Grice e Battaglia –
valori italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo. Grice:
“You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot
play in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being
and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B,
A is worth B.’ -- “A e B,” “A vale.” “A
vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we
CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.”
Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’
i.e. Socrates has value.’” Grice: “When
I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never
contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and
cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò
la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo
percorso di studi. Si laurea con una
tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un
contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse
la cattedra nella medesima disciplina.
Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo
bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto
nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna.
Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome
la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi
in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla
storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in
chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia
quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e
diffidente approdo allo spiritualismo.
Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica
della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non
fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti dal 1789 al 1795: testi,
lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore
nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo”
(Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni
storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro”
(Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré,
Milano); “Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna);
“Nuovi scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la
metafisica e la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina
morale” (Patron, Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica”
(Patron, Bologna); “Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi
intorno alla sociologia” (Istituto Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana”
(Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria
editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo”
(Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo
storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna
Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla
Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi
dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari”
(Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il
pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia
degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia,
Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30
ottobre 1987), Nicola Matteucci e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB,
1989, .
A cent'anni dalla nascita, Bologna, Baiesi, 2002, . Dal
filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13
maggio 1990), Giuseppe Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia italiana, in
«Storia della Filosofia», XI (La
filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini,
Vallardi, Milano 199830. G. Marchello , Felice Battaglia, Edizioni di
Filosofia, Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della
pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe
di Scienze Morali, Rendiconti, LXVI,
1977-78 (LXXII), 297–305 (ora rifuso in
Id., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, 55–66,
88-15-07604-2). F. Polato, «BATTAGLIA, Felice» in Dizionario Biografico
degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1988. A.
Scerbo, Felice Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni
scientifiche italiane, Napoli 1990. A. Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en
la Teoría del Derecho de Battaglia. Felice Battaglia y el dilema entre Croce y
Gentile, Atelier, Barcelona, (185 ). A.
Anzalone, Felice Battaglia. Per una teoria giuridica tra idealismo crociano e
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(290 ). A. Anzalone, Las aparentes contradicciones de la filosofía
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, 101–121. A. Anzalone, El Estado, sus
fines y su relación con el derecho. La perspectiva de Felice Battaglia, in “Lex
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, 3 n. 1, 59–74. A. Anzalone, La integración europea
como modelo para Latinoamérica según Felice Battaglia, in «Temas de Filosofía
Jurídica y Política», Número 5, SFD, Córdoba, ,
11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e la "filosofia dei
valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2005, 173-194, 88-498-1264-7. Onorificenze Dottore honoris
causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São
Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale
dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe
civile)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio
Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica
Italiananastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della
Repubblica Italiana — 2 giugno 1953 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito
della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1959 Note Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del
pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, 1987, anno XX, n. 13. Università degli Studi di Bologna, fondata
nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici 1950-511951-52 (JPG), Bologna,
Tipografia Compositori, 195419. Dettaglio
decorato, Presidenza della Repubblica. 27 giugno . Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e
Politica a cura di GIOVANNI MARCHI FELICE BATTAGLIA L'opera di Vincenzo Cuoco e
la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO -
Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte : S. LATTES & C. Torino.
PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA RISERVATA COPYRIGHT BY R. BEMPORAD & F.'
, 1925 1925. – Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. DG 848 137 C8B3З CAPITOLO
I. La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova
sè stessa nella sua storia. Il processo unitario . – L'eru dizione: Muratori.
La filosofia : Vico. Antitesi al cartesianismo. -- Esperienza filologica . -
Italianismo di Vico: De antiquissima italorum sapientia. – Vico impersona la
nuova tradizione: a lui si ricollega Vin cenzo Cuoco. La fortuna di Vico
nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. – Vincenzo Cuoco e i suoi
studiosi. La rivoluzione napoletana del '99.- La cultura rivo luzionaria e
prerivoluzionaria. - Razionalismo, astrat tismo. – La classe colta di Napoli. –
Riformismo go vernativo. Rottura tra Stato e borghesia. Carattere passivo della
rivoluzione. « Le origini sacre della nuova Italia » . Gli storici della
letteratura e della vita del popolo ita liano, che vogliano trattare del
Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di cause e di effetti,
debbono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo XVIII sono le
scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti ,
poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo
nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento, ripeto, che condurrà
all'unificazione e all'indipendenza italiana . Mi rabile la continuità della
vita di questo popolo antico M519630 6 d'Italia : i secoli, che ad una critica
occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sappia
investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon derosi d'esperienza
: è tutta una vita che si prepara , si svolge, sente il bisogno di
concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà . È una
preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di
filosofi e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica
ha il dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di
concetti superiori di filosofia . È ridicolo condannare alcune età nel corso
d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di
decadenza, quella età di fioritura . I periodi storici, le ere, i secoli sono
quello che sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte,
con i loro uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli
XVII e XVIII per il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato,
Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue
Carducci. I secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione
come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando,
attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia ,
preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi,
insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a
divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica . È forse, se
l'affer mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica
figura di Giambattista Vico, un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli
ideali cosmopolitici, per ritro vare il particolare più veramente nostro,
l'essenza della stirpe. La storia è l'esperienza del nuovo spirito, che gradual
mente viene formandosi. Il popolo della penisola s'astrae, si ritira, si
allontana dalle grandi competizioni politiche e culturali europee. Il centro
del mondo si è spostato : non più Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra ,
Vienna. Mentre le altre genti si gettano tumultuose nel 7 fervore della
conquista, nella lotta per il predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza
si chiude nel guscio della propria coscienza , nel culto della propria essenza
. Perchè ? Per essere più italiani, per essere noi stessi , per riacquistare a
noi tutto noi stessi, per sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito
l'avvenire. Così quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo
positivo sembra assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del
Settecento, per riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista
pre rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89 , è invece
viva e desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa , di fronte
all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di
schietto pensiero italico , di sapienza civile antica, di esperienza politica
nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa,
notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che
rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una
sua mirabile continuità , una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal
passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si
foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra
gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle
idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e
non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo
storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento,
salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee
che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza
conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo,
mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità , generano altre idee, seguendo
la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello
spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de'
popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica .
Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica,
lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per
i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano ,
particolaristico e nazionalista , è un fatto estrinsecamente assai prossimo a
noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da
lunghe ricerche. Una storia vera della cultura , specie della cultura politica,
non può non ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi
le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza,
questa nuova italianità ? Nell'angolo della penisola , che per il mo mento
(siamo nel secolo XVIII) , guardando in modo sommario la distesa temporale
della storia , è il più li bero dall'influsso culturale straniero . Non
Venezia, non Milano, non Torino, non Firenze .... Napoli. Venezia è decaduta
non già, come la retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e
carnevalesca, ma per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la
vita commerciale d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per
spaziare negli oceani , ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice
scalo della città di San Marco ( 1 ) . Torino è più francese che italiana, più
sabauda che nazionale . Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per
imporre un'idea politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio
anteriore. Milano sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e
vedremo poi come essa col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro
ideale del popolo italiano per rendersene degna depositaria . Ma Milano oggi è
troppo aperta all'influenza straniera , risente troppo gli effetti d'una vita
non propriamente italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che
il rinnovamento si inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale
dell'italianismo, sui primi anni ( 1 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, Torino ,
1922, vol. I , p. 13 e sgg 9 dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri
della no stra natura : il suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i
tempi, con l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per
foggiare quel carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così
dalla metafisica nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo
volgare, ritrovando la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una
filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo
della penisola, arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite
e pensierosa impersona la nuova vita nazionale ; essa, chiusa nella sua
remotezza dalle grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria,
sola può custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza
dubbio indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande
cultura straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re
centi per la gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri,
pietre miliari nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da
contrapporre ? Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita
liano era chiuso in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce
straniera, che gli si voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia
straniera pas sava da noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a
Torino e a Milano, in quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il
cartesianismo ovunque si imponeva e con esso il classicismo francese lineare
geometrico arido . L'Italia però non filosofava . Il Muratori nella sua solitu
dine di Modena cercava, ricercava, spogliava, compilava con foga di
ricostruttore, traeva dagli archivi polverosi i resti della storia nostra , e
il lavoro di paleografia e di trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento,
d’ana lisi, di critica . Il nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore
di studi storici. « Il serio movimento scientifico » scrive Francesco De
Sanctis « usciva di là dove si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione .
Lo studio del passato era come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito
ripigliava le sue forze. Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si
sviluppò uno spirito d'in vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal
quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo
inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monu menti. Già non erano più semplici
eruditi : erano cri tici » ( 1 ) . A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a
Roma il Crescimbeni, a Napoli il Gravina ; altrove Raf faele Fabretti,
Francesco Bianchini, Scipione Maffei e con essi una vera pleiade di dotti «
segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella eru
dizione si sviluppa la critica » . A Napoli e poi in un remoto paese del
Cilento si for mava intanto il Vico. E a Giambattista Vico bisogna rial
lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico meridionale, tutta la
fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio,
Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da
una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra
sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca
storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al pensiero stra niero e
ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla
filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico ad affermare l'im
possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza era la gran cieca
fede del razionalismo , e la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo umano,
morale e sto rico . La conversione del vero col fatto ( verum ipsum factum) ,
impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile nel mondo morale.
Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo creativo : ciò è
impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio, divien possibile
nell'ordine umano, spirituale e storico , fatto dall'uomo, nel quale l'uomo
opera come Iddio . Le scienze morali, la politica, la poesia perdono il mero
carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi ( 1 ) F. DE SANCTIS
, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed. , 1917 , v. II , p.
240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto :
a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci :
questo nuovo principio , che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito,
quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice
reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia pure, come scrive
il De Sanctis ( 1 ) , in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma
certo non in maniera del tutto opprimente e scettica ? Io credo di no o almeno
credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un
nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a
conclusioni inattese . Il Vico, scritto il De ratione studiorum , il De
antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di storia
antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura
linguistica, di filologia . Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il
grande napoletano non fu condotto alla filosofia , al nuovo orientamento della
sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo
stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso
i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne ; e cioè che quella materia di
studio ( 1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS , Storia , v. II , p. 246. « La
materia della sua cultura è sempre quella : dritto ro mano, storia romana,
antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio.
Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino . L'uomo
e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... » . Dentro a
questa coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura
non ha valore : del passato bisogna far tavola . Datemi materia e moto, ed io
farò il mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva
l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico ? cosa
divenivano le idee divine di Platone ? e il simplicis simum di Ficino cosa
diveniva ? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la
poesia, la rettorica non era più buona a nulla ? Nella violenta contraddizione
Vico sviluppo le sue forze, ecc. ». 12 non poteva essere e non era elaborata
dal suo pensiero senza l'aiuto di certi princípi necessarî, che gli si ripre
sentavano in ogni parte della storia da lui presa a medi tare. Un tempo gli era
sembrato che le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero,
quanto a sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con
quelle scienze, gli veniva apparendo il con trario : niente di più sicuro del
fondamento delle scienze morali » ( 1 ) . Verum ipsum factum : « ove avvenga
che chi fa le cose, esso stesso le narri, ivi non può essere più certa
l'istoria » ( 2 ) . Il nuovo pensiero italiano s'afferma schiettamente
storicista : il carattere della tradizione se guente serba questo carattere :
Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da una profonda negazione
della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la storia ( 3 ) . Tutta la
filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa scoperta , e questa
scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica . La resistenza a Cartesio, a
Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta resistenza, cioè in
parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare Cartesio stesso in
una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della storia, l'eterno farsi
de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si sviluppano muoiono, solo
l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto, delle religioni, delle
lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli la superba certezza :
... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in quanto ha una sua
propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in quanto lo rifacciamo
pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo in esse v'è perfetta
scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da un termine all'altro,
è idea che si fa , si realizza come ( 1 ) B. CROCE, La filosofia di
Giambattista Vico, Bari, G. La terza, 1911 , p. 22. (2 ) G. Vico, La scienza
nuova giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza ed .,
1911, v. I , p. 187 . ( 3 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli,
Edizione della Critica , 1903, p . 34 e sgg. 13 natura, e ritorna idea, si
ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et factum , vero e fatto, sono
convertibili; nel fatto vive il vero ; il fatto è pensiero, è scienza ; la
storia è una scienza, e, come ci è una logica per il moto delle idee, ci è
anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale
corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ) . Ora ritorniamo al nostro
argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul Vico fino ad oggi si è
detto e che coglie assai bene la génesi e il valore della spe culazione del
grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova filosofia d'Italia, il
nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza critica ed erudita. Il
Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es lignuae latinae
originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di ricerca etimologica,
che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e nobiltà, se pure non
accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica italica preromana,
l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un linguaggio
filosofico , che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il latino, in cui
si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia autoctona
nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole epigono.
Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio informatore dell'opera
: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica, trova la sua
spiegazione « nei principi della poesia , cessa d'avere la sua origine nella
volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza ( 2) . Ma intanto
resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero italianismo pre
latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso autore, che trova
al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno, dal punto di vista
culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità nella tra ( 1 ) F. DE
SANCTIS, Storia , v. II, p. 248. ( 2) Vedi B. CROCE , La filosofia di G. B.
Vico, pag. 50 e sgg .; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione alle lezioni di
filosofia , Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione, nella storia. La
storia è fatta dall' uomo : la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo
sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà,
di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami
dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura
era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano
sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è
storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva
ed universale . Il Vico ( 1 ) si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita (
1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo
secolo è necessario per colui, che voglia studiare il secolo XVIII, in cui
senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non
ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain , autore di un dotto Étude sur
l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ ( Paris,
Hachette, 1909), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana tra
l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un
periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del
fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX ? Dobbiamo
crederla davvero, mancando una tradizione italica , una fioritura estrinseca,
mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa
nica poi ? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica,
e in esso sono i germi della nuova Italia ? Questo viene al pensiero di chi
legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante . Questo
venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910
l'opera del Maugain ( recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani ,
Messina, Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si
eccettui la figura titanica del Vico , questa storia è una storia di cui non
abbiamo molto a com piacerci , nota come il Maugain la renda più malinconica di
quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (
1657-1750) fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la
tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega , occorre
pensare che, « dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita , e
si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri
prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si
aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri . sorgerà come nazione » .
Ora ciò sfugge all'autore del libro . 15 gora , a Platone, ai filosofi
cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del
tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia
della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire,
tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » ( 1
) . Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende
conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme,
get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e
si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale
umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più
nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del
Vico , proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il
Gentile a proposito ( Studi vichiani, p . 13 ) : « .... Non bisogna dimenticare
che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa ; ed è anch'essa
vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita : e senza intendere
l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non
cercare la vita nella morte : e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del
periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure
progresso , se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non
potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata
con la tradizione nostra, quale la troviamo p . e. nella poe sia del Foscolo e
nell'Italia tutta del tramonto del secolo XVIII e degli albori del seguente, [
quale la troviamo , mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro
Vincenzo Cuoco] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana ,
crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta , e
vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia dal 1657
al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui ha
esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di
riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione ( esempio solenne Vico), è
la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova , se non
m'inganno, non c'è nel libro del Maugain .... » . Precisamente così: può darsi
che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma
chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non
può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte
onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo . ( 1 ) F. DE SANCTIS , Storia,
v. II , p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi
concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita ; col Vico si
presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero
settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito,
donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana
napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di
Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine
la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto
notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di
Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra
amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di
quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa
saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè
sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi
illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non
ebbe neppure in vita ( 1 ) : immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande
au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico
spirito del suo figliolo . « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu
in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che
propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè
facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate » ( 2 ) . Lo
stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo
può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi
voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche : il vichismo in Mario Pagano
è mescolato al nuovo sensismo francese ( 3 ) . ( 1 ) B. CROCE, La filosofia di
G. B. Vico , pp. 270 e sgg. ( 2 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico , p.
286. ( 3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr. VINCENZO Cuoco, Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza 1913, L, p. 208 : « Nella
carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge - base
per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che
ho sott'occhio il seguente titolo : Pro getto di costituzione della repubblica
napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 )
, ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo
provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una
Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de'
suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre
autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti ( 2 ) . di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle
operazioni del Tria , ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da
tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit. , p. 34 e
sgg. e da M. ROMANO, op. cit. , p. 51 e sgg. , i quali non hanno nulla
tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi
per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il
lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che , certo in antitesi con
l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto
elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per
incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (
1) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al
cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO ,
con @enni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine
il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO
PAGANO, GIUSEPPE LOGOTETA E GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI ,
Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2) I Frammenti si credono quasi certamente
anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che
non si riesca a provare, il che non mi sembra facile , che siano stati scritti
col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op.
cit., p. 17 , li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a
pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, e in nota
dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno,
in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap . pendice dei Frammenti, pubblicato
la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10
sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e
la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi .
Ma prima due parole su Vincenzo Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le
lettere siano a lui indirizzate. Si dirà : una grande ami cizia univa il Russo
al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna ; si dirà : il Russo
ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne
prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la
critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare
che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo
luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo
dell'estremismo che il Cuoco detesta ( 1 ) , proprio il Russo, il socialista
che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e
del nuovo ordinamento civile , come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere
assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica,
d'opposizione ad un si stema politico culturale . Sono, ripeto, l'una contro
l'altra due filosofie , due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e
fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più
realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla
storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo ? ( 2 ) . Basta leggere i suoi Pen
del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella cit .
edizione napoletana del '61 . II ROMANO, op. cit., p . 22 e p. 62 e sgg. crede
i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana,
p. 108 . ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg. , scrive a
proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo , anche gli amici che gli
volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi
convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non
potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli si era messo » . ( 2
) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112 ; nonchè G.
DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza
ed ., Bari, 1922, p. 120 e sgg. , che ci offre una buona analisi del pensiero
del 39 sieri politici , sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un
giudizio ( 1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere
il suo astrattismo . Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il
suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno
possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di
sussistenza . Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni
legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla
repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi
cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza
a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra ; al qual
uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in
dustria, domestica e ridotta al puro necessario ; e il com mercio ridotto , del
pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta ;
l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai
princípi dell'agricoltura . Nessuna religione, tranne forse « un tal quale
vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa » ; e
quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città : una serie di piccoli
villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne
quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di
oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come
termine ultimo, la « Società universale » ( 2 ) . Era nel Russo, come in molti
rivoluzionari, special 다. l'insigne martire del '99, specie nelle sue
derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau . Un sunto delle dottrine del Russo ci
of frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815,
Milano, Vallardi, 8. d. , p. 167 e sgg. ( 1 ) Il giudizio (Saggio , L, p. 209)
è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si
possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche
migliore, rendendola più moderata » . In quel miglio ramento nella moderazione
sta tutto Cuoco ! ( 2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40
mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di
filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo,
che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito,
Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera,
di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua
opera ( 1 ) , non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe
di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto
Manzoni, ma non potè incantare la posterità ; troveremo, invece, contrasti,
contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di
vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto ( 2 ) . Nella pre
fazione ai suoi Pensieri politici scrive : « Io non ho volta la mente nè alle
antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste
legislazioni : ho consul tato nelle cose stesse la verità » . Quindi un
desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi
fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente
indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In
fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non
per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta
rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti,
democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità
tra i popoli, sono quelli della generalità, ( 1) La prima edizione dei Pensieri
politici è dell'anno 1798 , allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a
Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo,
napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita
repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801
(Milano, anno IX , Tip. Milanese in Strada nuova , n. 561 ) ; e poi ancora a
Napoli nel 1861 ( ed . a cura del D'Ayala ) e nel 1894 ( ed. a cura di B.
Peluso con pref. di E. De Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione
napole tana , p. 98 , p. 112. ( 2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e
sg. 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia , quella specie di natural
pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della
solitudine di Vincenzo della sua critica . Ma la causa principale del suo atteg
giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è
la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia ? La
documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che
egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si
espresse in seguito , altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia
potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a
Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano.
Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive : «
Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto ;
i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano ; il re ritorna e
dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva più a
lui . Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza
che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia
stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso
ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi , per non
aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo,
diceva Panglos : possa tutto esserlo per lo meglio ! » ( 1 ) . Egli dichiara
che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna
parte, senza che egli vi sia intervenuto . L'affermazione è vera solo in quanto
si sappia intenderla . Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del
tempo , egli primo lo sa , e i nuovi studi lo confermano, anche quando per
prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol
compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro,
studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio
della ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico, p. 11 . 3 - F. BATTAGLIA , 34 posterità
sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione,
s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par
tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende
della mia patria ; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono
stato io stesso un giorno non ultima parte ; scrivo pei miei con cittadini, che
non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » ( 1 ). Dunque di fatto
l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire ? Cuoco sin
dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in
quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali , più
intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle
grandi rivoluzioni ; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano,
in quanto non spontaneo , scaturito invece da contraccolpi internazionali, che
nessuno può evitare e dirigere ; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi
al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua
cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei
propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo,
l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti ,
incapacità , cupidigia , sfrenatezza . La rivoluzione per Vincenzo è davvero un
fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre
spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne
prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi
bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad
una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare
passiva ( 2 ) . Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più
francese che italiana ; che gli uomini, che sono alla testa della cosa
pubblica, sono più ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , I , p. 16. ( 2 ) Oltre i
brani citati cfr. Saggio storico, VIII , p. 47 ; XV, p. 84 ; XVI, p. 90. 35
illuministi che non i pensatori francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e
costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla
pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con
l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti
specifici e non con le pa role . Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato
da un pezzo : fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto
notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de'
martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi
rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati ( 1 ) . Queste poche
osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi
eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole
( 2) , ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè
essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non
fu mai astio contro la nobile nazione gallica , nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia . Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente
nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico ( 3 ) . ( 1 )
M. Rosi, op. cit. , v. I , p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana,
pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a
Napoli, sui primi processi , sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani.
( 2 ) P. HAZARD, op. cit. , 219 e sgg . ( 3 ) Prima di andare innanzi bisogna
pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un
argomento già dibattuto e risolto , ma su cui mette conto indugiarsi, poi che
la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in
una sua nota , Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite,
pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di
Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima
letteratura italiana, v. VI, ( 1901 ) , p. 193 e sgg. , getta gravi ac cuse
sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua
requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor
L.A.Trotta di Toro ( Molise) . « In tutte e due le lettere » , scrive il Tria «
il Cuoco di scorre liberamente con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso ,
dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non
si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano
fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e
più comoda degli indugi si infastidiva , e per sè stesso e per il vantaggio dei
suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi
italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete
della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo
distoglievano dal suo particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il
Guicciardini ! », Cosi il Tria : e tutto ciò , perchè il povero Cuoco, pur tra
le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin
qui poco male, se il Tria , basandosi su alcune frasi dello scri vente , non
avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli tico . Vediamo prima di tutto
le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo
borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò . «
A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al fratello . —- Se io fussi reo
, accetterei un perdono : ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un
delitto , un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò
strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere
; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole,
un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia
sempre l'apparenza di reo » . Alte sublimi parole, che non possiamo non
raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva
all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato
ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la
rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue»
commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli
fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che
pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria ; si dice un
fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega » , Abbiamo
citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti
dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza
penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione
assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza
intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando
sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della
nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica
popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i
bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali,
qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi , » scrive « sono spesso illusi
dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire
i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla »
. « L'ottimo non è fatto per l'uomo .... » ( 1 ) . Costoro, ai quali accenna il
critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non
è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non
può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove,
armata e folgorante ; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della
nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della
nazione, deve precedere la costituzione ; e mentre con questa si determina il
modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser
molte cose più sacre della costi tuzione istessa , che il sovrano, qualunque
sia, non deve poter alterare » ( 2 ) . Nessuno può « törre al popolo tutti i
suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base
di una costituzione » ( 3 ) . Il Cuoco, se osserviamo bene la questione,
distingue due momenti : una elaborazione incosciente del popolo che crea
istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza ;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene ( 1 ) Framm
. I , p. 219. ( 2 ) Framm . III, p. 245. ( 3 ) Framm . III , p . 245. 46 trano
e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia ,
dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei
singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo
storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è
d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore,
deve avere riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni
economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non
è ottima, nè buona : è male e dolore . Gli uomini sono buoni e cattivi,
generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il
legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno
dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda
non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi
dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo
le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le
apparenze della regolarità e dell'ordine » ( 1 ) . È un consiglio di este
riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità . « Quelle leggi sono più
rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi »
( 2 ) . Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione,
interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e
dovrà egli compor tarsi ? .Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto
si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi , che convien
conservare ; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia
molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu
libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto
più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari ; perchè non mai tanto,
quanto tra le avversità , ci son care le memorie dei tempi felici . Quanto più
il governo che voi distruggete è stato ( 1 ) Framm . III , p. 246. ( 2) Framm.
III , p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi
costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo,
l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha
rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed
obbliare gli antichi » ( 1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde
completamente : l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è
trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si
possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un
culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della
nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori ;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro
, che vorrebbero distruggerlo , non si avvedono che distruggerebbero in tal
modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale ? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano : facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo , il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno . Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
( 2 ) . Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi ( 1 ) Framm .
I , p . 220 e sg. ( 2 ) Framm . I , p . 221 . 48 che non sono nella natura, ma
nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la
infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e
che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col
suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali » ( 1 ) . Vincenzo Cuoco ci
si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo ;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » ( 2 ) . Essa è qualcosa di più profondo : è il popolo, il quale
da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità . « E chi non sa i suoi diritti ? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse : la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a
venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » ( 3) . Ciò è
possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga
quella umana felicità , alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono
da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie
debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed
operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione,
i suoi costumi, il suo carattere . Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo ;
ecco perchè Cuoco ci dice che egli ( 1 ) Framm . I , p . 221 . ( 2 ) Framm. II,
p. 233. ( 3 ) Framm . II , p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica
naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far
dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza
( 1) . Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed
in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G.
Zito ( 2 ) , « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove
davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza
deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da
noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di
giudizio » ( 3 ) . Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e
solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo . Il suo vichismo non è
coerente a sè stesso , e risente gli influssi esterni, e , se pure gli studi
suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e
presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno
Stato » ( +) , è certo però che il grande autore del Processo criminale si
mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione . Dare la
costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso
assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di
oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La
costituzione non può essere una sovrastruttura , che i dirigenti impongano ad
un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle
coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle
armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi
molteplici bi sogni, ne ' suoi desiderî , ne' suoi costumi , ne' suoi pre ( 1 )
B. CROCE, La rivoluzione napoletana , p. 87. ( 2 ) G. Zito, Vita cd opere di
Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901 , passim . ( 3 ) M. ROMANO, op.
cit. , p. 61. ( 4 ) ROMANO, op. cit . , p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa
gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli
non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo
benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle
vesti : è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo
abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi
è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non
possa trovare un uomo difforme cui sieda bene ; ma, se vuoi fare una sola veste
per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di
Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più
secco , più grasso, e non potrà far uso della tua veste » ( 1 ) . Non esiste un
ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti
. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono e quali
eternamente saranno, pieni di vizi , pieni di er rori ; imperocchè tanto è
credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una
seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e
variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare
il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa » ( 2 ) . I due raffronti
con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza
mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei
bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi,
usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti
e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l'impulso
di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività , e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività,
della ( 1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI , edito dal Laterza di Bari,
che come tutte le altre ed . cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V.
Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm.
seguita dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese,
Framm . I , p. 218. ( 2 ) Framm. I , p. 219. 43 sono sua coscienza, non già il
saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle
costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori.
Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non
andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere
felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla
loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi,
di religione e di ferocia . Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della
critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni,
non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e
lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso
! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor
fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con
intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterra il
Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in
Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin
cípi , che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà
nell'operetta : Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la
giurisprudenza . Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno
sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è
transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando
già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un
certo parallelo c'è : il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne
d'italianità ; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non
può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e
Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la
questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più
innanzi, ma il parallelismo non manca . Che cosa è il diritto per il Sa vigny
che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut
? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il
diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che
consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling : il
principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire,
si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura
nell'infinita sua produttività , concepita non più come mero oggetto, ma come
soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo
di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima
conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura
trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica
che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima ( la Volkseele dello
Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il
diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta : se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa , viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione : la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta , come
ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa
compilare un progetto di costituzione. Ma come ? Il legislatore deve
interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il
principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma
da sè » ( 1 ) . Ciò non nel ( 1 ) Framm . I , p. 218 , 33 civile. Aggiungiamo a
ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo
detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della
sua critica . Ma la causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra
tutto, innanzi tutto spirituale culturale . Che cosa è la rivoluzione per lui ,
nutrito di studi con creti d'economia e di storia ? La documentazione della
risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi
del movimento sovversivo , dovesse pensarla come si espresse in seguito,
altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica
scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al
Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio,
nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive : « Come va il mondo ! Il re di Na
poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto ; i francesi conquistano il di
lui regno e poi l'abbandonano ; il re ritorna e dichiara delitto capitale
l’aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui . Tutto ciò è avvenuto
senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi
potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia
venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita,
non era destinato a venire, e che quivi , per non aver altro che fare, sia
diventato autore . Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos : possa tutto
esserlo per lo meglio ! » ( 1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è
svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia
intervenuto . L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il
Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i
nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non
compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio,
esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui
quasi intende prevenire il giudizio della ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , p.
11 . 3 E. BATTAGLIA . 34 posterità sugli avvenimenti , di cui è stato
spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro
che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito , a meno che la ragione e
l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria ; racconto
avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un giorno
non ultima parte ; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso,
che non voglio ingannare » ( 1 ) . Dunque di fatto l'autore stesso accetta la
partecipa zione. Che vuol dire ? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la
coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che
ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del
popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità
del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da
contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello
stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè
la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente,
perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra
ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i
Borboni e i loro fa voriti , incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione
per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per
caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti . Egli non ne
condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per
tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua
posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi
possiamo, come la rivoluzione stessa , chiamare passiva ( 2 ) . Nè basta ! Egli
vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana ; che gli uomini,
che sono alla testa della cosa pubblica, sono più ( 1 ) V. Cuoco , Saggio
storico , I , p. 16 . ( 2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico , VIII ,
p. 47 ; XV, p. 84 ; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi,
che s ’ astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un
bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni
concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole
essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il
Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo : fin dai primi processi del
'94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con
sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente,
se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio
sati ( 1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di
Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto
ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità
d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come
qualche storico vuole ( 2) , ad un vero e proprio antifrancesismo ,
antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano
contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica,
nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui
parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci
la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non
l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri
del Saggio storico ( 3 ) . ( 1 ) M. Rosi, op. cit. , v. I, p. 206 e sgg.; B.
CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie
sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi , sulla morte
eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. ( 2 ) P. HAZARD, op. cit. , 219 e sgg. (
3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una
questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto , ma su
cui mette conto indugiarsi , poi che la figura del nostro dal contrasto
s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo
sito di due sue lettere inedite , pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo
che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la
legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana , v. VI, ( 1901), p.
193 e sgg. , getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere ,
sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro autore, sono state
alui date dal signor L. A. Trotta di Toro ( Molise) . « In tutte e due le
lettere » , scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello
[Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi , dei progetti , delle
speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non
perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a
raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva ,e
per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli
studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava
facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli
inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu , lare, siccome
avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! » . Cosi il Tria : e tutto
ciò , perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio,
rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi
su alcune frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche
sull’uomo poli tico . Vediamo prima di tutto le frasi incriminate . In quel
tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a
concedere al Cuoco il perdono , ma egli lo rifiutò . « A che ritor nerei io in
patria — scrive l’esule al fratello . - Se io fussi reo, accetterei un perdono
: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto
esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli
odiava, ma a cui era im possibile resistere ; un uomo in cui l ' amor della
patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer
tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo »
. Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno
alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli
annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse
il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata
col nome di vortice . « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di
pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli
atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era
reso benemerito della patria ; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di
lotta, di patimenti, li rinnega » . Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria ,
tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle
ap parenze ci si abbandona ad esse , senza penetrare nello spirito 37 potè
volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e architetto un
progetto . Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo
: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario
Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari ( 1 ) , ed è diviso in un Rapporto
del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo
stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri
dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la
quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici . Per mezzo di
Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi
rispose coi Frammenti ( 2 ) . di uno scrittore. Potremmo a questo punto
intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo,
per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro ,e perchè già
fatta da N. RUGGIERI, op. cit. , p. 34 e sgg . e da M. ROMANO, op. cit. , p. 51
e sgg. , i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la
complessa figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo
punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco , che
, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un
punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso
trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera
essenza del popolo nostro. ( 1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano
l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe
napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore,
note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, GIUSEPPE LOGOTETA e GIUSEPPE
CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. ( 2 ) I
Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi
proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non
mi sembra facile , che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del
resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op . cit ., p . 17 , li crede an
ch'egli , scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua
monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla
bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco
stampa il Saggio con l'ap . pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a
Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La
critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida
netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due
parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano
a lui indirizzate. Si dirà : una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco,
amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà : il Russo ha fatto
pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda
visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica
ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che
proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo
luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo
dell'estremismo che il Cuoco detesta ( 1 ) , proprio il Russo, il socialista
che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e
del nuovo ordinamento civile , come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere
assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica,
d'opposizione ad un si stema politico culturale . Sono, ripeto, l'una contro
l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e
fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più
realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla
storia la sua forza . Chi era Vincenzio Russo ? ( 2 ) . Basta leggere i suoi
Pen del Cuoco, ripubblicato conle sedicenti note del Lancellotti nella cit.
edizione napoletana del '61 . Il ROMANO, op. cit ., p. 22 e p. 62 e sgg. crede
i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana,
p. 108. ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg. , scrive a
proposito del Russo e del suo estremismo : « Certo , anche gli amici che gli
volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi
convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non
potevano appro. vare la via senza uscita per la quale egli si era messo » . ( 2
) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112 ; nonchè G.
DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza
ed ., Bari, 1922, p. 120 e sgg. , che ci offre una buona analisi del pensiero del,
39 sieri politici , sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (
1 ) un po ' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo
astrattismo . Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo
sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare , in cui ciascuno
possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di
sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni
legittime ; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla
repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi
cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza
a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra ; al qual
uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in
dustria, domestica e ridotta al puro necessario ; e il com mercio ridotto , del
pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta ;
l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai
princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale
vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa » ; e
quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città : una serie di piccoli
villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne
quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di
oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come
termine ultimo, la « Società universale » ( 2 ). Era nel Russo, come in molti
rivoluzionari, special l ' insigne martire del '99, specie nelle sue
derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau . Un sunto delle dottrine del Russo ci
of. frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815,
Milano, Vallardi, s . d. , p. 167 e sgg . ( 1 ) Il giudizio ( Saggio, L , p.
209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti
che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e t'avrebbe
resa anchemigliore, rendendola più moderata » . In quel miglio ramento nella
moderazione sta tutto Cuoco ! ( 2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e
sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di
romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di
naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella
e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica
petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il
Russo e la sua opera ( 1 ) , non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo
e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare
il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità ; troveremo, invece,
contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un
regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto ( 2 ) .
Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive : « Io non ho volta la mente
nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste
legislazioni : ho consul tato nelle cose stesse la verità » . Quindi un
desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare
la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili,
concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il
Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno,
non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i
Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra
tizzazione sistematica , educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i
popoli, sono quelli della generalità, ( 1) La prima edizione dei Pensieri
politici è dell'anno 1798 , allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a
Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo,
napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita
repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (
Milano, anno IX , Tip. Milanese in Strada nuova , n. 561) ; e poi ancora a
Napoli nel 1861 ( ed. a cura del D’Ayala) e nel 1894 ( ed. a cura di B. Peluso
con pref. di E. De Marinis ) . Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole
tana , p. 98, p. 112. ( 2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41
forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo
fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente
vissuta un istante di antica debolezza ( 1 ) . Queste esagerazioni non sono
proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano . Ma, come bene
osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito ( 2) , « mentre all'inizio
del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la
calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva propria del tempera mento
francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono
sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » ( 3) . Ed è proprio così !
Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue
l'andazzo . Il suo vichismo non è coerente a sè stesso , e risente gli influssi
esterni, e , se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, «
giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa,
nell'attrito reale del governo di uno Stato » ( 1 ) , è certo però che il
grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera
della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande
che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi
non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di
Aristo tele . La costituzione non può essere una sovrastruttura , che i
dirigenti impongano ad un popolo , perchè le costi tuzioni non si dànno ab
externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si
impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili . Il popolo è una realtà concreta
viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi desiderî, ne' suoi
costumi, ne' suoi pre ( 1 ) B. CROCE , La rivoluzione napoletana, p. 87 . ( 2 )
G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901 , passim
. ( 3 ) M. ROMANO, op. cit . , p. 61. ( 4) ROMANO, op. cit. , p. 63. Il
giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro
condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non
intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. «
Le costituzioni sono simili alle vesti : è necessario che ogni individuo, che
ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria , la quale , se tu vorrai
dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni
nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene ;
ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia
misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior
numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della
tua veste » ( 1 ) . Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono
relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per
gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori ; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro
costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni,
che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio
che pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa
» ( 2 ) . I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico ,
sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e
costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui
parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi . Le costituzioni non
si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono
da sè, sotto l ' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva , o più
vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un
interprete di essa collettività , della ( 1 ) Seguo il già citato testo del
NICOLINI , edito dal Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane,
porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci
tazioni basterà quindi la sigla Framm . seguita dal numero d'or dine I o II
ecc., e dalla pagina dell'edizione barese. Framm. I , p. 218 . ( 2 ) Framm. I ,
p. 219, 43 1 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa
pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli
uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare
deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo,
che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere
felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto
di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia .
Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia
mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un
pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di
Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell'
infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze,
con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali,
scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni
sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso
anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta : Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti
nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte
della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è : il nostro si ricollega
al Vico, tradizione perenne d'italianità ; il Savigny parla di una coscienza
giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia
idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione . Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut ? Non certo un quid astratto , vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling : il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto , ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto . Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima ( la Volkseele
dello Schelling) , che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica . Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili , nel Savigny è
applicato ad una questione concreta : se convenga im mobilizzare il diritto ,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione , legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come ? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno . « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (
1 ) . Ciò non nel ( 1 ) Framm . I, p . 218 . 45 senso che le costituzioni siano
una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta
realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling,
la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco , più
concreto e positivo , i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile . « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla » . « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » ( 1 ) . Costoro,
ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante ; deve sorgere dopo mature riflessioni ,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione ; e mentre con questa
si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » ( 2 ) . Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » ( 3 ). Il Cuoco , se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza
; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene ( 1 ) Framm.
I , p. 219 . ( 2 ) Framm. III , p. 245 . ( 3 ) Framm . III , p. 245. 46 trano e
sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia ,
dominio della volontà parti colare . La legge, che astragga dalla volontà dei
singoli, è mera parola, generalità senza significato . Siamo lon tani dallo
storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è
d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore,
deve avere riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni
economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo . La vita non
è ottima, nè buona : è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi
ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » ( 1 ) . È un consiglio di este riorità . Poco importa ! Le
plebi amano l'esteriorità . « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che
con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » ( 2) . Dunque, ammesso che
un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile
le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi ? Un popolo
ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare ; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero . Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta ... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari ; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici . Quanto più il governo che voi distruggete è
stato ( 1 ) Framm . III , p . 246. ( 2) Framm. III , p. 246. 47 barbaro, tanto
più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo,
urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince
rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti
ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello
sviluppo storico nulla si perde completamente : l'evoluzione vitale degli
uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto
la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico
. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de '
filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che
rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come
colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le
manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi
avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano
, sono preziosi per un legislatore saggio , e debbono formar la base dei suoi
ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli
viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso
grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che
distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio
d'ordine so ciale ? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori
antichi facevano : facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli
son sempre i loro antichi. Un popolo , il quale cangiasse la sua costituzione
per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una
costituzione all'anno . Ma, per buona sorte , un tal popolo non esiste che
nella fantasia di qualche filo sofo » ( 2 ) . Un legislatore quindi può
realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na
zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non
il sistema costituzionale da princípi ( 1 ) Framm . I , p. 220 e sg. ( 2)
Framm. I , p . 221 . 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi.
« Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della
natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non
le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale
pretende medicar tutt'i mali ( 1 ) . Vincenzo Cuoco ci si presenta come un
tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè
si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare,
perchè non sempre si può ricostruire ; non bisogna aprire un novus ordo, perchè
i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su
quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre
soluzioni di continuità , riformare e non distruggere. « Io non credo la
costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino » ( 2 ) . Essa è qualcosa di più profondo : è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti ? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore ; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli
, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » ( 3 ). Ciò è possibile solo
in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato . Le rivoluzioni nascono da un
malessere economico generalizzato . Le costituzioni post - rivoluzionarie
debbono ristabilire l'equilibrio , il benessere, l'armonia , la vita pa cifica
ed operosa . Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della
nazione, i suoi costumi, il suo carattere . Ecco perchè Cuoco ci dice che, se
egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e
conoscerlo ; ecco perchè Cuoco ci dice che egli ( 1 ) Framm . I , p . 221 . ( 2
) Framm . II, p . 233. ( 3 ) Framm . II , p . 233. 49 vuol ritornare
all'antico, e all'antico ricollegare il pre sente, perchè il popolo ama le
antiche istituzioni, che in passato gli han pure dato felicità ; ecco perchè il
Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove le istituzioni antiche non
rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra dizionalista all'eccesso, laddove la
mania novatrice cerca distruggere istituti e norme consacrate da secoli. Questi
i convincimenti del critico . Ma che cosa in vece era avvenuto a Napoli, qual'era,
com'era la costi tuzione che Mario Pagano aveva elaborato ? Ogni po polo ha una
individualità ineffabile. Il popolo napole tano, quindi, ha pur esso una sua
natura specifica, che risulta da un complesso di cose. Parliamo perciò , dice
il Cuoco all'amico Russo, « della costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni
di Napoli, ai feroci calabresi, ai leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a
tale altra simile genìa, che forma nove milioni novecento novantanove mila nove
cento novantanove decimilionesimi di quella razza umana che tu vuoi tra poco
rigenerare » ( 1 ) . Cioè discendiamo ai fatti, al concreto , vediamo se il
progetto costituzionale del Pagano risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri
sponde risolutamente : « Per questa razza di uomini par mi che il progetto
donatoci da Pagano non sia il migliore. Esso è migliore al certo delle
costituzioni ligure, romana, cisalpina ; ma al pari di queste è troppo francese
e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano è costrutto colle materie che la
costituzione francese gli dava : l'architetto è grande, ma la materia del suo
edifizio non è che creta » ( 2 ). Il Pagano, nonostante il suo vichismo, è
caduto nell'er rore tipico di tutti i rivoluzionari alla francese, ha cre duto
in un ottimo che non è ; ha creduto negli immortali princípi che le masse non
intendono, poi che gli uomini sentono solo i bisogni e non i princípi che
parlano al l'intelletto di pochi ; ha fatto quella, che il critico mo lisano
chiama una costituzione da tavolino ; « e quindi ne è avvenuto, che siesi
perduta la vera cognizione delle ( 1 ) Framm. I , ( 2) Framm . I , p. p. 220.
220. 4 - F. BATTAGLIA . 50 cose e della loro importanza » ( 1 ) . E nel
dispiacere del fallimento, che al nostro appare evidente, c'è una punta
d'ironia , che al lettore è facile avvertire pur nell'amiche volezza
dell'espressione : « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice il Cuoco al Russo «
di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede
possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una perfettibilità infinita.
Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori: travaglia a renderci
angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint- Just. Per ora
contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa rendere meno
infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder mio, dovranno
ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno » ( 2 ) .
Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è un
illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco
rimprovera al suo Pagano , non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il
nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione
nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto
repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi
errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo
astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per
mezzo di un sillogismo ; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più
uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » ( 3 )
. Di ciò il molisano dà un esempio concreto . In Francia si volle stabilire
come norma costituzionale il diritto all'insur rezione . Ma senza quelle
circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese
dell'antichità , ove simile norma era stata applicata , essa non poteva pro
durre che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo
attaccato, in barba ad ogni princi F ( 1 ) Framm. III , p . 241 . ( 2 ) Framm .
I , p. 220. ( 3 ) Framm. III, p. 247 . 51 pio legale. « Per buona sorte della
Francia » commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con
Robe spierre » ( 1 ) . Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile,
viva, parlante. Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come
un inglese si avvede delle infrazioni della Gran carta . In vece di questa,
immagina per poco che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino : essi allora non avreb bero avuto la bussola che
loro ha servito di guida in tutte le loro rivoluzioni . I romani eccedettero
nella smania di voler particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono
dei loro diritti un peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori,
evitiamo, anche gli ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon
tani dai sensi. Se la molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel
quale si smarrisce il sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali
rassomigliano le cime altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli
oggetti sottoposti » ( 2 ) . Questi sono gli errori dei francesi.
L'esasperazione dei princípi dovea portare necessariamente agli errori fatali.
Questa è l'idea che il Cuoco ha della costituzione francese del 1795. Una «
costituzione è buona per tutti gli uo mini ? Ebbene : ciò vuol dire che non è
buona per nes suno.... » ( 3 ) . Il Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli
stessi errori. Seguiamo il nostro autore nel suo excursus e nella sua critica
minuta del progetto ; ma per intendere come egli colpisca nel segno, e come i
Frammenti siano una meditazione veramente profonda, una critica sincera e non
sistematica, rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che
precede la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo
opera di Mario Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e
( 1 ) Framm . III , p. 247 . ( 2) Framm. III , ( 3) Framm . I , p . 219. p.
247. 52 che slanciando lo sguardo nella incertezza de ' secoli av venire ,
guardi a soffocare i germi della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più
difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi
dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne presentarono i
principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e sagge ne
supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e colla energia
dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi avea già dati
l'America in questa , diremo, nuova scienza, formando le costituzioni de' suoi
liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato straordinario amore
di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una delle migliori
costituzioni che siansi prodotte finora » . Fin dalle prime battute si sente
l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di rifarsi ai prece
denti generici ( 1 ) . Il Comitato di legislazione « ha.... adottata la costitu
zione della madre repubblica francese. Egli è ben giusto, che da quella mano
istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse eziandio la legge, custode e
conservatrice di quella . Ma riflettendo che la diversità del carattere mo
rale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situa zione delle nazioni
richiedono necessariamente de' cam giamenti nelle costituzioni, propone alcune
modificazioni, che ha fatte in quella della repubblica madre, e vi rende conto
altresì delle ragioni che a ciò l'hanno determinato » . La derivazione è
confessata , e con essa l'astrattismo. Senonchè il Pagano afferma una esigenza,
che in lui na poletano e vichiano, deve essere sincera, ma che resta poi in
pratica insoddisfatta : tenere conto dei bisogni pe ( 1 ) L. PALMA, I tentativi
di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia , a .
XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p . 441. Il Palma ci offre una
buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto alle altre
costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica di essa ,
critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla costituzione
del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit. , Milano, Vallardi, s. d.
, p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si provvede; e nel
resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè un mero teorico.
Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co stituzioni, è la
dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un diritto, ma la base
di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. « L'uguaglianza è un rapporto, e
i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare, che la legge di natura , cioè
l ' invariabile ragione e cono scenza de ' naturali rapporti, ovvero la positiva
legge sociale, accorda a ciascuno » . Sembra di leggere un trat tato di
filosofia giuridica e non un rapporto di un comi tato legislativo, che presenta
un progetto di legge . « Da tal rapporto d'uguaglianza di natura , che avvi tra
gli uomini, deriva l'esistenza, e l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini
simili , e però uguali tra loro, hanno le medesime facoltà fisiche e morali : e
l'uno ha tanta ragione di valersi delle sue naturali forze, quanto l'altro suo
simile . Donde segue, che le naturali facoltà indefi nite per natura , debbano
essere prefinite per ragione, dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che
gli altri possano benanche adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i
dritti sono uguali ; poichè negli esseri uguali, uguali debbono essere le
facoltà di oprare. Ecco adunque come dalla somiglianza ed eguaglianza della na
tura scaturiscano i dritti tutti dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti » .
Io qui non istò a riferire come Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto
della propria conservazione » derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di
servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la
resistenza all'oppressione » , modificazioni tutte del primitivo innato
diritto, che l'uomo ha di na tura, il conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa
con una logica impeccabile filosofica e giuridica, e noi non sap piamo che
ammirare la grandezza di uno spirito geniale e deplorare la sua morte immatura
e tragica. Le defini zioni paganiane sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà
! « La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e
fisiche come gli piace, colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri
di far lo stesso » . Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce
di lì . Dal primo fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la
proprietà reale è una emanazione e continuazione della personale » . Gli stessi
diritti ci dànno i doveri ; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i
doveri dei magistrati e dei pubblici funzionari, e così di seguito . Nè mancano
sani princípi costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e
vichiano senso della dinamicità delle costituzioni , che, sebbene carte sacre
di un popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che
la vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme
naturali nel loro stesso seno . « La società vien formata dalla unione delle
volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia
de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità , e l'unione
de' consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica
autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar
l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi
interessi, ma demo cratica sempre ; quindi il dritto di ogni cittadino di es
sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa
della Patria ; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii,
che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono
vittime consacrate al pubblico bene » . E dire che ancor oggi questo principio
della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello
spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un
terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota
forma senza contenuto materiale , vuota forma premuta da esigenze nuove, e ,
purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto
passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità
ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è
che il direttorio o potere esecutivo francese ; in quella distinzione tra
assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime ; in
quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato
moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di
costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare
pienamente giusti ficata e altamente vera . Essa non si limita ad appunti
d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una
nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato,
di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo .
La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e
l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il
popolo stesso era legi slatore : negli Stati moderni, che trascendono la greca
Tól.is , la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio , il
popolo sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La
costituzione del Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per
mezzo di un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali
spetta il compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito
il compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è
assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al
Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della
nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui
dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non
accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva
dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante
l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e
non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e
generale, finisce per essere astratta e generica . Tutte le deficienze del
sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano
al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non
era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai
fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La
nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son
quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni ; avanzi di antica
sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei
baroni e del fisco. È per me un diletto ( e qui il Cuoco pensatore diviene un
pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un
popolo intero riunito discutervi i suoi interessi , difendervi i suoi diritti,
sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose : così i pacifici abitanti
delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità ; così il più grande,
il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte
dell'universo » ( 1 ) . Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più
naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un
giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione
millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò . « I
municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al
governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato
» ( 2 ) . Ma il Cuoco si spiega tutto . La storia insegna molte cose. L'ac centramento
in Francia è naturale : questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei
comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato
l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa . In Italia il
comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente romanità
contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato,
perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato
entro gruppi politici più vasti , come il principato o signoria e lo stato
monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente ( 1 )
Framm. II , p. 223. ( 2 ) Framm . II , p. 224. 57 che questo è il suo pensiero.
« Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità : essi non
ne aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non era nè
sicuro nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al sistema
nostro . Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette neanche
che si retroceda ; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso
sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto a
dolersi di un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti suoi
di ritti ! » ( 1 ) . Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua base il
comune, è il più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione
prima di quei bisogni complessi che abbiamo detto essere la base
imprescindibile di ordini durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni
del comune, funzioni varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più
immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari primordiali di una gente ! «
Ciascuna popolazione dunque, convocata in parlamento ( questo nome mi piace più
di quello di assemblea : esso è antico, è nazionale, è nobile; il popolo
l'intende e l'usa : quante ragioni per conservarlo !), eleggerà i suoi
municipi. Essi avranno il potere esecutivo delle popolazioni, saranno i
principali agenti del governo, e dovranno render conto della loro condotta al
governo ed alla popolazione. La loro carica durerà un anno. Tu vedi bene che
fino a questo punto altro non farei che rinnovare al popolo le antiche sue
leggi » ( 2 ) . Tutto trova la sua consacrazione nella storia italiana.
Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre attribuire tanto potere
da assicurargli la possibi lità di vivere e di prosperare, vale a dire occorre
dargli una vera e propria autonomia amministrativa . « La mia prima legge
costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della repubblica riunita in
solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni particolari quelle determi (
1 ) Framm . II , p. 224. ( 2 ) Framm . II , p. 225 . 58 nazioni che crederà le
migliori ; e le sue determinazioni avran vigore di legge nel suo territorio,
purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl ' interessi delle altre
popolazioni » ( 1 ) . La legge è la volontà generale. Ogni individuo ha d'al
tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua legge e la sua
libertà . Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il suo
ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e s'acuisce
un fa tale dissidio tra le due volontà , la generale e la partico lare, tra lo
Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità e
l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al
disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi
pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica . La legge, quindi, nella sua
stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto
più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma
che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata.
Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s '
ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge
nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale.
Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo
Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti
siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino
interessano . Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo
ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni
uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve
esser permesso ad una popolazione ? Perchè mai, se una popolazione abbia
bisogno di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una
nuova contribuzione da' suoi ( 1 ) Framm. II , p. 227 . 59 cittadini, ci sarà
bisogno che ricorra all'assemblea legi 4 slativa , come prima ricorrer dovea
alla Camera ? Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im
pazienti del giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri , i quali sotto
nuovi nomi riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica
oscitanza ? ... » ( 1 ) . È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà
dell'indi viduo. L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune,
la sua espressione diretta , poi che il comune è a lui più vicino , è la
immediata manifestazione della sua sovranità di cittadino . Si dirà al Cuoco :
ma anche la legge, la volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una
convergenza di consensi e di volontà particolari ; che anche lo Stato opera sul
fondamento del diritto , e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma
del di ritto, in quanto ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero
volere della collettività ; ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità
affermata dal mo lisano . La volontà generale che s ' esprime nello Stato è
lontana dai sensi del cittadino, in quanto la sua realtà concreta è una
formazione etica di volontà mediata, ond' essa è lontana dalla possibilità
d'esaurire tutta la complessa natura della nazione; mentre la volontà che si
estrinseca negli atti del comune, alla quale il Cuoco vuol dare carattere di
legge, surge spontanea dalle più intime fibre dell'anima popolare, realizza
bisogni vera mente profondi, parla infine ai sensi e alla fantasia, di quegli
elementi de' popoli, che vichianamente possiamo considerare eterni fanciulli ed
eterni primitivi. I risultati pratici di questo sistema sono incalcolabili . «
Quante buone opere pubbliche noi avremmo, se più li bero si fosse lasciato
l'esercizio delle loro volontà alle popolazioni » ( 2 ) . Vi sono paesi per i
quali, esemplifica l'autore, un porto, una rada è indispensabile, e che, in
pochi anni, sotto la pressione di esigenze inderogabili, avendo sufficienti
libertà, lo costruirebbero : ebbene, que ( 1 ) Framm. II , p. 229. ( 2 ) Framm
. II , p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi, posto un freno all'iniziativa
individuale, attendono dal governo quel che non viene . Si potrebbe obiettare :
ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un federalista ! No.... Il Cuoco
stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto tra autonomia e separazione, tra
Stato su base decentrata e Stato fede rativo. L'autonomia non rinnega l'unità,
anzi la conso lida, mentre la federazione per popoli schiettamente par
ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un primo passo verso la
disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese, in cui gli organi
periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema federativo di Stati alla
sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie, ha un parlamento suo
proprio , c'è lo Stato unitario su largo decentramento amministrativo, e a
quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So gl’inconvenienti che
seco porta la federazione ; ma, siccome dall'altra parte essa ci dà infiniti
vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza perdere questi.
Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività individuale . Allora la
repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta l'attività nazionale
verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è che la somma dei beni
dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra tutt'i punti della terra.
Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un occhio solo, un sol braccio,
da un sol punto debba fare ciò , che vedrebbero e farebbero mille occhi e mille
braccia in mille punti diversi . Quest'occhio unico non vedrà bene, lento sarà
il suo braccio ; dovrà fidarsi di altri occhi e di altre braccia, che spesso
non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè agire : tutto sarà
malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione . Il go verno deve
tutto vedere , tutto dirigere » ( 1 ) . Nel sistema cuochiano l'attività
privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale e la
volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita ( 1
) Framm. II , p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a lui
più vicini agiscono in pieną indipendenza : allo Stato resta la funzione, che a
lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida e il
controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di natura
costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e cerca di
stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo umano e
crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile particola rità,
nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su questo mondo degli
uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme giuridiche attraverso cui
s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi fatal mente generali, hanno
origine da un processo d'astrazione, riferendosi non al singolo, ma ai singoli
in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai subietti per natura
diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta una norma unica
uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È fatale, non può
essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può divenire con
trasto , tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello Stato, cioè tra
la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è doveroso, colmarsi.
Ecco : lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà in forma giu ridica,
che non può non essere quindi generale ; ma in tanto i prodotti di una nazione,
dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi : una popolazione ha
solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e deve realizzare la
sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia e la ha realizzata
in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e così via.... « Ben
duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar nello stesso tempo, e
nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe se non ingiustizia ?
Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge, la quale abbia
tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori della tua repubblica
: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei tributi e farne la
ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in loro balìa la scelta
del modo di soddisfarla ; così la volontà generale della nazione determinerà
l'im posizione, la particolare determinerà il modo : questa non potrebbe far
bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » ( 1 ) . Tutto ciò è la
necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e senza una con
traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia sostenitore
d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede i princípi,
che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in loro
l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile ad
un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di
Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag
giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra,
e su questa realtà edificare il sistema . Per finire questo argomento, sul
quale mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco
va ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i
nostri circondari, ai dipar timenti o provincie . « La costituzione francese
confonde municipalità con cantone : cosicchè ogni cantone potrà avere più
popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità . Io distinguo due
parlamenti : uno municipale per ogni popolazione di un cantone ; l'altro
cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo
» ( 2 ) . Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla
divisione cantonale, qual'è p. 231 . p. 236. ( 1 ) Framm. II , ( 2 ) Framm. II,
La Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette
dipartimenti, che sono enumerati al tit. I , art. 3 del Progetto. L'articolo 5
al quale si riferisce il Cuoco dice : « Ciascun dipartimento è diviso in
cantoni , e ciascun cantone in comuni : i limiti de'cantoni possono ancora
esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza
di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia » . Il
titolo VII, art. 173, dice : « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale,
e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale » . 63 in Francia,
vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu
ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo , che io
vorrei fondamentale nella costituzione nostra ? Tu mi conce derai anche questo
secondo : se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno
provvedervi allo stesso modo ; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno
uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni
interessate » ( 1 ) . Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co
munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività
legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal
senso all ' intelletto , dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una
simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso , il
governo l'intelletto dell'organismo sociale . L'intelletto che agisce senza l'
esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la
direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo
l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute
dello Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale , che ebbe
Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni
anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al
can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari,
ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni : occorre che i comuni che
formano il can tone li risolvano insieme . « Imperocchè, avendo ogni po
polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che
talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » ( 2 )
. Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella
larga autonomia che assegna al comune. Perchè ? L’autore dei Frammenti non lo
dice , ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune ( 1 )
Framm . II , p . 235. ( 2 ) Framm . II , p. 236. 64 è una formazione naturale,
consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente
primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può
avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al
dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato
nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il
potere centrale ( 1 ) . Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi
vive nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni , che, dopo un
sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica
risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come
tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti
dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema
cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla Francia
. Nel '60 , occupando Garibaldi la Sicilia , alcuni patrioti, Crispi, Mordini,
agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del governo,
che li tacciarono di separatismo ( 2 ) . Il Cavour stesso, mente lucida e
serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi
regionali, che si presentavano da altri a lui vicini ; ed era natura lissimo:
egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e
centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno
origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito ( 1)
Questa è la ragione per cui l'autore ( Framm . II, p. 236) scrive: « Ma le
unionicantonali non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge
loro commette : inutile , inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti
che richiedes sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi
principi, potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia » . ( 2 )
M. Rosi, L'Italia Odierna, v. I , t . II , p. 988 e sgg .; M. Rosi, Il
risorgimento italiano e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma-
Torino, Casa ed . nazionale, 1906 , p . 228 e sgg. 65 troppo bene, per non
comprenderne il valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia
meridio nale c'è ancora un hiatus troppo vasto , perchè le stesse idee possano
germinare nel cervello positivo de gli uomini del nord e nel cervello
storicista degli uo mini del mezzogiorno. Notiamo : l'esperienza politica delle
due parti d'Italia è troppo diversa, perchè la com prensione sia facile. Il
comune nell'Italia settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di
fazione, mentre nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali
d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove
nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc
cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il
dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento
che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi
ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza
infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè
questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia,
perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo,
quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli
tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore,
che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione
storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera
di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale
spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia
segue una trama eterna , e questa trama non s'infrange. Scombusso latela ,
violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si
ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è
opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli
d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E , se pure vi
sono germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se
vuol significare fazione e 5 - .F. BATTAGLIA . 66 campanile, è superato da un
pezzo. Crisi vi furono, vi sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi
ammi nistrative politiche economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il
genio di alcuni ispirati, ha fatto l'Ita lia , la storia la guida nel suo
travaglio e la guida sicura, anche fra le crisi , di cui ho detto la natura,
senza il bi sogno di uomini, fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si
arrogano il diritto di rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla !
La critica , come ognun vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura
radicale : troppo francese e troppo poco napoletana ; per essere ottima men che
buona , mediocre; come quella francese del '95 per sancire gli immortali
princípi non discende alla vita positiva. I particolari dimostrano a
sufficienza l'astrattismo della concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti,
i quali il Pagano di vide in due gruppi : 50 membri formano il Senato, 120 il
Consiglio . Il Senato più austero e savio approva o re spinge ciò che il
Consiglio ha proposto. Il critico però sempre fisso ad una realtà che non
sfugge, l'elemento economico nella vita dei popoli, si domanda : a qual
divisione d'interessi corrisponda questa divisione di Ca mere : « In
Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo mini non sono eguali ; ha una ragione
anche in Ame rica, poichè, sebbene gli americani avessero dichiarati tutti gli
uomini eguali per diritto, pure – ed in ciò han pensato come gli antichi ( 1 )
non si sono lasciati illudere dalle loro dichiarazioni, ed han . veduto che ri
mane tra gli uomini una perpetua disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve
influir nell'esecuzione della legge, influisce però irreparabilmente nella
formazione della medesima. Gli americani han ricercata nelle ric chezze quella
differenza che gl'inglesi ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere
come.... Cuoco stesso . Il Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè
per una limita. zione plutocratica, come gli americani, o per una limitazione
di classe come gli inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica , e
lo proveremo appresso . 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo
sta bilimento americano » ( 1 ) . In sostanza, non essendovi nes suna diversità
di bisogni tra le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le
esprime, essendo uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione,
la distinzione non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza
del pensiero politico del no stro scrittore . La nazione napoletana, mentre per
il potere legisla tivo , offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana,
alla quale il giurista può rifarsi , non offre pari menti una forma indigena di
potere esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz
zare. Difficoltà questa più grave oggi , in cui le costitu zioni si creano a
tavolino nel pieno oblìo degli uomini . « Forse non siamo stati mai tanto
lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che
crediamo di averne conosciuti i princípi più sublimi » ( 2 ) . Non esiste una
costituzione giusta, una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o
meno rispondono ai bisogni di un popolo . Un popolo rozzo avrà una costi
tuzione rudimentale, la quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano.
Un popolo culto avrà una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli
utile . Perchè parlare quindi in via assoluta ? È questo un vero e pro prio
bisogno di ciò che tocca i sensi, il trionfo dello sto ricismo . La
costituzione è di per sè una mera forma, che è vuota, se tu non le dài un
contenuto di sensibilità umana, un contenuto essenzialmente storico, cioè dina
mico. Portate il diritto a contatto con la vita, e la vita vi darà la
direttiva, il metodo, i princípi ( 3 ) . Voi andate ( 1 ) Framm . II , p. 237 .
( 2 ) Framm. III, p. 241 . (3) Nel Platone in Italia ( a cura di F. Nicolini ,
Laterza, ed. , 1916, v. I , p. 45) il Cuoco scrive : « .... In Taranto si
disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli
ordini popolari , altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza
oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di questi tali;
68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal potere
legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la legge
: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che solo
una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla
costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi.
L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in
ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze
dipende dalle circostanze politiche di una nazione ; e bene spesso lo stato
delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo :
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » ( 1 ) . È facile ve dere ciò in concreto . Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa , e questo bisogno è vario ,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In
Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento
d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia
stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non
può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno
per mante nere un esercito . Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti ( anno 1689 ) , nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie , e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano , trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono
che in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici ,
diventate prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e
virtuosi. » ( 1 ) Framm . III , p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema
così com'è stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove : il
bisogno che Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il
mare difende le sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può
perciò benissimo essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre
non potrebbe essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora
dovesse ab bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta , unico e grande
presidio dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia ? Evidentemente no. A
Napoli ? Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di
rezione dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero
. D'altra parte quello stesso po tere esecutivo , che non ha energia
sufficiente per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un
collegio elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi,
nota il Cuoco, « invece d'indebolire i po teri, ... li rendevano più energici,
e così, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (
1 ) . Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una
delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed
ignorano il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in
un'ar monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di
educazione politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i
pregiudizi istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più
terribili despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo
.... » (2 ). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa
educazione, nello stesso senso civile del popolo . Una nazione ha, in sostanza,
il regime che si merita . A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per
soverchio amore di ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol
togliere alle popolazioni usi , co ( 1 ) Framm . III , p. 244. ( 2 ) Framm .
III , p. 244. 70 stumi, religione, per uniformarle ad una prassi desunta da
princípi, il déspota può darsi che sia accolto come un liberatore. Il concretismo
storico del Cuoco qui raggiunge le sue vette più alte . L'autore stesso dei
Frammenti, dopo pochi anni, dovette a lungo meditare su queste stesse analisi,
veggendo come i fatti avessero confermato le sue induzioni con l'avvento di
Napoleone al duplice trono di Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola
zioni stanche di regolarismo repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio
l'impero delle stesse leggi , perchè allora esse rimangono senza difesa . Le
leggi da per loro stesse son mute : la difesa la dovrebbe fare il popolo ; ma
il popolo non intende le leggi, e solo di fende le sue opinioni ed i costumi
suoi. Questo è il peri colo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filo
sofiche, e perciò senza base, perchè troppo lontane dai sensi e dai costumi del
popolo » ( 1 ) . Il popolo ha sue esigenze d'ordine e di regolarità, in
dipendentemente dall'ordine e dalla regolarità che gli si vuole imporre
estrinsecamente , e da queste esigenze na scono spontanei contrappesi
costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri . Vuoi che egli resti
attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore ? Devi sfruttare la sua
natura, pure i pregiudizi . Vuole solennità ? Dà alle leggi solennità quasi
jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la rispetterà e la farà
rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi, plasmato com'è da bisogni
materiali. Su una base economica e materiale riposa in parte la sua natura.
Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto nulla : il più forte
invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi , conflitti, pre dominii
. Per frenare la forza non vi può essere che un solo mezzo : dividere gli
interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia degli ordini civili,
poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà impedito a ( 1 ) Framm .
III , p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui. « Fate che il potere
di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro ; non fate
che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso modo ; talune
magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla
legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di
ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno ; tutte queste
varietà , lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so
stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano , temono un
rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » ( 1 ) .
Questa la vera sapienza costitu zionale : il resto è pregiudizio ed empirismo.
Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle
persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì , l'usurpazione, ma porta
seco la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due
consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza,
che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione » ( 2 ) .
Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza
per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della
legittimazione politica dell'impero napoleonico . Un altro punto
interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e
però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si
può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in
base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse
costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura : solo il tempo può
darci un giudizio definitivo . Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la
repubblica sia buona o cattiva . « Un re eredita rio» , dice Mably , parlando
della costituzione della Svezia , « quando non ad altro, serve a togliere agli
altri l'ambizione ( 1 ) Framm. III , p. 247. ( 2) Framm. III , p. 249. 72 di
esserlo ; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica
degli ordini liberi » ( 1 ) . In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è
detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali,
e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che
garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza
cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo
per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già
spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno
sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti
sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili , come ha voluto
dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben
poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il
legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali
dei subietti , sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando
d'ar monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la
censura, che rivive ed arieggia la censura latina ; c' è un secondo ufficio,
l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine
di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di
essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità
: non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga
l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto : molta
nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari
stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante,
imprudente... ? » . Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono
corrosi, la censura non potrà fare nulla di nulla . « Libertà ! virtù ! ecco
quale deve esser la meta di ogni legislatore ; ecco ciò che forma tutta ( 1 )
Framm . III , p. 250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla
libertà, così la natura ha segnata, per giugnere alla virtù , una via
inalterabile : quella che noi vogliam seguire non è la via della natura » ( 1 )
. La virtù, anch'essa, non è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui
ricondurre le norme della vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre
in un paese disgregamenti, e per essere troppo spartani o romani si può cessare
d'essere napoletani o milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in
cui ogni buon repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in
quarantottesimo, pronto a recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida
. « La virtù è una di quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite,
che si presentano al nostro intelletto sotto vari aspetti ; è un nome capace di
infiniti significati. Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del
cittadino : si può considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare
per i suoi effetti » ( 2 ) . Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo
concetto non può che riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare
a ben altro fine che ad una virtù superumana sublime, deve mirare a
stabilizzare un costume « che non renda infelice il cittadino » , deve cioè
trovare quell'armonica delimitazione tra libertà e libertà , tra volontà
partico lare e volontà particolare, che sola può rendere pacifica l'umana
convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddi
sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze » ( 3 ) . Il
nostro autore è un politico. A lui non in teressa l'universale etico, che
riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna ; a lui interessa la
morale po sitiva, che altro non è che la conformità del costume del ( 1 ) Framm
. VI , p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con quella che un valente
costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del Pagano, l'eforato e la
censura : vedi L. PALMA, op. cit. , p . 442 e sgg . ( 2 ) Framm. VI, p . 261 .
( 3 ) Framm. VI, p . 262. 74 singolo cittadino col costume della nazione ( 1 )
. Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che assicura una certa
non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile . D'altra parte il
Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare dati di fatto e
a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice hominis ( 1) Il
concetto che una costituzione politica può assicurare la felicità umana solo in
quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa alla sua volta
rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita (v: I, p . 87)
dice : « Ciò , che veramente è necessario in una città ; è che ciascuno stia al
suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e
l'altro , sono necessari egualmente la scienza e la subordinazione... -- Non
perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se volete istruirlo. Il popolo
non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica
se. verissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sem . brano
spesso frivole , ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire
che il popolo è ingiusto ? Quando si · tratta d'istruirlo , tutt' i diritti
sono suoi : tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe.... Tutte quelle
dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno bisogno di collegi,
d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di simili collegi. Sono i
primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini civili. I vo. stri misteri
di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa origine: ma nè sul principio
sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in età più barbara ; nè oggi
possono esser più utili, perchè resi troppo comuni. Come pretendete che
gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi siete tutti iniziati
? ... ) . « Non son questi, o Archita ) , disse allora Platone, « i soli mali
che jo temo per tali collegi. Essi talora possono separarsi dal resto degli uomini,
e perdersi o dietro astruse inutili contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi
che il rispetto del popolo loro dona. Questo male io temo ogni volta che si
separano le instituzioni morali dalle civili. Del resto la morale di Pittagora
è nell'in trinseca natura dell'uomo. Essa rinascerà , non ne dubito, sotto
altri nomi ed in altre terre. Rinascerà, quando la corruzione dei costumi e
degli ordini civili e la miseria generale avrà ridotti gli animi all'estremo
de' mali. L'estrema corruzione nei costumi de' popoli produrrà l ' estrema
austerità ne' precetti de' pochi saggi che allora vi saranno ; l'estremo de'
mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della temperanza, della virtù , e
risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i collegi di Pittagora. Possan non
separarsi mai dalle leggi e dalla società ! Possano non riunirsi mai con -
vincoli troppo tenaci ! ... » . 75 ad hominem proportio, la politica deve
andare più in là, assicurare una felicità presente, dalla quale sola può
scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della felicità, creare la
felicità futura e di conseguenza la virtù futura . La sferà del politico , pur
non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che non può vigere che
nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto pratica, anzi
economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione giuridica: La vita
umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e complesso è lo
spirito: La felicità politica , e quindi la virtù pub blica, ci appaiono come una
formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici, d'indole
spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri im
portante , l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il fine
della virtù è la felicità » ( 1 ) . Per un politico l'affermazione non suona
male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca
superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla
ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si
connatura con questå . « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze » . Sottentra l'elemento economico. «
Ma, siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla
felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo
le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro
certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere
dal resto del mondo : la sua economia è solo per astrazione individuale,
concretamente è economia collettiva sociale . I bisogni di quest'uomo sono
bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il
concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana
statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in
continuo sviluppo : il lusso, quel che ( 1 ) Framm . VI , p . 262. ( 2 ) Framm
. VI , p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi , null’affatto
superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso . Sorgono nuovi
bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non
sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi
bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le
nuove esigenze so ciali , la ricchezza ? La storia corre incessantemente il suo
corso ideale . Nuove età : nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive:
poi, di nuovo , equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e
bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate
nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi
continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un
nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute
economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra
forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci
insegnerai» , scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai
crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori
che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi
paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e
felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al
pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri
» ( 1 ) . Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico . Il molisano
è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema
: egli stesso dice al Russo : « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio
della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di
noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e
precetti, tra i libri e gli uomini ; e forse allora converrai meco che di
questa scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei
prin ( 1 ) Framm . VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (
1 ) . A me sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra
etica e pedagogia generale : quel che in una sfera ha un suo profondo valore è
insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico
fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del
governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e
quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono ;,e ne verrà à capo,
se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto
di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » ( 2) . Il governo deve
dare un vero e proprio impulso alla produzione : le forze giovani anzi che
dirigersi agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie,
ai commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci
mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo;
e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e
colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » ( 3 )
. È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la
realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza dell’empirismo,
respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la filosofia po
litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni
princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola , dovrebbe
insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af
ferma come antistorica ; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo
di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo
storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua
rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i
benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne'
suoi articoli ( 1 ) Framm . VI, p. 261 . ( 2 ) Framm. VI, p. 263. ( 3 ) Framm .
VI , p. 263. 78 milanesi . Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele
terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento
profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo
pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire . La critica del
progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che
nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un
antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge
alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione
francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi
para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella
fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare
alla ragione : la francese è la formula algebraica dell'americana » ( 1 ) . Ma
quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio
dimostrare . Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di
Alcinoo e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza , costituendo la così detta
Repub blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere.
« È difficilissimo giudicar di una costi tuzione . La migliore non è sempre
quella che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli : a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione ; e, se è simile, la rende vicina e durevole ; se diverso, la
indebolisce e la distrugge .... » . Qual'è dunque il principio che solo può
sanzionare la bontà d'una costituzione ? Noi lo sappiamo : il tempo, il quale
ci confermerà se essa risponde a bisogni concreti ; la storia, la quale ci dirà
se essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso , al quale
occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo
della vita non soffre soluzioni di con ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p.
39 . 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la
norma di quelli che ancora debbono ve nire » ( 1 ) . ( 1 ) L'articolo è
intitolato La costituzione della repubblica set tinsulare ; Giornale italiano,
1804 , 15 febbraio, n . 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro
avrò frequente bisogno di rifarmi al Giorn . ital. , in cui c'è il meglio
dell'ingegno po litico del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome,
peraltro , molti dei più significativi articoli del foglio milanese sono stati
ristampati in appendice alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del
caso, darò tra parentesi, dopo le indicazioni dirette del Giorn . ital., le
indicazioni delle ristampe. Altri cinque articoli cuochiani sono stati
ripubblicati da G. Gen tile insieme col Rapporto al re Murat e Progetto di
decreto per l'ordinamento della Pubbl. Istruzione nel Regno di Napoli col
titolo di Scritti pedagogici inediti o rari (Roma-Milano, Albrighi e Se gati
ed. , 1909) . Allorquando poi il mio lavoro era già compiuto sono usciti alla
luce due altri volumi contenenti quanto di V. Cuoco rimaneva disperso : Scritti
vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI, Bari, Laterza ed. , 1924. Forse
sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti gli scritti del Giorn. ital. ,
ma gli egregi editori non hanno creduto di farla, limitandosi a ripro durre per
intero ben ventisette articoli, e sono i maggiori, e a dare, a mo' di
appendice, un catalogo ragionato degli altri ri . masti fuori. S'intende che io
ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione laterziana, che, dal punto di vista
della correttezza , offre i maggiori affidamenti. CAPITOLO III . Il « Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana » . Il Saggio storico mostra in atto il
sistema negativo ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista . – La .
Rivoluzione francese è attiva, quella napoletana pas siva . L'astrattismo . -
La corte e il governo. – I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio . I
Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte
le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una
vera e propria formulazione di princípi filosofici giuridici economici, che
Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza storica e politica insieme, antica e mo
derna nello stesso tempo. Larghi sono i raffronti tra le costituzioni classiche
e le odierne, tra costituzione odierna e costituzione odierna, e la critica si
svolge tra compara zioni ed appunti acutissimi. È l'opera di una eccellente
testa politica, che ha legittime pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è
un ordine logico ferreo, una disciplina storica, una consequenzialità
impressionante. Avremmo desiderato che questo sistema in abbozzo il Cuoco
stesso avesse sviluppato, ma noi posteri, ammirando la sua eletta figura , non
possiamo domandargli più di quanto ci ha dato, se non nel dolore di vedere
quanta parte del suo genio sia andata dispersa nell'esilio, nella po vertà e
infine nelle malattie . È il libro d’un pensatore 81 che ad una astratta
ideologia oppone il suo paesano realismo storico . Vincenzo Cuoco assiste allo
svolgersi degli avvenimenti, giudice imparziale, ma non per que sto inattivo e
mutolo , e vede la storia rinnegare i suoi ideali, l'errore trionfare e
fatalmente sommergere l'edi fizio repubblicano. La vita segue una via che è
fatale che segua. L'errore trae l'errore, l'estremismo l'estremi smo.
L'astruseria rivoluzionaria forza le cose , e la storia sembra calpestare lo
storicismo, i princípi, che la specu lazione ha desunto e desume
dall'osservazione del suo eterno corso . La storia sembra seguire uno
spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo, invece, come,
superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità cuochiane :
sarà il periodo del Giornale italiano , il periodo napoleonico dell'impero . «
L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi
affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono : a forza di
voler troppo esser libero , l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano : a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra . Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso
della libertà, se non che accelerarne il cambiamento ? » ( 1 ) . « Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita
senza saper ove fermarsi : corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo » ( 2 ) . Tale è la vita : dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa :
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando ; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia : la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVIII, p .- 99. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XVIII, p. 102. 6 F. BATTAGLIA . 82 ristabilisce, si
riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De
Ruggiero, affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato
alla negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della
vita storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica
degli avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica
arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori
stessi un latente spirito di verità ( 1 ) . Questa, infine, la ragione
dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do
veva necessariamente finire, data la sua natura , le sue premesse, i suoi fini,
nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più
dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino,
sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo
, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi
sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni
millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale,
l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella
sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento
implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito , dell'idea, che muove
gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della
stessa realtà : « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita
nell'atto stesso della negazione » ( 2 ) . La critica dell’astrattismo razionalistico,
che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel Saggio è
mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia . È la
storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico determinato
dai princípi e dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e d’una
mentalità. La storia sembra dire : queste norme hanno portato a tale orribile
scioglimento, giudica tu , lettore, della loro bontà ! ( 1 ) G. DE RUGGIERO,
op. cit . , p. 167. ( 2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto
quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi
Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia greca ( 1) . Ed il raf fronto
non è davvero stiracchiato . La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto
dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno
determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog
giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile . Sono essi, gli uomini, che
determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto
motore ? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed
effetto : gli uomini, che fanno la storia , soggiacciono ad essa. Il Cuoco
parla spesso di un vortice ( 2 ) , in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè
districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli
non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul
palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è
altro che la rivoluzione. Che cosa è mai ? È superiore alla volontà degli
uomini ? : No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio , nel loro ! errore,
e gli uomini possono averne sicura conoscenza , poi che essi ne sono i fattori,
ma averne conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da
esso . Nei Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita
in atto, la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto .
Questa è la ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo
spi rito dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle
idee, e lo fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci,
di chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il
pensiero ; la fantasia , laddove prima era l'intelletto , la fantasia che
s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta
in un processo d'obiet ( 1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana,
Napoli, Morano ed. , 1882, v. III , p. 282. ( 2 ) V. Cuoco ," Saggio
storico, Lettera dell'autore a N. Q. , p. 11: I , p. 16 ; VIII, p. 47 ; XV, p.
84, 84 tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai
raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che
analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è
compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere
prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi
immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel
Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde
con l'artista , ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba
l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua
narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto
al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni,
quanti interrogativi , quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani,
quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni,
ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di
caricar di tinte fosche la storia , non esita un momento per indossare la toga
dell'avvocato . Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di
strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni
vera espressione artistica ? ( 2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò . ( 1 ) La questione
della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta . Fausto Nicolini, in
una sua nota all’ed . barese del Saggio, p. 357 e sgg. , la riassume e ne trae
le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il lettore a quanto il
Nicolini ha egregiamente scritto . Del Saggio poi possediamo numerose edizioni,
di cui alcune buone, molte mediocri scorrette ristampe, nonchè traduzioni
straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173 ; e la nota del Nicolini all’ed .
laterziana. ( 2 ) Ogni possibile raffronto tra il Cuoco e il Lomonaco è
assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi Studi vichiani, p .
361 , nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che nella sua
monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli, Sangiovanni,
non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee di Vincenzo .
Scrive il Gen tile : « Tra le superficialità del Lomonaco e le vedute profonde
85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti ideali dello
spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un avvenimento, che per lui
, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i successivi avveni menti,
la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte nopea non è che un tardo
episodio . Il Cuoco, che studia più le idee che i fatti, le idee che sono degli
uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la storia napoletana alla
francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. « Le grandi rivoluzioni
politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo istesso che tengono i
fenomeni straordinari nella storia della natura » ( 1 ) . Le rivolu zioni-sono
come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel mondo geologico. Le
generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un avvenimento straordinario
sembra dar loro una nuova vita » . Le rivoluzioni sono un'misto di bene e di
male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di crescenza nel corpo
d’un fanciullo . « In mezzo a quel disordine generale, che sembra voler
distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le
leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti » ( 2
) . Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si può
prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a
parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia
il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia . Guardiamo la rivoluzione
di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » ( 3 ) . Essa
scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato : una analisi
immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato
essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini
sono cie del Cuoco c'è tale abisso , che non è lecito raccostare i due nomi, se
non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per
far meglio vedere la sua superiorità » . ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p.
15. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I , p. 15. ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico ,
II , p . 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una
sua logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi
e sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della
storia, e, peggio , a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro
individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione : ciò non
significa che esso abbia generato la rivoluzione . La storia non s'esaurisce
nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia : la storia è d'una
complessità mirabile . « I francesi illusero loro stessi sulla natura della
loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto
delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » ( 1 ) . Ma
la filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più
aiuta gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in
Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia,
vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare
il posto che le com pete ; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione
umana debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è
necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali
presentino al popolo quelle idee , che egli talora travede quasi per istinto,
che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi »
( 2 ) . Il compito dei filosofi è chiarificato : essi debbono trarre i princípi
della storia e della politica, non dal loro cervello ed assumerli come
postulati inderoga bili , ma dalla vita del popolo, dalla natura eterna del
l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia.
Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto
soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par
ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica , è me diatamente anche
attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e
l'imporsi delle idee, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p. 37. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato
dei popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori d’un moto, che è
determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli manifestazioni. La
rivoluzione francese non si può in tendere, se non s'intende tutta la storia
che la precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente monarchia
accentratrice era un paese di abusi : « la rivoluzione non aspettava che una
causa occasionale per iscoppiare » ( 1) . Il Cuoco analizza tutto ciò, e
l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa
migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo : gli stessi storici
francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni che fanno grande
il molisano . « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la storia della
rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale
avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i quali possono
.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel
corso che solo ne determina la natura ? » ( 2 ) . Nessuno, rispondiamo, perchè
è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio e trascurare le
masse e le cose ; credere un moto preparato dai secoli un fenomeno sporadico
senza stretti legami con l'antico ; una rivoluzione, opera d'un intero popolo,
com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di pochi genî o d'un
partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei precedenti della grande
rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana concisione. Val la pena di
riferirla : non si può estrarre il succo da ciò, che di per sè è tanto
concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere una meditazione. «
La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie
opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non già
di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di
Francia differisce da tutte le altre . Nessuno ci ha de scritto , una monarchia
assoluta, creata da Richelieu e ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p. 37. (
2 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p. 38, 88 riforzata da Luigi XIV in un
momento ; una monarchia surta , al pari di tutte le altre d'Europa,
dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre tutti gli
altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di
Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari , ivi più potenti che
altrove, ed il popolo ancora oppresso ; le tante diverse costituzioni che ogni
provincia avea ; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno ; una
nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre
nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè ogni
uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza ; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa ; i gradi militari di privativa de' nobili ; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare ; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere ; la smania di scrivere,
che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per
coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi ; la discus sione
delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse
opinioni nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti ;
quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e
della corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi;
quindi la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le
idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra ;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione . Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » ( 1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La
rivoluzione ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII , p . 38. 89 s'esprime dal
seno d'un popolo in travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da
bisogni materiali, da un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi
? I filosofi servono, se mai, a conturbare quel che è chiaro , a far credere
opera loro quel che è già nella storia, a far scambiare come esigenza
intellettuale quel che è esigenza economica nel suo più vasto significato.
Enormi sono gli abusi, terribili i contrasti; più astratti, quasi per
necessità, i princípi riformistici, come quelli che voglion compren dere un
numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I francesi deducono i loro
princípi dalla metafisica , e cadono nell'errore « di confonder le proprie idee
colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione del reale questa in cui
possono cadere tutti gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte .
Commentando le incon gruenze dei repubblicani della Partenopea il Cuoco escla
ma : « Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva
intanto la storia della rivoluzione di tutt ' i popoli della terra,
especialmente della rivolu zione francese . Le false idee che i nostri aveano
conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri mali » ( 2 ) . Siamo
sempre ad un punto : gli uomini credono troppo ne' loro princípi e non
s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in essi e ' non
osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La rivolu zione è
opéra dei filosofi ? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo agente delle
rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ) . Guardate
questo popolo : si muove mai esso dietro i filosofemi ? No. « Il popolo non
intenderà, non seguirà mai' i filosofi » ( ) . Perché ? La ragione è una sola,
vichiana. Il popolo è senso e fantasia : i filosofi in telletto . Date al
popolo princípi : non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo : il
suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta , vremo una crisi
vasta ' e potente, la rivoluzione. ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII, p .
39. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. ( 3) V. Cuoco, Saggio storico
, Prefazione alla sec. ed. , p . 5 , ( 4) V. Cuoco, Saggio storico , VI, p. 30,
90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia
popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga
invece dalla falsa filosofia . L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo
spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di princípi, intellettualistiche.
Sono le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro gli inconvenienti
propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le fazioni, le
turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà
convinto » ( 1 ) . I saggi sono inutili a produrre una rivoluzione ( 2 ) , ma i
pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto sur una falsa via. Ecco
perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che dovrà riuscire fatale
alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi incolori e pur gravi della
grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione, poco al senso e alla
fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta fantasia . Quanto più i
pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli li intendono, anzi, a
volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni, se i princípi di
ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i millenari bisogni. La
critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge tutta la rivoluzione
francese, ma è una critica , che nel Saggio storico appare per incidenza, e che
tocca allo studioso di rilevare . La storia è tutta una catena, in cui un
avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle nazioni oggi è così
complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua politica, non si può
prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della Francia, della
Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento isolato , poteva
chiudersi quasi in una barriera sanitaria ; oggi, in tempi nuovi, deve
fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione francese suscita
un incendio repubblicano in Italia , a Milano, a Roma, a Napoli. Ma in questa
stessa considerazione ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed. , p. 6, 91 sta il primo e
capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco esclusivamente
si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della grande rivoluzione francese,
ma non nega l'origine pienamente legittima di essa, la riconosce nata da un
secolare stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo e industrioso, ma ciò
non pertanto trascurato ed isolato politicamente, reagisce e d'un balzo
acquista di diritto ciò che di fatto aveva già acquistato . Nulla di tutto ciò
a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella gallica, è nella
sua na scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo ha fatto epoca ,
e val quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in paese, perchè trovano
ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle ; i bisogni sono invece
ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a
regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli '
non lo è : quel che a Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene
artefatto . Mentre tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia,
dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra
zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e
profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter
condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi
uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose ? Così.a Napoli. Invece
di fare una rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in
piccolo . « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero
potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della
nazione. Tratte da una co stituzione straniera , erano lontanissime dalla
nostra ; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi,
e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i
capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri
difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » ( 1 ) . La rivoluzione ( 1 )
V. Cuoco, Saggio storico , XV, p. 83, 92 francese, in sostanza , e qui è il
nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte
plici elementi economici e politici ; la rivoluzione napo letana passiva, cioè
frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono
la rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era
in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa ; il re di
Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un
' po ' moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo
contegno un generico malcontento . Lo stesso atteggiamento politico estremo in
due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le
conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che
Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e
nei codini , nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo
manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale
errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia : effetto : la
Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone,
vince. « Una guerra esterna, mossa con .... ingiustizia ed imprudenza, assodò
una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » ( 1
) . È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare
l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro
di sè tutta l'Europa : la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo
sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema
di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a
cui i filosofi applau dono in buona fede ; « sistema che alla forza delle armi
riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti,
quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » ( 2 ) . ( 1 )
V. Cuoco, Saggio storico , II , p. 18 . ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II , p.
20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze
peculiari. Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed
esuberante di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese
che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione
paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è
possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i
repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si
proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma
la moda . Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È
proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi
nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile ( 1 ) . « I nostri
affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il
disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » ( 2 ). Gli uomini
s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano : laddove con un metodo
diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio . « I mali d'opinione si
guariscono col disprezzo e coll'obblio : il popolo non intenderà, non seguirà
mai i filosofi » ( 3 ) . A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento :
la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è , non ci 16 li la ti ( 1 )
È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v . I , p. 43
: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni , molti, la cura
principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli
della terra ... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita
non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui , e non sempre con
giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un
portico per ragionar di regni ? 0. presto o tardi si credono di esser re . Ma
Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto :
—Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro ? Nessun uomo mostra
la sua stoltezza , nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi
smascherar lo stolto , lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al
primo istante ? Corri il rischio di farlo riputar savio ( 2) V. Cuoco, Saggio
storico, VI, p. 29. ( 3) V. Cuoco , Saggio storico , VI, p . 30. 94 sarà. Ma,
ecco, la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le
corse a cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono
ne' pe riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri
e alle innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento
genera l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica : « vi inimicate chi soffre la
perse cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente
che la condanna ; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e
trionfa » ( 1 ) . Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si
perde il senso della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si
condanna ( 2 ) . Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi
l'approvano, nessuno la desidera : eppure si crea un ambiente insurre zionale,
laddove non era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io ?
non è che un solo : lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile.
La di scussione farà nascere le idee contrarie » ( 3 ) . Il governo di Napoli
invece è pavido, e il timore rende deboli e inetti , ci offre sprovvisti
all'assalto inimico. « Vince una rivoluzione colui che meno la teme » ( + ) .
Questa incomprensione della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi
politica preventiva della corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che
domina i go verni europei coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i
giacobini di Francia e i patrioti di Napoli . Non per nulla tutti gli attori del
fòsco dramma, gli uni e gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia
illuminista, che per la ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia
nell'umano intelletto e nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in
seguito il comportamento dei ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30 . ( 2 )
Il tratto saliente di questa pre -reazione è la condanna a morte di tre
giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani : la morte del De Deo fu sublime. Vedi
quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione napoletana , p. 204 e sgg: ( 3 ) V.
Cuoco, Saggio storico , VII, p. 41. ( 4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII , p.
42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più particolar mente la politica
governativa e la sua insufficienza . La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto,
nasce come opinione, quindi passiva ; la corte finisce per renderla necessaria,
sforzando il cammino storico della nazione, suscitando vasti malcontenti in
tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia, perseguitando dotti
filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel
popolo, intaccando gravemente i suoi interessi . Vediamo quest'ultimo punto, il
quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento
economico nella storia e nella politica. La storia per lui non è pura idea,
come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura economia, come
per i ma terialisti storici : la storia è più complessa assai . « La storia si
può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli
avvenimenti umani si vo gliono considerare » ( 1 ) . Ogni scienza particolare
ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per eccellenza
non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è complesso pur
nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è attività pratica e
teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde lo storico deve
tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il
Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il
pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica,
e di riflesso economica, del regno di Napoli ? Ove portano questo Stato i
bisogni generali ? Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica ?
Quando Napoleone discende in Italia , la penisola è divisa in piccoli Stati, i
quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che
cadessero . Que sta contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani
sia infelice , senza amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio
d’un gran capitano tutte ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v . II , p. 31 . 96 le
barriere caddero come scenari vecchi : gli austriaci furono messi in fuga,
Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia , la distruzione del governo
teocratico del Pontefice non costò che il volerla. Napoli sola per un complesso
di cose poteva resistere . A Napoli c'era un governo monarchico forte, che
garantiva una maggiore compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po
polo che bene o male seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso
una classe colta che voleva stu diare e vivere . Tutto rendeva possibile
l'esistenza felice della monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non
fu così : la politica borbonica da qualche anno seguiva , e ora sotto la
pressione napoleonica con tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi
coa lizzati, ed urto in una condizione di cose secolare e pro fondamente
sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura
una potenza me diterranea . Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica
mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il
bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la
Francia, con la Spagna. Queste le esigenze del paese : la volontà della regina
dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente.
Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla
aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue
guerre . Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti , che
nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero : il disdegno di tutto ciò
che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come
mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol
inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere
esclusivamente italiani . La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le
rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione,
che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de'
governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte
ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti:
egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno . La sua critica ha
origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità
politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri
voluzione ha maturati, d'una mentalità politica , che si rivolge combattiva
ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi
d'astrattismo fran cese : è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le
direttive .. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è
poco napoletana, molto austriaca : è naturale che Cuoco alla luce delle sue
idee ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone:
l'Italia , Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche , che
astraggono da questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina,
salendo al trono meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare
di divenire napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare
di essere una principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè
sforzare la tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una
frivola smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale . Dalla
moda per il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò
francese od inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano ;
l'imita zione del vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione
delle opinioni . « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima
avvilisce, indi ammi serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei
ogni amore per le cose sue » ( 1 ) . La stessa ineguaglianza in tutti i rami
dell'ammi nistrazione . Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai
pensare la felicità e la potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè
nazionale, avrebbe potuto portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed
esen Cuoco ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico, V, p. 29. 7 -- F. BATTAGLIA . 98
tando il paese perciò dalla dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le
arti, sviluppando il commercio ! Invece no : non v'è provvedimento borbonico
che non si possa rimproverare. « L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli
utili progetti : qual progettista egli si spac ciò e qual progettista fu
accolto ; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male,
divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di nuove inutili spese » ( 1 )
. Il Cuoco non fa distinzioni : il male è nella ra dice, nella mentalità del
tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si
finisce per far male : si è miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica
istituzione. Gli ordini antichi bene o male assicuravano la vita civile :
perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli ? Chi era Acton, chi era questo
favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva
la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de' quali non vi è marina : non
seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea
formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con
piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si
fosse seguito il piano dei romani, che era quello della natura » ( 2 ) . Un
esempio della vacuità del favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un
paese mediterraneo, aveva bisogni marinari . I bar bareschi erano i suoi nemici
diretti, i nemici dei suoi commerci, che con le loro scorrerie finivano per
rovinare. Occorreva proteggere le navi mercantili, occorreva una flotta di
piccole navi veloci e leggiere da opporre alle navi da corsa. Acton volle
provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta che fece costrurre, era composta
di legni pesanti, da combattimento e non da guerriglia. Io non posso indugiarmi
su questo argomento , poi che il mio assunto non è quello di dare la contenenza
del ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VIII , p. 45. ( 2) V. Cuoco, Saggio
storico, VIII, p . 46. 99 Saggio storico, ma di tracciare un profilo ideale del
pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate manifesta zioni, seguendo fin
dove è possibile la cronologia delle opere del molisano, tradendola ove essa
complica lo sviluppo sistematico dello spirito. Non mi indugierò quindi ad
enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno verso Napoleone,
l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo dell'esercito
borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di astrattismo, basta
pensare al generale austriaco, al quale il governo di Napoli'affidò le sue
fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon senso di cogliere il
punto debole di duci della natura di Mack, inclini a scambiare le loro idee con
l'universo . La scienza militare è una scienza positiva, scienza d'osservazioni
particolari, che ripugnano , alle schematizzazioni. Mack invece era la dottrina
in per sona, ma faceva i piani a tavolino, risalendo col pen siero ai princípi
della sua scienza, senza collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi.
« Vuoi conoscere » do manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi
capitani ? Soffre pochissimo la contradizione ed i consigli altrui: il criterio
della verità è per lui, non già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma
bensì tra le sue idee mede sime. Prima dell'azione sono audacissimi,
timidissimi dopo l'azione : audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san
esser diverse dalle idee loro ; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa
diversità, non vi si trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema
esattezza ; ma questa è inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze
che esistono nella natura » ( 1 ) . Simili uomini, come Acton e Mack, sono
deleterii in ogni tempo, furono rui nosi ai Borboni, in contingenze
delicatissime. Date queste premesse , la sconfitta, la fuga del re, l'in ganno
della partenza, l'ingresso de' francesi nella capi tale, il governo
repubblicano, la proclamazione della Par ( 1 ) V. Cuoco , Saggio storico , XII,
p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi di tutti gli elementi , che
abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del Cuoco procede con la
stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra acuta negli avvenimenti
e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel corpo d'un paziente, e ne
rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le stesse deficienze, ancora la
stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due cose distinte. Vediamo i due
gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli ? Sono repubblicani tutti coloro che
hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia, la classe accademica, gli
studenti, il clero an che alto , l'ufficialità dànno il contingente maggiore
dei patrioti : filosofi, finanzieri, giureconsulti, vescovi, teologi,
giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen siero che manca. Ma
basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine secolare, a riformare
ab imo gli istituti d'una nazione ? Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam
detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno d'Italia in tutti i rami
dello scibile umano, ma non si può negare , che anche a Napoli si sia prodotto
quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione.
Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel cuore ; molti l'esaltano,
pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi
di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del '99 ( 1) . Ma il Cuoco è
storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a Pagano ci sia il
faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a Conforti il paglietta
in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È
la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del
resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed eternarle. Questi
repubblicani il molisano distingue in due gruppi : coloro che vogliono più un
cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido, coloro che in
buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p . 158 e sgg. in Rassegna critica della
letteratura italiana , vol. VI, ( 1901) ; L. CONFORTI, op. cit. , p. 21 e sgg.
101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia ; i furbi, in somma, e i
fantastici ( 1 ) . Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre rivoluzioni
è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono i princípi
non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti . La memoria dello storico
s'in china dinanzi ai martiri del '99 . I patrioti sono uomini colti,
superiori, il fior fiore della nazione : forse questa stessa loro origine è la
causa prima che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla
realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni ; i princípi che essi pro
fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito
romano, la loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi
: quest ' è stata una delle cagioni della ruina ( 2 ) . Uomini i patrioti
insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere
uno Stato, grandi solo nella morte : la loro fine con sacra alla posterità la
loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa
esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che
enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito,
esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli
ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste , la
distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di
Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili :
l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del
forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce
di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo
freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali
, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure eroiche,
che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo della
sua, dico sua, repub ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XV, p. 84, nota . ( 2) V.
Cuoco, Saggio storico , XXXVI, p. 157 . 102 blica esclamare esaltato : « Si
sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire ; i
nostri fecero anche dippiù : seppero capitolare coll'inimico e salvarsi ;
seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napoletana » ( 1 ) . Ma
lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla
sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo ; non può,
esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo
legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine . Si è detto ( 2
) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto . No, il fine c'è
: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè
l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori . I
saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre
in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti
i popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti
bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo : bisognava tenerne conto,
inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso . Tutta la rovina
della repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo,
sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni
( 3 ) . Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una
semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione
deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle
plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo
aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo
agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione,
legarlo allo Stato : allora solo, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p.
188. ( 2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196 , in Rassegna critica della lette ratura
italiana, v . VI, ( 1901 ) . ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico , Prefazione, p. 5.
103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile.
In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si
sarebbero potute rendere popolari , ove si avesse voluto trarle dal fondo
istesso della nazione . Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra
le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede
fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del
sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria , dubita,
e chi dubita condanna a metà . Si può rendere il popolo partecipe all'azione,
invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco
« essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era
quello di guadagnare l'opinione del popolo » ( 1 ) . Ma repubblicani e popolo
sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi
sono fran cesizzanti ; il secondo per natura tradizionalista , attac cato alle
sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi .
Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia.
I dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si
deve coltivare, essendo tutto nel popolo . Co loro, che sono ancora napoletani,
nota con amarezza lo storico , e che compongono il maggior numero, sono in
colti. Ritorniamo al solito concetto : la moda straniera è la causa di tutta la
rovina ( 2 ) . « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti
dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se
non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione . Non
può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della
sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli
esempi, ha venduta la sua opi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. ( 2)
Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V.
FIORINI e F. LEMMI, op . cit . , p. 104. 104 nione ad una nazione straniera :
tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » ( 1 ) .
Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli
nelle loro crisi . Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si
obliava che la gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla
natura delle genti galliche . In Italia c'era un comunali smo, che in Francia
non era mai stato ; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in
Francia un popolo compatto ed omogeneo . I repubblicani dovevano tener conto di
ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti,
governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano
tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » ( 2 ) . Il
popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso : « i popoli si
riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro
offrono maggiori beni sul momento » ( 3 ) . Il popolo di Napoli così avrebbe
seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di
miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli
istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che
cosa è mai una rivoluzione in un popolo ? Tu vedrai mille teste, delle quali
ciascuna ha pensieri, interessi , disegni diversi dalle altre . Se a costoro si
nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se
avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione
ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » ( 1 ) . Ma per
fare ciò bisogna andare cauti : non bisogna di struggere . Bene o male gli
istituti esistenti assicurano la convivenza , occorre riformarli, migliorarli,
non ab batterli al suolo : « il voler tutto riformare è lo stesso che voler
tutto distruggere » ( 5 ) . ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91 . ( 2 )
U. Cuoco, Saggio storico, XVI, p . 92. ( 3 ) V. Cuoco, Saggio storico , VII, p
. 42. ( 4 ) V. Cuoco , Saggio storico , XVII, p . 94. ( 5 ) Framm ., p . 219.
105 Il popolo di Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la
natura di questa religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della
democrazia. « La reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del
Vangelo ; riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi
indecente miseria di molti ; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici
oziosi ; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go
verno e li rendono quasi indipendenti , sempre indifferenti e spesso anche
nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una
forma di governo moderato e liberale » ( 1 ) . In ciò il cristianesimo è assai
diverso dal paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre
che schiavi indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su
princípi di libertà , su prin cípi di fratellanza , su princípi di giustizia, e
sembra quindi la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione,
nota il Cuoco ripetendo un pensiero del Conforti ( 2 ), è un elemento
insopprimibile nella vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può
prescindere. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza
religione : se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso . Ma, quando
voi gliela date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue
concorreranno al bene della nazione : se il popolo se la forma da sè, allora la
religione sarà indifferente al governo e talora nemica » ( 3 ) . Questi i concetti
di Vincenzo Cuoco ( 4 ) . Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla :
Stato e Chiesa nazionale debbono concorrere al benessere gene rale . Princípi
che meritano un superiore approfondi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p .
129 e sg. ( 2 ) Sulla posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco
vedi B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro
ed ., 1898, p . 414 e sgg. ( 3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V.
FIORINI e F. LEMMI, op. cit ., p . 137. I due insigni storici concordano
pienamente col Cuoco nel ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di
religione hanno non poco influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione.
106 mento, che noi faremo in seguito : resta acquisito in tanto l'alto e
moderno ideale, che il molisano aveva della religione ( 1 ) . La rivoluzione
napoletana fu la negazione di questi princípi. Sorse democratica, s'affermò
anticlericale e vi lipese l'alto valore etico della dottrina cristiana e catto
lica, per sostituirla con una generica morale laica. Si ab bandonò
all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi gravissimo, come il
problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante opinioni contrarie
degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro i repub blicani,
quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola loro volontà
individuale » ( 2 ) . Il governo in sostanza era agnostico, non conduceva ex
professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e gli
emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio contro
il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi affetti,
s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo il più
saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due
popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni subordinate.
Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile e laica. Si
negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la
libertà, se non un mero astratto ? Chi chiedeva la libertà ? Non certo quelle
popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà
delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era
chiesta ( 1 ) Nel Platone in Italia ( v . I , p . 84) ritornano spesso con:
cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco : «
Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di
religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè ?
Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo , il popolo
tien altri precetti da seguire . Se il popolo allora si trovasse senza co stumi
e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo
necessario a riordinare le leggi » , ( 2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131
. -107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » ( 1 ) . L'er rore,
ripeto, è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi
ne'sublimi princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni.
Eppure, ep pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano
sfruttare le forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una
insuperabile barriera al legittimi smo borbonico . « Il popolo è un fanciullo »
( 2 ) : se ne intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi : basta
che tu intuisca la sua natura . « Il popolo è ordina riamente più saggio e più
giusto di quello che si crede » ( 3 ). Il talento del legislatore consiste nel
sapere sfruttare que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più
adatte contingenze, così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello
che vorresti far tu » ( 4) . Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da
riformare, presentandosi come salvatore il riformatore, che non distrugge per
me todo, ma procede per osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che
saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il malcontento
nasceva dal volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza quelle
solennità tipiche, che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si trattava
di forma e non di sostanza . Ebbene, i repubblicani preferivano urtare contro
questi apparati, anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere il
fumo. La filosofia politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione si
concreta in una sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni:
conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo ; egli allora vi seguirà :
distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre starvi
tosto che il popolo più non vuole ; egli allora vi abbandonerebbe » ( 5 ) . Una
prassi rivoluzionaria, che si ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. ( 2)
V. Cuoco, Saggio storico , XIX, p. 106. ( 3 ) V. Cuoco , Saggio storico , XIX,
p. 108. ( 4) V. Cuoco , Saggio storico, XIX , p. 107 . ( 5) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo elementare principio produce
effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La manìa di voler tutto
riformare porta seco la controrivoluzione » ( 1 ) . Le rivoluzioni nascono dai
bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli uomini sono idee, idee vive
palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso, sono fantasia, sono
religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un patrimonio di idee, il
risultato d'una esperienza secolare , d'una vita non interrotta mai: essa è
attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza, presenti alla sua atti
vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma è un errore credere
che si possa distruggere tutto , far sottentrare alle idee antiche idee del
tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti . La rivoluzione può so pire
molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla rivoluzione ; come la
pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne contrasti. Il popolo è
scosso, tentato ne' suoi convincimenti : se voi esagerate, ritorna sui suoi
passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una natu rale continuità : non
rompete il processo : è da savi : « il popolo passa per gradi dalle antiche
idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche » ( 2 ) . Ogni
nazione ha un suo spirito , una sua mente, dice Cuoco . Questo spirito soggiace
ad un processo, non al trimenti che lo spirito individuale. L'estremismo poli
tico , in qualsiasi suo aspetto, di destra o sanfedista o legittimista, di
sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la sua condanna nelle osservazioni
del molisano . Le idee nel loro spiegamento non possono essere sforzate ,
perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento della loro negazione un'
implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è un vero e proprio sforzo
estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo . Le idee giunte allo
estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è nelle esigenze de'
popoli ; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di sottrarvisici; bisogna
che il governo, se ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVII, p. 96. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XVII, p . 97 . 109 vuol mantenere il suo punto di
vista, le faccia osservare con la forza : ecco come un malinteso riformismo
legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine della
repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia . « L'uomo è di tale natura, che
tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo,
s'indeboli scono e si estinguono : a forza di voler troppo esser libero, l'uomo
si stanca dello stesso sentimento di libertà » ( 1 ) . I popoli hanno un corso
naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà , corso eterno che
tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia,
sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua
autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli,
nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre
all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio : il liberalismo
moderato . Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano . La sua
figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le
idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio
storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi
costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. «
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo
si agita senza saper ove fermarsi : corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » ( 2 ) . Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu
attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando
egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia , che si sviluppò dopo il
crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione , vale a dire allor quando
considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di ( 1 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XVIII, p. 99. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVIII,
p. 102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu
zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria.
Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è
solo il principio base della critica rivoluzionaria , è anche l'elemento
unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà
coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore
dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di
princípi : allo Stato si sostituisce la setta : all'ordine costituzionale
l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato : al diritto codificato le
norme del partito . Moderatismo significa : libertà nella legge, i partiti
nello Stato e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile ,
garanzia nel diritto . Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua
conce zione, è cosa da studiarsi in seguito ( 1 ) . La rivoluzione del '99, che
per il Cuoco è veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti,
nella stessa degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue
aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la
fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive : « La storia di una rivoluzione non
è tanto storià dei fatti quanto delle idee » ( 2 ) . Conoscere il corso delle
idee nella storia significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette
di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di Napoli ? Denudiamo la realtà
dai fron zoli della retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza,
perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un
esperimento di terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno.
« Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi
dall'esser diligenti e severi ; che, non sapendo prevenire i delitti, amano
punirli; che , non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo
( 1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a
sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. ( 2 ) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXVIII, p . 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo
indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è
più vicino all'impero ; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è
molto facile » ( 1 ) . Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa : i governi deboli
sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di Stato . Tutte le
considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso uno
scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo
terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più
d'ogni altro sistema inutile . Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del
sangue dei Baccher ( 2 ) , non salvò la repub blica pericolante . Stringiamo le
fila della trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di
nuovo alla critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica,
all'azione legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di
molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive
sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire
precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca : ecco
un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi
ruinosi eventi, non possiamo che dire : era fatale ! , sia pure con rimpianto,
con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile
obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro ;
ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente
nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti : la storia si
svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non
toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per
ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare : è lo storico che è
consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa
pedagogia non è, però, fuori dall'arte, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico ,
XXXVIII, p. 160. ( 2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112
personalità pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva
commozione dello spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione
immaginifica, insomma, nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai
bene Guido De Ruggiero ( 1 ) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli
avvenimenti; essa non è che raramente la sua empirica e circoscritta
soggettività, è più spesso invece la drammatica personificazione del giudizio
storico, è quella soggettività superiore dove l'oggettività degli av venimenti
e la soggettività dello storico sono fusi in un sol getto » . È insomma il
processo creativo della vera storia, che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica
personalità, in quell'alta subiettività , che forma l'essenza della storia e
dell'arte. La forma precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia,
è la gran voce della storia . La critica spietata degli avvenimenti politici lo
porta ad accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a
constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè
uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a
volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un
principio sano di vita . Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti ,
il Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper
la glacialità dell'analista : « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la
quale dir si può fondamentale di questo Saggio : cioè che la prima norma fu
sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse
durevole » ( 2 ) . Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale,
sono metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici,
religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe
repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili ; i capi sono
ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più ( 1 ) G. DE
RUGGIERO, op. cit. , p. 189. ( 2 ) V. Cuoco , Saggio storico, XXXIX, p. 163.
113 scarsi ; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati,
sempre più numerosi ; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi : sono
particolari, ma che non possono distogliere il pensiero dal principio sopra
espresso, sola ed unica causa della sciagura. Il disastro appare la logica
cruda conseguenza di premesse false . Tutto il Saggio ci porta in un mondo di
rivoluzione , ove la critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non
manca. Vincenzo Cuoco possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano
quella medesima posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese
. Un raf fronto minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato
fatto. Esso riuscirebbe assai interessante , e po trebbe dimostrare come in
ogni lato della vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in
nome d'un ritorno alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il
rappresentante tipico dell'italianismo risor gente : il Burke whig, cioè in
sostanza liberale, non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi
storiche, almeno nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di
contatto tra i due scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora
l'esagerazione dei princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di
diritto, dinanzi alla legge, sono uguali, serbano una originaria disugua
glianza nel fatto : vi sono i buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti , i
borghesi industriosi e i lazzaroni oziosi , gli aristocratici colti e gli
aristocratici gaudenti: il governo dello Stato deve essere riserbato ai
migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo documentato in seguito, poi che
questi soli sono maturi. « Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono
oltre il confine del diritto, la causa della libertà diventa la causa degli
scellerati . La legge, diceva Cicerone, non distingue più i patrizi dai plebei
: perchè dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i pa trizi ? Perchè
vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi e i moiti : pochi ricchi e molti
.poveri, pochi indu striosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e
moltissimi 8 - F. BATTAGLIA. 114 stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai
Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke
scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo
liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine
sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione
. Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre
interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam
dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso
dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che
più non deve esistere, ma che ha esistito finora » ( 2 ) . Ma le nazioni hanno
svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti : quel, che nell’un paese si
chiama con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente
diversa , secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza
notare come lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si
rifaccia ad una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il
liberale Burke nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo
moderatismo, una ri voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po
polo, quale l'inglese, la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica,
una rivoluzione che pretende di struggere il passato, anche laddove il passato
è il presup posto d’un non disprezzabile presente ; uno Stato, che rigetta
alcune classi per altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed
unica ; uno Stato, che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza
pensare che si possano utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora
energia e sopra tutto hanno quell'esperienza pub blica, che ad altri manca.
All'inglese, per cui la vita civile dei popoli è un prodotto graduale d'una
evoluzione storica incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una
conquista continua, nell'aderenza più completa coi ( 1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVIII, p. 100. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille
bisogni d'un popolo secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento
democratico, valido per tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura
ragione, appare veramente ridicola . Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e
il Burke non potrebbe essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il
Burke è un oratore, un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non
risale mai a con siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe
coinvolgere non solo la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità ,
che è di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma
di volo più robusto, dai particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna
alle idee, che hanno un corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un
suo sistema, che, collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè
qualcosa di ferreo . Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio
storico 1 « è un'opera capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B.
