadini
Dione, riferendo un suo discorso ai Boristeni, abitanti 11 presso
il Mar Morto, "questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e
amichevole comunità di dèi e di uomini; essa chiama a partecipare alla
legislazione e alla cittadinanza non tutte indiscriminata- mente le creature
viventi, ma coloro che posseggono ragione e intel- letto. Essa offre
un'organizzazione sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella
stabilita dagli Spartani, secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare
cittadini di Sparta: naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a
ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto
ciò divenga ora la base su cui si viene fondando ideologicamente l'impero da
Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia voluto e approva.to Traiano. E questo
risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di Dione (non a caso egli scri- vendo
intorno al104, pur non nominando Traiano, dice: "Della divina e benedetta
costituzione che ora vige, conviene che io parli con il mas- simo
rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni, dette dinanzi a
Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte ripetute da
Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano
con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa.
Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione
alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orien- tali, e in un venire
incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforza- mento del potere imperiale,
nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore
esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere
ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza.
'E la sua impor- tanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi,
coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che
se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava
certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un
significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Impe-
ratore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è
stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chia- mato Uno), ché
tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distri- buisce come è bene che
sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge,
come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa
ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il
quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita
dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può
suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero
gli imperatori da Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò
risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da
Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della
Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi,
non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il
valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer- matosi, che concilia
il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio dell'imperialismo.
"Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico
dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro
impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il
confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro
giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati.
Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia,
piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per
parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né .il mare né alcuna
vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano;
nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di
tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è
straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e
ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo
di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie
richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e
rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato
delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo,
furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire
Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi
"raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem
faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti
furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero
nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il
divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H.
Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche
Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica impe- riale,
abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa
concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli impe- ratori, che - per
politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte
(pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia,
dall'altro lato, fortemente influen- zato alcuni aspetti della stessa cultura
quale" si viene configurando nel u secolo. 13 Entro
quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico della cessazione da
parte degli imperatori delle persecuzioni .nei con- fronti dei filosofi, sembra
anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma
sia nei maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole pubbliche, ove i
maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo,
istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il
cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era
annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco
imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre
Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni
legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio,
infine, istitu( ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque
cattedre: una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica,
una di filo- sofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei
filosofi era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta-
mila). Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole,
non solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si
fece sempre piu pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin( col
divenire regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo
essere stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e
debitamente ratificato dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos., 13, 3,
11); il quale si assumeva cos( un diritto di vigilanza sull'insegnamento in
tutto l'Impero... La decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa;
ma, privata del suo spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i
successori di Giuliano, come testimonia la sua inserzione nel Codice
Teodosiano; soltanto con Giu- stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza
della sanzione impe- riale - Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403).
- Intanto, tra la fine del 1 e il 11 secolo, anche per la maggiore possi-
bilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che
avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della cul- tura sia in
Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune
concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si ritenesse che a
quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro,
recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i
luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità
motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e culture. greche,
orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale. 14
2. Plutarco di Cheronea Un'analisi delle opere di Plutarco di
Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici
(Le contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli
stoici si espri- 2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e
severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene
dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano,
che lo avviò al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i
misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio
l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione
avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo
il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte
a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della poli- tica e
della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto
dall'impe- ratore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne
seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che
molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le
Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C.
Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di
Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e
il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda
ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido,
facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro
Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in
patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di
Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di
Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto
cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del
nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere
di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute auten-
tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise
in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un
romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il
resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale
a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici, filologici, pedagogici).
Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in
ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi
le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che
vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De
educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione,
De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De
amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad
Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium convivium,
De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata laconica,
Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum virtutibus,
Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela graeca et
romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut virtute, De
gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae oracu/is,
De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De cohibenda
ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis, Animine an
corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem, sulficiat,
De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De
invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera numinis
vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad u:rorem,
Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae narrationes,
Cum principibus philosophandum esse, A d prineipem ineru- ditt~m, Anseni Res
pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t agerenda e Rei publicae , De u n i 1 1 s in
Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio, De vitando
aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et Menandri
Epitome, De 15 mono in maniera piu assurda dei poat) e contro gli
epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo Epicuro, Del
t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e isolata delle
sue opere piu celebri, il significato del platonismo e del pitagorismo di Plutarco,
la sua interpretazione di un aspetto di Platone, formatasi entro i termini di
una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una lettura isolata, e
ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di Plutarco ha dato luogo
a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in un ultimo canto del
cigno il significato piu profondo del misti- cismo e della teologia dell'antica
Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima fine e per cui non a
caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove viene
drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu oraculorum,
419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello
stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima formazione
di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria, maestro
all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che
dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto
"plutarchea,"· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È
già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente
esaminati non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul
pensiero stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero
epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di
indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali
fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse
attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a
volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non
vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non
contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro,
non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici
che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato
in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di
origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones
tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis
sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae
quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU
stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos,
Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta
vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in
vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono
l'lruiÌif4tio Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis
philosophorum libri quinque. 16 riconducendole ad una VISione
unitaria, nei termini della patria religione delfica, della paidèia greca, per
riprendere le parole dell'Epino- mide platonica, a proposito dell'assunzione
nel sistema platonico delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di
oriente. Senza dubbio Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il
loro significato politico, mentre nella sua polemica si serve particolar- mente
delle piu note tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle
scuole di Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio
della media e della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si
erano compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni :
ma, certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente
i testi dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni
attraverso cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in
contraddizione con se stessa e che perçiò è .assurda, contro il senso comune,
pur se pronunciata in nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad
esempio, è la tesi stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che
l'Uno dio, spirito vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a
tutte le cose, per cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un
tempo immor- tale in quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si
distrugge- ranno nella conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche
la discussione antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile
è la tesi epicurea perché spiega la nascita della realtà da un atto
assolutamente libero, cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo
ciò che piu colpisce della confutazione plutarchea, in particolar modo nei
confronti degli stoici, è ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello
stoicismo, cioè il motivo del t6nos che su di un piano strettamente logico
risolve in unità la dialetticità della natura - e, per ciò stesso, non tenendo
conto che su di un piano altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era
l'ipotesi epicurea - vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare
nell'unità della natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là
risolvendo il bene e il male, che io realtà non sono che errori di prospettiva,
gli istinti e la ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che
Plutarco viene accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo
piano, è che le due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica,
antiaristotelica e antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di
Cleante, passibile d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica
della conce- zione platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele
interprete di Platone) si potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu
convincenti, l'una e l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui
si poteva giuocare tra le due posizioni (la platonico-aristotelico-
stoica e la epicurea) contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come
dirà Sesto Empirico: Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una
sospensione del giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del
probabile in funzione retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta
contraddittorietà di mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità
una nella molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti-
dell'unica forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e
risolvendo con ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che
un errore logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve
essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la
dualità, in una interpretazione - attraverso il mistero egiziano di
Osiride-lside-Tifone e il dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente di certi
testi di Platone, non a caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su
l'anima buona e l'anima malvagia, che ancora oggi sono stati avvici- nati al
dualismo iranico. Sincero o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere
entro i termini dell'antica paidèia religiosa dell'ari- stocratico Apollo
Delfico i motivi e le esperienze religiose orientali (egi- ziane e iraniche),
rimaste, se non ignote (tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante.
Plutarco, cosf, sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale
sapienza egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio
del male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari,
ìn funzione della reli- gione delfica, riprende e lancia la leggenda del
Platone egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini
razionali gli aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro,
attraverso Platone, l'in- terpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei
culti dei misteri egi- ziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla
mitologia dei greci (cfr. particolarmente De Iside), per cui potev~ servire
anche gràn parte della simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina,
e, nel- l'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi,
l'allegorismo di origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli stoici asseriscono
che lo spirito che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e
distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e
i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli
Egizi, combinando con queste interpreta- zioni naturalistiche taluni elementi
dottrinali derivati dall'astronomia, cre- dono che Tifone significhi il mondo
solare, e Osiride quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di
Osiride, secondo il mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella
massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno
"barriera" e, in generale, hanno un 18 aborrimento
estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone tra il
sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo non equi- latero - alle
quali figure soltanto accade di avere i perimetri uguali in valore numerico
alle superfici ~ pone una barriera tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro
e, precisamente, rompe la proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in
disuguali intervalli... I Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una
grande varietà di termini: per essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il
Costante, il Diritto, l'Impari, il Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso;
il cattivo invecè è la Diade, l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari,
l'Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici
adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti,
il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e
Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate dai suoi angoli.
Il numero uno lo chiamano Apollo... Il due lo chiamano contesa e audacia; il
tre giustizia... La cosiddetta "tetraktys," cioè il trentasei, costi-
tuisce, com'è fama diffusa, il "piu alto giuramento" e ha ricevuto il
nome di "mondo," poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai
primi quattro numeri dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e,
381 f-382 a). Sotto questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola
reli- gione delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle
reli- gioni di oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa
in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che
certi tentativi di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro,
essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo della poli- tica imperiale:
indicativo è che Plutarco sia stato onorato da impera- tori quali Traiano e
Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e
allegoricamente interpretato da un lato la religione egiziana di lside e
Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato
riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae
oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come
dicevamo, certi testi del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle
Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della
religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto
sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo
nostro trattato è inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi
con questa nostra filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito
egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito
egizio va assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali
e rituali in cui sono impegnati i suoi sacerdoti. 19 Iside è dea
eletta per sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome
stesso vuole perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si
addicono nel piu alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente
Tifone; costui è nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso
esprime, per ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra
scrittura, che la dea invece raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati,
poiché il processo di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita
costantemente saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti
liturgici nel tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è
Primo, è signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a
cercare, poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del
tempio promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde
al nome di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci
accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della
dea... (351 f-352 a). · Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi
narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del
genere - tu, o Clea [sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a
Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti
dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella
maniera in cui viene tramandato... (355 b). Tali, a un di presso, sono i punti
capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti:
se gli Egiziani hannò tali opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che
per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere
conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di
fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero
sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354], per usare la
parola di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano
ancora opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non
somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali
gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni,
tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario
serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze, .tu lo capirai da te
stessa. Proprio come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di
riBessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo,
che si ritira dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi
di quaggiu, non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il
pensiero umano in una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro
sacrifici (358 f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come
contrapposizione tra il divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia
Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il principio del male e del disordine
(Tifone), l'ele- mento titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa,
vincendo il male, e conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva
l'unità dispersa del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20
(il filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad
essere posseduta dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità
Osiride spezzato e frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato
tale significato del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi
testi - distaccati dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente
si rifà a due passi di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle
Leggi: Platone, in piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero,
chiama i due principi antagonistici "Identità" e "Alterità"
[Timeo, 35a]; ma nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni,
si espresse non piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini
precisi, affermando che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma,
pro- babilmente, ad opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due:
delle quali una è quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla
prima, è artefice di tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf,
sussistere anche una terza, che è una natura in certo senso intermedia, la
quale non è priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono,
ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente,
e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro
trattato, inteso a conciliare appunto la credenza religiosa (teologia) degli
Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione
di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe,
che non sono, però, equi- librate esattamente,· perché la prevalenza appartiene
alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca
del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo,
e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza
del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da
guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride.
Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è
ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le
temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa
di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è
l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte dell'elemento
corporeo che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela attraverso le
cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di
luna; cos{ si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte di Tifone.
Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che
significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque,
secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità
nell'unità del principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la
quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine,
si nega sia il divino principio sia la realtà 21 molteplice, ché,
pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né
l'informe pura quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che
spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio
inspiegabile, irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto
da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della
pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza
forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò
causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è
anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del
male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C<?rpi
inanimati, come vogliono Democrito ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di
una materia non qualificata e non differenziata, come vogliono gli stoici,
un'unica ragione e un'unica provvidenza superna, esercitante il dominio su
tutte le creature. Fatto sta che è impossibile che qualcosa cattiva, per
piccola che sia, entri nell'esistenza, là dove Dio è causa di tutto; ed è
ugualmente impossibile che qualcosa di buono, là dove Dio è causa di nulla...
Di qui, ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori
trapassa in poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha
con sé una fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni,
si anche nei riti e nei sacrifici, diffusa dappertutto tra i b:rrbari e tra i
Greci: che, cioè, l'universo non è già librato, per sola virtU meccanica, di
per se stesso, senza un intel- letto, senza una ragione, senza un pilota; né
poi v'è una sola ragione che domina e regge, per cosi dire, con timone e con
docili redini. No. Al con- trario, la natura ci offre tante esperienze, e tutte
miste di mali e di beni, o, meglio, essa in una parola, non ci dà nulla,
quaggiu, che sia "puro"; né, d'altra parte, c'è un custode di due
grandi vasi che, alla maniera di una dispensiera, distribuisca a noi i nostri
scacchi e i nostri successi in mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due
opposti principi e di due forze antagonistiche, una delle quali ci guida lungo
un diritto cammino a destra, mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e
indietro - che la nostra vita. sia complessa, e cosi pure l'universo... Perché
quèsta è la legge di natura, che nulla entri nell'esistenza senza una causa, e,
se il bene non può fornire una causa per il male, allora segue che la natura
debba avere in se stessa la fonte e l'origine particolare, distinta, del male,
proprio come ne ha una, tutta sua, del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e
dei suoi piu nobili sa- pienti. Questi, infatti, credono che vi siano due
principi divini, quasi rivali tra loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei
mali. E c'.è chi chiama il primo, migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per
esempio, il mago ZOroastro, di cui si narra che vivesse cinquemila anni prima
della guerra di Troia. Ebbene, questi chiamava il primo Horomazes, l'altro
Arimanios; e spiegava, poi, che l'uno rassomigliava, nel campo sensibile, alla
luce piu che ad altro elemento; e l'altro, per contro, alle tenebre e
all'ignoranza; e che tra l'uno e l'altro, intermedio, era Mitra, chiamato
perciò dai Persiani "Mediatore"... 22 I Persiani poi
moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia- rano che, tra i
pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono benefici, due
malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un tempo. Le
credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti (De Iside, 369 a-370 d).
Le citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indica- tive, molto
ben collocate e fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come, per altro
verso, egli, nel suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana e
persiana - in un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle
loro credenze, simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici
da Filone l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica, puntasse, si
come Filone, su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo,
ma nella chiara esigenza di Plu- tarco di costituire una possibile pace
culturale nella convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro
al naturalismo stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a fondamento
della realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità e
l'assurdità degli epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel
loro credere gli dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro
volgare religiosità, temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il
ter- mine tradotto con "superstizione" è in greco timore della
divinità, 3etat30tt!Lov(cx: cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche
come egli si riferisse da un lato al concetto piu generale ed elastico del
divino di Platone e dall'altro lato, invece, a certi singoli testi di Platone
tratti dal Filebo, dal Timeo, dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso,
cioè entro· una linea costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto,
all'intento di Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in
quanto razionale, a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune
senso religioso di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o
nell'ateismo o nella superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo
pensare che gli dèi siano diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano,
cioè, dèi barbari e dèi greci o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma
come il sole e la luna e il cielo e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono
chiamati da chi in un modo e da chi in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme
del culto e le denominazioni, diverse le une dalle altre, a seconda delle varie
costumanze, sono, pur sempre, espressione di un'unica razionalità, che le ha
tutte nobilmente ordinate, e di un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e
di potenze ancillari preordinate su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di
simboli consacrati- e chi ricorre a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu
trasparenti - guidando il pensiero sulla strada 23 pcrigliosa che
conduce al divino. Alcuni, infatti, vanno completamente fuori strada c
s'ingolfano nella superstizione (3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf
dire, da quel pantano che ~ la superstizione, ma .piombano, d'altro canto, come
in un dirupo scosceso: l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre
soprattutto che noi adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che
derivano dalla filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le
tradizioni c le liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente
spirito quel che i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le
feste. [Tutti, comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una
ragione] (De /siJe, 337/-378 b). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica
della materia, Plutarco si ritrova di fronte alla difficoltà di opporre'
all'essere che è, un essere che in quanto opposto all'essere o è essere come
l'essere, uno con esso, o è non essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non
si ricorra, in un'interpretazione del Timeo, a porre come condizioni logiche,
da un lato il divino, principio ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità
neu- tra (materia) come possibilità di assumere tutte le forme, non logica-
mente deducibile e di cui, per riprendere l'espressione platonica, non si può
discorrere se non con un "ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi
viene accostando testi platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di
avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un
piano "'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Pla- tone
rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una
sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di
Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene
(l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e
all'Horomazes zoroastriano) : Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere
reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale?
L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di
tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo
con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibil-
mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole
consuete, il "poi," il "prima," il "sarà,"
l'"accadc" sono la spontanea con- fessione del suo non-essere.
Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato
ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere... Di contro,
dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~ quasi un
sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò
che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? -
"~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che
~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né
futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e nell'unità
del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso esiste
realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non
cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli
rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: Tu sei (d,e~), o anche, per Zeus,
Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale
l'interpretazione che Plu- tarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta
sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le possibili
interpretazioni che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si possono dare di
epsilon, inteso come la lettera, indicante in greco, il numero cinque: i cinque
accordi dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque mondi - terra,
acqua, aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea, superficie, altezza =
tetrade o solido, piu anima = pentade o essere vivente; - i cinque generi del
Sofista: l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno,
a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al
dio la ~:;, segno e simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto,
Platone aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel
Filebo): prima è la moderazione; seconda, la proporzione; terza, l'intelligenza;
quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima; quinta, il
piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il dolore."
Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco l'Essere Uno del
dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a]. "Sei
Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie
svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuoi
essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro, questi,
naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè
nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl pure il secondo
e il terzo: Apollo, in- fatti, per cosi dire, rifiuta la pluralità e nega la
molteplicità; leios vuoi dire .che è uno e solo; quanto a Febo, è certo che
cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e casto... (De E Delph.,
392 e-393 c). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è lontanissimo dalla terra,
incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla
distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che, quaggiu, sono
imprigionate dai corpi e dalle pas- sioni, non è dato partecipare del dio, se
non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a un'oscura visione
di lui, .per via di pensiero, attraverso la filosofia (De lside, 382 f); 2. La
materia, neutra in quanto potenza (la nutrice platonica; l'Iside egiziana). Il
principio attivo come disordine (non materia, in sé né buona né cattiva), bens1
attiva (l'anima malvagia delle Leggi di Pla- tone; Tifone egizio; l'Arimanios
wroastriano): Iside, in verità, è il principio femminile della natura ed è
suscettibile di ricevere ogni forma di generazione, in quanto è chiamata da
Platone "nutrice 25 e ricettacolo comune" [Timeo,
49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di nomi, per il fatto
ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa, accogliendo ogni
tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui che è il primo e
supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con il Bene, e lo
brama e lo persegue [Osiride]. Fugge, invece, e respinge la porzione che deriva
dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e materia, ma inclina
sempre piu facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a lui la possibilità di
generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di somiglianze, di cui
ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna di tali generazioni.
Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine dell'essere nella materia; e
il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro mito non è fuori
strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che il suo corpo fu
molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che lside andò errando
e ne fece ricerca e riuscf ,di nuovo a ricomporlo... (De lside, 372e-373a).
Platone chiama la materia con il nome di Penuria, bisognosa com'è, di per se
stessa, del bene e pregna di lui ed eternamente bramosa e partecipe di lui...
Allorché, dunque, diciamo "materia," non dobbiamo essere tratti dalle
opinioni di alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e
indifferenziato, inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi
chiamiamo l'olio "materia del pro- fumo," l'oro "materia della
statua"; e questi non sono privi di ogni difie- renziazione. Persino
riferendoci all'anima e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale
materia di conoscenza e di virt6, alla ragione affinché li .adorni e li
armonizzi; e taluni hanno dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee
[cfr. Aristotele, De anima, 429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una
immagine•della realtà intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre,
Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intel-
lettivo," IX, 1]... lside gode di una eterna partecipazione del dio
primor- diale e gli è vincolata nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e
bello, e che, pertanto, non gli resiste..., e perciò essa è sempre attaccata
strettamente a lui e sta costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue
parti piu nobili e pure (De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore
screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma
in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua,
vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura
di ombre, né screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto sem-
plice, la pura luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il
primordiale e l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il
principio, l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza
tutta in atto, non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e
qualificata che da lui si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio
stoico. Plutarco, perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, -
doveva sostenere che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma
è esistenza, potenzialità di 26 assumere forme e qualita, e in tal
senso è povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue
generazioni, nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si risolve il
"padre," che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo
di mescolanze. Dio da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i
mondi (Plutarco sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum,
423c-424h, 428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore
e piu divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il
risultato di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito
chiamare la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche
'padre'; la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede'
e 'posto' di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione
[Timeo, 50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e
spiegati certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti
il divino essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si
opera la generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le
condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il
divino, in quanto per- fezione è bene e che la materia in quanto mancanza e
neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione
dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo
le cose simiglianti a lui, resta .il termine cui tutto aspira, in un unico
amore;·oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in
cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto,
accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio, un'attività
inspiegabile e perciò irrazio- nale, fonte appunto del male. È meglio dire con
Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto, non è stata
prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la disponesse
e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia sono
possibili... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei corpi,
né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i due
principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e
i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione con- veniente,
li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto
degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla .materia e non all'anima
quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella
"infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di
difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a], come intenderanno poi
ciò che Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura,
priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i
profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli 27
come causa e principio del male ciò che in se stesso è inqualificato,
inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e malefica"
e anche "ne- cessità spesso ribelle e riluttante a Dio..." Si tratta
bensf di un principio disordinato e infinito che si muove da sé e muove e che
Platone in molte occasioni ha chiamato "necessità" e nelle Leggi [X,
896 e-897 d] decisa- mente, "anima sregolata e malvagia (De animae
procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a)... Bisogna dunque rendersi conto che
l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima del mondo, ma una potenza
di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e lo slancio, senza
proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e all'opinione; e che
la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e le proporzioni
convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di reggente del
mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque, non è tutta opera di Dio, ma
porta in sé, innata, la parte del male... (1027a). Là dove Tifone piomba ad
impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in atteggiamento
di suprema tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei resti e delle
membra sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e nasconde tali
reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose nasciture e le fa
sorgere da se stessa (De lside, 375a-b). Il timore di Plutarco a risolvere
stoicamente la divinità nel costi- tuirsi dello stesso universo, lo porta,
interpretando certi passi plato- nici, a porre la divinità come il complesso in
atto e compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e mancanze (incorporeo) di
tutto ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui, appunto, il divino è
essere: il divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto tutte le forme
(idee), in quanto la sua intellezione - egli intellezione in atto - è tutte le
passibili forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto eterno e perfetto, è
oltre l'esistere ("Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di
trasfor- mazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l'universo intero
e poi, di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si distenderebbe via via in terra
e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose di viventi e delle
piante; tutto questo, anche a udirlo, è empietà!"- chiara è l'allusione
agli stoici -: "Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell'esistenza
cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale debolezza corporea,
che è volta, di per sé, all;l distruzione... Per dio non si dà mai
scardinamento dall'essere e trapasso": De E Delph., 393e-394a). L'esistenza
è, accanto all'essere (coeterna dell'es- sere, in quanto come l'essere
condizione del reale) la materia - la éor- poreità come indefinita
potenzialità, - che, tuttavia, non assume essere, non assume forme, se non si
definisce, se non presuppone l'essere, se non ha, quindi, per sua natura
desiderio di ciò che le manca; essa perciò tende all'essere, ad assumere forme,
per cui il divino, egli rima- 28 nendo esso stesso immobile e in
atto, è ad un tempo presupposto e termine dell'aspirazione del tutto. Evidentemente,
dunque, rifiutando la tesi stoica della materia pura passività e ·senza
qualità, bisognava porre, accanto all'essere - principio e fine - e
all'esistere - materia- potenza - una terza condizione, un principio vitale,
senza di cui la materia sarebbe restata pura passività. L'anima come vitalità
è, dun- que, una terza condizione, che se da un lato spiega la tendenza del-
l'esistere ad assumere essere, costituendosi come anima del mondo in quanto si
modella sull'intellegibile (razionalità), dall'altro lato può ren- dere conto
dell'affermazione di sé come individualità, che aspirando a sé e non all'essere
uno, che serra insieme il tutto intelligibile al divino, si determina come
non-essere, come ribellione a Dio, come frantumazione dello stesso Essere che è
uno, ordine e bene, si deter- mina cioè come irrazionalità (male). Il divino,
dunque, come pura intelligibilità e come essere è, ad un tempo, principio e
fine, mentre la materia, esistente e vivente, è da un lato tendenza all'essere,
al bene, e, dall'altro lato, nella stessa affermazione di sé, negazione
dell'essere, conflitto, male, in una serie di gradi viventi, che, posto appunto
il divino come termine ultimo di aspirazione, vanno all'infinito in una serie
che si scandisce da una minor somiglianza al dio (mondo ter- restre e
sublunare) a una sempre maggior somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni
buoni), per approssimazione e in un perenne conflitto.· È un fatto che il
divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza
di forze antagonistiche, che non sono, però, equi- librate esattamente, perché
la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che
la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte,
innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in
un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e
ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di
meglio, s'identifica con Osiride [il divino)... Tifone, per contro, è la parte
dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e
volubile... (De lside, 37Ia-b). Certa- mente, H, nel cielo e negli astri
perseverarono immobili le ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che
proviene dal dio; per contro, quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi
soggetti alle leggi fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si
dissolve, si corrompe, va perfino sotterra... (De ]side, 375b). Il principio
della fecondità e della con- servazione della natura è attratto verso di lui e
verso l'essere, mentre il principio dell'annientamento e della distruzione è
dissolto da lui, verso il non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome
che deriva da "slan- ciarsi" (hlestaz) con sapienza e
dall"'essere mosso," appunto perché essa consiste in un movimento
animato e sapiente... (De lside, 375c). È bene esigere che nessuna cosa
inanimata si:t superiore a ciò che è animato e 29 nessuna cosa
priva di sensibilità sia superiore al senziente... Non nei colori, né nelle
forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente il divino: tutto ciò che
non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla vita ha una porzione di
onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la natura, che vive e vede e
ha da se stessa la sorgente del movimento e una conoscenza tale da saper
distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo, ha saputo attrarre su di
sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di colui che è saggezza,
"in virtU del quale è governato l'universo," secondo l'espres- sione
di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini sembra chiaro come Plutarco
- nel suo ten- tativo di giustificare sotto il segno di un'unica concezione
religioso- filosofica gli aspetti diversi delle credenze religiose'
ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede sintetizzate da un lato
nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato nella teologia zoroastriana
- possa riprendere e giustificare, nel quadro della sua teologia e cosmologia,
le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e profetiche delle anime, in
una, infine, descrizione di quella che è, nell'universo, la posizione
dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno l'universo nella sua
totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia e tra l'uno e
l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera- zione - unica
realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle forme piu basse -
all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al- l'infinito, verso
l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto della vitalità,
che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi e affermarsi è
negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere un'infinita
scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte al limite,
all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere, alla
luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno
universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle
anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua
condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo
meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora
gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che
Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che
noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi
difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà
ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi
e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci
congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai
Magi della setta di 30 Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o
dall'Egitto, o dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette
il trapasso, sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la
terra diventa acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della
sua natura, si tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel .:ampo delle anime
elette, è ammesso il passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia,
solo poche anime appartenenti al grado demo- nico, purificate dopo lungo
volgere di tempo, mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della
divinità. Al contrario, talune, non riu- scendo a dominare se stesse, scendono
dal grado superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita
senza luce e fievole come un'esa- lazione... In realtà, piu lungo o piu corto
che sia il tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la
dimostrazione voluta, attraverso testi- monianze sapienti e antiche, che
esistono, cioè, alcuni esseri, quasi al con- fine tra gli dèi e gli uomini, i
quali sono soggetti alle passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto,
secondo il costume dei padri, che noi con- sideriamo costoro dèmoni e li
veneriamo con questo nome. Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di
questa concezione le figure dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine,
l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'iso- sede, infine, al demoniaco. Il
primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo,
uguale per un verso, disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni,
che partecipa a un tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma
la natura stessa offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con
il sole e con gli astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle
cadenti...; natura mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui
rivoluzione concorda con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora
calante, ora crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar
via l'aria ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la
coesione del tutto risulte- rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe,
nell'intervallo, uno spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette
la categoria demonica toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi
e quello degli uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano
una funzione di inter- preti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a sconvolgere
e a turbare ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e nelle cose umane
e traen- dolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo dar retta per
nulla a coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la divina
compia- cenza .per le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere che, in
tali cose, il dio si giri e rigiri e si presenti direttamente e si affaccendi
lui stesso. Piuttosto, facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali
giustamente la cosa compete, voglio dire ai ministri degli dèi, che sono, per
cosf dire, i loro famuli e segretari; noi crediamo che il mondo tutto sia
percorso da dèmoni, alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti
misterici, altri in funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini [ed è su
questo motivo che si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la provvidenza
plutarchea: cfr. De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli uomini, anche
tra i 31 dèmoni esistono differenze di valore, perché in alcuni
l'elemento passio- nale e irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo
ancora fievole e indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e
inconsumabile (De defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se da un lato la
soluzione del significato da dare ai dèmoni chia- risce quanto sopra dicevamo,
e cioè la concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in un conflitto di
forze, si scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a
imitazione dell'Essere su- ,premo, puro intelligibile, presupposto e fine;
dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla loro funzione, hanno un notevole
interesse storico. Sono una testimonianza precisa non s~lo della presenza di
credenze oracolari, astrologiche, magiche, quali si erano venute diffondendo,
in particolare dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C., e alle quali
abbiamo già sopra accennato, ma anche del tentativo che ora si fa di rendere
conto delle stesse esperienze vitali che stanno a fondamento di quelle
credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne tro- viamo tracce
in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello pseudo-Democrito,
nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride (cfr. so- pra), in alcuni testi
alchimistici che rifluiscono nei testi del corpo erme- tico (certo su Plutarco,
come testimonia anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto una forte
influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di Osiride:
non a caso Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri riti e
miti egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è
l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze
naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine
ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala
degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno
oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle
piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali,
tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si
giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello
stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e
costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dal- l'altro lato in
razionalità, in aspirazione all'ordine e .al divino (perciò l'anima non muore
con il corpo, perché la morte può essere interpre- tata come eliminazione
dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto
medesimo, se da un lato spiegano la divi- nazione, i sogni profetici ela
possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli
spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei
dèmoni stessi siano presenti, com'essi 32 operino, come servano di
mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in
Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da
parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari
secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità, indicata, sia pur in
un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel
commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il
conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se
stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione
sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a
caso lascia ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro
ai quali giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione
degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che
consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità
che non sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti,
accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si
può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo giudaico). La
nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'igno- ranza. Un
riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi,
ma anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono...
appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato
all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di
noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere
conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica
a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre
argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza, e che
essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui
trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e
desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando
sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a).