Croce ( 1 ) , tiene in certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza
filosofica le celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese » , non fosse
altro per la vastità del campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do
mina, della storia, come eterno farsi, come eterno divenire dello spirito
umano. Della maggiore levatura del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova
sicura e positiva nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il
Burke da una critica superiore passa presto all'op posizione sistematica,
vedendo pura ribellione, mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove
vè sano liberalismo, desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo
contenuto entro limiti di saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli
sfuggono : il Cuoco, invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come
legittime, e le spiega completamente; nega, sì , l'applicazione universale dei
princípi da essa desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza
della nuova situazione creatasi , dalla ( 1) B. CROCE, Storia della
storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza ed. , 1921 , v. I , p. 9 e
sgg. 1 116 quale nessun paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere
(1 ) . Siamo giunti alla fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come
quest'opera sia nata, dal punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come
sia stata concretata, a noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto
non può non essere sommario, incuneato com'è in un più vasto problema : il
pensiero politico di Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si
crede, nel Saggio, ma trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli
articoli del Giornale italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni
1804-1806 , dopo il grande successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (
2 ) . Il Saggio storico, per chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge
spontaneamente dai Frammenti di lettere a V. Russo, de cui principi è la
riprova vissuta, l'espe rienza . Se la rivoluzione di Napoli ha avuto una
utilità, è questa : il foggiarsi d'una coscienza italiana, che all'estre mismo
e all'astrattismo oppone una veduta moderna e positiva della vita pubblica. Nel
Saggio, abbiamo detto, dette ( 1 ) Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio
storico sulla ri voluzione napoletana le Reflections on the French Revolution
di Edmund Burke ? Con ogni probabilità, sì. Le sopra Reflections furono
pubblicate per la prima volta neil' ottobre del 1790, vale a dire dieci e più
anni prima dell'opera del no stro . Nel Saggio stesso vi è una nota in cui il
nome del Burke spicca evidente e col nome un suo giudizio ( II , p. 18 ) . Il
Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali inglesi e ne fa sfoggio
nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai, e le scritture d'autori
inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel Giornale italiano (cfr. 1804,
n. 17 , 8 febbraio , p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo , pp. 111-12 ; 1804, n. 54 ,
5 maggio , pp. 215-216 ; 1804, n. 58, 12 maggio, p . 228 ; ecc. ). Che l'opera
del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo dimostra una re censione
( cfr. Giorn . ital . , 22 settembre 1804, n. 114, p. 446) , ove egli discorre
abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione italiana d'una opera
estetica del celebre autore in glese , Essay on the Sublime and Beautiful,
Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai profonda, prima
e dopo la pubblicazione del Saggio. ( 2 ) N. RUGGIERI, op. cit., p . 34 : G.
Cogo, op. cit. , p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo pensiero
politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal punto
-di vista artistico . Il Gentile, giudice di alto valore, crede il Rapporto al
re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo a parlare
in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del Cuoco, crede
dunque il Rapporto , insieme con il Saggio storico, « ciò che di più notevole
produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99 e il '20 » (
1 ) . Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera , di cui diciamo,
piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente storico, dal
1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce sugli
avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni , alle quali si è pervenuto, sono
sostanzialmente quelle del nostro autore ( 2 ) . Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi- . tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p .
279. ( 2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit. , P: 21 e
sgg. , ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto
abbiamo scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti
ci appare inutile , anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto
dal RUGGIERI, op . cit. , p. 104 e sgg ., e dal ROMANO, op. cit. , p . 99. 118
tiana, a scatti , nervosa, e pur viva e palpitante ( 1 ) . In un mondo di
riflessi e di chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del
'99 appariscono scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una
mano michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi
la trista figura del Vanni, bieco stru ( 1 ) Anche qui non mancarono i critici
. Il GIORDANI, per esempio , in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di
scri vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere » , osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è : ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè ,
confermò » . ( Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano,
Borroni e Scotti, 1856, v. I , p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio
! Del resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit. , v. III , p. 280) nella sua felice esaltazione del
Saggio , come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa
triota, « li considera da filosofo , e la sua filosofia non è tutta francese,
ma è anche senno italiano , è la sapienza storica di Giambattista Vico e di
Mario Pagano » , venendo quindi a dire della lingua della grande opera , «
nella quale si sente il mesco lamento di due popoli » , il francese e
l'italiano, prorompe : « Che importa a me di lingua non pura e di francesismi,
se io non me ne accorgo perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in
quella lingua torbida io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento
diuomini e di cose ? È la lingua stessa del Filangieri, del Beccaria , del
Verri , con qualche cosa di più che viene da un profondo sentimento di dolore.
Dopo il 1815 i grammatici s' intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e
dissero che gli scrittori del tempo della Rivoluzione furono scorretti di
lingua, anzi barbari, anzi senza italianità , e da non leggersi, e da
dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli altri fu proscritto da tutte le
potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che fu il solo scrittore di pregio
che i napoletani ebbero durante la rivoluzione, il solo che in sè stesso
raccoglie il senno e la fortuna di un regno » . 119 mento borbonico di
reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli dello scrittore
civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè stesso ; il
colore del volto pallido- cinereo , come suole essere il colore degli uomini
atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre :
tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt' i suoi
affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso . Non ha potuto abitar più di un
anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento . Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! »
( 1 ) . V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello
spirito, tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito,
v'è la acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce
un individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » ( 2 ) .
Ecco come un raffronto , anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura ? ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , VI, p . 35. ( 2) V.
Cuoco, Saggio storico, XXXIII , p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di
penetrar nella Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo
l'assedia ; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata,
bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni
bastanti a di fendersi ; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case,
le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia ; ma finalmente
dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto , giacchè gli abitanti
ricusarono sem pre di capitolare ; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea
usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco
di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di
terrore . Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati : la città fu
abbandonata al loro furore ; non fu perdonato nè al sesso nè all'età.
Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali,
in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via :
Viva la repubblica ! Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri
intrisi di sangue » (1 ) . Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e
la sua espressione è cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa , è nelle
pagine da lui dedicate alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di
Cirillo , di Grimaldi, di Caracciolo, di; Carafa , di Conforti, della Fonseca .
Alle volte è un episodio che lo scrittore riferisce , un aneddoto, una parola
pronunziata : basta , una figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è
biografia dell'autore dei Saggi politici che valga le poche righe, che
Vincenzo, discepolo riverente, dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco
Mario . Il suo nome vale un elogio . Il suo Processo criminale è tradotto in
tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale
oggetto . Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non
rinvenite che l'orme di Pagano, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183.
121 che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico » ( 1 ) . V'è
una grandezza degna di Machiavelli. Insomma il Saggio storico non è solo un
monumento di sapienza politica e di grande istoria , ma è ancora un capolavoro
d'arte, forse la più grande opera di prosa italiana , che dal Machiavelli al
Manzoni si sia scritta . I protagonisti del dramma, e il poeta li coglie in
atto, in tutta la loro spiritualità , illuminati da una luce di pen siero ,
possono sembrare ad alcuno marionette agitate da un triste fato. Non è così !
Gli uomini determinano gli eventi , sono gli operatori della vita civile,
dell'orribile rivoluzione ; sono essi stessi , poi, che cadono sotto il peso
dei loro errori . La loro autonomia così è salva . La storia del Cuoco è storia
di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed essere sostituiti con lettere
dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì , è vero, poichè l'autore mira alle cose, agli
interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i bisogni, gli inte ressi , le
cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco politico, che scaccia la
personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista, che a tratti nervosi ed
icastici scolpisce una figura , anima una creatura umana. Lo storico ab- ·
braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di quelle idee, sulle quali
corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini sono elementi
particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno :
l'artista , integrando lo storico , anima gli uomini, e di essi e del loro
spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed
artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde ( 1 )
V. Cuoco, Saggio storico , L, p . 208 . 122 furon investiti, della logica che
li governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi,
scultorii, quasi danteschi : l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per
le cose, come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che
giovano più all' istru zione di chi legge . Pure, dove sorgono quelle mozze
figure, è tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la
luce in cui le avvolge, che l'opera politica , più che storica, s'anima del
patos d'una tragedia » ( 1 ) . Questo giudizio riecheggia con maggior
precisione il giu dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi
Settembrini ( 2 ) . Il De Sanctis conobbe il Cuoco ; se pur non integralmente,
conobbe certo il Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il
maggior pro satore dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di
Giambattista Vico. Del resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di
quel che ci hanno dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di
Francesco De Sanctis, è perfetto . ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e
sg. ( 2 ) Luigi SETTEMBRINI, op . cit. , v. III , p. 279. CAPITOLO IV.
Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco : reazione
italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della
rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile . -
Quarto stato : proletariato . - Milizia . - Liberismo e protezionismo
economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica
generale europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. -
Giurisdizionalismo . Una illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre
dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e
al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo.
Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et les lettres ita
liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io
credo una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta , ponendo in
rilievo la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una
reazione culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di
poter rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica ( 1 ) . È un
punto non solo storicamente importante , ma anche degno di di ( 1 ) P: HAZARD,
op . cit . , pp. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul
Cuoco, che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale,
affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per
respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di
opportunismo e di particolarismo . Solo risolvendo questo problema, potremo
intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della
politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello
Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa,
tutte questioni che formano la materia del presente capitolo . La critica, che
il Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica ,
ma anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede
un popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura ,
la propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra.
L'opera cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al
francesismo dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane , in nome
della nostra storia : ben ha fatto l' Hazard , allorchè, sia pure con qualche
esagerazione propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta
cultura, questa gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto
l'atteggiamento mentale di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro
coloro che credettero di po tere imporre senza difficoltà gl' immortali
princípi con le baionette. Il Saggio storico, che il critico francese de
finisce l'esame di coscienza del popolo italiano, è infine la denunzia
documentata di un sistema che non va ; è la critica senza tregua di un
ibridismo politico che la realtà smentisce. La documentazione non potrebbe es
sere più sicura e più ricca . E il modo questo di porta la libertà,
l'uguaglianza, la fraternità ? di farsi amare dalle popolazioni illuse ? Il
popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta l'indipendenza, e fors'anche
l'unità , dall'opera altrui, s'adagia in una troppo beata attesa di 125 ciò che
non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele
conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa grave . Bisogna rendersi degni
di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima spiritual mente migliori:
divenire prima cittadini in ispirito della gran patria Italia per poi esserlo
di fatto . Attendere la libertà come un dono dagli altri ? Ohimè ! La libertà,
prima di essere libertà civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura.
Possiamo mai essere liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere
francesi, noi che nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire
e nell'ordinamento costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra
natura per acquistarne un'altra estrin seca ? Le nazioni hanno un corso che è
unitario e lineare, perchè determinato da un primitivo impulso, che costi
tuisce il fondo materiale e morale della loro vita . « Una nazione che si
sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura
diventa un bene generale della nazione » ( 1 ) . Ecco quindi come l'elemento
cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di un paese . Una
nazione, che imita un'altra , perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni
ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi,
senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la
perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione,
se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo
in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla
natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua
opinione ad una nazione straniera : tutta la nazione ha perduta allora la metà
della sua indipendenza » ( 2 ) . A ciò bisogna aggiungere considerazioni
d'altra natura . Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è antirepubblicano,
antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa esperienza
politica, la sua prassi civile. Ci obiet ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p
. 90, nota. ( 2 ) V. Cuoco, Saggio storico , XVI, p. 91 . 126 teranno : ma la
sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione ( 1 ) che oggi al lume
della critica storica appare più importante che per l'innanzi non fosse sem
brato, come si spiega ? È dovere del buon cittadino ser vire la patria,
qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento politico.
Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure re
pubblicane di Cirillo , di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune
distinzioni . Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del
Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità
pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte . Nei Frammenti di
lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario... ,
quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo » ; e
che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli
ordini liberi » ( 2 ) . A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di
monarchia costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo
prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un
eccesso al l'altro eccesso : il punto d'equilibrio , che salva l'unità e la
coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è
un astratto . Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso
tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la
convivenza civile . Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le
conquiste rivoluzionarie, e com prenda : se non è così, gli stessi più alti
benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa
per l'assoluta libertà, per la repubblica ? È matura Napoli per accogliere
ordini rivoluzionari ? La risposta ( 1 ) Alludo alla preparazione del moto
insurrezionale in Avi. gliano , all'opera repubblicana che il nostro preparò in
Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri
: il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit. , p .
19 e sgg. ( 2 ) Framm . III , p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno
ancora bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti
nei limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior
autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini
costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà
sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i
popoli sono ancora più fantasia e mito , senso e leggenda anzi che pensiero ed
intelletto : i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e
primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi
ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non
possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono »
scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1) . Notiamo
che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava
ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando
egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia
e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero . Il Cuoco ci appare dunque
coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In
Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale.
Nessuno potrà accusarlo di particolarismo , d'amore per il suo parti culare.
Ora nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di
tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per
chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra ( 1) Framm
. III , p . 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere
leggendo i suoi articoli su pro blemi politici : in particolare cfr. Giorn .
ital., 1804 , 30 maggio, 2 giugno ; n. 65, 66 ; p. 260, p . 264 ; 1805, 2 , 7 ,
17 gennaio ; n. 1, 3 , 7 ; pp. 3-4 , pp. 11-12 , pp. 26-28. Nel Platone in
Italia , v. I , p . 142 e sgg. , riconferma il suo pensiero , « riafferma » ,
come scrive il ROMANO, op. cit. , p . 85, « la sua fiducia in ungoverno misto ,
temperato, tra la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia » . 128 zia
universale, che cerca di sovrapporsi a popoli , diversi di coltura e di
interessi, per costringerli ad accettare un governo monotono uguale ; la
volontà generale, che cozza con le volontà singole ; un pazzo alternarsi d'anar
chismo e di tirannia . Che cosa è mai questa benedetta libertà, che i francesi
portano ? È la più sfacciata tirannia . Essere libero signi fica adattarsi al
metodo , all'andazzo giacobino; se no, guai a chi si oppone: le baionette
strappano il consenso liberamente mancato. La libertà imposta non è più li
bertà, cioè libero volere, libera determinazione. La libertà data dalle
repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura che non la libertà data dai re .
Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche sono infatuate dai loro prin
cípi, e credono che tutti siano desiderosi di comparteci parne, e quando li
vedono ripudiati, li impongono, poi che non vedono bene e felicità fuori di
essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco real mente ha radici
profonde in questioni di metodo e di po litica . Il Cuoco non è un
repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino l'indirizzo
potente mente unitario dello Stato con le volontà autonome delle popolazioni.
Queste considerazioni di natura generale possono spie garci vari punti della
biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere senza
delucidazioni; pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione alla
rivoluzione partenopea , la ragione forse della sua sal vezza dopo la prigionia
borbonica, la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo ordine un
po' più schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a costituirsi;
questioni, assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior luce, se le
si riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il pensatore, che,
criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo
amaramente ed ironicamente nello stesso tempo : « Oh ! perdona. Non mi
ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet,
crede possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita » ; il
pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a
Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i Galli ( 1 )
. « Non ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a Scipione
Lamarra ( generale e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino
? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male dei francesi ? Eccomi
dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era nel '93
, nel '94 , nel '95 , nel '96 , nel '97 , nel '98 e finalmente in Capua nel '99
. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino
rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue manifestazioni in an
titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il suo spirito storico e
pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle leggi, che governano
il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita
pubblica, al Montesquieu , il più acuto studioso della natura delle leggi e
della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio,
ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita
italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran , diversi da quelli
francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle righe assai
importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo
rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua
mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar
fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di |
Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 )
. Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale
in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la
po ( 1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit. ,
p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE , Studi vichiani, p. 350. (
2 ) . V. Cuoco, Saggio storico , VII, p. 40. 9 - F. BA'I TAGL A. 130 sizione del
Cuoco di fronte alla rivoluzione . Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico
costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano.
La posizione non potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di
critica non conduce però Vincenzo ad un isolamento politico totale . Egli
s'oppone ad uno stato di cose profondamente radicato nella vita contemporanea,
ma crede suo dovere agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti,
mostrare agli italiani quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza
per una natura estrinseca . Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica
costituzionale indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni,
prima del l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad
alcun influsso estraneo , che sapesse intendere la natura del popolo, e su
questo solo trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed
interessato, non seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per
problemi e dissensi di carattere teorico , e si senti travolto in quel vortice
che pur non amava ; così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una
parvenza di libertà italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore
infaticabile delle più pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare
dialettica. Questo spie gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu
riosi contrasti : una affermazione è implicita nell'atto stesso della
negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia, è nella storia, e
afferma la storia . Tutto il movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla
rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione . L'illumini smo
afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e princípi ad
informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto nello
spirito , che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro
duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora
nella rivoluzione ; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento
storicista nella politica e nel diritto , sono già fuori dalla rivoluzione . La
filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131
zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato,
il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella
natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La
fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra,
diciamo pur così, tutto sè stesso . Chi dice Stato dice realtà ed ideale,
autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e
dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri
filosofi della restaurazione . In Italia questa reazione, che però è una
rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da
Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel
regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto
allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è
nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del
molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il
primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale
e pedagogico ; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita
morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo narchia . Affermazione
questa , notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la
risultante di mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a
più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il
Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un
processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania
questa rivalutazione è posteriore : alla rivoluzione, mentre in Germania il
Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con
tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione
francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una
partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme
una loro legittimazione ; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa
rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una
forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la
creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge
dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore
ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino . Le prime pagine
del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0. , la Prefazione alla
seconda edizione sono la conferma di tutto ciò , che siamo venuti faticosamente
esplicando fin qui . In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata
: ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine
di cose e i nuovi princípi ci vili , che affiorano nella politica generale di
Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era
stato spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli
avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato
nella sua patria : il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista
d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e
stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi
gli er rori e il crollo ; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il
piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire,
nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il
profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla
seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni
gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti
alla sua pubblicazione . Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra
quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha
confermate le antecedenti mie osservazioni » ( 1 ) . La storia ha uno'svi luppo
che non falla : lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli
uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe
sopra citate ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8 . 133 la
soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge.
« Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi
cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte ; ed, in tempi nei quali
tutt' i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata , per quanto
era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e
della giu stizia , e che si può dire la massima direttrice di tutte le
operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco
per cui si dice che gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze
proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le
stesse lettere , che io avea scritto al mio amico Russo sul pro- . getto di
costituzione composto dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi
superflue, pure le ho conservate e come monumento di storia e come una
dimostrazione che tutti quelli ordini che allora credevansi costituzionali non
eran che anarchici » ( 1 ) . V'è qui tutta la spiegazione della nuova
situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe. La
rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al quale s
' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per esaltare, più
per negare che per affermare : libertà, fra ternità, vane parole ; virtù e
gloria : parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il regno
d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la prassi
politica è ispirata al concreto , al benes sere delle genti, è ispirata ad un
principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura delimitazione tra
volontà generale e volontà particolari, tra governo ed individuo , in una nuova
visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito come sublimazione dello
spi rito , come forza e consenso, e quindi come autorità e libertà . Il Cuoco
dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi osserva una realtà, a
lungo deside rata , finalmente concretata nella politica generale euro ( 1 ) V.
Cuoco , Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non nell'atteggiamento
dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è voluto dipingere il
nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante , ma coloro, che hanno
sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero gli scritti del
molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e continua visione
d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli tica. Il Cuoco è
l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in Bonaparte vede
l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute formando, di libe
ralismo, di moderazione, d'equilibrio . Come sorgono quegli uomini, che per il
volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che l'espressione d'una
fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle nature umane ? « La mania
di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione : il popolo allora non
si rivolta contro la legge, perchè non attacca la volontà generale, ma la
volontà individuale . Sapete allora perchè si segue un usurpatore ? Perchè
rallenta il vigore delle leggi; perchè non si occupa che di pochi oggetti, che
li sottopone alla volontà sua, la quale prende il luogo ed il nome di volontà
generale, e lascia tutti gli altri alla volontà in dividuale del popolo . Idque
apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars servitutis esset . Strano
carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio di dar loro sover chia
libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro gli stessi loro
liberatori » ( 1) . L'usurpatore ha una ragione di essere nella stessa
esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche, lascia
pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche nel
l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia, dall'eccesso
d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o volontà subiettiva,
all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in una vo lontà
generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente l'equilibrio, che nelle
ere primitive è nella forza, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. 135
nelle ere evolute nel consenso . Il giacobinismo, esaltando sè stesso,
parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il
rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere,
che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione
sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo : quand'esso
, anzi, è saldo sicuro , può anche essere umano e temperato. È carattere pro
prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti
su basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi,
liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia : la
monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di
governo . Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il
Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito
un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto
rico , portato a valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte
al nuovo reggimento instaurato , sa trovare i benefíci che da questa sono
scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà ( 1 ) che
il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un vero
e proprio esame di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che trova
le sue origini, pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si apre
Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda indietro : molti mali da un lato, molti beni
dall'altro : nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può notare un
progressivo cammino sulla via della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa
grandi progressi verso un ordine migliore . « In Francia nell'anno scorso le
opinioni sono diventate più concordi, gli ordini più regolari. Le idee di
rivolu- · ( 1 ) Giorn . ital. , 1805, 2, 7 , 17 gennaio ; n. 1 , 3 , 7 ; pp.
3-4 , pp. 11-12, pp. 27-28 : Varietà ( ristampato in Scritti vari, v . I , pp.
134-144 col titolo La rivoluzione francese e l'Europa) . 136 zione, divenute
una volta estreme, han fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione
de' princípi altro non è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando
tali idee a retrocedere dal 1795 , non potevano arrestarsi se non giunte ad una
forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di
governo , e ciascun governo ha in sé talune parti essenziali, senza le quali,
invece di costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la
vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti,
ma sem brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri , se l'espe rimento de
medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la
concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario ; altrimenti
sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la
Polonia . Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo
successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che
questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi
effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è
necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè
queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a
risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza
pericolo . Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami
pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo
di tutti . Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di
fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica,
tende a cangiarsi da governo militare in governo civile . « Tale è l'ordine
delle cose, immutabile, eterno . L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a
questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in
cominciarne un'altra » . Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella
sua limpidezza , non lascia dubbio alcuno . Il nuovo or dine costituito, cioè
Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella
negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di
trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra
in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo
leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere,
nello stesso tempo, il militare, il con quistatore . Il governo militare, che
si erige sulle baio nette , gli ripugna : non per nulla egli ha parteggiato nel
'99 per la repubblica , ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla
sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione
dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la
forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice
il nostro autore, è il peggiore dei governi , come quello, che, essendo odiato,
sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni,
gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno,
di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario , che pone un limite
insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi.
Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al
Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele . Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che
è Stato di diritto , che importa e riposa su un contratto sociale, non storico
ma immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti
singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del
diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine
riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo
costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni
rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali , come
dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei
gratia, superiore ad ogni volontà na zionale . Egli, ingegno storico, sente che
tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si
può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto
mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti
al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica
kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda
mano che per let tura diretta (1 ) . Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia
liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e
l'autonomia ( 2) . Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco,
sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una
rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la
maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca , è necessario che sorga un or
dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto,
diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono
anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo
sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo
facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della
coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali
; il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza ; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali
osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti » . La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè
« noi cresciamo andando avanti ; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto ;
ma non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna
mai » ( 3 ) . Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che ( 1 ) G.
GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, p . 377 . ( 2 ) M. ROMANO, op . cit . , p.
81 e sgg. ( 3) M. ROMANO, op. cit. , p. 84. 139 non è stato Bonaparte a
distruggerlo : sono stati essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà
. « Ai parteggiani della libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è
stata interamente inutile. Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale,
e, quando anche si volesse credere che questa non sia ancora per fetta , si è
sempre ottenuto molto avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del
tempo e non di sistemi. Quali sono le parti loro più belle ? le più rispettate.
E quali le più rispettate ? le più antiche. Quindi due ve rità : 1° Per
ottenere una buona costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico
addentellato al quale attac carla . 2 ° Per giudicare di una costituzione è
necessario il tempo, perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del
popolo, ancorchè sien ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi , che
formano il governo, di ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti
anche in faccia al governo ; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è
sempre un gran bene per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le
costituzioni della Re pubblica ; che si parli di libertà civile , di libertà di
per sone, di libertà di stampa ; che vi sien delle magistrature incaricate di
vegliare alla loro custodia ; che vi siano delle assemblee nelle quali si
riuniscano i migliori di cia scun dipartimento e di ciascun cantone per
proporre ciò che credon più utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han
prodotti finora molti beni e ne produrranno ancora . In ogni caso, la religione
è stata per sempre riu nita allo Stato col vincolo della tolleranza ; la
feudalità è stata abolita per sempre, e, quando anche risorgesse un patriziato,
potrebbe esser quello de'greci e de ' romani, eccitator di grandi azioni e non
già oppressore de'grandi ingegni; è stata aperta libera e larga la via della
gloria ad ogni specie di merito; non vi saranno più le dispute e le
persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti ; non vi sarà più la funesta
distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a pagare e soffrir
tutto e a non aver mai nulla ; le imposizioni saranno ripartite egualmente fra
tutti ; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le persone 140 della
stessa classe . Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si perderanno più, e
questi vantaggi non sono mica pic cioli » . Tutta la filosofia cuochiana è
rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si afferma dopo
turbamenti generali , questo si presenti come una pana cea di tutti i mali, e
temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso : spazza via
l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue, d'armi ;
distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione ; sgomina
l'anarchia , e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha la sua
impor tanza ; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso . Il nuovo
reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole dopo una
rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno per non
dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato soppresso.
Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è classico e
moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso tempo che
afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza il
costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del
primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco
in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia
sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione.
Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto
di vista . Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in
atto, e di essa era la critica spietata e fiera . Ma la rivoluzione ha
prodotto, ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha
instaurato uno novello. La realtà storica è quello che è , s ' impone senza
rimedio . È possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione ? Il
Cuoco risponde di no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia
e in Francia, e in certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità , ha
riattivata la vita de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi
crede che la 141 rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo
derazione sia de' governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è
stata, e non si ritorna indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni
constatazione artifi cioso, occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili
dalla concreta realtà. « Le crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi
non hanno voluto mai soddisfare [ i reclami dei popoli] . Con una savia
moderazione, invece di rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili
riforme » . Il ritornare oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo
stesso che preparare nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai
radicati nel Cuoco : ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme
più varie . Altrove scrive : « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo
prevalere l'opinione di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di
nuovo. E, sia qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto
sarà sem pre lo stesso » ( 1 ) . La storia non si supera a ritroso . Ri
tornando allo scritto, di cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una
sicura legittimazione delle nuove forze ( 1) Giorn . ital., 1804 ; 11, 23, 30
luglio, 1 , 11 agosto ; n . 87, 88, 91, 92, 96; pp. 350-351 , pp. 356, pp.
367-68, pp. 371-372, pp. 393-394 : Politica ( ristampato in Scritti vari, v . I
, pp . 28-43 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Otto
cento ). Riporto in nota uno squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato
. « Facciam ritornare in campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al
1798. Che avremo ? Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più
impotente nel bene, più sospettoso e più crudele nel male ; divisione tra i
vari rami del potere medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile ; l ' in
certezza dei principi , onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile
l'abuso agli intriganti ed ai prepotenti. Nell'esterno, da una parte
l'ambizione, che prende le apparenze di democratiz zazione universale e diventa
tanto più terribile quanto che alla forza delle armi riunisce quella delle
opinioni ; dall'altra, il timore e sospetto ; dall'una e dall'altra , minacce,
tradimenti, inganni di popoli e di re, guerre interminabili e feroci ». Il
quadro è fosco : è impossibile ritornare ai princípi puri della rivoluzione,
come è impossibile una restaurazione del regime prerivoluzionario : il
separamento è inderogabile. 142 (( umane espresse dal capovolgimento
rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante, che da tre secoli
in qua ( anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ) , tutti gli Stati
dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del numero,
dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che chiamavasi
in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato . Quelli
tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie,
dall'ignoranza , dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato.
Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro
progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo
terzo stato più oppresso : l'oligarchica Venezia, la Polonia . Quei popoli
soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu
distrutto ne ottenne giustizia .... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di
oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due : o convien che la classe
predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i
vantaggi della vita civile . Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne,
perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie
loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni
interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore
del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia ; e perchè
non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità ?
Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà
più durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo
non avrà alcun motivo di doglianza ;, ed, essendo la nazione piena d'amor di
patria e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i
quali vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri » . Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica . E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo ( 1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre : a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni : quella proprietà che sola può
tener uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle
funeste commozioni del l'oclocrazia , perchè nè lo priva dell'opera di molti, i
quali possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno ; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza : i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T ( 1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16,
18, 30 gennaio, 8 febbraio ; n . 6 , 7, 8 , 13 , 17 ; pp. 22-23, p. 27 , pp.
30-31 , p . 51-52, pp. 66-67 : Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (
ristampato in Scritti vari, v. I , pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema
politico europeo al principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano
da noi già accennato, Politica . 144 « Io non nego che le varie circostanze,
nelle quali potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte
modificazioni; ma la massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore
de' governi, diceva Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e ,
siccome essi non si potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore
dei governi è quello in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per
l'ordinario si ritrovano gli uomini migliori » . L'aristocrazia nuova, di cui
l'autore nostro discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia .
Questa classe, che è la più numerosa , in quanto classe aperta a tutti, in
quanto esprime la forza di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse,
dal proletariato, dal l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha
di nanzi a sè un vasto cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad
essere la classe dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese
e i suoi effetti, dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le
stesse idee. « Il gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono
uomini rari. Chi s ' impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più
difficilmente di colui il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo....
») . Ma non bisogna abusare ; la rivoluzione francese aprì la via alla
canaglia. Ritorna il Cuoco antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati,
della democratizzazione uni versale . « Si obliò la profonda osservazione di
Aristotele, il quale avea detto che l ' ottimo de ' governi era quello in cui
predominavan gli ottimi, ma che questi ottimi non si dovean nè si potevan
ricercare individualmente, bensì doveansi ricercare per classe ; che vi era in
ogni Stato una classe di ottimi, e che questa era composta di co loro i quali
non fossero nè corrotti per eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia
povertà . Quindi la pro prietà, nella nuova forma di governo, è divenuta con
ragione base delle costituzioni. Alla proprietà è ben af fidata la custodia
delle leggi : i proprietari, dice lo stesso 145 Aristotele, sono i più atti a
tal fine; e come no, se le leggi son tutte fatte per difendere i proprietari ?
Ove però non si tratta di custodire ma di agire, ove non basta la volontà, ma
vi bisogna la mente, è necessario sostituire alla semplice proprietà
l’educazione ; che val quanto dire mettere il merito personale nella stessa
linea della pro prietà . Quella parte di popolo, dice lo stesso Aristotele, la
quale non ha nè proprietà né educazione ; sarà su bordinata se sarà contenta :
è un gravissimo errore darle tutto e non darle nulla » . A me sembra che il
problema politico non potrebbe essere impostato dal Cuoco in migliore maniera
possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli istituti , gli ordinamenti, così
come li studia la storia del diritto e il diritto stesso , se non vuoti
astratti ? Quel che a noi importa non è la forma in sè, che ci appare morta
senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso . Le costituzioni in realtà
sono , e con esse tutta la struttura giuridica d’un popolo, in quanto in esso
popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta importa poco, certo
qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per via di pura ragione,
ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle masse, una classe
dirigente, che si fa interprete sicura della società che l'esprime. La storia
del diritto , io credo, anzi che studiare morte sovrastrutture, dovrebbe stu
diare come classi dirigenti, per natura condizioni coltura [ estensione diverse
secondo le varie epoche, possano de terminare tutto un complesso sistema
giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia del diritto, studio di
strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe nella politica, studio d’un
vero contenuto umano, pulsante d'attualità . Ma questo è un problema teoretico,
che nel caso nostro importa relativamente, e la di cui formulazio ne, a me
sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come ognun vede, la vita
moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere tratteggiata in maniera
più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà la realtà dello Stato
moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. . 10 - F. BATTAGLIA ,
146 Una classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è
atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello
Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta
tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso
è la proprietà . La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha
una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale
o commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno
Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni
attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in
coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi .
Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi
e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della
cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire
l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che,
pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si
afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa
composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo
oltre, anarchico e rivoluzionario . Questo concetto dello Stato borghese, che
solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè
sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza
del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla
realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica
ed insieme ad una sicura visione storica . Dopo aver soste nuto che la
costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver
affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi
abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma : come
si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive «
divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi . Fate che il po tere di uno non si possa estendere
senza offendere il potere di un altro ; non fate che tutti poteri si otten
ghino e si conservino nello stesso modo ; talune magi strature perpetue, talune
elezioni a sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che
siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza
aver bisogno del favor di nessuno ; tutte queste varietà, lungi dal distruggere
la libertà, ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti,
e co loro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe
contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della
repubblica romana il senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (
1 ) . Se voi vi addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che
egli, pur disposto a dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare
su di essa il sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica,
e quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale :
l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che
nell ' uomo è senso , cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura
dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla
proprietà, base degli odierni ordini civili . La natura, a cui accenno, non è
la natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e
fantasia, bisogni ed esteriorità . Quindi teoricamente non è impossibile un
sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà : resta a vedere come
questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre
bisogna aver di mira : lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della
pro prietà ! ? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... ( 1 ) Framm. III. ,
p. 247 , 148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso
che voler distruggere la proprietà : la natura non riconosce altro che il
possesso, il quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini.
Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali
il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non
richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini,
dopo i loro bi sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i
costumi dei loro maggiori » ( 1 ) . È chiaro ! La pro prietà ha un'origine
schiettamente economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma
storico, cioè null’affatto immutabile ed eterno . Una giustificazione
dell'istituto secondo i principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco
soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano :
la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema ( 2
) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una
classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è
naturale che egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o
quarto stato, il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una
sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo
vede, se mai, ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XXV, p. 123 e sg . ( 2 ) In
tutta questa esaltazione della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla
rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso
Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i proprietari, e basa il suo
sistema su un ele mento comunistico . Io non faccio che rimandare il lettore,
che si interessa del problema, allo studio su V. Russo del CROCE ( La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra
reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il
gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni tra l’A . delle Reflections
on the French Revolution e l'A . del Saggio storico sulla rivoluzione di
Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO,
op . cit. , p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149
nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato,
ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero
lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande
industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro
medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti
al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi
accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano ( 1 ) . Sarebbe
pur questo un tema interes santissimo ; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo
dal nostro assunto : tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico
di Vincenzo Cuoco . Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici ,
che il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo
della società post -rivoluzio naria , ed un intuito così immediato dei
problemi, che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il
molisano dice intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i
capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse
il suo senso po litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto
importante del sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale
pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione
nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo.
Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi lizia , poichè essa non è
perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino ; e
questo non può avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi » .
Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella sua intima radice
antimilitarista. Perchè ? Lo Stato as ( 1) Giorn . ital., 1804, 6 febbraio, n .
16, p . 64 , Economia po litica: a proposito di una cassa filantropica a
beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220:
Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi connessi. 150
solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà dei subietti
singoli, come tirannico e nemico : l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed
antide mocratica . Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla
sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da ammettere, ed è un
estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno
della forza a suo sussidio ( 1 ) . Il Cuoco naturalmente non può condividere
questi princípi . Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla
conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente
mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un
contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato , cioè bisogna
riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita civile
stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori
meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà
indi viduali ( libero volere è libertà ) , ma, appunto perchè in ogni momento
della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o
cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il
contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è
convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto
generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del
Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni
punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di
alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e
di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà
ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta
sottomissione. In ogni atto giuri ( 1 ) Notiamo che persino la costituzione
inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della
forza armata . Il principio è stato superato durante la guerra, date le
condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola .
151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale
non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della
forza, che integra il consenso ; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani
festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di
una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa ,
sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la
cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena
e sintetica nel monarca , sim bolo della continuità nella vita giuridica e
storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la
filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata — ; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico . La milizia , sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano : « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo
; e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » ( 1 ) . Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per
( 1 ) M. ROMANO, op. cit. , p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto coraggio
da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti .
Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo,
allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale
del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani
esercizi bellici . E passiamo ad altro . « Il terzo vantaggio » continua il
nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con
dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta
una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili , questo farà sì
che il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia . L'industria inglese era figlia delle
rivoluzioni che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle
altre. È un'osservazione costante che , quando le rivoluzioni finiscono in
bene, l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno,
osservato negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia .
L'in dustria , e specialmente agricola , fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale ; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità , ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa , s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività , che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti :
il commercio, l'industria , la navi gazione, l'agricoltura , l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti , non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato
sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato
monopolistico , come quello che mirava ad un utile particolare e non
collettivo, di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante
di libere forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste
attività. Ciò che è , è quanto di meglio si possa concepire . Questi princípi
liberali , che noi troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo , in Giovan
Battista Say, ecc. non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia
cuochiana, per meata di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico , le
società umane, i popoli sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un
proprio sviluppo, un proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab
antiquo . Gli uomini non possono mutare queste leggi , perchè ciò che è dato
dalla natura stessa meglio soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò
che, date le condizioni sociali e civili , di migliore si possa imaginare. È
l'ordine delle cose che determina l'ordine costituzionale, e non la nuda
filosofia : è l'ordine delle cose che determina l'or dine economico, e non
l'astratta economia . Di ciò ab biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste,
secondo il nostro, una vera scienza economica, ma, appunto perchè questa
scienza ha una base non dommatica ed apriori stica , ma di fatto e storica, i
princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto semplici e pochi»
che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa cili ad esser
corrotti » ( 1 ). I princípi dell'economia sono ( 1 ) V. Cuoco , Scritti vari,
v . II , p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della natura . La na
tura determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze.
Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di
meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè
che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale,
mirino apriori sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di
contrastanti interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile
generale, lo stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è
mera astrazione, l'egoismo economico nativo , che li porta alla ricerca della
soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato
cuochiano quindi è Stato liberista : il prin cipio però notiamo è tutt'altro
che chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il
legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in
quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali
anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività
indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal
lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare
princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi
economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura
; i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico
trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri
solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo ?
Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni
reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono
pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare
le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di
vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con
vantaggio , è necessaria una certa potenza politica nello Stato . È necessaria,
perchè possa ottenere 155 dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si
otten gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro
sua voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano
nulla. Se non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete
condizioni giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime » ( 1 )
. Come mai il Cuoco, di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza
liberista, sembra tradire così i suoi princípi ? In realtà, la concretezza del suo
pensiero non può permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei,
ond’ei bene intende quanto necessario sia il prote zionismo in certe
contingenze politiche. Non dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di
liberismo asso luto in un'età, in cui ferve continua la lotta tra la Francia e
le coalizioni europee, fra la Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in
un'età in cui ogni mezzo politico diviene spietato per vincere economicamente,
e le armi del contrasto non sono più la libera concorrenza tra im prese nel
campo internazionale, ma il sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco.
La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze
avverse, impone all' impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per
evitare danni maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi
generali e valevoli in eterno ( 2 ) . Ma dove il pensiero cuochiano attinge una
verità eco nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna
ne' Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, ( 1 ) Giorn. ital., a. 1806 ; 5, 6
, 7, 8 gennaio ; n . 5 , 6, 7 , 8 ; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32;
Politica : ( ristampato in M. ROMANO, op. cit ., in Appendice; ed ora negli
Scritti vari, v . I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (
2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p . 155, creda così. Dopo aver
riportato in nota il brano da me sovra ci . tato aggiunge: « Anche qui è palese
che il protezionismo del Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene
dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora
.... non è chi non veda », 156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna
elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia
hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo
costume sia tale che non renda infelice il cittadino ; e se tutte le nazioni
potessero essere sagge a segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi
a vicenda, si aiutassero , si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere
umano. Il fine della virtù è la felicità , e la felicità è la soddisfazione dei
bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due
quantità sono sempre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può
ottener l'equilibrio o scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il
quale abbia ciò che desidera, non sarà mai ingiusto ; perchè naturale e
quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà , che ci fa risentire i mali
altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra
ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo
simile, perchè non gli serve : egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che
son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo
gli possa esser utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso
politico delle nazioni le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi ;
allora que st'uomo sarà anche generoso . Ma questo periodo non dura che poco :
i bisogni tornan di nuovo a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo
utile, ma anche necessario : ed allora non si contenta più di averlo per amico,
ma vuole averlo anche per schiavo » ( 1 ) . Per il Cuoco la felicità è ciò che
con linguaggio più pro prio possiamo dire soddisfazione de' bisogni,
possibilità di sfruttare le qualità fisico - chimiche de ' beni, dati de
terminati bisogni individuali. L'uomo è felice, cioè sod disfa interamente i
suoi bisogni, realizza uno stato di ap ( 1 ) Framm . VI, p. 262. Errerebbe
colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di morale utilitaria : il
problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco . 157 pagamento, trova
un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra desideri e forze. La
visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni , aggiunge lo scrittore, non
sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo dargli il modo d’esplicarsi. «
Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il nostro lusso, i no stri capricci ,
l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti ammireremo, e ti lasceremo solo » .
L'economia privata e pubblica dà l'esempio continuo di nuovi bisogni che
sorgono, che non trovano soddisfazione che parzialmente, e poi per le mutate
condizioni delle produzioni vengono soddisfatti sempre meglio . Il progresso
civile è una ca tena ininterrotta di bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate
che si sviluppano. Che vale gridare catoniana mente contro le troppo molteplici
esigenze della vita moderna ? Quel che è non si discute . Passarvi sopra sa
rebbe un condannarsi ad una eterna infelicità . L'equi librio tra i desideri e
le forze non può mantenersi che per breve tempo, perchè tosto che si realizza,
intervengono nuovi bisogni impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è
impossibile concepire un vero e proprio equili brio : quel che più ci dà l'idea
di questo mondo eco nomico è una serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze
preesistenti, tra bisogni nuovi , che dan luogo a nuove domande di beni atti a
soddisfarli e lo stato della produ zione, che s'adatta all'oscillazioni delle
domande. Qual'è il comportamento naturale dello Stato in tali contin genze ? «
La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla
producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono ; e
verrà a capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai
sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » . Il Cuoco
continua in una esaltazione del lavoro agricolo ed industriale, e in una
deplorazione degli impieghi, che chiama pericolosi per chè fomentano le
ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura indagine economica . L'autore lascia
intravedere la possibilità d'un intervento statale in un campo che noi ne 158
vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo, i concetti economici non sono
chiari : il Cuoco indulge troppo spesso a forme d'economia statale, che portano
ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte
spiegabili come espressioni di circostanze ano male, non hanno mai ragioni
scientifiche tali da imporli per una pratica economica generale ( 1 ) . ( 1 )
Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci interven gono a turbare la mera
analisi economica, onde il Cuoco so stiene forme d'economia statale e
d'intervento per altre ragioni, nobili e spiegabilissime. Dopo gli studi del
RUGGIERI ( op . cit., p. 39) e del Cogo sopra tutto ( op. cit. , pp. 13-23, pp.
59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera statistica Operazioni sul di partimento
dell'Agogna anzichè al cittadino Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal
frontespizio dell'opera ( Dalla tip. Nobile e Tosi, 8. d. ) , debba attribuirsi
al Cuoco, che la scrisse per incarico dell'amico tutta di suo pugno , sia pure
consigliato dal Lizzoli. Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica,
p. 107) il Cuoco tratta dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi
che da questa specie d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi «
i servi degli esteri fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha
perduto la stima di sè stesso , ha già perduto tre quarti della sua
indipendenza. Or questa stima di noi stessi non si perde tanto ammirando i genî
che ha prodotto, e le grandi azioni che ha fatte una na zione estera, quanto
ammirando di soverchio alcune cose che sono per loro natura indifferenti , e
che forse anche sarebbero migliori tra noi , se come nostre non fossero
disprezzate. Pochi sono sempre presso qualunque nazione coloro che intendono e
pregiano le prime, e questi pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione
che impedisce l'abuso dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che
ammirano le chincaglierie, i ventagli, le fibbie , i mobili, le stoffe , e che
aspettano da Lione , o da Londra il figurino della moda. Tra cento uomini
convien trovare cin . quanta donne, e quarantotto altri esseri inferiori alle
donne, i quali ragionano così: in Inghilterra le fibbie, i mobili , le scarpe
sono migliori delle nostre : dunque gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora
tutto è perduto. Le nazioni estere attaccano sempre la parte più numerosa e più
debole di un'altra nazione, e l'at taccano per le vie del comodo e del bello ;
e quindiè che un go verno savio deve procurar sempre di dare alla nazione
propria gran facilità di mezzi, onde poter vincere in questa concorrenza, e
questa cura deve formar la parte principale della pubblica istru zione » . 159
Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo Stato , Stato di diritto basato
sul consenso e realizzante la sua sovranità nella maggior pienezza, Stato
militare e forte; abbiamo anche studiato come questo suo Stato sia in fine lo
Stato che egli vede sorgere per opera di Bonaparte. Il Cuoco a me appare come
il teorizzatore di quel tipo di Stato, che alla storia è passato col nome di
napoleonico . Abbiamo già dato in parte la giustificazione di ciò che i
legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma che per il nostro è lo
sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un processo storico : occorre però
ritornare sul l'argomento per una più vasta documentazione. La storia non
s'interrompe. Il primo console diviene presto imperatore di Francia e poi re
d'Italia (1 ) . Tutto il movimento spirituale che porta dalla repubblica ita
liana al regno italico , trova la sua spiegazione negli scritti cuochiani. Sul
Giornale italiano il molisano manda fuori le sue Considerazioni sopra il senato
- consulto ( 2 ) , scritto denso di pensiero politico, ove la monarchia
napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella natura stessa delle cose,
nel corso della storia, che tra due estremismi, la tirannia e l'anarchia ,
trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità . I contemporanei non possono
intendere Napoleone : la sua figura complessa sfugge ad essi , perchè la conside
rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui opera e dal quale è
determinata , moto storico, che solo la po sterità potrà intendere. Avevamo una
repubblica. Come va che dal direttorio , dal consolato decennale, dal conso
lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al regno ? « Noi diciamo,
pieni di stupore : – Come mai ha potuto avvenir questo ? — E coloro che ci han
preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean predetto ( 1 ) M. Rosi, op
. cit. , p. 230 e sgg. ( 2 ) Giorn . ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno ; n. 65,
66 ; pp. 260, 264 : Considerazioni sovra il senato - consulto ( ristampato dal
Ro MANO , op. cit., in Appendice ; ed ora in Scritti vari, v. I , pp. 103-108,
col titolo Napoleone imperatore) . 160 inevitabile » . L'impero è sorto, perchè
tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di tutti i precedenti storici ,
senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è fatta dal nostro con una
lucidità mirabile . La rivoluzione francese, prima di scatenarsi sulle piazze e
sui patiboli col terrore, aveva tentato un esperimento costituzionale. Una
monarchia moderata sarebbe stata quanto di meglio potea avere in quel momento
la Francia . « La rivoluzione scoppiò, perchè era inevitabile. Tutte le idee
degli uomini non ebbero allora altro scopo che quello di formare una monarchia
costituzionale ; ma si errò nel circoscrivere il limite del potere esecutivo, e
se ne creò uno troppo debole e troppo poco rispettato » . Si inde bolì
costituzionalmente il potere centrale, togliendo così ogni difesa agli stessi
ordini civili, aprendo la via alla licenza trionfante . Gli errori in questo
campo furono in numerevoli. Il potere legislativo esercitò un predominio
eccessivo, inframettenze internazionali, in campi che pra ticamente, se pur non
logicamente, spettano all'autorità amministrativa. La forza ' armata fu divisa
, parte al re , parte al popolo : la monarchia fu esautorata, ma il paese resto
senza presidio alcuno . Il potere esecutivo perse ogni autorità sul
legislativo, e si giunse all'assurdo di togliergli parte sia diretta sia
indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella decretazione e nella sanzione
delle leggi. Si separò ancora interamente il potere esecutivo dal giu diziario,
e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità : il diritto di grazia e
d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via strettamente
giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne ? La monarchia costituzionale,
simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde » . S'immaginò poi la
costituzione del 1793. Un altro ec cesso . Per non cedere la Francia il potere
esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla stessa conven zione
nazionale . « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni potere esecutivo, si
può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la guillottina » . « Eravamo
giunti all'estremo. Era necessità retroce dere . Si comprese l’errore della
riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795, furon di nuovo
separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea esser una sola , e
che questa dovea dipendere dal governo . Le at tribuzioni della guardia
nazionale furono limitate ; il co mando della forza armata, il pieno comando,
fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che al re » . Come
ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso : un estremo porta
all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa spontaneo un
supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio . La costituzione
del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla : la lentezza e
la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di comando ;
l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio ;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema : vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero . La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto
d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in
parte . Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale,
inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una
particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato
ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale ; il potere fu
prolungato per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi ;
s'evitò ogni ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere
amministrativo restituito così alla sua sovranità . Una volta preso questo
cammino, le idee andarono fino alla fine : per rendere l'ambizione privata meno
nociva, si ebbe il consolato a vita e si diede al console il diritto di
nominare il successore . L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata
nella storia . V'è perfetta reciprocanza : gli uomini deter minano la storia ed
operano per la storia ; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono
schiavi perchè soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto
posteriormente non è che il com pimento di tali istituzioni . L'eredità rende il
potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende
l'esercizio più dolce; la responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che
dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si
riuniscono due cose che paiono di loro natura inconciliabili : la libertà e
l'impero » . Quand' io ho analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero
cuochiano, ho avvertito come da questa critica nasca tutto un sistema politico,
di cui la storia è la con sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al
punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto trova la sua realtà e la sua
riprova materiale . La storia ha un processo dialet tico eterno, le cui grandi
linee approssimativamente si possono cogliere, pur quando l' ineffabilità de'
partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le idee, che sono eterne e non
fallano ; ha trascurato gli uomini, che brillano un istante ed ingannano, se li
si astrae dal corso ideale delle cose : le sue deduzioni fondate sulla natura
umana non sono fallite, ed hanno avuto la più piena sicura conferma. Com'ognun
vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno spiegarsi logico delle cose.
Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza d'elementi, che allo storico
e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali noi abbiamo descritto la natura
. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato, che, pur lasciando il più
vasto campo alle atti vità individuali, esercita unitariamente il suo compito
sovrano, e, pur riposando consensualmente su un con tratto sociale, in ogni
istante vero nella convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua
difesa in una forza attiva che non falla . Un'esperienza rovinosa di frammen
tarismo e di debolezza porta all'impero ( 1 ) . Si è avuta troppo lunga pratica
d'anarchismo costituzionale , d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa
continuare sulla stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or
dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria ; lo
Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla
base d'ogni atti ( 1 ) V. FIORINI ( F. LEMMI, op . cit ., p. 619. 163 vità
umana coordinata in società. Ogni menomazione del principio porta all'anarchia
. Le costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili,
senza le quali gli organismi sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è
osservare come ugualmente nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di
altre figure in signi di capitani e di uomini eletti, il duca Valentino,
Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni
che illuminano direttamente il nostro argomento. In uno scritto ( 1 ) il
molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto antico, descrivente
un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo e grande nella sua
pura italianità : dall'opera egli desume un collo quio tra l'anonimo autore e
il Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si svolge animato e
profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione
di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli hanno battezzato con
l'epiteto di machiavel lismo . L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo
accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai Medici e di avere presi per
suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il Valentino . Alla prima
obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è stato fautore dei
signori della sua città, che questi al contrario lo han per seguitato come
troppo caldo fautore della libertà della patria ; alla seconda obiezione oppone
un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un po ' . « Ascolta.
Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi altro pensiero che
quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra l’ozio e la cura de'
cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor delle cose militari,
mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per questa sola via si
può ascendere alla gloria e all'impero .... ». ( 1 ) Giorn. ital., 1804, 21,
23, 25 gennaio ; n . 9 , 10, 11; pp. 35-36 , pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà (
ristampato in Scritti vari, v . I , pp . 42-52 sotto il titolo Due frammenti
d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino ? ... » «
Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui .... Tra
tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro più da
sperare : niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia . Quei tanti
tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra ; ma questa
guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo
diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato
più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero.
Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia
avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad
avere anche la virtù.... » . Il pensiero del Cuoco è chiaro . La
giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva
questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per iscopo
di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella maniera. Oggi
la storia è cam biata . Napoleone non è il Valentino ; Napoleone è un
ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce la
gloria alla virtù . Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici,
incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e
storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua
stessa personalità la sanzione del l'impero ? Nessuna. Tutte le cose invece
additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come
colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario ( 1 ) ( 1) È
curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell.
In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo , n . 28 , pp. 111-12 :
Considerazioni sul libro in . glese « Uccidere non è assassinare » e sul
diritto delle genti ( ri stampato in Scritti vari, v . I , pp . 81-85 col
titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a
proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più
nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco : egli ha dato all'Italia
quell'unità , e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti
pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito , quando
verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il
problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè
educativo, e poi un problema politico . Limitiamoci ora a vedere la cosa
piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male
s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario . Quel che al
Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente,
a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al
carro di Napoleone ! Che importa ciò , se quest'uomo grande ha di mira il bene
comune dell'Italia , sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele
zione . Il nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà
reciproca, che lega il benefi cato al benefattore : Napoleone è il pegno tra i
due po poli, comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così
irrimediabilmente antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad
intendere i benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a
ringraziare Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro
d’un uomo solo ? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no
stró scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e
dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla
posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze
degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero
di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come
igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti
dell'Arabia, ... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a
ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il
minor male » , 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub
blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli
parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei
archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che
dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria , che egli descrive con così
foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che
invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli
ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della
sua rinascita . L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è,
però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna
dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed
eterne, bisogna formare quel che manca : la coscienza dell'italianità, la
volontà unitaria , un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo
dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale »
( 1 ) . Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per estendere
a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran sogno di
Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli , temperamento posi tivo, ovunque veda un
barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido murattista ne'
suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il desìo am bizioso
d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico avrebbe voluto che il
nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per virtù d'italiani, per
il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano, per un processo
politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur serba sempre il
suo peccato d'origine: la sua esteriorità . Ma, tutto è fatale necessario nella
storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi a repubblica,
non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione istessa fa sì ( 1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato potente, tra le tante
divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in Italia se non per mezzo dell’unione
; e questa unione, non essendo più figlia della virtù e degli ordini antichi,
non può ottenersi se non per la forza. E come mai non sarà straniera la forza,
quando ogni forza patria è già da tanto tempo distrutta ? » ( 1 ) . La
repubblica non fa per noi, come non fa per i francesi : essa è disgregazione e
ruina, mentre occorre unitarietà e forza per superare i mali e i dottrinarismi
del secolo. La Francia repubblicana, dannosa a sè stessa, non potea essere
benefica per poi : i suoi rapporti con l'Italia eran rapporti di sudditanza e
non di parità. « I legami che ci uniscono alla Francia » scrive il Cuoco, «
sono legami di necessità e di vantaggio vicendevoli. Era naturale che la
Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria ; ma, finchè la Francia
ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia non fu per certo
molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi conquistati o
dominati dalle repubbliche . Par che la somma delle libertà tutta si concentri
entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è inevitabile
nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa evitare senza
rinunciare a quell'estremo de' beni , a quell'ottimo che si chiama con ragione
il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che forma la base
de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea governo,
prometteva agli altri popoli un governo simile al suo : con promesse, per tutt'
i popoli , fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia , an corchè potessero
eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i costumi degli europei
viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane, rimane però sempre
problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia, il di cui male più
grave stava nella divi ( 1 ) Giorn . ital . , 1805, 1 , 3 , 6 aprile ; n. 39,
40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia ( ripubblicato in ,
parte da G. Cogo, op. cit. , pp. 134-136 ; ed ora in Scritti vari, V. I , pp.
149-158) . 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva
acquistar forza e vera indipendenza ; e se, senza indipendenza e senza forza,
preda del primo che volesse invaderla , avrebbe mai potuto perfezionar gli
ordini suoi ? » . Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo
parlato. Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia
speciale, bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed
adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente : crea in
Italia un Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello
stesso tempo gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che
intenda i bisogni e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol
levi lo spirito popolare depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato ; gli
dà istituzioni, leggi proprie. V'è una politica imperiale, politica estera,
amministrazione ge nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla
volontà del monarca. V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di
esigenze specifiche, che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle
popolazioni, che intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni
civili, dalle quali sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento
di governo che è avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai
francesi, si può dire però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di
tutti i legami che univan questa a quella non rimane che l'al leanza ; alleanza
, che, se alla Francia è utile, all'Italia è indispensabile . Il Regno
dell'Italia è divenuto proprietà dello stesso sovrano, e questo sovrano è il
più grande uomo del secolo : egli saprà, egli potrà e, ciò che più im porta,
egli vorrà farlo prosperare. Questo uomo avea già due titoli i più giusti alla
sovranità : quello di creatore e di restauratore dello Stato. Le circostanze
politiche del l'Europa gliene dànno un terzo, più giusto di tutti : la
necessità di difendere ancora per altro tempo lo Stato che egli ha creato, la
necessità che ancora ha questa nazione dei benefíci suoi » , 169 H In Italia
non si è formato ancora uno spirito pubblico nazionale , una comunione
d'idealità, un italianismo in somma . L'unità , che Napoleone ha dato a noi, è
un'unità che non può trovare altra ragione che nel suo genio . L'in dipendenza
per volontà intrinseca del popolo è un as surdo : in Italia non c'è ancora un
popolo consapevole della sua natura e della sua forza. L'unica possibile ri
soluzione del problema italiano è quella che la storia ha sancito . Il fatto
nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la convivenza comune ed
unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa ; come essi uniti siano più forti che
non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un avvenire libero, e tutto
da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di quest'esperienza non
andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non ritorna sui suoi
passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il profeta
dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci riserviamo
di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede possibile una
unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso un'alta pedagogia,
che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha potuto realizzare in
maniera affatto pratica, e , nella sua stessa génesi, estrinseca . Prima però
di venire a questo problema, che formerà un capitolo del presente lavoro,
bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale europea, in cui il
nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche insufficienze tipiche.
Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del secolo XIX, l'unità
d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze politiche in pieno
sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto processo. La
questione italiana, considerata da un punto di vista po litico , appare, senza
dubbio, come una grande questione europea . L'Italia è il centro del
Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il transito
tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo; il paese
destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio
commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna
grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla
penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità
italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre
cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande
verità : l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo
duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della
politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la
rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di
unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina,
potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea
solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser
af fidato se non all'indipendenza italiana ; a quell'indipen denza, che tutte
le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio,
dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella
gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà
vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » ( 1 ) . La
visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le
grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo : la questione unitaria cessa di
essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra
in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento,
purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò
per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente
dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di
importanza limitata . Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese,
nell'im presa garibaldina del '60 , s'accorge dall'atteggiamento in ( 1 ) V.
Cuoco, Saggio storico , XLIII , p . 178. 171 glese quanto importante sia il
problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o
minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal
Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o
meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno
scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione
integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un
largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi
a sufficenza ( 1 ) . L'arti colo , Osservazioni dello stato politico
dell'Europa, è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea
negli ultimi secoli, delle lotte per il predominio , dell'as setto italiano .
Lo studio è determinato dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e
Napoleone, ma il Cuoco supera le contingenze politiche e risale a notazioni di
ca rattere assai ampio. Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello
sviluppo storico, il trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali
segnano come due epoche ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello
che si chiama in Europa tempo di pace non è che il tempo della minor guerra
possibile. L'equilibrio politico dell'Europa è la causa principale di tutte le
guerre e di tutte le paci : gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a
distrug gerlo e coll' altra a ristabilirlo . Vi sono sempre due na zioni
preponderanti, le quali, a calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed
un altro no ; e la guerra dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra
una su periorità tale che sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini
della bilancia e faccia nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le
potenze, che fino a Westfalia detennero il dominio in Europa, furono la Francia
e la Spagna. Alla pace di (1 ) Giorn . ital. , 1804, 14, 16 , 18, 30 gennaio, 8
febbraio ; n . 6, 7, 8, 13, 17 ; pp: 22-23, p . 27 , pp. 30-31, pp. 51-52, pp.
66-67 : Osservazioni sullo stato politico dell'Europa ( vedi in precedenza, p .
143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza spagnuola, a Nimega
questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il posto della Spagna
nella rivalità con la Francia . Queste le linee sommarie della storia. Vediamo,
e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la posizione della Spagna
nella vita continentale e quale l'intima ra gione della sua fiacchezza . La
Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali, l'una più grande,
l'altra meglio preparata : la Spagna poteva ' trionfare, ma non riuscì. Perché
! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle successioni riunì sotto
uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le donò l'America, perchè
potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli italiani divisi, discordi, e
contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un dominio enorme, attese più
ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo , ad arricchirsi materialmente
anzi che moralmente : l'espulsione degli ebrei, le persecuzioni religiose, le
dispute teologiche, i governatori rapaci furono le piaghe della sua compagine.
La mancata risoluzione del problema italiano, e qui vo glio insistere, fu
secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione della Spagna. « Se
la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande Stato, l'avesse fatto,
avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato . Ma il fato avea riserbato
ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo disegno. La volle ritenere
distruggendola . Montesquieu dice che la ritenne arricchendola : da troppo
impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra ! Dopo averli impoveriti
e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna cagioni di spese e non di
forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna, non già nel centro della
monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre, nell'Italia, nelle provincie lon
tane, le quali non si potevan difendere per loro stesse, ed i successori de'
bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si perdettero inutilmente sulla Mosa e sul
Po. La Spagna s ' indebolì per conservar ciò che conservar non poteva » .
L'errore politico, causa della rapida decadenza spa 173 gnuola, è il non aver
voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma alleato, onde colpire la
Francia avversaria da ogni lato ; l'errore politico della Spagna sta dunque
nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie ame ricane, anzi peggio,
perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo grande colto e capace,
mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù selvagge. La
politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto
di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di proteggere gli
italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero :
così detta le condizioni a Munster ; sostiene il Portogallo , si allea con
l'Inghilterra : indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale . I francesi
sono forti, desiderosi di dominio , ma non si lasciano accecare dalle
ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca , non giunge mai ad aspirare al
dominio del mondo ; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui
moderato nelle vittorie . « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci
tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere
il Portogallo e l'Olanda ; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze
svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di
Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più
potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla . La Prussia , con
popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la
Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la
Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza , della
giustizia e della generosità » . Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia
ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria , ma
non crea un Regno d'Italia : ecco la causa del suo non completo trionfo . «
Vediamo che han fatto gl'inglesi » . Battuta la Spagna, la cui insufficienza si
fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della
Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il
Cuoco , di tutte le guerre in Europa : per la sua stessa natura non può
mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è
l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati : con questi conserva la sua
superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri
non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque
altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace ; così gl'inglesi deb
bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra » . Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco : «
l'Inghilterra tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione » . Il
Cuoco, senza dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione
d'insieme a me sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile.
Gl'inglesi prolungano le guerre, oltre il necessario , avidi desiderano troppo.
Nella guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso
ciò che Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà
della magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga
di più felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara
stessa, nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così
oggi: così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali
di oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va
perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e
di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama «
naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de'
popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi » . « L'Inghilterra è giunta
ad un grado di prosperità immenso ; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in terna sua
amministrazione era superiore a quella degli altri popoli : ce lo attesta un
uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli della
Francia, il signor di Joinville. Perchè ? Perchè l'Inghilterra fu la prima 175
à riconoscere la proprietà e la libertà civile . Perchè i papi furono fino al
secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa ? Per chè, in tanta barbarie e ferocia,
erano i soli che predi cavano la pace ; perchè abolirono la schiavitù ; perchè,
dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi, e senza
i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo cangiarono
massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia e la
Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni ? Perchè sostennero il partito della
tolleranza, dell'umanità , delle idee liberali de'popoli tutti. Nell'ordine
eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti ; anche i popoli
hanno la loro morale : chi la trascura , chi la calpesta , o presto o tardi
ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non
quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava
di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel
disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono
incominciare per lo più da vivissime commozioni ; ed errano egualmente coloro
che , amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone ? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » ( 1) . Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa ( 1 ) . A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico , in Archivio storico lombardo, a. XXXVI ( 1909 )
, p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che
tutti intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che
questa visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro
scrit tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento , che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile . « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla . Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola
parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè
sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra .... L'Italia è più utile alla Francia
amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella Lettera
a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io potessi
parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblìo ed il
disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la nuova sorte, che
la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive nisse per costei,
nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di morte, se egli
stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi , che ha liberata due volte
l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese e che, ritornando,
quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi,
atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli avea creato
ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria ; ma molto
altro ancora può e deve fare ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178 ,
nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera del.
l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico ,' a mo' di
prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono » . Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è , e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia ,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto . La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale . Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco : noi storici e critici possiamo affermare certi fatti
con maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa
rato da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile , di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea
menomamente un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il
Risorgimento s’è manifestato come un movi 12 - F. BATTAGLIA. 178 mento
altamente spirituale da un lato, come un problema d'equilibrio europeo
dall'altro . Mazzini e Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi
non s'intendono se non si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco.
L'equilibrio politico è stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone
discese nel '59 in Italia contro l'Austria ; l'equilibrio mediterraneo è stato
la causa, per cui l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che
l'imperatore de francesi prima osteggiò , e poi , inconscio e gabbato dal Nigra
e dal Cavour, finì per per mettere . Il Cuoco intravide il problema, e, se errò
ne' partico lari , nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la
nemica naturale del l'unità italiana. È ciò vero ? La storia ha dimostrato di
no. La stessa politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli
per farne alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica
dell'Inghilterra , quando nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra
contro l'Austria , preferì un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della
penisola, grande e forte, ad un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto
il settentrione, ma non tale da sottrarsi al vassallaggio della Francia.
L'Inghilterra dopo il '59 , durante l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per
le stesse considerazioni, di cui abbiamo parlato : suscitiamo un forte organismo
statale contro la Francia, aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo leone
III, esso ci sarà riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così : uno
Stato crea un altro Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del suo
geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima
virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno,
divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua
naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti,
che nella vita vogliono attuate le idee del loro cervello ! È della storia,
rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal conflitto austro - inglese, trova
ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179
antica protettrice, oggi è autonoma e forte : sarebbe ri dicolo che oggi
seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze
latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la
Fran cia . La storia consacra interessi, bisogni, volontà e non precetti)
filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia vegga uno spiegamento di
bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa facilmente, se riguardiamo la
condanna, che egli fa di organismi storicamente gloriosi , un giorno potenti,
oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta dell'antica repubblica di San Marco
nel Saggio storico è espressa nella sua gelida obiettività , un sospiro, senza
un rimpianto. L'Italia di fronte a Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri
mavolta da noi, si trova « divisa in tanti piccoli Stati » , che", uniti
potrebbero però opporre qualche resistenza . Il papa propone un'alleanza
difensiva. I Savii di Ve nezia rispondono che da secoli nel loro paese non si
parla di alleanze, che è inutile quindi far proposte. Venezia con ciò
sottoscrive la sua condanna di morte. « Per qual forza » si domanda il Cuoco «
di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea
distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato
nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie,
le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la
gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico
esterno, temer doveano la virtù dei propri sudditi ? » . « Non so che avverrà »
conclude « del l'Italia ; ma il compimento della profezia del segretario
fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà
sempre per l'Italia un gran bene » (1 ) . Quanto diverso il politico Vincenzo
Cuoco, che nella sua fredda obiettività interpreta la storia presente, dal
poeta Jacopo Ortis, che getta uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene
di luce e di epopea , e sulle ruine della senza ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico
, III , p. 22. 180 patria , non trova di meglio , disperato dell'avvenire, che
darsi la morte ! Sotto i colpi di Napoleone un altro antichissimo Stato cede :
il potere temporale de' papi. Il trattato di Tolen tino ha una importanza senza
pari per la storia. Mentre ne' tempi trascorsi , i papi vinti, sgominati,
afflitti si rifiu tarono sempre di porre a base delle trattative la benchè
minima particella del territorio della Chiesa, a Tolentino per la prima volta
per la storia si fa uno strappo, si passa sopra ai diritti inalienabili e
imprescrittibili della Sede Romana. L'organismo antico invero è tarlato : un
pro cesso storico di disgregazione s'inizia , di cui il Cuoco non può vedere le
conseguenze, ma che noi oggi possiamo ben studiare. « La distruzione di un
vecchio governo teocra tico » non costa a Bonaparte « che il volerla » ( 1) .
La politica di Napoleone dal '97 in poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con
cui egli impianta il nuovo ed antichissimo problema delle relazioni, merita un
acuto studio, che non possiamo fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo
apprezzi e giustifichi la visuale ecclesiastica dell'imperatore . Non
dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel Regno di Napoli, che nello stesso
secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte contro la Curia, in cui il giu
risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica non solo in iscrittori insigni
come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio, Conforti, ma anche in ecclesiastici
eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe Capeceletrato ( 2) : l'atteg.
giamento cuochiano solo tenendo presente tutti questi precedenti può apparirci
chiaro . Prima però di venire a discutere questo aspetto del pensiero del
nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni alla religione nella vita
dello spirito e nella vita dello Stato . Lo Stato deve avere una base
spirituale , la quale non può essere data che dall'istruzione umana da un lato,
dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato ( 1 ) V. Cuoco,
Saggio storico , III , p. 23. ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391 . 181
etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue
funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà
generale ; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno
degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base
della sua vita . La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del
Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione
, anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio , rientrerebbe nel
quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che
essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato
agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera
nel terreno vivo della pe dagogia , nella sfera perciò delle coscienze singole
. Che cosa è per il Cuoco la religione ? In una sua nota scritta su un
foglietto, lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo
tante volte da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia
possibile una delimitazione tra la morale e la religione ( 1 ) . Vediamo. « In
questi ultimi tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare
la religione dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea ; si è
domandato se si po tesse , e mille han risposto che si poteva ; si è tentato di
separarla, e quasi nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il
problema coloro i quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de'
doveri nostri da una profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale
dell'universo, o dalla dignità dell'uomo ; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo
il quale intende queste cose meno del l'esistenza di una divinità ! ...
Persuadiamoci : per esser ateo ci vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci
parla di Dio. Coloro che, restringendo l'idea della divinità a quella che noi
abbiamo, invece di dire : questo popolo ha un'idea della divinità diversa della
nostra, o per imbe ( 1 ) G. Cogo, op. cit. , p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F.
LEMMI, op. cit. , p. 653. 182 cillità o per malizia han voluto dire che non
aveva ve runa idea della divinità , han pronunziato l'assurdo di credere che
una nazione selvaggia potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione
culta ; perchè di fatti che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della
di vinità se non quella di una forza di cui non possiamo nè evitare ne
comprendere gli effetti ? » In sostanza il Cuoco non condanna coloro che
credono la religione sopprimibile, o almeno la credono distin guibile dalla
morale, ma si limita positivamente ad una affermazione : il popolo ha una
religione, di essa non può fare a meno. Ben nota Giovanni Gentile ( 1 ) come il
Cuoco, ingegno eminentemente politico, capace di ele varsi sicuro alle vette
più eccelse della filosofia, ami,'una volta attinto il sommo, ridiscendere al
concreto della storia, lasciando a mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni
problema, sia pure di natura teoretico, al molisano si presenta nelle sue
relazioni con la vita d'ogni giorno, con la vita pratica dell'individuo e dello
Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla ricerca d'un presupposto di natura
ideologica, e ci imbattiamo in un problema co stituzionale ; ci attendevamo una
dimostrazione di prin cípi , e il Cuoco ci dà senz'altro il principio, come
mero dato di fatto. « L'idea di una divinità si può chiamare una proprietà
intrinseca dello spirito umano. Se la verità di cui noi siam capaci è la
coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea di una divinità sarà
eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non possono opporle che
parole le quali s'intendono meno » . La religione ci appare come un quid
d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento eterno della
stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno avuto della di
vinità è stata quella della forza ; la seconda quella della giustizia, la terza
quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p.
376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo loro una divinità,
essi se ne formeranno mille, le quali spesso non comanderanno quello che il
bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è potente sullo spirito umano
ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità per quelli della religione ».
Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di cui il Saggio ci offre la
conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza
religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso » ( 1 ) . E
perchè un popolo non può restar senza religione ? Perchè la re ligione è la
morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche cosa che lo
guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco. L'uomo colto
può superare la religione nella filosofia , il semiconcetto nel concetto ,
trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico ( 2 ) ; il popolo,
invece , ha ancora bisogno d'una morale d'autorità , e quindi parzialmente estrin
seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle origini la religione
è tutto : diritto, cosmologia, morale : nella religione tutte le forme della
vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La distinzione fra
l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci offre
l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva . La religione per lui è
tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la base
insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale, d'ogni
diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà , perchè non trova
più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità . Il legislatore deve
porsi da un punto di vista pratico , ( 1 ) V. Cuoco, Saggio storico , XXV, p. 130.
Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit. , p. 411. ( 2 ) Questo superamento ,
come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale . Il Cuoco non crede
possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che
pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso . La
filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la
religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol
disciplinare : se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale
uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non
può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione ; anzi su questo
elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo
edificio civile . Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito
in un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come
quello che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo
detto derivano due corollari im portanti. Lo Stato , che combatte la religione
entro le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti , è uno
Stato che ha sbagliato grossolanamente tattica : egli concepisce la religione
come mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello
spirito dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato
neutrale in materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base , come quello al
quale il problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il
compito educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione
interamente laica . Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo
convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non
può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa . Date al
popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli,
eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione.
Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli
non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica
dello spirito , e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima
di rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non
informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione
areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come
problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito ; qui notiamo la 185
prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo
Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al
popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui
familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi
concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro . Lo
Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra
realtà umana. Nulla di odioso . Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima
con gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le
aspirazioni universali della religione. Co loro , che credono di potere far la
guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso non
può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse compatte di
credenti , non sono che de' vol gari astrattisti . Qui noi possiamo ben vedere
quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e segua una
strada tutta sua . Il giacobinismo è anticlericale ; il Cuoco non è nè
clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto , e si accorge che
lo spirito umano ha esigenze re ligiose . Il Lomonaco urla , s'inquieta, scara
venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa
cerdoti ; il Cuoco analizza, studia, infine edifica : due tem peramenti, due
mentalità diverse, due metodi antitetici : l'uno caduco, l'altro eterno . La
nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare
d’una importanza grande, con tinua ancora : « Io dirò a questo proposito un mio
pensiero . Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli
dalla società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in
questa guerra non vincesse quella causa che piaceva ai ( sic ) Dei . Se fosse
dipeso da me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo
Stato » ( 1 ). ( 1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri
portare : cfr. Cogo, op . cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco
consiglia è confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta
incrollabili, edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in
Italia, Archita esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto , pur
mantenendosi ben distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i
suoi fini ( 1 ) . Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli
gione, anzi, come può notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni
Gentile sul nostro, egli in ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso
dinanzi alla formida bile incognita della divinità, e china il capo riverente.
V’è in Cuoco un nucleo di trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del
tutto superata ( 2 ) . « Il savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso,
riconosce che la nostra mente è una particella della divinità, che noi non
riamo . Vede in questa massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di
stabilirla e diffonderla, non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola
città.... ; non con istorie, che ciascuno può credere e non credere ; ma con
ragioni tratte dall'intrinseca natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle
quali nessun uomo possa opporre altro che l'ostinazione . Ecco il primo dovere
del savio. Il se condo è quello di compatire il volgo, che cerca ad ogni
momento delle cose sensibili , ed i filosofi, che, per stabi lir la virtù, si
adattano talora al desiderio del volgo » ( 3 ) . Siamo sempre ad un punto. Una
base religiosa della mo rale non può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto,
pur arrestandosi dinanzi al mistero della trascendenza, ha nella ragione, se
non una impossibile spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione ; il
volgo ha bisogno di vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel
travaglio inesauribile della fantasia. Solo la religione può rendere vicina
agli uomini la sublime norma della morale : la religione, fondamento della
morale, essa stessa pensa a renderla viva nella coscienza. ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v . I , p . 84 e sg . ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. ( 3 )
V. Cuoco, Platone, v. I , p. 133. 187 Non posso negare che in tutto ciò vi sia
una vera e propria incertezza . La verità è che il Cuoco non è filosofo, e de'
grandi problemi filosofici non può darci un'esplica zione adeguata. La
questione per lui è tutta politica e pratica, e, se s'ingolfa in discussioni
teoretiche, lo fa per ridiscendere più agguerrito sul terreno pratico. Alcuno
potrebbe obiettare che da questa contamina zione di morale civile e di
religione, di politica e di reli gione, vengano a scapitarne sia lo Stato sia
la religione, in quanto lo Stato penetra, si dice, in una sfera non sua, la
religione viene ad essere subordinata ad un fine mon dano. Non è così, ripeto.
Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta delimitazione di fini, tra Stato e
religione, in quanto il primo persegue un fine politico e gli trova la base sua
naturale nello spirito e nella natura umana, mentre la seconda dal fine poli
tico si astrae o dovrebbe astrarsi limitandosi ad un'opera meramente interiore.
Sul terreno politico non v'è possibilità di conflitti, ammesso che la religione
si volga all'eterno ed obblii il mondano . Sul terreno spirituale v'è identità
d'oggetto, il miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi.
In ogni caso v'è vi cendevole vantaggio : lo Stato deve favorire, pur essendo
tollerante, la religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la
religione deve aiutare lo Stato, perchè questo possa in terra fruire
materialmente d'ogni miglioramento morale degli uomini : l'uomo veramente in
ispirito reli gioso non può non essere un buon padre di famiglia, un buon
cittadino. Da quanto abbiam detto è evidente come il Cuoco non cada affatto
nell'errore di molti, proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola
religione, ed è intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue
un fine politico ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza
quindi anche, col vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della
religione dominante la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come
li darebbe ad un qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo
e civile , senza che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri
culti, che possono pur essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col
fine statale. Lo Stato agisce nel suo interesse pratico , ond'è chiaro quanto
sia necessario un controllo continuo da parte sua sulle istituzioni
ecclesiastiche, controllo che non può essere altrimenti ispirato che a
superiori esigenze di di fesa pubblica e di polizia . ( 1 ) Sino ad ora abbiamo
parlato della religione come fa coltà dello spirito, come insopprimibile realtà
umana, e il caso di conflitti tra Stato e religione non poteva a noi presentarsi
se non come un caso abnorme. Ma il problema politico particolare e il caso d'un
conflitto nella sfera pratica può presentarsi, quando noi non consideriamo la
religione, ma la Chiesa, l'istituto universale, che può porsi e si pone di
fronte allo Stato con uguali caratteri d'eticità e di assolutezza, e con
pretese che a volta usur pano le facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi
zionale . Date le premesse che abbiamo poste, il Cuoco non può negare il
giurisdizionalismo dello Stato e la subordina zione entro i suoi confini d'ogni
istituzione ecclesiastica alla legge. L'educazione religiosa non sfugge al
controllo dello Stato : l'attività ecclesiastica culturale non può sot trarsi
alla norma comune. Il Cuoco differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in
quanto ha un senso vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione
sicura dello spirito nella sua vita politica » ( 2 ) . Con questa sua
concezione dello Stato come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non
solo « della reli gione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come
elementi riformatori della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine
politico » , ma non possa ne ( 1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto
falsa l'af fermazione di B. LABANCA, op. cit . , p . 409, che il Cuoco non
abbia mai approfondita la questione religiosa. ( 2 ) G. GENTILE, Studi
vichiani, p . 416. 189 ammettere che la Chiesa di Roma, istituto fuori dello
Stato, possa entrare a competere con lo Stato in que stioni che involgono la
sua sovranità. Libertà di culto e d'istruzione, ma controllo dello Stato,
subordinazione allo Stato ! Lo Stato agisce nella forma del diritto, e il
diritto pone un obbligo ed una tutela : la religione ha, di conseguenza,
l'obbligo di agire ne' limiti delle norme giuridiche, e la libertà di operare
come crede in essi, li bertà che si traduce in una tutela civile contro i
violatori di essà. Ognuno sa come t si siano svolte le relazioni tra lo Stato e
la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII si mo strasse conciliante col
déspota di Francia, come si giun gesse al Concordato tra Francia e Santa Sede (
1801 ) , come il papa presenziasse all'incoronazione di Parigi, come presto la
politica giurisdizionalista degenerasse in tirannia, per finire attraverso
varie occupazioni ( Ancona, 1805 ; Civitavecchia, 1807 ; tutte le Marche, 1808)
, con l'arresto brutale del Pontefice in Roma ( 1809) , con la di chiarazione
della fine del potere temporale (maggio 1809) . Noi non abbiamo documenti tali
dá permetterci di seguire il Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi
eventi: dovendo stare allo spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo,
credo, con quasi certezza dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime
di Napoleone contro Pio VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il
pro blema de' rapporti tra Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo,
Considerazioni sul concordato del febbraio del 1804 ( 1 ) . La pace religiosa è
uno degli elementi indispensabili della vita civile . Una nazione, che serri in
sè discordie chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che
alimenti in sè le fazioni, poichè, mentre queste sono ( 1 ) Giorn . ital . ,
1804, 1 , 4, 6 febbraio ; n. 14, 15, 16 ; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63:
Considerazioni sul Concordato ( ristampato in Scritti vari, v. I , pp. 62-70
col titolo Stato e Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime
traggono origine da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I
turbamenti di molti Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura
religiosa si possano vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le
sedizioni. La Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una
tristissima esperienza : la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte
dell’utilità sua ; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità
. « .... Chiunque ha un cuore deve applaudire ( siamo, quando il Cuoco scrive,
nel 1804, e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità
colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto
eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno
data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la
via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero » . Fin
qui , come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti
ben noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio
storico. Gli Stati sono tanto più forti , quanto più gli elementi della vita
materiale e spirituale convergono ad un fine unico . Lo Stato, ove diritto e
religione non cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa
verità, è lo Stato più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia : le
nazioni floride sono quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e
libertà, s'è meglio pre sentata . Nel 1804, commentando la storia che
Melchiorre Delfico avea scritto della repubblica di San Marino, dopo aver
ricordato che negli Stati non è tanto l'ampiezza del territorio, il numero
degli uomini, la forza degli eserciti, che conta, quanto la virtù de '
cittadini e la giustizia degli ordini, scrive riferendosi al fatto che il
fondatore del pic colo Stato fu un religioso : « Sulla porta della maggior
chiesa leggesi questa iscrizione : Divo . Marino . Patrono. Et. Libertatis .
Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto col quale gli Ateniesi
dichiararono Giove arconte perpetuo della loro repubblica ; iscrizione forse
unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno la religione di 191 visa
dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del l'una e dell'altro » ( 1 )
. Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno di Dante e di Marsilio da
Padova : una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza, riaffermante novellamente
col divino Maestro che il suo regno non è di questa terra : impero e papato,
Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi, l'uno terreno, l'altro
celeste, operano concordi in terra per assicurare il benessere dei popoli. Il
Con cordato , al quale specificamente si riferisce il Cuoco, è il documento del
nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel 1804 è fiducioso di un
avvenire religioso di pace, che non sarà, crede sinceramente che le antiche
lotte giurisdizionali siano definitivamente della storia e non più della vita :
l'analisi , perciò, che vien facendo, è meramente storica, è uno sguardo su un
passato, che, pia illusione, non ritornerà più ! Nei primi secoli, riassumo il
pensiero del nostro, si disputò pochissimo di giurisdizione. Il divin Maestro
aveva detto che il suo regno non è di questa terra, onde non si potette
confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a Cesare. Le dispute furono
sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine nelle dispute, ma i suoi
successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia rono ad esse, e l'impero
ne fu turbato : lo stesso Giusti niano cadde nell'errore. In Italia solo
Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio deve alla religione . Egli la
rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore dell'autorità regia, fu
giusto giudice nella controversia tra il pontefice Simmaco e il suo competitore
Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano egualmente e de’laici e de ' preti
» . Ma anche i suoi successori non ebbero la di lui virtù. Surse così in Europa
un nuovo ordine di cose . « Delle vicende della giurisdizione ecclesiastica
nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra i quali un gran nu mero forse non
è stato esente da ogni spirito di partito. ( 1 ) Giorn. ital., 1804 25 giugno ,
n . 76, p. 308 : Memorie stori che della repubblica di San Marino, ecc . 192 )
) . Noi crediamo che l'indicar le ragioni, per le quali si con fusero i limiti
delle due giurisdizioni, sia il più giusto elogio che far si possa e del nostro
governo e della Santa Sede ( ! ) , che con tanta prudenza li hanno ristabiliti.
Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò
che tu hai ricevuto non da Cri sto , ma da Costantino, io ti consiglio a
ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il
consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente
politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche,
il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto
far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere
temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare
il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo ; a
che dunque serve il potere temporale ? Il po tere temporale ci appare come il
resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità
non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il
patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della
Chiesa .... Serviva : ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le
parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro,
consacra nella realtà della vita . L'abdicazione ai diritti antichi significa
potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza
antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento : un
elemento dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica,
che non intende penetrare in una sfera che non è sua ; un elemento politico,
determi nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il
conflitto con il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di
minore resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una
( 1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e
che occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa
abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della
religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in
terra il compito antico . Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde,
ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza
spirituale della religione sono eterne , cioè presenti alla nostra coscienza
umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio
temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco
lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari,
discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno
civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi,
le loro usanze, i loro istituti . Nacque così, crede il molisano, quella specie
di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la
distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a
concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato » . I
vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni,
divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani.
L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione . La Chiesa
insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa
predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù
contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza
grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi
che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli
ordini ec clesiastici . La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo
superfetazioni antisociali . « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro
autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere
indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a
misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini 13 F. BATTAGLIA . 194
pubblici ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la
sola infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato ; e dovean
segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più
energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura.
Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ».
Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista,
che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli
elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre
pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e
cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa
come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza
etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri
salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio
giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co
nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del
tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti
elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista , ma nello stesso tempo il
suo Stato è confessionista, sebbene tollerante : anzi il nostro lo consiglia ad
essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e
dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova
una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi
sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni
pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma
subordina al suo controllo : la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli
organi centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in
conchiu sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito
religioso e scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato ; ma
soltanto a risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e
pratico di co teste forme superiori dello spirito , le quali, se sono ideal 195
mente sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti
sociali, materia del diritto » ( 1 ) . Questo giurisdizionalismo confessionista
del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e
negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni
religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto ( 2 ) , all'affermazione
d'una supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato . Il giurisdizio
nalismo napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira
più all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco
segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri
conoscendo l'altezza etica della Chiesa . Nulla ci induce a credere che egli
fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi
scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia , di cui ci dà' notizia il
Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito
profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e
la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il
Vico, suo maestro ideale, avea già superata ( 3) . Egli differisce dagli
scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il
confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che
nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito . Da
noi la religione dominante è la cattolica : non vi è legge che da essa e dalla
sua morale possa prescindere . Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle
varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do
veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che
voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo
edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di ( 1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. ( 2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico
vigente, 1923, Cortona, v. I , p. 19 sg. ( 3) G. GENTILE; Studi vichiani, p .
385. Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I , pp.
297-302 . 196 rispettare la religione de' padri suoi ; il primo dovere di chi
ama la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui
non vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si
distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico
sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità,
ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità
e italianismo nel « Giornale italiano » . Le origini della nuova Italia . Il
concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso
Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e
nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella prima
parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo
Cuoco , quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini
franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette
a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico,
che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono
alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non
emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è
fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e
politica , e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei
rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa
nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore,
che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni
forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle
nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo
del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi
non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento
nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli
immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito
nazionale . È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente
Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice
che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità
rifarsi ai fatti della Partenopea ( 1 ) . Il tragico fato della repubblica
disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto
dottrinaria, astratta , più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò
non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria
. È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti ,
e poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti . Sarebbe facile fare dei
nomi e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio
pro posto : ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in
primo luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee
sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana ; in secondo luogo perchè
dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la
diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex
ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione
per ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18
giugno 1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le
sorti repubblicane volgevano al peggio ( il 17 giugno Ruffo accorda la resa
alla città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei
Patriotti Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere
espresso numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto
la misera ( 1 ) B. CROCE , La rivoluzione napoletana , p . XII . 199 condizione
dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con
profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca , osate alfine di
soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza
e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli
del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno
invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti
i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra
alternativa , che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella
tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata,
il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e
Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà .
Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel
centro dell'Italia , saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle
contrade ; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà
nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno
sventati ancor questa volta ; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due
astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto
Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti
delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà ( 1 ) . Il
documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si
pensa che è esso stato ver gato , quando le sorti non solo di Napoli e
d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano.
Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno
scritto , enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio : il
Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte
degli ( 1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana , p . 335 ; M. Rosi , op. cit.,
v. I , p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit . , p. 151 e sgg 200
stessi francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello
di allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria.
Anche il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà
che non era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela
filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i
diritti, quelli che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e
all'in dipendenza , quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX
poi preciserà come i presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non
divisa da grossi fiumi nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal
triplice mare dagli altri popoli, forma una indissolubile unità geografica : è
questo il primo elemento della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno
la stessa tinta di passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo
morale e di fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la
stessa religione : tutto li addimostra per membri della stessa famiglia : sono
questi nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici,
linguistici e religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico.
Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo
evolutivo della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed
avrete l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che
possiamo dire d'una nazione ( 1 ) . Gli italiani hanno perciò un diritto
naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia,
dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo
così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose
piaghe, che la tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco
« a tanti mali ? Qual rimedio a piaghe sì profonde ? Come imprimere alle de ( 1
) F. LOMONACO , Rapporto al cittadino Carnot, ecc. , in se guito al Saggio
storico di V. Cuoco , Laterza ed. , Bari, 1913 , p. 323. 201 presse ed avvilite
fisonomie italiane il suggello dell'an tica grandezza e maestà ? Uno dei
principali mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè termini il monopolio in glese
, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente ; perchè
si oppongano argini all'ambizione del l'Austria , la Francia abbia una fedele
alleata , la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im
pero russo stia immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica
della gran repubblica ; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia
politica e si disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia
fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea
, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità ; avendo
governo, diver ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della
libertà e di tutti beni che ne derivano ; ecc. » ( 1 ). La ragione prima
dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio
europeo , quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro
belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste
le sante origini di quel concetto di nazionalità ( 2 ) , che troverà poi in
Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che
con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli
stessi senti menti . Ma questi da lui come vengono trasformati , in lui quanta
nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi
glia , Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano,
ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ) . Io non mi indugierò neppur
brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina ( poi italica
) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di ( 1). F. LOMONACO, op.
cit. , p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione
napoletana del CROCE , ove vi è un largo studio sull'argomento , pp . 329-342.
( 3) N. RUGGIERI , op. cit . , p . 3 ] . 202 studioso, di cui sono documento le
Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L.
Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato ( 1), del
nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana,
opera scientifica di vasto respiro ( 2 ) , che dimostrano quanto alto fosse il
bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo
sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio
politico e legislativo . Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su
essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del
Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra
coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica , il
problema unitario . In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni
del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia . Napoli,
dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa , dopo il fiorire della sua
Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo ,
caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva
visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività
scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor
provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e
più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla , dato che con le vit
torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia , di Firenze, di
Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il
centro più attivamente colto d'Italia . Grandi in essa sono le memorie del
popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del
giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo » ; ivi « la 6 Società
patriot tica ” , divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione
delle idee nuove » . Come rileva Francesco ( 1 ) N. RUGGIERI, op. cit . , p. 40
; G. Cogo , op. cit. , pp. 13-23, ( 2 ) G, Cogo, op. cit . , p . 24 e sgg. 203
De Sanctis ( 1 ) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi
tentativi giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente
contro la curia romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia,
che pur non avendo portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò
importanti riforme civili per il miglioramento del l'uomo, che già erano
concrete conquiste civili , allor quando il turbine rivoluzionario si scatenò,
distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva
crollare e ciò che era degno di restare. A Milano aveva scritto il Beccaria,
instaurando nel campo penale nuove dottrine, che, reagendo a tutto il sistema
degenere del medievale processo inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire
delle dottrine criminalistiche ; il Verri aveva disputato di economia, di
finanza , di sociologia ; il Caffè aveva agitato nelle menti più illuminate i
nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove posizioni artistiche, che
appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e l'Europa tutta. Questa la
tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo Milano rinnova in una vita
sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi hanno fatto affluire esuli
non solo da Napoli , ma da ogni parte d'Italia , poeti e filosofi, soldati e
commercianti, giureconsulti ed econo misti ( 2 ) . È il periodo grande della
vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri nomi, appena da poco
spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da meravigliare se in
questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle questioni, che poi lo
stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà insomma nell’azione
politica . L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa società così vivace ed
attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua natural pigrizia, che
lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS , Saggi critici, Milano, Treves ed. ,
1918 , v. III , p. 2 . ( 2 ) R. SORIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel
primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della Società pavese di storia
patria , a. XVIII ( 1918 ) , pp. 102-117 , pp. 119-121 , 204 lui notava , e
della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su citati, sono
testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica il 2
gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè al suo
ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due valentuomini,
Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello ( 1 ) . Seguendo il nostro metodo di
non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon
dazione del foglio milanese ( 2 ) , e vediamo piuttosto che cosa esso
rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i
precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e
Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di
già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da
acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo
inin terrotto ? Esiste realmente e storicamente una naziona lità italiana, che
è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e
nulla più ? E quali sono questi elementi ? Abbiamo noi perciò un diritto na
turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono contestare, donde
scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità nella
forma d'uno Stato indipendente e sovrano ? Sono questi al trettanti problemi ,
ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col pensiero agli
scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno sforzo a definire
concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di nazionalità, che
poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare, proprio nel momento
, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato. Nè è a dire che ( 1
) V. FIORINI e F. LEMMI, op . cit., p . 655. ( 2 ) Cfr. A. BUTTI, La fondazione
del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed ., 1905 (
estr. dall’Ar chivio stor. lomb. , a. XXXII, fasc . VII) ; vedi pure N.
RUGGIERI, op. cit . , p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp. 30-34. 205
l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura . Uomini di
ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente il contenuto
della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra quelli da noi
presi in esame, si rivela attivo nella formazione della nazionalità, ma poi non
può essere a rigore accolto come necessario essenziale costi tutivo. Ancora :
vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono ; altri che operano
storicamente con una certa intensità , ed altri con una intensità maggiore o
minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici, etnici, lin guistici ed
eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro concetto, del concetto che noi
tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani sono fatti per essere membri
d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma come la base concreta , sovra la
quale s'aderge il superiore diritto a che l'Italia sia un solo Stato. Data
questa concezione naturalistica, la conseguenza che ne scaturisce è una sola :
il popolo italiano ha una superiore ragione a divenire indipendente, a trovare
la sua forma giuridica in un reggimento uni tario ; gli stranieri non debbono
che riconoscere positiva mente quel che Dio o la natura, o altri che dir si
voglia, segnarono sulle coste delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la
patria nostra dalle altre patrie, facendo si che essa, geograficamente
delimitata dalle Alpi e dal mare, sia abitata da una sola gente, parlante un
solo idioma, avente una sola religione, una sola storia, una sola mis sione,
una sola somma d'interessi. Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono
ai francesi . Essi sono i più forti, essi possono perciò estrin secamente
donare all'Italia quell'unità statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la
nazionalità è una realtà non da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che
ancora non è fatto ma da farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come
esterno alla nazione, quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può
non essere, ma che, sia o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può
esservi la nazione e non esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il
riconoscimento susseguente ed esteriore d'una 206 realtà già concretizzata , e
quindi definitiva, che è la na zione con quegli elementi che sappiamo. Contro
questa concezione s’oppone il Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della
nazionalità può dirsi essenziale al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad
uno, ed ognuno di essi ci apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi
val quanto costruire sovra la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità
naturale, che in sè e per sè non ha che una importanza relativa, tant'è vero
che gli ebrei sono nazione pur fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo
quasi due millenni da che si sono dispersi per il mondo ? Che è la religione,
se noi la concepiamo come religione comune di tutti, con quei determinati
solenni riti e con quella certa gerarchia ecclesiastica , se non un astratto ?
Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti, ed altri che abbiamo sorvolato,
acquistano mag giore consistenza , se noi li guardiamo non già nella loro
estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li consideriamo nella loro
significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li compenetriamo di noi,
de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più allora la terra fisica
geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal Mediterraneo, dal l ' Jonio
, dall'Adriatico , e separata dagli altri popoli da una catena di monti
inaccessibili » , ma bensì quella terra che ci vide nascere e vide nascere i
nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i nostri padri,
saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia mo, ove
lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle grandi
cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi costruzioni,
nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono e ci fanno
fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana con i suoi
dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri, bensì quella
religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere degne, ci
rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come speranza
di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente, sempre
viva e rin novantesi . 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia . La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi ; non
è materia o natura, ma spirito ; non è contenuto, ma forma del più vario
contenuto . Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La
nazionalità non è , diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra
determinata energia spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e
generata in ogni suo momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco
esprime in quel Disegno di un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al
vice- presidente della Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril ( 1 ) . La
nazione, egli dice, non è formata ; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non
si tratta di conservar lo spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le
menti degli italiani a pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne
avvedano, alle idee che la loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini
di uno Stato coloro i quali sono nati abitanti di una provincia o di paesi
anche più umili di una provincia » ( 2 ) . Da ciò è facile vedere come la con
cezione naturalistica sia superata : la nazione non esiste ( 1 ) Il documento
tratto dall'Archivio di Stato di Milano è stato pubblicato dal prof. ATTILIO
Butti in appendice alla sua op. cit., nonchè ristampato da G. GENTILE :
VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e rari, Roma-Milano, Albrighi e Se
gati ed., 1909, p . 3 e sgg.; e poi da N. CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO
Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed. , 1924, v. I. , pp. 3-12 . ( 2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v . I , p. 4 . 208 in natura, come mera entità di fatto,
ma nello spirito, come superiore unità ideale. Quest'unità dello spirito, che
poi è energia plasmatrice e volontà realizzatrice, come abbiamo detto, consiste
di due parti principali: « la prima è la stima di noi stessi e delle cose
nostre ; la seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su quegli oggetti che
possono essere utili o dannosi » ( 1 ) . Io direi : è in primo luogo
autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità ; in secondo
luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con tutti gli
altri particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La nazione
così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la volontà
è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo,
sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne'
grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel
lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero
ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore
carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione
nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la
poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a
maggiori grandezze . Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che
retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti , su cui tutti possono
meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al
giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto
. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà
il riso ; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury ,
non può produrre mai più verun buon effetto » ( 2 ) . Anche la tradizione, come
tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma
veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva
inerte, se la riguardiamo ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p . 3 . ( 2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v . I , p. 4 . 209 come un frigido insieme di fatti ; ma
se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di
loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora
la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa
diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi »
scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella
energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza , per cui
han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al
proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi bene
o che un altro operi meglio ; e finalmente quella costanza ne' pensieri, ne'
disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i
nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si
analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori
sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non
dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » ( 1
) . Posto ciò , allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma
di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che
noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente
dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non
riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della
nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di
Stato nazionale è la stessa cosa : affermare la nazione val quanto affermare lo
Stato nazionale. E siccome la nazione non è , ma diviene ; lo Stato non è, ma
diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è
riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo
per realizzarlo , e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si
tratta di fare lo spirito pubblico , la coscienza nazionale, si tratta di ( 1 )
V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 3 . 14 F. BATTAGLIA . 210 fare lo Stato, e lo
si fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte
della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da
aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili ( 1 ) ,
onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà . Basta
presentare queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle
spesso, perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini
convengano in tre cose : in rispettar i governi, in rispettar la religione ed
in praticar la morale ; e se tra queste cose si potesse stabilire una
progressione, io non avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della
morale porta seco il di sprezzo prima della religione e poscia del governo. È
na tura dell'uomo trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che
sanciscono i doveri, e finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le
leggi » ( 2 ) . Dato che lo Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo
la volontà di Stato con la volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di
noi, ne viene che la volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui
intima e connaturale : anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in
quanto que sta si pone come universale, una ed armonica con tutte le altre. Il
rispetto al governo non deve essere una coa zione, ma un'accettazione libera,
poichè nell'atto go vernativo vediamo l'espressione di posizioni da noi con
divise, anzi da noi volute. Il rispetto quindi allo Stato è in quanto nello
Stato vediamo la sublimazione di quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato
del Cuoco è stato etico, e, in termini giuridici, professionista, ne
scaturiscono come conseguenze inderogabili: il bisogno che i soggetti
rispettino la loro religione che è anche religione di Stato, pratichino la loro
morale che è anche morale di Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato
unitario che è la Repubblica italica, poi Regno italico, si pone ( 1 ) V.
Cuoco, Scritti vari , v. I, p. 3. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 8 .
211 dinanzi una sublime missione, un compito titanico : for mare la coscienza
di quel che sarà o diverrà la nazione italiana. Il problema che abbiamo
esaminato nei napo letani del '99 è invertito. La rivoluzione imponeva una
unitarietà estrinseca, mirava a formare un sentimento vuoto ed astratto di
pseudo - solidarietà umana ; il Cuoco invece s'affisa nell'interiore degli
uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella coscienza che il nuovo secolo
XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è che un atto d'energia volitiva,
che plasma e fonde in sè ogni parti colare contenuto. V'è il popolo, quel
popolo che i giacobini idolatravano e levavano alle stelle , ma a questo popolo
la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta e grande, attraverso l'opera di
pochi disinteressati idealisti, o italiani o stra nieri; no , questo popolo
deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi problemi del tempo, acquistarne
la cono scenza , prepararsi liberamente l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo
come elemento indispensabile della vita civile , come il grande operatore della
storia in tutti i suoi sviluppi. La rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma
di fatto ne ha poco rispetto ; poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e
fargli subire i nuovi sistemi politici , come già subiva i vecchi, vuote
sovrastrutture, in cui può vibrare ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine
è ne' giacobini, che sono i pochi, non nel popolo, che è la molteplicità. Il
Cuoco crede ciò un grande errore, ed è questa la grande sua trovata, ond’egli
meritamente s’as side tra i grandi del nostro paese. Se vogliamo creare quella
realtà spirituale che è la nazione, non possiamo prescindere dal popolo, dal
popolo che abbiamo visto nel Saggio essere il solo autore delle rivoluzioni e
delle con trorivoluzioni. Il principio della storia è in lui, e in lui sono
tutte le più remote scaturigini della vita. Parlare al popolo, dunque, e
ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa pubblica, fargli acquistare
dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le istituzioni o non sarà ad
esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè stesso, ma le amerà come
sue, espressione della sua più alta eticità , 212 e con le istituzioni amerà la
morale e la religione, che con le prime vedrà intimamente legate. Oggi, dice il
molisano, esiste bene o male una Repub blica o un Regno italico ; il popolo
però ancora ne è fuori: bisogna unire i due termini, perchè solo così il primo
sarà veramente un ente vitale, il secondo un'unità cosciente e non una
molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani, il Cuoco non lo dice ma noi lo
intendiamo, vicende storiche nuove distruggeranno la mal connessa unità
napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno il bel suolo d'Italia, se in questo
domani il popolo sarà ancor sopito o morto alla vita pubblica, ohimè, non vi
sarà speranza più di unità e di indipendenza ; ma, se per av ventura questo
popolo noi lo avremo educato, istruito , reso elementó vero dell'attività
sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di lunghissime lotte perchè la volontà
co mune di nazione, la volontà di Stato libero si concreti, s'imponga in
giuridiche affermazioni dinanzi agli stra nieri, che le subiranno e le
riconosceranno ! Così il problema politico in Vincenzo Cuoco diventa sopra
tutto problema pedagogico, anzi il problema peda gogico per eccellenza, come
quello che è destinato a creare un popolo, una nazione, uno Stato ( 1 ) . Ben
nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere spirituale dei moti, che dalla
rivoluzione si espressero, sfuggiva ai rivoluzionari, anche ai più eletti, il
Cuoco intende la nuova esigenza e vuol essere educatore : nella sua grandezza
come peda gogista intendiamo la sua grandezza come storico e po litico ( 2 ) .
Certo gli ostacoli a questa missione, a questo fine sono grandissimi, ma non
per ciò il molisano si sbigottisce: quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più
bello sarà il premio nell'avvenire. Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è
senso unitario; siamo poveri, pochi , disgregati, senza un esercito vero e ( 1
) P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. ( 1924
), Torino , p. 106. ( 2 ) G. DE RUGGIERO, op . cit., p. 175. 213 proprio ; non
importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed esce in una profetica dichiarazione
di fede, che, ancor oggi, commove e rende superbi nello stesso tempo. « Ogni
Stato » scrive « ha un periodo da correre . Tutte le nazioni piccole son
destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non periscono, le quali dispongon
per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini futuri; onde, quando il corso
de gli avvenimenti loro presenti le occasioni opportune, esse, per mancanza di
preparazione, non si ritrovano impo tenti » ( 1 ) . L'unità d'Italia prima sia
nello spirito, poi certamente sarà nella vita giuridica : ma noi non possiamo
presu merla in questa se non ci sforziamo di concretarla in quello. Dalla frase
che io ho richiamato appare chiaro quanto caldo sia in Cuoco il pensiero
unitario : non basta quella parvenza d'autonomia che la Francia ci dà e Na
poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che è Italia a Milano sia
Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè lo Stato nazionale.
Questo non è un di ritto del passato inestinto e inestinguibile, sacra eredità
di generazioni trascorse, ma unità da formare ex novo attraverso un'opera
diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è diritto e storia antica deve
rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e storia nuova, perchè nuova
volontà e nuova consapevolezza. La storia in un certo senso è peso bruto, se
non si vince come passato ; è atti vità propulsatrice, se noi la riviviamo e ne
ritragghiamo incitamento. Perciò tutto il Giornale italiano è pieno di storia,
di memorie antiche, di riesumazioni dotte, d'in formazioni nazionalistiche : ma
tutto ciò non è materiale d'archivio , da biblioteca, bensì esempio da
prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino di un legittimo orgoglio, che
non è comodo adagiarsi in una indiscussa superiorità o antico primato italico,
ma incitamento a nuove opere . Ecco ciò che si propone all'incirca il Giornale
italiano : un'alta opera di pedagogia pubblica . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. I , p. 7. 214 Questo giornale, divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato
dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso si è ritornati, e in esso si sono
rinvenute le vere ideali origini, di questa nostra Italia, di cui il
Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non l'estrinseco dono di questo
o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il Gabinetto britannico. La
direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni : sono tre anni d'un
apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un minuto di riposo .
Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o storico, econo mico od
agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di Vincenzo, e tutto egli
rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso osserva, « per formar la
mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa, abbia una mente, cioè un
fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » ( 1 ) . L'importanza di
questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco. Già il Romano lo
proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità ( 2 ) » , e, come il Cogo
ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove sicure,
sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po' di più
la sua atten zione ( 3 ) . Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre il
Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto
quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente
affermi la sua na zione ( ) . Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo,
l'Hazard , non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa
importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che
ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta milanese,
spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C. , fossero letti da
un giovanetto idealista ap ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari , v. I , p. 3. ( 2 ) M.
ROMANO , op . cit . , p. 136. ( 3 ) G. Cogo, op . cit. , p. 32. ( 4 ) P.
HAZARD, op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li
postillava e li trascri veva , da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a
destar gran fuoco. Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il
Giornale italiano si propone, e che esplicitamente di chiara : in primo luogo,
« presentare al pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri
tempi : non, come talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini
che si avevano, ma quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi
stessi gli ordini che abbiamo » ; in se condo luogo, « incominciare a
misurarci, almen col pen siero, colle altre nazioni » ; poi, « ragionar
frequentemente sulle operazioni nostre », onde acquistare coscienza delle
nostre possibilità, delle nostre virtù e dei nostri vizi (1 ) . Tutti questi
tre mezzi miravano ad un fine unico, far comprendere agli italiani che « chi
oggi non è grande » e « quasi diffida di poterlo divenire » , lo sarà, come «
lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio 1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno
scritto del Monti, di quel Monti, che egli pur non troppo ammira come
personalità morale ( 3) , scritto col quale il poeta cesareo esalta l'Eroe,
che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso suo conquistatore, suo
liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo lodare l'Eroe, « soggetto
tanto comune qual è sempre » , ma bensì per la novità che ha saputo trovare e
per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le antiche glorie italiane,
e le sciagure e l'avvilimento , che alla gloria succedettero, ridestando le
ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di Dante, di quel poeta del
quale nessuna nazione p. 5. ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 5 e sgg . (
2 ) V. Cuoco, Scritti vari , v. I , ( 3 ) Vedi N. RUGGIERI, op. cit., p . 163 ;
nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi
venti cinque anni del sec. XIX , Milano, Stella ed ., 1831, p. 131 e sgg ., e
G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a ediz. corretta da P. THOUAR,
Firenze, 1853, v. II , p. 259, n . 3 , ai quali il Ruggieri stesso rimanda. 216
può vantarne un altro più pieno di civile sapienza » ( 1 ) . « Non altri »
commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione solenne che Monti
celebrava ; di Dante il quale forse il primo incominciò a illuminar le opre
infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo derni; di Dante il
più zelante dell'antica gloria degli italiani ; il più severo censore della
corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta ; di Dante che tutti i
suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del risorgimento
dell'Italia ; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli abitanti
delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e negli
ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi » . L'alta
coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della stirpe, e
per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti i grandi
fattori della nostra storia e della nostra civiltà , da Manzoni a Carducci, da
Mazzini a Gioberti ( 2 ) . E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che è
italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un
felice intuito storico, per cui il fenomeno politico ( 1 ) Giorn. ital. , 1805,
27 maggio, n. 63, p. 274 : Visione del professore V. Monti. Per altri accenni
del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I , p. 235, 257 ; v. II , p.
267. ( 2 ) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si
addimostrò chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante
polemiche, con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di
impicciolirlo. Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante
poteva ritenersi a priori una lettura sonnifera , e che la Divina Commedia era
l'opera di un piccolo politico , di un poeta bar: baro, del quale solo pochi
frammenti potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca : « Sia permesso
all'autore dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse
politica mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del
profondo politico , ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della
Divina Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia , libro che, ad onta
delle spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e,
ciò che più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni » . Vedi
Giorn. Ital . , 1804 , 25 gennaio, n. 11 , p. 45. 217 e culturale è
mirabilmente rappresentato . Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui
rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte rinacquero in Italia, e
dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor barbaro dell'Europa ; si
scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni si aggiunsero all'antico
; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che esse produssero fecondò li
primi semi di quella libertà di pensare che dovea col tempo produrre e la sana
filosofia e l'imsensato pirronismo » ; ma subito si entusiasma, e , quasi a
suggellare tanta gloria , esclama : « e tutti questi avvenimenti o nacquero o
agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per l'opera degli
italiani...! » ( 1 ) . Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di Raffaello , di
Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto , di Tasso, di Machiavelli
. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai, se si
eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del Prin cipe
e delle Deche ? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli
si può fare, ed è stato fatto ( 2) . « Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha
paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di lui trovò i princípi e
le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale : e come il Machiavelli
segna il punto nel quale i fervori umanistici si incarnano nella realtà della
vita politica , e, svestito il paludamento retorico, si rivelano nelle linee
semplici e precise di un nuovo ideale, così il Cuoco, dopo un secolo di
vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura esperienza, per la quale si
fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela rinnovata e con sapevole di
sè la coscienza italiana » ( 3 ) . ( 1 ) Giorn . ital., 1804, 21 , 23 , 25
gennaio ; n . 9, 10, 11 ; pp. 35-36 , pp. 39-40, pp. 43-44 : Varietà : ( vedi
in precedenza, p . 163 ) . ( 2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il risveglio della
coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese, 1903, Ap pendice
B. LABANCA, op . cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218 « Le ragioni
che possono suggerire il pensiero di una certa affinità tra i due scrittori
sono parecchie : 1° la tradizione, superficiale e scolastica più che al tro,
della trasmissione dell'ideale unitario ; 2º una certa affinità nelle
circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere
alle fatiche dello scrivere ; 30 il comune intento di ricamare sul tessuto
della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro
convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e
sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » ( 1
) . Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno
sempre un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni
dei tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il
Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si
può mai raffrontare col Risor gimento , fenomeno soprattutto politico sebbene
anche culturale. Quel che a noi invece interessa , ripeto, è la nuova luce che
il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle
che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il
maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi » . A ciò immagina che un suo
amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di
Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo : in questo manoscritto
l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico. La
discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura . « Il
maggior numero ( degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno
di passioni e servo de' partiti. Io ( 1 ) G. OTTONE, op. cit ., p. 51.
Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico,
laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza
passione veruna ; non ho seguito nessun partito , e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto : gli uomini
ragionevoli son pochi » . Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il
Machia velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da
ogni giudizio a priori ( 1 ) . Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia
ai Me dici , ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il
duca Valentino ? Nulla di tutto ciò . Egli ha visto i costumi e gli ordini dei
suoi tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi : che fate ? voi non sapete
essere nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete;
voi non avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per
distruggerle negli altri. Ha detto : siate giusti, e, se pure qualche volta
vorrete permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi
soli permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano
dell'uomo foscoliano : che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne
sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. ( 1 ) Che
questa sia proprio la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire
ad una esatta comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un
passo di un altro suo articolo : Giorn. ital., 1806, 5, 6 , 7, 8 gennaio , n .
5 , 6, 7, 8 ; p. 19, pp. 23-24, pp. 27-28 , pp . 31-32: Politica ( ristampato
in Scritti vari, v . I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia
). « Quelli li quali leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla
stessa attenzione colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo
giudicano senza averlo letto ( com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la
scuola ge suitica ) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o
abbia voluto rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al
popolo ebreo . Io son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè
l'altra cosa, ma vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con
una mente la quale era superiore ai tempi suoi , e che in conseguenza doveva
esser per necessità ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non
era mai ben compresa » . 220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha
parlato ai popoli ? Ha tentato di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che
avrebbe parlato, dati i tempi, invano. I principi si muovono per il loro
potere, i popoli per la loro virtù. Sperimentati i popoli tra i quali viveva,
non ha potuto dir loro : fate uso della vostra virtù ; essi non l'avevano.
Invece si è rivolto ai principi ed ha detto : fate uso del vostro potere ; e
questo precetto prima o dopo avrebbe dovuto produrre gli stessi effetti del
primo, « perchè è tanta l'efficacia della virtù che, anche simulata, vale a
ricomporre gli animi e gli ordini delle nazioni » . Ma perchè ha scelto come
suo esempio il duca Valentino ? Perchè quelli che il duca oppresse e distrusse
erano più scellerati di lui, e fra tanti scellerati ha preferito quello « che
almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir
l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili , dividevano e desolavano
» . Da queste notazioni scaturisce ben netto il giudizio che il Cuoco fa del
Machiavelli, giudizio ben diverso da quello che ne davano tutti gli storici e
ne dà lo stesso Foscolo, che si arresta sbigottito di fronte alla crudezza e
alla rigidità delle massime politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano
troppo vigile senso storico e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il
suo giudizio infine coincide con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe
questi proprio lo scritto cuochiano ? Io ne du bito assai ; ma certo è che i
due critici si incontrano, spinti forse ad un punto comune da un solo ideale,
da studi similari sovra la grande opera vichiana, da un eguale temperamento
meridionale, più nobilmente concreto nel suo idealismo critico che non astratto
in un nebuloso atomistico positivismo. ( 1 ) « C'è un piccolo libro del
Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato
nell'ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro , e
questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel
suo va. lore morale. E hanno trovato che questo libro èun codice della
tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il
successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il Cuoco risulta da questo
nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche, ma la sua esaltazione
non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente illuminata da fine senso
storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno politico, glorioso
od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue radici, cioè la
sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo ; Machiavelli è
Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione, per noi può
anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a loro passivi,
ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no stra,
affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi con la
nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di Vincenzo lo
differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela a questo
proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel giornale una
propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte
di questo libro , ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella
intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un
Machiavelli rimpiccinito » . ( F. DE SANCTIS , Storia , v . II , p. 50) . «
Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista . Ciò a cui mira è la
serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi
diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da
riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato
da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il
suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola
le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere
lodevole o biasimevole ; e se è degno di biasimo , è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am
mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo . La
responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile ; non ammette l'odioso e lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare » . ( F. DE SANCTIS , Storia , v.