L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno,
che, se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della
metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza
delle luci stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni
modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno
alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che
viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua
aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità:
"Le vesti di lside sono 33 di colore screziato, perché la
potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto
accoglie, luce e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha
sfumature di ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo,
tutto semplice, la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque,
è rappresen- tata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è
tale, esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura
luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie
di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla
luminosità pura (divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità
(corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità
(anima), da un lato affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel
suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e,
perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad
essere come lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi:
in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità
(anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi
come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come
razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina,
la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e
razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e,
perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze
vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un amore
per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui (superstizione) o
ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria individualità (ateismo,
epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume che il dio sia presente,
respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e con la gioia si eleva sino
all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non pom: suaviter vivi...,
llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di Filone l'Ebreo: Dc
cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un essere composto, ma
hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due principi: difatti
quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte dell'anima, errano non
meno di coloro che ritengono l'anima una parte del corpo. Di quanto l'anima è superiore
al corpo, di tanto l'intelletto è migliore e piu divino dell'anima. L'unione
dell'anima e del corpo produce la facoltà irra- zionale e passionale, quella
dell'intelletto e dell'anima produce la ragione; la facoltà irrazionale e
passionale è principio di piacere e di dolore, quella dell'intelletto e
dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre parti, la terra forma il corpo,
la luna forma l'anima, il sole dà origine all'intelletto (Dc 34
facie in orbe lunae, 943a). Le anime posseggono sempre i loro poteri, ma
li posseggono piu deboli quando sono mescolate ai corpi...; tuttavia alcune
anime talora fioriscono e riacquistano quella loro potenza nei sogni e al
momento della morte, sia perché allora il corpo si purifica o subisce una
modificazione favorevole, sia perché l'anima, essendo la parte razionale e
meditativa liberata e svincolata dalle cose presenti, si dirige con la parte
irrazionale e immaginativa verso le cose future... (De defectu oraculorum,
43lf-432c). Anche se molte sono le oscillazioni del pensiero di Plutarco, se
molte volte egli è equivoco relativamente al concetto del divino e sul rapporto
tra il divino e la realtà, vivente nel conflitto tra le due forze, nella
tensione tra la forza disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice
e ordinatrice, certo l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a
quello di conciliare in una sola religiosità razionale (delfica) le molte
esperienze religiose, vive e operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento
dello stoicismo, che spiega anche il significato e il limite della trascendenza
del divino plutarcheo. Posto, di contro allo stoicismo, che il divino non si
risolve nella molteplicità del reale, ma che il divino si pone come il
presupposto dell'ordine e della razio- nalità co.ndizione dunque dell'essere
delle cose, esso metaforicamente è il "padre"; e posto, perciò, che
la materia e la corporeità, viventi per la tensione di forze vitali (anime),
tendono all'essere, Plutarco poteva - ed in questo. consiste il rovesciamento
dello stoicismo e il suo ap- pello a Platone - da un lato prospettare il divino
come termine di realizzazione (in tal senso trascendente) di tutta la realtà,
non annul- lando l'essere nella esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che
dalla tensione tra le _due forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in
cui si rivela per imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro
al fatalismo stoico e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano
umano, un qual certo volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale,
che non avrebbe luogo senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro
che momenti della necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo
aspetto sembra chiaro in che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte
dell'anima, ma come rivelazione della presenza del divino in quanto
razionalità, cioè in quanto capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone
come dovere e come bene, che si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale
la ragione per cui Plutarco, interpretando un passo della Vll lettera di
Platone (344b), afferma che l'intelligibile si coglie attraverso il con-
flitto, nell'atto in cui scoprendo sé come razionalità, si scopre sé come
pensiero, cioè come unità di discorso e come dominio in unità di noi 35
stessi, m quanto molteplicità di passioni. "L'intuizione di ciò che
è intelligibile, luminoso e puro è come un lampo che brilla, e l'anima può
coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò Platone [Convito, 210a] e Aristotele
[Alex., VII, 668a] chiamano con il nome di epoptica questa parte della
filosofia, poiché coloro che mediante la ragione hanno oltrepassato le
varie_opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel Principio primo,
semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura che irraggia da
esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della filosofia" (De
lside, 382e). L'unità del discorso in cui si scandisce il ritmo della realtà,
che assume essere in quanto si adegua all'unità dell'Essere, per cui l'Essere
trascende la realtà, appunto perché ragion d'essere in atto del tutto, unità in
atto del tutto, unità in atto delle forme - metaforicamente luminosità senza
ombre, non discorribile - si coglie intuitivamente e, perciò, subito si perde -
non a caso Plutarco dice che è come un lampo e che si vede una volta sola; -
esso, dunque, resta da un lato .:ome ricordo, e, dall'altro lato, come
desiderio, come termine cui si aspira, oggetto d'intelletto, pura
intelligibilità. E allora, non risolta la realtà nella manifestazione dell'essere,
l'essere si pone come condizione dell'esserci e come dover esser, per cui,
colto l'essere, attra- verso l'educazione e l'esercitazione del pensiero, esso
diviene il bene, e poiché la realtà, e l'uomo, momenti dell'aspirazione
all'essere, nel conflitto tra la forza organizzatrice e la forza disgregatrice,
sono sgan- ciati dall'essere stesso, nell'uomo, in quanto centro del conflitto,
nel- l'atto che intuitivamente coglie l'essere, si postula la possibilità di
rea- lizzarsi da un lato come capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere
delle cose, cogliendole in ciò che esse sono nel loro ordinarsi secondo il
modello divino, indipendentemente dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo
stesso (l6gos teoretico, la cui corrispondente virtu è la "sapienza,"
sofia), dall'altro lato come capacità di realizzarsi, tenendo presente il
modello divino, armonizzando e ordinando in unità (ragio- nevolmente) le
passioni e gli istinti (ragione pratica, la cui virtu è la
"prudenza," fr6nesis). L'uomo, cioè, in quanto intuizione di sè come
ragione, che lo trascende dal di dentro e che si pone come valore da rea-
lizzare, da un lato coglie sé come capacità di contemplare (vita teoretica,
scienza), dall'altro lato come capacità, mediante la ragione, di ordinare e di
indirizzare la propria animalità (anima vegetatìva e anima sen- sitiva,
corrispondenti all'anima "concupiscibile" di Platone; anima
irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come conflitto e
frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente, secondo una
giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni, non in una
negaziDne delle passioni, in cui consistono le virtu etiche (vita pratica).
"La virtu morale differisce dalla virtu con- templativa in questo: ch'essa
ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la ragione" (De virtute
morali, 1). Anche sul piano etico, coerentemente, la posizione di Plutarco e il
suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato ad Aristotele, è in funzione
antistoica, o meglio in funzione di una interpretazione di Platone e di
Arsitotele, diversa da quella stoica, e tale che gli permetta di mostrare che
la virtu è insegnabile (cfr. Virtutem doceri posse) e che la moralità non
consiste solo in un corretto uso della ragione. Vi sono alcuni filosofi [Zenone
di Cizio, Crisippo] che si trovano d'ac- cordo nel considerare la virtu come
un'affezione, come un abito della parte superiore dell'anima, prodotto dalla
ragione, o piuttosto come la ragione stessa, invariabilmente fissa ai suoi retti
principi. Essi non credono che in noi sia una facoltà sensitiva e irrazionale,
diversa per natura dalla ragione. Questa parte dell'anima, ch'essi chiamano
egemonica e intelligenza, diviene, dicono, vizio o virtu, a Seconda delle
modificazioni che prova nelle sue affe- zioni ed abiti. Essa non ha nulla di
irrazionale... Essi sostengono che la passione stessa sia ragione, ma corrotta
e depravata dai giudizi falsi e per- versi che la trascinano fuori di sé.
Questi filosofi sembrano aver tutti igno- rato che ciascuno di noi è in realtà
un essere doppio e composto. O meglio essi parlano di una sola duplicità, di
una sola composizione; quella che risulta dall'unione dell'anima con il corpo;
ma non si sono accorti che la stessa anima è in qualche modo composta di due
nature diverse; che la sua parte irrazionale è come un secondo corpo unito alla
ragione, da intimi e necessari legami. Pitagora, invece, sembra aver conosciuto
questa seconda composizione... Platone ha veduto con la massima evidenza che
l'anima del mondo non è un essere semplice, uno per natura, senza composizione;
ma ch'essa è un mescolarsi del principio dell'identico e di quello dell'altro
[in un conflitto tra l'anima buona e l'anima malvagia]. L'anima umana che altro
non è che una porzione di quella del mondo, formata su numeri e propor- zioni
uguali a quelli dell'anima cosmica, non è né semplice né senza affe- zioni.
Essa ha due facoltà: una che si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza,
per sua natura atta a dominare l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale,
sregolata, sede delle passioni e degli errori, ha bisogno d'essere retta da una
facoltà superiore. [La parte irrazionale si divide in concupi- scibile e
irascibile]... Aristotele ha fano un grande uso di questi principi, soprattutto
della distinzione tra razionale e irrazionale... Orbene, i costumi, per darne
qui un'idea, sono una qualità della parte irrazionale; e si chiamano cosi
perché questa qualità, impressa dalla ragione in questa parte dell'anima, è
dovuta· all'abitudine. La ragione non vuole distruggere interamente le
passioni, il che non sarebbe né possibile né utile, ma solo infrenarle entro
giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu morali, che non operano affatto
l'annientamento totale delle passioni (apatia) ma 37 le regolano e
le moderano. Tali virtu sono il frutto della prudenza (jr6- nesis), che
riconduce ad una disposizione equilibrata e giustamente misu- rata l'attività
naturale delle passioni (De virtute morali, 3, 4). L'appello di Plutarco
all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla moralità come
conflitto, sul bene e sul male come capacità di sapere o meno, di volta in
volta, costituirsi secondo misura oppure no, nettamente respingendo sia
l'accettazione passiva di ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad una
superiore ragione da cui tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza, in
un mondo ove tutto avviene a caso, di ritirarsi in conventicole di amici
(epicurei- smo: cfr. De latenter vivendo), sembra rendere esattamente conto del
modo con cui Plutarco si è rifatto a Platone, dandone un'interpreta- zione
dinamica, sottolineando, appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone
intenda il mondo dell'Essere non come un dato, ma come un dovere essere. Si
capisce cos( perché Plutarco perfino sul piano cosmologico - non a caso egli
punta sulla natura come potenzialità - interpreti il Timeo in termini
rovesciati rispetto all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur
posto il divino quale condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose,
non è il divino che si tra- duce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo
che, vivente di forze opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri
ai piu luminosi, al divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale
stoicismo rovesciato, indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di
realizzazione e di amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e
sull'esigenza dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un
dovere) di dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a
simiglianza di Dip, molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici
(il motivo della simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e
un principio passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si
scandisce la realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della
filantropia e, conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da
parte del saggio l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione
politica, in nome di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle
"ragioni" mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e
l'aspirazione plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano
consigliati e ammaestrati dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare
filosofia). Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare
quei semi .di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio;
Plutarco, De educatione puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e
delle varie condizioni economiche, Plutarco vorrebbe fosse data a tutti
("Tutti i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu
perfetta educazione; coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno
a ciò che la loro fortuna permet- terà di fare. De educ. puer., 11). Cos(,
anche sul piano politico, l'ap- pello di Plutarco è un appello a una possibile
pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione
da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra
le tradizioni delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma.
Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la
supremazia di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni
guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta
indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici,
824c) e come estremamente limitata sia oramai la pos- sibilità di usare l'arte
politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni,
quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o
negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere
nello Stato? Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a
mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed
eticità intesa ari- stotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini
della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una
doppia azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in
che senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto
individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo
Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli
compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e,
dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando
nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni
politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da
istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che
richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e pru- dente; in una città vi
sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi;
e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). N o n
solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio, .si deve mostrare cosa voglia
dire essere uomo dav- vero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare
come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini
("Bene- volenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco
apprez- zava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite
parallele, ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra
ch'egli voleva che i due popoli fossero considerati comple- mentari l'uno
dell'altro, non avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero
prodotto uomini famosi nella storia": Sinclair, op. cit., p. 431). Non di
istituzioni o di regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo,
attraverso l'educazione e la filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo
salvandosi mediante la conoscenza, si pre- pari a ritrovare la propria patria,
sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra
d'esilio: •esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di
miseria; quando Empedocle parla cos1, non è per sé solo, ma per nòi tutti che
afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo" (De ezilio, 17). Retorica
e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La « scepsi" e le
scienze. Le •questioni." Medicina e metodo da Menodoto f l Sesto Empzrico
Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una
corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politica- mente si
irradia nei paesi greco-orientali dell'Impero. Sia pur ora in una situazione
politica mutata, rispetto a quella che sta a .cavallo tra la seconda metà del I
secolo a. C. e il principio del I secolo d. C., ma sempre tesa a una
giustificazione dell'Impero, ci rendiamo conto di come s; po- tesse, su di un
piano scettico, assumeado·posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico
di posizioni simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa,
in una dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni
posizione, giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile,
politicamente piu utile e adatta alla vita. Sulla linea di Dione Crisostomo,
del quale sembra sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente
assunto da Favorino Arletano (nato ad Arles, nell'S0-90 circa, morto tra il 143
e il 1.76).8 A Roma fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine
equestre, in rela- zione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a
Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco,
che gli. dedicò il De primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones
con- viviales, am;co di Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò
soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filo-
sofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno
all'altro di fronte in dialettica opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi
moltissimi scritti, tutti in greco, non rimangono che alcune ora- zioni e
diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto, 8 Sulla vita di
Favorino di Arles, vissuto tra 1'80-90 e il 143-176, non abbiamo altre notizie
se non quelle date sopra nel testo. Si confronti oltre la Bibliofl'afia. 40
abbastanza esteso sull'Esilio, - nelle sue opere si proponeva di
esporre gli aspetti piu salienti delle varie tesi filosofiche, in forma
divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché fosse possibile, difesa l'una
e l'altra posizione, dimostrarne la contraddittorietà interna.·Di qui, accanto
ai Memorabili, in 5 libri, alla Storia varia, in 24 libri (come appare dai
frammenti che ne possediamo, nei Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene
Laerzio, Favorino riferiva gli aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali
filosofi del VI-IV secolo a. C.; nella Storia varia gli aspetti piu
appariscenti delle tradizioni culturali: il titolo di due frammenti con-
servati è già abbastanza indicativo: I. filosofi che hanno fatto qualche
scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filo-
sofz), ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici (Sulle idee, La
filosofia di Omero, Su Platone, Su Socrate e la sua arte erotica, Sul modo di
vivere dei filosofi, Su Plutarco e lo stato d'animo delfAcca- demico,
Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pam- file: compendio di
uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le opere fondamentali
di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui, appunto, si davano
gli strumenti, i modi o tropi me- diante i quali dimostrare l'incoerenza delle
varie filosofie, in una ri- presa dei tropi di Enesidemo), l'altra in 3 libri
su la La fantasia cata- lettica, in cui si rimetteva ancora una volta in
discussione. la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si fondava la loro
gnoseologia, del pas- saggio dalle strutture della ragione alle strutture della
realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile
(xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è sempre una nostra
rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su di un piano
retorico la tesi neo-acca- demica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e
i contra, determi- nare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile,
praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo Favorino, nell'ipotesi
aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella
stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica, presa
come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano
retorico, in funzione politica, me- diante cui convincere a una certa
concezione, sia pur assunta come ipo- tesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro
in che sen:so lo scetticismo meto- dologico abbia avuto una funzione
preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se
da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le
concezioni di sfondo poteva ser- vire per determinare una certa visione (sia
essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in
sé) e a quella convin- cere in un abile uso delle tecniche retoriche;
dall'altro lato, entro i ter- mini di un effettivo sapere (e tale è il
significato di scienza, già molto 41 bene indicato da Seneca: cfr.
sopra), la scepsi, intesa come ricerca cri- tica, costituiva le basi delle
possibili ipotesi, non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i
fenomeni naturali. In altri termini, anche in questo campo, si presentano
innanzi tutto descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si
sono avute nel tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi,
contrapponendo l'una ipo- tesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra,
dare la soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non
contraddittorie. C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di
Plinio il Giovane in due sue lettere a Licinio Sura. Di Licinio Sura sappiamo
che nacque in Spagna nel 56 circa e che mori non molto dopo il 110, che fu
amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo all'imperatore
Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande autorità. Sappiamo,
inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu vari movimenti
cultu- rali del suo tempo si preoccupò, da un lato di rendere conto di quei
movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno studio
comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i pro e i
contra di ciascuna soluzione. Plinio, appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella
prima lettera (Lettere familiari, IV, 30), gli descrive il feno- meno
dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno
regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della
sponda orientale, nel ramo comasco del Lario .("ti porto dalla mia terra
natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda
erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipo- tesi che servono a spiegare
il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la di- scussione e la possibile soluzione
("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi
strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio chiede
all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no
("vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una
propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà
e ricevano apparenza solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie
di racconti intorno a storie di fantasmi. Partico- larmente interessante -
anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di
fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e
comoda casa di Atene nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci
si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di
ferraglia e... uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino,
quindi appariva uno spettro..." - e sulla quale il proprietario mise un
affittasi in cui si offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno,
ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla"; .la casa fu
presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo, informatosi,
aveva saputo del 42 fantasma; Atenodoro, pur cercando di
distrarsi, assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di catene
e vide lo spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro
finché, nel cortile, il fantasma improvvisamente svani; segnato il punto,
Atenodoro il giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove
il fantasma era sparito: là trovarono ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte
a spese della città, "la casa non fu piu visitata dai Mani, sepolti, secondo
i riti." Plinio cosi conclude la lettera: "Ti prego perciò di volere
aguzzare l'ingegno. L'ar- gomento è degno che a lungo e a fondo tu l'esamini: e
neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza. E anche se
tu, .come sci solito, esaminerai il pro c il contro, vedi però di giungere a
una conclusione piu decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e nell'incertezza,
poiché la ragione del mio consulto fu il desiderio che cessasse ogni
dubbio." Le due lettere di Plinio hanno un valore documentario di non poca
importanza. Molto chiaramente mostrano le due facce di un unico me- todo di
lavoro: a) descrizione di fenomeni quali si sono registrati ed esposizione
delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da discus- sioni: a tale
esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipo- tesi, base da un
lato per una preparazione culturale generale e, dal- l'altro lato, per una
discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti
ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e oucstioni naturali,
in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle v2.rie concezioni, insieme
alle isagogc, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un
ordinamento per questioni, per scuole, per di: scendenze (lavori tutti, sotto
questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è
chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite,.le opinioni, gli apoftegmi
dci filosofi celebri di Diogene Laerzio, che scrisse sul principio del m
secolo); b) sulla base dei dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico
sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e discussioni delle
varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. Entro quest'àmbito, entro i
termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel
tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di
indagine i diversi piani di feno- meni: dai fenomeni naturali e dalla
possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia,
matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura umana
(esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e
straordinari; psicologia; e via di seguito). E poiché sia per l'una ricerca che
per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella
determinazione dei pro e dei contra, si trattava di precisare le condizioni che
permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio,
l'indagine stessa di- viene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè
·"logica." Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente
determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio
sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla
corrente della medicina empirica, che trovò il suo fondamento nella tesi piu
stret- tamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure,
rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come
veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permet- tessero un
discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere
relativo a certi contenuti (si pensi all'opera medica di Galeno e
all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui anche, su di un piano piu
strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle
soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, rag- gruppate in
questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in
questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o re- spinte a
seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene, cosi:, come i
maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e so- luzioni al
commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristo- tele, degli
Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e del- l'altra
interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel deter- minare
venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche
volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e re- spinte,
cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e
concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle
esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dal- l'Egitto, dagli
ebrei come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche
come si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e
dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici,
insieme, per altro verso, alle sintesi che pro- vengono dai commentatori di
Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e
introduzione, che proviene da al- cuni commentatori della logica di Aristotele
e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il
fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha
principio la formazione del medievale "Platone teologo" e
"Aristotele logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già
dalla fine del 1 secolo a. C., .con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato,
di contro ad ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento
critico-metodologico, in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi
argomentativi, dall'altro lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e
che nell'arco di tempo che va da 44 Enesidemo ad Agrippa (metà del
I secolo d. C.), l'indirizzo scettico si era venuto incontrando con l'indirizzo
della medicina empirica, finché con Menodoto di Nicomedia, vissuto tra 1'80 e
ir 160 d. C., i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca
scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre momenti
fondamentali del me- todo della medicina empirica, autopsia, historie, mimesis,
che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si confronti
sopra). È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre indi- rizzi
fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot), fin dal m secolo a.
C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli
Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti
"pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei me- dici
"metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea (seconda metà
del I sec. a. C.), e il celebre Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è
proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto sotto Nerone), e Sorano di Efeso
(vissuto nel n secolo, sotto Traiano e Adriano); 3) l'indirizzo dei medici
empirici, che, ufficialmente iniziatosi con Filino di Cos (m sec. a. C.),
prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine metodologica, con
Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apol- lonia il Vecchio (n a. C.),
Glaucia di Taranto (n a. C.), Eraélide di Ta- ranto (prima metà del I sec. a.
C.) e nel I sec. d. C., con il celebre oculista Demostene Filalete, con
Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio,
Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di Laodicea, e tra il I e il u secolo, con
Menodoto di Nico- media. I "teorici" fondavano la loro filosofia e
patologia entro il quadro della concezione stoica, rifacendosi al
"pneuma"; i "metodici", invece, pur rifacendosi
all'esperienza, sostenevano esser necessario, per non trovarsi di fronte a una
infinita serie di dati muti, collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale
tesi fu sostenuta da Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande
ginecologo dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e
sulle malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima
di Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del
corpo umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della
patologia delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di
Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie
acute e croniche. Nella polemica contro i "teorici" e contro i
"metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella meto-
dologia scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggia- mento di
Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi
medici, forse anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come
malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp., 63-64, in Deichgraeber, Die
griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. E fu, appunto,
per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso
erano anche i "metodici," il cui atteggiamento nei confronti della
pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai
convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò
discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto
assunse le argo- mentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione
"probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione dei
"metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi
di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle
possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo
dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie.
In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano
scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o
direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati
e feno- meni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo
me- dico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezio- nali,
raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in
cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge,
per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si
rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non
interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per
cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a
quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore
polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c h e trovano
il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di tipo
platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei
"metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile,"
in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla
di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente,
egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che
Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico,
l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische
Empirikerschule: eine Sammlung der Frag- mente und Darstellung der Lehre,
Berlino, 1930, n. 293). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della
scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva
con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza
con questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi
simpatie per Me- nodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina
empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche
Deichgraeber, op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra
enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro serio e proficuo è non
uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato
esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione
all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo
una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni,
segni "ram- memorativi" e non "indicativi" di strutture in
sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo
la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di
simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una
"descri- zione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che
non pre- sume affatto di essere una definizione. Che tale sia stato il metodo
della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustifi-
care la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si
annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo
stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non
identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente
antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella
critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII,
32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto,
Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali
della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della
medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è
affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato
l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal
noto all'ignoto, ma un pas- saggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i
fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti
mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé,
ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40,
15). In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva
identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida
l'abbiezione dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e·
definitivamente assu- mendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza
metodologica e logico- linguistica dello scetticismo, come ben si vede
attraverso Sesto Empi- rico, vissuto tra la fine del II e il principio del m·
secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio
(IX, 116), era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e
Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di
Capitoli scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico empirico e
di poco piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). Scrive,
dunque, Sesto: 47 Poiché alcuni affermano che la setta dei medici
empirici s'identifica con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella
setta empirica afferma reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~
questo un dogma] né è identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo
Scettico accogliere quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire
quello che si chiama metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici,
sembra non affermi nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza
presumere di dire se siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da
questi prende ciò che sembra giovare, conformandosi alla maniera degli
Scenici... Tutto ciò, credo, che viene detto dai metodici si può ridurre alla
necessità delle affezioni, quelle che sono secondo natura e quelle che sono
contro natura. (Diciamo che lo scettico non dogmatizza, non nel senso in cui
prendono ·questa parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire
a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle
rappresentazioni sensibili assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si
aggiunga che comune ai due indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in-
differenza nell'uso delle parole (diciamo, ad esempio, "valore" senza
annet- tere a questa parola nessun sottile significato, nel suo senso semplice
in rapporto al verbo "valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice
"tutte le cose sono false" perché insieme con la falsità di tutto il
resto affermerebbe che falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue
espressioni, lo scettico esprime quello che a lui appare, e rivela la propria
affezione senza osser- vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando
circa le cose che sono fuori di lui: l, 14-15). E invero, come lo Scenico
adopera, senza pre- sunzione dogmatica, la espressione "nulla.dò per
certo," e l'altra "nulla comprendo," come ·si è detto, cosi
anche il "metodico" dice • comunanza," "si riferisce"
e simili, cosi semplicemente. Cosi, anche, assume la parola
"indicazione," senza presunzione dogmatica, in luogo di
"guida," verso quelli che sembrano essere i provvedimenti
consentanei, sulla base di quelle che appaiono essere affezioni secondo o
contro natura... Congetturando da questi e altri fatti simili, si deve dire che
l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli altri indirizzi medici, una certa
affinità con lo Scetticismo, s'in- tende, comparativamente agli altri, non in
modo assoluto (lpotip. Pi"·• l, 236-241). 4. Inurpretazioni di Platone e
di Aristotele nel II secolo a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio,
Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si delinea abbastanza bene una certa
esigenza e uno dei possibili modi di interpretare alcuni testi di Platone,
anche per dare una forma e un fine all'azione dell'uomo, che, nel conflitto
delle forze che lo agitano, una volta sganciato dall'Essere, il quale si pone
teoreticamente come condizione dell'esistere, praticamente come modello da
realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o, rimanendo dilacerato 48
nel conflitto, di restare nella molteplicità, frantumato nelle proprie
pas- sioni, succubo dell'anima malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai
molti e complessi testi di Platone, un aspetto preciso, senza dubbio pos-
sibile, qualora quegli stessi testi vengano isolati da altri, e cioè quel-
l'aspetto che può appunto interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che
l'Essere, ciò che dà forma, ragione e significato alla realtà, si pone come
dover essere, come termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a
Platone si delinea nella confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e
fatalistico dello stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario del-
l'epicureismo, certi motivi aristotelici potevano, invece, essere ripresi come una
approfondita interpretazione, sul piano logico-metodologico, dello stesso
Platone (il mondo delle idee tutto in atto in Dio, forma delle forme,
condizione e principio, causa prima e, ad un tempo, fine ul- timo, motore
immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per Platone il mondo delle idee
è tutto presente nell'intellezione sempre in atto di Dio; oppure i due aspetti
della realtà fisica, il mondo celeste e intelligente :: il mondo sublunare, che
si potevano interpretare come i due termini in tensione dell'ascesa al divino;
oppure ancora l'aspetto formale del- l'etica aristotelica; o, infine, la teoria
delle sostanze seconde senza di cui non sarebbero gl'individui, che in realtà
si risolvono e si perdono in =tuelle forme universali). D'altra parte, poiché,
come sappiamo, Aristotele non si esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su
una o altra opera di lui, si poteva interpretare Aristotele come il filosofo
che nega la prov- •idenza, lo stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità
dell'anima e ma sua sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli,
il 3losofo che risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma-
lità, che .al filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una
forma alla propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle :ondizioni
che permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una
raccolta di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo
veduto, portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti
dell'aristotelismo. Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato
nella ricerca di sé e perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella
crisi di una cultura, all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in
quanto valori, non dati di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di
Pla- tone, il commento, nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a
seconda della confutazione nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo,
a sottolineare certi aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri,
respingendo ad un tempo quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto
cenno; dall'altro lato, all'esigenza scolastica di presentare in un sistema
compiuto e coerente il pensiero di Platone, suddiviso nei 49 capitoli
divenuti oramai canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali
lavori scolastici d'insieme (introduzione a una lettura di Pla- tone ed
esposizione del suo sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei
dialoghi, ove maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come il piu
sistematico e l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del
Parmenide e del Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che
poche tracce, se non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per
l'anonimo commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di
Madaura. L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4
Albino, vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di
Gaio, che pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non
le scarse notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore
del Commento al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state
pubblicate da Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di
Platone. Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in
poi. Autore di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov:
cfr. il testo a cura del Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III)
e di una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande
influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un
certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a
causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai
convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in
tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV-VI); Teoria e
contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VII- XXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV);
Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non
maestro di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~
incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel
125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine
ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene
dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{
l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque
dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece
iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica,
astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente
le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso
rielaborò in l:itino. Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si
recò a Roma dove svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte
cause. Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si
ammalò ad Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in
dimestichezza con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane amico
conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio maggiore
di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo stesso
Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava
rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di
Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici
i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi
i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso
Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio
giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere
costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio, trascinato
in tri- bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo, energicamente si
difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa, pronunciata, nel 158
circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio rielaborata e sviluppata -
sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia liber. Prosciolto da ogni aceusa
di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove, per la sua eloquenza, per le sue
brillanti conferenze, per la sua capacità di parlare 50 opere di
grande importanza per una ricostruzione storica del plato- nismo nel u secolo:
se da un lato indicano un preciso modo di inter- pretare Platone, dall'altro
lato chiariscono non solo un metodo di la- voro, ma spiegano anche come per
presentare un pensiero di Platone - nel suo complesso interiormente coerente -
che abbraccia tutti i rami del sapere (filòsofìa), si sia potuto, per alcune
parti (la logica in parti- colare) ricorrere a certi aspetti della logica di
Aristotele, reinterpretata attraverso l'elaborazione formale-linguistica della
logica del primo stoi- cismo, in un recupero di Aristotele in funzione
platonica. Scrive Albino, aprendo la sua Epitomè: Ecco quale potrebbe essere
l'esposizione delle principali dottrine di Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV
ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV 't'OL«U't"7j 't'~ &v
3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è un'aspirazione [cfr. Platone,
Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se
si vuole, lo scioglimento dell'anima che si allontana dal corpo, quando ci
volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr. Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c];
la sapienza (O'ocp(«) è la scienza (br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane
cose... (Epitomè, l, l). E cosf conclude l'opera Albino: Queste nostre
delineazioni bastano per servire di introduzione (daatyeù"'{'fj) allo
studio della dottrina di Platone (dc;· TY)v llM't'Cùvoc;
30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si presentano, forse, bene
articolate, altre invece mancano di ordine c di articolazione logica; ad ·ogni
modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare le altre dottrine di
Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè, XXXVI). E dopo avere delineato
la vita di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In questo nostro
trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si direbbe in
greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per indifferentemente in
latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che ancora vivente gli
furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della città. Mori a
Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono rimaste: i Florida
(un'antologia di discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi), l'Apolo6ia (Pro se
de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque dogmatis (in tre libri),
il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudo- Aristotclc), le
Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in cui si narrano le
avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che trasformato in asino per
magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc). Degli scritti perduti si
ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re rustica, Medicinalia,
Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn conviviales, De Republica,
Eroticos, Epitome historitlrum, Herma- goras. Sembra, infine, che Apuleio abbia
tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele. . 51
utilità del genere umano, in fisica, in morale, in dialettica. Cosf,
com'egli giunse per primo a coordinare tra di loro le tre parti costitutive
della filo- sofia, anche noi parleremo separatamente di ciascuna di esse,
cominciando da quella parte della filosofia che ha per oggetto la natura
(Apuleio, La Dot- trina di Platon~, I, 5, 190). Se l'intento estrinseco di
Albino e di Apuleio è evidente (presenta- zione in un ordine sistematico delle
fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione, isagoge, allo
studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro intento
intrinseco nello scrivere una "mono- grafia" su Platone: avviamento,
attraverso Platone, ad una filosofia si- stematica, tale che non
contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini
dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno,
consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa
salvare facendosi simile al divino. "La vi- sione contemplativa
(.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino
con termini aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è
l'atto di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, interme- diario il
corpo. L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui
relative si dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima
è quel che si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in
altro -consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v
TL<;; e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)"
(Epitom~,II, 2). Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di
Platone divisa in tre sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò
che queste di- verse parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e
che non solo esse non erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva
all'altra. Infatti, benché avesse attinto a diverse scuole questi elementi
della scienza filosofica, e cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la
logica a Pitagora, là morale a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli
seppe tuttavia fare un sol corpo, ed appunto in questo consiste la sua
originalità ... Orbene, tale visione sistematica ha una grande utilitl per il
genere umano (1, 3, 187). Vogliate scuotere e agitare Platone: ciascuno,
onorandosi di appli- carlo a se stesso, lo trae dalla parte che vuole"
(Montaigne, II, 12). Nelle parole di Montaigne è implicita un'osservazione
storica di primo piano, e cioè che, appunto, non esiste un
"platonismo," ma tanti "platonismi," ciascuno, almeno in
parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a Platone, uno o altro
aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo, entro i termini di una
comune problematica, l'impo- stazione delle opere platoniche di Albino e di
Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che abbiamo delle altre opere
su Platone, degli 52 altri commenti ai dialoghi platonici che
fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a chiarire, per altro verso, il
significato dei commenti a certe opere precise di Arislotele,·da parte dei
peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di Afrodisia (seconda metà
del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali che siano le
interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la funzione data
all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario della filosofia
di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e sulle
"filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del pensiero
platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele, da quella
di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di Ascalona, di
Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di sistemazione e di enucleazione,
simile al lavoro che si svolgeva per le altre filosofie, per presentare
dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e compiuto. Come durante il
I e il n secolo d.C., vediamo, ad esempio, una serie di lavori che raccolgono
insieme, in un sol corpo, le argomenta- zioni degli scettici, culminanti nella
grande opera di Sesto Empirico, le Ipotiposi pi"()fliane, e come
c'incontriamo in una serie di sillogi del pensiero stoico, particolarment-e
difficili, dati i tanti tipi di .stoicismo da Zenone in poi, per cui tali
sillogi del pensiero stoico il piu delle volte presentano un corpo dottrinario
stoico che non ha piu nulla a che fare col pensiero dell'uno o dell'altro
stoico, come si vede bene nella presentazione che dello stoicismo farà Diogene
Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene per Platone, per il corpo
platonico e per il com- plesso delle interpretazioni di. lui, ove, puntando su
di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti del platonismo, ciascuno
dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad altra esigenza, si poteva
cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro, pur usando, ritagliati,
testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in un rifiuto
dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli stoici. Se
ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico avevano assunto
le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che costituisse il com-
plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un certo com- plesso
di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il nome di
ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di dottrine
sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui commento
e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro non solo
l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche il loro
intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò, ad
esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma anche
dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata
perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, 53 raccolto e pubblicato
in 9 libri da Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di
lpotiposi delle dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v
3oy(.UX-r6>v; ove va sottolineato che non è forse un caso che si dica
platoniche e non di Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo,
insegnò a Pergamo, dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel
125 circa, morto nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al Teeteto.