II , p. 69 ) . 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua
metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia : sono gli
italiani che hanno scoperto India ed America ( 1804, n. 6 ) ; si tratta del
sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani ( 1804, n. 140)
; si tratta d'arte tipografica : il primato italico con i vari Bo doni è
indiscusso ( 1805, n. 55) : e così in materia di belle arti, di poesia, di
teatro (1 ) . Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei
suoi connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per
provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è
a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non
solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da
poco sono mancati ai vivi . E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e
le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un
giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu
» scrive « sublime filosofo , profondo letterato ; il primo storico della sua
patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più
di filosofia , di cri tica , di gusto ; magistrato zelante, attivissimo, autore
o almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi
interamente la vita politica della Lom bardia austriaca » . E il Verri richiama
alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella
dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve
l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che
taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione »
(2) . Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si
riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed
eloquente, sebben dolorosa ( 1 ) P. HAZARD , op . cit. , p. 235. ( 2) Giorn :
ital., 1804, 4 luglio, n . 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia
politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani .
Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di
richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez . « Chi era questo
Giammaria Ortez ? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto
farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non
avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia
o per orgoglio ; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo
corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si
contiene la virtù » ( 1 ) . In questa difesa del nome italico il molisano muove
contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono
dispregiatori delle glorie nostre . Recen sendo infatti nel giornale un
opuscolo di Vincenzo Monti , Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si
scaglia contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato
menomare glorie purissime d'Italia , il Cuoco lo loda assai di ciò . « Noi non
entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo
poeta ; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene
dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non
sana esse, non sanus juvet Ore stes » ( 2 ) . ( 1 ) Giorn . ital . , 1804, 24
novembre, n. 141 , p. 573 : Economisti italiani. ( 2) Giorn. ital. , 1804, 24
novembre, n. 141 , p. 574 : Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la
tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta qui: allorquando
« un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (
un solo ? ) uomo di merito» ; allorquando il tragico -comico, drammatico
-sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da ignoranti , da
incolti e quasi da canaglia » (Giorn . ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al
n . 98 , pp. 577-8 , Necrologia ), egli è là , e s'appa lesa bellicoso
difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi
vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig . Akerblad » , egli
pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre
intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano
appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior
numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo
neppure per la nostra apatia : « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro »
( 1 ) . La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la
coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono.
« Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non
mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova
talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro ? Le sue
osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i
confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma
l'Italia rimane picciola » ( 2 ) . E così gli stra nieri si avvantaggiano su
noi : scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità
francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo
vilipese e trascurate . E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a
problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la
pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata
esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale
poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza ( 3 ) ; come, ancora
, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po
steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital. , 1805,
22 luglio , n . 87 , p. 470 : A proposito della « Lettre » di L. Bossi allo
SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op . cit., p.
89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie . (
1 ) Giorn. ital . , 1804, 28 marzo , n . 38, p. 152 : Scrittori italiani di
economia politica. ( 2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566 :
Biblioteca di campagna , ecc. ( 3) Giorn . ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p.
96 : Del governo delle pecore spagnole e italiane , ecc. , saggio di VINCENZO
Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit. , p. 88. 225 nostre secondo
il giudizio degli stessi stranieri ( 1 ) ; come, infine, addirittura pretese
scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano
scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno
di Giambattista Vico ( 2 ) . Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con
cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine : la formazione della
coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci
con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. ( 1 ) Giorn . ital., 1805, 31
ottobre, 2 , 4 novembre; n. 148 , 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90 :
Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G.
Cogo, op. cit. , ( 2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese
della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi
intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora
i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che
questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È
pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è
italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso ( e la scriveva circa il
1730 , quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ) , quest'uomo parla di
una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno della
calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita non
solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione intorno
al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico
conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto che si fossero
fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto svilupparla. Non
parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura : essa era figlia
di una ipotesi forse falsa . E qual altra ragione può aver altro fondamento che
un'ipotesi , o qual altra ipotesi può dirsi vera ? Del resto Vico proponeva
un'esperienza : dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli l'Italia non
mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il cielo : però
l'italiani più non navigavano, più non commerciavano ; i overni non si curavano
di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della medicina, dal
quale speravan ric chezza, quello della teologia , che li promoveva ad un
canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo d'ingegno avea per
vedersi aprire la casa d'un grande... » . (Giorn. it. , 1804, 6 'ottobre, n.
120, p. 489, Senza titolo : vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 244. 15 F.
BATTAGLIA, 226 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di
essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo.
Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi » ; « non importa :
appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e
perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » ( 1 ) . Ma
in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco,
anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e
freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella
filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra , ma i piccoli nipoti , i
discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla,
l'hanno abbando nata ( 2 ) : gli italiani hanno creato i più splendidi melo
drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci
di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta seco la
decadenza della musica ( 3 ) : gli italiani un dì maestri nella difficile arte
della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da noi hanno
appreso ( 4 ) . Questa posizione critica, che tanto distingue l'italiani smo
del Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela anche nel terzo
mezzo dal molisano adottato per creare un sentimento unitario : il ragionar di
frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne
abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode ; cose le
quali, sebbene opposte, pure per la natura dello spirito umano, che oscilla
sempre tra gli estremi, non sono inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre
occorre invece ragionare obiettivamente, senza ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v.
I , p. 5. ( 2 ) Giorn . ital. , 1804, 25 febbraio, n. 24 : Sullo studio delle
lingue ( ristampato in Scritti vari, v . I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico
e lo studio delle lingue come documenti storici). ( 3 ) Giorn. ital . , 1804, 8
ottobre, n. 121 , p. 493: Spettacoli. ( 4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile , n.
50, p. 200 : Varietà ( ristam pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in
Scritti vari, v. I , pp. 89-92, col titolo di Eloquenza ecclesiastica ) . 227
accenderci troppo, con scienza e ragione, e allora saremo davvero illuminati, e
allora troveremo « mille volte motivi di renderci migliori e non mai di
crederci pessimi » ( 1 ) . A questi princípi superiori il nostro uniforma
l'analisi, che, di volta in volta, fa dei più importanti fenomeni del tempo.
Recensendo, per esempio , un libro dell'avv. An tonio Corbetta sulla malavita ,
( 2 ) ritiene che tra le altre cause, che questa alimentano, la più importante
și debba ritrovare nell'educazione insufficiente. « Noi non abbiamo costume » .
« Noi non abbiamo educazione fisica » . « Noi non abbiamo educazione dello
spirito. I figli del popolo non imparan da fanciulli nulla di ciò che....
dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco come Cuoco getta rapi damente la
luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle cause , anzi alla causa per
eccellenza, più remota, ma più vera . Provvedimenti di sicurezza ? Ma questi
sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta note le cause de
terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non
sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali con una intensa opera
di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda, in questo campo ?
Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di natura superiore,
pedagogico, anzi filosofico : l'educa zione del popolo, di cui il Cuoco è il
più strenuo soste nitore , e che egli pone sovra basi nuove e geniali. Ma
questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il problema
insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a parlare
del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione
nel regno di Napoli. ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I , p. 6 . (2) Giorn. it
., 1804, 20 agosto, n . 100, p. 410 : Osservazioni di un ex giudice , ecc .
CAPITOLO VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico.
Deficienza artistica filosofica e storica del « Platone » . – Suo - valore
ideeale nella formazione d'una nuova coscienza na zionale. - Antico primato
italico preellenico. - Unità. - Educazione del popolo. Governo dei migliori . –
Stato e religione. - Lotta di classe , - Cuoco e Gioberti. L'opera pubblica e
pedagogica di Vincenzo Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si
esaurisce nei molte plici articoli del Giornale italiano, di cui noi abbiamo
rile vato soltanto i più importanti, quelli che meglio servivano a documentare
particolari punti da noi presi in esame, ma si continua nel Platone in Italia,
nuova ed alta testi monianza di quello spirito che abbiam visto in opera
ininterrottamente dai Frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il
Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Paul Hazard ( 1 ) , che nel 1801
scriveva che avrebbe « amato di morir per la sua patria » , con la sua Napoli,
« poichè essa più non esiste », ( 1 ) P. HAZARD, op. cit. , p. 243. 229 mentre
egli vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri
( 1 ) ; ora consapevole sem pre di più di quanto nel Saggio storico ha pur
detto, cioè che « l'amore di patria.... nasce dalla pubblica educa zione » ( 2
) , ora scrive una nuova opera il cui solo fine è sempre lo stesso da noi
precedentemente dichiarato : creare lo spirito nazionale, e crearlo,
presentando quanto più spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi . Che
questo sia lo scopo del Platone in Italia nessun dubbio : è Cuoco stesso che ce
lo dice. Il Platone scrive l'autore , prossimo a pubblicare il terzo ed ultimo
volume del suo romanzo, in una lettera al vicerè Eugenio è « diretto a formar
la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione,
quell’amor di patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto » ( 3
) . Il Platone perciò è un romanzo a tesi, o, se volete , un romanzo didattico,
se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata
assolutamente l'ulte riore valutazione artistica. E chi lo legge con cura non
può non accorgersi di questo scopo , estrinseco sì all'arte, ma non allo
scrittore, di questo scopo che egli persegue, e per il quale solo sembra
vivere. La trama in sè è tenuissima, tanto tenue che lo scrit tore quasi non se
ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla : un giovane greco,
Cleobolo, fa un viag gio culturale nella Magna Grecia al principio del quinto
secolo di Roma, con il suo grande maestro Platone, vi sita le più importanti
città d'Italia, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Crotone, Locri, ecc
. , conosce di rettamente o indirettamente i più fieri popoli della pe ( 1 ) G.
ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale
storico della letteratura italiana , a. XII ( 1894), v. XXIII , pp. 416-427. La
lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari , v. II , p . 302. ( 2 ) V.
Cuoco, Saggio storico , p. 91 . ( 3) A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al
Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze Scherillo
-Negri, Milano, Hoepli ed. , 1904, pp . 529-40. La lettera è ora ripro . dotta
in Scritti vari, v. II, pp. 334-338. 230 nisola, i sanniti e i romani, ammira
le opere d'arte, di sputa di filosofia, si innamora d'una bella ragazza, Mne
silla, stringe con essa un bel nodo d'amore. La trama è questa, ma vien meno
dinanzi a l'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la
frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il Platone in Italia è sotto
questo riguardo un ro manzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra
cui sopra tutti importante quel Voyage du jeune Ana charsis en Grèce, che nel
secolo XVIII ebbe una grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque ebbe
ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi , come nota il De
Sanctis, il viaggio è « un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro
contenuto », che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e
monumenti. « Lo scopo non è più il viaggio ; ma l'espressione di certe idee e
sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo » . I secoli XVIII e XIX
amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo -epistolario , perchè
col suo meccanismo si piega ad ogni finalità . Il Platone anzi è nello stesso
tempo viaggio ed epistolario , è un insieme di lettere spedite visitando l'una
dopo l'altra le varie città d' Italia. « Il viaggio, come forma letteraria, può
servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto ; è cera, che può
ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il
capriccio dello scultore. È diffi cile trovare una forma più libera, più
pieghevole al vo stro volere. Passate da una città in un'altra : nessun limite
trovate al vostro pensiero . Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace ;
immaginare ogni specie d'acci denti ; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio ; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni , ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui,
visioni e rac conti . Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v '
impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal propor zione: insomma v’impone
un limite, che non procede 231 dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal
fine che avete in mente » ( 1 ) . Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la
raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agli
occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese,
naturalmente, manca del tutto. È il fine quello che interessa il Cuoco, e che
da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo
proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della
storia si sia al molisano altre volte presentata. « Tra tante opere che ci si
dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive » quella descrivente un viaggio,
per esempio, nel secolo di Leone X, « non sa rebbe certamente la meno utile per
la nostra istruzione e per la nostra gloria » . Così scrive, e di questo
viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto
d'un suo maggiore, dà un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a
più riprese ve duto ( 2 ) . Il fine dunque è quello che occupa l'animo del
nostro , e questo domina tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che
pedagogico non sia ( 3 ) . Il romanziere cerca di scusare questa deficienza di
trama, che si risolve in una deficienza fantastica e quindi in una deficienza
artistica, e nella prefazione scrive che la sua storia fu rinvenuta in un
antico manoscritto, auten tico , perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le
fonda menta d'una sua casa, ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba fu
Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî punti e perciò lacunoso , onde
varje situazioni, prima ac cennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a
fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il
manoscritto non è se non nell'immagi nazione del Cuoco, nè più nè meno come
l'anonimo ma ( 1 ) F. DÉ SANCTIS, Saggi critici, v . III , pag. 290 e seg . ( 2
) Giorn. ital . , 1804 ; 21 , 23, 25 gennaio ; n . 9 , 10, 11 , pp. 35-36, pp.
39-40, pp. 43-44 : Varietà (vedi p . 163 del nostro lavoro ) . ( 3) L.
SETTEMBRINI, op. cit ., v. III, p. 282. 232 noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro . Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte , pedagogici e dida
scalici . E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega , sono e non sono
: noi li vediamo e non li vediamo : so prattutto noi non li vediamo mai in
azione, in atto , con i loro caratteri e con le loro passioni . A rigore
possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci appaiono,
se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti
teatrali, che si limita ad an nunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue
considerazioni . Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro :
non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice
Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio
insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine
estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore : il
rammentare agli italiani « che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici
» ; « che furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che
adornano lo spirito umano » ( 1 ) . Come il Vico nel De antiquissima italorum
sapientia si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre
dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo
essere professata dai sapienti ita liani ; così il Cuoco si propone di
dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra
penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui ci viltà fu persino
anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima ricevette luce, e non
viceversa. E come « chi vo glia intendere il De antiquissima non deve tenere
nessun conto del suo titolo e del proemio , e di tutte le vane investigazioni
che qua e là , vi ricorrono dei riposti con cetti , che, secondo il Vico
supporrebbero talune voci la tine, per considerare unicamente in sè stessa
questa dot ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 3. 233 trina che egli pretende
rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente italica, e che non è altro
che una dot trina modernissima, quale poteva essere costruita da esso Vico nel
1710 » ( 1 ) ; così chi voglia comprendere il vero spirito del Platone deve
prescindere dall'esil nucleo ro mantico , come dalla faticosa ricostruzione
archeologica , e considerarlo nella sua attualità, poichè esso non esprime i
pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del
Regno italico, meditante sulle pro prie personali esperienze, e non sulle
esperienze di ven ticinque secoli avanti : all'anno di grazia 1806 vanno, per
esempio , riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera del Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile,
mentre l'opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal
punto di vista dell'arte : da ciò un insormon tabile dualismo, onde noi veniamo
risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di
Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai
giacobini di Francia , da Alcistenide e Nicorio a Monti ( 2) . E in questo urto
di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove
finisca la finzione e cominci la realtà . La funzione è troppo evi dente,
perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa eru dizione, troppi richiami di
testi classici, e non solo greci, ma anche latini , medievali, moderni, perchè
la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla,
che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che
conosce Vico ? E chi è quel Cleobolo , che cita opinioni del Filangieri e del
Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca ? ( 3 ) . ( 1 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p . 95. (2 ) L. SETTEMBRINI , op. cit., v. III, p. 284. ( 3 )
In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto . ( Platone, v. II , p.
114 ). « Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso
sopraggiunge la sera ; e , mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio
cuore veglia, innalzan dosi col pensiero fino a quegli astri eternamente
lucenti che 234 E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della na
zionalità e con Archita disputa di filosofia moderna ! La contaminazione è
troppo evidente, e la filosofia pi tagorica e platonica si mesce in uno strano
viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo , come abbiam
detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza
filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte ? un lavoro
filosofico ? uno scritto politico ? Nulla di tutto ciò , e pure tutto ciò misto
in una unità singolare. Non scritto storico, perchè, « a parte il valore molto
discutibile del suo metodo, che egli si proponeva di ragionare e giustificare
più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l' incertezza del
pensiero e l'oscurità da vincere, lo scrittore è troppo preoccupato da fini
estrinseci alla storia, artistici ed educativi » ( 1 ) ; non filosofia ,
perchè, com' ho detto, egli non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto
dal l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è pa trimonio
dell'antichità con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della
spiritualità del reale ; non opera d'arte per ragioni sovra dette, poichè egli
non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che
sola può generare creature vive. L'arte « non c'è principalmente nota » il
Gentile « perchè egli non si dimentica abbastanza in questa visione con
fortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù
private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po'
col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma,
senza spirito pubblico, senza amor di grandezza , senza orgoglio di nazione,
senza forze vive : e ondeggia tra la statua brillano sul mio capo ; e ,
dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia
immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo . Di là si dice che le
nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno.... e rimarranno unite.... per
sempre ! » . ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da
animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto ; e gli trema la mano »
. Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci
sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una commossa
visione d'amore, o in un paesaggio italico , ricco di tinte forti calde
sfumanti ( 1 ) ; poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è
estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e
l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una
matura attività dello spirito, che, sia che ( 1 ) Per dare un esempio dell'arte
del Platone, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI, op. cit. , p. 158 ,
apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. « Ieri sera sedevamo in
quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più
delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo
propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la
quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte , par che renda più ristretti e più
forti i sensi del cuore. Il sole tramontava ; spirava dal l'occidente il fresco
venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del
colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue
in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera ,
forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo
in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava ;
ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li
rial zava , quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello
di cotogno ? — mi disse ( e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi
come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare
che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello ?
Quanta verità è in quei versi di Ibico : Il mio cuore è simile al cotogno
fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce
tutti i teneri rami! ... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico ; no escləmai
io tu non li hai detti tutti .... Esso è stato nudrito colla fresca onda del
ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco , simile al
soffio del vento di Tra cia, divora .... Io voleva continuare ; ma ella mi
guardò e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto ? ...
Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa , se guendola sempre
un passo indietro , senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo » . (Platone,
v. II , p. 58 ). 236 eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio ; sia
che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda
ai fatti moderni, e indirettamente dica della ri voluzione francese e de'
popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare
la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre
un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo .
Noi dimen tichiamo l'artista mal riuscito , il metafisico contaminato, lo storico
poco sicuro , ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia
umana trae un non perituro insegnamento. Egli parla non a sè stesso, poi che
non si pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a
noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa , per noi parla .
Platone non parla al suo discepolo Cleobolo, Archita non parla ai suoi
tarantini, Ponzio non parla ai suoi sanniti, ma tutti e tre, attraverso il
Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura
anima italica . Certo questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad
insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel
Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo,
le ripetizioni non appariranno mai soverchie : da noi non si tratta , dice il
Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera
lunga, spesso do lorosa . La tesi principale del Platone in Italia , che del
resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra
penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca , quella
etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore
d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore
riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le
origini greche del pi tagorismo sono indubbie, sia essa vera , come sostengono
altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà
italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui
serietà scien 237 tifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è forte mente
compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo
suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione . Al tempo del
viaggio di Platone la Magna Grecia è in decadenza : molte città, che già furono
grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo ; altre, che un dì do
minarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi ; stirpi, che ebbero un
passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono
nell'ozio e nella effemina tezza ; ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose
s'ap palesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne'
monumenti architettonici, vivi negli ordini ci vili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. « Io credo, dunque » dice Ponzio a
Cleobolo « ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne' tempi
antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricol tura, per armi e per
commercio . Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo : troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io : che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco » ( 1 ) . Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia
è assai an tica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicen dano : l'una è
scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica,
nelle innegabili im migrazioni di popoli greci, poichè nel suo spirito è
italica, erede della prima : Pitagora, che la impersona, null'altro è che un
mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi
tutta italica . Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per
cui la faccia della terra è alterata , i monti si fendono ed aprono larghe
valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono
alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto
una fiori tura senza pari e modificato organismi civili possenti. ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 157. 238 « Sappi dunque » scrive Cleobolo al
maestro, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto «
che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi
etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze ; e, de' due mari
che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del
popolo, Etrusco ; l'altro , dal nome di una di lui colonia, Adriatico . «
Antichissima è l'origine di questo popolo ; le memorie della sua gloria si
confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi.... « Ma chi potrebbe
dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri
iddii ? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però
che gli etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia ; signoreggiavano
tutte le isole che sono nel Medi terraneo, ed anche quelle che sono vicinissime
alla Gre cia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità » ( 1 ) .
Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città
che Stato unitario, onde esso « avea in sè stesso il germe della dissoluzione.
Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti.
Ciascun popolo avea ritenuto il proprio nome : era il nome della regione che
abitava, era quello della città principale.... Che importa saper qual mai fosse
? Non era il nome etrusco. Ciascun popolo avea governo, leggi e magistrati
diversi. Non vi era nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra
» ( 2 ) . Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organiz
zazione : « la corruzione de' costumi produsse la corru zione delle arti, le
quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti » ( 3 ), e poi generò la
corruzione della religione, la quale « corrotta accelera la morte delle città »
( 4 ) . Perciò l'Etruria si sfasciò per legge naturale di cose . ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 244. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. II , ( 3 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 249. ( 4 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 254. p.
247. 239 « Così cade, o Cleobolo » commenta il divino Platone « qualunque altro
impero ove non è unità. Così cadrà la Grecia,, se non cesserà la disunione tra
le varie città che la compongono, tra gli uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità ; all'unità si tende
ovunque è virtù , il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili
; nè possono . esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gli esseri
non è se non lo sforzo degli elementi, che li compongono, verso l'unità.
Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù , nè vita, e si
corre a gran giornate alla morte » ( 1) . Ma la morte non è mai interamente
morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme
nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri
novelli acquistano. Così l'Italia, dive nuta deserto nella ruina d'Etruria ,
tosto si ripopola di genti, di nuove città, si riorganizza, si riabbellisce, e
al contatto di nuovi popoli, specie i greci, di nuovo si ri presenta composta
all'ammirazione universa . Ma questa nuova civiltà , che possiamo dire
pitagorea, nella sua es senza è pur essa autoctona, se pure apparentemente elle
nistica. Quando le colonie greche si sono stabilite in Italia, già le stirpi
indigene dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse.
« Noi disputiamo » osserva un italico a Cleobolo « per sapere se i greci abbian
popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia ; ed intanto è l'una
e l'altra regione sono state forse po polate da un altro popolo, ch'è il padre
comune de' greci e degl'italiani » ( 2) . Comune è perciò l'origine dei due
popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl' italiani hanno avuta una fioritura
più precoce che non i greci, che pure al V secolo, ai tempi di cui trattiamo,
sembrano i più ci vili, i maestri degli italiani in ogni campo dell'umana
attività. ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 257 . ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v
. II , p . 220. 240 L'antico primato etrusco però ancor si conserva, tra
sformato sì , ma sempre attivo, e si manifesta soprattutto ne' paesi
meridionali, ove l'influenza ellena sembra più manifesta. E su questo primato
italico il Cuoco insiste, insiste, in siste calorosamente : è la sua tesi
nucleare. La pittura era ' in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco,
fra tello di Fidia, « dipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona » ,
riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe
mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici ( 1 ) . Furono
gl'ita liani che primi « diedero opera alle matematiche, e ne fecero un
istrumento principale della loro filosofia » : prima che Teodoro recasse ai
greci la scienza degli italiani, in Grecia « le idee geometriche erano puerili,
frivole, con traddittorie » ; invece « gl'italiani, potenti per un istru mento
di filosofia tanto efficace, han fatto delle scoperte ammirabili in tutte
quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità : nella
geometria, nella astro nomia, nella meccanica, nella musica ; ed hanno spinte
al punto ' più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan
sulla qualità » ( 2 ) . La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia
si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gli
italici mantengono indiscussa la loro supe riorità : « la guerra presso i greci
ancora è duello » (3), scienza rudimentale ; mentre presso gli italiani è savio
urto di masse e organica distribuzione di manipoli. Le stesse leggi, che
regolano la convivenza dei popoli della penisola, sono originarie e nazionali,
frutto della loro in tima esperienza sociale, e perciò nel loro complesso im
muni da contaminazioni eterogenee. Le romane dodici tavole quindi non sono mai
derivate, come alcune storie vogliono , da Atene, poiché Atene nulla poteva
dare a un ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 252. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v.
II, p. 5 . ( 3 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 119. 241 . popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ate niese più antichi. « Vedete dunque »
dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma « che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi di Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gli auspici, le
assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che
so io ! Queste dunque già esistevano in Roma ; ed era superfluo correr tanti
stadi e valicare un mare tempestosissimo per pren derle da un popolo che non le
avea » ( 1 ) . « Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser
imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può
aver luogo l ' imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un
modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze ,
sulle eredità, sulle tutele.... Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate
in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori
abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per
imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare.... » ( 2 ) .
Passando nel campo delle arti belle, tra gli elleni la poesia drammatica è meno
antica che tra gl'italiani : « ben poche olimpiadi » dice un comico italiano,
Alesside, a Platone e Cleobolo « contate dalla morte di Tespi e di Frinico,
padri della vostra tragedia . Quando il siciliano Epicarmo si avea già meritato
quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato
il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena bal butiva tra voi un
dialogo goffo e villano, che tutta ancor ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. (
2 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p . 155. 156. 16 F. BATTAGLIA . 242 oliva la
rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra
noi era già adulta » ( 1 ) . I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gli
italiani ne hanno più de' greci, e quelle greche co minciano ove le italiche
finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la
volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico ; ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonare allo scrittore varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e
Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in
dissoluzione : i vari popoli hanno fra loro re lazioni saltuarie ed
estrinseche, non si sentono fratelli animati da un'unica missione: guerre,
dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di per petua
incertezza. « Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal
tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del terremoto : là un immenso
pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà ;
in tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di co lonne, di pietre,
avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce
che tali mate riali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo
potrebbero formare un'altra volta ; ma l'antico non è più, ed il nuovo
dev'essere ancora » ( 2 ) . È l'unità che si è infranta, per cui alla
primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della
molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi ,
come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità
tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare
delle genti dovrà pur sorgere chi di esse farà una sola gente, un nome unico,
Italia . « Pure, se tu osservi attentamente e con costanza , ti avvedrai che le
pietre, le quali formano ( 1 ) V. Cuoco , Platone, v. I , p. 204 e sg. ( 2 ) V.
Cuoco , Platone, v. II , p . 258. 243 quei mucchi di rovine, cangiano ogni
giorno di sito ; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri ; e mi par di rico
noscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che
lavora ad innalzare un edificio no vello » ( 1 ) . È la gran fede del Cuoco .
Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. «
Tutta l'Italia » dice Cleobolo « riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di
caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che
per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia,
come han dato finora, gli esempi di tutti gli estremi, di vizi e di virtù, di
forza e di debolezza. Se saranno divisi , si faranno la guerra fino alla
distruzione : tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in
Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo » ( 2 ) .
Il Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale, ma si
concreterà in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte
vite darà or ganizzazione e potenza. Egli dice che questo ideale non è nuovo,
ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di
continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora « concepì l'ardito
disegno di rista bilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può du rare.
Egli volea far dell'Italia una sola città ; onde l’ener gia di ciascun
cittadino avesse un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a
cozzare continua mente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume
facean nascer suoi fratelli e la divisione degli ordini politici ne costringeva
ad odiar come nemici ; e l'energia di tutti non logorata da domestiche gare,
potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de ' barbari.
Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’in tromettono armati in un paese
che non è loro patria, e ( 1 ) V., Cuoco, Platone, v. II , ( 2 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p . 20. p. 258. 244 chiamava poi barbari e pazzi quegli altri,
i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed
invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli soleva dire
agl'italiani quello stesso che Socrate ripeteva ai greci: Tra voi non vi può nè
vi deve essere guerra : ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se
amas sivo veracemente la patria, dovreste arrossire -» ( 1 ) . Sia stato
Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito
elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario . Ma come attingere l'unità ? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pe dagogico insieme. « A questa
meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili : onde non
vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa
venderla ; ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della
viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù . È
necessario istruir il popolo, perchè.... un popolo ignorante è simile all'ata
bulo, che diserta le campagne : spirando con minor forza il vento delle
montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È
necessario istruir coloro che devono reggerlo , perchè un popolo con cen tomila
piedi ha sempre bisogno di una mente per cam minare, e, con centomila braccia,
non ha una mente per agire » ( 2 ) . Ma quest'educazione pubblica, che occorre
diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì
multiforme, varia , secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre
: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agli spiriti, e perciò deve
essere in essi , e non fuori di essi . Diversa perciò l'educazione della classe
dirigente da quella delle classi povere, diversa però ( 1 ) V. Cuoco, Plaione,
v. I , p. 74. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 74 e sg. 245 non nell'intima
qualità, perchè l'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle stesse
potenze dello spirito. « Un popolo » dicono alcuni « il quale conoscesse le
vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli » .
Non è invero così. « Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante
famiglie ; riunite queste fami glie, e formatene una città : qual città potrà
dirsi eguale a questa ! » Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui . « Essa
non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo
cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini : la vicendevole dipendenza
tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta
indipendenza dagli stranieri » ( 1) . È necessario perciò ai fini dello Stato
che gl' indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi ,
perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita.
« Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo
luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro
, sono necessarie egualmente la scienza e la su bordinazione » ( 2 ) . Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei di rigenti, ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. « Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo . Il popolo non ode coloro che
disprezza . Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente
i maestri, e li giu dica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto ?
Quando si tratta d'istruirlo , tutt'i diritti sono suoi ; tutt’i doveri son
nostri, e nostre tutte le colpe » ( 3 ) . Al popolo occorre insegnare tutto ciò
che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più
utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù . Al savio, ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 85 e sg. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 87. ( 3) V.
Cuoco, Platone, v. I , p. 87 e sg. 246 invece, « è necessaria la conoscenza
delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara,
più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le
vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi
. È ne cessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti ; e
questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se
la farneticherà egli stesso » ( 1 ) . Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divul gare la sapienza è mettere il popolo a contatto con i sublimi
princípi della vita. Del resto ben diversa è la na tura del dotto e del
popolano : laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il
popolo è « un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che
ragione » ( 2 ) : e quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio
che s'usa con il fanciullo , dan dogli in un certo qual modo cose e massime già
fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il
linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. « Se è vero che
gli esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che
esempi, debbon muovere più degli argomenti » ( 3 ) . I proverbi, che a noi
possono sembrare inintelligibili, perchè igno riamo i veri costumi dei popoli
per i quali furono imma ginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo
scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con
mezzi diversi di quelli che ci si offrono nelle scuole di filosofia . « La virtù
è saviezza : la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di
tempo. I pregiudizi, gli errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e
vengono come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena
quel bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È
necessità ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 85. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v.
II, p. 23. ( 3 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 82. 247 piantare con mano
potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di
avvezzare il popolo a ragionare , convien comandargli di credere ; e, per
convin cerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli,
prima, che non possa essere vero quello che tu non dici . Non cerchiamo....
l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili ;
e, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo ,
cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso » ( 1 ) . Sono queste conclusioni
che già erano implicite nel Saggio storico, ma riescono sempre interessanti,
sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le
prospetta . Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla
virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività
legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. « Quando tu avrai incise
le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver
fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini » ( 2
) . Leggi e costumi sono i principali oggetti di tutta la scienza politica : le
prime debbono rispondere all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò
buono e vero ; i se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior
parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle prime, come
deviazione da esse ; onde coloro, che traggono da una corrotta natura de'
popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male, spesso lo
sanciscono, e la loro opera pedagogica manca . « La legge è sempre una, perchè
la natura dell'intelli genza è immutabile. Mutabile è la natura della materia,
di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che i costumi
inclinan sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del
pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo formati, onde sapere
( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 78. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 139.
248 per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle leggi, per quali
modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime ; il che forma
l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione : non di quella educazione che le
balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che Li curgo e
Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una
di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei
legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o
accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee
intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti
ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che
poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare ; o, conoscendo
solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me
desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in
cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo
legno tra gli scogli » (1 ) . La legge però resterà sempre un astratto, se gli
uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù . Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 139 e sg. , 249 il Cuoco con
perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione » ( 1) . Le leggi,
date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla
loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde
la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il
primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro
base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua
l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per
qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle ? Questa è.... la parte
più difficile della scienza della legislazione : perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili ; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi
» ( 2 ) . Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In quanto
al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di pochi, o
di molti ; il governo ereditario o l'elettivo ; e tra quest'ultimo quello
regolato dalla nascita , dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze ; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti ; ma a pochi, perchè
pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione
delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare
per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione ; e per ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 140. ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 142, 250 ciò
divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si
temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella
parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo,
di pochi e di tutti » ( 1 ) . Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare,
che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo
dimenticarcelo : le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i
rapporti tra autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione
deve occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente
storico, cioè in rapporto ai tempi del mo lisano : ora dobbiamo esaminare lo
stesso problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la
religione nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto
spirituale dal quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e
coloro i quali credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro
che credono poter colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi
renderanno le vite dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte ; quelli
rende ranno vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno
egualmente costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o
tardi, ruina » ( 2 ) . Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto
su ragioni ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la
religione, s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto . Nè è a
dire che esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi
che esso assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano
della religione, lasciando intatto il dommatico . I paesi, in cui i
patrizi conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio,
e in questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due
cose [ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono natural ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , ( 2 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 144. P. 84. 251 mente
inseparabili tra loro ; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se
non sarà dipendente dal go verno ; nè mai religione, che non emendi i costumi e
non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » ( 1 ) . Ora
concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e
degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione
continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio,
ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione
superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali , onde
quasi sempre , nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto .
L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come
opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i
patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e
perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono,
per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile ,
mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di
solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa
statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di
queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle
classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro
diritti lan guirono : i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i
più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori : conservarono
i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato,
che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe
per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre
costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare,
per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la
vita degli Stati, ove si giunge ad una ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 148,
252 reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È
nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere » , ed
hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi
vengono tra loro ad eque transazioni » ( 1 ) . Ma pur tuttavia il Cuoco.
concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita : e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel Saggio storico non appare, e che nel Platone si rivela nella
sua luminosa chiarezza. « Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la
plebe, tra i ricchi ed i poveri ? In essa sta la vita non solo di Roma, di
Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è , ivi non è vita : ivi
un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo
e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi
imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro : e che
invidierebbe, se son tutti nulla ? Quanto dura la vera vita di una città ?
Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e
quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee . Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla . È necessario che si ceda alla
plebe , poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna : l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo
prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più
certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla !
Ma due volte ma ( 1 ) V. Cuoco , Platone, v . II , p. 167. 253 guai a
quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria
gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche
l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la
gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con
gratitudine, e non cessi mai di sperare » ( 1 ) . Da queste considerazioni il
molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte
plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur
necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui
convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e
non può essere diversamente : l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi
un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno
sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri ; pochi industriosi e
molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi
si diran sempre patrizi , quelli de'se condi sempre plebei » ( 2 ) .
Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più
avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si
vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà
l'eguaglianza anco dei beni : e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose.
Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre : vi saranno sempre
poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno
di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più
numerosa del popolo : i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i
quali, nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a
guadagnare.... Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno
prudenti. I cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra . Fra tanti
partiti nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo ; tra tanti ( 1 ) V.
Cuoco, Platone, v. II , p. 167 e sg. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 147. 254
capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della
città » ( 1 ) . Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di
precedenti nostre osservazioni circa la politica cuochiana : i più adatti al
pubblico reggimento non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti
e ti rannici in senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con
forme diverse e diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà
storica, è in ogni Stato. « I migliori ordini pubblici sono inutili se non
vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti,
ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in
mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini ottimi ? Essi non son mai per
l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi
di una città, avviliti sempre dalla miseria » ( 2 ) . Ecco qui ritornare il
concetto da noi già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze
opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non
obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissensione. « Ove avvien che
siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi,
tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del
l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per
gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si
elevi per via di viltà e di corruzione : per opra de’secondi eviterai quella
dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari ; per opra de'
primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e
quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che
vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non
appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno
più grandi ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , ( 2 ) V. Cuoco , Platone, v. II ,
p. 161 . p. 168. 255 cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro
ponga nè chi le esegua » ( 1 ) . Soltanto attraverso questa coscienza politica
dei diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa
organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel
pensiero del Cuoco : fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come
nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà
singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi,
di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede
dal l'interno all'esterno , poichè una tirannia imposta estrin secamente è
sempre nociva e deleteria ; nell'Italia il processo unitario può essere
affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica,
dalla religione unica e dalla legge unica. « Il primo effetto della sapienza »
dice il Cuoco « è.... quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista
non come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi » ( 2 ) ; e, aggiungiamo
noi, si di fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua
ragion civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza
parentesi d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e
poi ancora morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè
estrinseca forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle
volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto
. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli
della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione
divina, missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della
storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non
avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro ; ma le loro
osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del
( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. II , p. 162. ( 2) V. Cuoco, Platone, v. I , p . 32.
256 romanzo , non possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel
molisano . In una prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono
pacificamente, e perciò s ' ignorano ; ma in un secondo tempo si conoscono, e
quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio ; ma
questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca
integrazione : « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io
veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi ; e, siccome
ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche... , così veggo
che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la
pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione
di molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza
, contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non
calcolabile fortuna può dar talora la vittoria » . « Non pare a te » continua
il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco «
che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari,
colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli , da cui
dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo
dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini
hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari
suoni esterni ; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli
abitanti di ciascuna regione : — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare
una nazione sola ? --- » ( 1 ) . Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale : chi si assume questa
missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza che per
il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della storia ,
piuttosto che nella celeste trascendenza di ( 1 ) V. Cuoco , Platone, v. II ,
p. 186. 257 un Dio posto fuori di noi : questo l'intimo concetto, se pur
qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da
una certa oscillanza di pensiero . In Italia , intuisce Platone, un solo popolo
sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra
la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli
del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà,
e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i
greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà
dominatore del Me diterraneo e del mondo, « Rimarrà un solo popolo dominatore
di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà ; ed
i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie
viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano ; e quando tutte
le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso
potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni
prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol
popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù , vizi
comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle
grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli
uomini per emendare la loro indocile razza » ( 1 ) . Grande sogno questo, in
cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non
dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non
ritornerà più , ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del
1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata
da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità
era davvero un sogno ; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi
, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi,
della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei ( 1 ) V. Cuoco, Platone,
v. II , p. 190. 18 - F. BATTAGLIA . 258 commerci e delle genti, che noi non
vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am
miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato
da questo punto di vista altamente poli tico , prescindendo da ogni
considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una
grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo
valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale
della formazione dello spi rito pubblico italiano » ( 1 ) . È l'animato ricordo
d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta
l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose
belle della vita , la poesia, il teatro, la musica , la scultura, la pittura,
che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi
reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non
si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento : ma, oltre che ricordo, è
nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno
riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia , a Roma calzano nella loro
semplicità , s'adattano alla nostra travagliata vita moderna : ciò fa del
Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il
suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Pla
tone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come
quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune :
un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato
dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al
quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard ( 3 ). ac (
1 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p. 386, ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
387. ( 3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5
raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il Platone in Italia è la
preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. 259 Il principio
genetico dei due libri è lo stesso : una na zione non può esplicare le forze
vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza
d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi
dispiegare nella storia : perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che,
basato sulla concreta realtà , è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte,
laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie
romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro
nel Papato , espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si
rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla
tradizione medievale- cattolica ; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima
storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo
l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol
rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica
crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello
spiegamento della loro maggior coscienza ; nello Stato laico, insomma, che
afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima
naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in
quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare,
perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato
realmente Stato , Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto
diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola . - I tre caratteri di una educazione
nazionale : universalità , pubblicità , uniformità. - Tre gradi in una completa
educazione : scuola elementare, media , universitaria . - Morale e religione nella
scuola . - Educazione filosofica . Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa
la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico . Il
Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del
periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria
non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia
intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni ( 1 ) .
Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in
patria , preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del
governo di Milano per quello meridionale . È l'ultimo tratto della nobile vita
del molisano, che, attraverso una fiera ma ( 1 ) B. LABANCA, op . cit., p. 409
; N. RUGGIERI, op. cit ., p. 48 ; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172 ;
G. GEN TILE , op. cit. , p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà
il 13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità
pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme ( 1 ) , nonchè di un'opera
dottrinale e pratica nello stesso tempo ( 2 ) , il Rapporto e il Progetto di
decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che
di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti
dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico
speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc
casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali , a idee
profondamente maturate dal Cuoco in tutta ( 1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (
2 ) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile , e della
sua attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti
vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose edizioni : una
prima, senza data e senza frontespizio , fatta a spese del governo prima del 10
ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del
Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad altre autorità , e
quindi non pubblica ; una seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere
di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote
del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che
porta il titolo : Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica
istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco ( Napoli, Migliaccio,
1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione
delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione
promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli , Fibreno,
1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua
edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata di documenti e note bio
-bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari
( pa gine 49-276 ). I criteri critici di collazione delle tre suddette
edizioni, seguìti dal Gentile , non furono dismessi da N. Cortese e da F.
Nicolini, che dovettero far posto sia al Rapporto che al Progetto negli Scritti
vari ( v. II , pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e supplendo in talune
omissioni il loro illustre pre decessore. Nonostante che gli Scritti vari
abbiano visto la luce , allorquando questo lavoro era già compiuto , le
citazioni sono state su di essi rivedute definitivamente anche per la parte
pedagogica. 262 ī la sua carriera di scrittore e di uomo politico, in rela
zione con le questioni fondamentali del tempo suo » ( 1 ) . Evitando di entrare
nell'analisi dei fatti, che al Rap porto precedettero e che perciò lo
determinarono, perchè oramai sufficienza noti, vengo a studiare le idee che in
esso si agitano ed i loro addentellati con tutto il pen siero cuochiano.
L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema po litico . E, come ogni
sistema politico mira al benessere sociale, in quanto questo è realizzato
eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol attuato, deve ope rare
col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol rendere grande uno
indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo di formarsi una
coscienza na zionale . Ma praticamente come? Con la scuola. « La sola
istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola
istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » ( 2 ) . Il
termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui
spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili
, alimentate da un lato dall'opera giorna listica , dall'altro dalla scuola.
Per comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del
popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola ?
Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita ,
era assente anche nella scuola. Di chi dunque ? Di pochi fortunati , dotati
dalla sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una
cultura : i nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti
nelle grandi città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato
l'attenzione dei governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver
compreso che solo queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla
cosa pubblica equi vale eternare lo Stato stesso . Ma la rivoluzione non po ( 1
) G. GENTILE , op . cit ., p . 336 e sg. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II ,
p. 3. 263 teva dare nel campo educativo, e in generale formativo, buoni
risultati, dato il suo astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista,
lontana com'era dai bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di
contro accetta il postulato rivoluzionario , per cui dal popolo non si pre
scinde, ma lo rinnova col suo concreto senso storico della realtà : bisogna,
dice, non elevare il popolo alle nostre supreme idee di libertà , di virtù, di
moralità, che, in quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a
lui, entrare nel suo spirito, nel suo sistema men tale, e , attraverso un
progresso graduale e lento, mostrar gli l'utilità , oltre che la necessità
ideale, della libertà , della virtù , della moralità . Questo compito,
essenzial mente pratico, si può assolvere con la scuola, che prende l'uomo
fanciullo, e lo conduce all'adolescenza, e magari alla gioventù , maturandone i
sentimenti con un processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato .
Sol tanto così il popolo entrerà nello Stato , rafforzandolo e potenziandolo.
Sentite come ragiona il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il
gran segreto della forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol
esser la parte pas siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in
istato di produrre grandi beni e grandi mali : la sua condizione è cangiata in
gran parte degli Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato
e delle leggi senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli
fare ciò che non sa fare . Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo
stesso che voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente
disordine interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è
difeso da’ cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo
sette palmi di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro
doveri l'amarla ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni
politiche non hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e
, se questo maggior numero non è istruito , o non ha volontà o spesso ne ha una
contraria alla legge .... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al
popolo, e specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una
nuova educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria nazionale
» ( 1 ) . Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro buone
ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno mai
negare al popolo , quello che a lui si deve : l'educazione, A coloro che
obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è
facile rispondere . « E pure tra questo popolo noi viviamo ; questo popolo
forma la parte più grande della nostra patria , da cui di pende, vogliamo o non
vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra ; e noi abbiam core di
dormir tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui
che noi stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù ? » . A
coloro poi che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio
sofi sma aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare,
è pur facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo
popolo che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei
delitti, ai quali lo spingono quella miseria , quell’ozio, quella roz zezza in
cui, per mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse
presa un poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo ? »
. Oggi non si può tornare indietro : il bisogno dell'edu cazione è immanente,
sentito da tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il
bisogno dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan
luogo di precetti, vacillano : gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti
di ordini e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di
quella delle leggi. Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella ( 1 )
Giorn . ital . , 1804 ; n. 61 , 62, 75 ; 21 , 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44,
pp. 247-48, pp. 303-304 : Educazione popolare (ri stampato in Scritti
pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in Scritti vari v. II, pp. 93-102 ) . 265
parte della nazione che chiamasi popolo e diffonder l'istru zione ne' villaggi
e nelle campagne » . Per queste sue considerazioni il Cuoco si ricollega al
grande pedagogista prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau , il solo forse
che primo sentì le vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il bisogno di
provvedere alla di lui istruzione, riferendosi alla sua natura e all'evolu
zione delle sue facoltà ( 1 ) . A chi noi daremo mai questo alto compito di
creare degli uomini consapevoli del loro posto nella società ! La risposta del
Cuoco non è dubbia. Dato il carattere etico -giuridico che egli attribuisce
allo Stato, è ovvio che l'educazione debba essere impartita, o almeno control
lata, dallo Stato. L'educazione mira a formare buoni cit tadini : è naturale
dunque che lo Stato » volontà collet tiva, somma di volontà individuali, da
essa non possa prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato » osserva
giustamente il Gentile « di consolidare sempre più le pro ( 1) Del resto il
concetto di natura e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno un
significato ben più profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a questo
proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto sociale,
Bologna, Zanichelli, 1906, p . 32. « È .... massima ( del Rous seau ) che nella
realtà si distingua ciò che è fattizio , ossia sopravvenuto per arbitrio ed
arte dell'uomo , da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza medesima
della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è dunque per
Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello dell'essere .
Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico ; rappresenta
la sua ragione e non la sua contingenza » . Ma questa concezione della natura,
propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come nota il
GENTILE ( Studi vichiani , p. 419), con la concezione storica dello spirito. «
Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta
pedagogia del Vico , che aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna
storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo
natu ralismo: l'autonomia dello spirito » . A due distinte fonti oc corre
ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso
dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione
della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità . 266 prie basi nella
coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti
della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo
Stato democratico, è funzione di Stato . Poichè lo Stato si regge sulla
coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica , rinunziare a
questa è per lo Stato un assurdo : sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1).
Il compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende :
l'ecclesiastico , il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito
e al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in
tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche
od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli,
e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le
riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello
Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di
ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il
punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione
religiosa, fissiamo i suoi caratteri : essa deve essere in primo luogo univer
sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il
Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico . Vita non è
vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo,
perciò è innanzi tutto attività dello ( 1 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p.
408. Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di
Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato
educatore. « Quando il Rousseau parla ( Vedi DEL VECCHIO, op. cit. , p. 33)
della « nature du corps politique » , non intende con ciò di riferirsi alla
guisa onde lo Stato si presenta nei fatti ; ma alla ragione dell'essere suo
ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e
l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato
la loro assoluta sanzione » . E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in
un senso spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito . Lo
spirito è qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere
inscindibilmente uni taria . Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali
e scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito . I secoli
barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (
1 ) ; i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà
mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella
scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione
dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale .
Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio
significato ; ed in ciò , oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria
di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi
istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla
pubblica istruzione » ( 2 ) . L'educazione, in secondo luogo, deve essere
pubblica . L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di
uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla
cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello
Stato e al benessere della collettività . Poichè « la nazione non era istruita,
essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria ;
tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di
comunica zione » ( 3 ) . Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi
cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e
meglio ad un fine unico, . il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione
sia pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie
in un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha
una storia nobilissima ? No certo : le scuole private sussistano pure gestite
da chiunque, ma ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 4. ( 2 ) V. Cuoco,
Scritti vari , v . II , p. ( 3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 4. 5. 268 lo
Stato ha l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e
culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle
scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine
pubblico e alla moralità media della società . Il fatto però che l'ente
pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che
tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud
perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in
Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il
nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione
d’uomini, in città, in Stato : « la vicendevole di pendenza tra di loro per
tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli
stra nieri » ( 1 ) . Accanto al savio è necessaria la coesistenza della massa
dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione di
funzioni , per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia
mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento
intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il
dannoso : l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle
scienze se non per la stessa via , per la quale vi si perviene in tutte le arti
, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo ; il che da
un popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare
ai mezzi di vivere » : il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza
strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il
Chesterfield, è unpazzo intero » ( 2 ) . Da ciò consegue che l'istruzione,
sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono
essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, ( 1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I , p. 86. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v . II , p. 5. 269 così vi
debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà
perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che
diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria .
La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di
diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale
agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud
diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il
gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana
nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che
l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che
impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o
gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne ? È questo un tema caro al
Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare
figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma
di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi
nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto
compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il
Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la
condizione e la mente di una serva » (1. ) . Perciò lo Stato si deve
preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare
l'ordine della natura e la sua essenza : educare le donne da donne, ed educarle
secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno : e « quando le
donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » ( 2
) . Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve
essere questa gratuita per tutti ? No. L'istruzione inferiore o primaria,
appunto perchè ha i ( 1 ) V. Cuoco, Platone, v. I , p. 25. ( 2 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II , p. 21 . 270 caratteri della più vasta generalità, è
offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e
superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì
particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare
condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri
degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un
giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà . Infine, in terzo luogo,
l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità
dell'istru zione appare chiara : in ogni suo grado, inferiore medio e
superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere
uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli
stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un
simile sistema : le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione e
il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso : si può
generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più
nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico
nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto,
ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione
dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente
presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non
avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti
di Stato . Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per
le mani dei giovani . Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave
degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for
mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa
immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero
di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua
di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di
mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale ( 1) . Posti questi
princípi fondamentali , Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto
di riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza
pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna.
Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di
astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con
l'assunto politico . Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore
dice che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura,
mira a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità
media so ciale . È un punto importante. La morale è necessaria per gli
aggregati umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi
osservare che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo
pro cesso di formazione è un processo spontaneo . Lo Stato non può ignorarlo .
O esso interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime
scuole e li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le
loro coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai
quali può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia ( una
morale ]: altri . menti se la formeranno da loro » ( 2 ) . Questo compito, il
dare al popolo una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo
è tenero ed atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto
il proprio afflato spirituale . Se questa mo rale « la riserbate all'età
adulta, quando già l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi ;
egli si tro verà di aversene già formata un'altra : siete sicuro che non sia
diversa dalla vostra, e che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla ? » (
3) . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 14. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. II , p. 16. ( 3 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 16. 272 La prima
morale, quella dell'infanzia, è la più pro fonda. Il fanciullo la riceverà,
quando il suo animo è ancora puro, in sublime stato d'innocenza, scevro di
passioni conturbatrici, e non la dimenticherà mai più, poichè essa gli è
divenuta abitudinaria, vale a dire con naturale al proprio esssere . E, se
tutti i fanciulli saranno stati educati dallo Stato allo stesso modo,
l'opinione dei singoli sarà coincidente con l'opinione universale. Qui si
rivela un grande senso pratico . Non basta im porre la legge ai singoli,
occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile, l'utilità, perchè
essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza collettiva : e
questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si preoccupa
dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del l'istruzione
morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa « perchè
appartiene ai di lei ministri » ( 1 ) . Ma quest'affermazione non bisogna
assumerla in senso rigido . Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo
Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può
disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori
dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che
sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa . Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa ? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino . È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » ( 2 ) . Ma d'altra parte la stessa educazione
di Stato deve ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 12. ( 2 ) Giorn . ital .
, 1804, n. 61, 62, 75 ; 21, 29. maggio , 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48 , pp
. 303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere
carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle
scuole : va bene : ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace
se non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime
semplici. Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue
esigenze di libertà ; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale
rivelata ed oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano
il Cuoco, par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri,
scrive che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto : ad
ottener ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de'
maestri egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria ; met terli in
tutt'i punti dello Stato, onde sieno .in contatto col popolo, nè il popolo
abbia bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più
sacro, cioè del carattere religioso » ( 1 ) . Quindi anche l'istruzione ele
mentare, ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può
prescindere da quel carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come
quello che meglio risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto
senso e fantasia e poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare
una mo rale civica, poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino,
e sulla morale poi si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato . Ma la
base di tutto è la religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa
dapertutto a fare sì che vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più
importa che sieno comuni e concordi, così dia una norma anche per le istruzioni
che fanno i ministri dell'altare ; le quali, se non sono concordi colle altre,
sa ranno inutili; se sono discordi , diventeranno nocive » . Da tutto ciò una
illazione. « Riuniamo ( esse non si avreb bero dovuto separar giammai) le
istruzioni della casa, ( 1 ) Giorn . ital . , 1804, 29 ottobre, n. 130, p.
528-29 : Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA . 274 del fòro, del tempio ;
tolgansi una volta quelle diversità di princípi , per cui ciò che la legge
economica di una famiglia richiede è condannato dalla legge politica di tutta
la città, e ciò che la patria impone è indifferente per la religione ; facciam
sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol fine, che è quello di
render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice » ( 1 ) . È la naturale
logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei rapporti tra Stato e
Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione nella vita dello
spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente liberale, se si pensa
alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante una sua libera
finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante in sè tutte le
varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti punti di contatto
con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta » nota giustamente il
Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica, il valore ideale e
morale dello Stato ( il che avviene quando piuttosto si guarda all'idea di esso
o a uno Stato futuro, che non quando si abbia sott'occhio un determinato
governo, il quale di tanto è imperfetto a rappresentare realmente lo Stato, di
quanto è inferiore alle idealità che nello Stato pure si agitano , senza
raggiungere la forma giuridica ) , così della religione come della filosofia,
in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile,
si fa necessariamente uno strumento del fine politico » ( 2 ) . Laddove
l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia e al senso, e perciò deve
essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione superiore deve essere
filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più elevate manifestazioni
razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in quanto spirito,
l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben diretta non ha
tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di meno, quanto ( 1
) Giorn. ital . , 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200 : Varietà ( vedi p. 226 del
presente nostro lavoro ). ( 2 ) G. GENTILE, Studi vichiani , p. 416. 275
d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore a
comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo :
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date ; mentre al contrario il carattere della mente
è quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ) . Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto , la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito : il giovane deve essere posto a
tu per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di
quei cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle
carceri di idee, che sono le retoriche e le poetiche : il giovane deve mirare al
contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un
metodo acquisitivo , ma che in sostanza null'altro è che una forma dello
spirito inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve
offrire l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole
speciali e di cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono,
ma « l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta
ben ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » ( 2 ) . Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. ( 1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II , p. 25. ( 2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 53. 276 Se
ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza .
Nè è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » ( 1 ) . Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza , diviene una vera filosofia del bello
o este tica , che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica , che insegni il meccanismo
di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana ( 2 ) . La
stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti
antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte
filosofica ; perchè ha ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p . 56. . II , ( 2 ) Qui
più che mai si palesa quel concetto della natura , per cui nelle cose occorre
distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed
originario , che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra
con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di
vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili
ai fatti di tutte le na zioni. » ( 1 ) . Bisogna uscire dallo studio del fatto
in sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico,
risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo
. E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni
particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a
generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo
questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova .
Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così
fissato le norme per ogni filologia , ha stabilito leggi sicure, addimostrando
non le leggi che governano il linguaggio dei singoli , ma bensì quelle che
governano il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme
giuridiche, per i riti . « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa
veramente filosofica ; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa
utile ad intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o
conosciamo imperfettissimamente » (2 ) . ( 1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II ,
p. 62. ( 2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II , p. 62. Conclusione. Ed ora che
abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue
manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo
quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate .
Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia ?
Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante rappresentante
di quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto l'italiani smo, e che,
se nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero storicista, e perciò
antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro l'astrattismo
razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di altri minori, in
nome di supreme esigenze dello spirito ; nel secolo XIX si impersona nel Cuoco,
che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni forma di vita, che
italiana non sia , e quindi non connaturale a noi, e perciò non veramente
storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante contenuto umano .
È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la gloria perenne
del pensiero italico rinascente, quando le straniere infiltrazioni sempre più
sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo rinnovamento nella
filosofia , e perciò in tutte le attività umane, che dal me todo filosofico non
possono prescindere : la politica, la storia, la giurisprudenza, l'economia.
Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà morale, asserisce la vera
libertà , libertà che nè il Medio Evo nè il Rinascimento, moventisi ancora
nell'antico dualismo dell'essere e del divenire, potevano assolutamente
concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello spirito e pone le
grandi proposizioni della filosofia moderna : il mondo del l'arte sensuoso e
fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato nelle istituzioni e
nelle leggi, il mondo della religione e della moralità s'originano da noi, in
noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile, nella continua attività
dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto ci si discopre
trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato , morto diviene
intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso processo :
la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più varie
manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero
storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine :
l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità , e
viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite
dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di
ciò che non è transeunte e contingente ; chiamiamo filologia la scienza dei
fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico : occorre con
ciliare l'una con l'altra , la filologia con la filosofia . È il grande assunto
del Vico : porre questo nesso correlativo : non v'è filosofia senza filologia,
nè filologia senza filosofia . La mente umana è l'origine dell’una e
dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il
vero storico . Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini,
in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra
individualità ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per
lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi . E questo il Vico esprime nella
notissima icasastica frase : « questo mondo civile certamente è stato fatto
dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi,
dentro le modificazioni della nostra medesima mente 280 umana » ( 1) . Questo
il nucleo profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue
del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della
pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come
colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici
nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro
del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli
tici quel che in Vico era filosofia , e l'aver visto quale inesauribilità di situazioni
poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana . In un mondo vuoto e falso
quale quello della rivolu zione italo - francese, egli, riinnestandosi al Vico,
dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le ridona * quella
comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può scaturire da una
ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro avvenire. Nella
rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi dell'unità
d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal punto di
vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e diecine di
esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la
loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro diritto , la
loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti, una più attiva
fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta insensibile a questo
gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà
il Romanticismo ? Nessuno, direi : non v'è alta co scienza che per effetto di
questa propaganda non vi chianeggi . È un po' la moda, ma una moda benefica,
che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni d'Italia, che
erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro . Più gli studi si
approfondiscono e più questo fenomeno ( 1 ) G. Vico, Scienza nova , v . I , p.