Attraverso il Prologo a Platone (probabilmente un estratto di un'opera
maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell. Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o
Didascalico di Albino (l'Epitomè fu ritenuta un tempo opera di un certo
Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo non è mai esistito, e che al posto di
Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu dovuto a un errore materiale, alla
confusione in scrittura minuscola tra ~ e x, risalente al IX secolo: cfr.
Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à l'Epitomè di Albino, Parigi,
1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone di Apuleio sembra si possa
precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo di interpretazione e di
sistemazione di Platone. A parte la riduzione del pensiero platonico ai tre
aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria (contemplazione dell'essere:
della. teoria, la parte che si occupa delle cause prime e immobili, di tutte le
cose divine si chiama teologia; quella che studia il movimento degli astri, le
loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il costituirsi del cosmo, è la fisica;
quella che utilizza la geometria e le altre scienze analoghe è la matematica:
cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio di quali debbano essere le regole
dei costumi, l'amministrazione di una casa, il modo di governare e sal- vare lo
Stato: la prima di queste attività si chiama etica, la seconda economica, la
terza politica: cfr. Albino, Epit., III, 3); logica (analisi dei ragionamenti,
detta dialettica, in quanto studio di come è che si deve ragionare; cfr.
Albino, Epit., III, l); ciò che piu colpisce, nell'in- terpretazione del
pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è lo sforzo continuo di
rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e per- ciò razionalmente
accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei Topici, dei Secondi
Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le tesi platoniche
esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu delle volte
mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone, ricavate, ad
un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra chiaro cosi
perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il cui oggetto
è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga strutturata con il
linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di Aristotele. Per Albino,
anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da Aristotele) sarebbe stato
il punto di partenza di Platone, per avviare a compren- 54 dere da
un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato il posto che
nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel tutto e nei
confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere esposto nel
I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia naturale" e nel
II la "filosofia morale," dedica il III alla logica ricavando tutto
ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter- pretatione di Aristotele, tanto
che si è dubitato che il libro III sia davvero di Apuleio. La questione, forse,
si fa piu chiara quando si pensa a quello che fu il lavoro di Aristotele nei
confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano state le soluzioni di
Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno in principio, una delle
possibili inter- pretazioni della tematica platonica, che - prendendo le mosse
dal- l'interpretazione metodologica del Platone del Teeteto, del Parmenide e
del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche - essere uno e idee,
idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra l'impossibilità di pensare le
forme senza contenuti, e i contenuti senza forme - in uno studio sistematico di
quelle che sono le condizioni logiche che permet- tendo un tipo di discorso non
contraddittorio risolvessero quelle aporie stesse, assumendo come vera
quell'ipotesi che non fosse piu oppugna- bile. Aristotele giunse dove giunse,
ma intanto il suo metodo d'inter- pretazione e di discussione dialettica delle
ipotesi, per determinare i principi non piu discutibili da cui trarre
discorsivamente ciò che in essi è implicato, poteva servire all'analisi delle
tesi platoniche per ren- dere giustificabile, cioè razionalmente deducibile, e
per ciò stesso con- vincente, quello che sembrava l'intento fondamentale di
Platone ed in particolare il punto cruciale e piu equivoco del pensiero
platonico, il rapporto essere-idee, unità-molteplicità, che, assunto in termini
aristo- telici, si poteva ritener risolto da Platone nel Timeo. b) l
commentatori di Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia,
So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene. A tale propo- sito, anzi, non va
dimenticata qui l'influenza che tra il I e il 11 secolo, aveva avuto l'edizione
del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico di Rodi,6 che dette luogo, in un
progressivo accantonamento delle prime opere di Aristotele, ad una serie di
commenti e di. introduzioni ad una lettura di Aristotele. Purtroppo dei
commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico di Rodi si veda sopra. Ad
Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu scolarca del Liceo, in Atene,
tra il 70 e il 60 a. C., successero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo; sotto
Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò anche ad Ales- sandria e a Roma; nel
1 secolo d. C., Menefilo; tra il 120 e il 160 circa d. C., Aspasio, Ermino,
Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene, Sosigene. Della loro vita non
sappiamo niente di preciso. del n non sono rimaste che testimonianze e la
precisazione di quali opere di Aristotele hanno commentato. Ma sono già
indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege, vissuto nel I secolo, che
sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr. Suda, s.v.), sappiamo che
compose un commento alle Categorie di Aristotele, in cui ne sosteneva il signi-
ficato formale linguistico, assumendole quali condizioni di possibili giudizi e
fondamenti logici della po~sibilità del reale, determinando la struttura
dell'universo (e in tal senso sembra abbia commentato il De coelo). Di Aspasio
- vissuto presumibilmente nella seconda metà del I secolo sappiamo che commenta
le Categorie, il De lnterpretatione, il De coelo, parti della Metafisica e l'Etica
Nicomachea (di quest'ultimo commento è rimasto un frammento: in Commenl. in
Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889). Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come
sembra, nella prima metà del n secolo,. ritenuto dagli antichi uno dei maggiori
interpreti di Aristotele, sappiamo che scrisse un'opera per delineare quale
doveva essere l'Ordine degli scritti di Arinotele (cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in
Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che sosteneva doversi porre al principio di tali
scritti, a mo' di introduzione e quale condizione me- diante cui comprendere la
via metodologico-logica attraverso cui Aristo- tele giunge a determinare la
propria posizione, le Categorie e i Topici, mentre, per altro verso, usando il
metodo di Aristotele commentava il Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol.
harm., ed. Wallis, Opera malh., III, 270) e dava un quadro generale, entro
questi termini, del sapere astro- nomico fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di
Smirne, Conoscenze mate- matiche utili a una lettura di Platone, III). Di
Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che commentò la logica di
Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in termini
matematico-formali, risolvendo quindi in termini geometrici la teoria delle
sfere e della visione. Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di
Aspasio, com- mentò particolarmente i libri logici (Categorie, De
lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il valore formale. Cosi,
sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre Dio motore immo- bile
e il movimento dato da esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento
alla Fisica, il dio aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto
aspira, per cui bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si
muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il
significato dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56 Su questa
linea non sembra perciò un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u
secolo) potesse sostenere, come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev.,
Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV, 1,13 e 14, l sgg.) rima- stici dalla sua Storia della
filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un perfetto accordo (cfr.
Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e che
l'aristotelismo si poteva delineare come l'in- terpretazione logica del
platonismo (del resto, pare, tesi già soste- nuta fin dal I secolo a.C. sulla
scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da
Aristone di Aless;m- dria, che commentò gli Analitici e le Categorie e da
Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle Categorie).
Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo tendono a
una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del
tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle
scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso
al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "stru-
mento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in-
teresse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la
Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. At-
traverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di
determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno
o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor-
rette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formu- lata
dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla strut- tura e
l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica
(vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il
mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in
atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia
qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per
esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto
forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo).
c) Il «platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa
chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di
cui già troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino6
ha la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di
una certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni
della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione,
analisi, induzione e sillogismo, 6 Sulla vita di Albino vedi sopra. 57 significato del linguaggio),
e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze
(aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere
ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da
cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque,
Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e
dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi,
passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e
alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter-
mine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta-
impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale,"
"nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat), sostrato
incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo
[cfr. Timeo, 50c, 5Ia, 49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria
è di ricevere i frutti di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice
che tutti li accoglie nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa,
per sua natura, sia senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per
poter ricevere tutte le forme]. La materia perciò non è né corporea né incorporea:
essa è un corpo solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo che è
virtualmente una statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma per
essere una statua [evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2; Fisica,
Il, 3] (Epitomè, VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo·
principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle
idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto
a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç .8-eòv
v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla
materia, la misura; al mondo sensibile, il paradigma; relativamente a se
medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le Idee sono le operazioni
eterne e perfette in sé della intellezione divina. E che le idee siano lo si
può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un essere pensante, egli l}a
dei pensieri e tali pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le Idee sono.
D'altra parte, se la materia non può misurarsi da sé, è necessario ch'essa
trovi tale misura altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non materiale:
ammesso l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque esistono e
sono misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste in virtu
di una causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche da
qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se non
l'Idea? Le Idee dunque esistono. ... Di qui anche il terzo principio che
Platone considera come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo
grazie al seguente ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono
sotto i sensi né par- tecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili,
i primi intelligibili sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli
sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue.
Dato che gli uomini sono un complesso di impressioni sensibili tanto che
perfino quando si propon- 58 gono di concepire l'intelligibile, vi
mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di
colore che essi spesso vi aggiun- gono, è loro impossibile concepire con
purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile e
concepiscono l'intelligibile in forma pura e sem- plice. D'altra parte, poiché
l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in potenza (!v
3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in
attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la causa e che
è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa agire senza
interruzione l'intelletto del cielo intero. Tale primo intelletto deve, dunque,
concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd pensieri, ed è in
tale attività dell'intelletto che con- siste l'Idea. Il primo Dio, dunque, è
eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre in sé compiuto,
cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto in tutti i
luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la proporzione, il
bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far concepire, mediante
la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è indici- bile ed afferrabile
solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non è né genere, né
specie, né differenza specifica e neppure può subire acci- denti... Egli non è
qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfe- zione non è dovuta a
una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non manca delle qualità
che possono essergli proprie; non è parte di qual- cosa né un tutto che abbia
parti, non è identico a una o ad altra cosa... esso infine non dà né riceve
movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà una prima idea di Dio,
come si giunge a concepire il punto facendo astrazione dal sensibile, muovendo
dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per giungere infine al punto.
Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo per analogia...: come il
sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere e agli oggetti d'esser
veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto dell'anima, ma dà
all'intelletto dell'anima la facoltà di conce- pire e agli oggetti
intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi contengono.
Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contem- plazione del bello
che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di qui al bello che è
nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto oceano del bello... ] (Epitomè,
VIII- X). Il testo di Albino è certo molto chiaro per renderei conto di un tipo
di interpretazione della problematica di Platone relativa al rap- porto
Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve attraverso uno degli aspetti
della logica aristotelica. Eliminando via via le contrad- dizioni si giunge a
porre come· condizioni non contraddittorie della pensabilità del reale da un
lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto, l'essere come pensiero in
atto; il cui discorso è la stessa realtà, ripercorrendo la quale si arriva a
cogliere l'atto pensante, appunto in sé indicibile, perché sempre in atto
discorso intiero, ma da cui si ridi- scende a tUtti i nf'ssi che costituiscono
la trama e il ritmo su cui si 59 scandisce la realtà, sempre in atto
allorché s'intende l'Uno pensiero, e perciò eterna, processo e tempo, in quanto
se ne ripercorrono le trame su cui appunto la realtà si costituisce. In tal senso
Dio, la prima essenza, il ciò senza di cui nulla è (causa, per cui
grammaticalmente il verbo, l'è, la sostanza è la condizione della
predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica, come la condizione
logica che rende pen- sabile la realtà, e, appunto perciò, pensiero di
pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto aggettivazione (e, per
questo, idee sono dette le aggettivazioni dell'intelletto in atto, del primo
intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa è Dio, non forza fisica, ma pura
intel- ligibilità. Assume qui un suo particolare significato l'opera di Teone
di Smirne,T vissuto nella prima metà del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto,
si serve del suo commentario al Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non
cita Claudio Tolomeo), intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv
lP7JcniL(a)V dc; -rljv llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili
alla lettura di Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si
muove, per l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e
di Albino. È anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso
un certo modo di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv
&ellv 61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già
Gaio diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto quest'angolo
visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone indicate come fon-
damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche Nicomaco di Gerasa),
fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie teorie svoltesi nel
tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria piana, la
stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale. Nel
timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le
matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non
siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle
conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul-
l'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze
senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice
[Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra-
scurare le matematiche (l). L'opera di Teone, preziosissima per una
ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per
l'astronomia, è pre- T Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne 60
ziosissima anche come indicazione della traduzione sul piano
scientifico della teoria platonica in termini aristotelici, in una sistemazione
del- l'universo che permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando
in un unico sapere le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a
Ipparco di Nicea e Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il
grande lavoro di Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi
platonici (Gaio. Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla
riduzione stoica del divino a forza egemonica, annullante il divino nello
stesso processo del mondo, anche se sul piano del mondo e della organizzazione
e qualificazione del reale, della funzione dinamica dell'"anima
mundi," del tutto vivente, il discorso poteva essere talvolta simile a
quello di certi stoici e del loro modo di interpretare il Tim~o (cfr. Ario
Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da Albino: si veda il principio del
XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v.,
XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato sul De mundo dello
pseudo-Aristotele). d) Il « platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro
e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti
dello stoi- cismo ontologico, da quanto è stato sopra detto si delinea anche
l'oppo- sizione ad un certo Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un
altro gruppo di commentatori di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il
quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e
proseguitosi con Attico - fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di
un commento al Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim., 315a,- successo, pare, a
Calvisio Tauro, ç con Nicostrato- fio- rito tra il 160 e il 170. - Se il
fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia, per quelle poche
testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone agli Stoici
(Discrepanze della Stoà ri- spetto a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5, 5), ma
anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta) intitolata ·TratttftO
sulla diffe- renza delle scuole di Platone e di Aristotele (Aulo Gellio, XII,
5, 5), tale opposizione risulta certa dai frammenti che Eusebio (Praep. ev.,
XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13) ci ha conservati delle opere di Attico.
Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio per poter
ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano, tuttavia,. che
l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter- 8 Poco
o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro, Attico,
Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico, di cui fu
discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano
e Marco Aurelio. 61 pretazione ch'essi davano da un lato delle
categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i termini
dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso formale e
grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in
senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un
certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie ari-
stoteliche, vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascen-
dente platonico: cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14
sgg.), si capisce come si potessero interpretare certe conclusioni
aristoteliche quali negatrici di una provvidenza, di una distinzione tra
intelligibile e sensibile, dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice
del mondo, per cui si poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica,
che Aristotele è ateo sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il
divino nell'attualità del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico.
"Platone," esclama Attico, "per non privare il mondo della
Provvidenza, dichiarò che questo mondo non è ingene- rato. Ora, noi esortiamo
quei platonici che sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone,
non è stato generato, a non met- terei nelle difficoltà... A tale tesi li ha
indotti Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in
Dio], e pér cui è neces- sario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che
imperituro è solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio
neppure il potere di fare il bene..." (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6).
"Aristotele cosi annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà
verso gli esseri superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita
umana... e supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà
morto con lui, eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli,
dunque, non ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni
relazione con gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi
decisamente ateo o che difenda la sincerità del suo atei- smo relegando gli dèi
dove li ha posti. Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi
dicendo che non hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con
questo il suo ateismo..." (in Euse- bio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di
qui, secondo le testimonianze di Proclo (In Tim., 41d), la tesi di Attico, per
il quale Platone avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa
viva da una potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in
atto nel Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra
il divino, causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite
e dispersione e perciò come radice 62 del male, avrebbe posto
Arpocrazione di Argo - commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade
Maggiore, e autore di un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico
(Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il
corpo (informità e limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il
poietès, mediante cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli -
volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità,
riflet- tendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in
quanto idea di mondo presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim.,
93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37: ed. Wach., I, p. 375,15,
e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato opportuno sottoli-
neare le molte venature con cui si presenta nel corso del n secolo ·il
cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione tra due in-
terpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non
contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di
Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica
(e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà,
che·presuppone l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende
(onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le
forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in
termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il
divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si
scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra chiarire il significato
dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica aristotelica, dall'altro
lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un certo approfondimento
nell'interpretazione di Ari- stotele (Alessandro di Afrodisia), sia gli
sviluppì, sul piano dei com- menti a Platone e ad Aristotele, di una certa
interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a Platino), ove fin da ora va
detto che viva rimase la questione del come interpretare le categorie di
Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la discussione tra Platino e il suo
discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie,
dei generi sommi, di Aristotele, annullando l'Uno platonico; Porfirio le
riprenderà dando ad esse un valore formale linguistico e non antico), proponendo,
per altro, il platonismo come l'unica ipotesi non contrad- dittoria per
spiegare la realtà in tutto il suo complesso (non a caso Platino, in nome della
tradizione razionalistica greca, scriverà finis- sime pagine Contro gli
gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di "rivelazioni
speciali"). 63 e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo
Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione di Aristotele sembra .essersi
posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo di· Sosigene,
di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo scolarcato del
Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a cui nel 190 circa successe
Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele (sono
rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi sofistici:
in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino, 1883-98), la
Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il De sensu (sono
rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm. graec.," l, 1891; al
De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.," III, 1899-1901), e, oltre
che nei commenti, chiari la propria interpretuione in un Trattato sulfanima (in
2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato, nel De mixtione e nei
quattro libri delle Questioni controverse e solu- zioni sulla fisica e sulla
morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892). L'interpretazione che
Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre fondandosi sui testi,
muovendo dalla tesi basilare di Aristo- tele, che discorso scientifico è possibile
solo muovendo da principi" posti non contraddittoriamente, Alessandro
respinge ogni soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il perché delle
cose, ricorra a salti, o a inter- venti extrarazionali. Sotto questo aspetto
egli respinge l'interpretazione aristotelica in chiave platonica, per
sottolineare dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu strettamente
metodologico della ricerca in una chiara determina- zione del retto uso dei
termini (essenziali~, causa, forma, materia, sinolo, potenza, atto: cfr. sopra
I vol.), e attraverso tale retto uso, dal- l'altro lato, l'aspetto piu
decisamente - se cosi vogliamo dire - • natu- ralistico logico"
dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul motivo della
"essenzialità" come "sinolo," delle forme che sono tali in
quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come presupposto
logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua specie, onde
reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e le forme, in'
quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali, cioè come
astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la
"materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica
dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini,
appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi
aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte
dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come
al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria,
sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui
divenne scolarca alla morte di Sosigene. 64 zione, sembra
abbastanza chiara la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del
rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che
l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in
potenza, cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue
tre funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal
corpo, e ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa
all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro
puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è
mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere,
afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di
tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o
"materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84,
ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà
d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione,
dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la
potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali
possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una
capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui,
accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in
abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere
resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha,
tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per
acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due
aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in
questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra
condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma
dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga
gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili,
l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto
tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a
quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che "
separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro,
seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28),
in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori
(&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto
poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte
stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto
solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella
individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla
sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio
dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a
sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una 65
definitiva negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende
chiaro il senso della polemica di Alessandro sia nei confronti dei plato- nici
sia nei confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una
deduzione da principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e
gli altri al pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di
essa un aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un
particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono
esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la pole- mica di Alessandro contro
la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo
intervento del divino, non solo sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il
che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle
forme, in atto tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è
termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde
esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa
spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano
indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella
che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea
Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti
per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed
effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo-
crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato-
nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari-
stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo
Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da
Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con
l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con
il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica
(e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta
la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui
vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo,
sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e
che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl.,
l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato
da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del
commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è
impossibile ricostruirne con .certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con
una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato-
nico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66
lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla
categoria stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il
tutto" ('rò 1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò
predicare; niente senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è
l'essere, che, in quanto possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile,
e in tal senso è un qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire,
esso né essere né non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità,
corporeità e incorporeità, indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione
alterità). Di qui, di deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato
l'esserci dell'indivisibile, dell'identico e incorporeo, geometricamente
definibile come punto, e del divisibile, del corporeo, la cui condizione
geometrica è la estensione, ove termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto
opposti della realtà, una nel Tutto, è l'anima cosmica. Severo, interpretando
cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla funzione del- l'anima del mondo
("Dell'essenza indivisibile, e che è sempre identica a se stessa e di ciò
che è divisibile, e che si genera nei corpi, di tutte e due formò,
.mescolandole insieme, una terza specie di essenza inter- media, che partecipa
della natura del medesimo e di quella dell'altro e cos{ la pose in mezzo tra
l'essenza indivisibile e quella divisibile in corpi... E l'anima, diffusa dal
centro in tutte le direzioni, dal centro fino al- l'estremo cielo, il cielo
stesso, esternamente avvolse tutto intorno, e, in se medesima rivolgendosi,
dette luogo ad un divino principio d'inces- sante e intelligente vita per tutta
la durata dei tempi...": Timeo, 35a, 36e), poteva sostenere da un lato che
l'anima, in quanto misura del tutto in cui il tutto s'incentra è numero, e,
dall'altro lato, in quanto termine medio tra l'essere e il divenire, l'unità e
l'alterità, essa, nesso del tutto, è immagine di Dio, del T(, trascendente e
immanente ad un tempo. Uno, dunque, il mondo, nel T(, nel tutto che lo
trascende e che n'è condizione, nel suo scandirsi in opposti, in una serie di
gradi, incentran- tisi nell'anima termine medio e unificante, il mondo è per un
verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e, per altro verso, in quanto considerato
nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è processo e divenire. Una l'anima umana e
non distinta - sottolinea Severo - come avrebbe voluto Platone in parti, ma
piuttosto aristotelicamente in aspetti, l'anima umana, specchio dell'anima
cosmica, in quanto razionalità, l6gos, unificando in unità dialettica i due
momenti in cui si distingue il tutto, identità e alte- rità, unità-dualità,
afferra in sé il T( intuitivamente, cogliendo sé cerniera tra il mondo
intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio, Praep. ev., XIII, 17). Non
poco indicativo sembra adesso, per renderei conto del signifi- cato che si dà
ora al termine "pitagorismo," il passo di Apuleio10 in 10 Sulla vita
e le opere di Apuleio vedi sopra.
67 cui si afferma che Platone avrebbe ripreso dai pitagorici
la scienza • in- tellettuale" (" nam quamvis de diversis officiis
haec ei essent philosophiae membra suscepta, ... intdlectualis a
Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In altri termini, come chiaro
risulta da tutti i testi (si confronti ancora Moderato di Cadice, Nicomaco di
Gerasa, Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si intendeva lo studio
della teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica e della geometria,
ma anche dell'astro- nomia e della musica), quale si era venuto determinando
nei vari tempi, "pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei
possibili esiti del- l'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica,
per cui non a caso il Platone di cui ora particolarmente si discute è il
Platone ultimo. In realtà, come già abbiamo detto (cfr. I vol.), nel Sofista sembra
che si precisi il significato delle idee che non sono Essere, ma, appunto,
forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno dei generi, ma ciò per
cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un tempo limitati, cioè
numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere i nessi e le ar-
ticolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in quanto con-
nessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui i nomi sono
simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non si scordi
l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl come uno e
molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente l'ulteriore
passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista, chiarifica il rapporto
uno-molti con i nuovi concetti di illimitato (indefinito) e limitato (ciò che
ordina e definisce) per cui la realtà ap- pare come un'infinitudine (quantità,
ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come finitudine. (misurabilità e
dunque numerabilità), cioè come proporzione, convenienza e misura, per cui di
ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia colta la forma (id~), o meglio
il numero, la sua definizione in rapporto ad altra definizione. Evidentemente i
due termini illimitato (quantità) e limitato (numerabilità e qualificazione)
sono i due termini astratti di una realtà che è in quanto si costituisce come
limite dell'illimitato, cioè come proporzione e misura, per cui ogni cosa
assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua intelligenza, che è la causa
stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora, diviene misura e convenienza,
e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si capisce, dunque, come su questo
piano (donde la concezione fisico-geometrica dell'universo quale si delinea nel
Timeo), posto l'Essere come pensiero e dialetticità (e perciò non corporeo),
esso sia visibile, cioè intelligibile (colto dall'occhio dell'intelletto), solo
in quanto tradotto in termini ma- tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto
intelligenza e attività ar- ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono
incorporei. La realtà, invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta
molteplice, disartico- 68 lata, divisibile e perciò corporea e
indefinita, nel suo substrato informe. I due termini, allora, in quanto
distinti restano impensabili, che lo stesso essere in quanto discorso e
ordinamento e misura non è tale se non è discorso, ordinamento, misura di
qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisi- bile e indefinibile, senza forma è
impensabile se non in relazione alla mi- sura e alla' qualificazione, se non
per quel tanto che sfuggendo alla pos- sibilità della misura resta al di fuori
come appunto impensabile, e, dunque, irrazionale, casuale, fortuito, forza
ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto è chiaro in che senso- sulla linea di
Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse interpretare ed esporre, in forma piu
de- scrittiva che non Albino, la concezione "platonica," entro cui,
per altri rispetti, far rientrare le piu varie esperienze filosofiche e
religiose ("io," esclama Apuleio nella sua Apologia, scritta per
difendersi dalla accusa pubblica di magia, "ho conosciuto per amore della
verità e per pietà verso gli dèi, in Grecia, culti di ogni specie e riti
numerosi e cerimonie varie" : Ap., 55}, e potesse sostenere the per
Platone esistono tre princip~ (" initia rerum esse tria arbitrabatur
Plato": D~ dogm. Pl., I, 5, 190): Dio, la materia e le forme delle cose.
Presi a sé essi sono indefinibili: non a caso di Dio dice che è incorporeo, incommensurabile
(aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la materia non è né fuoco· né acqua né
altro demento semplice, ma è informe, infinita, in sé né corporea né incor-
porea; che le stesse idee o forme sono non in atto - inabsolutas, in- formes,
nulla specie nec qualitatis significatione distinctas: l, 5, 190; - mentre un
po' piu sotto, considerando che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e
la corporeità, intermediarie le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta
oltre, dice che le idee sono i modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne,
incorporee, appunto in quanto guise del discorso divino, in sé uno come il
pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192). Si capisce cosi come Apuleio potesse
sostenere isoltre che secondo Platone due sono le essenze, le oòaEctL, dalla
cui unione si genera il mondo: la prima è la condizione logica che permette di
pensare la realtà, e che, perciò, dice Apuleio, è intelligibile, visibile solo
all'occhio dell'intel- letto, e come tale, in quanto principio, è sempre
identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe (perciò essa è costituita da Dio,
dalla materia, dalle forme delle cose o idee e dall'anima: "et primae
quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est et materiem, formasque rerum
et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la seconda, condizione della
corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è definibile, che. trae il
suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui crediamo perché sensibile
("la seconda sostanza non è in qualche modo che l'ombra e l'immagine della
precedente," la visione fisica dell'intelli- gibile). In effetto, perciò,
pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69 cause, princ1p10 e
fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che scaturisce dai due termini,
il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile a comprendersi in quanto
tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il resto il discorso di
Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione dell'universo e nella
posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di Albino, in un commento
del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica dell'Universo, non
esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si veda sopra Moderato di
Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano, l'Universo, considerato nella
sua esistenza, appaia come un complesso di forze, come vivente organismo
tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo tra- scende, in senso
stoico-aristotelico .(donde il De mundo di Apuleio), dalla corporeità oscura,
limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una infinita serie di gradi
intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime demoniche. Esistono certe divine
potenze intermedie che abitano gli aerei spazi fra la suprema volta del cielo e
le infime regioni della terra, e per loro mezzo i nostri desideri e i nostri
meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li chiamano dèmoni... Essi, come dice
Platone nel Convito, presiedono a tutte le rivela- zioni, ai diversi miracoli
dei maghi e ai ·presagi di ogni specie... Non è fun- zione dei numi altissimi scendere
in basso tra noi. Ciò spetta in sorte alle divinità. intermedie che abitano
nelle aeree regioni contigue e alla terra e al cielo (De deo Socratis, 6). Io
credo, sulla fede di Platone, che tra gli dèi e gli uomini si trovino certe
potenze divine, intermediarie per loro natura e per loro posizione, e che
mediante loro vengano operate tutte le divinazioni e i miracoli della magia.
Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella semplice di un fanciullo,
può, sotto l'azione di certi canti o di delicati pro- fumi, cadere assopita ed
uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà presente, perdere per un
momento la memoria del proprio corpo ed essere ricondotta alla propria natura,
che è immortale e divina, e in questa con- dizione, come in una specie di
sonno, predire il futuro... (Apologia, 43). La credenza nei dèmoni, entro i
termini di una ormai lunga tra- dizione, l'interpretazione del motivo del
dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche il D~mone di Socrate di
Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé, nel senso del Pitagora
"sciamano," che tende a tornare alla patria celeste donde è venuta,
quando, attraverso l'ini- ziazione si purifica dal suo imbestiamento nei corpi
(cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti della faccia
retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge in realtà, a
due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico, mediante cui
egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di Gaio, di
Albino, 70 di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius dogmate; De
mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione (cfr. Pro se de
magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su questo secondo
piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica, ricevuta a
Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione di sfondo
il "platonismo," curioso di ogni aspetto culturale, scientifico e
religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò sempre di ricondurre
a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di credenze, descrivendo
riti e culti, in funzione simbo- lica, sottolineando che la magia, di cui lo si
accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai misteri, forme religiose di
purificazione; Apu- leio si mosse costantemente entro l'àmbito di quel suo
"platonismo," di quella sua visione di sfondo, valida a spiegare
un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi diversi, in regioni
diverse, in parti- colari credenze, riti, culti, misteri. Senza dubbio, la
stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela- tiva all'interpretazione
del divino di Platone, l'interpretazione in chiave aristotelica, o quella in
chiave "pitagorica," l'accettazione di certi aspetti dello stoicismo
sul piano del mondo concreto, e la negazione dello stoicismo sul piano di Dio,
rivelano un'esigenza comune: la pos- sibilità, o meno, appoggiandosi a Platone,
di determinare la trascen- denza del divino, in forma convincente, cioè
razionale, senza ricorrere a "rivelazioni speciali." Ora,
relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti. Tutti hanno presente da
un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene che
il Bene, il divino non è idea accanto alle altre idee, ma la ragion d'essere
delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre l'essenza, condizione delle
essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza (oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou
aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L
u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro lato, i testi platonici in cui si dice che,
perciò, quell'essenza è indicibile (&pp'r)-roc;: cfr. V I I lettera, 341),
indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile
(&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6}, nel senso del conoscere proprio delle
altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c); e quei testi in cui l'uno appare non
come una unità massiccia, ma unità vivente, si come il pensiero, il cui
discorso, traducibile in termini mate- matico-geometrici, è lo stesso discorso
della realtà, per cui quell'unità è trascendente il discorso stesso (l6gos,
>..6yoc;), ma, attraverso il di- scorso, afferrabile intuitivamente, con un
atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr. Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII
lettera). Sostiene Albino, e, insieme ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre
sono i principi: Dio, la materia e le idee; e tanto Albino quanto 71
Apuleio proseguono affermando che Dio, in atto tutti gli intelligibili, è
indicibile (ilpptroç), inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e perciò
perfetto (atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé
compiuto (nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose,
incorporeo e immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che
rende pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò
non questo o quello, _ma un 't'( (ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan).
E cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra),
Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò
che sembra comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre
l'avversità allo stoi- cismo, relativa alla concezione del divino, non a quella
del mondo), è da un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile
pen- sare la realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes-
senza, "ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione,
proprio in quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe-
renza specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire
è e non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di
tutte le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si
giunge passando dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni
sensibili, all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale
nell'anima, nel pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso
pensiero in atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso
che è uno, onde l'unità è a fondamento del discorso mede- simo, e,
metaforicamente, lo trascende, per cui lo si coglie intuitiva- mente, con
l'intelletto (vouç, nus), come unità vivente. In altri termini, il prius logico
senza di cui neppure si può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si
coglie gnoseologicamente poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel
pensiero la moltepliçità della immediata espe- rienza, oltrepassando il
discorso, ed afferrando, mediante il nus (vouç) la postulata unità, per questo
indiscorribile, indicibile, non conoscibile come conoscibili sono gli altri
aspetti della realtà, incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma,
attraverso esso, con il nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro.
Egli dice: ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç
lO"t'lV om e:taot; om 3Lat~op«... ("esso è indicibile e afferrabile
solo mediante l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza
specifica: Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino,
Celso,11 vissuto nel 1 1 Della vita di Celso, vissuto, sembra, i n Egitto, nel
u secolo, non sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua
opera intitolata Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç), conservatici da
Origene (185 circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ 72 II secolo,
noto attraverso alcuni testi di lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e,
soprattutto, per la sua polemica contro I"' assurdit~" della
concezione cristiana di Dio e del suo rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale
polemica è, per altro verso, un indice senza dubbio evidente del modo in cui,
appunto, sulla linea Gaio, Albino, Severo, va inteso il "platonismo"
di Celso. Dice, dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle
qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non
è quale l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla
figura, né al colore, né al movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte
le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di
lui non si può .dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o
.:h:6c; où8' bvO!J.ot<n6c;), poiché non riceve alcuno degli accidenti che si
afferrano e si fissano con un nome (bv6!J.ot't"L xcx-r!XÀ7j7t't6v). In
effetto Dio è al di fuori di ogni accidente... Come, dunque, conoscere Dio?
Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto? Ché, per ora almeno, è
tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo distintamente. - Bisogna
rispondere: Chi dalle tenebre viene condotto alla luce non può resistere al
fulgore dei raggi [cfr. Repubblica di Platone, VII, 515c sgg.]... Solo quando
si sia chiusa la porta dei sensi, solo quando si sia dato le spalle alla carne,
e abbiate guardato in alto media~te l'intelletto (&vcx~À~~"rj'n:
vcj)), solo allora vedrete Dio (in Origene, Il vero discorso, VI, 62-66, ed.
Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene sistematicamente confutalldo il Vero
disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto, sembra, tra il 178 e il 180, al tempo
in cui Marco Aurelio aveva preso misure anticristiane, vedendo nei cristiani un
pericolo per l'unità dello Stato (non a ca.so il Vero discorso si chiude con
l'affermazione che i Cristiani verraDJlo tollerati se si deci- deranno a venire
in aiuto dell'Impero). Celso mette in discussione il Cristianesimo; egli
sostiene ch'esso non ha nulla a che fare con la filosofia, dimostrando, per
altro, che, se mai, sul piano religioso molto piu convincente c filosofica ~ la
tesi platonica, mentre illogica ed assurda ~ quella cristiana, in particolar
modo la fede in un Dio che s'incarna nell'uomo e in una visione che pretende
d'essere l'unica vera. Estremamente fini sono gli argomenti di Celso nel
confutare le tesi cristiane. Egli dimostra una buona conosc:enza del vecchio e
del nuovo Testamento e, senza dubbio, i primi tentativi di una formulazione
filosofica dell'espe- rienza cristiana (primi apologisti), filosofia ch'egli
decisamente nega essere tale. Che Celso stesso sia stato un platonico, non
sappiamo. Certo, egli vuoi dimostrare, come dicevamo, che tra le filosofie
religiose la piu convincente ·e razionalmente (non per superstizione)
accettabile ~ la platonica (nell'accezione che il platonismo aveva assunto
nella corrente Gaio-Albino). Niente vieta, quindi, di supporre, su
testimonianza dello stesso Origene (Contra Celsum, I, 8, IO, 21; II, 60; IV,
54, 75; V, 3), che personal- mente Celso fosse un epicureo, e che al Celso del
Vero discorso fosse indirizzata la dedica (a Celso epicureo) dell'.dlessandro o
i l falso profeta d i Luciano, che ~ del 181 circa, e in cui Luciano, come già
ne La morte di Pellrgrino, violentemente critica il Cristianesimo. Per
atteggiamenti critici nei confronti del Cristianesimo, in forma retorica e non
in termini filosofici e logici come ~ il ca.so di Celso, vaDJlo ricordati,
oltre Luciano, Frontone (Contro i Cristiani) e Crescente (cfr. Giustino, .dpol.
Il, 3; Taziano, Contra Graecos, 19). non è né intelletto, né intellezione, né
scienza, ma la causa per la quale l'intelletto conosce e l'intellezione si
compie, la scienza si forma e tutti gli intelligibili e la verità stessa e la
stessa sostanza hanno l'essere loro: eppure egli è al di là di tutte queste
cose ed è intelligibile in maniera ineffabile (ik., VII, 45). Se teniamo
presente il concetto base del Dio cnsuano (unico, persona, volontà, creatore ex
nihilo, che s'incarna in Cristo, in un uomo, venuto a salvare non il mondo, ma
l'uomo nella sua interezza, la cui anima non è né mortale né immortale, ma
immortale perché cosi vuole Dio, che tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio,
non riducibìle a razionalità) si vede bene in che senso Celso vedesse nella
concezione cristiana una concezione assurda, irrazionale, seducente uomini
ignoranti e incolti, ma, in realtà, niente affatto convincente, anzi
irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque, l'idea di un Dio trascendente e
Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato da quelli che sembravano essere
attributi antropomorfici, usati popolarmente in funzione simbolica, poteva
essere ripresa entro i termini del linguaggio "platonico," insieme ad
altre con- cezioni del divino, egiziane, ebraiche, siriache, in funzione di una
teo- logia razionale, e, perciò, universale, che trovava i suoi termini
nell'àm- bito della rielaborazione in sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici
del n secolo. Non a caso, sotto questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria,
vissuto nella seconda metà del n secolo, di origine semitica, forse ebreo,
poteva da un lato sostenere che, sia pur in termini diversi, v'era un perfetto
accordo tra la concezione di Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo
chiamò: cfr. Suda, s.v.; anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse
nella seconda mctl del n secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno
a lui. Si è detto che, semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata
sul fatto che Numenio cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non
vuoi dir nulla: in questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici,
ccc., erano largamente noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio
era di Apamea c che là testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica
circolavano, e non solo là (cfr. Dodds, Numenius and Ammonius, in
"'Enuetiens" V della Fondazione Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le
testimonianze piu antiche, puntando sull'aspetto gno- seologico di Numenio,
indicano Nurnenio come "pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene,
Porfirio), le piu recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico,
Proclo). La maggior parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl
Tciyel&o\i (De bono) di Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10,
18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5; XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze
di Proclo (in Tim., I, p. 303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei
.frammenti c delle testimonianze di Numcnio, il Lecmans ha cercato di
ricostruire il piano del De bono, disponendo i frammenti secondo il posto che
probabilmente essi avevano nei 6 libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lec-
mans, Numeniur van Apamea met Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc
l'Acad. roy. dc Bclgique," classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda
inoltre bibliografia). Oltre il De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso
degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo,
Dell'incorruttibilità dell'anima, Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22
- e la sapienza mosaica - senza dubbio Nu- menio teneva presente Filone
l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla stessa concezione ebraico-platonica era
possibile riportare - come aveva fatto Plutarco - sia la simbolica dei
pitagorici, usata in funzione logico-ma- tematica, sia i riti, i culti, i
misteri delle religioni egiziane e dei Brachmani, sia certi aspetti del
Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo vedesse un simbolo del rapporto
uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 51), come certi motivi dello
gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi ha trattato di questo
argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze di Platone, rimonti
indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia inoltre appello ai
popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici
culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono Brachmani,
Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev., IX, 7, l; fr. 9 ed. Leemans,
Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio (Del dissenso degli Accademici
da Platone, Delle dottrine segrete di Platone, Del Bene, Del luogo, Del-
l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen) sono rimasti alcuni
frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed alcune testimonianze
e brevi testi interpretati .da Prodo, da Calcidio, da Por- firio, da Giamblico,
da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl T4yot&ou, e pèr la
raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda l'edizione di E. A.
Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique," classe cles lettres,
XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente, perché condiziona il ~odo
con cui è possibile ricostruire il pensiero di Numenio, relativo, appunto, alla
discussione di lui sul Bene. Numenio teneva presente, come risulta dai
frammenti, da un lato il testo di Pla- tone (Repubblica, 509 b) in ·cui si dice
che il Bene non è idea accanto alle altre idee, ma la condizione delle essenze,
dall'altro lato la tesi pla- tonica del costituirsi dell'universo per opera del
Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al Platone e al Pitagora quali si erano
venuti configu- rando nel corso del I-II secolo, in contrapposizione al Platone
proble- matico e scettico qual era stato interpretato dalla media Accademia (da
Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio fa tesoro dell'impostazione
teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e reinterpreta in questa chiave le
"religioni dei popoli che salirono in fama," Brachmani, Giudei, Magi,
Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in realtà, poi, il metodo argomen- tativo
di Numenio è. quello proprio dei platonici razionalisti del 11 se- colo).
Numenio particolarmente si travaglia intorno al problema del rapporto tra
l'uno, condizione della pensabilità del reale, condizione 75
dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e Monade perciò di là da ogni
determinazione, e, dunque, ineffabile, indiscorribile, invisibile al pen- siero
e in tal senso incorporeo, immobile, "inattivo" (argos, «pyoc;: fr.
21 L), increato e increante, e il mondo della generazione che, a sua volta,
implica un facitore (un poièta), un principio che dia movimento e che perciò
non può piu essere lo stesso primo essere perfetto che, se si muove, e tende a
realizzare qualcosa, vorrebbe dire che è mancante, imperfetto. A tale concetto
del Bene, ad un tempo ragion d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna
delle singole essenze, delle idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio,
sulla scia della tradizione plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo chiama
"padre," il "primo dio"), Nu- menio sostiene che non si
giunge attraverso un salto rivelazionistico, ma di grado in grado,
dall'immediata esperienza sensibile, per via ne- gativa. Non a caso cosi
Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è ('r( 8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)?
risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può essere nessuno dei quattro elementi, ma
neppure la comune stoffa di cui gli elementi son fatti, la materia (fr. 12),
ché la materia in quanto inde- finibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile
(&yv(J)cr"t"oc;), non la si può sup- porre che come un fluire, un
disordine, in ciò opposta all'essere, in realtà un non-essere, che assume
essere in quanto definita {ordinata) dal- l'essere. L'essere, perciò, non è né
materia definita (corpo) né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere:
senza l'essere non sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi
non sarebbero se non ve- nissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che
sono, se non subissero l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò
«cr&~!J4-rov), ciò mediante cui i corpi si determinano, assumono forma,
cioè esistono. Poiché dunque i corpi per esserci hanno bisogno di un principio
che li determini (-roti xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale
principio non può essere corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un
qualcosa che lo determina (di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è incorporeo,
immobile, non si accresce né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a
se stesso («&t XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la
realtà sia, l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie,
dall'altro lato principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso
che ha in sé tutte le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei
nuovi fuochi ("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al
precedente, ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso":
Eusebio, Praep ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente biso-
gno di nulla, immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15, 21).
Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio
dell'intelletto, onde di lui si può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn)
(fr. 16-17). lntelligibile perché condizione degli stessi intelligibili e dei
visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione del discorso e unità
del discorso, trascendente il discorso medesimo e afferrabile attraverso il
discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per
analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo Intelletto e il primo
Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto
tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio
ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene),
onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in
sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé in intel- letto e
intelligibile, ove tale secondo intelletto è, metaforicamente, da un lato volto
all'uno-intelletto, dall'altro lato all'obbiettivazione di sé come
intelligibili determinantisi, che dànno cioè essere, forme alle cose, in una
obbiettivazione .visibile, figurata, presupponente perciò l'idea estensione, la
materia intelligibile. Di qui, sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere,
che in sé, intelligibilmente, resta immobile e tutto in atto, - un terzo
intelligibile, il mondo nel suo esserci, che, in quanto proiezione del secondo
intelletto, intermedio tra l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la
materia come fluidità, è da Numenio detto "intelletto pensato" (vouç
3totVOOO(J.€VOç, nus dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una
interpolazione di testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una
ricostruzione del platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf
ad avere: l) L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere
as- soluto e tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua
perfezione, non si distingue pensante e pensato, esso condizione prima del
discorso, della distinzione in pensante e pensato (la superessenza della
Repubblica}, afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza
di cui, al quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un
atto puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via
occorre per esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con
vigore alle scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che
cosa è l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli
esseri che partecipano al primo Dio, al Bene, non vi par- tecipano in nessun
altro modo che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>.-rlj) tppovci:v "
(fr. 28 L.); 2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la distin-
zione pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli intelligibili
sono le ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere alla fluidità
della materia idea opposta (il "secondo Dio," il Demiurgo buono e
attivo del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il "pensato,"
ossia il mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue leggi, obbiettivazioni
dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del secondo Dio, presente alla
mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque, terzo Dio, nell'intelletto
secondo, a sua volta nell'intelletto primo. "Averndo affermato che vi sono
tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il secondo Poieta, il terzo Poema:
poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio. Nella sua dottrina vi sono dunque
due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e il terzo dio. è il mondo frutto
dell'attività demiurgica (-rò 3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi
cosi, che parlare come lui, in un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov),
di figlio (~yyovov) e di nipote (&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93
a-b). Proclo, quindi, andando avanti nell'esporre le varie interpretazioni (di
Numenio, di Arpocrazione, di Attico) della pagina 28c del Timeo ("noi
diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una
certa causa; ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo
universo, e quando si sia trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo,
28c), sostiene che, per quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la
distinzioné fatta da Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che,
senza dubbio, Numenio, accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della
Repubblica sopra citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo,
nel De bono, afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e
questo dice perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di
contro, il primo Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente
ignoto. ~ come se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto
non è il primo, ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e
divino"' (in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26L.). In effetto,
per Numenio, uno solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a
caso in un frammento, accanto ai tre dèi, Dio- Demiurgo-Mondo pensato, egli
pone il mondo visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi
rimane preso nell'immedia- tezza sensibile appare molteplice e disordinato.
Invece, attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di
qui l'importanza data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci,
come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si
raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è
determinabile entro .i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare
irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa
del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da
un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78 in
sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a
un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono
l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si costituiscono
secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti all'intelletto stesso,
e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque, nella sua totalità è
natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il ritmo della natura
che è generata e che genera (Intelletto secondo; pensiero-pensato) e la natura
che è generata e che non genera (il mondo pensato) e la stessa materia che
rimane come lo sfondo su cui si disegnano le forme intelligibili, dando luogo
ai corpi, traducibili in termini di figure geometriche, mentre per quel tanto
che sfugge alla determinazione e definizione non piu riferibile all'intel-
letto, per cui non è obbietto pensato, diviene causa di disordine, e, dunque,
male. "Dio, come anche sembra a Platone, è principio e causa dei beni, la
silva [materia] dei mali" (Calcidio, In Tim., 296: test. 30 L.). Tale
sembra anche il significato da dare a quei pochi frammenti della
lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea che non vi
sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le anime, una
razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò l'uomo
nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è la
posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto
intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto
s'incentra e attraverso questo risalire alla con- templazione mistica del primo
Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197 sgg.; Porfirio in Stobeo,
Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37; l, 49, 40 W.; Proclo, In
Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa processione dall'Uno ai molti
entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i momenti stessi
del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il limite, il
divenire, il mondo concreto, la dualità, la razionalità e l'oscurità,
l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine ultimo, già gli antichi
avevano veduto una delle piu ampie fonti della concezione di Plotino, tanto è
vero che non poche volte Plotino fu accusato di avere plagiato Numenio (cfr.
Porfirio, Vita Platini, 17). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino (detto da
Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del pla- tonismo)
ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una note- vole influenza
nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e pitagorica, e
l'uno e l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo dell'esegesi
platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie opere, II;
Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl., I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl.,
VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimo- nianze citate). S.
li Gnosi," li Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici" a) La
"gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non :rolo come
fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla que- stione
se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli
avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato
assai frammentario dei testi da .lui trasmessici e, in particolar modo, certo
suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile
"tragico," come dice Proclo (In Tim., 93a sgg.), lasciano lo storico
in non poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio
fu soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale,
puntando sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente
inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç), sosteneva che Numenio fu un
saggio "fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che
si sarebbe appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti
al servizio della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso
gli Gnostici (Norden, cit.). Studi piu appro- fonditi sia sul piano della
tradizione platonico-razionalista (Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della
gnosi, dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per
quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti occidentali
e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo egiziano,
ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una reciprocità di
scambi, che costi- tuisce alla fine una sola e comune base culturale, ove le
differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di risolvere il rapporto
tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di cogliere l'Essere supremo.
In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l diffuso di quel che si
riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo cristiano, eretico nei con-
fronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in realtà, un tipo di gnosti-
cismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come lo gnosticismo di Numenio
è diverso da quello di Platino, a sua volta critico di un tipo di gnosi. Sotto
questo aspetto sembra esatta la polemica del Festugière contro gli
"orieotalisti." "Non vedo nulla qui che confermi l'opinione di
Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio totalmente
inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si oppor-
rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;> (.L6VCf>
>.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la formula di
Albino (Epi- tomè, 10). Nessuna differenza, secondo me, su questo punto, tra
Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d'
&q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal
sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il
punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell'
lP"J(.L(ç 80 (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è
lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun
concetto finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli
si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si
può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor-
siva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci-
samente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che
permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation
d'Hermès Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha
ragione - e sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources
de Plotin, "Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957,
Ginevra, 1960, pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può
essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di
certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre la concezione
orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella
platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi
quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di
Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano
dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una
diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni
gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella
sua magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité
classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le
possibili solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei
rap- porti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul-
l'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un
tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva l'orientalismo
di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione sulla relazione.
del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi è in lui, in
partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del resto, già
indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio parlai allora,
nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di influenze
orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione piu
delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i
termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha
condotto Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che
differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio,
per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo
e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo, riallacciare
esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti- nuità dialettica?
Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo,
forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è
negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte,
legato a quello della Mate- ria come male assoluto e a quello della condizione
umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male.
Conseguentemente si imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il
Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti,
degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi
e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la
responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della Bib- bia
ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In
Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di pro- blemi. Plotino,
attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del
trattato II 9, al capitolo l, se la prende~.come ha mostrato Dodds, con il vou~
lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il .&eb~
&pyo~ (l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua
critica è volta anche, e insieme, contro gli gno- stici... Evidentemente, il
problema dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come
quello dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che
storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin, Entretiens, cit., pp.
36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo
"gnosticismo" e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb.
Puech, La Gnose et les temps, "Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch
u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo "gno-
sticismo" non può piu essere compreso solo,come un'eresia del cristia-
nesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva basan- dosi
sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene,
lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in
polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un
movimento, un fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed esteso, certo
anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza
religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe
filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la
religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente,
diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui
venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo"
né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehr- buch
d. Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma, 82
1907; De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch
and Gnosis, Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla
religione egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset,
Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio
ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine
persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia, 1904, ritiene lo
gnosticismo di origine egiziana, rintrac- ciando forti affinità con
l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungs- mysterium, Bonn, 1921, sostiene
la derivazione iraniana dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello
gnosticismo un mèro sincre- tismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis,
Berlino, 1911) e H. Leisegang (Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da Jonas
(Gnosis und Spatantiker Geist, Gottinga). Il termine gnosticismo è usato in
senso molto piu lato, e il problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo
gnosticismo appare ormai come un fenomeno generale della storia delle religioni
la cui larghezza oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del
cristianesimo, queste non sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i
risultati di un incontro e di un congiungimento tra la nuova reli- gione e uno
gnosticismo che esisteva prima .di essa, che era inizialmente ad essa estraneo.
Lo gnosticismo ha rivestito in alcuni casi forme cri- stiane o forme che, con
il trascorrere del tempo, si sono sempre piu profondamente cristianizzate, al
modo stesso che in altri casi ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie
orientali, ai culti dei misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti
occulte. Per quanto queste forme nelle quali si è manifestato storicamente lo
gnosticismo siano state di- verse, esso dev'essere considerato un fenomeno
specifico, una categoria o un tipo distinto del pensiero filosofico religioso:
si tratta di un atteg- giamento che ha un andamento, una struttura, leggi
proprie che l'ana- lisi, pervenuta· alla comparazione, può ritrovare
sostanzialmente iden- tiche e con le medesime articolazioni alla base di tutti
i diversi sistemi che noi possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o
'stile' comune, raggruppare sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi
gnostici" (Puech, La Gnose et le temps, cii:., p. 79). Si è cercato cosi
di vedere lo "gnosticismo" come un tipo di espe- rienza religiosa,
mediante cui, di volta in volta, a seconda degli ambienti, delle religioni o
delle filosofie, si sarebbero riportati quei miti, quelle religioni,- quelle
filosofie a quell'unico tipo di "gnosi" (conoscenza), in una
trasformazione di quelle stesse filosofie, religioni, miti: fossero questi
ultimi originari del mondo greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o
dell'Iran. Presi da queste considerazioni bisogna; per altro, 83
non vedere, ovunque, influenze gnostiche - o, per lo meno, di un certo
gnosticismo - tenendo presente che, nonostante le scoperte piU, recenti di
alcuni testi gnostici (lo gnosticismo prima era conosciuto solo attraverso i
testi riportati dagli autori cristiani in polemica), le posizioni gnostiche da
noi conosciute sono piuttosto tarde e risalenti al solo periodo del primo
cristianesimo (1-n sec. d. C.) ed in relazione con esso. In realtà, sia i
manoscritti manichei scoperti a Medinet Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici
papiri contenenti 48 libri gnostici tra- dotti in copto dal greco, scoperti a
Nag Hammadi (Egitto), nel 1946, piu che allargare nel tempo le nostre
conoscenze sullo gnosticismo, hanno da un lato confermato l'esattezza delle
citazioni di testi gnostici da· parte dei cristiani, dall'altro lato (in
particolare gli scritti di Nag Hammadi che appartengono alla setta dei Setiani)
lo stretto rapporto tra i Setiani e la Palestina e i Setiani e certi aspetti
dell'ermetismo di Alessandria. Non solo, ma ritrovati tra questi ultimi testi
tre dei libri ricordati da Porfirio contro i quali Plotino scrisse il suo
trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio si vedono le ragioni che mossero
sia un platonico-razionalista tipo Plotino, sia una posizione come quella cri-
stiana a respingere la concezione gnostica come assurda, l'uno vedendo nello
gnosticismo l'assoluta impossibilità di una deduzione logica del- l'universo -
che per altro verso lo portò anche a polemizzare contro la concezione cristiana
di Dio - , l'altra vedendo nello gnosticismo e nella sua interpretazione della
figura del Cristo, un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd
nuovo a vecchie posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio intendere
come si venne delineando nel I I - I I I secolo da un lato la "filosofia
cristiana" in senso stretto, dall'altro lato il movi- mento neoplatonico,
interessa ora brevemente e schematicamente - con ciò perdendo le molte
sfumature - esporre la posizione degli gnostici. Innanzi tutto va precisato il
significato assunto dal termine "gnosi" (conoscenza), entro l'àmbito
delle sette gnostiche fiorite nel II secolo. Pur mantenendosi il significato
originario e comune di "conoscenza," il termine è usato per indicare
un particolare tipo di conoscenza. Non si tratta né di una conoscenza cui si
giunge mediante il discorso, le normali vie della ragione, né di un atto
intuitivo della mente, che rivela un principio discorsivamente analizzabile,
bens( di un'improvvisa illu- minazione con cui ciò che si crede per fede viene,
appunto, conosciuto e mediante cui si salvano l'uomo e le cose, per loro
natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati, in preda al male. Si
tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante), assolutamente
gratuita, riser- vata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia avuto,
appunto, rivelata la 84 "gnosi," agli
"gnostici," ai "pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato
il "soffio," lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura supe-
riori agli "psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo
spirito, per i quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli
"hylici" (i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e
dalla materia, dal male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando,
risolvendo in sé la fede, svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove
eravamo, da che cosa siamo riscattati, cosa ela rigenerazione" (in
Clemente Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard, 1947). In secondo
luogo va detto che tale significato dato alla "gnosi" fun- ziona
quando si tenga presente il radicale pessimismo che emerge da tutti i testi
gnostici da noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto
e tutto in sé compiuto e perciò Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può
essere l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe con lui; il mondo, d'altra
parte cosi pieno di mali ("avendo assistito a cose cosi orribili,
cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal
modo tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra
Marcionitas, in Patrol. graeca, VII), non può essere frutto di Dio né sua
emanazione, ma la manifestazione di un altro principio, ·di un principio
decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il
Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male.
Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore
del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né attra- verso
il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che
Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo
costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e neces- sarie, da quelle che
regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta,
determinano i destini terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo
gnostico come una ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il
n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi
celesti, in particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità,
sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli
angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.'
In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo
vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del
vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa
origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la
"gnosi" spezzi la .catena della necessità e del fato, liberi, salvi
dal male, affranchi da ogni legge 85 (morale e fisica),
congiungendo l'uomo a Dio, e come solo gli "gno- stici," coloro che
sono stati eletti, possano essere maestri di conoscenza e siano la
"potenza di Dio," il quale Dio, dunque, resta di là da ogni normale
conoscenza, è "ignoto," "nascosto," "straniero,"
"abisso," "statico," "ozioso" (non nel senso che
è indiscorribile e inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici,
dunque, lo vedono, di una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque,
potranno insegnare agli altri come si è strutturato il mondo, in che consista
il male, quali pos- sano essere le pratiche per salvarsi, come l'anima possa
riaffiorare a Dio. Entro i termini di una concezione religiosa, nella
ricostruzione del tutto, si poteva benissimo, sia pur in un rovesciamento del
concetto di ordine e del mondo, rivelazione del divino, usare, rotti dai loro
contesti, frasi e passi di Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici,
delle tradizioni magico astrologiche di origine iranica, degli allegorismi
ebraici, di certe interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in
funzione di tale concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella
visione religiosa, a quella "gnosi," una religione, un complesso di
riti e di culti, mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno
salvatori, hanno capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male,
sugli astri demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e
teurgia), che dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena
del mondo. Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a
questo; dal n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme
diverse di "gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto
inte- ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un
aspetto, quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come,
almeno in principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che
gnosticamente sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po-
tesse benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse
essere interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere
interpretato entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo
allo sviluppo di una corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela
chiaramente attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di
Saturnilo di Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino,
Marcione, forse Bardesane, da cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si
vennero costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia
"serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e
propri, Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti,
Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il
racconto di 86 Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il
diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E
la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo,
ascol- tandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano
spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e
zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma
un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando
la magia, e seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di
grande: e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano:
questo uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca
l'angelo dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza
dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio
che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati
con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il
regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora
anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i
segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo
stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a
Samaria Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di
Samaria lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli
Apostoli denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque
imporrò le mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo
denaro perisca con te, poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il
dono di Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton,
in Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i
primi scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe
studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si
sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di
Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca,
vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la
scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le Ricognizioni,
Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che Dositea vi aveva
fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta costituita di trenta
discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna, chia- mata Luna o
Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il supremo, rappresentante•
di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si sarebbe recato a Roma al
tempo del- l'imperatore Claudio: "Aiutato dai dèmoni, fece prodigi di
magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu eretta una statua,
nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente iscrizione latina: Simoni
deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di altre nazioni lo riconoscono e
lo adorano come loro prima divinià; una certa Elena, che lo accompagnava in
tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un postribolo, passa per essere
la sua prima Ennoia..." Di una sua opera, La grande rivelazione, lppolito
ha con- servato alcuni testi (lppolito, Philosoph., VI, 7 sgg.). Poco o nulla
sappiamo dei due discepoli diretti di Simone, Menandro della Samaria (cfr.
Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I, 23, 5) e Saturnilo (cfr. Ireneo,
Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28; Epifanio, Panar., 23, 1-2;
Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici, Haeres., 31). Dopo il pentimento
di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme. Il racconto è molto
indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'in- contro con i Cristiani, ha
già in sé la "potènza di Dio," che incen- tratosi con gli
"inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi
respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette
in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristia-
nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende
rimanere cristiana e passare per tale" ( H : Leisegang, La gnose, trad.
frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il
fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi,"
par- ticolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e
dell'ebraismo elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua
vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone
l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella
rive- lazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il
Cristo, ve- nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione
"gnostica" dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si
trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi
dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi
tratti dalle filosofie elleni- stiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri
greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il
significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima,
particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri greci. Per Simon Mago
la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor
(Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio,
"tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da
tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie.
Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom),
sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome,
ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi scaturisce il
pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che
dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano
dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si
determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata
Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia
sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla
radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta
in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me- diante cui
si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen- dentemente
dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e 88
ribelli. Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a
salvare il Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel
pensiero uno di Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La
grande rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato
quanto sopra cfr. Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.;
Ricognizioni, Il, 7 sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino,
Apologia prima, 26). Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci
di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli
angeli, gli arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli
uomini, ma degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua imma- gine,
hanno, affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente
le cose e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e
demoniaci, e che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale,
ingenerato e incorporeo non si è manife- stato .come un uomo, ma come il /Ogos.
"Gli angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché
i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare
cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la
moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo..., il quale, l'ultimo
degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli
Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non
di persone, come era per Satur- nilo, tornano Basilide e il piu notevole dei
cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria,14
morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo,
Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti,
come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al
principio un Dio ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che
ha in sé tutte le possi- bilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono
degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli:
il primo figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa
da cui proviene, rimane in Dio; i l secondo figlio, che illumina le altre H
Forse discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra
il 120 e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli
avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San
Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un
Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri) restano alcune
citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di Basilide dr. Acta
Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88;
III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di
lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6. 89 semenze,
ritornando quindi in Dio; il terzo figlio .che rimane a fof\damento delle
semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un tutt'uno, la potenza di
tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra Dio e il resto della
realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un orizzonte invalicabile,
detto da Basilide "sfera solida" (steréoma). L'universo non è
Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno degli infiniti semi
di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre primi figli, ma simile
al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una serie di filiazioni
intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della luna; l'ultima di
queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto, nella lulfa. Egli
quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina, trovandosi al limite
della materia caotica, al di sotto della luna, ha costituito questo mondo e
l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato da Dio a causa della
"sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a Dio, si riflette su
tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che proclama sé unico e vero
Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la conoscenza
("gnosis") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte, che,
convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero Dio,
riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti
rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio
eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla
terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e
mediante sé e la "gnosi," condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale,
sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in
realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/5
originario dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario
dell'Egitto, Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo
Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto, sappiamo
che Valentino fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il vescovo
Aniceto (dal 135 al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla quale fu
cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola. Di lui si
citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il Vangelo della
verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr. sopra, il
testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im- pero. . Tra i
valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore verso il
180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui abbiamo
riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis Theodoti;
Bardesane, nato ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore, sembra, di
centocinquanta salmi con relative melodie, e di un libro Sul .destino
(ritrovato in siriaco: cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in
realtà, fu composto da un suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che
gli astri non negano affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di
Bardesane. Tra i valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano:
Secondo, Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il
180, e di cui si con- servano una quarantina di frammenti, estratti da un suo
commentario a San Giovanni), 90 di Alessandria al tempo
dell'imperatore Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo
soggiorno a Roma (136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e fondò
a Cipro una propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie,
inni, lettere e i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo della
verità, nulla resta che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una
rielaborazione, forse, della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo
circa), assai oscura, composta di testi diversi, con elementi propri di altre
sette gnostiche ("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica,
in copto, scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata
dal Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della
liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi
dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda
.delle fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si
possano ricostruire vari sistemi valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza
chiara risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto
principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre
dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò
Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé
compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e
solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice
Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in quanto tutto è in sé solitario, unico,
senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito,
Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con
énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia
(charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie,
delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha
emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto -
prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche
Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa
pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che
chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia.
Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta
Ragione (Logos) e Vita (Zoe) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero
dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il
complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni],
quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da
Epifanio, Ha~u., 33, 3-7, abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla
gnosi una donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo,
Alessandro. 91 accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e chiesa
(ecclesia). Questa è l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto,
designata da loro con quat- tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno
di essi è maschio e femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla
.sua propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè,
Anthropos a Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo
anch'essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed
Eccle- sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione,
Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e
Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono
dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e
Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e
Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni...
taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale,
diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro Pre-padre
(Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da Nous, mentre è
invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di contro ad essi,
si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone l'incommensu- rabile
grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti, bramavano vedere Colui
che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella radice senza principio. Ma
l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade, emesso da Anthropos e
Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e fu.scossa da passione senza
l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato). Questa passione è la ricerca
del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la grandezza. Ma non avendo potuto
abbracciarla, poiché la cosa era impossibile, fu colta da immensa angoscia, di
fronte alla grandezza dell'abisso, all'impossibilità di proseguire verso il
Padre ed alla tenerezza per Lui: protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe
stata totalmente inghiottita dalla dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta
nell'essere totale, se non si fosse scontrata in una Potenza solidamente
costituita che, stando al di fuori della Grandezza ineffabile, era di guardia
al tutto. Questa Potenza è detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere
[Sophla], fermarla e, a fatica, ritorcerla indietro, convincendola che il Padre
è irraggiungibile. La prima Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa
era sopravvenuta, si distolse (cosl) da quel rapimento con- templativo. Questo
Confine (Horos) si chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore
(Karpistés)... Per mezzo suo la Sophia fu purifi- cata e consolidata e
restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthù- mesis con
l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis,
insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza
spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma
senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e
principio femminile. ... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa)
per riguardo al Padre, cioè Cristo e Spirito Santo, e mentre il Cristo insegna
[agli eonil 92 la natura della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò
ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera pace
totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento,
tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro
comune, ... raccogliendo insieme cia- scuno degli eoni ciò che v'era di piu
bello e splendente... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione
suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto,
soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da
tutti egli proveniva...: ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua
scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui. ... Quanto poi a ciò che è
fuori del Pléroma... la passione (enthùmesis) della sophia superiore, detta
Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina],
esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto...
come aborto... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non
poteva raggiungerla, impedita com'era da Horos: ... sopravvenne allora in essa
un altro intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò
frutti a somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della
scorta del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una
dall'angoscia, cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno all'indietro,
cioè l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva generato, cioè
l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa una forma... E
dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori dall'eone,
crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...; [quest'ultimo] creò
le cose celesti e ter- rene, ... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è
lui, ·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò anche l'uomo
materiale, non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia
disciolta e fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece
fu generato dalla Madre Achamoth è spirituale. L'uomo spirituale, che era nato
dalla Sophfa, semi- nato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al
Demiurgo... che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il
seme... Questo uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta
dal Demiurgo, il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma
l'uomo spirituale deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che
è materiale... fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere
qualunque soffio di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra
ciò che è spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di
volgersi; quello che è spirituale... e questo... è il "sale" e la
"luce del mondo" (Mt., 5, 13-14), che è stato emesso perché qui,
unito a ciò che è psichico, si formi e sia elevato con esso nel movimento di
ritorno. Il compimento supremo si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè
gli uomini pneumatici che posseggono la perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio
e di Achamoth) sia stato formato e reso perfetto con la gnosi. Gli
"iniziati ai misteri" sono loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l
sgg.: dalla traduzione di F. Bolgiani, in La filosofia medievale, anto- logia
di testi a cura di N. Abbagnano, Bari, 1963). 93 Sarebbe ozioso
soffermarci sulle infinite sfumature, distinzioni, vena- ture diverse con cui
si presenta la "gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i
prosecutori di Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, Teodato,
Bardesane: Bardesane, originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa,
ritenendosi il vero interprete del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da
donna, né, in quanto 16gos di Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il
diavolo e il male hanno una realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o
decaduti dal pléroma; di qui l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce
e le tenebre); sia in occidente con Secondo, Eracleone, Tolomeo (di Tolomeo,
conservataci da Epifane, nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui
Tolomeo inizia una donna colta, Flora, all'idelogia della "gnosi";
esponendo la medita- zione valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in
termini pitagorici, costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade).
Accanto- nate inoltre le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu
dato genericamente il nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem),
per la funzione data da tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo
vitale che regge il tutto in unità, stringendo il mondo nella necessità, nel
male, o venga inteso come il principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o
che ha la capacità di rinnovarsi, per.cui il serpente rappresenta anche il
simbolo della generazione, a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata
la setta risalente al mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16
non si possono qui, per la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da
parte da un lato il Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il
Manicheismo. Marcione,11 nato a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.C. circa, dapprima
16 Accanto a Basilide e a Valentino, Carpocrate è ritenuto il fondatore della
terza grande "gnosi" alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di
Valentino la sua figura e · personalità sono leggendarie. Secondo Clemente
Alessandrino (Strom., m, 2), il figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7
anni, avrebbe scritto un trattato Sulla Giustizia. "Barbelognostiche"
son dette quelle sette il cui culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura
del Barb~lo, "in quattro è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade
costituita dal Padre, Fi~lio, Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare
sotto questa etichetta i Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i
Barboriti, i Coddiani, gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti
particolarmente, Epifania, Panarion. l T Di Marcione sappiamo che nacque a
Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che mori a Roma nel 160 circa. Per il resto
vedi sopra, il testo. Della sua opera, Antitesi, abbiamo notizie attraverso S.
Giustino, Sant'Ireneo, e particolarmente attraverso Tertulliano (De
fJI'~scriptione, Adv~sus Mare. libri.V, D~ carne Christi). Per una
ricostruzione del testo dell'opera di Marcione, cfr. A. von Harnack, Mart:ion,
Lipsia 1921, il quale sostiene che Marcione non è da considerare affatto entro
l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A. C. Blackmann, Mart:ion and his
lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo di Marctone fu un certo Apelle, che dopo
avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in Alessandria. Tor- nato a Roma vi
mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am· 94
aderente alla Chiesa cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova
Chiesa, la "Vera Chiesa di Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la
sua Chiesa in Roma circa negli anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio
di un vescovo cristiano, la sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin
dal principio l'esclusione dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A
Roma, entrato in quella Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad
un'interpretazione del Nuovo Testamento e al rapporto in cui porre il Vecchio
con il Nuovo (di qui la sua opera intitolata Antitesi). "Terminato il suo
lavoro, Marcione si presentò dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i
presbiteri a prendere posizione sulla sua opera e la sua dottrina. Le
discussioni si conchiusero con un categorico rifiuto della tesi di Marcione e
con la sua esclusione dalla Chiesa romana. Marcione, convinto della verità del
suo Vangelo ne trae le conseguenze. Sarà il riformatore del Cristianesimo
primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa sempre piu numerosa, composta di
comunità particolari soli- damente organizzate, la vera Chiesa del Cristo,
ch'egli erige di fronte alla Chiesa cattolica, assolutamente convinto di agire
da autentico suc- cessore dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che
il Vangelo di Marcione si estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la
testi- monianza di Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha
riempito l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma,
in Egitto, in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto
eretico, perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo,
il solo a non interpretare le Scritture .del Vecchio Testa- mento e del
nascente cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le
scritture in senso proprio e letterale..." (Leisegang, cit., p. 186). In
realtà Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai
Romani e ai Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal
Cristo, Dio ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio
del Vecchio Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e
giusto, Dio di punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non può essere
figlio del Dio degli Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il
facitore del mondo, e dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del
discorso dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di
dolore, questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio
"giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento.
Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di
Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;)
in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena,
apparte,nente alla setta marcionita. 95 figlio del Dio buono, si
rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno
predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare
che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio
del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti
buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo
non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo,
e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è asso-
lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio
atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di
suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non
ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che
Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle lettere
di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono apocrife, o
fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi un rapporto
col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo significato della
buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, che
diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un Dio, di un demiurgo
cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto, che salva . l'uomo
mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto e nuovissimo atto
di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere" (gnosi), attraverso il
figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo di Marcione, onde la
necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di Paolo, gli Atti degli
Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil- mente distruggono il
significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di Cristo, di contro alla
Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di Cristo. Fede per fede,
il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del- l'interpretazione del
Cristo e della funzione nella storia del mondo e della salvazione dell'uomo,
tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come autentici. Sotto questo
aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della Chiesa ufficiale, già
costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente fluttuante, un suo
primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va considerata non sul piano
del vero e del falso, della eresia o meno, ma su quello di due modi diversi
d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il Cristo. Senza dubbio, come già
dicevamo, vanno, entro l'àmbito della "gnosi," tenuti presenti certi
dati e, particolarmente, la formazione cul- turale, la tradizione religiosa,
l'ambiente entro cui si sono venute svi- luppando le varie interpretazioni del
Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita in 96 ambiente
ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone l'Ebreo, in cui si innestano
tradizioni platoniche e stoiche, sia pur rovesciate, ha dato risultati e
costruzioni assai diverse dalla "gnosi" che ha dovuto fare i conti
con altre tradizioni e religioni, mantenendole anche se trasfigu- rate (il che,
d'altra parte, è pur testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti
in cui si formarono). E qui particolarmente pen- siamo al Mandeismo e al
Manicheismo, il quale ultimo aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta.
Ancora vivente oggi in una zona della Babilonia meridionale, il
"mandeismo" (da manda, che è l'equivalente in aramaico del greco
gnosis) si venne formando nel 1 secolo d. C. nella bassa Mesopotamia,
indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi, respinto, una volta cono- sCiuto
dalla setta mandea come falso profeta. Dal regno della luce, costi- tuente
nella sua unità il divino (detto la Prima mente, la Prima vita, Re della luce),
provengono, in una serie di determinazioni, le anime, che, tuttavia, nel loro
determinarsi ed esserci si allontanano da Dio, assumendo, in quanto .limiti
estremi, figura e perciò corporeità che pre- suppone, quindi, una materia
eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e male, e limiti e mali sono
le sue leggi. A liberare le anime Dio invi~ sulla terra la gnosi della vita,
personificata nel.profeta, che i Mandei vedono in Giovanni Battista; egli,
appunto, attraverso il bat- tesimo lava, salvandole, le anime, che cosf si
liberano dal male. E in un testo, certamente scritto in epoca piu tarda (la
letteratura mandea fu raccolta in un corpus di scritti sacri nel vn secolo
circa: le opere fon- damentali sono Il tesoro- Ginzii- e il Libro di Giovanni-
Sidra d'Yahya), allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si legge: Quando
Giovanni vivrÌi. al tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del Giordano e
compirà il battesimo, allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in umilt~,
ricever~ il battesimo da Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza di
Giovanni. Ma poi falserà la parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel
Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i
popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne andranno girando per il mon'do. In
quel tempo guardatevi, voi che siete nel. vero... (in H. v. Gla- senapp, Le
religioni non cristiane, trad. it., Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa
atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e colto di un'altra
tradizione, di una religione storicamente delineatasi da secoli in Persia, lo
Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e interpretata nei
termini propri della "gnosi," si muove, nel delineare i motivi
fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana, formatosi in una
setta battista della bassa Babilonia, 97 ma da essa distaccatosi
fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m secolo. Abbiamo
accennato ora a Mani/8 perché, insieme al "man- deismo," il
"manicheismo" - tenuto conto della sua enorme diffusione in tutte le
direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a Tlirfan e nelle grotte di
Tun-huang vennero al principio del xx secolo ritrovati testi manichei in lingua
persiana, partica, sogdi, uighurica o antico turco, cinese, all'Africa
settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono scoperti nel 1918 testi
manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono trovati papiri
manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna - il "manicheismo"
chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene che lo
"gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia" sorta da
un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del Cristo,
ma un atteggiamento storicamente determina- bile, fondato sul concetto di
rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle
tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi.
b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso
(piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa
parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, probabilmente
composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C., ma raccolti e ordinati nel corso
del II se- colo d. C., che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto, costituisce
il cosiddetto "corpus hermeticum " (diciotto trattati, di cui il
primo fu intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che Marsilio
Ficino estese a tutta la raccolta - , piu un dialogo, Asclepius, traduzione
latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:, 'téM~or:,,
Discorso per- fetto, perduto; piu ventidue citazioni estratte da Stobeo, e
altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou, Pupilla
del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della prima tradizione
ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi alchimistico- magici
della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi
astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes
greco, dio della parola, interprete e messaggero di Zeus, viene identificato
con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit- 18 Mani, nato nel 216 d. C.,
a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, per- siano, emigrato in
Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea,
ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un
certo periodo in India (Belucistan), 240-242, recatosi in Persia ebbe dal
sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti.
Protetto anche dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi.
Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso,
Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a Gundeshahpur, sul prin- cipio
del.277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere
stato scorttcato 98 tura, lo scriba di Osiride, del libro che
mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò
stesso della sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola
di Ermes, si pos- sono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita,
afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi
stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura.
Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che
lo studio delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde
si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, me- diante cui si
costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine
della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura
e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il
proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione,
condizione della ricerca stessa, che, pro- prio per questo, non la si raggiunge
mediante la ricerca. Simbolica- mente, perciò, si 'può dire che tale intuizione
è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un intervento
extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti ( ne:pl -r:6lv
1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i miei
sensi cor- porei erano impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato da un
pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica, mi
sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là di
ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi
ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed
io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono
Pimandro, il Niis della sovranità asso- luta. So quello che vuoi, ed ovunque io
sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti,
comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai,
"desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo
intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp.
Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i
vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in .alcuni vi è un dualismo
tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è
accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione
generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si
riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica
di origine pitago- rica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf,
evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che
sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare
ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione, 99
in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione
puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come
rive- lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di
un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo
esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien
dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del-
l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine
platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di
origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la
divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno,
comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale
comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui,
alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità
e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso
nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo
d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si
conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la
conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso,
che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono
degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I
- Pimandro - , 26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto
Uno, e sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di
cogliere che l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo
può ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro
dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio,
animale degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se
fosse egli stesso un dio (Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice.
Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano
"essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del
divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano "
materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che
racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7).
Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio,
che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai
sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100
struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni-
verso nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si
capisce cos( come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è
inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio,
Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro
lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il
Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il
Niis, donde derivano gli dèi e le ,anime; che la materia considerata a sé sia
il limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male
(7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo,
abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità
l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun
salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della
divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità,
risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e
una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi"
(evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura
filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve
interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli
astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle
loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante' la
conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle
profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di
tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e
l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere
come si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione,
poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un
tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto
infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia
consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore,
riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola,
è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna
malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto,
questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus
ermetico: una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza,
in cui si risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un
momento dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se
non per sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" -
scrive il Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli
101 altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto
sentito non è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella
ridu- zione logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un
allontanamento estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale
il numero e il ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge
nelle sue creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino
artista viene creando il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto
costitutivo di ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni
cosa scaturisce; perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi
estremo di un raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo
e Rinascimento, Bari, 1961 2, p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui
struttura "antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità
che lo distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità
terribile della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di
nascita, non una conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p.
299). E cosi, rifacendosi al Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato
ancora il Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una
chiara distinzione tra il Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa
una parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur
vero che non si deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea
che unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei
secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto
di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che
è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa,
ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa
nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri
accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guar- dano, e si
ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario
colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio
scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni
parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni
invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della
tecnica astrologica: cfr. Tolomeo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII, 2)
(Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c) Sotto
questo aspetto, entro i termini di questa visione vitale è simpatetica
dell'Universo da un lato e, dall'altro lato, della visione di un Universo
malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi che stringono in leggi fatali
(astrali) il mondo ("gnosi," propriamente detta), assumono un loro
particolare significato gli Oracoli caldaici (XocÀ8ocLxi MyLoc), composti, sembra,
da un certo Giuliano, vissuto sotto Marco Aurelio, che fu per primo definito
teurgo (&e:oupy6c). Secondo il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8) fu lo
stesso Giuliano a farsi chiamare teurgo per chiarire che egli "agiva sugli
dèi," li "faceva" (nell'Asclepio si legge che "deorum
fictor est homo"), e che non era un semplice teologo, non parlava cioè
solo degli dèi. La Suda riferisce che egli era figlio di un "filosofo
caldeo," dallo stesso nome, che aveva scritto un'opera sui dèmoni, e che
lo stesso Giuliano aveva scritto 0e:oupynX (Theurghika = Libri teurgici),
Te:Àe:cr·nxX (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc 8' È1twv (L6ghia d' epòn =
Oracolt). "Che questi oracoli in esametri fossero (secondo una congettura
del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui quali Proclo scrisse iln ampio
com- mento (Marino, Vita Procli, 26) è dimostrato, senza alcun dubbio, dal
riferimento che si trova presso uno scoliasta di Luciano aa -.e:Àe:cr-.Lxi
'IouÀLocvou & llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L, o!c; o llpox6moc;
civ-.Lq~& éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che Proclo commenta e
contro cui polemizza Procopio': Luciano, Ad Philos., 12, IV, 224, Jacobitz) e
dall'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò degli
l~(verst) chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giuliano espose
le dottrine caldaiche' (Script. Min., I, 241, 25 sgg.): &e:o7tocpX8o-.oc
('doni degli dèi': Marino, Vita Procli, 26). Da dove li abbia davvero ottenuti,
non lo sappiamo... Naturalmente, è possibile che Giuliano li abbia falsificati,
ma il loro linguaggio è talmente biz- zarro e gonfio, il loro pensiero talmente
oscuro ed incoerente da sugge- rire l'idea dei discorsi pronunciati in stato di
trance dagli spiriti guide dei medium moderni, piuttosto che l'opera meditata
di un falsificatore. Anzi non sembra affatto impossibile, alla luce di quanto
sappiamo della teurgia posteriore, che essi abbiano avuto origine dalle
'rivelazioni' di qualche visionario o di qualche medium estatico e che tutto il
com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli in versi come afferma Psello
(Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo. Il che corrisponderebbe alla
prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la conosciamo, e la tra-
sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di introdurre nella fila-
strocca una parvenza di significato e di sistema filosofico. Nondimeno il pio
lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di qualche spiega- zione o commento
in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito anche questo (cfr. Proclo, In
Tim., 246 f, 277 d; Marino, Vita Procli, 26; Damascio, II, 203, 27)"
(Dodds, Theurg., "Journal of Roman Stu- dies," 37, 1947, ora in l
Greci e l'i"azionale, trad. it., Firenze, 1959, pp. 337-8). Anche se
difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli cal- 103
daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sem-
bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in
Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.," 1894)
presentano una visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di
Apamea, del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in
chiave platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei
termini, piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita
di tre intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, - di cui il primo è chiamato
anche Padre, o Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto
determinazione dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non
è intelletto, e il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il
primo e il secondo intel- letto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta
(anima mundi), tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in
sé, che inteso come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è
fuoco), si manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé
in forma compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.),
[per cui] il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con
una diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto,
scaturito dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.).
Monade il Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i "due
caratteri, di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i
mondi" (p. 14 K.). Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è
perciò in Dio e in tal senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in
atto, forza vitale, si risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo
Dio è indefinibile. Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è
necessario intuire con l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo
intelletto verso questo intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto
determinato, non riu- scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente
spada" che tutta brilla e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile
fulgore. Non è dunque con un violento sforzo che si deve concepire tale
intelligibile, né tendendo allo estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto
misura, tranne quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per
diretta visione, ma, dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che
ha volto le spalle ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto
vuoto di ogni pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla
determinazione dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre,
l'Intelletto del Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio
(~ouÀji: boulè), emetteva le idee del suo pen- 104 siero che
assumevano tutte le forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte.
Dal Padre, infatti, veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le
idee, cosi, mediante il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in
altre idee intelligenti. SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto
preesistere al mondo dalle mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellet-
tuale. E via via che il nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di
seguire la traccia del sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza,
ornato delle idee di ogni specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee sca-
turiscono rombando, pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La
prima fonte, in sé perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie
idee (&.px_ey6vouç l8éotç) (pp. 23-4 K.). Nell'unità del primo Intelletto,
dunque, si costituisce la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine
medio, che articola (auvéx_et) i due primi intelletti, scaturisce il terzo
intelletto, mediante cui il tutto si ricollega all'unità vivente, in una
tensione (anima mund•) tra i due termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si
legge che l'anima è da un lato intelletto e dall'altro lato soffio divino, e
perciò amore (lp(l)ç ), consistente appunto nella tensione, nella ricerca della
propria imma- gine rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a
identifi- carsi col tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale,
da cui scaturisce tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla
scin- tilla dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati,
l'Intelletto e il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto
amore, augusto legame che unifica tutte le cose e le sorpassa" : p. 26
K.). La suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una
ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un
tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente
nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della
luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si
sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricon- dotte alla loro unità dalle
anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos(
il significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto
del sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per
via di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli
dèi stessi e sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della
natura, tutta vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta
dipende la comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema
fon- damentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai
commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giam- blico, a
Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica 105
universale, poste precise relazioni mimetiche tra ,tutte le cose, di far
convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la ras-
somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, imma- gini
di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime
desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia
universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che
senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo
dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle
simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le cose, tra le
luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità;
l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale,
operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos
dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate
da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui
evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la
suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De
magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri
dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il
modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri
togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che
ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non
basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi,
uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono
un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos(
fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi,
impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo
artificialmente tutto quello che la divinità comprende in s~ per essenza,
riunendo la molteplicità delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria
efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del
modello" (da Festugière, La révél., anche Garin, Elezioni e problema
dell'Astrologia, V Conv. Int. St. Uman). Sotto questo aspetto assai vasta fu
l'influenza degli Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli
scritti· ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di
Plotino. Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro
la visione di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla
sua funzione di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo
rarefatto platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un
dio persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse 106
l'aspetto della magia che dicevamo naturale o razionale, pur
respin- gendo l'altro aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile
scientificamente e irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che det-
tero di Plotino già Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirni- glianze,
ai vincoli, alle simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in
Plotino una precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica,
che punta su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una
esatta deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in
virtu di ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé
persino quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle
ragioni seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto
esorbita dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta
al tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto
ai segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma
poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo
presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa
può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente
dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è
esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino quello
che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per le
seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma
tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica
vita universale - sorge per necessità di natura; le .cose, di per se stesse,
aggiun- gono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi,
presi ad uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual-
cosa di nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma
in funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di
diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza
ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano, nativamente,
un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee; inoltre, pur
nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri- buiscono tuttavia
all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun ordigno magico,
quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera magia, in seno
all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa. Incantatore
primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono proprio bene onde
ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi filtri ed ai suoi
incantesimi. E, per certo, poiché essi natural- mente amano e gli ingredienti
che eccitano amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro cos{ è venuto
fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per contatti, a
differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di trarle
insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod essa
annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate. E si
avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi atteggiandosi in una
determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze, appunto
perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a
voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non potrebbe
esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o
esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un
luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa
si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi
esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come
in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche
in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire,
il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a
un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in
un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! - , ebbene, anche
nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~
ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna
l'affinità... (Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41). Lo "stoicismo" di
Marco Aurelio. La consapevolezza profonda e meditata che la realtà è quella che
è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo, momento di questa realtà,
è tale entro l'arco della sua vita, per cui, umanamente, prima di nascere e
dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come Demonatte a sostenere che
l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati ogni timore e speranza, risolvere
se stesso esclusivamente sul piano umano, realizzando una misura, che non è
data, ma che è frutto, volta a volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa
consapevolezza portava, nella stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio
(121-180),27 imperatore romano (dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul
Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, originario della Spagna,
appartenente a una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da
Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio
Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto del
collegio dei salt. Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno
paterno, che si occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che
gli dette il nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da
Diogneto. Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a
privazioni, vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il
giovinetto una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul
suo nome (M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò
con la figlia di L. Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo
successore. Alla mprte di Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco
Annio Vero, a patto che Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di
Ceonio. Morto Adriano nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il
figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio
Aurelio Vero; cosi venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore.
Marco ebbe il titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel
140. Nel 145 sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò
allora con coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di
imperatore. Con il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico
retorica greca. Se da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da
giovane aveva sentito avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran
diffidenza per le chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e
scongiuri, e aveva .preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole
libere e franche; in questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva
appreso la capacità di non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto
e incessan- temente a vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo
dare direttive a qual- cuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di
quanta invidia, di quanta malizia, di quanta ipocrisia sia formata la
tirannide, e che i patrizi sono persone degne di poca considerazione (Ric., I,
Il), dallo stoico Giunio Rustico (figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno,
due volte console, collega nel 119 di Adriano nel suo terzo consolato, una
volta praef~ctus urbis) aveva appreso a non sentire piu inclinazione dannosa
per le ambizioni dei solisti, l'avversione a comporre trattati su problemi
astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia (chiare
frecciate contro Frontone), l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare
forbito, l'abitudine a leggere con molta attenzione, a non accontentarsi di
capire press'a poco, l'essersi incontrato con i ricordi di Epitteto, che gli
furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In questo stesso periodo Marco Aurelio
frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico Claudio Severo (console nel
146), il giurista L. Volu- sio Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console,
legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea,
nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo
161, sali al trono col nome di Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono
il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni
pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estre-
mamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette
combattere in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti,
popolazioni sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono
in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le
Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e
Lucio Vero mossero contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a
respingere gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi
costretto a ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi
insorgevano. Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona
(Vienna) nel 180. A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si
può 148 accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso
della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza
significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a
filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli
stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è
passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche
conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata;
ben piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi
contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in
chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a
sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si
grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto,
quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro
entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a
qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana
vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione
tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il
principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare;
la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle
dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino;
oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17).
Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV,
33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo
seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei
tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge.
Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra
cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15).
Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro
scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V,
33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore,
sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro;
ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito
finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella;
e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece,
quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto
che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò
go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti
pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode
Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue
riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati
sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note
p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149 alla
vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che
solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un
continuo scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la
fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou:
VII, 59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante
nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo
che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo
modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa:
la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza
violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere
nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri
faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e
tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo
misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere
con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III,
1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi
stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si
rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive
sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a
Epitteto, da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8;
IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo
atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte,
in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi - , in
un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come
propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e
tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un
rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da
cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti
umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni
uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto
partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione,
!"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama,
dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto" : VI,
39). E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di
atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere
(formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso
umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e
senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano presi dalle cose,
dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - iden- tici, finché esteriorità
- assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come
razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo- nico) e come misura, si
comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui
tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso,
in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo
piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può
ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione
di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor- gere la volgarità e
quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la devi togliere
via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima
[l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può
essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né
colpito da nessuna violenza ... ; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima
tutta quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto...
Quest'uomo sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza
interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli
eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a
uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene
ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura
profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo...
(III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato
offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV,
7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto
singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello
(VIII, 47). O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità,
ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte
alla stessa realtà : irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter-
minati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella
consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha
una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando
supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se
stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un
Epitteto - , non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta
(dice Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo
di simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi
giungere a morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal
profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a
comporre trattati su problemi astratti, 151 a declamare
pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo
intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui;
l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito": I, 7); ma
attra- verso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia
ho imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto
soltanto e incessantemente a vie razionali" : l, 8), che scopre all'uomo
come l'uomo è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che
costruisce sé mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria
dell'opera di Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia,
né un'esposizione logico- dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico
ho imparato l'avver- sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da
Sesto ho impa- rato ad esser ricco di dottrina senza farne continua
mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del
proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso
(èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo
(ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli com- pete
nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio
posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di
imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene
della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci
fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto
conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto
far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per
tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno
capace di rispet- tare per suprema ragione la libertà dei sudditi" : I,
14}, giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non
a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in
genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note
personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né
secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato
composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per
primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato
imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu
gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le
piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore).
Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo
sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta
in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il
proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai 152 contro il
tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna
ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora
dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni,
conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il
suo posto...": III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente},
saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui
primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in
armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che
appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente
insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente,
ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare, molteplice
e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si risolve,
invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto individualmente,
unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque,
dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta
a se stessa, quando procede sulla retta via. E una natura razionale procede
sulla retta via quando non dà il suo assenso a immaginazioni menzognere e
oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il
bene comune; quando ricerca o evita quelle cose sole che sono in nostro potere;
quando ama tutto quello che le viene assegnato dalla comune natura. Ogni
singola natura è parte di quella comune a quella guisa che natura di foglia
partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza che in questo caso
natura di foglia è parte di una natura insensibile, irrazionale, e che può
subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una natura che non ammette
coercizione, intelli- gente e giusta, dato che distribuisce ai singoli, con
uguale criterio e secondo il merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di
attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione non isolando per ogni
fatto un singolo parti- colare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma
considerando nel loro complesso particolari di un singolo fatto e in relazione
a quelli d'un altro, pur nel loro complesso (VII, 7). Non solo, ma poiché
l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come attività unificatrice,
come ragione che è tale non in sé, ma in quanto organizzazione di sé, come
attività egemonica di un se stesso, molteplicità e passioni - non a caso Marco
Aurelio riprende il vecchio termine stoico "egemonico" per intendere
la razionalità - realizza- zione del proprio soffio vitale (pnéuma) in un
ordine e in una misura delle passioni, in cui, appunto, consiste la
razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la stessa essenza del tutto, la
sua natura, il divino, 153 sia questa stessa forza vitale che si
realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la Mente
dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~ xotvwvtx6~: V,
30), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un momento, un
aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo
attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o
l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine,
provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il proprio
posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo negli
altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore degli
altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità
steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità
consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale
all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è
una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo
è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto
partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo
unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa
funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati
in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto
ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono
membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al
contrario, se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il
tuo cuore ami gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia
completa. Parimenti, compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora
convinto di far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali
potrai volgere intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a
toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo
dall'interiore valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto
rapidamente si mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune
per tutti; se la ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è,
la ragione, in quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è
anch'essa comune; quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini,
partecipi di wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In
realtà nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra
città in tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono
a noi intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato
che ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa
riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come
attività razionale, può far porre 154 come ipotesi che, appunto,
lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e
socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo
riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come
conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si
scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale,
cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che
costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato
tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra
cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso,
ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis-
suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion
d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo
quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili
foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula...,
fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a
ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e,
successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un
istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo
oppure fuggendo, proprio convinto che .la durata ne sia eterna; ancora un poco
e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il
lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li
vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno
giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un
rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa
tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto
capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il
valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi
prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una
molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra, .ma sono tutte
uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo
aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile,
dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad
altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la
comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra
parte, tu sei uomo pro- teso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana
comunità" : XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città;
qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo
nel mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i
denti di 155 sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro
natura ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri-
amore per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio,
di un Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII,
73), ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~
umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale
dovreb- b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le
ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV,
3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo,
sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di
sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma,
riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o
breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo
essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale
incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci
intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre,
nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui
l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che
non/si ha non si può perdere" : Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu
e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui
siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza,
nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta,
l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una
minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti
in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo,
e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre
immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del
nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel
presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti
del processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il
presente) in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo
(tale l'in'terpre- tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno,"
che da temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva
la realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur
soffren- done o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie,
per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche
in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o
negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. 156
Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni
diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da
quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in
quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lun-
ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale,
ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via tra-
scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e
nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che
non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo,
che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un
cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose
per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo
fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi
bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir
privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può
perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica'egual
cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero
piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il
mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non
costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande
città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni?... È la medesima cosa
che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro.