172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera
stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava,
che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima
dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia , in cui Ugo
Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La Croce,
l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore importanza ( 1 )
. Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del progresso
dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine del francese
e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa coincidenza ? E il
Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come dimostrano molte idee
dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile al richiamo di questo
grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori della sua Napoli » ? ( 2
) . Ma i veri apo ( 1) Luigi RAVA, Le prime armi del Foscolo giornalista : il
Mercurio d'Italia , in Rivista d'Italia , a. XXVII ( 1924) , v. I , fasc. III ,
pp. 257-279. ( 2 ) Un certo quale influsso vichiano forse inconscio si può
rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue ce lebri Fiabe
contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta una tradizione
veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma che a lui
pareva una volgarità , troppo permeata di verismo com'era. Lastessa ricerca del
fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba della infinita
sicurezza dell' intelletto , è una posizione vichiana. « Il contenuto » scrive
il DE SANCTIS , ( Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo poetico com'è
concepito dal popolo , avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme : miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina
zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base
naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle,
romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita ,
ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta
borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la
fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto : questo
osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo
degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale
gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce ( 1 ) , sono Vin cenzo
Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli
altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande
scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul
Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante
possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano
ebbe relazioni , anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi
non potè ignorare l'autore del Saggio storico ( 2 ) . Ma sia o non sia stato il
Cuoco od altri ( 3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E
riuscì ad interessarvi il pubblico , perchè quel mondo ha un valore assoluto e
risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ».
Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, ( Le memorie
inutili , Torino , 1923 , vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito
dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e
alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi
un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una
diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE ,
La filosofia di G. Vico, p . 289 ; B. CROCE, Storia della storiografia , v . I
, p. 12. ( 2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana , a.
XII, v. XXIII, pp . 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere
che C. Botta, U. Foscolo , V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno ,
Giovanni Giulio Robert ( poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo
sono delle mere com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo,
l'altro un anonimo, che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il
Lomonaco . Da ciò si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e
con amici diretti del Cuoco. ( 3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U.
Foscolo, Città di Castello, Lapi, ed. , 1915 , p. 170, p. 210 e passim . P.
HAZARD, op. cit. , p. 241 osserva : « Son influence se répandra même dans la
littérature pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux
ceux lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] » . Ora
F. NICOLINI nella Nota agli Scritti vari di V. Cuoco, v . II ,p. 397 , dice che
gli 283 gli scritti del poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente
nutriti essi siano di pensiero vichiano : così il processo dell'incivilimento
descritto nel carme, per cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle
umane belve essere pietose di sè stesse e d'altrui, è derivato di- . rettamente
dalla Scienza nova, ove è meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi
società eroiche (1 ); e così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici
avanzi alle fiere e li provvide di sepoltura ( 2 ) . Parimenti articoli del
Giornale italiano furono letti attentamente, « molto letti » oltre che da V.
Monti e A. Manzoni anche da U. Fo scolo , e allo scopo di provare ciò rimanda
ad una recensione, in cui il molisano parla del libro Della Tumulazione di A.
DELLA PORTA, Como, Ostinelli, in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di
idee vichiane, a cui .... s’ ispirò il Foscolo nei Sepolcri » ( v. I , p. 254)
. (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 172. ( 2) Confronta i su citati
brani foscoliani con i seguenti di Vico : à Osserviamo tutte le nazioni così
barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro
lon tane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi : che tutte hanno
qualche religione, tutte contraggono matri moni solenni, tutte seppelliscono i
loro morti ; nè tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni
umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni,
matrimoni e seppolture. Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra
popoli sconosciuti tra loro , debbon avere un principio comune di vero, dee
essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte
l'umanità , e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte, perchè 1
mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo » ( Scienza nova, v. I , p. 173)
. « Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture,
s'immagini uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani sopra
la terra ad esser esca de corvi e cani ; chè certamente con questo bestiale
costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate
le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande,
colte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione le
seppolture con quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono
diffinite e, con minor grandezza , Humanitatis Commercia ci furono descritte da
Ta cito » . ( Scienza nova, I , p. 177 ) . Notiamo che nel primo brano citato
il rinselvarsi sta per 284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a
predarsi, primi avi dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito
delle carni umane, così vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono,
se non riferendoci ad un sistema filosofico che è certo quello del Vico ( 1 ) ,
si stema che siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e
si riflette in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici ( 2 )
. Onde tutta la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati
dell'este significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola
selva significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il
primo e il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre
Orazione inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della
terra » ( Opere, ed. Lemonnier, v . II , p. 21 ) ; nonchè ripetuti da un gio
vane, pur esso destinato a divenire un grande scrittore , da GIOSUE CARDUCCI :
« fuggendo per la gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co'
leoni a la preda cruenta : indi con vitto ferin la vita propagando, incerti
videsi intorno i figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l '
immane salma, per lo gran deserto dilaceraro i lupi ». ( Rime, San Miniato,
Tipografia Ristori , 1857 , p. 84) . ( 1) La vita preistorica è con viva arte
descritta dallo stesso Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna
alle prime trasmigrazioni marittime: « .... gli antenati di coloro che furono
poi gli autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che
non conoscevano niuna divinità ; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i
paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri
con le figliuole; e , finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano
società , in mezzo ad essa infame comu nion delle cose , tutti soli e , quindi,
deboli e , finalmente, miseri ed infelici , perchè bisognosi di tutti i beni
che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita . Essi, con la fuga de
propri mali, sperimentati nelle risse , ch'essa ferina comunità produ ceva, per
loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » ( Scienza nova, v. I , p. 27 ) . ( 2 )
Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella
letteraria , Torino, 1872 , ma certo non com preso , troppo imbevuto , com'era
il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee
d’un'arte pedago gica : il brano, al quale intendiamo riferirci , è stato
raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti
da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed ., s . d. , p. 192 e sgg. 285 tica
vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di
poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte ( 1)
. Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul
Monti col quale ebbe rapporti epi stolari ( 2 ) , nonchè disappunti letterari,
dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il
carattere del poeta cesareo assai volubile in politica ; e sul Man zoni di cui
fu davvero intimo ( 3 ) . Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia,
specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza ( 1 ) , il Discorso sulla
storia longobarda del secondo ( 5 ) , sono la prova sicura della dif fusione
delle dottrine del Vico. ( 1 ) Vedi a proposito come Foscolo intende
l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco : G. PECCHIO, op.
cit., p . 210, nota ; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le
Monnier ed . , 1894, p. 267; G. A. BOR GESE, Storia della critica romantica in
Italia, Milano, Treves ed. , 1920, p. 248 e sgg. , sopra tutto p. 266 : « non è
una scoperta , dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di
eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani ; anzi fa rebbe una scoperta
chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo , nel quale la filosofia della
Scienza nova non abbia bene o male la sua parte » . ( 2 ) G. Cogo , op. cit. ,
p. 181; N. RUGGIERI, op. cit. , p. 47 ; P. HAZARD, op. cit ., p. 241 ; vedi
anche V. Cuoco, Scritti vari v. II , pp. 318 , 367 , passim . ( 3) N. RUGGIERI
, op. cit. , p. 48 , il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte,
Lanciano, Carabba ed. , 1887 , p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco , Scritti vari , v.
I , p. 285 ; v. II , pp. 318, 358, 367, 397 , passim . ( 4 ) V. MONTI, Prose e
poesie, Firenze, Le Monnier, 1847 , v. IV, p . 31 e sgg. ( 5 ) A. MANZONI,
Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed ., s . d ., p. 22 e
sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo
di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo
centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed ., *1924. L'influsso
vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo
per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma
anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei
caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si
arresta qui , ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova
storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi,
specie con i canoni romantici di Germania : a chi legge gli scritti del Berchet
( 1 ) , del Torti ( 2 ) , del Di Breme ( 3 ) , non sarà difficile rinvenirvi
idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi
altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto
di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore , quale è
rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e
scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo
mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di
Platone e neppur feccia di Romolo ; ideale col suo limite , come diceva De
Sanctis : tutto determinato, vero e certo : e così in questa determinatezza e
limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio , tutto,come aveva
insegnato Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma
opera naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli
uomini . ( 1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p . 105 : « il Berchet s'era nutrito
degli scrittori più audaci d'oltremonte : la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel
erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca
; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita
intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla
nuova letteratura ; .... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen
ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza
accostata alla letteratura , col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune
ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile : e , se forza di
filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente
» . ( 2 ) BORGESE, op . cit., p. 189 : « il Torti fu uomo di non co mune
coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si
richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande » .
( 3 ) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di
Breme e su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa
in luce dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA ( L. d . B.,
Polemiche, Torino, Unione tip . - editrice torinese, s . d. ( 1923 ) ] , che
dell'idealismo dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi
filosofici, dei loro studi, fa un'ampia disamina . 287 nale al positivismo e al
razionalismo settentrionale . È certo un processo lento e faticoso, ma
nondimeno si curo, le di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto
nel campo critico e storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico
. « Eppure si come giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la
propaganda del Cuoco,... quantunque i germi da lui seminati sian caduti in
intelligenze delle maggiori del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco
come banditrice della verità vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto
del secolo. Altri scrittori, segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad
educare le menti italiane al realismo poli tico ; altri filosofi, segnatamente
lo Spaventa, hanno la vorato a sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi
chiana ; ma fino ai nostri giorni nessuno ha visto in questa filosofia così
nettamente e fermamente come Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente
rivoluzionario , " del pensare storico e politico e un potente
irresistibile argo mento per un programma politico nazionale. Egli, per questo
rispetto, rimane sulla soglia del secolo XIX, maestro unico solitario : un
veggente » ( 1 ) . Con ciò vo gliamo semplicemente dire che se le dottrine
vichiane nel campo estetico, attraverso la propaganda del Cuoco, dànno subiti e
luminosi effetti, nel campo politico, que sti effetti sono più lenti e tardi,
quasi misconosciuti al lorquando si manifestano : Vincenzo Cuoco è un maestro
senza discepoli, o meglio , con un solo discepolo, e per avventura grandissimo,
Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto realismo politico,
derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza nova, non è destinato
a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle più grandi conquiste del
secolo : « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo l'individua lità
insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a negare che un
popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che possa
progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè e
sulla ( 1 ) G. GENTILE, V. Cuoco : commemorazione, p . 13 e sg. 288 fiducia
delle proprie forze » ( 1 ) . Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal
Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e
formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po
litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L.
Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce
come il genovese non solo si sia nutrito del Vico ( 2 ) per il tra mite del
Michelet ( 3 ) , ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti
de ' numerosi e vivi articoli, che ( 1 ) G. GENTILE, V. Cuoco : commemorazione,
p. 14. ( 2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima
che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il
Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo
di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in
condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione
pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne
persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il
vuoto esistente nella filosofia » , egli la mentava, « deve naturalmente
ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura » ; e
la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo » ,
disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome
di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del
rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le
lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro
Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una
sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa , o non cura
comprenderlo » . E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero
il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le
baieerudite e l'inerzia degli animi». ( 3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e
la prima fase del suo pensiero letterario : l'aurora d'un genio, Casa ed.
Risorgi. mento, Roma, ecc. , 1919, p. 16, p. 23 e sg. , p. 66 e sgg., p . 143.
Il Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui
due sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo
del Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la
philosophie de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un
discours sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur,
ecc. , Paris, Renouard , 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese ,
CROCE. La filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava
pubblicando sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ) . E
in questi zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva
zioni sullo stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in
cui Vincenzo getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente
d'Italia, ma anche nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra
basi giurisdizionali il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa,
dall'altra la questione dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure,
come il Mazzini, po stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da
noi a più riprese richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di
Firenze il duca Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe
potuto rimanere solo, nota : oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne
più facilmente di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe
rimproverato e che lo stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato !
Sicuramente .... Ma io amo pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal
l'università, chino sulle pagine del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui
le sorti della patria e la sua redenzione morale non attraverso giuridici
compromessi o speranze d'equilibrii europei, ma attraverso un'azione che è pen
siero , perchè guidata dal pensiero, attraverso un pen siero che è azione,
perchè mirante agli uomini e alle loro coscienze. Il grande merito del Mazzini
è precisamente l'avere accettato le ultime conclusioni politiche cuochiane ed
averle con un apostolato senza pari concretate nella vita. Il popolo, il
popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire nucleo vibrante della patria, diviene
il fondamento della repubblica del Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (
1 ) Il fatto che gli articoli non siano firmati che con una si gla, il fatto
che negli zibaldoni il Mazzini non citi espressamente il Cuoco fa pensare al
Mannucci ( op. cit. , p. 107, n. 101 ) che il grande agitatore non abbia mai
pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio di
V. Cuoco : così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al
Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese
non solo lo conobbe ma lo menzionò. 19 F. BATTAGLIA , 290 diviene dopo tante
lotte una e indipendente, diviene nazione e Stato . Il Cuoco intuisce che il
problema unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel
binomio Pensiero e azione redime l' Italia . Questa vasta trama d'influssi, che
la dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter
ferenze politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale ,
meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee,
il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta
all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va
al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra
zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo
salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso
d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi
il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota
bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico,
cioè : VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a
cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed. , 1913, che ho raffrontato con
l'edizione milanese del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra,
1865 ; VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza,
ed. , 1916-24, volumi due ; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari
raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed.
, 1909. Gli articoli del Giornale italiano ho veduto sul testo originario , ma
spesso mi sono servito delle ristampe in appendice alle opere critiche del
Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due
volumi di scritti cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori
d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a
cura di N. Cortese e F. Nicolini, Bari, Laterza ed. , 1924, volumi due. Con
questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai
stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non
tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa
ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati
posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto , uniti
al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che
sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data
lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte
gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore
delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del
Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto
un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli
scritti minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre
i migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia,
che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e
ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro
vincia di Molise, Campobasso, 1864, I , pp. 1-36 ; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e
gli studi della gioventù italiana in Rivista Bolognese, a. II , v. I , fasc.
IV, aprile 1868 ; F. BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel
pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I , fasc . 4-5, aprile 1923 ; A.
BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi primi redattori (
1804-1806) , Milano, Cogliati ed. , 1905 ( estr. dall' Arch. stor. lomb . , a.
XXXII, fasc. VII ) , alla quale operetta si riferisce la recensione di G.
OTTONE in Riv, stor. it ., a. XXIII, za serie, vol. V ( 1906 ) , p. 341 e sgg.;
A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai tempi
antichi ai tempi moderni ( per nozze Scherillo- Negri), Milano , Hoepli ed. ,
1904, p. 529 e sgg .; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della cisalpina
e del regno italico , in Archivio storico lombardo, a. XXXVI ( 1909) , p. 434 e
sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi, Torino,
Civelli ed . , p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia , 1919 ( 1 ) ; ( 1 )
L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho potuto
vedere manca del frontespizio : del resto si tratta di uno scritto di mero inte
resse bio - bibliografico . 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e documenti,
Napoli, Jovene ed. , 1909 ( cfr. le recensioni di G. GENTILE in Archivio stor.
nap . XXXIV ( 1909) , pp. 588 e sgg ., poi ristampata in ap pendice agli Studi
vichiani, Messina, Principato ed ., 1915 ; di G. GALLAVRESI in Il Risorgimento
italiano, a. III , fasc. I - II , p. 223 e sgg .; e ancora di G. GALLAVRESI in
Arch. stor. lomb. , a. VII , ( 1910) , p. 462 e sgg. ) ; L. CONFORTI, Napoli
nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed. , 1886, p. 21 e sgg
., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è in N.
RUG GIERI, Vincenzo Cuoco , Rocca San Casciano, Cappelli, ed. , 1903, p. 104 e
sgg. , nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 99 ) ; B.
CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed. , 1911 , passim ;
B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione, Bari, Laterza,
1912, passim ; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX ,
Bari, Laterza, 1921 , vol. I , p. 8 e sgg ; R. DE RENZIS, Il risveglio degli
studi intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905 ; G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza ed . , 1922, p. 166
e sgg.; F. DE SANCTIS , Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed. ,
v. II , p. 309, p. 327 ( accenni ) ; F. DE SANCTIS , Saggi critici, Milano ,
Treves, v. III , p. 291 ; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia dal 1789 al 1799,
Milano, s. d. , Vallardi, p. 557 e sgg .; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina,
Principato ed. , 1915 ( in cui è ristampato lo studio Un discepolo di G. B.
Vico : Vincenzo Cuoco pedagogista , già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II ,
1908) ; G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica,
1903, p. 375 e sgg . G. B. GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo
XIX, G. B. Paravia ed. , 1910, Torino, pp. 30-44 ; F. GUEX, Storia dell'
istruzione e della educazione, trad. o note con app. su Il pensiero pedagogico
italiano nel suo sviluppo storico di G. VIDARI, G. B. Paravia ed. , s . d. ,
Torino, v. II , p. 314 e sgg.; 294 e P. HAZARD, La révolution française et les
lettres italiennes, 1779-1815, Paris, Hachette ed. , 1911 , p. 218 e egg.; B.
LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cattolici, Na poli, Pierro ed. ,
1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana
nei primi venticinque anni del secolo XIX, Milano, Stella ed. , 1831 , p. 228 ;
G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze,
Le Monnier ed. , 1853, v. II, p. 259, p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe
Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario ; l'aurora di un genio ,
Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919, (cfr. recensione di G. GENTILE in Critica,
v. XVII, p. 317 e sgg. ) ; G. B. MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai
romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo, 1903 ; A. MARTINAZZOLI E CREDARO,
Dizionario illustrato di peda gogia, F. Vallardi ed. , 1901-5, Milano, v. I , p.
420 e sgg. ( 1 ) ; 0. MASTROIANNI, Ricerche storiche pubblicate per delibera
zione del R. Istituto d' incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed. , 1907,
p. 196 e sgg .; P. MONROE ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu
cazione, trad. di S. CARAMELLA, Vallecchi ed. , 8. d. , Firenze, v. II , pp.
207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo centenario della morte di V. Cuoco in Rivista
d'Italia, a. XXVI, fasc. XII ( 15 dic. 1923) ; G. NATALI, L'idea del primato
italiano prima di V. Gio berti , Roma, 1917 ( estr. dalla Nuova Antologia ); G.
NATALI, La letteratura italiana nel periodo napoleonico, 1916 ( estr, dalla
Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e il pensiero di F. Lomonaco , Napoli,
San giovanni ed. , 1912 ( estr. dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di
Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361 ) ; L. PALMA, I tentativi di nuove
costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in Nuova Antologia, a. XXVI, fasc.
XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891 , p. 433 e sgg. ( 1 ) L'articolo Cuoco è
fifmato A. Martin azzoli. 295 1 G. OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della
coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni
di A. LEONE, in Riv. stor. ital., a XXI ( 1904) , s. 3a , v. III , pp. 57-8 ;
di A. Butti, in Giorn . stor. d. lett. it. , a. XLIV ( 1904) , p. 240 e sgg .;
di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it. a. IX ( 1904) , p. 277 e sgg.; e
infine di G. G[ ENTILE) in Arch . st. per le prov. nap. , a. XXX ( 1905) , p.
73 e sgg. ) ; G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel «
Platone » di V. Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel
periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, ( cfr. recensioni di A. Butti, in
Giorn . st. d. lett. it., a. XLVII ( 1906) , p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in
Rass. crit. d. lett. it. , a. XI ( 1906) , p. 181 e sgg. ) ; G. OTTONE, Mario
Pagano e la tradizione vichiana del secolo scorso, Milano , Trevisini, 1897 ;
G. PEPE, Necrologia : Vincenzo Cuoco , in Antologia, a. XIV ( 1824) , p. 99 e
sgg. ( riprodotta dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di
Torino ) ; I. RINIERI, Della rovina d'una monarchia ; relazioni storiche tra
Pio VI e la Corte di Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901 , p. 484 e sgg.;
G. ROBERTI, Lettere inedite di C. Botta , U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st.
d. lett. it. , a. XII, v. XXIII ( 1894) , p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su
V. Cuoco, politico, storiografo, ro manziere, giornalista , Isernia, Colitti,
1904 ( cfr. recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it. , a. IX (1904
), p. 147 e sgg.; di A. BUTTI, in Giorn . st. d. lett . it. , a. XLVI ( 1905) ,
p. 412 e sgg ; infine di G. GENTILE, in Critica , III ( 1905) , p. 39 e sgg. ,
ristampata in Scritti vichiani, p. 427 e sgg. ) ; M. ROMANO, Una pagina inedita
di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea : Scritti di storia , di filosofia
e d'arte ( nozze FEDELE- DE FABRITIIS ) , Napoli, Ricciardi ed. , 1908 , p. 181
e sgg.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed. , s.
d . , Torino, pp. 102-124 ; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco : studio storico
critico con una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano , L. Cappelli
ed. , 1903 ( cfr. recensioni di B. CROCE, nella Critica, v. I ( 1903) , ſ. pad
296 p. 298 e sgg .; di G. R[OBERTI) , in Giornale st. d. lett. it., a. XLII (
1903 ) , p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it. , a. XII (
1904 ) , p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett . it. , a. IX (
1903) , p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it. , a. XXI, 3a 8. , vol.
III ( 1904) , p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana,
Napoli, Mo rano ed. , 1872 v. III , p. 279 e sgg.; R. SÓRIGA, L'emigrazione
meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX , in Bollettino della
società pavese di storia patria , XVIII ( 1918 ) , pp. 102-117 , pp. 119-121 ;
U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in Rass. crit.
d. lett. it . , v. VI ( 1901 ) , p. 193 e sgg . ( cfr. RUGGIERI, op. cit. , p .
94 ; ROMANO, op. cit. , p. 51 e sgg. ) ; A. Zazo , Le riforme scolastiche di
Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed. , 1924, ( estratto dalla Rivista
pedagogica, a. XVII ) . « Nel 1905, scrive il GENTILE ( Studi vichiani p. 336)
, l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso
sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla
Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M.
ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss.
recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli ( sulla quale vedi F. PERSICO
, Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema « Di Vincenzo
Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc. , tornata del 22 dic. 1906 » . Circa
questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch. , 1905, pag. 3 , nonchè
RUGGIERI, op. cit. , p. 63 ; Cogo, op. cit ., p. 45, n. 13, il quale ultimo di
essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e
infine CROCE nella Critica, a. I ( 1903 ) , p. 299. Del Cuoco si sono occupati
varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto
alcuni più noti : V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814,
in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d
. passim ; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano ( 1789-1815) ,
Milano, Hoepli, 1906, passim ; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip .- editr.
torinese , 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim ; G. MAZZONI, L'Ottocento,
Milano, Vallardi, 1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim , in Storia letteraria
scritta da una 297 società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura
italia na, Milano, Vallardi, 1915, v. III , p. 243 ; A. D' ANCONA e 0. BACCI,
Manuale della letteratura italiana , Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v.
VI, p. 386-7 ( 1 ) ; F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima
ed. , Firenze, Sansoni, 1918, v. III, p. II , p. 441 e sgg. Il primo centenario
della morte di V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che
dalla pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di
F. Nico lini , dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (
Vincenzo Cuoco , Roma, Alberti ed ., 1924) . Preannunziando o annunziando la
ricorrenza scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (
1823-1923 ) , in Il popolo molisano, 15 marzo 1923 ; G. COLESANTI, Un realista
; Vincenzo Cuoco, in Il mondo, 13 dicembre 1923 ( 2 ) ; F. BARIOLA, Vincenzo
Cuoco, in Gazzetta delle Puglie, febbraio 1924 ; F. Mo MIGLIANO ,
Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni
rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R.
Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR : La buona politica : dal Vico al
Cuoco al Risorgimento Italiano ( Roma, Soc. Anonima Poligrafica 1925) . Altra
raccolta di scritti per uso scolastico . V. CUOCO - Educazione e politica (
Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G.
MARCHI. ( 1 ) A pag. 387 v'è una duplice inesattezza : ad A. BUTTI sono
riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori
politici italiani, in La Critica , II , p. 337 e Una pagina inedita su G. B.
Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181 , la riesumazione dei
quali spetta , del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. ( 2) L'articolo
del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un numero unico
cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè vedere.
INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II . I « Frammenti di lettere a
V. Russo » e la critica rivoluzionaria . 27 CAP. III . Il « Saggio Storico
sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua politica generale.
123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » 197 CAP. VI. Il
« Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico . . >> 228
Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano 260 Conclusione 278
Nota bibliografica. ·Felice
Battaglia. Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani, “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. –
spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in
Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il
‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling,
volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una
nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Battaglia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51787741952/in/dateposted-public/
Grice
e Battista – la percezione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo. Grice: Very good. – Giovanni Battista –
he assumed the name “BONOMO” Gabriele
Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi.
Scrive un saggio sulla “trigonometria”. e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore
Soliani, 1871153. Antonio Muccioli, Le
strade di Palermo, Editore Newton & Compton, 1998127. Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 89092338 495/98454 Identities-89092338 Biografie Biografie:
di biografie Categorie: Teologi
italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore1694
1760 13 aprile 24 agosto Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni
Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria,
orologio automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria
nella matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale
della percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788784183/in/dateposted-public/
Grice e Bausola –
solidarietà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ovada). Filosofo. Grice:
“I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons for solidarity,’
which is exactly the point I want to make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’
as people kept asking me for the rationale – i. e., literally, the rational
basis – for conversational cooperation – People agree that conversation is
rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation which is rational.
That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the topics of
‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than sociological
perspective – and therefore into the compromise between self-love and
other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also admires my
latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia filosofica,’ as
the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di Filippo, scultore cieco
di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione cattolica attraverso le
scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo Gerolamo Franzoni, e dei
Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi Ligure al Classico Statale
"Doria" dove «la materia che veramente fu per lui una rivelazione è
la filosofia». Sceglie così la facoltà
all'Università Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli
e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito
nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui
sono «maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento
neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero
docente di filosofia morale nel 1962. Nel 1970 vincendo la cattedra di storia
della filosofia viene chiamato alla Cattolica, dove dal 1974 al 1979 è
ordinario di filosofia morale passando poi, nel 1980, ad ordinario di filosofia
teoretica. È preside della facoltà di lettere e filosofia dal 1974 al
1983. Nel 1982 è chiamato a far parte
del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II per il
periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ne
diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998. È stato anche direttore della Rivista di
filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista
Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo.
Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei Classici
della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del Centro
di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la collana di
pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica. Tra gli altri incarichi e funzioni è
stato: Socio dell'Accademia Nazionale
dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto
LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società
Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore
delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente
della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle
Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma
dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del
Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto
dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto
dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano
teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica
(fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il
tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della
metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono
rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello
internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono
rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica
esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello
studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione
storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento
volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della
filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica
del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico,
politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste
di cultura. Altre opere: “Saggi sulla
filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey,
Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano,
Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling,
Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce,
Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in
Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia.
Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di
Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella
filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema
della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione.
Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a
Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia);
“Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto
dell'uomo : riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero);
“Libertà e relazioni interpersonali : introduzione alla lettura di L'essere e
il nulla, Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise
Pascal, con Remo Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano,
Vita e Pensiero “La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà,
le ragioni della solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica,
Milano, Vita e Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola
della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai
benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981
Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per
uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana
— 2 giugno 1985 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica
italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al
merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno 1988 Cavaliere di Gran Croce
dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per uniforme ordinariaCavaliere di
Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno Note Anna Maria Bausola Grillo, Adriano Bausola
nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia Ovadese",
pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola, Accademia Urbense di
Ovada, 2005 Avvenire, 29 aprile 2000, su
swif.uniba. 30.08. 22 febbraio 2007).
Sito web del Quirinale: dettaglio decorato. Sito web del Quirinale: dettaglio
decorato. Sito web del Quirinale:
dettaglio decorato. Emilio Costa, Un
Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, in URBS
Silva et flumen, Anno XIII n.2 giugno 2000,
71-72. Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini , Atti del Convegno Studi
di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, 2005, 669-672. Altri progetti Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adriano
Bausola Emilio Costa, Un Ovadese nel
mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XIII n.2
giugno 2000, 71-72 , su
archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo
dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen,
trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XXIII n.3-4
settembre-dicembre , 180-191 , su
accademiaurbense. Dal sito filosofico.net : Adriano Bausola Diego Fusaro, su
filosofico.net. blogphilosophica.wordpress.com//08/31/4161/ Lorenzo Cortesi
PredecessoreMagnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro
CuoreSuccessoreStemma UCSC.png Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia
Università Università Filosofo del XX
secoloAccademici italiani Professore1930 2000 22 dicembre 28 aprile Ovada
RomaBenemeriti della scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce
OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori
dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica
del Sacro Cuore. Adriano Bausola. Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The
problem with Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo,
totalitarismo, utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione,
soderale, anche solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love,
self-love, benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita –
Archivio di Filosofia, 1937 – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Bausola” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788639491/in/dateposted-public/
Grice e Bazzanella – il
luogo dell’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste).
Filosofo. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from
mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication;
he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept
of contamination to elucidate that of structure –.” Grice: “My favourite of his
tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all
that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his
essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological
approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with
‘alter.’” Partecipa a tre edizioni della
Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione
fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un
saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl,
nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault,
Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando
che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico,
storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora
l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al
consumo. Espone a Udine "Size". Il suo sviluppo della performance introduce
nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle
installazioni di Tony Oursler. Alla
Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone)
che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In
una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da
un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono
riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro
opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del , invece, propone
un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in
cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande
generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia"
nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri
filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella declina
la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della metafisica a
un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in Husserl,
Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non viene più
interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il tentativo di
articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende a scardinare
l'impianto della logica aristotelica. L'echologia è un termine che
Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi delle Categorie
di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui soltanto in una
seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione "usiologica", “ouisologia”
-- cioè basata sulla centralità della "sostanza" (ousia, stantia,
essential, izzing, x izzes y. Questo
passaggio è decisivo poiché segna il definitivo abbandono delle suggestioni
della filosofia presocratica (Velia, Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da
Girgentu) ponendo le basi di quello che sarebbe stato l'impianto della filosofia
occidentale. La lateralizzazione, dunque, della categoria di “échein” (hazzing
– habitus) nel suo duplice significato di "avere" (Grice: x hazzes
y”) e di "essere in relazione" ha comportato il privilegio
dell'"essere" e di un'ontologia che impone un principio ed una
gerarchia verticale, colla, suddivisione tra la "cosa" ed il
"oggetto" (Grice’s ‘obble’). x Fid y.
La relazione diadica x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”.
L’echologia e decostruttiva. L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di
senso, prima che “onto-logica” od ‘ontica’ e fondata sull’ente e articolata sulla relazione o, come li definisce
Bazzanella, sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del
concetto di “aletheia” (disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo
la quale il senso non può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso.
Ciò significa che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della
non-contraddizione, e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una
superficie illogica. La legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon”
(‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a,
non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una
relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una
relazioni senza referenza a le due relati. La preposizione "in" (‘jack IN the
box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione
"di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna).
Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la
cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che
vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere
del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il
"con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e
Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di
Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià”
del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno.
Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla
ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca
sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto, sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’
‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia
dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova
il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e,
soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato"
nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della
logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed
all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in
analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il
non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla
definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il
senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una
"mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente
così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche
una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti
(l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal
cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io"
pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo
assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il
reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di
non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La
communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione
in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si
trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende
il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o
filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e
normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui
riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il
rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso
di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva,
e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai
classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera nello stalinismo. Il fascismo dai un
presupposto socialista diviene un
totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un
surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il
reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso
stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il
modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione
autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di
stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea
ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società
dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non
sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del
totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario
e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut»,
n. 270, La Nuova Italia, Firenze 199565.
2 F. Bonami (a c. di), La dittatura dello spettatore, Catalogo generale
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2009 Autoscrittura, Asterios Editore, Trieste 2009 Religio I. Senso e fede nel
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Religio II. La religione del soggetto, Mimesis, Milano . Indignatevi,
Asterios Editore Trieste . Oltre la decrescita. Il Tapis Roulant e la società
dei consumi, Asterios Editore, Trieste . Lacan. Immaginario, simbolico e reale
in tre lezioni, Asterios, Trieste . Filosofie della paura. Verso la condizione
post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste . La filosofia e il suo consumo.
Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore, Trieste . Religio III. Logica e
follia, Mimesis, Milano . Eros e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX
Seminario di Lacan, Asterios Editore, Trieste, . Come. Linee guida per una
immuno-fenomenologia, Asterios Editore, Trieste, . Il numero e il fenomeno,
Asterios Editore, Trieste . Il tragico e il comico nell'epoca del grillismo e
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Editore, Trieste . Del fallimento. Simbolo e violenza II, Asterios Editore . Filosofi
italiani del XX secoloFilosofi. Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo
dell’altro – etica e topologia, L’echologia di Grice (dal greco ‘echein,’
avere, hazzing), essema, essematica, inessema, coessema, diaessema, riessema,
aritmetica. Esposito, communita, immunita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788746073/in/dateposted-public/
Grice e Beccaria – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I would call
Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a Beccarian!” Grice: “His
explicit, rather than implicated, Griceian ideology is in the opening chapter
on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the implicaturum ain’t a part of
the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is explicated – he adds that
‘senses’ should not be multiplied because your addressee may get YOUR sense,
but trust he will lose interest if you keep multiplying – “to the risk that he
won’t get your sense in the last place!” – Grice: “Like me, Beccaria was a
unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is delightful, very pleasant
read!” – If Austin and us met on different grounds and pubs, Beccaria met at
the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately, only know him for his
tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians don’t even consider Beccaria an Italian philosopher but
as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the illuminismo Lombardo
--.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of Italian philosophy is
much diverse than our Oxonian dialectic!” --
One of the most essential of Italian philosophersReferred to by H. P.
Grice in his explorations on moral versus legal right, studied in Parma and
Pavia and taught political economy in Milan. Here, he met Pietro and Alessandro
Verri and other Milanese intellectuals attempting to promote political,
economical, and judiciary reforms. His major work, Dei delitti e delle pene “On
Crimes and Punishments,” 1764, denounces the contemporary methods in the
administration of justice and the treatment f criminals. Beccaria argues that the
highest good is the greatest happiness shared by the greatest number of people;
hence, actions against the state are the most serious crimes. Crimes against
individuals and property are less serious, and crimes endangering public
harmony are the least serious. The purposes of punishment are deterrence and
the protection of society. However, the employment of torture to obtain
confessions is unjust and useless: it results in acquittal of the strong and
the ruthless and conviction of the weak and the innocent. Beccaria also rejects
the death penalty as a war of the state against the individual. He claims that
the duration and certainty of the punishment, not its intensity, most strongly
affect criminals. Beccaria was influenced by Montesquieu, Rousseau, and
Condillac. His major work was tr. into many languages and set guidelines for
revising the criminal and judicial systems of several European countries. Se
dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la
causa dell’umanità.» (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria
Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo,
economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti
dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica
milanese. La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene,
in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e
la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo
utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed
ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di
Toscana. Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è
considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del
diritto penale e della criminologia di scuola liberale. nacque a Milano
(allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di
Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma
dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università
degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel
1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni. Nel 1760
Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a
rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese);
da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con
gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel
1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772. Il padre lo cacciò
anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri,
che lo mantenne anche economicamente per un periodo. Teresa morì il 14
marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena
40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti
Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni
dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio,
Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle
Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie
ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo
di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più celebre
giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse
sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel
1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle
discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia
penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di
morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in
Francia. Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed
osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando
Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di
mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa
della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi
controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei
filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel
circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana
e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse
a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il
viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria,
tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e
soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo
soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come
Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua
personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e
non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto
bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti. Tornato
a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica),
creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una grande
opera sulla convivenza umana, mai completata. Antonio Perego,
L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle),
Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi,
Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione
austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia,
carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche
sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui
Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli
studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare
Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole
preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la
riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del
sistema metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello
Annibale, dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente
complessa, coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma
dei pesi non fu mai realizzata.) Il suo rapporto con la figlia Giulia,
futura madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua
vita; ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso
deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì
dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei
per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una
relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non
si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla
figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile
avarizia. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti
illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni,
più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare
fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e
Alessandro, e amante di Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandonò
il marito, nel 1792, per andare a vivere a Parigi insieme al conte Carlo
Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre, e temporaneamente anche con il figlio.
Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56
anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in
una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella
tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero
monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande
giurista. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei
suoi scritti il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di
Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla
città. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro
Manzoni (che riprenderà molte delle riflessioni del nonno e di Verri nella
Storia della colonna infame e nel suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il
figlio superstite ed erede, Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura
di Locke, Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi,
dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in
particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria
contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da
Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale
(nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a
garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in
maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge
divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica.
La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da
esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo
della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può
disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito
nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del
ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva
certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto
individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in
frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni
eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è
necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi
nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è
parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare
pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la
loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più
dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso
o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte
né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si
inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di
valutazione di ogni azione umana. Monumento a Cesare Beccaria,
Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello
general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base
alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che
sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno
latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello
analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da
intendersi in termini fenomenici (approccio sensista). La natura umana si
svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la
moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è caratterizzato
dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi» messi in
movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore.
L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni,
in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende
di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della
convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna
impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al
fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore,
da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione
preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni
antisociali. Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì
idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e
rispettosa della persona umana. «Il fine delle pene non è di tormentare
ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può
egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il
tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa
inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le
strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già
consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni
ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque
e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione,
farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la
meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le leggi, che
sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono
l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini
dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (Dei delitti e delle
pene, cap. XXVIII) Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene:
la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una
spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è
inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla
volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa: non è un vero deterrente
non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata
azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un
ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza
definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua
esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare
compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini
al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e
il senso di fiducia nelle istituzioni. Questa condizione è assai più
potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è
quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene
sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene
annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa
l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività
penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta
eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto
o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come
previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia
anti-retributiva). Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia
necessario solo quando l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno
per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta
tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso
un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile. Tale
motivazione fu usata, per chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre,
il quale era inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via
ad un uso spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del
tutto inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze,
come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793.
La tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con
varie argomentazioni: essa viola la presunzione di innocenza, dato che
«un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in
un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena
stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile
innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo,
stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine
alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è
posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto,
né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente
l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante
il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura
trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale
abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto
comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena
preventiva, sproporzionata e comunque violenta). Il carcere preventivo
Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa
di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo
di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca
assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che
contrario al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il
lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un
cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il
lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia
è una pena che per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la
dichiarazione del delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro
essenziale, cioè che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno
di pena. La legge dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la
custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena.» Può
essere necessaria, ma essendo comunque una pena contro un presunto innocente,
come la tortura (concezione garantista della giustizia), non deve essere
attuata tramite arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La
carcerazione dopo cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci
sia, oltre ogni dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica
fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto,
le minacce e la costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e
simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove
devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono
sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari
di una massima generale esistente nel pubblico codice». Le prove dovranno
essere quanto più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante:
«A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame
dalle carceri, che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e
comanderanno agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi
potranno contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare». Egli
raccomanda inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un
uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco
nota alcuna d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati
poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per
qual ragione è così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché
sembra che nel presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini,
prevalga l'idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si
gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la
prigione è piuttosto un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza
interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e
della nazione, quando unite dovrebbono essere». Il carattere della
sanzione Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910 Cesare
Beccaria, incisione da Dei delitti e delle pene Beccaria indica come la
sanzione deve possedere alcuni requisiti: la prontezza ovvero la
vicinanza temporale della pena al delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere
la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità la
proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile) la
durata, che dev'essere adeguata la pubblica esemplarità, infatti la
destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza
all'infrazione essere la «minima delle possibili nelle date circostanze»
Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa proporzionalità pena-delitto,
bisogna tener conto: del danno subito dalla collettività del vantaggio
che comporta la commissione di tale reato della tendenza dei cittadini a
commettere tale reato Non dev'essere comunque una violenza gratuita, ma
dev'essere dettata dalle leggi, oltre a possedere tutti i caratteri razionali
citati, e sprovvista di personalismi e sentimenti irrazionali di
vendetta. La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti si dovrebbe
evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo
sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni in maniera analoga al fatto
compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile a uno riuscito).
Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di “prevenzione
indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la
diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale (premiare la
virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma
economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali
disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio
(cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti
importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei
confessi dando loro l'impunità. Per quanto riguarda l'istituto premiale
nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere
usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare
durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene
pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la
discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento
della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando
anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o umanamente
al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non dell'esecutor delle
leggi», scrive infatti. Pertanto il fine della sanzione non è quello di
affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere altri delitti e di
intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di "dolcezza
della pena", in contrasto alla pena violenta: «Uno dei più gran
freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse. La
certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore impressione
che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza
dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre
gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di
tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità
stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande
il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir
la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon
sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo
spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida
e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male
della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male
deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il
delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò
tirannico.» Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di
Beccaria sul porto di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza
del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni: «Falsa idea di utilità
è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario
o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e
l'acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i
non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter
violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come
rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili
ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali
toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato
legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?
Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli
assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la
confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi
non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa
impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione
degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale» Influenza Anche
Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene
crescono coi supplizi". L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre,
influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella
Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo
d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col
quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la
pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale. Il filosofo
utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee. Le idee del
Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse
nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi. Citazioni e
riferimenti Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato
un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto
sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Nel 1871 venne inaugurato un
secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del
deterioramento, nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli
è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a
lui intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il
Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti
della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre
opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della
pena” (Livorno, Marco Cortellini). Giovanni
Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di
economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il
Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi, Genealogia
Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione
della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con
prosperità”; Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti
trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano. Galeazzo
«I.C. causidico nel civile». Francesco “cassiere generale del Banco
Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna
Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia
rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»
Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con
che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco
(«rimaritata nel conte Isidoro del Careto»). Francesco «Fece
aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo
per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711
per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella
Valtellina». Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di
Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con
decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria
Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio.
Sposò nel 1761 Teresa de Blasco Anna Barbò
Giulia Sposò nel 1782 Pietro
Manzoni. Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale Margherita Teresa Giulio Quarto marchese di
Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati
Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò nel 1766 Giulio Cesare
Isimbardi Tozzi. Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco
(1749-1856)Sposò Rosa Conti (vedova
Fè). Carlo Sposò Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate
Carlo Teresamonaca Chiaramonaca
Nicola Francesco (1702-1765) -Laureato in legge, membro del
collegio dei giurisperiti dal 1738, fu anche giudice a Milano e a Pavia.
Giuseppe Marianna Ignazio Anna
MariaSposò un Cattaneo «fisico» Gerolamo«Canonico ordinario del
Duomo» AngiolaSposò Alberto Priorino nel 1619. Tendente al
deismo Il nome di «marchese di
Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra
cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di
Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso
e discorsi di economia politica, Paris, 20059. Philippe Audegean, Introduzione,
in Lione, 20099. ) John Hostettler,
Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and Punishments', Hampshire,
Waterside Press, 160, 978-1-904380-63-4. Indicata come "Ortensia" in Pompeo
Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane.
Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della Giustizia, Milano,
199553. Pirrotta, art. cit C. e M.
Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..
Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e la riduzione delle misure lineari a
Milano,' Nuova Informazione Bibliografica 3/, 579-602., DOI:10.1448/80865. l'11 dicembre . Beccaria non riposa sul Lario F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi,
Torino, 1969 Sambugar, Salà, Letteratura
modulare, I Dei delitti e delle pene, capitolo XII Cesare Beccaria, la scoperta della libertà,
con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre Dei delitti e delle
pene, capitolo VI Dei delitti e delle
pene, Capitolo XLVII Dei delitti e delle
pene, Capitoli 38 e seguenti Dei delitti
e delle pene, capitolo 46, Delle grazie
Dei delitti e delle pene, capitolo 27
I. Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari,
revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari, Laterza, «Il marchese
Beccaria, per un affettato sentimento umanitario, sostiene [...] la illegalità
di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe essere contenuta nel contratto
civile originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto
acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli avesse a uccidere un altro (nel
popolo); ora questo consenso sarebbe impossibile perché nessuno può disporre
della propria vita. Tutto ciò però non è che sofisma e snaturamento del
diritto». Teatro genealogico delle
famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital Library. Felice Calvi, Il patriziato milanese, Milano,
1875, 52-53. Nella genealogia settecentesca è indicato un
Nicolò abbate. Pietro Verri, Scritti di
argomento familiare e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, 2003118. Franco Arese, Il Collegio dei nobili
Giureconsulti di Milano, in Archivio Storico Lombardo, 1977162. Cesare Beccaria, Ricerche intorno alla natura
dello stile, Milano, Società tipografica de' classici italiani, 1822. Cesare
Beccaria, Scritti e lettere inediti, Milano, Hoepli, 1910. Cesare Beccaria,
Opere, I, Firenze, Sansoni, 1958. Cesare Beccaria, Opere, II, Firenze, Sansoni,
1958. Introduzione a Beccaria, Enza Biagini, Roma-Bari,Laterza, 1992
Antoine-Marie Graziani, Fortune de Beccaria, Commentaire 2009/3 (Numéro
127). Dei delitti e delle pene Diritti
umani Ergastolo Tortura Pena capitale Del disordine e de' rimedi delle monete
nello stato di Milano nel 1762 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource
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Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
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dell'Enciclopedia Italiana. Cesare Beccaria, su Find a Grave. Opere di Cesare Beccaria, su Liber
Liber. Opere di Cesare Beccaria / Cesare
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Beccaria, . Audiolibri di Cesare Beccaria, su LibriVox. Vita di C.Beccaria, su zam. V D M Coterie
holbachiana V D M Illuministi italiani Filosofia Letteratura Letteratura Categorie: Giuristi italiani del
XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti italiani 1738 1794 15
marzo 28 novembre Milano MilanoFilosofi del dirittoIlluministiUtilitaristiLetterati
italianiOppositori della pena di morteStudiosi di diritto penale del XVIII
secoloCriminologi italianiStoria del dirittoNobili italiani del XVIII
secoloStudenti dell'Università degli Studi di Pavia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Beccaria," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Delle idee espresse, e delle idee
semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale
sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando
siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente
suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse
nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano,
non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del
nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è
legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e
le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le
attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra
di loro, e scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi,
rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee
espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti,
o solamente ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono
delle sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo
semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non
deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non
più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli
oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore
comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della
realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità
della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie,
che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e
limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della
mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune
l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le
altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo
concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic
chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una
che l'altra delle sensazioni componenti 1 e terruzione al senso, e
distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. , faranno i n 43
suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta,
accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea
principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad
aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante saranno
le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito', 'nave',
ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più immediatamente le
une che le altre suggerite, tutte concorrono contemporaneamente ad associarsi
colla principale; onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra
resta distratta é confusa. Per lo contrario, se invece de' nomi 'spada',
'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro', 'soldato', 'vele', e che questi
nomi si condensassero attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si
osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio
significato delle tres uddette parole si quelle ogni sono che immediatamente, e
prima di altra, si risvegliano nella fantasia; saranno quelle che
immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di onde associazione
non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente le altre
sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato', quelle di
'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente queste
sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e 'vele',
ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente
spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre
però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò
parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que
immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano
nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non
SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si
risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces
exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente
non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti
diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia,
cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e
contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente! Egli è
evidente che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi
occupa la mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un
maggior tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della
quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con
durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole
immediatamente, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si
risveglino; onde con minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più
grande effetto. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa,
Deusque sinebant, a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le
idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento
del tutto, oppure essunto nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che
per forza di associa zione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che
non sarà inutile il qui osservare che molte espressioni non so no preferibili
alle altre, se non appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è
materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione la parola
cocchio della carrozza non per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso
dell'esser meno comune ed avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle
bocche di tutti sieno continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per
meno belle son riputate, ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da
un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con
minore spesa di forza e ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse,
noi verremmo mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità
dell'idea principale dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo
l'accessorio principale, pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia
nelle unioni diseguali e sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto
è vero che il tempo (che altro nonè per noi che la successione delle idee degli
esseri sensibili) è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente,
ma le scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione;
perchè tutte le più fine e le più sottili ed interiori, egualmente che le più
complicate e più grossolane ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto
l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle
idee accesso rie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse,
quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo, tramolte
accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano
reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, una sola sarà l'espressa, le
altre taciute; perchè se tutte fossero espresse, ciascheduna espressione
replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che
fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio di tempo. La ripetizione delle
idee accessorie non produce lo stesso. In secondo luogo, tra la moltitudine
delle idee accessorie vi saranno, oltre le analoghe, quelle che sono più
distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed associate:
di queste ognu na apre la mente ad una serie d'impressioni, e sono direi quasi
capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno le espresse, perchè non si
destano reciprocamente, ed effetto della ripetizione delle idee
principali; queste si rinfrancano come tali nella mente, e divengono perciò
come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara; quelle ripetute
annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo contrario, se una
sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate, la quantità
d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più grande, e
per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione
dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e
dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve
tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a della morale e della
politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese
del necessa è necessaria l'espressione per eccitare, ossia
perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee.
Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale,
in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi
ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre
indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione
soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una
espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per
mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di
tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non
espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza;
ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta
diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle espressioni da
leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno le idee
accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute, ma
riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza
l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non
espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più
grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo
manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo
maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più
forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire, della
mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza sua
esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente,
dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più
facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di
espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza
dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed
interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l'
immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote
e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae
raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le
stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte
relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma
ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i
boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le
solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista
del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti
l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare
i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la
considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se
stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore
pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune,
gli oggetti della quale sono atti bensi a spin 51 ľ 1 gertato l'animo
fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo
attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le
accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor
numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente
più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre
rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto
riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da
sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli accessorie
espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc chè il
numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo ch'
esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo allontaneremo il
concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per una contraria
ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento d'impressione; m a poche
forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari
dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Delle
idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non
meno importante che generale è intorno al diverso *effetto* che una
idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col termino
corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata* nell'animo
di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensaziona;
destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e
l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante,
ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza ha la
idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione esigono da noi quella
le che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente,
tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al tutto. Mentre per lo
contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi
per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e debolissima è la
percezione della *parte* o solamente ad alcune noi faremo idea accessoria e non
espressa, accrescono della sensazioni senza nuocere all'attenzione ed
all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la
quantità d'impressione momentanee non deve eccedere che *tre o quattro*
sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una
simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti non le concede una
maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa ascoltate, in
luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è
la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque volessimo
l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella legge
determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo
sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente
di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella mente, ed
allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque un'espressione
racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come 'spada',
'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non sia
determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti e
l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle
altre espressione in vece di aumentarlo. , faranno in suc, ma sibbene sia
piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che,
condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*, vi è un'idea
accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza alla idea principale,
ma invece un molto maggior numero, quante sono le sensazioni egualmente
comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito' o 'nave'. Le varie
sensazioni, non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite,
concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea principale. Onde
l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é
*confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o 'esercito',
o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa espressione
si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osserva che
la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio significato
dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono che
immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia
-- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per
forza di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire
rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di
'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo
priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata
coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere
all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io
intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta
questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale,
l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non
pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica
della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando
Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite
hanc animam, me que his exolvit e curis" -- quanta folla d'idee si
risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette,
'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea
semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare
un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la
spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui
portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non
ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesima idea
per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di
quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma
nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la
presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente
quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque
come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore
dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto. a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che
renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure
essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si
eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui
osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se
non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente
più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o
'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo
capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra
che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si
rigettano, nè per meno bella è riputata, ma soltanto perchè è
espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si
ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee
taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più
tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in
un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe
e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate
dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è
per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità
alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti
e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile
ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore
operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si
manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per
essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In
primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia
reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa
(l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se
'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando
l'idea è superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e
stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non
produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è , oltre l'analoga,
quelle che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la
sua rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di
questa ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni,
e è direi quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea
accessoria *espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della
ripetizione dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale
nella mente, e divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il
bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto)
ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per
lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente
destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola*
espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per
conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito,
che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così
veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema
non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di
tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del
necessa è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia
perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà
dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea
principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una
calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo
coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate
sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo
intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una espressione
E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni, tanto per
mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di
silenzio e di riposo. Se vi è idea semplicemente destata e non
espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stanchezza.
Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono;
il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica dalla
quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto conversazionale) da
interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella
calligrafia) è l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa
puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè
l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi
voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è un pessimo
filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e
perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del co-discorsante,
essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un
tempo maggiore nella considerazione di una idea ('è un pessimo
filosofo?') a misura che è più grande e più forte. Onde
per questo tempo necessario, per questa dimora di processamento, per così dire,
della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza e grandezza
sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente,
dall'impeto concepito a percorrere un'idea quasi trattenuta, più facilmente puo
ricevere altr'idea rapidamente risvegliata all'occasione di una espressione
forte ed energica ('Ha bella calligrafia'). Chi ben considera, e ritorna sulla
esperienza dell'animo suo, puo facilmente scorgere che sempre che un grande ed
interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l'
immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote
e si risveglia dall' intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e
raccolta, non si abbandona subito all'ordinaria impressione delle cose che le
stanno d'attorno, ma sibbene destasa in lei un'idea relativa non solo a quella
straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla
passione dalla quale è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari
ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti
ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra
mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono
ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar
l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi.
Mentre chi odia di rientrare in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e
sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u
niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a
spingertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a
fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciola e
più debole è l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su
di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo
minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata
che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato
dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed
interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra
l'immaginazione non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile manifestazione
('-- è un pessimo filosofo'). L'idea debola accessoria espressa
debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la debolezza. Ma un'idea
espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea taciuta o sottintesa
('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento di un'idea
principale. L'idea accessoria forte, per una contraria ragione, debbe essere
minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti la scierebbero del
vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non
espresse debb'essere supplito. Dello
espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante
che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non
principale, ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o
quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata
nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero
della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola
fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano
l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità
che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o
semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori
civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più
frequente, tanto più si nuoce tra di se , e scema l’attenzione al tutto
comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri
d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente
suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza
nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità
d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni
ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente umana è capace di una
simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea --
non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità .
Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto
quando è presente, vi è la vivacità e la realità della *espressione* che
representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi dunque volessimo
la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo ad offendere
quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre
la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il tutto communicato
(espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà
la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o
solamente ad alcune , noi faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine
o concetto o segnato o significato o senso corrispondente all'espressione si
risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti*
o superflua, fa inter- ruzione al senso della proposizione comunicata , e
distrugge l'effetto delle altre in vece di aumentarlo . Se dunque una
proposizione espressa racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come
"Questa spada e bella", "L'esercito e bravo", "La nave
va," ec. , cosicché la mente dalla proposizione espressa medesima noù sia
determinata a considerar più l'una che 1'altra delle sensazioni componenti ma
sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta accaderà che
condensando due o tre di queste proposizioni intorno ad un proposizione
*principale*, vi saranno non due o tre proposizioni accessorie soltanto unite e
destinate ad aggiunger forza alla proposizione principale, ma invece un molto
maggior numero quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto la
proposizione espressa, "La spada e bella", "L'esercito e
bravo," "La nave va", e tutte queste varie e uumerose sensazioni,
non essendo più immediatamente le uno che le altre suggerito, tutte concorirono
contemporaneamente ad associarsi colla proposizione principale; onde l'effetto
reale che ne succede è , che la fantasia di nostro conversatore resta distratta
e confusa. Per lo contrario, se invece della proposizione "La spada e
bela", "L'esercito e bravo", "La nave ve", spa* da si
dicesse "Il ferro e formidable", "Il soldato e bravo",
"Le vele va", e che questi proposizioni si condensassero attorno ad
una proposizione principale per formarne il senso complesso, si osservi che le
tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio significato o senso
delle tre suddette proposizione espresse piu specifica sono quelle che
immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano nella fantasia. Onde saranno
quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di
associazione non tralascerà la parola di fer- ro di suggerire rapidamente le
altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella di soldato quelle di ;,
esercito quella di vele quelle di navi. ;, Ma non essendo queste sensazioni
sug- gerite propriamente associate colie parole ferro , soldato e vele , ma Con
le idee che queste immediatamen- te risvegliano non possono nuocere , alla
principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io in- tendo per
idee suggerite e per idee * espresse , mentre però tutta questa teoria sarà
resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi speciali ed
appellativi , e de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite Digitj^ed by
Google 3o non entrano nella sintassi della pro- posizione la quale
regge senza di , quelle: non sono durevoli nella mente quanto le idee che
eccitate sono dal- le parole immediatamente, quantun- que come le altre alla
occasione di quelle si risveglino ; onde con mino- re dispendio di tempo e di
forze si ottiene uu più grande effetto. Quan- do Virgilio fa dire a Didone :
Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque his
exolvite curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole
parole, in quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza
che si risveglino queste idee , onde la mente non tro- vasi affacceudata a
raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll* accennar
soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia , cioè di una cosa da
lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan- , to teneri e contrastanti
sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una
medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la menta se
siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo ,
$T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale
si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto
, nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa-
zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il
qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto
perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più
breve dell’ altra . E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio
della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed
invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno
contiuuamente cionono- ; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate,
ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è
rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di
tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere
più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende- ,
rebbe annojaote e faticoso il netto , se non . Digitized by Google
Sa concepimento del tutto, oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem-
pi ciò che per 1’ unità dell’ idea prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un
solo ; il che rendendo 1* accessorio principale, produrrebbe e confusione nella
chiarezza , e noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella
mente nostra . Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la
successione delle idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del
moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver
considera- zione perchè tutte le più fine e le ; più sottili ed interiori
egualmente , che le più complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni
dell’ intel- letto, sotto l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano
. Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano , quali
sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente
destate? In primo luogo tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra
di loro , e che si risvegliano reci- procamente ed infallibilmeute l* una l’
altra uua sola sarà 1’ espressa > le y peri sensibili ) Digitized by
Google 33 altre taciute perchè se tutte fossero ; espresse , ciascheduna
espressione re- plicando le idee di tutte le altre , vi sarebbe superfluità e
ridondanza che , fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo . La
ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della
ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano ; come tali nella
mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e
rischiara quelle ri- ; petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione dalle
principali : per lo contra- rio se una sola sia 1* espressa le al- ,, tre
analoghe semplicemente destate , la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa
in una sola espressione di- viene più grande, e per* conseguenza più piacevole
restando picciola la , insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che
abbiamo visto che uu , tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’
immaginazione : così ve- niamo ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve
tempo problema che ; nonè solo l’oggetto de’meccanici ma della morale e della
politica anzi , di tutta la filosofia. lu secondo luogo , tra la molti- ,
, 34 tuaine dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe,
quelle che sodo più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive
simili ed asso- ciate; di queste ognuna apre la meu- te ad una serie
d’impressioni, e sono direi quasi capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’
espresse perchè non , si destano reciprocamente ed è ne- , cessaria F
espressione per eccitare ossia perchè la mente possa percorre- re tutte queste
differenti progressioni d’ idee . Sarà dunque eccellente la combinazione di
quelle accessorie col- la principale in cui tutte le accesso- rie espresse
siano capi-pensieri, e non molto analoghi od associati tra di loro , e
moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee
vicendevolmente si legano . Una riflessione soggiungo intorno all* effetto
delle idee espresse e ta- ciute ; cioè che tra una espressione e F altra, per i
limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo del- F occhio quanto
per mezzo del- F udito , corre un piccolo interval- lo di tempo e, per così
dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee ; 35 queste come
lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza; ma se tutte sono
espresse , moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta diminuzio-
mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi. Quanto più
gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più numerose ,
destate e non espresse , ; ne di piacere e stanchezza per 1* au. possono essere
le idee taciute , ma necessariamente destate da quelle , perchè l* efficacia
delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli slanciasi ad
abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse del tutto
, e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T immaginazione di chi
legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbli-
gata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a mi- sura
che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa
dimora per così dire della ,, mente su di un oggetto quantunque , egli medesimo
per la forza e gran- dezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione
ciononostan- , Digitized by Google 36 te la mente, dall’impeto
concepito * percorrere una serie d’ idee quasi trat- tenuta più facilmente
potrà ricevere , altre idee rapidamente risvegliate al- P occasione di
espressioni forti ed energiche : chi ben considera torna sulla esperienza dell*
animo suo» potrà facilmente scorgere che sempro che un grande ed interessante
oggetto fermi il pensiero, e percuota improv- visamente P immaginazione, questa
do- po considerato quell’oggetto, nell’at- to che si riscuote e si risveglia
dal- Pintensione nella quale trovavasi, per così dire , attuata e raccolta non
si , abbandona subito all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’
at- torno ma sibbene destasi in lei una , moltitudine d’idee tutte relative non
solo a quella straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a , , ed
alle passioui dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi
e varj ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche
de’ monti ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del , mare che si
allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita immaginazione,
sono ricer- , e ri- Digifeed by Google cati da coloro che piu amano
di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar P animo liberamente e senza
distra- - zioni dalla considerazione di se me- desimi; mentre coloro i quali
odiano • di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi
dal sincerissimo accusatore pensiero si , gettano nel minuto e sempre unifor-
me vortice della vita comune, gli og- getti della quale sono atti bensì a
spioger l’animo fuori di se stesso in un coutinuo movimento, ma non a fermarlo
, e renderlo attonito e pen- sieroso. Per lo contrario, più piccio- le e più
deboli saranno le accessorie espresse , la scelta si farà su di quel- le che ne
risvegliano un minor nu- mero, perchè la differenza tra le mie e le altre
essendo minore, e sovente piu importanti e più forti potendo essere le destate
che P espresse si , corre rischio che le idee dell’ autore siano perdute di
vista e confuso ed , interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le
immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterno sensibili
manifestazioni . Le deboli accessorie espresse, secondo ab- biamo dimostrato
debbono essere , Digitized by Google 38 molte , acciocché il numero
compenti la debolezza ; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude
molte idee taciute o sottintese , altrimenti di troppo alloutaneressimo il
conce- pimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti , per una contraria
ra- gione debbono essere poche in cia- , scun momento d’impressione; ma po- che
forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che
da molte idee non espresse deb- b’essere supplito.
Cesare Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51713343222/in/photolist-2mSXjtg-2mSUzzj-2mRPpAW-2mPyn68-2mMYDGZ-2mMJpgU-2mLP9qE-2mKBYJ5-2mKGaqS-2mKDteh-2mKbpiZ-2mKfXD1-2mKfNvB-2mKiJqu-2mJR8Pr
Grice e Becchi – l’incubo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Grice: “Becchi is pretty controversial; a good
reason why he is not invited to the New World for “Italian Studies”! – My
favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il pnedolo di Foucault,” “L’incubo
di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential philosopher like Hart, and
perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing! -- Paolo Becchi -- Paolo Aureliano Becchi (Genova), filosofo. Laureato in filosofia, si è poi
trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente alla cattedra di
Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il Deutscher
Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di Filosofia del
Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre fino al è stato professore presso l'Lucerna. Ha
prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia del diritto,
la storia della cultura giuridica e la bioetica. Nel si
avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del
movimento” ma a gennaio del lo abbandona
criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle &
Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del
sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto
althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la
Lega di Matteo Salvini. I suoi
interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà
del era noto al pubblico del piccolo
schermo per le interviste e i talk show in cui dibatteva. È attualmente editorialista di Libero e de Il
Sole 24 ORE, oltre ad avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre
opere: “Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica
giuridica” (Morcelliana); “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di
fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi e prìncipi. Alle origini del diritto
moderno” (Aracne); “Il principio dignità umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti
corsari (Adagio Editore); “I figli delle stelle. L'Italia in moVimento”
(Adagio); “Colpo di Stato permanente” (Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna);
“Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano, re nella Repubblica. Per una messa in
stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo
Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o no. Le ragioni per il no e il
testo della «controriforma» (Arianna); “Come finisce una democrazia. I sistemi
elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna); “Italia sovrana (Sperling &
Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus ha travolto il Paese”
(Historica) Note Biografia sul sito Genova Archiviato il 19
marzo in . M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non
ci rappresenta”. Lui: “Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano, Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla
Paolo Becchi, formiche.net, 5 gennaio .
M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di
Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio . 9 gennaio . Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale,
in "ParadoXa", anno XI, n. 2, aprile-giugno , 157-169.
Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale dell’orfano”. Bellasio lascia
lo studio. La redazione della tv si scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, 7
giugno . 9 gennaio . Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Paolo
Becchi Blog ufficiale, su
paolobecchi.wordpress.com. Opere di Paolo Becchi, . Registrazioni di Paolo Becchi, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Filosofia
Politica Politica Filosofo del XXI
secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani 1955 16 giugno
GenovaProfessori dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova.
Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia politica,
dignita, soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza,
repubblica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788977104/in/dateposted-public/
Grice
e Bedeschi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alphonsine). Grice: “You gotta love Bedeschi – at Oxford
Jurisprudence is not considered Philosophy, but in Italy, ‘filosofia politica’
is at the centre of it all – and Bedeschi knows it – this is because Italians
take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and while I did speak profusely of
the Athenian versus the Oxonian dialectic or dialexis, I skipped the Hegelian
dialectic! Bedeschi doesn’t – and Hegel leads to the reset of it!” -- Giuseppe Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente
di storia della filosofia all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato
all'Cagliari e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studioso di
Hegel e del marxismo, ha approfondito in seguito la storia del pensiero
liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del Novecento, direttore
dell'Enciclopedia delle scienze sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è
membro del comitato scientifico della rivista "Nuova storia
contemporanea" e collabora al supplemento domenicale de Il Sole 24
ORE. Altre opere: “Alienazione e
feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs” (Bari,
Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a
Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte
(Roma-Bari, Laterza); “Storia del
pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel”
(Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari,
Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del
Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le
lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau”
(Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una
democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino, Opere di Giuseppe Bedeschi, . Giuseppe
Bedeschi, su Goodreads. Registrazioni di
Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale. Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16
marzo 21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi
sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi
italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe
Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia, liberalismo,
conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I
conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica
del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references ‘Sulla
parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio della
ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.:
Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789277095/in/dateposted-public/
Belleo.
search – Bedoni. search – Belloni, Camillo
--
Grice
e Belluto – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice: “You gotta love Belluto; he
shows that the philosopher is the master of grammar – his explanation of modi
of the different ‘perfect’ orations—is genial and exactly what I tried to
convey in my lectures on ‘mode’: vocativo, imperativo, optativo, indicativo –
That this belongs in dialettica is obvious – since all modi share the same
logic, and that’s Belluto’s point!” -- Bonaventura
Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo.
Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò diritto civile
all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali nel 1621, emise
la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò teologia presso il Collegio
sistino di San Bonaventura dove conobbe il confratello Bartolomeo Mastri di
Meldola del quale divenne compagno indivisibile di studio e di lavoro come
reggente degli studi prima al convento di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova.
Durante questo periodo, entrambi operarono per il rinnovamento della tradizione
e per una nuova interpretazione della dottrina scotista tale da soddisfare la
nuova cultura religiosa dell'epoca.
Pubblica a Roma con la collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo
volume di filosofia scolastica, dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros
physicorum, quibus ab adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il
fine di essere diffuso nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia
di Scoto difendendola dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da
altri interpreti tra i quali i gesuiti.
Successivamente pubblica un piccolo trattato di logica, “Institutiones
logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt” (Venezia) . Ad
opera dei due filosofi fu pubblicato un “Cursus integer philosophiae ad mentem
Scoti” che riune le “Disputationes”, le “Disputationes
in libros de coelo et de metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione
et corruptione” e le “Disputationes in libros de anima”. Il “Cursus” e
un'opera, con fini esclusivamente didattici e divulgativi del pensiero
scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura filosofica e scientifica
contemporanea. Alla fine della comune reggenza a Padova i due filosofi si
separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro provinciale di Sicilia e
di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza di governo. In questo
periodo esercita anche la carica di consultore e censore per l'Inquisizione. Nell'ambito
del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto oltre all'insegnamento della
sua filosofia i due filosofi progettarono un corso di teologia che Mastri
sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto continua l'elaborazione
dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata solo la parte riguardante
le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem Doctoris subtilis”. Tema
specifico e quello della predestinazione di Maria: argomento questo che non apparteneva
alla dottrina di Scoto ma che cerca di risolvere applicando i principi del maestro
nel senso che applicò alla predestinazione della Vergine Maria la dottrina
scotista della predestinazione assoluta di Cristo. Note F.
Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676). Il religioso, lo scotista, lo
scrittore, Roma 1976 La Sicilia e
l'Immacolata: non solo 150 anni : atti del convegno di studio, Palermo, Diego
Ciccarelli, Marisa Dora Valenza, Officina di Studi Medievali, 2006 p.172 Francesco Costa, Il primato assoluto di
Cristo secondo Bonaventura Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea
francescana", Cesare Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario
Biografico degli Italiani, Roberto Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura
Belluti . Duns Scoto Bartolomeo Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM
LOGICALIVM. Nomina transcendentia infinitari possint verbum adiectiuum &
substantiuum de Secundo adiacente sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam
syllogiſmi, De oratione, quid sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare
verbo, quid sit propositio, seu Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum
affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis definitio.quotuplex sit terminus.
Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel communi. falſa . Quæ dctiones
fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit generi sin termini. Species. An
dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio cathegorica b quotuplex. propositione
mentali, Determinorum multiplicitate ratione fignifi Dub. 1 , Qualis sit diuisio
propusitionis in veram, falsam , affirmativam, negativam, quid sit signum [segno],
a quotuplex uniuersalem o particularem
qui sint termini mixti inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in
modalem cum syncathegorematicum de inesse qui sit terminus complexus o
incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio modalis , & quotuplex , Cap: 3.
Determinorum multiplicitate in ratione modi qualis sit divisio propositionis
modalis significandi in compositam o
diuitam. Quid fit terminus connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica , oquotuplex,
D emultiplicitate terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas . Dubi. An
bypotbetica propositio benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus.
Divisio bypothetice in conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis.
copulativam & disiunctiuam sit generis
in species De prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in
Predicamento, De oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum
collatione inter se, An inter contradictoria detur medium , Varia terminorum
supposition quod sint species
oppositionis, An suppositio competat adiectivis de æquipollentia, o conversione
categorical. Quo pacto differente suppositio determinata , rum simplicium &
confusa, Quomodo equipolleant ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus,
propositio affirmativa depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat
negative de predicato finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra
quentiffimi, De oppositione, æquipollentia , &conuersione catbegoricarum ,
modalium, ac etiam hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de
Propositione & eius affectionibus, bus, propositiones exponibiless int
catheg vel by Comez de nomine o verba, pot. & quomodo contradicant solum
nomen finitum rectum sit propositiones insolubiles sint catheg, vel by nomen
apud Logicum , pot.cies de Argumentatione, & eius affectionibus de attinentibus
ad materiain syllogiſmi. oquotuplex fit Argumentatio formalis. De syllogismo
Demonstrativo. De speciebus argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og
mun ald. precognitionibus eo perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia
sit argumentatio de regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur
. nis. De fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex
fuppofitioneimpos Dub.V n .An dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate
principiorum, ubi de modis de inductione, ubi de ascensu, descensu, per
feitatis Que predicentur in primo modo dicendi per Dei. inductio fit bona,
formalis consequentia , vel argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo
modo De syllogifmo, & eius principis constitutiuis, dicendi per se . n.is obi
de figuris eiusdem quo patto quartus modus dicendiper se disse unde dicantur
maior, o minor in syllogism rat a secundo. Propositio per se convertatur in
propositio, conclusio sit de essentia syllogismi nem per fe . detur quarta
figura De demonstratione propter quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa
virtualis pofit in seruire demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum
regulationi siuum syllogismi quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales,
especiales cuiuscunque si quodque tale & illud magis. gure alignantur. De
demonstratione quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio demonstrationis
.corum exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere
numerati. figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de
syllogiſmo topico, de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis
speciebus syllogiſmi cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi
topici. detur syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero
predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi,
de locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions
syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus
demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan
de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An
detur diftin & tiomedia interdiftin & tionem reslem,orationis, de
Fallaciis extra dictionem. Impiegatura del segnare. Ex
variis capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones
assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex
parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in
primis dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille
est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam,
ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri",
"buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita
intelligi debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in
secunda acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum
et prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine
sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene
percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per
significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum
[segnante, segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum
est. [A cloud may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot
order a cloud, 'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex
August. De Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem,
quam ingerit sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc
vox "homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est,
facit nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum
[segnante] debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde
veniamus in cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will
do]. Hinc significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum
*re-præsentare* potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad
potentiam cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata,
segnata], quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud,
quod absque sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat
& in eius cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa
respectu proprii objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione
facit nos in alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium
respectu feræ transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14,
hoc secundum signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem
*signati* [segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat
præcise rationem cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non
quod cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et
quod proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio
etiam formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod
facit nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio,
quamvis sit ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus
passim recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque
impugnat quo ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante]
esse id, quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit,
quia non complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae
deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus
materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos
venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia
obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum.
Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis
revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio
est signum rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in
cognitionem venire. Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D.
Augustini, quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non
debet, quod saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti
praeceptoris audeat impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes
partes, si bene intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius,
ut alterius rei signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei
cognitionem, altera est, quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita,
quarum conditionum utramque *optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi
ab Augustino tradita. Nam per primam partem definitionis secundum exprimit
conditionem. Vulc enim rem, quæ inservire debet pro alterius signo, prius
nostris sensibus cognitionem sui ingerere debere, specificat autem signum esse
debere *sensibile*, quia ut notat doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa sensibilia*
sunt *maxime apta pro statu ipso excitare intellectum coniunctum a sensuum
ministerio dependentem, ut in alterius rei cognitionem veniat. Per alteram vero
partem definitionis altera quoque conditio exprimirur, contra quam nil urgent
instantiæ a Poncio adducta, quia obiectum facit venire in cognitionem sui, non
alterius, nec facit venire in cognitionem sui, quatenus cognitum, ut facit
signum, sed quarenus cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo ad instar signi
ducit nos in rerum cognitionem, quatenus cognitus, sed eas revelando, quod
adhuc facere posset, etiamsi prius a nobis non cognosceretur. Cognitio denique
esse signum rei cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non autem
instrumentale, quod solum *proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur &
ideo cognitio proprie loquendo non dicitur facere nos venire in cognitionem
rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in cognitionem illius rei, quatenus
cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum autem signum
instrumentale est illud, quod hic definitur. Et hoc signum instrumentale adhuc
*duplex* [like vyse and vice?] est, aliud *naturale*, et est quod *ex natura*
sua independenter ab hominum voluntate [those spots mean measles] aliquid
[measles] re-praesentat, ut fumus ignem [where there is smoke, there's fire],
et universaliter omnis *effectus* [causa/effectus] suam causum, qui præsertim
si *sensibilis* [fumus] erit, dicetur signum causae juxta sensum definitionis
allatæ. An vero ita e contra *causa* dici posse signum sui *effectus*, negat
Hurtad. disput. 1. sect. 4. quia etsi causa cognitio ducat in cognitionem
*effectus*, tamen, non es ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane non
minus ordinata est cognitio *causæ* ad nos ducendum in cognitionem *effectus* a
priori, quam cognitio *effectus* sic *ordinata* ad notitiam *cautiam* a
posteriori, quare ratio Hurtad. parum valet. At inquirare alii, quod licet ita
res se habeat, sola tamen cognitio, quae per *effectum* habetur, dicitur haberi
per signum, unde sola demonstratio a posteriori, quae est *per effectum*,
dicitur *a signo* et ideo solum *effectus* dici potest signum *causæ*, non e
contra. Verum neque hoc viget, licet enim cognitio habita *per effectum* veluti
sensibiliorem *causa*, magis proprie dicatur *a signo*, nil tamen impedit, quin
et cognitio habita *per causam* possit dici *a signo* absolute loquendo. Potest
igitur etiam *causa* dici signum sui *effectus*, et praesertim quando
*sensibilis* est, unde a theologis sacramenta dicuntur *signa* *gratia*, cuius
sunt *causa*, ita clare colligitur ex Doctore 4. d. 1. quaest. 2. De secundo
principali et sequitur Casil. cit. & Arriaga disputat. 3. sect. 2. Aliud
vero est *signum artificiale* [not conventional! ars/natura], seu *ad placitum*
et est: quod ex hominum impositione aliud re-præsentat, sic ramus est signum
venditionis vini, sonus campanae est signum lectionis [the bell means the bus
is full], et vox illius rei, ad quam *signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen
est advertendum etiam in vocibus ipsis non tamtum significationem ad placitum
reperiri posse, sed etiam naturalem, ut patet de gemitu infirmorum et latratu
canum et ideo terminus vocalis *signi-ficativus subdividi solet in
*significatiuum naturaliter et ad placitum et hic ad dialecticum spectat non
quidem secundum suam realem entitatem, ut vox est, et sonus quidam in aere
*causatus*, sed secundum quod impositus est ad res ipsas *signi-ficandas* et
conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces pertinere dicuntur ad
institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi etiam declarabimus,
per quid constituatur ratio signi.
Special section on ‘sign’ – two sections. General definition of sign, following
Augustine, but with objections by Ponzio. Second section, the criterion between
artificial (‘a piacere’) and mere natural signs. Segno – segnare – segnante,
segnatum. Bonaventura Belluti. Bonaventura Belluto. Keywords: dialettica,
“Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt”,
section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell means that Strawson
should go to the tutorial. The branch of grapes means that Grice is selling
wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’ is better, ‘ad
placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in terms of cause and
effect. The problem of God, should sign be always ‘material’?—Etimologia di
‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691524503/in/photolist-2mKNzk6-2mKLX4i/
Grice
e Bencivenga – il piacere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo. Grice: You’ve got to love
Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has
philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco –
which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took
philosophese too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all
meant in fun – as a joke –“. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di
Milano, Bencivenga ha lasciato presto l'Italia, trasferendosi prima in Canada
per gli studi di dottorato e poi negli Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua
carriera accademica insegnando, dal 1979, all'Università della California a
Irvine. I suoi interessi di studio, nel
corso del tempo, hanno riguardato la logica formale (negli anni settanta), la
storia della filosofia (negli anni ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha
pubblicato numerosi testi sulla storia della filosofia e su specifici argomenti
filosofici, come logica, estetica, filosofia del linguaggio, in forma
dialogica, saggistica, trattatistica – “Teoria del linguaggio e della mente”
(Bollati Boringheri --, con scrittura aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) --
o affrontando singole figure storiche (come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre
diversi testi introduttivi alla filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico
più vasto, e alcuni libri di poesie. “La filosofia in trentadue favole”
(Arnoldo Montadori) è un saggio ripubblicato
negli Oscar Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini,
il saggio si pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere
umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande
della filosofia. Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a
quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per
forza: critica della società del divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato
all'importanza del gioco e all'esame critico del sovvertimento di senso di cui
esso è stato fatto oggetto nella società contemporanea: trasformato in
industria, il divertimento ha perduto la sua naturale collocazione, quale
manifestazione della sfera fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto
in una dimensione 'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come
attività passiva e ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici
coattivi che snaturano completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan
Huizinga: il gioco del lotto e l'intrattenersi con videogame o slot machine
diventano forme di subire passivo, una dimensione alla quale è precluso il
manifestarsi dell'agire ludico dell'uomo attraverso l'attività fantastica della
psiche umana. In un mondo in cui domina
la dimensione organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva
impoverita dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del
gioco, una prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse
parole, «se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità». Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la
razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica
in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene. L'Etica consiste nel negare la preminenza al
nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le
altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione
comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella
negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla
riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il
contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge
ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della
dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che
ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e
ruoli della nostra vita e della nostra professione. L'Etica è come un "fuoco
immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il
percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco",
un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli
orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti. Si pone poi il problema di come considerare
l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio
alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in
forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non
immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla
«banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete kantiana
del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è
invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla
rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni
dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono
apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore,
l'Unità, ecc. Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati
Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il
primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla
pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo
Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia
in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in
sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un
dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della
follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone
amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro,
Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana
di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo
Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale
Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano.
Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo
Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa”
(Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta”
(Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La
dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo
Mondadori Editore); “La filosofia come
strumento di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo
Mondadori); “La logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere.
Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica”
(Editori Riuniti); “Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il
Saggiatore Prendiamola con filosofia.
Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti La scomparsa del pensiero. Perché non
possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo
anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie
di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela
nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno”
(Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del
padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo,
tragedia in tre atti. Aragno Case.
Cairo Il giorno in cui non tornarono i
conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro,
tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio . Poesia
Panni sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e
pioggia. Aragno Poesia dei miei
coglioni. Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice Amore per Milla. Di Felice. Interventi di
Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno
in . da SWIFTSito web italiano per la filosofia premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com.
Blog ufficiale, su sites.uci.edu. Opere
di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno
Bencivenga, . Profilo dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI
Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova. Da
un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto
tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il
linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la
politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un
libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo
sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano
l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con
cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di
questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia
età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un
argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di
un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale. Questo dunque
è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo
episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato
problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia
insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che
pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di
conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di
mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia:
doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto
alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo
coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me
dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata
che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato
l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è
un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora
infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio
Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo
Zorzato per i loro commenti a una versione precedente del libro. Un
ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di
giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza,
il rigore e la sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola,
le citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri
delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella
Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano
autore o titolo è perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna
immediatamente la citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di
quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta
dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è
perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione
è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua
iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del
contesto. 1. Il gioco Una bambina di due anni entra in una stanza per lei
nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li
prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li
assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per
aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci
infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con
forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia
in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in
forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una
pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un
altoparlante. Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe
rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore
di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono
sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il
centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per
le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine
un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un
fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un
cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a
dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo
strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così
invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui
piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il
pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di
perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un
minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi
un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di
occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo
dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è
in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non
contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà
sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore
il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro,
cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che
dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è
compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e
che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar);
hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e
per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci
può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una
penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un
passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio
trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a
priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra
conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso
rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui
concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente
determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come
sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il
loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che
quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che
il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri
dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la
proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa
proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello
spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato
(del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21).
Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici
della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è
un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della
letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di
espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle
peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si
fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno
senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la
struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta
divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della
sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere
che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero
qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio
laser verso problemi per cui le folle non provano (ahimè) alcun
interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo
citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto
ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza
sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta
propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini
convenuti per l’anno santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo
conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed
è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono
accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?,
il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in
comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più
prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con
la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non
è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto
un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle
prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga
su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione.
Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé
stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno.
Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola,
astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far
scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e
appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in
un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della
sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica
anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione
che ci dia l’essenza del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È
invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi
siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende
irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e
ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie
malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci
aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere
interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo
acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi,
avendo visto maturare anziché spegnersi le nostre opinioni e i nostri
sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto
sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di
una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro
molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni
costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua
azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti
ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un
tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro
mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello
dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano
d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia
filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel
labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due
anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe
nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel
gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del
calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè
tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora
porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del
punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido
con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso
nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si
realizza attraverso questi um ili, intimi passi. 2. Il punto di
partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel
che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo
comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli
oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in
proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto
che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per
esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come
di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina
della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo
spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti
dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne
dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per
realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che
porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua
educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga
«solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata
(presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e
realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita
dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di
questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama.
Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà
pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo
indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà
costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le
carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti
gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo
commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere
caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto
importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato
l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola, quando
ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti d’informazione. Ora
invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e ritrarlo; impara quali
resistenze è in grado di superare e a quali altre deve cedere; impara a
valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi per la stanza;
impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra le mani e
guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni emotive alle sue
vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e modularla: a
trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande ricchezza e
flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è
un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno
imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza –
un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra
un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui
accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema
di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior
parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe
impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che
tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di
ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci
viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di
tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è
inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni
bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora
non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E
impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo
sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle
gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con
cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà
d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno
strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui
l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia
terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del
gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto,
qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti)
come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io
vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si
porge attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza
all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i
miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se
avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia
troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi
(parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima
del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che
tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla
di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne
segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una
supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va
costantemente sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i
suoi esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che
ci viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da
parte nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il
paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento
può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale
dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti,
l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che
risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal
sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che
pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo
attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che
eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si
comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo
paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa
misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella
storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza
della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato
sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto
grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in
analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento
ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in
largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti
all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a
vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto
che esplora è il suo ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di
uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto
indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è
altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle
istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio
ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti
di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo
invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come
risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al
primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha
imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel
che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava
intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse
andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada
battuta. Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di
«piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi
lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che
ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su
questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha
fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo
piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per
la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è
mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia,
se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro
d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che
esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più
capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non
provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni
sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon
conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena
ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per
tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini
di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta
concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene
interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le
proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non
c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa,
perseguita in completa autonomia (in accordo con una delle possibili
definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non
intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo
esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del
gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo
che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle
prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia
apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività
ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico:
Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del
lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il
gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita
aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle
difficoltà. È assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più
lontano possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare
continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli
possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro,
però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o
prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano
certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero,
intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è
mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p.
195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in
queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre
in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che
cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta
partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando
le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si
mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà
anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più
immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse
accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con
il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema
quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile»
(p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la
massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica,
spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il
giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso
che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai
più decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su come
il mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché
rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi
così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in
causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione
analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza,
sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente»
socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi
nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel
fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a
prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto
sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così
(implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di
tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più
seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto
che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa
difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva
del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non
solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione
educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro
modo, di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente
tutte le possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il
piacere che dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga
condotta con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che
occorre discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso;
violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i
grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a
giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente
siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a
disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e
aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di
mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per
contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e
aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di
guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato –
a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e
aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente
e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé
stesso, e questo comportamento avventato implica inequivocabilmente dei
rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto
pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I
giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere
discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un
tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88;
traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro
cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa.
Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato,
urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione
generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole
attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica
o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi
meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e
a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente,
fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è
preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a
repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per
le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa
spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?
3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal
nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e
abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos
originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo,
cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non
crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i
Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano
davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato
un modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini.
Solo recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico
su quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole
antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio,
perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le
leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il
comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle
istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere
sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere
in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico
o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando,
esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un
grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in
altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la
biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle
ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le
leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate;
nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e
avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla
quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace –
dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette.
Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo per quel che la
scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida
struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio
Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più
possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero
crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza
definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a
espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia
piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano
di trasformarsi in puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati
solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il
significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di
suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in
origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva,
rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane
qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza
più pura è andata dissolta (p. 135). Col progresso dell’umanità, il numero
delle dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà
costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi
misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la condizione
di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così importante
all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello offerto dalla
necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari – [...] rappresenta un
inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene a mancare,
confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano sforzarsi per
trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà della
questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo stesso
modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario agguerrito,
impegnato a convertirlo (p. 147). Con tutto il rispetto per Mill, però, siamo
daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente
accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione
che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece
riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai
margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e
quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una
modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto
capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia
pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo
opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di
meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in
discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma
anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso
viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non
dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non
ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate
come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono
altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica
delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante
di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo,
nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra
loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione
non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze
catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso
effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può
causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in
un altro punto. Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non
cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è
descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto
oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il
futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il
mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura
approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di
controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo
la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci
fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di
dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza
approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli
effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro.
L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole:
informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri
strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso
rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare
drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero
approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un
caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne
descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della
nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale,
non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa
fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –
senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione
sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri
significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi
valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare
allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità;
nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro
somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano
accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però,
estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale,
perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile
procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni
finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a
sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione.
Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità
(intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il
rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale
la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può
improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver
seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi»,
conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è
meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro
gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la
teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una
lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere
con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di
carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di
metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia
troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e
questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come
conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il
mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria
struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un
numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro
incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e
che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un
particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a
quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente
fino a che punto siamo in grado di conoscerle), finché non si sia deciso
in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla
lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato;
è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una
qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri
occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno
di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà
oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a
spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare
che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non
ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano,
leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media
grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver
a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un
linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la
frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di
Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non
avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in
un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di
spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in
direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra
accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e
di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili
di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci
sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e
princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure
potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello
degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un
giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che
appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà
pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare
e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano
potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma
molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra
l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità,
vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta
che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di
vista autosufficiente che costituisce la sua realtà, e non c’è una realtà
neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un
particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito
descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche
chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse
formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di
un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una
scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di
poter emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue
con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il
cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno
strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un
compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con
rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati;
qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito
da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della
situazione e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle
condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici
dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per
loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il
compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con
prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che sono stati gli
esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non viceversa. Che
cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un
problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel quadro; ma non
possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da applicare prima che
il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse
già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di istruzioni (come è stato
finora quello disponibile a un computer) non può avere successo. Posto di
fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che, in contrasto con
le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente
ma solo essere stimolato e perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il
quesito però rimane: esercizio di quale pratica? esempio di quale
comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al tema principale
della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un
computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato
dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel
vuoto. L’esercizio che è opportuno per acquisire questa capacità deve
dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più svariati e
adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione)
il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a
interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o
regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel prossimo
capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con altre
persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un
nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole
trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco,
rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno)
dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa.
Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta
addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di
inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo
davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il
coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’
preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per
forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci
aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti
privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi rischi.
L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono alternative
plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal fatto che
ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi sbagliata, è
comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono state
elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima o poi
contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un
atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre
possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso –
perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra
nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare è
indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se
vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di
eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del
necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo
«sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario
si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non
conta, che al momento è solo possibile. 4. Regole Avendo così
tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che
gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto
trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti.
La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine
con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli
nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno
una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e
certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che
neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso
varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci sarebbero
sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e
l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto,
e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia
descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte
di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o
divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto
è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per
conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una
persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta
come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare direzione,
a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già realizzato
o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare. Ha insomma
tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo: «Ogni
gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più
gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza
della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di una specie
biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del superfluo, del
gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a
questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere per libertà e
risponderò che di solito non s’intende un’infinita capacità di arrivare
dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di operare una
scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà che noi
conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni
relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello che mi
è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di
movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho
mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di
riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi
vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi
comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora
maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che
si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere
catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine
semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese,
all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al
giapponese», p. 66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso.
Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero
che (per esempio) una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a
perfezione, quando «balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le
pareti, il pavimento e i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un
certo gioco, un certo (limitato) spazio di discrezione, che lei occupa
ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il
ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella nostra vita, il fondamento
ultimo di ogni suo contributo alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere.
Quella che ho appena enunciato è una tesi controversa e audace, una sfida
a inoltrarsi per un ispido percorso nel labirinto e una promessa che per tale
via procederemo più spediti verso il traguardo. Devo dunque giustificare la
tesi, convincere i miei compagni di avventura ad accettare la sfida. Per farlo,
torniamo al valore adattativo del gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge
da polizza di assicurazione: esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi
quando le equazioni non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire;
risponde al caos esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di
anticipare le prossime sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro
volta imprevedibili e destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare
costantemente da una prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un
singolo modo di percepire la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli
angoli più diversi, perché questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine
e ci aiuti a scegliere in ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare
i nostri problemi e le nostre esigenze. Entrambe le funzioni implicano una
medesima conseguenza: il gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa
con cui si gioca, quindi qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al
gioco. I comportamenti alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali
facessero cilecca devono trovar posto in un qualche ambiente specifico: per
folle che sia diventato il mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora
intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di indulgere in nessun
comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni prospettiche: una prospettiva è
sempre di, o su, qualcosa; una cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque
potrà (e dovrà) essere sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la libertà
che in esso si esprime ci porterà a varcare la soglia di quanto finora era
stato considerato lecito o vantaggioso ma non ad annullare la legittimità di
ogni soglia e di ogni limite e ad azzerare ogni possibile struttura in
un’esplosione universale e universalmente catartica. Al di là della soglia che
varchiamo ne troveremo un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a
pezzi una struttura ne appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione
concretezza e sostanza. La sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non
del nulla. A rendere difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di
vita è soprattutto il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e
istanze contrastanti, il cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando
facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa
considerazione cade a proposito con il termine che stiamo esaminando, nella
fase in cui siamo dell’esame: che il gioco trasgredisca le aspettative è vero
ma non va portato all’estremo, dando luogo a una retorica della trasgressione
in quanto tale, aprendo la strada a una trasgressione così generalizzata e
globale che alla fine non le rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di
che cosa sto parlando: di quegli intellettuali (o artisti, o politici
rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente
ironia nel personaggio interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre»,
sempre terrorizzato dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e
infine schiacciato nella più banale e televisiva delle ossessioni. Non è strano
che questa retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non
biecamente reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far
saltare in aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che avremo creato
(e sotto la protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno
avanti per inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento
essenziale della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico
momento perché una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se
nessuna nuova costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e
con la coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto
danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva. L’umile gioco della vite ci
offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare
il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo;
ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte
(vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un
altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne
con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi
quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli
occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà, che
possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come quello
della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei
impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco
bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci
sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo
come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da
scoprire, non come essenza di un gioco già in atto. Chi risulterà convinto da
queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho
intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso
paradigmatico, un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare
prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario
conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri
esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con
una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente
trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura che il gioco mette in
discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si badi che questa è una
metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della figura quando «figura»
sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo
modo) con la spillatrice, il normale uso di tale strumento fa parte della
figura che viene contestata, ma la sua forma e solidità fanno parte dello
sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente, fanno parte del foro
filettato nel quale balla la vite. A riprova della pazienza che ho
definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato acquisito ha già
bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro possibili
malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della
spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi
appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba
indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con
molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I
bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto
il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci,
urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello
che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano
a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro
piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il
cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a
scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo
riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato,
afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una
disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata.
Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come
risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello
sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade,
nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire
un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare
ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere
interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e
rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla
mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che
ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è
mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in
quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in
mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero
farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il
bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò
non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il
gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata
e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci,
comparire o sparire, senza che il gioco cambi, perché esso consiste
proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce
il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie
compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli
starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata
soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa
interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco»,
dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata
un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di
autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui
il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino
una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i
suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole
di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si
potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga
è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86).
Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in
ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare
più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini
inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma
invece non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o
se preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio
giustapporre, nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio;
si tratta chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi
non c’è motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in
inglese, sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice
distinzione faccia supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un
game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene
con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che
riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della
strategia intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi
altrettanto importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è
analitica perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che
adotterò invece una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due
logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei confronti della
contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la contraddizione è il
più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il
rimedio universale è appunto il divide et impera: il significato che sembrava
contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati distinti, che
sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due distinte parole –
se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera
contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione di una
personalità e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma nessuno):
è che la stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare
parole diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica dialettica,
invece, si nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale,
ogni struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il
suo desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame
affettivo dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come
membro della sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una
nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo
lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase
del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto emotivamente
legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo e
specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro
percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel
che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei
rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere
considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della
parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma
ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna
contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente
innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il
gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di
«giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne
farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte,
affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o
regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta
[...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di
vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le
suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e
irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi
consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione
in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della
situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la
parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti
due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua evoluzione da una fase
all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che
incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre
osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe peregrino
parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come della sua
assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che nessuno ha
formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal successivo
punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite da
istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i
praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di
adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole
precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita
di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza.
Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito
quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura,
si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un
critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile
raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica
dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare
le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti
(essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente
distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto.
Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del
bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò
ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere
e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili
rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella
sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza
l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30).
Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte)
quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita
il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia
della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs
avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in
inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora
come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del
nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che
la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua volta
trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne
definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle
regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è
trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e
articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la
sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi conoscerà
bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del passato, ma
sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere fedelmente le une
e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che sa, è in grado di
sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un misterioso
sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere un
avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze
stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più
intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di
trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle
regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che
abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a
scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale
che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo
umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a
riconoscere e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i
suoi simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati
effettuati, qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello
scervellarsi su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona
idea esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è
concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo
diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo
invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con
circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso
continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a
meno? 5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente
proficue si cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a
ripetere è certo possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In
Giocare per forza, dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie
sembianze posticce in cui si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro
del gioco, un parassita che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia,
la scoperta e il piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la
perversa possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse
andare alla deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso,
però, questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto,
soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di
calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito
negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli
ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse
«fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la
questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando
con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare
completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per
atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di
istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non
vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a
respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non
ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in
spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e
impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti
spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà
arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.)
L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo
costante: in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito
mentale, con il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando
una discesa da centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre
circostanze in cui ci sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e
nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo in considerazione il
carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo
capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere il delicato
equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto
da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove
strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia preziosa se
nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve questa
indispensabile funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare
impreparati alla prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e
l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare
piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero
capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una
volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di compiere qualche
avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le avventate
manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica catastrofe,
forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza di salvezza.
In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del Principe di
Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe,
dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può
farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica?
Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere
condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra
saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e
disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni
del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto
più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi
non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne
serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando
nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come
sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più
realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero
spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi
tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con
simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità
fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà con orrore da
manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di
Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo
trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci
riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle
abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo
estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri.
Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano
a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che
quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto
insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in
parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del
calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il
corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore
riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa anticipare
dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di una
meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»;
voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento
semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara
o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un
allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi
fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di
una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante
volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella
situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può
ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la
grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come
allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno
che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che
ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha
una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua
adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora,
e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi
sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i
veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale
rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il
doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si
annidano in un universo caotico e coltivare al tempo stesso, senza farsi
troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà
il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della
relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa
cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è vittima
della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da
qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi
rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi
rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi
a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra,
o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione
della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata
combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da
questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo
il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne
marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo
senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la
consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande
importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora
in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un
manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un
cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in
Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine
non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto
operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa
contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si
svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni
reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro
percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una
copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si
muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la
partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo
parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo
piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e
proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti
distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito
dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo alcuni movimenti e
atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal
mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la
mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno
si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si
tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la repressione
freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate resistenze, e
nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è inghiottito dal
gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima osservazione ci
costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente. (In un
labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si deve
talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo
concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo
sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la
topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole
noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o cattivi
giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la distinzione tra
figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta decisa, mai più
contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena esilarante di
Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro della sua banda,
un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare con facilità.
Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di lottare,
devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito; in
quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso ventre
e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i due pugni
congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima ancora di
stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così tornati per
altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che sembravamo aver
capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma ora in un oscuro
dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso punto e di non
riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo concluso: non
obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una sovrapposizione di sistemi
di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno dei quali si potranno anche
fare previsioni senza però poter prevedere, di volta in volta, in che sistema
sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo ma ci sono questi sistemi
molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci spostiamo da un mondo all’altro.
Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso, potremmo dire che ciascun sistema
è un microcosmo, un particolare ambiente ludico; ma qui abbiamo anche
detto che ogni microcosmo corre sempre il rischio che i suoi confini non
tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco reale) che fa pressione su quei
confini li sfondi e a un tratto ci si possa far male davvero. Come la mettiamo,
allora? Esiste un mondo reale che fa pressione sui microcosmi, sui sistemi di
regole, sui giochi; oppure vale quel che si è detto nel terzo capitolo, che
esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un sistema di regole? Una risposta
semplice e lapidaria a questa domanda è: valgono entrambe le cose. Non c’è
nulla di semplice, tuttavia, nel significato della risposta. Per cominciare,
occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere una struttura definita, che
contenga oggetti specifici con specifiche proprietà e relazioni, allora non
esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo fonda (in accordo con le
spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche dire, però, che «così va
il mondo», cioè che esso non va come si pensava un tempo (e come ancora pensano
in molti): non è indipendente da una scelta; le cose non stanno in nessun modo
finché non si sia deciso come descriverle – e anche questo è, in senso lato, un
modo in cui stanno le cose. Da questa banale distinzione terminologica segue
una conclusione tutto men che banale: se «al mondo» non ci sono che microcosmi,
allora quel che fa «realmente» pressione su un microcosmo, «il mondo» che
minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi. Un gioco è sempre e soltanto
minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre possibile slittare dall’uno
agli altri). Giocare con le regole invece che alle regole di un particolare gioco
(come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi in una dimensione neutrale,
fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue regole possano essere
contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un altro gioco. Nel
percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche sconvolgimento
prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi sotto i nostri
occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio dello stesso tipo.
In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i suoi genitori no
(quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte tutte le prese e
chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare indisturbata); che gli
atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai che montavano le porte
no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e fare la guerra (davvero,
invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non solo non è più ovvia;
non è più nemmeno una differenza. O meglio, una differenza c’è ma non è quella
tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente fittizio e uno reale. Se per la
bimba non c’è niente di più serio del suo gioco, e se in generale i
giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è perché non c’è distinzione
sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività seria è un gioco preso sul
serio, un’attività definita da uno sfondo di regole in cui una o più persone
decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui confini una o più persone
decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol dire assumere un
atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di ammettere qualsiasi
distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente. Succede ai bambini
che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla roulette e agli altri
adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano anima e corpo al loro
lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è evidente, o almeno dovrebbe
esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla inforcando gli occhiali
normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel secondo capitolo: chi si
concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro ci si deve concentrare;
chi si concentra sulle avventure di una bambola dimostra il proprio carattere
infantile; chi si concentra sul poker è dipendente e malato. Mettiamo da parte
queste norme introdotte di straforo, senza valutazione e senza critica, e
rimaniamo su un piano descrittivo, là dove l’evidenza dell’analogia è
innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa chiarezza una nuova prospettiva
sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è che un gioco senza alternative
riconosciute, su cui non si avverte la pressione di altri giochi. Il lavoro è
la realtà di chi non vive le sue regole come una scelta; il poker è la realtà
del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il fatto che alcuni giochi
possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno disponibili alla
ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più propensi a esiti
dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le ambiguità
connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i danni
giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più
rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto:
è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada.
Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato
nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una
volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale,
nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza,
con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per
familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la
creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba
sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di
un’automobile, dove incontrerà altre resistenze che accetterà come regole
di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione,
che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni
gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il
carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto
che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il
nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un
cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere.
Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni
senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma
indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di
quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro
punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come
qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli
permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di
veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me,
d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso
conto allora che avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della
mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini
logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto
in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e
quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche
a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco”
stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè:
quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi,
analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli
insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno
esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi
logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza
stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere
riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione.
L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi logici
nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non
obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo,
viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le
comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi
paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe
allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole
rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p. 235).
Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è il senso di
giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che sembrano
servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del problema ha
finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne tracciava il
territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale e altri
oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché rimangono al
plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo di vista la
molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di esistere e
noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra difesa però
non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un consapevole,
versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di scambiarsi
le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una rimozione di
fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per questo all’altro
prima o poi si arrenderà. 6. Calma e gesso Nel gioco del biliardo, che un
mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di trovarsi davanti a
situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è coperta dal
pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o
eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o
eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di
sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e
meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante
elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che
decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario
tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e
considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata
e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e
opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo,
prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto,
un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le
conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche
minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono
opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo.
Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di
solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si
gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non
si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando
in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena
o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo
dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non
«sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività ludica,
se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che un’attività sia un
gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che possiamo fare? Non
abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto stesso di cui
volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo dedicato tanti sforzi? Ho
detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il gioco elabora le sue
figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla natura di questo sfondo,
che si gioca non solo alle regole ma anche con le regole. E ho detto che quello
che stiamo conducendo qui è un gioco, di carattere trasformativo (o
dialettico): che esso ci porta (per esempio) a vedere il gioco di una bimba
trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando a capire meglio che
gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il rapporto tra figura
e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come verbo; alla fine del
viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo lasciarla cadere e che la
trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente (e ricordiamo la norma
sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il gioco sia una figura un
po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle comuni, serie occupazioni
quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente ai margini della vita
ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa, alla vita di scioperati e
nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois a p. 14). E c’è da
chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico che abbiamo attuato
ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione umana in cui lo
sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte per il puro
gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese a uno scopo
esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero da
spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una conclusione
analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno
del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E la spiega,
anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato
di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune
tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo
l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della
passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54).
In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide
solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza
intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente,
l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione
scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima
scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio.
Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e
sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su un’altra
scimmia che con la medesima casualità scopra come far cadere un cespo di
banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un ruscello e
usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità, riassume
storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi poco
ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato
necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da
qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di
oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di
un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p.
37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come
nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività
in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla
variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto
efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua
concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente
relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende
possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe
dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie:
cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che
ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre
il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento
nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza
ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.) L’immagine che stiamo
disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei
colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto
caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto
fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata
categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia
organizzata in modo graduale: [Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli
antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio
comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata
pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato
che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa
esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque
disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma
non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di
piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti,
di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più
ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto
[...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget
parla di polarità: il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo
particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un
certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso
cui converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata
così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal
tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del
simbolo nel bambino, pp. 213-214). il gioco si riconosce da una modificazione,
variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può
sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un
equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al
reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per
il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che
l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi
l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve
considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e
solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o
meno differenziato (pp. 218-219). Io però intendo proporre qui un’operazione più
radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il non-gioco
in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra),
intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia
non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto
di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà
l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le
attività possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per
alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo
inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello
spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli
estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole)
siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto
capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la
frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto
regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle
strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà
nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui
quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e
sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali.
Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci
impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in
riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il
cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è
un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri
umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da
un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone
con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette,
semplicemente, alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in
generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la
pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e
sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un
parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che
all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di
prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le
unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello
che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni
attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno
potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci
sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e
trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso
di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo
posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa
quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i
corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare
uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire
«tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni
concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base
a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si
tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e
l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia
naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il
movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda
l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la
definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul
gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino
degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un
bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece
opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali
di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa
follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più
audace delle avventure s’incagli su un binario morto. 7. Illusioni Nel
quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le
«figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso
di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato,
inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce
associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e
come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare
che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel
senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi
metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è,
letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta
intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è
il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in
seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci.
Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di
natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre
pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno,
da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo
(«ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia
intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni,
quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo,
invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un
vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per esempio che abbiamo
imparato a «vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di carattere
intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva» che è un’interpretazione, non
una direzione nello spazio. Esistono però anche casi come il seguente (ne parla
fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans
Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la
paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora
una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato)
ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che
il pittore voleva mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci
– ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale
l’inverso). Le uova fritte sono diventate un teschio. Nell’universo infantile,
cambiamenti letterali di prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione)
sono tra le fonti più intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi,
voltafaccia, nel quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni
gigantesche, che normalmente costringono a guardarli dal basso in alto,
rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa
per fargli vedere dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del
cuoio capelluto, delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del
genere sono più rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze
catartiche (il carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche
(l’attore, il clown). Quel che conserva una frequenza più costante sono non
tanto occasioni quanto particolari oggetti multiformi, insieme artistici e
illusori, anzi artistici perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che
al tema dedicò il suo capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi
rivolgerò adesso, cominciando dal secondo. Abbiamo già incontrato il paradosso
della rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa
da sé stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura
un’illusione; in particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su
cui mi concentrerò qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel
linguaggio ordinario, «illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa
di falso, di ingannevole; è legato a giudizi di valore negativi, usato con
intento critico. Dobbiamo evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo
conoscere la realtà che le illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze
da tali giudizi e dalle norme che essi sottintendono: norme che favoriscono
stabilità e conformismo nella visione del mondo. Osservo invece che dentro
«illusione» c’è la radice del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo
stessimo a sentire quel che diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco.
Questo è il senso in cui voglio usare la parola, respingendo ogni ipotesi di
inganno o di frode e sostituendola con un richiamo positivo alla sfera ludica.
È in questo senso, per esempio, che nubi di una certa forma possono illuderci
che un destriero stia galoppando per il cielo: rimettendo in discussione il
fatto che quelle siano nubi, che il cielo abbia una sua determinata, fissa
configurazione, che certe cose (certi animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe
del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e illusione, è tratta da Antonio e
Cleopatra di Shakespeare, e recita: Talvolta noi vediamo una nuvola
prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di
turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri
promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci
illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo poi,
forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in
un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene
ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito –
metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci
catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non
lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo
infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione,
ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un
complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che
ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche
essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che
abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna, traspaiono
nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne (dall’esterno)
una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso e
l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o
nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale
scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra.
«Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con
beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli
esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non
è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto
naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò
quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di
una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto
che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che
cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno
ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando
acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici.
L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa
classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder
apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello
l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un
cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un
coniglio – è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un
coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che
noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato
precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un
oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati
una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime
manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte,
che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e
facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini
multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo
la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto
artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti
gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere,
cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale
rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una
tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i
gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona,
sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci
dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra,
in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal
pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in
uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le
trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale,
per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una
selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa
illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni,
ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene
all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e
l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal
confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione.
Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che
ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando
interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il
piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico
neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich, dipende esattamente dallo
sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo
piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché
un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi
porta attraverso gli abissi dell’infinito su una superficie piatta e fa
sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio
che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è
altro che una tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a
mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente
paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho
proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato
anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca anche
con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che
le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per
cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci
ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne
determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di
meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma
anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che
visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della
serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio
quella nostra visita a costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui ci
siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme
si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani
attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto
infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si
potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa
tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni. In primo
luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico,
scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività
ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in
prospettive e con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa
attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da
ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è
identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un
giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni,
corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde
al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati
di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre per
l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività
(ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore maestria,
non che si tratta di attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una
settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con la grazia di
Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle
inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per sé stessa
(l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le
ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore, totalmente immerso
nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a un più vasto
ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca, come osserva
Gombrich in A cavallo di un manico di scopa: gli scrittori di estetica ci
dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati di liberare
l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al centro di essa un
vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo luogo, l’arte è solitamente
concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e fruita da altre (il
pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde ricettive, passive.
Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una generale teoria
estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e il riso che ne
segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un tratto libere
energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti inaccettabili,
in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta, usando a tale
scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non ridendo affatto).
È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini dell’industria
artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti alle quali
beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e installazioni rifilate
da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche un modello, però, che
viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che esiste fra un pittore,
un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un
edificio o ascolta una sonata non saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o
comporre con la stessa abilità, ma può godere dell’esperienza solo in quanto è
coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese dell’artista: solo in quanto
l’artista (come l’animatore di un gioco di società) sa coinvolgerlo in quelle
attive scoperte e sorprese. Si può essere autentici spettatori di un’opera
d’arte solo nella misura in cui si è a propria volta artisti: solo in quanto si
è in grado di far riecheggiare in sé la stessa esplosione gestaltica che
l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di Gombrich e ancora una sua
citazione, questa volta da Filostrato, biografo del filosofo pitagorico
(contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana: «Ma questo non significa
forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha un duplice aspetto?
Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni,
l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente?». Anche la
mente dell’osservatore ha la sua parte nell’imitazione. Anche una pittura a
monocromo, o un rilievo in bronzo ci colpiscono come qualcosa di somigliante:
li vediamo come forma ed espressione. «Perfino se disegnassimo uno di questi
indiani con del gesso bianco, – conclude Apollonio, – apparirebbe nero perché
ci sarebbero sempre il suo naso schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e
la sua mascella sporgente [...] a rendere nera l’immagine per chi sa usare gli
occhi. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno
devono possedere la facoltà imitativa» (p. 173). In terzo luogo, chi propone
una «naturalizzazione» di un aspetto della nostra vita caratterizzato da
pesanti risvolti normativi è spesso accusato di farne evaporare ogni norma e
lasciarci privi di ogni criterio o giudizio di valore. Tale è il caso, per
esempio, dell’etica, disciplina normativa per eccellenza, quando la si riduca
alla teoria della scelta «razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e
rispettare certi patti, ma che cosa resta allora dell’intuizione che,
indipendentemente dalla convenienza, sia giusto accettarli e rispettarli? La
mia posizione complessiva non ha simili conseguenze; l’etica (normativa) ha in
essa un ruolo sostanziale, anche se diverso dalla ricognizione e dal
chiarimento concettuale che competono alla metafisica. In questo libro,
destinato alla ricognizione del territorio ludico e al chiarimento dei concetti
che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non voglio congedarmi
dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire l’arte un gioco
percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori interno per
oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge e chi
a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto
giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola.
Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità
ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e
complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di
briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non
stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte
sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi
sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come
per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto
ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto
artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro.
L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche
sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito
che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti più di una scrollata
di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose
ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso
della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi,
e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto)
in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche
avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno
all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto
candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto
artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci)
e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.
8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a
perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di
proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi.
Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la
briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi
semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti?
Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non
per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di
Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero
ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare
per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un
gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una
banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta
e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione
pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo
controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile
si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che
ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo
dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore
intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola.
Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore
trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed
eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti
potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra occupazioni
di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare, insostenibili.
Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il gioco e il suo
piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed elementare di certi
comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente. Basta
osservare che, se stiamo giocando e se il presunto oggetto del nostro
agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che questa
attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad altro, con
la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa succede
quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale? Che
persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con ricordi
di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono cresciute
e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche giorno,
con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni estatiche a
tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo dilungarmi in
dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati scritti in
proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire un’area neutra
nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e atteggiamenti che in altri
contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno
«corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel difficile compito di
trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di una concreta
familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si sovvertono e si
rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano i propri
rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale ostilità, sono
pur sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto dal disagio, e
tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda la tombola. La
delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti in quest’area
protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci,
senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile per il
prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo
dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono
per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi scorreggia più
forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del
genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare radicalmente la
nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per
capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e anche da
quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui
sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali
competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché
scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il
gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a
mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti
(e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che
ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non
sarebbe altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e
piacevole. Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho
chiuso il capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che
per molti autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia
trattazione, finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo
con la precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime
efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi
dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che
non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è
genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è
un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e
l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco
percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione
possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di
opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece
iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò
che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa
disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità
benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere
senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo
facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale,
quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne
rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione
e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali
lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i
musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca
sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e
dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco:
è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro.