"Ma non sono arri- vato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto
tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono
l'intero dramma (XII, 36). Cia-· scuno vive questo istante ch'è presente: tutto
il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto
l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV, 48].
Sono formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto
riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza
alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue
operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal
suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di
quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni
sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco
Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche,
indipendentemente dai presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe
conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal
considerare la sorte a te asse- gnata nell'universale destino? In tal caso devi
ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa
o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine,
provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di
indugiare in una mescolanza 157 dovuta al caso?... Oh! verrà certo
anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io cerchi di fare.
Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro fiducia
in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi sono
gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora, se ci attende un'altra
unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di prefissato
destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza che può
essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno del
caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché
tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in
tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da
ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in
tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e
condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci
fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è
un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso
(IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei
suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa
come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un
ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le
cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare
un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene,
umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo,
nella nostra stessa interio- rità, nello stesso amore per noi e per gli altri,
che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio,
principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima
dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di
uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in
eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antro-
pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura
contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i
termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato
all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo
capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa
ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la
stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia
rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto questo
aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una
giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo
veduto, con Diane Crisostomo, e che si 158 venne realizzando da
Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile
di certi motivi stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della
ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in
funzione dell'unico Stato - , usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone
e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine,
non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di
Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da
Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe
tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove
l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso essi
ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge abbia
vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà di
parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sud-
diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria
dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29).
Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia
di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e
il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis-
suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima
dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste
creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che
immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione
culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva,
sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo,"
che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo
dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di
Marco Aurelio, .del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa, dell'impossibilità
teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul piano di
un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a discutere
quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili d'essere
dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una spiegazione
del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo," inteso come
logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la realtà, e con
cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca aristotelica e
certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo ipotetico del primo
stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica del Timeo; a un tipo
di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si avvicinano certi testi del corpo
ermetico, in una conclusiva visione di sfondo entro cui fossero riprese e
giustificate le varie esperienze ed ipotesi storica- mente delineatesi. Nei
termini di tale piu vasta silloge, in un tentativo di deduzione logica, che non
oltrepassasse, contraddittoriamente, i limiti della razionalità, ed entro cui,
appunto, si potesse rendere conto anche delle varie esperienze religiose, si
venne a muovere, nel corso del m se- colo d. C., il pensiero di Plotino.
Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito delle scuole e della piu
generale preparazione culturale dei cit- tadini dell'Impero, da un lato il
fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte di questioni su singoli
problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro lato di opere ove vengono messi
in discussione gli argomenti piu svariati, anche senza ordine, in una
delineazione chiara di quelli che furono i vivi e molteplici interessi di una
certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto piu largo e divulgativo,
rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu vasto, particolarmente
pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto Adriano, morto sotto
Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino, amico di Attico, di
Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le Notti attiche, e a
quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto tra la seconda
metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito (Deipnosofistt), che,
preziosissime come fonti (evidentemente se assunte criticamente), vanno soprattutto
considerate in quanto indici precisi di una molteplicità di interessi, di tutta
un'atmosfera culturale~ Per il primo aspetto, invece, sembra di particolare
inter~sse ricor- dare i Placita di Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d.
C. e la prima metà del II. Il Diels (Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua
rico- struzione dei Dossografi greci, ha mostrato che Aezio è autore di una
dossografia intitolata l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa-
reri, o Placita), perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso-
phorum (del 177 circa), attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -,
in Nemesio - Iv-v secolo - e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I
Placita di Aezio deriverebbero a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in
6 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della
scuola di Posidonio, nella prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco
avrebbe attinto Cicerone. Ma accanto al filone dossografico, facente capo ad
Aezio e allo pseudo- Plutarco, non va scordato un secondo filone che risalendo
a un'altra epitome in 2 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta
nell'àmbito della prima scuola teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e
frammenti, particolarmente stoici (da tale epitome attinsero, per le loro
discussioni e ricostruzioni, Sozione, Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della
Stromateon Ecloga, andata sotto il nome di Plutarco, Ippo- 160
lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte l'interesse che hanno questi fram-
menti dossografici come fonti e testimonianze di opere antiche andate perdute,
ciò che qui va sottolineato è da un lato la loro funzione di materiale per le
discussioni,. dall'altro lato la loro impostazione dovuta a Teofrasto, che
venne determinando non solo una certa delineazione di problemi, ma anche, di
volta in volta, a seconda di interessi diversi, la struttura stessa della
discussione in senso dialettico, cioè secondo il metodo aristotelico di
presentare le varie soluzioni di certi problemi, si che fosse possibile il
confronto dialettico, e, attraverso questo, il rintraccio di quelle ipotesi non
piu dialettizzabili (in questo senso è chiaro perché Aezio sia stato detto
"peripatetico"); ciò poteva por- tare, in un àmbito metodologico, o
ad accettare una o altra ipotesi, cavata dalla discussione di testi platonici,
aristotelici, stoici, senza con questo negare in pieno l'una o l'altra ipotesi;
dell'una o dell'altra con- .cezione, se negate dialetticamente, si potranno
sempre dialetticamente recuperare altri. aspetti, e cosi via. Di qui, anche,
entro i termini di una discussione scientifica delle condizioni del sapere,
accanto alle "introduzioni" per una lettura delle opere di Platone o
di Aristotele, ai commenti di certe opere di Platone o di Aristotele, scaturisce
l'interesse per le sillogi di certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di
certi problemi, per le quali ci si venne servendo delle prime distinzioni in
scuole della storia del pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio
delle "successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate
dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione,
vissuto nel II secolo a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni,
e proseguitosi tra il II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate,
Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in particolare tenendo conto, via via,
del- l'ideale di vita, che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione,
e dell'importanza che per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio,
si comprende come si sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della
vita dei filosofi, che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo
del m secolo. a. C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di
Magnesia, tra il 11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo
d. C., ad un largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa
prospettiva, tali raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono
un non indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di
opere perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo
conto del tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica
-, ma sopratt\Jtto come indicazioni del materiale posto in discussione, e,
quindi, degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si
può dire che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero
originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che
va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene
Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre
documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il
pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle
dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e
in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche.
"Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una esposizione
della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se si vuole, ma
senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale, un'amo- 2
8 Diogene Laerzio visse, proba~mente, nella prima metà del III secolo. Nel IV
secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava nelle sue
'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene, per altro,
in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto, sottolineando
che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo di Menodoto;
poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che Galeno visse
fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe scritto tra il 200
e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la sua opera tra il
220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è discusso anche
sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd MIIIUs.,
"Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto
dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz,
Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei
filosofi, Bari, 1962, p. XXVIII). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31;
VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di
epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti
gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi,
nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Dio-
gene nei codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII
xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di
opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono
in dieci libri e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si
determina il criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero
di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo
Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di:
Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine,
Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia,
Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedi- cato a Platone: biografia, opere,
dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di: Speu- sippo, Senocrate,
Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade,
Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e alla sua scuola:
Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si
tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle,
Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato allo stoicismo:
Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo,
Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta di: Pita- gora,
Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro
nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito, Senofane, Parmenide,
Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora, Diogene di Apollonia,
Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad Epicuro. 162
rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli libri, non sem-
pre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è unicamente l'atti- vità
speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni minimo particolare della
vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espres- sione sensibile della
ricerca interiore. E questo punto di vista caratte- rizza già l'atteggiamento
eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione, verso i propri
filosofi...: è una rappresentazione ideale di una mitica società di saggi e di
grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro- duzione a I Presocratici, l,
Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte
particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo,
dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di
cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina
con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente
l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al
platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'am- miratrice di
Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto- lineare, come
indice di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente valido, e
rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la pre- sentazione
oggettiva di piu correnti .di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella
stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun
filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi delle
possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come
chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico
della corrente scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo), senza
privilegiarne una o altra. d) Le scienze e la logica: lo
"scetticismo" di Sesto Empirico. Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già
detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica
sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane origini nel tipo di ricerca
proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a contenuto di indagine i
diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una
loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla natura umana. E poiché sia
per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie
ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei contra si trattava di
precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la
possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto,
studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe
sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che
sono state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche
nei commentatori di 163 Platone e dei libri logici di Aristotele,
l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che
permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu
alto significato sto- rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine
del II e il principio del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini
della ricerca (scepsi) a tener sempre presente, metodologicamente, il peri-
colo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di
oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le
/potiposi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e l'approfondi-
mento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus
Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è soliti
indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodo- logico, è
l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica" dell'anti-
chità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una sistemazione 29
Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato
medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math., I, 260)
appartenente all'indi- rizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo
metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math., VIII, 191),
scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat- tezza quando visse:
citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo, insieme
al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX, 87, 115), di Sesto
non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200 d. C., che, invece,
accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto. Poiché, per altro
verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli eretici, composta tra
il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto, si è potuto,
verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd n secolo e
il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200 e il 220
circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino: "nostri,"
tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu ad Atene, ad
Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III, 221; Adv.
Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra, cit., pp.
375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due
scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto
unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno
scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato
(Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere pcevenute
in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a
trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto.
Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi
pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello
"scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello
scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro:
critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti,
intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i
matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo,
desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i
dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto
può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e,
nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro
coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai
grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai
musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno
Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo
cosa significhi (il Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n.
l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro
contemporaneo").] organica da un lato della topica e dei tropi, delle
argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che·
dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del
passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica,
dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle
singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di
ciascuna, e dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la
contraddit- torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in
questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non
nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile,
bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o
l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren-
sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus-
sione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una
certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente
affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui
appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da
parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della
ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra-
verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in-
dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto
empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla
verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è
afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili
esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di
fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni
rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi
intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di
ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che
la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi,
anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb-
bero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi
di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di
averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati
"dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono
oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come
gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano
l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici.
Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo
esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa
parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo
"valere") nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in
qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle
ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l,
8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giu-
dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei
tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio
che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio
siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole
significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come
per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono
rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò
non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca,
passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause
prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla
"causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al
"procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai
"segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza
extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica
aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano
scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile
alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo -
si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui
"segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità
di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte
quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere,"
màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni
rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino
il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente
sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro
i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative
delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e
capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per
cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità
del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del
discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi
ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine
portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una
metodologia gene- rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi
ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti
e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166
ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si
era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da
Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot-
trinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti),
dopo la pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della
pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo
con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del-
l'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra
raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento
dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma
un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono
noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri
fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto
alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza,
non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccÒlta
di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati,
osservazione del loro ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che
alla base di dati-rappresentativi, segni "rammemorativi" e non
"indicativi" di strutture in sé o di cause prime (accanto
all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e all'historfe, raccolta di
dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal modo la cosiddetta
mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di dissimiglianze e
simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una descrizione (schizzo,
ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una
definizione valida per sempre. Entro questo complesso di indagini e di
ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare certi
complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del sapere
matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e del sapere
medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano le opere di
Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200). Esse,
appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie, non
presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della
matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a
spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di
scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una
rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle
ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i
materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai
risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, 167
presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili,
veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e di
quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere
possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve
sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici
con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che
possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo
epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di
Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò
ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo
racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni,
ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco,
rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma
appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla
linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due
piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi precedenti,
ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul- tati, fa
osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia i mondi
in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della teoria
geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò che
riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e l'approfondimento
in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della teoria della
rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione atmosferica dal cui
studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la rifrazione atmosferica
può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari. T ali rappresentazioni
geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui (postulata per quei
calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto sferico di
riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le osservazioni
che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della geometria sferica
delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita di Claudio
Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le proprie
osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera piu
celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle- mlllica
dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per distinguerla da una
rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la grandissima (I'CYI.a-nj,
meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba (La grandissima, .Al
maghesm}, il titolo di .Alrruwesto, vanno ric:ordate le seguenti opere
j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La pida geografica
(in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in altre parti sembra
che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore Marino di Tiro),
l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum, eanone, com'è
stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio ! dell'egemonico. 168
ad Euclide dal matematico Menelao di Alessandria, autore di un'opera
perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato in tre libri, conserva- toci
dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è fondata la trigonometria: cfr.
Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema il tutto, sintatticamente in un solo
ordine, s1 che senza violentare i dati osservati - molteplici e separatamence
presi in opposizione tra di loro - , quei dati vengono spiegati l'uno in rela-
zione all'altro, offrendo un tutto organicamente articolato e possibile
d'essere tradotto, appunto, in termini geometrici e risolto in formule di
calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di Euclide per il sapere geometrico, è
ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia. Di qui, anche, il titolo dell'opera
sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;: Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior
successo e che, com'è noto, ha determinato per secoli tutto il sapere relativo
alla costruzione dell'universo, una volta assunto, non criticamente, come
sistema definitivo e non come ipotesi (la Sintassi matematica, detta anche la
grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per distin- guerla da una rielaborazione minore,
e, poi, per ammirazione, la gran- dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta
nota col nome di Alma- gesto, trascrizione araba dell'articolo - in arabo al -
e magesto - trascrizione araba dal greco meghiste). Di qui, non
contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che meglio poteva permettere la
spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti l'universo, la ripresa e piu
compiuta dimostrazione della validità della ipotesi geocentrica, che, entro lé
possibili conoscenze di allora, meglio della ipotesi eliocentrica, sostenuta da
Aristarco, permetteva non tanto la "salvazione" dei fenomeni in senso
platonico, quanto la misurazione e la spiegazione dell'ordinamento e delle
leggi regolanti il movimento del tutto, facente perno sulla terra, al centro, e
scandentesi in una serie di movimenti entro la sfera contenente tutto
l'universo (la prima sfera motrice). Sempre entro l'àmbito dell'astronomia - e
per gli stessi inte- ressi- va veduto il tentativo di Tolomeo di rendere
misurabile e perciò calcolabile il complesso delle influenz.e stell;ari nelle
cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di rendere conto sul piano
geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico còme nell'Almagesto -
delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze astrologiche. Se
Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle scienze, Tolomeo,
nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il tentativo di
renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava, su di un piano
sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal- l'altro lato, facendo
tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo- meo, in tre libri, sono
una approfondita e sistematica esposizione delle 169 diverse
teorie musicali), che culminano con interessanti· considerazioni sull'influenza
della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni con l'ar- monia delle sfere
(riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e aristo- teliche), poteva, su di
un piano ipotetico, approfondire i motivi delle influenze stellari e la tesi
delle "simpatie," mediante certi risultati del- l'Ottù:a e della
Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129 circa, fu uno dei medici piu colti 31
Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno ricevefte fin da ragazzo una buona edu-
cazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie concezioni filosofiche.
Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di
Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto
coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di
Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di
Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere,
dice che fu avviato alla medicina da un "anatomista," da un
"ippocratico" e da un "empirista." Dopo la morte del padre,
visitò le maggiori scuole mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si
specializza in anatomia, ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del
significato scientifico della medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i
"metodisti," ma a preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi
filosofiche, per cui frequenta anche le grandi scuole di filosofia (non è senza
interesse ricordare che a Smirne ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158,
tornato a Pergamo, viene nominato medico della scuola dei gladiatori,
specializzandosi in chirurgia e in dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma,
clinico di fama, maestro e conferenziere ascoltato. Nel 166 torna,
improvvisamente, in Oriente: si è detto a causa di un'epidemia scoppiata a Roma
(in realtà .sappiamo che in. Oriente l'epidemia fu ancora piu grave); si è
detto perch~ profondamente odiato e ostacolato da certi circoli romani. Fu in
Cipro, in Palestina, in Siria, sempre attento osservatore, sempre alla ricerca
di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo, vi riprende la sua funzione di medico
dei gladiatori, finch~ viene chiamato da Marco Aurelio ad Aquileia, dove
l'imperatore stava per muoversi contro i Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte
di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico
personale di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. A Roma rimase piu di
vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono persi molti suoi trattati. Sembra
che dopo, lasciata Roma, sia tornato a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a
settanta anni. Il pre- nome Claudio, non documentato prima del Rinascimento, è
forse dovuto a un'errata decifrazione del C/. Galenus dei codici latini: C/.
stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della vastissima opera di Galeno sono
giunti oltre una cinquantina di. scritti. Sull'ordine dei propri libri ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri
libr. (De: pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v); (Depl L'ottimo medico è anche filosofo (
0 - r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro
che vi si iniziano (De:p( Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina
{De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,;
iKl -Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii
a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL) ; DÙiposi e
cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv
hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;};
Medicina empirica ( D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi
empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)) ; Le parti della medicina (De:p -rwv
Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv) ; Introduzione dialettica o lnstitutio logica (Elacxy6lyij
3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi linguistici
{De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui -r<o>v); Le qualita incorporee
(•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura dell'uomo, a
Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a lpprocrate (Dcpl
3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle malattie acute (Dcpl
Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento
al Prorretico di Ippocrate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv 'I=xpci-rout;); Del coma
in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170 dell'antichità. Il suo nome
viene sempre avv1cmato a quello di Ippo- crate (i due punti estremi dell'arco
della medicina antica) e a quello di Tolomeo (i due grandi sistematori della
propria scienza, che per secoli ne diverranno gli autori). Dal suo lavoro, sul
piano piu stret- tamente sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma
impor- tanza (in anatomia: descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi,
distin- zione dei nervi in nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo
della cassa cranica; in fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema
circolatorio, ove si sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola
sia nelle arterie che nelle vene, funzione del midollo spinale con relative
ripercussioni sui nervi cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le
localizzazioni delle paralisi; in patologia: ogni disor- dine funzionale deriva
da una lesione organica; in psichiatria: studio accurato delle passioni
dell'animo). Dalle sue riflessioni, invece, sul piano piu vagamente teorico,
non poche volte gli derivarono cantonate pericolose per piu approfondite
ricerche (particolarmente in fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni,
Galeno è ricorso alla teoria finali- stica e a quella delle cause di origine
aristotelica, alla teoria del soffio vitale dei "pneumatici," e a
quella stoica che ogni nostro organo è per provvidenza dell'unica ragion
d'essere del tutto, Dio, sistemato là dove è bene che sia; la teoria dei
quattro umori, secondo· cui, preva- lendo l'uno o l'altro si ha uno o altro dei
temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico, malinconico). Ora, per capire,
entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate
(Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW 'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl
ap&pc.>v); L'officina del medico (Ktlt-r' !ot-rpciov); “Le settimane”
(Ilcpl i()3o!Lii8c.>v); “Sull'uso delle parti del corpo umlltJo (IIcpl
XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou a&I(J4TL IJ.Op!c.>v); “Indagini
anatomiche” (IIcpl -rC..V ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di
lppocrate e di Platone (IIcpl -rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil
Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli elementi secondo lppocrate (IIcpl
-rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v a-roLxc!c.>v); “Sui temperamenti” (IIcpl
xpciO'C6>v); Sulle facol~ naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd
respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç}; Se per natura v'è sangue nelle arterie (El
XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt; citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia
qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci);
L'ottima costituflione del corpo (IIcpl clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU
a&!IJ.GtTOt;) ; Sulla buona costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç} ; Sugli abiti
morali (IIcpll&uç); Se llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial
(IIpbrcpov !ot-rpurijç f) yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio
della piccol11 palÌa (Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou) ;
Sinopsi sui polsi (~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"); Sugli alimenti liquidi
(IIcpl Àe7mlll06cnjç); Sulle facolta degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v
3uvci1J.Cc.>t;}; Sui· temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici
(IIcpl xpciacc.>t; xa:l 8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v
qlatpjl.cixc.>v); “Sulla compotiflione dei farmaci” (IIcpl
auY&ém:c.>ç qlatp~v); La teriaca (IIcpl Tijç &JjpL«Xijc; l); Sui
rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v); Sulla conct#enaflione delle
cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v) ; Sulla diffit:oltlJ della
respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l ; I tumori contro natura (IIcpl -rél)v natp«
qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl q~>4o-roiJ.!«ç .&cpat-
ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso dei farmaci e dei clisteri:
forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti possono riconoscere i
simulatori di malattie]. vastissima opera di Galeno, le oscillazioni e le
contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un lato va tenuta
presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o quel trattato
(piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli scritti in
vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione sorta in
medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici,"
"metodici" ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso
Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento
inquieto, estremamente ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico
di moda che affa- scina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue
diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie),
Galeno fu educato da un padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò
fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della matematica e del sapere in generale
(filosofia), ai quali, sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da
quando aveva diciassette anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo,
dov'era una celebre scuola medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un
empirista, Galeno, morto il padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi
centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales- sandria-, frequentando, ad un
tempo, anche le maggiori scuole filosofiche. Nel 158, a Pergamo, diviene medico
dei gladiatori, specializzan- dosi in chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove
acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di un'epidemia, lascia Roma.
Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque prosegue le sue
osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi conto delle varie
concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento del corpo umano.
Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto di chi- rurgo
presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad Aquileia,
dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia. Morto Marco
Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito alla pratica
medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a
Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due cose: Galeno
cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu solo formato
nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione; egli, fin da
giova- nissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli studi rela-
tivi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole
filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già
composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di
fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu
strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore,
sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo 172
che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la
personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile
etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è
estrema- mente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi
estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva,
dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da
qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza
medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole
filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti
rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le
condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i
dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" -
fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di
come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la
stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a
determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica:
cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica,
implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza
specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi,
per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei
Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e
logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi,
istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal
nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente
vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni
fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti
riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo
discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso
modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis
libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di
delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e .perciò stesso non
solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di
quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o
provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni
formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva
certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la
costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio
logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo),
si capisce come, 173 dall'altro lato, Galeno per spiegare,
particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al
mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale,
assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine
aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità, ricorresse all'ipotesi
stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio,
che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali,
per cui il "pneuma" si realizza come "spi- rito cerebrale"
(pneuma psichico), · come "spirito vitale," o animale, vero e
proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue
nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è
il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di
questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro)
cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica - dei temperamenti (i
quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il
caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come
sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal
sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio
degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti:
sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di
soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che
esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in
un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e
la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze
vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza pre- cisa
dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi,
operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.A seconda dei
testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò
profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva e dalla dirittura
ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno
reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive credenze
nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche,
sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai
vecchi riti, culti, misteri, l'orfico .in particolare, tutto ciò che poteva
servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al
divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio,
quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo
l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe
espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con
runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini
della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui
tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della
libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive-
nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà.
Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche
certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di
Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le
tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima,
che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette
nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia
imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). Lo
stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di
Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con
Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino
sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria,
nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo
periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo
chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora
Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua
greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò
in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad
Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in
Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva:
"filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14),
iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in
cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di
retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi
convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa
Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio,
uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno
di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio
Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto
anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro
non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno
di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché
m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4).
Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o
meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e
amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni,
finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si
recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al
Lilibeo) soggiornò due anni. Nel 271 - Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a
Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di
Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra
il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una
ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i
j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con
Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il
soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono
al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti);
Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta
solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a
Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione
all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle
immagini (framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica,
Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al
Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una
discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene,
Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un Commento a
L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle
Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele (framm.),
alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di Aristotele,
all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di Aristotele (di questi
commenti son rimasti pochi fram- menti e notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle
Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo:
Contro i Cristiani in 15 libri (framm.); Lettera al sacer- dote Anebo (framm.);
Cronografia (framm.); Sul ritorno dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza
(framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel
Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la
vedova Maccella j)<'r aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe
(framm.); Sul "conosci te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima
verso l'intelligibile o Sentenze; Vita di Plotino, premessa all'edizione delle
Enneadi, e Commentari ad alcuni trattati delle Enneadi. 2,35
vedeva affiorare, a tutta prima, la forza della costn,1zione logica rac-
chiusa nel suo ragionamento. Io stesso, Porfirio, ebbì quindi a subire una
s,imile impressione, quando lo udii la prima volta. Mi spinsi perciò a
presentargli un saggio critico, in cui tentavo di dimostrare, contro la sua
tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori dell'Intelletto. Egli se lo
fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un sorriso: 'è fac- cenda tua,'
disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali, per mancata conòscenza della
nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio scrisse un libro, tutt'altro che
breve, Contro le aporie di Porfirio. lo scrissi di bel nuovo in risposta al suo
scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla terza volta, sia pure con un po' di
fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen- siero e mi convertii. Stesi una
Palinodia che lessi in seno alla riunione. D'allora in poi, anche in rapporto
ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo di fiducia. E fui io a destare nel
maestro stesso l'ambizione di articolare e di sviluppare, per iscritto, i suoi
pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93). Prima di conoscere Plotino,
Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene, che ad Atene aveva ascoltato
il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era stato ad Alessandria, aveva
fortemente subito l'influenza delle dottrine religioso-misteriche,
diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche a Plotino, ma che
Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una costruzione logica.
È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle suggestioni dei maghi e dei
teurghi, dando un particolare significato a ciò che si poteva desumere dalle
sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una interpretazione simbolica di ciò
che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt). Di qui l'opera di Porfirio, dal
significativo titolo Sulla filosofia tratta dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv
qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che Porfirio en- trasse in contatto con
Plotino, e dai cui frammenti si ricava, appunto, che Porfirio si serviva di
oracoli dovuti, com'è stato detto, a "medium" durante sedute
spiritiche, e che l'opera era una specie di trattato di teurgia, da cui si
potevano ricavare tecniche e pratiche rituali mediante le quali ricondurre
l'anima alla propria divinità. In questo stesso pe· riodo preromano, Porfirio
scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla ricostruzione piu che del
pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di vite ispirate,
demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui egli,
riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a Moderato
di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a caso,
cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a
Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il
primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di
frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è
l'architettura dell'opera; la Vita d1 236 Pitagora, poi, dà il
metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato
del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione del
proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta la
realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai
Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce la
vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante,
Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco,
Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia
scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di
Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e
un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in
Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide le.
proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il
significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i
termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica,
mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui
potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti,
intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a
convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile:
insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale
"conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo
atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si vedono
bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal tempo del
suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni, fianco a
fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni, discus~ sioni,
seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle lezioni del
maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con- dusse sulla
soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla scuola, su
consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici- lia un
periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal 268-69 al
271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto il
continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla
divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè,
avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della
teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui
criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia,
dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri,
pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche,
prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane ("autentiche
invenzioni di uomini e finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49);
nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da
Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione
dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi,
che è il dominio che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché
tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da
Dio. Sotto questo aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il
motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da
se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura
("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua
l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro
a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che
dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore,
nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo
la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la
legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la
legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di
quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge
scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in
termini logico-intel- lettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che
particolarmente fu col- pito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa
come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa
fuori di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a
caso Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione" dell'anima,
sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si
sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo
"maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9).
"Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di articolarle
quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha richiamato
dalle cose sen- sibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). D i qui,
sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari
scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot.,
4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del neoplatonismo, i
trattati plo- tiniani, cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile.
L'ordina- mento delle Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di
Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si
incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa
nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov
del Timeo), che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima,
in quanto affermazione di sé, riproduce 238 la molteplicità
dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza
di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed empiriche), per cui
l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva, facendosi cosciente di
ciò, oltrepassa il limite, ricondu- cendo a sé le cose stesse. Di qui proviene
la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima singola: l'anima è
puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le cose; eidolica,
immagine, allorché si rappre- senta i corpi come altro da sé, e come limiti;
logica, quando coglie se stessa come discorso unificante, articolando il
molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla coscienza del
limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente coglie il tutto
Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto; anoetica, quando perde se stessa
facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono nell'Anima del
mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come tutte le cose,
cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del mondo e da essa
emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde appunto sono i
corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere interpretato in un
rapporto di "simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni, in
una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri)
alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua
stella, mediante una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è,
perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà,
alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel
limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima,
nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare come altra dall'anima,
avente un suo limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta
le anime stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo,
condotte da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema del- l'anima)
passato attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando
quindi il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Partico- larmente interessante
sembra questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu
animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di
anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del
primo momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto
all'anima nella sua attività eide- tico-immaginativa. Proprio entro questo
momento funzionano epos- sono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi
non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e
teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza
che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino,
sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato per
chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione terapeutica e
ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e mediante essa
sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono.
"Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale da
suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i
cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno vivere
lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere
la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della
legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si
libera dalle influenze per- niciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La
purificazione progre- disce via via che l'animo fa sf che in sé si produca
l'effetto della pro- pria devozione, e la pratica della continenza, che a
rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà
la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è tuttavia
sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la teurgia è
sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, Gand- Lipsia).
Se è vero - sottolinea Porfirio - che le pra- tiche teurgiche sono capaci di
purificare la "anima pneumatica," esse tuttavia non possono operare
il completo ritorno dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano
a ciarlatani (cfr. De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente
si asterrà dal servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé
cosi fatti dèmoni malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare
l'anima, poiché quelli all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da
loro" (De absti- nentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De
regressu animae; "Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima,
per mezzo della teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo
pudibonda. D'altra parte nega che tale arte offra a chi che sia la con-
versione a Dio, sicché lo vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civitate
Dei, X, 9, 415). E qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato
in Siria, a Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui
diffusissime erano le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche
rituali magiche e teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco,
ma che si venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione
occidentale, in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione
dell'universo e del destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente,
per altro, alla nota, profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di
Commodo (180-192), successore di Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza
data da Settimio Severo (193-211) a Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata
la diffusione che in tutto 240 l'Impero, per un certo periodo
dominato da imperatori di provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto
del siriaco dio Sole (pensiamo a Caracalla, 211-217, e in particolar modo a
Eliogabalo, 218-222, che vittorioso su Macrino, 217-218, per aiuto della madre
Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di
Set- timio, impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le mera-
viglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per
rendersi conto da un lato della complessità di questo periodo e della
difficoltà eh'esso presenta per intenderne le molte sfumature, richiami,
allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo
strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri,
determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le
linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu,
dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle
pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei
culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento per
gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi
termini, sem- bra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento
agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De
regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel
primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene
ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della
tradizione del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio
Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso
l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole
plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio,
dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu
approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono
scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità
di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la
capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche
un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se
tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione
porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che
ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla
classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla
moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla
ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano
la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte
razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e
nell'armonia della 241 parte concupiscibile con la ragione, la
giustizia nel dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire");
virtu catartiche ("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu
dell'anima che si eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si
giunge mediante le civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche,
consiste nel non opinare con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel
pensare con purezza; la temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la
fortezza nel non temere il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e
nel nulla; la giustizia si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano
senza trovare resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie
del- l'anima intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru-
denza consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la
giustizia è il compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto
e opera conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso
l'intelligenza; la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e
che ha natura impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono
le virtu che esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima,
delle quali sono gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono
somiglianze...: qui la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che
conosce, la temperanza è conver- sione verso la propria interiorità, la
giustizia è compimento del pro- prio dovere e la fortezza consiste
nell'identità con se stesso, nel rima- nere sempre in interiore purezza
mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu civili è di imporre una
misura alle passioni per agire conforme alle leggi di natura; delle catartiche
è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle altre è di agire secondo
l'intelletto senza avere neppure il pensiero di separarsi dalle passioni; delle
ultime infine non è piu quello di rivolgere il proprio atto verso l'intelletto,
ma di toccare la mèta cun la propria essenza. Perciò chi agisce conforme alle
virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle virtu catartiche è uomo demonico
o dèmone buono; chi conforme alle sole intellettuali è dio; chi conforme alle
paradigmatiche è dio padre. Per questo dobbiamo occuparèi soprattutto delle
catartiche cer- cando di possederle in questa vita e salire poi, attraverso
queste, alle piu pregevoli... Anzitutto, base e fondamento della purificazione
è conoscere se stessi... (Slanci, 32). Duplice è la morte: l'una, la piu nota,
si ha quando l'anima si scioglie da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e
l'anima si lega al corpo quando si volge alle passioni che derivano da esso; da
esso si libera allorché non è piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7).
Probabilmente composti al tempo in cui Porfirio frequentò Plotino in Roma,
certamente frutto dell'attività scolastica, entro l'àmbito della discussione e
del metodo plotiniani, sono i commenti di Porfirio ad 242 .alcuni
testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista, Parmenide, Timeo, Filebo, Convito,
Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricer- èhe platoniche), ad uno
scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la negazione) d ad alcuni libri di
Aristotele (Categorie, ivi compresa l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De
interpretatione, ivi com- presa l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica;
libro XII della Meta- fisica; Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia).
Se non poco indicativi sono i dialoghi platonici presi in discussione,
altrettanto indicativa della funzione assunta dalla filosofia di Aristotele
nell'àm- bito del platonismo di Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di
Aristotele. La Fisica e il XII libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr.
sopra, I vol.) potevano benissimo servire da introduzione a inten- dere lo
strutturarsi della realtà dall'Uno platonico, l'Etica da introdu- zione a
intendere le virtu civili, catartiche e intellettive, mentre le Categorie e il
De interpretatione, se assunti nel loro aspetto formale- grammaticale - e qui
Porfirio, riprendendo le fila della lunga discus- sione e del conflitto sulle
categorie aristoteliche nel campo del plato- nismo nel n secolo, polemizza con
Plotino che, interpretando le cate- gorie contenutisticamente, le negava,
sostenendo di contro la validità dei cinque generi del Sofista platonico-
servivano come introduzione al "saper pensare," come condizioni che
permettono il ragionamento entro l'àmbito dell'Intelletto-intelligibile, donde
poi, platonicamente, dedurre le strutture logiche che rendono pensabile la
realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso logit:o, non ontologico, dei
predicabili o categorumeni di Aristotele - genere, specie, differenza, proprio,
acci- dente, - interpretati come possibili predicati della sostanza, insiste
sul valore verbale - vox - di queste cinque voci, pénte phonai, soste- nendo
che esse riguardano il discorso, non le cose, ché il genere, la specie e cosi
via sono appunto categorumeni e non cose: cfr. lsagoge, I). Di qui il celebre
passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice: "lo non dirò circa i
generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano semplici pensieri; se
siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o posti in essi." I
generi e le specie servono come condizioni verbali che per- meaono il discorso
ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren- dendo come punto di
partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo essere, e perciò a
fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo, generalissimo che è la
"sostanza"), si può da esso dico- tomicamente discendere (fu su
questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne ordinato lo schema di
definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il nome di albero di
Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea: corpo
animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corpo animato
sensibile; ragionevole-irragionevole; animale ragionevole : mortale-immortale;
,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi via). ' Lo sforzo
di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso Plotino, alla piu
viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi- bilissimo alle piu varie
influenze e correnti, cercando sempre di render- sene conto - fu quello di dare
un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello pratico-civile,
risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle pratiche
magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello
logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo
stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano
dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha
luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione.
Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo
(almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò
Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica
contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il
270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso,
ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore,
che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore
nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione .dei corpi), sia
filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni
storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità
del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e
della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le
altre pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri
di spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno),
sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la
possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e
culture'di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero
costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia
universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della
formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel
debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero
nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di
articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti,
concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad
un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non
poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di
salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a 244
proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi
dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un
tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio,
particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla,
Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura
militare capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel
periodo della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio,
Valeriano, Gal- lieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori
illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il, Aureliano,
Claudio :racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il periodo che
va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non fu ta.nto
tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente) quanto di Roma
con se stessa, sia a causa della trasformazione della città-Stato di. Roma in
un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non ancora precisatosi
concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra imperatore e senato), sia
a causa della stessa civilizzazione e romanizzazione dei barbari. Il conflitto
fu in effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la vecchia concezione e una
realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo che aveva costituito
l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di religioni e culture
diverse, ten- deva ora (la provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la
Consti- tutio Antoniniana, 212-213, di Caracalla -, con la conseguente esau·
torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a
prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e
in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il
conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "roma- nità"
(sempre allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore
non era italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senato- dale o
dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché gli impe- ratori,
soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari,"
abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto
determinare la possibilità di un impero universale. Per tale impero universale,
dal punto di vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana
del diritto natura~e (cfr. sopra), come si vede nei grandi giutisperi~i del III
secolo, entrati in conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il
siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale
Impero, l'impe- ratore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità,
accogliendo in sé tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si
capisce, in tal senso, che se piu dure furono le persecuzioni contro i
Cristiani (Decio: 251-252; Valeriano: 253-260), allorché ebbe il sopravvento la
politica 245 di alleanza tréll imperatore e Senato, merio dure,
talvolta inesistenti furono le persecuzioni contro i Cristiani, allorché
prevalse la politica, per cosi dire, interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla
politica di un Filippo l'Arabo e di un Gallieno), almeno fin quando si credette
di poter riassorbire il Cristianesimo entro i termini della funzione data alle
altre religioni (teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani
furono perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra
le tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle
soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto
perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e
dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia
mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni
avvenute sotto Aureliano, 270-275, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305).
D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso
imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra
Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul
piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali
periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in
seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto
Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera
natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una
discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una
rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori
dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o
irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione
volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio,
vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di
Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro
poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio
Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi
cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene
recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina
Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno,
aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava
di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive
esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della
restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso
Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere
che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle
condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le
conclusioni, in 246 realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto
- fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse
esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva
leggendo Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato,
Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva
anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva
appreso i misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a
questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il
metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7).
Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi
dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli
scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della
Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza
dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato,
il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio Cipriano2),
e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura classica, da
risolvere appunto entro i termini della nuova "concezione." Di fatto,
intanto, particolarmente nel III secolo, la fede cristiana si estendeva sia tra
i semplici, sia tra ì signori e gl'intellet- tuali, e all'esigenza
universalistica e pacificatrice, in mezzo a lotre, ron- trasti, al
rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che rispon- 2 Cecilia
Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210 circa. Dopo aver
seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò retorica e fu valente
e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete Ceciliano, nel 245 si
converti al Cristianesimo. Ancora noefita, nel 249. alla morte del vescovo
Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della
persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi
della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la
questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a risol- vere;
nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del battesimo dato dagli
eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione
di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato nel 258, Cipriano
si presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere cristiano e di
rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a - morte per decapitazione.
"Lapsi" furono detti quei Cristiani che per sfuggire alla perse-
cuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se fossero cristiani
rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di attestazione,
onde furono detti anche Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione, molti lapsisti
chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave controversia.
Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propu- gnavano, di
contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in nome
dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza. Intransigente,
invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il battesimo impartito
dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi fu approvata da tre
sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256. . La maggiore opera di Cipriano,
composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De
Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum
(opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum
lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum;
.4d Fortu- natum de exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica
oratione; De bono patientiae. Importante per la storia religiosa è
l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere scritte da Cipriano e
sedici lettere dirette a lui). 247 desse il Cristianesimo nel suo
aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di non servire solo a una
élite culturale e di filosofi, molto meglio che non l'universalismo filosofico,
stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni di mistero, teosofie, e via
di seguito. Di tale situazione storica, di fatto, ben si rese conto Costantino,
che, com'è noto, credette di poter risolvere quell'unità universale dell'Impero
di cui parlavamo, non piu mediante la tesi stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica
(Porfirio), o elioteistica (Aureliano), ma attraverso la con- cezione
cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero, ch'era in effetto la fine
dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri conflitti
politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa strut-
tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne essere
lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni, ma
necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della
cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni
separati, sempli- cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu
complesso qua- dro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con
l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice
Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto
restaurare una città della Cam- pania, andata in rovina, in cui, datole il nome
di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli,
osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo
progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al
filosofo, se taluni corti- giani, per invidia, avversione o altro indegno motivo,
non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo breve
testo porfi- riano; si è parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di
una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla docu-
menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto,
di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino
avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e l'integerrima
vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma
Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi
platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita
platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso
platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è
concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una
synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della
rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro
significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso
problema dell'atteggiamento di Plotino verso la poli- 248 ca. In
dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe,"
l, 1922, pp. 7 sgg.), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig
fahre rom.-german. Kommission, Berlino, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato
che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita politica che sono in
insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono,
invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato
in senso perfetta- mente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene
al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da
quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc
(teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena,
"Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa
bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo;
protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è
suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della
virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per
cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori
(È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77). Platonopoli, in realtà, resta un
ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con
Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche."
Per le virtu civili e politiche resta que- st'altro mondo, il mondo, appunto,
dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire
base, fondamento a quella supe- riore unità, alla città dei filosofi. Sotto
quest'aspetto sembra esatta, rela- tivamente a Plotino e a Porfirio,
l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte
dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio
e Plotino...; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico,
Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3
Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente preoccupato
dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave plo-
tiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio
Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio,
o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli
preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome
da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio,
Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco
stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti
rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima
della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove,
probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si
249 retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere
stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246,
rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola,
fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente, rimase
a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola, egli,
giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole e
chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in
cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla
perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli
con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio
compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio,
Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le
differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due
riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono
al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza
di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a
memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3,
17, 18), a interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il
problema dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli
cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda
ipostasi (Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi:
l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di
sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto,
contemplando l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso
(-tòv.opwv-tot, tòn horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno,
ipostasi del tutto, in una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio,
Amelio chiariva il significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che
non è né uno né due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi,
internamente all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della
sua dimora romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si
trattenne fino al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto,
ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to
mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la
laboriosità di cui dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le
dottrine di Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la
maggior parte. Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò
in·cento libri circa, dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio
di Apamea" (Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle
lezioni di Platino (perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio,
scrisse un'opera Sulla differenza delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per
difendere Platino dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita
Plot., 17: l'opera è perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita
Plot., 18), e quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le
opere di Amelio, di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr.
Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo,
I, 49, 32 sgg.). 250 plica all'infinito, per ogni aspetto della
realtà. Di triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano
ricostruendo tutte le strut- .ture della realtà in una moltiplicazione di
ipostasi, intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia,
simbolicamente dette divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una
interpretazione allegorica far corri- spondere le deità del pàntheon
greco-romano e asiatico. Phanès, Oura- nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo,
vengono, ad esempio, interpretati come l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima
plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia orfica, un senso riposto negli
orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta l'Anima del mondo come
divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al di dentro dell'Anima
universale, corrispondenti e tispecchianti·quegli dèi che sono nell'Intelletto,
nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere vivente,
articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade in
triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una
divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima
universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente
l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come
avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Gio- vanni
Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso
stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato
ogni essere vivente :e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo,
rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la
grandezza della sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riac-
quista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi
al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang., Xl,
19). Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un
ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva
dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a
Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel
251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu, dopo il 270, a Roma, alla
Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci
te stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima). Giamblico, forse,
conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza. Tornato in Siria,
Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad
Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di Giamblico,
in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che, divulgatore di Giamblico,
scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che hanno fortuna o sfortuna
oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da Costantino (nel 336
circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle Categorie di
Aristotele): 251 Giamblico abbia incontrato Amelio, al quale, per
altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per ·.un qualche
tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al
"conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu animae)
sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua molti- plicazione
degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap- piamo che Giamblico,
tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò ad Apamea,
ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola neoplatonica
siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per Giamblico, come per
Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce, dall'Vno, di
triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che dialettizza l'uno
e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,- veniamo cosi ad
avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti nell'unico circolo che
li raccoglie in una sola unità, in un solo centro, l'Uno, per ciò stesso
ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi. L'Uno, dunque,
assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si costituisce ed è in
quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità, emergente dall'In-
telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee in atto, mol-
teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà, comprese, sono a
Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio di Mindo
(alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso (morto nel
372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle
Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco
piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di
lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23
pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi anni del V secolo). Scolarca
della scuola neoplatonica di Cappadocia fu Eustazio, discepolo di Giamblico.
Altro noto discepolo di Giamblico, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio
c che ebbe, poi, notevole influenza sulla formazione delle scuole ncoplatoniche
di Alessandria e di Atene nel V-VI secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da
Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su testimoniaaza di
Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato
testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict).
Di Giamblico si sono conservate le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I
libro di un'opera intitolata Sillogc delle dottrine pitagorichc); Protrcttko
alla filosofia (è il II libro della Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico
Giamblico riporta un lungo passo di un autore ignoto, forse un sofista scettico
del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La
comune scienza matematica (attribuito a Giam- blico, avrebbe costituito il III
libro della Sillogc); Introduzione all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a
Giamblioo, avrebbe costituito il IV libro della Sillogc); Thcologumcna arith-
mctièac (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il VII libro della Sillogc)
(perduti sono i libri V, VI, VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum
(si discute se sia di Giam- blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe
inoltre scritto (di queste opere sono giunti solo frammenti e notizie):
Commento agli Oracoli Caldaici (framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di
Giuliano e degli Dèi di Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima
(framm. in Stobeo); Dc imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac
(framm.); Commento aii'Aicibiadc I di Platone. 252 molteplici
nell'unità dell'Uno intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza,
Intelletto). I tre fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo
stesso Intelletto nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;,
k6smos noetòs), le intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs),
idee rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione
dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade
intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente
intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del
tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile
(x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale
(x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo,
che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi),
costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e
molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro
l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto
in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto
come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua
somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono,
termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui
terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una
terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine
(unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette
termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via;
invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del
sensibile e della natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi,
e di qui negli altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino
alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico
moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici
dèi zodia- cali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi,
a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi),
gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità
sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e
concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni,
le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur
discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano
a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si
risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un
valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui
si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male 253 (donde
i dèmoni malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limita- zione
dell'aniii1a, che, con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo
la catena, per cui quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu
si allontana dal proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu
alla propria potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un
universo vivente, ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro,
l'uno scaturisce dal- l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti
esistenti tutti nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone
è, appunto, il rima- nere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere
nella piu vera vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo
aspetto sembra chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della
eterna armonia, Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione
pitagorica, possa sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le
cose non sono (ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee
invisibili indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una
interpretazione del Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica
ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del
luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i
limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve
collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria
unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto,
atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi
momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per
cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come
ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il
tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e
misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un infinito unico specchio,
ciascun punto dello specchio rispecchia da punti prospettici diversi se stesso,
e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma la visione complessiva di
tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono
come visioni deformi di se stesse, specchianti il proprio specchio, nel-
l'unità dello specchio. In un tutto articolato, e rispecchiante se stesso
all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non
è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani rispecchiano depo-
tenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle potenze, per cosi dire,
invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,.
nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze
del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé
discorre, rispecchiandosi in ciascun numero, 254 in ciascun dio,
dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e
cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetti- camente, ma che
nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora,
si può, traducendo il tutto in termini matema- tici e geometrici, ricostruire
da un lato mediante linee e figure, dal- l'altro lato mediante proporzioni i
necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto
questo aspetto, magia e astro- logia, se condotte su di un piano
matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei possibili
errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione delle
proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi costituente
l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la molteplicità
della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia, il segno
divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa dispersa.
Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via, entro
l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un conseguente
rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità della materia,
il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo quella dispersione,
rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può
avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità, rintracciando
l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una sistemazione che,
tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che articolano il tutto
nell'Uno, rimane sem- pre un sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato;
dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone la vita, cioè
l'unità vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si ottiene per
altra via, che non è quella logico-matematica, che, se coglie il sistema
esteriormente, non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità divina.
Per questa seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima rifà
proprie le potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle cose,
riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una potenza
superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e con esso
diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onni- potente. Sotto questo
aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due piani
integrantisi: il piano della ricerca geometrico- aritmetica che coglie la
struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione
protrettica e necessaria per avviare ad oltre- passare il sistema, a rifare
propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo
segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa
superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della
"filosofia," intesa appunto 255 come scienza che coglie
il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione del tutto vivente, di
tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il rapporto
magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad essere
l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come rintraccio del
discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu vera "filosofia"
che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il pensiero," si
legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma attribuito da
Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che congiunge i
teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi contemplativi
il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno cosf:
l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti
ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e
grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi...
Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli
(auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro
propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di
Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di
costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri
nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se stessa
domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze disperse, per
cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile, onde piuttosto
- attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal proprio dio,
ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il quale aveva
sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le preghiere con
cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono atti di
costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç,
empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si
lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando
in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al proprio
dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia salutare
all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima, infatti, quando
contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e opera in virtu di
un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un uomo. Spesso
anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in cambio la
infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa ottenuta con le
nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle passioni, la
liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire che tutto
questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie di
invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e impuro
mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della generazione siamo
nati passivi, esseri 256 puri ed immobili (De myst., I, :12, 41,
lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp. 173-4). Aveva
detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL (J6(jlOL: gli
esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro presenti gli
dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura dell'universo, intuirono
nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente attrarre dappertutto, ma che
sarebbe stata la piu facile di tutte le cose trattenerla addirittura, qualora
l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e impressionabile, atto ad
accogliere una qualche parte di anima. Ma impressionabile è, appunto,
l'imitazione - comunque riuscita - la quale, proprio come uno specchio, sa
rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11). Dirà Proclo: Gli antichi
saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste, un'altra a un altro,
portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mor- tale, attirandole
mediante la somiglianza, perché la somiglianza è abbastanza potente da
collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri dell'arte ieratica
[teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di
onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri togliendone
in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato che ognuno
degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per
evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le
forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico
simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso,
con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo
corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la
divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze
che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si
combinano per riprodurre le forma del modello (in Bidez, Catalogues des
manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928, p. 139: cfr. Festugière, lA
Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.; anche Garin, Le elez. e il probl.
dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e Proclo v'era stata l'opera e
l'insegnamento di Giam- blico, la sua interpretazione degli oracoli caldaici
(commento agli Oracolt) e il significato da lui dato alle tecniche e alle
pratiche teur- giche, alla filosofia'Come mistero (De mysteriis), con cui si
compie, in senso plotiniano e porfiriano, quella "conversione"
dell'anima su se stessa (si confronti anche di Giamblico il trattato sulle
varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con cui avviene, oltre la
ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si giunge attraverso una
prima siste- 257 mazione dei rapporti mediante i quali il tutto si
articola in unità, e che consiste in una traduzione del tutto in termini
geometrici e nume- rici, in un cogliere la numerabilità dei numeri delle cose.
Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo· ·sostenendo che, appunto, la
divina dottrina di Pitagora serve da introduzione alla filosofia, che la
filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica, attraverso i cui
simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero della vita (cfr.
in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad Philosophiam, e le tre
opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia,
In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theolo- gumena arithmeticae).
Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e che in Etruria
sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno costituito tre linee
(Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi
ora separandosi, a seconda che si sia puntato di piu o di meno sul momento
mistico-irrazionalistico e operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento
dell'anima come "coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a
problematiche e a soluzioni diverse sia sul piano teoretico
(visivo-contemplativo, relativamente al rapporto Uno-Intelletto), sia in
funzione di questa o di quella "visione," sul piano
dell'interpretazione .di certi testi di Platone, considerato in fun- zione di
questa o di quella interpretazione del platonismo. Troppo scarsi sono i
frammenti che possediamo delle opere degli immediati discepoli di Giamblico e
dei seguaci di questi ultimi per potere determinare correnti precise, precise
delineazioni di quelli che furono i "neoplatonismi" tra Giamblico
("neoplatonismo" siriaco, proseguitosi, "dopo Giamblico, con
Sopatro di· Apamea e Dexippo; di Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo
di Giamblico; di Cap- padocia, con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi
nella scuola di Atene con Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e
Dom- nino, culminato con Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales-
sandria con Ierocle di Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v
sec.), autore di una serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum),
la maggior fonte per le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per
l'aspetto magico-teurgico di origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i
primi discepoli di Giamblico e di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il
preponderante motivo della teurgia, divenuto in alcuni vera e propria
ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio, for- matosi nell'ambiente
neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace di Giamblico, apri una
scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di Mindo - vissuto nel IV
secolo e del quale sappiamo che fu 258 discepolo di Edesio in
Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da
"squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno
dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi
consiglia il futuro imperatore Giu- .liano - da quel "teatrale
taumaturgo,n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474
sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a
Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita
ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit.
soph.). Giu- liano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a
Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di
procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido
di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo
[cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia : gli altri, in
confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro,
che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di
contro al prevalere della Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di
opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che
salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio
supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere teurgico.
Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione cristiana, tanto
che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di avere cospirato
nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente
Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della
teurgia e della demonologia, approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo
studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le
divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare nelle cose
e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza di
convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli
"spiriti,n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di
Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che
poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo).
Demonologo e teurgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia,
che, dopo avere ascoltato ad Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri
una scuola (egli fu invi- tato da Giuliano imperatore alla propria corte:
Epist., 76). Continua- tore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui
poco o nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse
un'opera Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il
merito, e che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi 259
fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro
dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giam- blico fu
Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio. Del
"grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu
soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo,
Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim- piodoro in Phaedon;
secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di
Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al lume della ricostruzione
triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per via
allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu diverse esperienze
religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la discussione,.
interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a Porfirio a Giamblico
e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento dialettico della que-
stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che ebbe una forte
influenza sull'analoga questione discussa in seno al Cristianesimo sul-
l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre persone (non a caso
dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si confronti Proclo In
Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per la storia delle
interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento alle Categorie di
Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in cui Dexippo, spiega
dialogicamente a un certo Selemco il significato delle categorie, sostenendo,
di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le categorie hanno un valore
formale e servono per intro- dursi a cogliere la dialetticità dell'Essere in
senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino. Seguito o combattuto, inter-
pretato sotto un certo angolo visuale (la questione del rapporto tra il Padre,
il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro aspetto (particolar- mente quello
della grazia e della redenzione), condannato per certe sue dottrine,
considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi, la subordina- zione del
Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata interpreta- zione
allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità in una
interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che l'opera
di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruotando le ulteriori
elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione cristiana. Senza
dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo classico
come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di avvertire i
problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie, le difficoltà
del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature concezioni
greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva precisarsi e i
punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e una concezione
irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo aspetto
l'op..:ra di Origene, morto a Tiro nel 255, in seguito alle torture sofferte
durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro- blematica,
le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo
in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo
del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di Plotino
in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E qui
pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano,
soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1
nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) tra il
255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore
famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti
cristiani d'Africa la sua improvvisa con- 272 a Sicca, nell'Africa
romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu- lentissimi libri
adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha un notevole
significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso andamento,
nella sua mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico, ebraico e
cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e professore di
retorica a Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua ·dichiarata avversione
nei confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il racconto di San Gerolamo
(De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato alla nuova religione. La
conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo illuminò sul significato
della nuova concezione. Anche se il sogno è un aneddoto ed è simbolico, rivela
che la tesi esplicata da Arnobio nella sua opera, cosi violenta, sino a
divenire ingiusta, contro la filosofia e le religioni "antiche," su
cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di essere preparatissimo, ignorando, in-
vece, le Sacre Scritture, è che la "conversione" non è frutto di
insegna- mento, non è dimostrazione di una certa verità che convinca di errore,
ma è dovuta ad un atto gratuito, miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse
I'Adversus Nationes per convincere il vescovo di Sicca che, diffidando della
sincerità della sua conversione, era in dubbio se accoglierlo o no nella
Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a respingere con vio- lenza, in
blocco, tutta la cultura classica, le antiche concezioni, senza uscire fuori da
quella cultura e da quelle concezioni, usando anzi - egli rètore e dotto delle
varie ipotesi e tesi della filosofia classica e delle varie forme religiose,
ignorante della tradizione ebraico-cristiana - quelle stesse tesi e ipotesi in
senso fiegativo per mostrarne la contradditto- rietà, l'insufficienza a dare un
senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia concessa una funzione
nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il significato piu profondo
dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa cosa infelice
e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua condizione e non
intende di essere stato creato per altro, se non per diffondere il male e
perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo non ci fosse, il
mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini in che cosa giovano al
mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono qualche parte alla
formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati aggiunti,
l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel 295-296 circa, a
causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza, temendo una finzione,
resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra
i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette
libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende
le moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone,
sostenitore dell'antica religione. Secondo San Gerolamo, Arnobio sarebbe morto
nel 327. 273 imperfetto? E che, .forse se non ci fossero gli
uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il
loro corso, non vi sareb- bero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei
venti, né dalle nubi conden- sate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per
portare refrigerio alle aridità? (Il, 37). Ontologicamente inutile, l'uomo è
anzi una scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere orgoglioso,
malefico e maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è
l'uomo, non solo è empio rite- nere che l'uomo sia stato creato da Dio, quel
Dio che tutti ammet- tono essere il fondamento dell'ordine e della perfezione
del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da divinità infe-
riori, impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima umana sia
dello stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che immortale per
natura sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo ricostruire, attraverso
se stesso, riconoscendo sé divino ("reminiscen- za"), le strutture su
cui si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura
divina, se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si
annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio, l'uomo sarebbe, ma non
esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone, Aristotele, gli
Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza dell'uomo. Di fatto
l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite, male, e che il suo
esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco dello stesso
esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non ha alcun
senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica dell'uomo si
risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione, corporeità,
l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò sensazione ed
ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle sensazioni (II, 20),
per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni, rimanendo
sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un mondo di
limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe- ranza. Inesistente
l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso, mortale,
annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni epicuree;
illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben
disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni, la
situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata
superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di
dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi
siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non
siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi,
respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti in sessi, come gli animali
veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il
superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II,
16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero
presunto di possedere una natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla
superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio,
solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule
geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo
senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e
c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio
sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita,
proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale,
almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è
razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in
si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione
non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di
quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla,
limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza .della
sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il
significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio
- Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rive- lazione, da parte
sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma
anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere uomo
reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo è
per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e
orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è
bruttura e malattia, ritorne- :anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato
dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad
esempio, al De :ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano
·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede
:ristiana. Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo
Arnobio, ma la piu profonda ragione del passaggio di molti al :ristianesimo, in
cui si salva l'uomo; "la novità ch'esso portava con ;é era la liberazione
della personalità," è stato detto, "incatenata :lalla religione e
dalla morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per- :leva l'uomo": cfr.
Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener
presente la rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana.
L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è
frutto di un atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che
chiude l'uomo a qual- >iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male
e limite, insignifi- 275 cante, inutile, scheggia e rottura del
perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo,
natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere
contro la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa
contro natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò
extraumano, divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo.
Tale la forza del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a
salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini
sembra chiaro in che consista il senso da un lato del pessi- mismo di Arnobio,
l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la con- cezione greco-romana,
dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal- catura teologico-cristiana,
della sua conversione al Cristianesimo, .che offriva la salvazione dell'uomo
non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale.
Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr.
San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe
Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché
nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità
sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia
saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio
sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della
Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua
esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente
degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da
Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che
piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue
conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del
Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio
Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia, . presso Sirta, o
Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio,
divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da
Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel
302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio
abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in
tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione. Nel 303-304
Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311
compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono
compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne
precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320
(ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione,
composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus
persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito
(si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice). 276
è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di
volersi mor- tale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo
tentativo di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il
manuale della concezione cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua
maggiore va sotto il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce
è la sistemazione in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto,
che separati, in fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani
nel corso del II e del m secolo, e dove il signifi- cato e la funzione
dell'uomo vengono veduti in rapporto all'economia dell'universo e di Dio,
interpretando la soluzione neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della
conversione di Lattanzio sono molto piu semplici e piane che non quelle
drammatiche di Arnobio. Le ragioni delle filosofie - in realtà del
neoplatonismo e di Platone, quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano
il loro fondamento e criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni
del passato non hanno alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se
stessa, non può non sfociare se non in una posizione di problematicità, nel
"proba- bile" ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve
nell'accetta- zione di una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi
trovano il loro fon- damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro,
consiste la vera religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza,
solo che nessuna sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst.
div., I, 1). "La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza
nella reli- gione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di
dipendenza da un essere supe- riore, cui ci sentiamo legati, implica, come
appare dalla religione cri- stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli
oracoli sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto
dipende, che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio,
I, 2, secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov-
videnzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in
evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle
politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu
Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha
la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra
di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in
unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre
funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non
può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga
fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie
delle religioni, 277 rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte
possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è
la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine
erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè
l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui
tutto di- pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni
(sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il
suo stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza
ha da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla
sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la
caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la
verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una
"pia filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo
chiaramente appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di
loro. La sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed
esige il timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi
questi debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in
sé l'una e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo
amare poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non
può essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla
religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che
appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La
sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio,
in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene
sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in
realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della
sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono
divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere
né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano
gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né
quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica
di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si
rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato
dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e
che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale,
esclama non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche,
ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla
do- manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le
ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in
quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non
sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278 criterio.
L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima e corpo,
chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato da Platone
e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato attraverso
Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre l'Essere come
uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso. E allora, la
coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua stessa esigenza
di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non può essere
dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la risposta ebraica
(Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi biblici, ove ancora una
volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto di "sapienza"
secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella cristiana (il rivelarsi ultimo
di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio, fattosi uomo, mediante cui
l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se vuole, a farsi simile alla
ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci, al proprio conflitto,
senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è l'uomo, dice Lattanzio,
riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri ermetici ed Ermete
Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli Oracoli Sibillini; grande
è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a sua volta immagine di Dio,
unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità, perché l'uomo è simile a
Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine medio tra l'Uno Dio ineffabile
e le infinite possibilità di Dio, mediante cui assume realtà, ha un fondamento
la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di Dio. Solo che tale coscienza, per
cui nell'uomo s'in- centra l'universo, tornando con ciò l'uomo simile a Dio,
onde l'uomo - termine medio tra la spiritualità, tra il figlio di Dio e
l'anima, limite, e il corpo, limite piu opaco - può scegliere tra l'essere
simile a Dio, riconoscendo a propria guida il Cristo, o divenire ancora piu
limite, sempre meno amico del re dell'Universo, tra voler essere immortale o
mortale; tale coscienza, tale possibilità di rompere contro la natura, tale
conflitto tra bene e male, in cui consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu
se non vi fosse il vizio, dice Lattanzio - non sarebbe possibile senza la
rivelazione di Dio, esplicitatasi mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo
(Cristo), con il quale l'uomo può reintegrare se stesso. Il sentimento di
dipendenza da un solo e unico Signore e padrone (religione), rivelato da Dio,
mediante i suoi profeti, e poi da Cristo, riconduce l'uomo a ritrovare nella
sapienza di Dio (in senso ebraico- filoniano) il fondamento della sapienza
umana, ridando all'uomo da un lato la capacità di essere virtuoso (cioè di
proporsi come conflitto tra sé natura, unità di anima e corpo, limite, e sé
simile al L6gos e a Dio, rompendola contro la natura, per cui l'essere
immortale o mor- 279 tale diviene una scelta), dall'altro lato di
ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine ultimo; fine
del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio. "Il mondo è
stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per riconoscere l'autore del
mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli un culto; gli rendiamo un
culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché
in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s( che, divenuti simili agli angeli,
perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e si costi- tuisca l'eterno
regno di Dio. Tale il significato piu profondo del tutto, tale l'arcano di Dio,
tale il mistero del mondo" (VII, 6). Proposta come unica soluzione alla
condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e abbandonato a se stesso,
quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la fede nella tesi
ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva mediante la rivelazione di Dio, e
che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare, lavato dal peccato, con
le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato fatto e dal quale è
decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano teoretico-teologico, i motivi
del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili (L6gos), propri del
neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e, per altro verso, di
Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni del- l'apologetica greca.
Molto abilmente c~s( Lattanzio tende a convincere, a persuadere, che l'unica
verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso di essa si dà un senso
e un perché alla vita degli uomini; senza per altro rinnegare i motivi
teologico-filosofici della cultura greco- romana, che, preparatoria della
rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel Cristianesimo, in quanto,
appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di Dio. Anzi, i testi
ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a render conto della
fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della religione. Il
"semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio, "non so
in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9). Ermete
chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del Dio uno
e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se ipse
est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia, mediante
il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella dell'uomo,
fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e che
liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos,
incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6;
Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli
Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E
cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte
si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno
Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché
l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità
vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da
sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e
che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la
luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci
può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio,
sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre
e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno
dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre;
né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere
generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il
padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è
come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è
come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è
fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il
raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del
sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di
Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in
una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del
Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni
significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui
il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come
redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante
cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo
essere virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue
Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera
religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo
come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a
questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun
altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1,
l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a
modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in
quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio
punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello
teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per
cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede
insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno
nell'unità morale dei Cristiani il regno di Dio, in un diritto naturale che si
trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore
supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che
Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo
tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso
dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella
concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data
dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano." Come Cicerone
aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie
ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle
tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe ser- vita a
dare un fondamento alla res-publica, in .un rapporto umano fon- dato su di un
diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto,
cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus
orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie
tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e
ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo
stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di
salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il
regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come
termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo
stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che premia e che punisce.
Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di
Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante
cui piu facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua
sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi
tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di
Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva
attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione
sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima
dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in
funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore uno, sommamente saggio
e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana
dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé il L6gos di Dio,
attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a
Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla
tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile,
nella sua perfe- zione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana
del Dio per- sona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche
l'ira 282 (si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo
il 313), il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira
Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita
e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama,
allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a
insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo,
quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò
'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in
cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Nel 303-304
Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri
delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute, all'imperatore
Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313,
in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si
perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il
311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus perse- cutorum, e una Epitome
delle lnstitutiones. Le ragioni della conver- sione di Lattanzio furono le
ragioni della sua opera di rètore tesa a persuadere, senza rotture violente,
senza scandali, al significato del Cristianesimo, per altro già estremamente
diffuso, e che, impostato da un lato come inveramento e soluzione delle
filosofie piu ampliamente accettate e costituenti un generico fondamento
culturale e dall'altro lato come l'unica religione filosofica che potesse
ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo responsapile della umana città
in funzione della città divina, si mostrava essere l'unica soluzione anche per
l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto questo aspetto assume un
particolare interesse il V libro delle Institutiones dedicato alla "vera
giustizia." Molto sottilmente Lattanzio, rifacendosi in gran parte ai
concetti di giustizia, "summa virtus," e di diritto naturale
delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi romani - è noto che la
maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica di Cicerone si
ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro alla
tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta contro
Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai simile a
quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici del 1 e del
11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la pole- mica contro
Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia si fonda sulla legge
del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde tanto
piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se in
esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli compete e si pone al
suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di Dio.
Solo che il regno di Dio, 283 dopo la caduta, con cui ha avuto
principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere dell'uno
sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla religione,
non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta la lotta,
il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di cui non
vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat vitia
contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim Deus
bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo sciamus,
item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero, potest; Deus
ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset" : V, 7). Entro
i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la rivelazione di
Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del pro- prio
destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto
o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il significato dato da
Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio, finita la persecuzione
da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il Cristianesimo (313),
scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito tutti i persecutori
dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano,
Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio): "sic
omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt." Con
queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus persecutorum. In tale senso
perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il sen- tirsi servi di Dio,
dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione, che la libertà dell'uomo
consiste in questo stesso voler essere servi di Dio, che liberando l'uomo da se
stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere virtuoso e giusto. Solo,
dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto, mediante coloro che abbiano
ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e perciò di essere giusti, a
realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf che, in una ben
ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si rispecchi
l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale e per il
quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu fondamentali della
unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è che la conoscenza
di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro, 9]": V, 15) e
l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio: "nessuno presso di
lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti ugualmente padre, a uguale
diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è povero davanti a Dio, se non
chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non chi è pieno di virtu" :
V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non incorrerà nell'ira di
Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse riprendere, in chiave
cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in diritto divino,
relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e di
certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi
stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della
giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il
contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della
giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il
prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del
problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza
della colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo
stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio,
nel quinto libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla
giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà
dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza...
Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in
comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi
dalla terra, e scom- parve l'umana comunione (V, 5). Le leggi divennero inique;
la giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione...
Dio, è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in
terra, ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis
assignata iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come
insanabile; lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi
aspetti della tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo
statutario che fonda la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene. La
giustizia è l'ordine, nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche
in una societas sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa
reciproca coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche
modo raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori
del mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza
fra la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore
sostanziale avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi
oratori romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste
riportò all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo-
sto da un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin,
Giustizia, "Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4).
Duplice è l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito,
mediante un vero e proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si
riprendono e si dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi
teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun- 285 que accolti
come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe
classi di uomini, facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento
ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni
che spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni
dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai,
solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano,
peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano
- salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu
in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e
sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né
ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu,
tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome
di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in
una fratellanza che -è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una società
che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto
scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il
giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è
diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto
allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li
chiamiamo com- pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione
per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro
che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e
non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i
poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la
nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove
Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in
proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come
ciascuno sa usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi,
il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e
figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi
rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la
struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa ufficiale
al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato detto in
efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in una
organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che abbracciava
quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava nelle sue file
un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi proprietari terrieri, e
la schiacciante massa di popolazione artigiano-commerciale delle città.
Possedeva un potente apparato direttivo che non aveva nulla da invidiare alla
burocrazia imperiale. In'queste condizioni riconoscere la Chiesa significava
per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era particolarmente
importante per il dominatus che tendeva a creare un potere solido... Costantino
poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocle- ziano, avvicinarsi al
Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro questi termini assumono
un particolare significato le parole di Costantino (306-337), riportate da
Eusebio di Cesarea (Vita Con- stantini, 4, 24), ai vescovi con lui riuniti a
mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla Chiesa
(È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei invece vescovo, costituito
da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul peso preciso
da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo,
Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato il
riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento del regno
di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che reggono lo
Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato, accettato
che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa,
che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da Dio"), è il
reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizza- zione
fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo dello
Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo avevano spinto
alcuni imperatori ad abbracciare, di con- tro alla "romanità"
dell'Impero, l'"interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il
fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora
Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a
volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per
la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita
la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute,
qualora di quello Stato dive- nisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce
propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed
ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di
Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che
diviene, con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al
corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione
elioteistica, con il motivo della monarchia solare, reinter- pretata e inverata
al lume della verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono,
oltre alcune testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico
cristiano di Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace
l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica,
anche i mo- numenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore
cri- 287 stiano viene presentato come il Sole di Dio, in
raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che
le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una
visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i rapporti tra
Costan- tino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio
invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano, 1960). b) La corrente
origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le "eresie." ~'arianesimo,
la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se lo studio delle "eresie"
e degli "scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come,
per altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta che, divenuta poi
ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la "retta
opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio rende anche
conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur
nascendo dalla problematica sulla vera inter- pretazione del messaggio del
Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno
etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si
ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato,
anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e
l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile con-
nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia
che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero
cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano
trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salva- zione della
propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che
la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto
secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli
elementi abbienti, il consolidamento del- l'apparato ecclesiastico,
l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo erano
inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli strati
non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il primitivo spirito
plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal pulpito e la
realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero e i fratelli
dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi 'fratelli di Cristo'
della plebe cittadina e 295 rurale, poveri e semiaffamati... La
grande crisi rivoluzionaria del m se- colo non potrà non rispecchiarsi anche
nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi dei contrasti sociali, manifestatosi
nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò anche nel
Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla aristocratizzazione
della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni. In tale situazione
nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai circoli dirigenti della
Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse rispecchiavano anzitutto l'ideologia
dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni, plebe cittadina e, in parte, anche
il pensiero degli strati medi della città. In alcuni casi le eresie erano
dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi della gerarchia
ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo già veduto come fin
dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si determinassero
interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle tradizioni e degli
ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli
giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici
nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi
"eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e
divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto
sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla
propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e
tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità.
Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula
fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco
or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della
regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa" : in De
praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei"
non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo
conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio,
sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione
del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro
essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali
(se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e
la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S.
Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti
dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e,
dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il
monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile
quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come
la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente
far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo"
(Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296 sente che
di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale
deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione
diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento
che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo
della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi,
per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò
tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo
sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire
sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui
pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano
che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento
della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per
le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di
contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità
della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in
personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene
nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del
Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente
opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni
dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al
tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano
ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al
donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il
montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome
di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran-
sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato
(non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti
rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo
il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi,
contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli "
agonisti," i combattenti per la vera fede : cosi essi pro- clamarono se
medesimi, mentre "circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla
parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano
fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni
personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il
novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo
morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo,
sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico
(Concilio di Nicea, 325), in una 297 precisazione da parte della
Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un
valore giuridico, sia proprio in conseguenza di ciò - per la storia della
formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori
precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che
ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad
Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione
di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua
interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente
ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della natura una di
Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da
Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire nel 311, e
dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le
idee di Paolo di Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato per
eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete
Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e
definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei
"monarchisti, " " unitaristi," " docetisti,"
" sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e
dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e
posto che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di
"sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a
tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo
(L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in
cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo
avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere
la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul
rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal
vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono
Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima
in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico.
Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato
nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi,
in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli
improvvisamente mor( nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la
Tàlia (E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il
325. Se ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1,
5, 6, 9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di
Ario: una ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6),
l'altra ad Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di
Nicea (cfr. Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate
(storico della Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una
Historia ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323
al 439) e Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in
Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al
433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano
la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate,
Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298 L6gos dice
Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un
tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa
sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in
eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana
di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile
e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç
=àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e
senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere
ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si
risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini,
ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due,
sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza
solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona
e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che
Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma
volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che
Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso,
mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà,
ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo
davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da
lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il
L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde
nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio
trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla
lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si
formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria,
all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in
quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De
synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli,
generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in
Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo
stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e
&.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio,
il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per
decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire ch'egli
abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre, in
quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua
perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo,
indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf
come tutte le creature, buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse,
potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha
voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo
assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato
come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da
Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è
provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo
Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò
altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa
direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli,
avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio
e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione
delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco
si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la
immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria,
Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario
si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella
città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che
con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del
suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa.
Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa,
già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non
cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro
vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica
contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325).
Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la
sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino
cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a
Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo,
nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo,
istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio
nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una
volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di
Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati
esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la
foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una
volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma,
Atanasio poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366,
in cui, per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta
volta da Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse
tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano
Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~
= enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu
importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono
quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di
Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro
gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate.
Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate
et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'in- 300
cono di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve-
scovo di Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della
consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo
niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi
conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella
ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti
dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti
pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella
salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che
nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa,
veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus-
sione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa
problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica
tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità
della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché
si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò,
forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di
Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli
ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri
(335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie,
portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della
zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente
ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai
sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno
dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i
Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove
fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere
in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino,
Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento
Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della
Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea,
mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di
carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de.
Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche:
Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del
357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l
sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re
piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom·
pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir.
ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i
edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità).
Molte le lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad Alessandria, ma
che, su decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era
non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare in esilio, poté, col
favore del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria nel
346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un complotto organiz- zato
dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono imperatore Ma- gnenzio. Di
contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l.
Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne ucciso. Le truppe
dell'Illiria eleggevano intanto impera- tore il generale Vetranione, favorevole
agli ariani (Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era andato in esilio in Illiria).
Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi con Vetranione, il quale
rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase unico imperatore.
Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi alle forze cristiane
ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria, tanto che in un con-
cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare Atanasio che fu di nuovo
cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di Costanzo, avvenuta nel 362,
Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad abbandonare
Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed unico imperatore
Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro,
particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad Alessandria
alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al 365, quando venne anc9ra una
volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto - resosi
conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma - lo
reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel 373.
Ario era morto nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su pressione
di Costantino, stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa. Dopo il
Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era stato esi- liato nell'Illiria. Dopo
Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio disce- polo di Luciano di Antiochia,
che a favore della tesi di Ario aveva rac- colto una serie di testi
(auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser- vire a provare che il
Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or. III, 2, 60; De
decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio capo politico della
corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit., p. 147), fu Eusebio
vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato durante il suo primo
esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo assunse poi piu
facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato da dare
ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza dubbio,.
talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena. Entro i termini
della discussione ariana si distinsero cosi tre cor- renti. La prima è quella
degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile (ocv6tJ.OLO~-anòm.oios)
dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci - , ricollegandosi a
Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e quindi Ezio,
originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica aristotelica,
che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel 350, sostenne
la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una serrata dimostra-
zione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui il Verbo non può
logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio perciò non si può
porre che come una creatura inferiore, anche se la piu perfetta, e diversa dal
Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non può essere Dio (cfr.' Di
Dio ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi ragionamenti in forma
sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs., 76, 11). Discepolo di Ezio
fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di Antiochia, infine vescovo
di Cizico nel 361. Dal poo che è rimasto di lui, morto sotto Teodosio, si
deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore dell'anomcismo, si corne lo
furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi di Costantinopoli (360- 369)
e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La seconda corrente è quella dei
cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo. la consustanzialità, cioè che
il Figlio abbia la stessa so- stanza (otJ.oouaLo~-homousios) del Padre,
sostengono che tra la sostanza del Padre e quella del Figlio vi è una certa
somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo dei semiariani fu Basilio vescovo
di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe memorie teologiche, conservate da
Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22), seguito poi da Eustazio, vescovo di
Sebaste dal 357, il quale fu particolarmente un asceta, fondatore del
monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il grande. Poco o nulla
sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel 376, anche egli, sembra, seguace
della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile di essere
accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo cui, senza
approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è
simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu
sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato
all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai
vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ul-
timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace
della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da
parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei
difensori della consustanzialità c 303 della divinità del L6gos ad
un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed
acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della
tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio
di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona), dall'altro
lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura del Cristo,
Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al pedissequo seguace
della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398), assai vicino, per
altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui ad Ales- sandria
andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon- tico, San Gerolamo,
Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di Cappadocia, San
Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre
"padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad
Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, soste- nitore
dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la
discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne
condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo
fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il
limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a
Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da
un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona,
dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla
natura umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la
formulazione dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson
(cit., pp. 59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero
cri- stiano dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la
Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente,
fattore delle cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un
sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè
dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv
èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto
(yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion)
del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate,
quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per
la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il
terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E
crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu
in cui egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal
nulla, o è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio
è creato (x-tLa't6v ), o mutevole, 304 o sottomesso al
cangiamento, tutti costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li
anatemizza. d) Dalla religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristiane-
simo religione di Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione
del mito. Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte
di Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu
riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/0 nato nel 331,
figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l. Il padre e i fratelli di
Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari
perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a
Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore,
per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare
per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono
in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu
costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad
ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e
degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo
fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed affidato ad Eusebio
vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana
e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio
(342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove
ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da
Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi
autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio,
in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci.
:t: facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse
in tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e
proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano
(Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26
luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di
Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII:
particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla
Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli
antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII
Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt:
(furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo
Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno
358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV'
e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte
nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon;
numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di opere perdute particolarmente
interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un
sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le
Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma. 305
Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana-
tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal-
l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di
questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede
all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe
annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro
posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale
sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da
Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la
guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli dèi."
A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano tornasse,
Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano, entrando
perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore Libanio
(di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le lezioni,
passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra- verso
Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo
avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo, della
religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di
Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si
approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e teurgica·
(per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo
e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto
Gallo, nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo- mento dapprima di
dovere affrontare la vita pratica, militare, politica ("non è affar
mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una vacca"), si
dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati gli Ale- manni),
e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si adoperava a sanare
contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica intesa nella
coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione
dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo nel 359,
preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di Persia
ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano,
intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe
mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta
contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di
riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria.
Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio, nell'ottobre
del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato
opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e 306 della
prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno,
l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde
ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua
esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo
stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di
Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo
come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico,
Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale
razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della
tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto
piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni
sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione
degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina
(di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato
dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in
par- ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul
significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro
questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti
della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il
sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che
dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea
dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche
l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le
cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa
causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di
perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La
prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in
senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo
intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui
primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli
dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile,
le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal
Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi-
bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile
e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi
dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è
una forma di questa per cosf dire materia, che .è sostrato e segue l'estensione
dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in
certo qual modo il vertice e come il fiore. 307 E appunto secondo
l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo
splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva
del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità,
preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E
non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno
d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr.
Timeo, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità
che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella
che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta
natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede
tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi
intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina
verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria
orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due
sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo
intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A
Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai
molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da
qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa
che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in
sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo
io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un
corpo costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli
uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale
può, con le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui
l'appello di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e
dovere, in. una ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si
sofferma con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende
a modello del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i
cinici del tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI
Contro i cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come
purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima,
riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il
significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia),
alla patria celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano
negare il Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in
quanto religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le
altre, nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i
frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di
Celso e di Porfirio con molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il
Nuovo Testa- mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le
contrad- dizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se
assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia-
lità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane-
simo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in
unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi
culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di
contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei
confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non
condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di
Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i
Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come
facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i
termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni,
nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana -
di un vero clero professionale e di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di
allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure
prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro
che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu,
in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari
i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i
templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a
comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette
da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il
loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era
un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto
ciò apparve da parte cristiana una persecu- zione, mentre molti che in
precedenza erano stati danneggiati dai cri- stiani, sentendosi appoggiati
dall'Imperatore, si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non
pochi cristiani (ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà,
l'intento di Giuliano non fu un mero ritorno al pas- sato, come troppo
superficialmente è stato detto, giudicando solo dal punto di vista della
reazione cristiana, non fu un'accademica restaura- zione di culti e religioni
morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se in termini eccessivamente
scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda, com- prensiva di una
situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica- zione di ideologie,
fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di Stato, entro cui
potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri- spondenti tutti ad
un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei 309 suoi
amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i termini
della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente traducibile
nei termini della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta lettura delle
opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare
una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il
Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento
dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so
entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per cui non poche
volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi
nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro
conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò
particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle
tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio.
E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano
intesi come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi
come miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi
e miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso
Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul
mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza
discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione
neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici e ipercosmicz) sono considerati
come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico
Dio, causa delle cause, super- essenziale, potenza assoluta, entro cui si
scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è
decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il
"male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve
trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico
sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un
tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di
argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a
Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Im-
pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono
due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle
Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei
due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per
il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione
manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À =
~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle
Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones latinae selectee”, I, Berlino, p.
276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni
presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il
Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio
ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato
alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli
dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G.
Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi
et traduit par G. R., "Les Belles Lettres," Parigi)] si come la
materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in- comprensione umana,
all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non
esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo
mancanza di luce": Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il
significato anche politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo
libro di Sallustio, che il Murray ha definito una "sorta di credo
ragionato, per fissare in modo convin- cente le linee generali della...
religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek
Religion, New York, 1955, e a G. Roche- fort, lntroduction à Saloustios, Des
dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi) Il tentativo di
Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in
battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani, con la nomina a imperatore,
nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui creato di un
sacerdozio professionale del- l'unica religione di Stato. Sia pure in termini
rovesciati, cioè nel soprav- vento della religione cristiana, si giunse,
necessariamente, alla procla- mazione dell'unica religione dell'Impero (sotto
Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la stessa
concezione reli- giosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità
politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa
dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa
apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui,
almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa,
economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare
implicò una sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che
proprio in questo tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato
sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via
cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e
militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio fiscale per venire incontro
alle spese militari, per evitare che le popo- lazioni non pagassero le imposte,
si venne via via costringendo cia- scuno a non trasferirsi piu dalle terre
sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne estinguendo, o riducendo in
prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le poche forze economic~e
rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che
vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro
·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già feudale, il potere dello
Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario.
Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto
la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo mi- gliore per evitare lo Stato,
che, in effetto, non esisteva piu. E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i
poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di
disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto
una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del
popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si
recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano
sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei,
per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero
colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu
facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei
Romani. Essi si mette- vano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in
Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e
autonomo movimento anti-romano: in celtico “bagaudi” significa
"combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano,
preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere
schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non
poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprie- tari terrieri.
Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita
esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa, almeno in
Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere
divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica
possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero),
dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi
al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine,
Teodosio I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione
dell'Impero doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva
trasmesso ai Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni,
che vennero perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi
venivano distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in
due, con l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il
lento prevalere dei barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente
sembra la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero
cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la
morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno
alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un
conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per
il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni,
piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico
africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista,
sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro
contro i catto- 312 !ici, secondo cui la religione cristiana nulla
deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente
personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva
divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona-
tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta,
conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro
questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo particolare
significato il rifarsi o meno alla concezione neoplatonica-plotinica, mediante
cui si venne delineando una piu pre- cisa koinè culturale. Di qui l'interesse
di vedere ora, sia pur nelle sue linee essenziali, l'ultima formazione di tale
koinè culturale, le sue com- ponenti, il conflitto tra ortodossi e ariani, la
diffusione di un certo "neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi
del neoplatonismo di Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai
repertori e alle sil- logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di
Aristotele e della logica del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino.
Firmico Materno. Teone di Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente
all'area di lingua latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale
e per la circolazione di :lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario
Vittorino. E qui va :nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel
300 circa, 8 Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, muore
a Roma lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di
retorica prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu
eretta una statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si
conveni al Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle
Confessioni di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che
proibiva ai Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua
scuola. Di lui restano: “Ars grammatical”; Commento al "De inventione"
di Cicerone; De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi
tutto maestro di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo (337-361)
in Roma, dove ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande
fama; tanto che, in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S.
Agostino, Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in
Africa e in parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere
di Vittorino a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere,
anzi, vanno vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in
funzione di quello, ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole
grammatico-retorico-logiche latine, entro il loro aspetto scolastico formale
che assumono un loro particolare significato. Se cosi da un lato Mario
Vittorino, inteso a formare uomini di cultura, compone un'”Ars grammatical” e
commenta il “De inventione” e i “Topici” di Cicerone, dall'altro lato traduce
il “De interpretation” e le “Categorie di Aristotele”, di cui fece anche un
commento, componendo inoltre due scritti di logica, il “De definitionibus” e il
“De syllogismis hypotheticis”, mentre traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti
questi scritti e le traduzioni delle opere piu grammatico-formali della logica
aristotelica, rivelano molto chiaramente che lo studio e l'insegnamento di
Vittorino sono volti a determinare i quadri dei possibili discorsi, le
condizioni su cui fondare, mediante le definizioni, sulle quali si basa
l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace, mediante cui
convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al metodo retorico-filosofico
di Cicerone e, dall'altro lato, al sillogismo ipotetico di origine
teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme
grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e al “De interpretation”
di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a
cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto
questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente necessarie,
costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi,
sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della
realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra
che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus;
la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre
trattati contro gli ariani (Contro Ario, del 358; Della generazione del Verbo
divino, del 358; De homoousio recipiendo, del 360); tre inni sulla Trinità (del
360); tre commenti alle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai
Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate le seguenti opere: il Commento ai
Topici di Cicerone, la traduzione delle Categorie e del De interpretatione di
Aristotele, la versione dell'Isagoge di Porfirio (ricostruibile attraverso la
discussione che ne fece BOEZIO), la versione di parte almeno delle Enneadi di
Plotino, il De syllogismis hypotheticis] del Cristianesimo dal piano logico al
piano della FONDAZIONE DEL DISCORSO su di un atto volontario e irrazionale.
Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da Vittorino, testimonia
Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare la contraddittorietà
della tesi ebraico-cristiana e per altro verso l'incontro, in Roma, con i libri
dei neo-platonici (sembra che Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone
e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino),
lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione. La retorica, valida
appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si
taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero, di contatto con il
senso della realtà. Nell'insegnamento neo-platonico si trova che LA CONDIZIONE
STESSA DEL DISCORSO si coglie in una conversione dell'anima su se stessa
rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa del tutto che
trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine, che la possibilità della
conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità del riscatto dal
limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo. Vittorino si fece
cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi anni, in Roma, nel
357 circa (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere
la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si apparta dalla vita pubblica,
dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati,
agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi neo-platoniche
sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi,
logicamente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino:
“Della generazione del Verba divino” (358), in risposta alla Generazione divina
di Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso
Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente
contraddittorio è ammettere che il Verba di lui sia ad un tempo generato e
ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre,
sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria (358); un breve trattatello De
homoousio re- cipiendo (360). La risposta a Candido di Mario Vittorino, si
fonda, rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente,
posta una certa definizione (non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo
ipotetico. Se Dio è l'Essere, la ragion
d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in
quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili
esistenze, anche l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni
esistenza, unità in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante
on, supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super
omne on et pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia
ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto,
neppure che è essere, anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse,
meglio ch'egli è non essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo
essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi
nell'essere, tutto potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua
essenza, la sua crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio,
che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione
ex nihilo. Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo
generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio
(Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est
causa. Deus ergo a semetipso et Deus est" : 18). Come poi il Figlio sia
nel Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto
all'altro, ma uno ("neque solum simul ambo, sed unwn solum et
simplex") non è, dice Vittorino, necessario ricercare. "Sed hoc non
oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp.
124-25). Sembra ora chiaro in che senso l'aspetto formale della retorica e
della logica, la dialettic~ usata in senso ciceroniano e stoico, la
contrapposizione accademica delle ipotesi, utile per tutti, sul piano della
formazione culturale dei futuri dirigenti, potesse ad un tempo servire a
convincere della validità dell'ipotesi cristiana, oltrepas- sando in una
convinzione del fondamento non razionale della ragione, la neutralità sofistica
della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo studio di come
funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e cosi via (e per
ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come certi altri degli
stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di Sant'Agostino, il cui
itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino, dal quale Sant'Agostino
stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del quale conobbe gli
scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la formazione del
curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo in particolare
a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi rapporti col
neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di Proclo, usati in
funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere oltre l'es- sere,
non essere che da sé crea se stesso e il tutto (interpretazione neoplatonica
della "creatio ex nihilo" : e qui pensiamo agli scritti dello pseudo
Dionigi, a Massimo il Confessore, per giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena).
Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe nel mondo di lingua latina una notevole
influenza relativamente alla formazione di quella koinè culturale di cui
parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e a Cal- cidio, un complesso di
discussioni indirizzate su certi testi di Aristo- tele, su di un certo modo di
interpretare Cicerone (già Lattanzio) e 338 Virgilio (cfr.
particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibi- lità di riprendere
Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sensibile e dell'anima. nei
suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpre- tandolo, poi, come inverantesi
mediante il nooplatonismo. Di qui, ancora una volta, sul piano
dell'insegnamento scolastico e della prepa- razione culturale, la funzione data
ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni scientifiche del sapere
antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi
nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è opportuno
ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Analitici di Aristotele
di Temistio, dovuta al neoplatonico Nettio Agorio retestato, alto funzionario
(fu senatore, questore, pretore, governa- ore della Tuscia e dell'Umbria,
consolare della Lusitania, proconsole :lell'Ocaia, prefetto pretorio
dell'Italia e dell'Illirico, designato console per il 385, ma morto nel 384),
amico dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del
Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico
Materno. L'importanza di Giulio Firmico Materno piu che nell'opera da lui
scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De errore profanarum
religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui iden- tifica tutte
le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e Costante
di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera pubblicata
tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano Mavorzio, governatore della Campaflia
prima, proconsole d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di astrologia.
L'opera di Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio
di astrologia traman- dato dall'antichità, in una sistemazione del sapere
astrologico in termini neo-platonici. Vi si difende, contro le critiche di
Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia come scienza. Se è
vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e alle illusioni sensibili,
difficili sono i calcoli e le predizioni, è altrettanto vero che, l'uomo, libe-
randosi dalla sua sensibilità, in una conversione dell'anima su di sé, può
ritrovando l'anima simile alla ragion d'essere del tutto, ripercor- rere le
trame su cui tutto si scandisce, e può, perciò, ricostruendo l'or- dine e la necessità
in cui tutto, dai cieli, alle stelle, alla terra, alle cose Giulio Firmico
Materno, di origine siciliana, avvocato, vir consularis, senatore, tra il 334 e
il 337, per mantenere la promessa che aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo
aveva accolto con favore e amicizia al tempo del suo governatorato in Campania,
pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia, intitolata “Mathesis”,
dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console d'Africa (nel primo libro si
difende l'astrologia dalle critiche dei neo-accademici e di Carneade. I libri
II-VIII sono dedicati alla vera e propria astrologia. Convertitosi al
Cristianesimo nel 345 circa, tra il 346 e il 350 scrive il “De errore
profanarum religionum] si è costituito, determinare i rapporti e le influenze stellari,
in calcoli e previsioni, matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa
del- l'anima fino alla divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle
influenze stellari che provocano le nostre passioni e i nostri impulsi malvagi
(libro 1). Infine, sempre sul piano della preparazione culturale e della
diffusione delle idee, merita il conto ricordare, entro la linea della grande
tradizione matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di
Tolomeo e l'edizione delle opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria,
vissuto ad Alessandria tra il 335 e il 400, padre dell'altrettanto celebre
Ipazia, una delle maggiori rappresentanti del neo-platonismo logico di
Alessandria, maestra di Sinesio, morta vittima della reazione cristiana, nel
415, su istigazione del vescovo Cirillo. Francesco Adorno. Keywords: Filosofia
italica, scuola di Crotone, scuola di Velia, Girgenti, Parmenide, Zenone. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Adorno” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701937450/in/photolist-2mUTp7K-2mT8iwg-2mSLg5N-2mRK9nd-2mRGVwA-2mRFoL4-2mRhfyi-2mQwGA6-2mQ8kJS-2mQ2SsQ-2mPAuFE-2mN36eA-2mMx3Tk-2mLLZRD-2mLFz5i-2mLTVsg-2mLSNX8-2mLJPUG-2mLHWJE-2mLyVqx
No comments:
Post a Comment