All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore
universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi
personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste,
anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema
che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche
parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana
importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale
distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello
adulto: I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali
conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In
cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei
loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e
insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza
reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato,
rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di
perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di
rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero
oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino
all’animale che i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono
per l’adulto. Per il bambino, giocare è agire (p. 35). Buona parte dei giochi
comunemente detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che
ho esposto. Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in
volta offerte dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il
discorso nel prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive
del gioco, sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un
cubo o di una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e
creatività né più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere
totalmente esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si
può manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai
migliorare, mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli
al modo in cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella
maggior parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare
per forza e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento
truffaldino delle sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico
scopo è l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione
prometeica, nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno
semplicemente torto, questi autori? Sarebbe un errore affermarlo, e
l’osservazione fatta sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho
detto nel sesto capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se
mantenuto a livelli moderati, ha l’unico effetto (e senso) di causare una
periodica emorragia pecuniaria e magari saldare alcuni debiti psicologici che
una persona ha con sé stessa (o con altri). Può anche essere praticato, però, a
livelli eccessivi, e allora il suo senso cambia. Allora, su basi del tutto
inconsistenti ma con esiti non per questo meno fatali, una persona può trovarsi
alle prese con un gioco che non accetta di farsi rinchiudere entro limiti
precisi, il cui ambito invade tutti i microcosmi limitrofi e attenta a quella
che è considerata la sua vita vera – la sua sopravvivenza e il suo
benessere. Depurato di ogni altro aspetto, qui il gioco compare nella
pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze ordinate e ripetitive,
consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia vissuto come il richiamo a
una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con sé stessi. Chi sperpera le
proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o della roulette, o sulle
combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando – o meglio, direi,
formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma tutto ciò non riguarda
il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro ludico di valore
abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così come non si può
considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore sta mettendosi
alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e anche familiare
e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva già deciso, già
stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome questo mettersi alla
prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un simile azzardo è
comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare il fascino, non
siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa di un gioco. Ho
detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non costruisce nulla e
che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi nella notte può essere
il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo svolgimento. Il puro
azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale su un precipizio che
minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce che potremmo essere
altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi giù per il precipizio
e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul crinale, nonostante l’intenso
brivido che entrambe le esperienze ci darebbero. Sarebbe gioco, invece,
familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e realizzarvi un inaspettato
insediamento, o percorrere con destrezza crescente il crinale fino alla
prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio, insomma, o
lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti educativi e
costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso ludico e
della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere con
l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con
moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al
lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici,
numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un
linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità
«ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e
soprattutto «autorità competenti» sentite come estranee e predatrici. Un
ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di
esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e
l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois
e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi
chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia
formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise
barriere (regole): «Formalmente [...] [la] nozione di delimitazione è
assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo
ludens, p. 43). E sono d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza
dell’azzardo (del rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è
di natura una sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a
parità di voti decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione
religiosa, sorge la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio
guida la caduta dei dadi o la vittoria nella lotta [...]. [G]iurisdizione e
ordalìe sono radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale,
ottenuta sia con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o
perdita è sacra per se stessa. Quando è animata da concetti formulati di
giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è
dominata da concetti positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera
della fede. Qualità primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125).
La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in
ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e
autori come Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma
suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi,
gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco
che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in
Amici miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono –
sacri o meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire
convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico
del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A
maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un
effetto paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno:
da un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non
voglio negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me
laico, è la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta
atmosfera oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello
sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a
sua volta goduto che tessono per me la trama del gioco. 9. Compagni di
gioco Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo
gioco incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne
articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le
resistenze sono offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le pareti,
la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere
umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli
mentre giocano insieme. In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli
stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La
palla non vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol
saperne di dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo
scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi inconvenienti possono causare
violente frustrazioni (nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe
fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si può
arrivare (magari dopo una successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza.
Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole
cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da
scansare con abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una
scatola o con la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà
parte della struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo
gioco eserciterà pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi
futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente
distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di
volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e
la lascerà andare.) Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget
giudica impossibile che un bambino si dia regole da solo. Per il tramite di
Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla pressione del gruppo
sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi all’individuo senza
rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il sentimento dell’obbligo
morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo giudizio lo porta a
collegare una volta di più il gioco e il sacro: La regola collettiva è
dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per conseguenza di sacro, poi
a poco a poco si interiorizza ed appare come il libero prodotto del consenso
reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è
naturale che al rispetto mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione
ancora rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato
corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp.
22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può
darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi
di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che
Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità
come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco,
che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di
cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole
(«Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da
ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando
un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la
coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della regola»,
pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore. L’itinerario
cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo, e il suo
primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non
equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in
generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto
diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come
gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si
compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili
come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi
introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo
perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi
con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i
suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o
pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa
seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una
serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale,
non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna
produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in
quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi
ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io
lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo
andare, fulminando la lampadina); il tavolinetto è fatto per appoggiarci
bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza.
Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o
più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi
del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il
repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano
le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla
credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a
salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà
anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano
più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche
sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la
natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono;
ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi
oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è
un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso
letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un
tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo
Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre
edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le
mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per
innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un
solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un
po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di
rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può
raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra
s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il
primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si
serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e
le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle
feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia
il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene
naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi
a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività.
Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o
ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno
un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti
possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra dover
essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i
loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la
restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati
e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto
sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici
solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto,
illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un
solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due
specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le
opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo
piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo
degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito
a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è
vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine
allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un
solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze,
riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono
affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al
pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro
che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio
di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un
grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra
gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati
dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio
l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni
genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno
dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di
una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo»
(o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie»
a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali,
addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o
la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma
insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono
componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in
blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere
disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto
giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita
(direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile: meno
gioco vuol dire meno umanità. (c) Il gioco è tanto più gioco se giocato
insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un
animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il
«con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli e
i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i
rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può
causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più
gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco
avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla
prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo trasgressivo
ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un minimo di
ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica precoce e
continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari vantaggi ma
anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare le nostre
emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha dato
fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia assenza)
è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno estreme)
c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le conseguenze più
gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia, è, direbbe
Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento di affrontare
un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne è invece
(come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che esso si
presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza ho
parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è violato
e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine definendo
«gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con l’obiettivo
di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama un «gioco a
somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e sciagurate)
applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha cominciato a
studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono insieme.) In
modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali, come abbiamo
visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono necessariamente competitivi
e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta di uno o più avversari: i
giochi di regole sono giochi di combinazioni sensorio-motrici [...] o
intellettuali [...] con competizione degli individui (senza di che la regola
sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso di generazione in
generazione sia da accordi momentanei (La formazione del simbolo nel bambino,
p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è ancora soddisfazione
sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla vittoria
dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del diverso atteggiamento
espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario, di competizione (o
combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità autonoma o un senso
unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di esperienze distinte,
fra cui è bene non fare confusione. Per capirci, supponiamo che io giochi a
tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno spigolo o una parete: dopo un
certo numero di tentativi ed errori, capirò come avere la meglio e ripeterò
religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto spesso non sia ludico) le
stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di «funzionare». Smetterò di
esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi di imparare; il mio non
sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo con l’altro giocatore
in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e avventate, per vedere che cosa
càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà familiare e ciò che era avventato
verrà eseguito con maestria; starò allora giocando con un compagno e traendone
tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva e la soddisfazione che sempre
derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare l’una o l’altra cosa per
ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in tal caso: il gioco è stato
piegato alla logica di una prudente e oculata gestione delle proprie risorse)
un premio in denaro o una fama di ottimo tennista; di conseguenza, se pure
esploro e mi metto alla prova, corro rischi e imparo, quello non è un gioco
perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure è un gioco solo in quanto riesce
ad affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi, magari inconsapevolmente,
dalla logica della prudenza). La percezione del mio «avversario», in questi
diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso che cosa voglia dire
«combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e si vincerà
letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio potere,
perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel secondo
caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se si
riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé
stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente
soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno
e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per
ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il
contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro
volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere
sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere
invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o
di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un
gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più
comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare
è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche
il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro
giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più
ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte. 10.
Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li
circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o
negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti
del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo
allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le
bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la
mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva
quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava
facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con
imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un
altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e
frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua
innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi
più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le
mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con
colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli
immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a
rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più
recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione,
sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto
altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di
scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore,
sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche
individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia
pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una
pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo,
imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento
migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi
fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti
trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni
di Flushing Meadows, qualche anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a
un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente
precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria Sharapova. Il
piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di cui ho parlato
nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico:
l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità
(magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi
mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché
comprendiamo che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la naturale
teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in un mondo
privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai testi
poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò
Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni
rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni
rappresentazione: il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci
aiuterà a proseguire nel nostro cammino. La teoria si compone di due tesi
principali, una descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene
che ogni recita ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un
ruolo significa identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con
quel ruolo, e l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la
contaminerà con le caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi
carico. Da allora in avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi
stessi: avremo incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se
forse in sordina e in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o
un mostro: pensiamo a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film
La caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi
interpretato da Ben Kingsley, o Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o
semplicemente una brava persona come il Mr. Smith di James Stewart che va a
Washington a dire la sua. Qualcuno vorrebbe fare delle differenze fra questi
casi: può essere pericoloso imitare un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di
preoccupante nel farlo con individui normali, o addirittura encomiabili. Qui
interviene la seconda tesi di Platone, quella normativa, che stigmatizza non
solo la cattiveria ma ogni forma di diversità: ciascuno dei cittadini della
repubblica è «tagliato» per uno specifico compito, cui deve assolvere con la
pazienza di una formichina, e qualunque attività possa distrarlo da tanta
devozione va rifuggita come la peste. Bando a ogni passione estranea, dunque;
bando a ogni musica ritmata e suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che
il contatto con ogni altra indole, con ogni altro repertorio di mosse e
di abitudini potrebbe causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un
pezzo». Se pure si trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe
non dovrebbe che recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!)
monotonamente sé stesso, per confermare e rafforzare quella coerenza
inesorabile del suo io che sarebbe invece attenuata e imbastardita
dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e queste sono le uniche
rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua repubblica). Ho già
detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi normativi. Sono in totale
disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma caliamoci sopra un velo e
limitiamoci a una considerazione. La repubblica ideale sarà forse di casa nel
mondo della realtà più autentica, quella illuminata dal sole che i prigionieri
della caverna non vedono; nella caverna, però (dove i prigionieri, varrà la
pena di notare, sono continuamente testimoni di uno spettacolo, anzi di uno
spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio antesignano del cinema), domina
non quella realtà, con tanto di noiosa conformità alle proprie tendenze e
funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione ad allargarne l’ambito, ma invece
l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui Platone ci ha appena dato una
brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo terreno) non fa che
scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione (Platone insegna)
non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’ il suo prossimo,
lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo
ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un attore recita un
personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si adegui a un
modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò qui sotto
silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi in quanto
attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e non, che
abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci ingravidi
a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere passivamente, come
avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi della nostra
psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far crescere tale
germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al mondo, consiste
nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in altri,
nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed espressioni –
forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro violenza,
perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a una singola
voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il loro
significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe un bambino:
il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del suo gioco più
intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi, spesso finisce
per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti: quando un bambino
fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e dalla tenerezza
all’irritazione e al rimprovero.) La recente scoperta dei neuroni specchio ha
dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri umani si riflettono
l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur vicariamente, sia pure in
modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che fai perché mentre lo fai
in certa misura (come preparazione all’atto, non come atto vero e proprio, e
comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio anch’io: mi atteggio e mi
dispongo come vedo fare a te, e con tali atteggiamenti e disposizioni sono in
grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima volta forse, in tua assenza,
saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di nuovo la biologia e di nuovo
stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto vivo è associato a una
qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano (ci ricorda ancora
Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non diventa quel che
dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani, traendone esempio e
stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica dell’umanità, dunque,
l’atto elementare che, costantemente ripetuto e ricombinato in mille forme con
sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio.
Di alcuni di questi atti saremo intimamente consapevoli: guarderemo ai loro
archetipi con venerazione e sentiremo un profondo impegno nei loro confronti;
ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma
casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca
regolarità uniformano un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile
sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di quegli impercettibili
aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti peregrini con cui ci
riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così serio e edificante
ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi abbiamo
continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un l’altro. A
impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere, fosse solo
per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino, servono anche
i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme. C’è di più.
Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che, inaugurati con
aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino a
raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il
materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri
passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo
precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra
giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i solitari?
Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse coinvolto
in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente le cose)
in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il “bambino
in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di giocare»
(p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo spazio
potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura materna,
con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione
adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90;
traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto
in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una
situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti
o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio
«solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa
domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare
circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti,
eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi
di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso,
rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia
consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di
disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa assurda,
che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da escludere: anche
un comportamento individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque non è
escluso che in esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così che il
mio comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre mentre
gioco «da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno
sistematicamente e consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno
per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un
certo numero di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare
mossa – e confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale
sia la mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso
coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri
diversi: qualcuno sarà più audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi
ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori
presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro
volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone
che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla
situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune.
Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui
mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di
compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a metterla
appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli autentici solitari
sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che quello
spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti
battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il
gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco
arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti
solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a
un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone
fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro
presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa,
applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro
«corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora
ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro
prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli
oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni
specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che
emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro
gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di
personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che
dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la
battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la
rappresenta; coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di
fare, e tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché
«Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato
origine alla battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta,
perché se è rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda,
illuminante giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto
capitolo la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno
regolamentati, più o meno vincolati a parametri fissi, e per converso più
o meno espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente
giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla
medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un
labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è
un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e
aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della
straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione
sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune
senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della
parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando
applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel
che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che
confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le
carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico
del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si
manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il
gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una
produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta
a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il
modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e
ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!». 11.
Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un
abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII
dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono
a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo
compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei
giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci
permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi.
Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello
delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso
modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le
arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il
fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che
quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non
occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto
ciò che occupa spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo
capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal
suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un
procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la
scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può
letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la
filosofia e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure
riuscissimo a dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come
potrebbe esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello,
diciamo, del tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il
«gioco» dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa?
Qui sono in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la
nostra anima è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri
giochi. Il meglio che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa
differenza ed evidenziare alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in
comune: tornare cioè precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo
riduca a un’essenza astratta e abbandoni al suo destino tutta la zavorra
– in particolare la zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non
sono d’accordo. Ai giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva
in Malebolge, con tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non
facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per
eseguire questo salto mortale non è una bestia mostruosa, è però un’inversione
che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui
solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i termini della questione. Qui
sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline di natura verbale o mentale»;
ora però è bene rendersi conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si
riferisce a parole e l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene
associato a mentale si tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più
precisamente, si tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da
mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si
associa, che su tale fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi
accetti la radicale distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del
dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso,
ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel
deserto emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero»,
quella non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende
«albero» una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente
(che, presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle
cose astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i
significati. Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica
contemporanea Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto
di significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale
del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un
albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e
il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche
(un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni
psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che
cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello
cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito
che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura
che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la
ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio
era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie,
ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la
mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo
ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e
quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per
rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado
di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi
creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo
capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali.
Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del
linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli
rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione
fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B
(un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un
linguaggio che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio
significano B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B,
che d’ora in poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il
linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che
sono le cinque meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche
tu verrai a sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per
informarti di che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe
tanto più semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione
potesse avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta
l’evoluzione si sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di
inconvenienti (cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua,
insufficiente competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò
questa teoria? Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile
obiettivo: introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta
da dati empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello
geocentrico afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li
vediamo sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo
numero di epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente
ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un
Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà
salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di
confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente,
più elegante e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle
ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno
ampliato il numero delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco.
Albert Mehrabian, professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una
persona ci comunica i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia
che ci ispira, quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole
che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non
verbale, o body language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli
eterei e immateriali come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi
e corti circuiti emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie,
un fautore della posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del
genere. Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso
(privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al
modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio
soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del
viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo
comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di
asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non
gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la
morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in
comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché
siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri
corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione,
ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un
esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della
massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare
con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento
occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche
che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione
di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più
familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di
suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo
comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione
che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore
siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi
di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per
me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto
o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti,
echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione
diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione
d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E,
invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una
specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una
specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma,
si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho
descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato:
in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che
gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante
dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la
stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci
permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può
raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario
sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci
queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica;
e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello
scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è
suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili
ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i
fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di
dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà
di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e
formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del
mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione
fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere?
Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver
fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere
narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare
priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi
perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto capitolo
ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo nel
quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso
praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è
sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma
se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il
gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui
l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in
una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare
che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili,
non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una
rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli
somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue
modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile
che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i
dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo
disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il
linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo
come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che
riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente
particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente
queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli
consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in
primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il
linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti
e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso
combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le
parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto
quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il
prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più
vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro
più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come
cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro,
dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare,
potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che
equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi
il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca
inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il
gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si
potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle
corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle
parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi
di bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti
e battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il
soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che
il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio,
invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono
comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui
abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando
padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri
errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e
intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi
di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica.
Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e
pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le
regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine
«scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è
scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le
norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento
linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire
un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai poeti
che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a volgerlo
in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto, comprensibile solo
a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa; bisogna limitarne
l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline (ascoltiamo anche questa
parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa) normative: grammatica,
logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono quali combinazioni di
parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e (altre) cose siano
significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva linguistica si possa
attribuire l’etichetta di un significato letterale (cercando così di fermare la
deriva: un significato letterale è una metafora o metonimia su cui ci siamo
arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico. L’uso comune del
linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso nel sesto
capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è l’assoluta
licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini enunciati della
filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the mat; he saw a
big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali, costruiti con
termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno indissolubilmente legato a
una singola associazione, e proprio per questo, direi, incapaci di esprimere un
qualsiasi significato o dar vita ad alcuna comunicazione. Né l’uno né l’altro
degli estremi (per quanto citato nei testi di filosofia del linguaggio) è mai
effettivamente realizzato; quel che incontriamo nelle nostre quotidiane
vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni fra gli estremi.
Incontriamo parole e frasi che in certa misura fanno ossequio alle norme (tanto
maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente) e in certa misura
le trascendono colorandole di esperienze personali, immettendovi il gusto
saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata che coinvolge tutto il
corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni altro caso, regole rigorose
diventano l’occasione per una creatività più raffinata, per un gioco più sagace
anche se indubbiamente più difficile, come il bridge è più difficile della
briscola. Pensate a quanto è costrittiva la forma di un sonetto: quattordici
endecasillabi divisi in due quartine e due terzine, rimati secondo pochi e
precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi, la grandissima maggioranza dei
sonetti è mediocre e noiosa – adiacente all’estremo regolamentato dello spettro
linguistico. Quando però recitiamo (la poesia va recitata ad alta voce, per
motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un capolavoro di Dante, Petrarca o
Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle costrizioni non avremmo potuto
scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E la medesima libertà è espressa,
non sempre a questi livelli, da ogni parlante/poeta in ogni linguaggio: quando
inventa una battuta, adatta a nuovo uso una parola, raccoglie e concentra le
sue emozioni in una frase a effetto, improvvisa una cantilena per un figlio che
non vuol saperne di dormire. In ciascuna di queste occasioni la vocazione
ludica del linguaggio si riattiva: le regole diventano un trampolino per un
tuffo ancor più avvitato e carpiato, invece che una camicia di forza. È arrivato
il momento di affrontare il linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di
distinguerne con cura le due modalità che prima avevo indicato. Il linguaggio,
dicevo, può essere usato da un parlante per descrivere qualcosa di cui il suo
interlocutore non è e non è stato testimone; in tal caso, è il significato del
linguaggio a essere assente (a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante
può essere assente: l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio
apparirgli come testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più
inquietante, per la mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della
comunicazione, delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di
creare? Quando leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una
sparatoria, di solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»):
capisco quel che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato
abituale e le frasi sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero
che molti testi di filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine
stantia e retriva del loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un
linguaggio, e io li leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e
capisco il senso di questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti
suggeriscono una visione del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a
quella tradizionale? Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il
contenuto di un racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la
persona che lo racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci
facciano un racconto con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso
disastro ferroviario in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa?
Che, pur assumendo che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un
volto impassibile, ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se
intendiamo «informazione» nel senso più comune, e profondamente legato al
modello mentalistico del linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà
come faranno degli enti immateriali a entrare in un pacchetto!) che va
trasferito da una mente all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che
«informazione» ci sta dicendo: se a contare per noi è quanto una comunicazione
ci forma, ci cambia, ha un influsso temporaneo o permanente su di noi. Se
prendiamo il termine in questa seconda accezione (che io preferisco), dovremo
ammettere che le parole scelte da ciascuno dei narratori fanno un’enorme
differenza per l’efficacia del suo discorso: che il loro suono, il tono e il
ritmo con il quale sono pronunciate, le loro associazioni, le risonanze o
dissonanze che hanno con altre parole dello stesso discorso, la forza con cui
tutte queste parole sono concatenate l’una con l’altra suggerendo un’immagine
unitaria e l’inventiva con cui questa immagine si rinnova senza sosta,
illuminando angoli oscuri e chiamando in causa prospettive balzane, possono
coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in cui costantemente elaboriamo
aspettative sul prossimo passo e le vediamo confermate o contraddette, e
proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e disgusto, e alla fine sentiamo di
aver percorso noi stessi quel territorio e di conoscerlo bene anche se ciò non
è vero – anche se il territorio non somiglia affatto a quel che ci è stato
comunicato e ci ha informato. Oppure le parole possono essere spente e banali,
sfilacciate e risapute, e dovremo fare un grosso sforzo per mantenere desta
l’attenzione su quel che vogliono dire perché sembra che non vogliano dire
niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e capire che cosa è successo,
in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i discorsi esprimono lo stesso
pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e magari sarà così, quando
«pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti in modo opportuno; ma
allora si dovrà concludere che pensieri e valori di verità hanno poco a che
fare con quel che succede quando ci raccontiamo qualcosa. Il linguaggio non è
mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono dubbi: cose e persone ci
mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha altra funzione che evocare
queste cose o persone: la parola è innanzitutto magica. Con le sue limitate
risorse – qualche nota, qualche alterazione di timbro o volume – richiama quel
che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere qualcosa che s’ispira a quel che non
c’è, e che forse ne è molto diverso ma adesso con questa scusa ci è diventato
presente. E la magia del linguaggio non è mai disgiunta dal suo carattere
ludico: la seconda volta che ascoltassi lo stesso racconto, formulato con le
stesse parole, non evocherebbe più nulla e io mi troverei a pensare ad altro.
Solo un linguaggio che esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, solo un
linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio: solo un linguaggio in quanto
giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, perché come al
solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi fra trasgressione e
conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti fino a un certo punto.
Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo puramente rituale e prefissato,
non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora alla scrittura. Anche qui c’è
uno spettro di possibilità, e anche qui la mia posizione e quella avversa
assumono come paradigmatici i due diversi estremi dello spettro. Per i miei
avversari il modello di comunicazione scritta, cui ogni altra si deve
uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05 la Corea del Nord ha
lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo opposto: così come
l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo del linguaggio
scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi, per la
precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa interpreta
un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il significato
giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo letterario, invece,
è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se leggiamo «a mente»;
e sono parole scelte con creatività e maestria (con la maestria di un grande
giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei personaggi, delle avventure,
delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure dicessero «la stessa cosa»
(quella che la posizione avversa concepirebbe come la stessa cosa) non
avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto. E, se un dispaccio
d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia persona, se non si
perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi tutt’altro che un
resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come vorrebbe l’ideologia
cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed essenziale conferisce
invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si sono immediatamente
scatenati in me appena ho visto queste parole insieme – «Corea del Nord»,
«missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio (fittizio) è un
riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non esistono i
significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e che non è
il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come tale? a
fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di certo.
Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe credere
che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati astratti ed è
la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non
era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che ho cercato di fare è
stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza cruciale: dei
suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno. Il nostro
linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del flusso
continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di interpretare
nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho detto?) così
come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un cane. Come con
ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il linguaggio possiamo
giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché nessun altro mezzo a
nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato, ricco di tanti dettagli
e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso nell’offrirci giochi
d’insondabile profondità e complessità – microcosmi infinitamente interessanti
e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del linguaggio si combina con le
sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta di mediazioni. Capiamo un
altro che parla come capiamo un altro che cammina; ma, parlando, quell’altro
può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci paura molto meglio che
camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci coinvolgere in questo
gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai stati, in compagnia di
persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo stesso miraggio senza
nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come questo; e le parole scritte
evocheranno un significato se sono scelte con cura, la stessa cura con cui uno
scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di rassicurare e stupire al
tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho chiarito come si possa
arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso del linguaggio per
chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse l’uso principale
del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale dei denti
del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte si profili
minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora diventato è
perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca. All’inizio di questo
capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il gioco verso sublimi
creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità». Che il lettore sia
o meno d’accordo con le idee che sono venuto sviluppando, avrà capito in che
senso io intenda riconoscere un importante elemento di fisicità in sublimi
creazioni come sono spesso quelle poetiche o letterarie. È ancora lecito, però,
potrebbe chiedere, che io qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho
lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che dir si voglia, rifiutando la
dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in un universo che non ha più
nulla di spirituale – un universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o
letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una
mia confusione, come se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono
contemporaneamente all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste
domande a provare qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio.
Per loro tramite il cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla
finestra. Detta nel modo più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la
mente, o l’anima) può solo essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno
spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e
le sue mosse si colorano di spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in
quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza», purché per danza s’intenda una pratica
creativa, non puramente rituale e aperta ai movimenti della parola e del
pensiero: una danza nello spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci
fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la
mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla routine più inflessibile,
sono comunque una mente, una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è
comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il
corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa
mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà
nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta guardare al mondo
accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di questo spettro
sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di
essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e in
parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente
distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una
medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che
«il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si
riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è
spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco
(cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono
stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato
in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella
tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne
colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso
sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza,
ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico
detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o
voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al
riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La
psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base
a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le
intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di
poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma,
per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia
padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella
cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che
ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve
assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per
il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo
ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al
massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un
verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di
ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il
soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa
convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe
la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla
nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro
essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà
un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro
ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così
concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi
che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una
serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla
molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo,
un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta
dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato
di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico
esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale –
ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non
intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui
questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del
significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che
Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle
parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io
sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che
infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto
carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal
non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una
volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di
«mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto
privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo
lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del
soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante
barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo
spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo
gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà
lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario
su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel
quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare
invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui
ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del)
suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con
sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del
principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la
nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha
introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte
associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme
del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza
emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni
contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i
pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo
l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e
apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo
molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio,
unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto
opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e
perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente
risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli
appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di
struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico
chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie
capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci
risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o
cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri;
e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo
penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non
ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così
importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e
capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e
abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama
«pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi
di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la
lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli
pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro
che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando
della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed
efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni).
Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci
si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero,
più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la
mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella
mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare
solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che
potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da
intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte
dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono
fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro,
trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro
saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la
stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i
critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e
passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo
esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che
starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che
le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per
le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento:
non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di
vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo
tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come
s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima
mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e
delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o
raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua
disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un
estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna
Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa;
certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come
racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura,
i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si
rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia,
perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma
di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a
giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione
propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel
punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo
che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più
avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo
per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di
distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume,
scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di
sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere
in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la
forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe
per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno
abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo
capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi
della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba
mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano
essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande
ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro
carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non
meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non
implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio,
la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui
s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la noncuranza
con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione e la
genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale
affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente
nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse
intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero
queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la
soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di
crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e
sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi
accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di
aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato
un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio,
occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta
esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione
che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la
concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia
mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo
che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di
poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia
possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e
il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa
spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia
prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida
con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge
il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]»,
Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo
«tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di
Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo
prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un
comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo,
un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il
comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte
previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto
dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non
sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo
il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la
conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e l’immortalità
assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come tanti altri
giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre, usa parole
magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in contesti e
in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta devianti fra
loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio – lo stato
d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente nuovo.
Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il principio in
base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo comportamento non
fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e l’altro principio
per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio viene detto
«metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e quelli cui lo
stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra visione
dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio. Giocando
s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello stesso
modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle
elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati
alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà
quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che
vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste
costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra
realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò
càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione
filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che
viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a
trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo
osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e
aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non
esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni
filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza.
Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e
oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di
ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu
inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria
screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo
pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva
basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una
simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri
sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il
gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse
orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco
sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution
e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state
responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre
gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come
protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in
Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già
prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui si
cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi
massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto
efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali
piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey
incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e
delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale,
pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice
genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In
primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono
gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica.
In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a
lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro
discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano
molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo
problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per
caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la
tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto:
si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene
autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta
immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima
di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie.
Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri
paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti
protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato
questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio
nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine
sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano?
Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia
ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo,
intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande
globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un
pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una
specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani
come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un
esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e
prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un
disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che
cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma
invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei,
mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete
giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una
volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato
qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto
che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita.
Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo
giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle
conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima
che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che,
sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano
che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe
estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E
dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta:
che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella
soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non
ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio
promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi
fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge,
giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica
l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere,
non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco»
filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è
vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a
obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha
inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada
competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo
ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile.
Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora con
maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore destrezza; le
sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio articolato; ha
imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma l’acqua che
scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci ritornerò fra
breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a dispetto delle
complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a scacchi, all’arte,
alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi senza alcun fine
esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole e istruttiva,
appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è imposta o le
hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare lo spirito che
l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo delle
operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente soddisfatta.
Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica qua talis e
nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo atteggiamento
risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul piano dei
valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente, diciamo di
essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della saggezza, e fosse
un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con creatività e passione,
ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che meglio approssima la
scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza riguardo alla
creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente potesse pervenire
alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in ambito filosofico,
gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto il suo corso:
Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è definita come
un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la saggezza, non
ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e
apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza,
una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e
ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e
ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il linguaggio
è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella lettera, un bel
racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre parole sapranno
riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune, il che tanto meglio
faranno quanto più porteranno le tracce del respiro e della saliva in cui sono
nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro, dell’entusiasmo o dello
sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne hanno accompagnato
l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente, peraltro, ai nostri giudizi
empirici ordinari su testi filosofici e comunicazioni d’ufficio, salvo che le
nostre concezioni di tali oggetti non fanno giustizia alle nostre intuizioni, e
così rimaniamo perplessi davanti a un testo filosofico o una comunicazione
d’ufficio «che non hanno niente di sbagliato» perché dicono quel che devono
dire e contengono solo enunciati veri, eppure ci sembrano, chissà perché, da
buttare. Il discorso sarebbe terminato, dunque: avremmo percorso il labirinto e
saremmo arrivati nella stanza dove si ritirano i premi. Ma mi piace pensare che
la stanza non sia chiusa e che anzi il premio consista in una porta aperta su
un altro sentiero tortuoso da percorrere, in un bosco stavolta anziché in una
claustrofobica caverna. Non mi lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero
invita, ma getterò lo sguardo in quella direzione per stimolare la mia e forse
l’altrui curiosità. In questo libro ho parlato del gioco come di un’attività
esclusivamente animale, e perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto
come strumento del gioco (palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo
(pareti, spigoli), non come suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il
gioco, come ho detto, è vita, allora è riservato agli organismi viventi; se
consiste in una serie di mosse – devianti, istruttive, pericolose, ma pur
sempre mosse – allora per praticarlo occorre potersi muovere, il che fra gli
organismi viventi sembrerebbe escludere le piante. Ma è poi tanto certo che
così stiano le cose? Proviamo a giocare con le apparenti tautologie che ho
enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi siamo in grado di riconoscere
come respiratorie, metaboliche e riproduttive, allora è chiaro che un orso, un
pappagallo e una quercia sono vivi ma una pietra no; se il movimento richiede
che un ente con una sua precisa struttura si stacchi (almeno in parte) dalla
sua posizione spaziale e ne assuma un’altra, allora formiche ed elefanti si
muovono ma un geranio o un cipresso no. Supponiamo però di invertire
l’equazione che ho appena citato: se il gioco è vita, la vita è gioco. E
ricordiamo che il movimento che conta per il gioco/vita si svolge in uno spazio
esistenziale, non sempre fisico. Con tali premesse, non è forse gioco/vita
quello di un cielo che non appare mai due volte nella stessa configurazione, di
un corso d’acqua che costruisce i suoi meandri o della sabbia che costruisce un
lido, di cristalli di neve di forme delicate e idiosincratiche (ciascuno,
sembra, un esperimento a sé stante), di una foresta che alterna grovigli e
radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E non è forse vero allora che al
mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi
modi in cui possiamo giocare con un altro: trattandolo da strumento o da
compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un altro da strumento significa
trattarlo come un oggetto inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio
rapporto con lui (o lei) sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i
suoi tasti per ottenere l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà
percepito come un’oscura minaccia e sarà causa di disagio o di terrore;
sentimenti così penosi hanno però un ruolo significativo – segnalano la
possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione a un incontro,
quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima pluralità di
atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere. Possiamo
giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante
di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando meno ce lo
aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone
e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il riscaldamento globale),
oppure come con un compagno, raccogliendone i suggerimenti, facendole delle
proposte, cercando di costruire insieme un bel castello. Chi vive il rapporto
in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se spesso non hanno parole per
dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare
una via per scalarla, che il mare ti avverte quando vuole lottare con te, che
la macchina ha piacere a distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti
cambi di marcia, che il caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani
ambiziosi per la giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi
che il gioco mi ha preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro,
destino. Ma non posso che congedarmi con una provocazione. Ho percorso un
labirinto per dipanare il senso di un’attività che è a sua volta labirintica,
ferocemente intricata. A quello che sembrava il termine del labirinto ho
trovato un’indicazione, ancora in buona parte misteriosa: che non si tratti di
un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica sia la natura dell’essere
in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille disparate manifestazioni in
cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere
sono l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una
risata divertita per farlo scomparire.Ermanno
Bencivenga. Keywords: il piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo
della logica, calcolo di predicati di primo ordine, logica di termini
singolari, piacere, bello, logica dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Bencivenga” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788090701/in/dateposted-public/
Grice
e Bene – Tancredi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Maruggio). Filosofo. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e
da Perna Longo, entra nell'ordine dei Teatini e fu professore. Lascia
importanti opere come l'Apologia del Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio,
in sua memoria è stato intitolato l'istituto comprensivo e una via
cittadina. Opere: “Apologia del
Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S. inquisitionis circa haeresim” “De
immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”, “Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso
del Bene. Nacque in Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della
diocesì di Taranto, come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi
dirli , ed è Commenda della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese
le latine lettere, e le greche , la matematica, e l’astronomia, entra fra’
Teatini, e ne professa l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’
impiego di lettore di filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De
comitiis" per cui ebbe in Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii
in Roma. Quivi pensando e scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra
miglior sorte, e fu predo decorato delle cariche di esaminator del clero, di
qualificator del S. Uffìzio, e di confaitore di più congregazioni (a). Fu
incaricato inficine co’Tea- tini Vincenzio Riccardi , ed Aeoftino de Bellis
della revifione ed y emendazione dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro
VII. fu messo nella congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di
Gianfenio. In premio de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli
Rimò meglio di modedamente rifiutare . On- ? de terminò di vivere da semplice
religioso in Roma. (b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi,
Poema di Ascanio Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta
dall'arcidiacono Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione
di quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne
ha parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag. i$z.
a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis
moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate , Dubitationes morale!.
Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa
Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill.
Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per
cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della
morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai
di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi
3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte!
di/lributttm . Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud , <5* Claud. Rigaud
1650. in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan , O* Mar.
Ant. Ravaud in f. 5. Trattarui morale! : videlicet de Conscientia; de radice
re/litu- rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii
& irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti! , ubi etiam da
alagiti (5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo .
Avtnione Guill. Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi
fregia in virj suoi libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i
reijitlri di S.Ao'* ea della Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU
Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E
poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli
attribuire a quell’ Opera le aggiunte fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y.
Inquisitionit. (d) Il Vezzofi lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il
Mazzucchelii d’aver det- . t». Digjtized by Google BENE BENEDETTI.
,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti-
bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore
poi compose, e vi uni le seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de
Officio S. Inquisitionrs perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi riftampò
in 8. fenz’ alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di Additiones. 7. De
Juramento, in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c. cui Dectftonet S-
Rotte Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan , 0" G. Barbier. in f,
CXI. da Capoa , ha rime nel Sello libro delle Rime di diverfi eccell.
Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli . Vene*. G.M- Bottelli 1553. in
8. (a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce : L' Imprefe della Mae/là
Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel tumolo
ptr la Jua , morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila Lepido
Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI ( Giuf. dilettò di Poefia
volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino , di cui fu Vicecuftode ,
e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’ Velati di fua
patria egli era Principe nel 1717. (r). Fu anche accademico Infenfato di
Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò dall’Aquila
nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti T. 3. p. 346. S. BENEDETTO, Arciv. di
Milano . V. Crifpo ( Benedetto ), BE- . to, edere (lato il libro de Comìtiis
unito dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti moralts: elfendo
quello un libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a quello unito.
Ora in primo luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di tutto ciò ; e
foltanto riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io pure ho fatto ,
unendovi deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come ognun vede . Ma poi
non fo, fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione . Io non’ ho il libro
, ma lo trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce Detiene ( sbaglio
prefo pure dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de Comìtiis ; e ciò , eh'
è più , il Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente dice: ,, Io oltre
l’ultima edizione del libro de Co- ,, mitiis etc. fi regillri nel modo, che
fiegue : Tbeologia moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc. II. de
Alagiis etc. Un trattato fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli. (a)
Quadrio, Crefcimbeai , Tafuri. Tommaso
Del Bene. Keywords: Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale,
cavalleria. Il santo cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia,
abiuratio, conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786132173/in/dateposted-public/
Benedetto
(Crema). Flosofo. Insegna a Padova,
di cui divenne in seguito rettore. È ritratto in un dipinto di Giovanni Busi
detto il Cariani, allievo del Giorgione. Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Benincasa – il nudo maschile nell statuaria italiana all’aperto – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Eboli).
Filosofo. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la svolta
dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a
turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò
a lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von Balthasar)
per poi organizzare e curare mostre d'arte.
Membro della Commissione Consultiva Arti Visive della Biennale di
Venezia e consigliere del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali. Insegna a Macerata, Firenze e Roma. Scrisse saggi
storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e storia di Suhard e il Concilio
Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra futuro e utopia” (Magma, Roma); “Poetica
della negazione e della differenza” Il Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul
manierismo: come dentro uno specchio” (La Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme:
saggi sull'arte contemporanea” (Electa, Milano); “Architettura come
dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi sul pensiero antico,
medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura e arte” (Dedalo,
Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C, Roma); Oskar
Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C, Roma); Georges
Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock : opere” (mostra, Bari, Castello
Svevo) Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici sull'arte
contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto Mastroianni
Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte contemporanea” (Ed.
Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori, Milano; Spirali/Vel,
"Alfio Mongelli: infinito
futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti : arte Professore: una
nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano). La citta disalerno
ricerca repubblica repubblica archivio
repubblica biennale-il- psi-fa-incetta-di-poltrone.
html1http://ricerca.repubblica. it repubblica/archivio/ repubblica
artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni. html2 lacittadisalerno/ cronaca
/benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto%20ieri%20a%20 Roma, autore
importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni Culturali%20e%20
Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori giudiziari, su
errorigiudiziari.com Carmine Benincasa. Keywords:
il nudo maschile nella statuaria italiana all’aperto, implicatura plastica, la
svoglia dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile, statuaria, il
segno del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita, futurismo,
arte futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786101238/in/dateposted-public/
Grice
e Benvenuti – filosofia italina – Luigi Speranza (Montodine). Filosofo. Grice: “A good thing about
Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that Benvenuti has a strictly
philosophical background, rather than in grammar or linguistics or belles
lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine
as *I* do!” -- Grice: “You gotta love
Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew
he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of
Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs,
and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can
signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali
including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by
one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno
scritto).” --. Cesare Benvenuti Cesare
Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire
dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare
un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città
di Dio Biografia Cesare Benvenuti nacque
dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La
prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole
tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due
fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della
Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di
filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie
città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con
l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare
i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe
la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé
come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della
cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del
venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII. Cesare Benvenuti era anche dotato di
particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in
Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche
le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e
prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu
colpito da apoplessia e quivi morì nel 1746.
Altre opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e
dottore di S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso
Storico-Cronologico-Critico della vita comune dei chierici de' primi sei secoli
della Chiesa” (Stamperia di Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran
padre s. Agostino vescovo d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di
Antonio de Rossi). stone lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune
deg'apostoli &the sono i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne
parla: la rispondechica vedere la poca forza dell'argomento negativo. Vita
comune de primi fedeli. Uti. Vita comune e votiva de Santi Apostoli e de primi
Fedeli Passò succesivamen s e la Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e . De'
terapeuti, che se ne dice. Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre
nelle decadenze di questo primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo
Sentimenti d'Origene. Della Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo
di vivere degli Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino . SE G10LO 1L Comunità de'
beni nello stato dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune
votiva del clero di Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della
comunità del clero ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli
Eclesiastici cosa scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di
Corinta ed Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III.
Clemente Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva,
triferita da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI.
III. praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa
diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui
convertitieconfa. gratialculeo del Signore on la Cornunità
de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario
Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici.
Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a'
CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon
neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo
Sulpizio della Povertà d'u n Prece , Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in
commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De
Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle
vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici.
Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel
PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di
Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di
Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à
cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa
farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend
Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli
Ecclesiastici della Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de
Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente
tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela
Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo,
Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione
di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e
dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici
Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona
indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il
Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio
d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica
sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien
intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1
Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni
del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que'
tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in comune
de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note Fonte:
Francesco Sforza Benvenuti, Storia di Crema, Volume 2, 1859 p.37Filosofia Filosofo
del XVII secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino.
Don Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords:
paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i
ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione
longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda,
cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della
teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante,
segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691252551/in/photolist-2mQPiYS-2mPC6Zb-2mLP9qE-2mKMbug-2mKbkhx
Grice
e Benvenuto – il grido – filosofia italiana (Napoli).
Filosofo. Grice: “Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e
grido,’ the functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get
the manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s
one which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is
like a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers,
‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my
more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore
presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a
Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di
Psicologia del Profondo di Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e
diretto l'European Journal of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi
universitari all'Università Paris VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha
ottenuto la Maîtrise in Psicologia. Nel frattempo, ha seguito i seminari di
Roland Barthes e di Jacques Lacan. In seguito ha preparato un dottorato in
Psicoanalisi con Jean Laplanche all'Università Parigi 7. A Milano si è formato
in psicoanalisi attraverso gli psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e
Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppo-Analitica Italiana. Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra
la ricerca in psicologia sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista,
e il lavoro di pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista
Lettera Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore
del trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest.
Nel 1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European
Psychoanalysis, divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che
tuttora dirige. Dal insegna psicoanalisi
all'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto
di Psicoanalisi Moderna di Mosca. Pensiero
Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra
loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica,
psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un
progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della
riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che
punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture
predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista
(interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la
fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una
Verità che si dipana nella storia umana).
Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne
allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a
ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il
Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione
artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta
sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni
teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo
causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo,
irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si
arresta. In Dicerie e pettegolezzi (dove
articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il
nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali
fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un
cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a
cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione
relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non
tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal
Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla
“depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato
diversamente. In “Sono uno spettro, ma
non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti,
notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale
inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di
questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in
Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e
della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della
“carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda
però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione
come sorgente opaca e non-significante della soggettività. Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli,
Liguori); "Traduzione / Tradizione"
in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano,
Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan); Dicerie e
pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli
argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo);
Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri);
“Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore,
Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del
relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini
dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno
spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido,
Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La
psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno.
Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis, Leggere Freud. Dall'isteria alla fine
dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan,
su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria
fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante,
segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised,
stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico,
convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale,
procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia,
popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di
consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes
sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare
naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad
placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei,
positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di
natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su
Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta
del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off
communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico,
confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51784990942/in/dateposted-public/
Grice
e Berardi – telepatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “You gotta love Berardi, but I
wonder if his background is in the classics – he has written on ‘il futuro
della comunicazione,’ and coined some nice neologisms, like ‘psiconautica,’ –
which is like my telementationalism, only different – and dialogued with Guattari
-- While Berardi is into ‘il futuro
della comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are usually into the
PAST of communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto “Bifo”
-- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive alla
FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo".
Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove nel
'67 conosce Toni Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a
Potere Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura
di spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il
lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975 fonda la rivista A/traverso, un foglio
che era espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese del
1977; nei suoi scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra
movimenti sociali e tecnologie comunicative.
Nel 1976 partecipa alla fondazione dell'emittente libera Radio Alice e
subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui
viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione, Radio Alice
organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila
persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader dell'"ala
creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura
della radio da parte della polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato
per "istigazione di odio di classe a mezzo radio", per sottrarsi all'arresto
fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari e Michel
Foucault e pubblica il libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre (Éditions du
Seuil). Negli anni ottanta rientra
brevemente in Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora alle
riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in Messico,
India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della crescita delle
reti telematiche e preconizza la futura esplosione della rete quale vasto fenomeno
sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce
in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in
veste di protagonista, partecipa al documentario Il trasloco di Renato De
Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla storia del suo
appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui Virus
mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la Castelvecchi
e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per MediaMente, la
trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta da Carlo
Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di
comunicazione. Dal 1992 al 2004
collabora alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Dal 2000
al 2009 cura con Matteo Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002
fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo
pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali del nuovo sindaco di
Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche
nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini
Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla
rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese
Adbusters. Dal 2000 al 2009 ha animato la mailing-list Rekombinant con Matteo
Pasquinelli. Altre opere: “Contro il
lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del
soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani);
“Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano,
Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"”
(Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano,
Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza”
(Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna,
Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna,
A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk.
Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla
psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph
gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel
& Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi.
Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk.
Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro
zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi);
“Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit.
il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La
nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di
una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new
economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione
del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo
che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri);
“Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata.
Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto
del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna
(serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo.
Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo,
edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita,
ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà
capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive
del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the
future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk.
L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il
colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte, Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini
& Castoldi, Asma, C&P Adver
Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione
apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare.
Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”. Note
Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su
YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto .
Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto . E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente:
Franco Berardi, su mediamente.rai. 24 luglio
25 giugno ). Bifo: "Con la
Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento | Bologna la
Repubblica Cominciamo a parlare del
collasso europeo, alfabeta2 n.5, dicembre , pag. 5 rekombinant@liste.rekombinant.org, su
rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile . A/traverso | Casa Editrice Etichetta
Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. 26
giugno 26 giugno ). Félix Guattari Gilles Deleuze Movimento del
'77 Radio Alice Telestreet Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su
Franco Berardi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Franco Berardi Franco Berardi, su Internet Movie
Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul Through Europe Interregno[collegamento
interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi
Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e
Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco
(scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org.
podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu,
Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social
Imagination San Marino; scepsi.eu. 13 agosto
27 novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd.
Franco Berardi su Bookogs. Biografie
Biografie Letteratura Letteratura
Politica Politica Categorie: Saggisti
italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore1949 2 novembre
BolognaMilitanti di Potere OperaioMovimento del '77Studenti
dell'BolognaFondatori di riviste italianeAttivisti italiani. Franco Berardi.
Keywords: telepatica, implicatura del presagio, poetica ariosa, progetto ario,
telepatia, pre-sagio, sagio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785716751/in/dateposted-public/
Grice
e Bernardi – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo. Grice: “We discussed Bernardi with
Sir Peter – when we were tutoring on ‘Categoriae’ – “Surely this is not
propedeutic logic! This is pure metaphysics, and even pure physics!” Bernardi
held the same view! On top, I love Bernardi because he does not use ‘logica,’
which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico,
nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna
avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni
d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese,
dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo
aristotelico e letterato. Consacrato
vescovo di Caserta. Poi a Parma nel
monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola. In occasione del 5º centenario della sua
nascita, il 30 novembre 2002, il Centro Internazionale Giovanni Pico della
Mirandola gli dedicò un convegno. Lo
scrittore Antonio Saltini ha utilizzato la figura di Antonio Bernardi come
personaggio del suo romanzo storico L'assedio della Mirandola. Atre opere: “La Monomachia” -- dove si
sostiene che il duello è legittimo secondo la ragione e la filosofia morale ma
illecito sotto il punto di vista religioso. Note Vedi Google Libri. Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della Mirandola
(1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti del convegno
"Antonio Bernardi nel V centenario della nascita" (Mirandola, 30
novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, 2009. 978-88-222-5846-5 Aristotelismo Altri progetti Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio
Bernardi Paola Zambelli, «BERNARDI,
Antonio», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia Categorie: Vescovi cattolici
italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore1502 1565 3 giugno Mirandola
Bologna. EVERSIONIS SINGVLARIS
CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen , quantum quidem
poterimus , fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe
nitus ex animis hominum extirpare , ( utpote quod ab homine qui Chriſti ſeruatoris
noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia
edituseſtliber quidam , infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam
diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui
libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino
lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio
agorti{ eup vxbés oszy : tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere
conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò
uerborum faciem intuentes , interius autem non expendentes reconditam rerum
ueritatem , putauerunt eius libri quem diximus, auctorem , Ariſtotelis ſenten
tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no.
ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam
tantum abeſleut ille ( quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano
at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex
philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis
dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane
intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis
ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad
hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra
id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium
, uoluntas , quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm
loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ
fundamétum efle ,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera.
Verùm antequam ueniamus adipfius uerba , uideamus quam facilè hoc eius
fundamentum peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma,
quibus eius impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed
quia nos, qui deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem
Ariſtotelem conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis,
ponentes ea ante oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam , deſtinatis
ſententijs addicti confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile
intelligant quam iniuſtè, quàm etiam con . tra hominum utilitatem , iſte in me
quali grauiſsimum aliquod facinus admiſillem , inuaferit. Sed iam ad rem
ueniamus. Omnia ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ , non ex fancta
noftra religione permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte
loquitur:)ergo fun damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura
genera: & quòd ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum , &aliud nõ
permiſſum . Ex quo poftmodum emanat , me in libro Dehonore non eſſe lapſum ,
quia ignorauerim nomen &no. tionem , uim ; & originem fingularis
certaminis ,cum dixerim eius nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam ,apud Romanos
Singulare certamen: quia non fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm
nomina unius fpeciei uel generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod
antecedit, probemus in hunc modum. Illa certamina quorum eft idem finis , effe
etiam eiuſdem generis uel ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur
genus & ſpecies. Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a
diltinctione finium ſumpſit diſtin , a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem
illorum certaminum :ut ex fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2.
Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit :
Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia iuſtum eſt . Item inquit :
Determinatur enim & definitur u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem
&ſuperabundantia ut nominetur ad finem, &excellen " tia uirtutum
oporter. Si ergo unumquodq; determinatur &definitur fine : ſingu laria ergo
certamina decerminabuntur & definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una
erit ſpeciesſingularis certaminis :ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item
Ariſtoteleshæcſcripta reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű
mundo,tex.116 eſt ipſum eſt illius ſubſtātia . Quæ ergo certamina habent eundē
finē, ut fint etiam 1.Oeconom . eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé
fubftantiæ & formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia
illa ſingularia certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ , &
illud etiam genus quod nos conceſsimus in libris Deho . nore, ſunt certamina
ſingularia, quorum eſt idem finis :ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel
ſpeciei,neceſſe eſt. Minor probaturſic :llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt
eiuſdem finis. Propofi tio iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe
conceſsit ( utpugnare pro pa tria ,pro coniuge,pro regnis , honeſtum eſt finis
:ergo habent eundem finem . Sed oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem .
Sienim honeſtum non effet eo. rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene
inſtituta: quandoquidem Rer publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta ,
alioquin nõ eſec bene inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc
fimpliciter bona ſunt honeſta , & quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui
ergo facit pro patria, facit propter honeltatem . " Item , Viri fortis
finis eſt honeſtum . Qui pugnant pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore
. gno,ſuntuirifortes :ergo eorum quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro
filijs, pro regnis,eſt finis honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt,
declaraturtamen ab Ariſtotele his uerbis , quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam
citauimus ad aliud probandum : Finis enim, inquit, omnis actionis eft fe. ,
cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft honeſta, &talis eſt finis :
determinatur , ' & definitur unumquodq; fine.Honeſtienim gratia fortis
ſuſtinet &agit ea quę funt , ' ſecundum fortitudinem Ergo uiri fortis eſt
finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit: Oportet autem non propter
neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt . Item paulo poſt
inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira aūtadiuuatipſos." 1. Rhet...
Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis , funt honeſta & iufta: &
opera iu . ftè facta,ſupple ſunt honeſta. Bernardi (Ant.,
Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani, epiſco- /
pi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certa- / minis Libri XL. / In quibvs cvm
omnes inivriæ / ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum , & côtentio- /
num, quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio
traditur : & præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui
ſunt difficilimi, obiter expli- / catos. Animi etiā immor talitas ex ipfius
ſententia oſten- / ditur : Aſtrologiæ quoq ; diuinatio omni pene au- / toritate
fpoliatur, atque libertas hu- / mana ſtabilitur. / -- Ad amplißimum uirum
Alexandrrm Farnesium Cardinalem , S. R. E. Vicecancellarium . Acceſsit locuples
rerum & uerborum toto Opere / memorabilium , Index. --- Basilea, Per llen-
/ ricum Petri. [ W - 1 '] In folio, p. 694 n. e p. 18 n . n . al princ . Di
queste : 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum locuple tibimus Index.
Nel testo alcune iniziali con vignette . La stessa opera di questo autore,
detto da alcuni il Mi randola , dalla patria , e da altri il Caserta dalla
dignità , è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo : ANTONII BERNAR- / DI
Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm
ex professo / Monomachia ( quam Singulare certamen Latini, recentio- / res
Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, & / mox. diuina
authoritate labefactata penitùs euertitur : om- / nes quoq : iniuriarum ſpecies
declarantur, easq' ; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes
traduntur. Deinde / uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ / quàm
actiuæ, Loci / obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ
immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica
methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. / Ad amplißimum
uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem , S. R. E. Vicecancellarium . / - Acceſsit
locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium , Index. / - Basileae,
Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA 113 Bryling. |
Anno 1562. / - ( In fine :) Finis Qvadragesimi et vltimi i libri Euerfionis
fingularis certaminis. / [ * -Fer] In folio p. 694 con iniziali con vignette.
Al princ. 18 p. 1. n . pel titolo, pella dedica al Cardinale Far nese ( nella
quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi appropriata
un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index . Il Tiraboschi nel t . 1.o
della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere, che questa
seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione , della quale essố
aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa del Bernardi,
divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il duello ,
stampa il Maffei ( op. cit. , 1.a ed. , a p. 252) , che è stata stesa ; « con
metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori, che si
chiamano di Filosofia ; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion di
vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e talvolta
manifesti e • palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei ( a p. 264 ) , che
dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo . In
quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive
lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto,
quella di Venezia 1566 per il Valvassori, « sol per poche righe , che in alcuni
luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo » . - In quanto all'accusa
di plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino , essa è abbastanza
giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal
maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo , ma il Pos sevino non si fece
alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio.
È vero peró , che la pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del
Possevino, ma di suo fratello Antonio , che appartenne alla Compagnia di Gesù ,
ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non
pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata , ma Antonio Possevino non
avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più , che al dire
del Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta
all'orecchio la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero
autore del trattato sul duello , ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il
Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio
doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata. Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della
Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti, mono machia,
duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di
due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo
Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690032769/in/photolist-2mTpbrq-2mTdSm7-2mT5MZr-2mR7Xaf-2mPAWP1-2mN8Hgb-2mPtp3t-2mPV6V9-2mKEVTx-2mKMsLp-2mKHdnD-2mKBEmt-2mKAytU-2mKBsEN-2mKT4G5-2mKRu2r-2mKH3ZR-2mKGVxb-2mKDXUP-2mPE3Bq-2mKAuZM-2mKbpiZ-2mHGgw3-BpXH8h-CbigZ4-CiAmxk-CiA1AX-BK5eka-o5ZbYS-ncSGW3-nun896-njgV2D-nfDJGD-nhx6De-nhGayt-muuRMW-mutzz6-mut2s2
Grice e Bernardo – la tradizione
iniziatica italica -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Benne). Filosofo. Grice: “I
like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian philosophers
are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del Grande Oriente
d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare d'Italia. Diplomato
in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in Sociologia presso
l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì la carriera
accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza e di Logica,
nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e pubblicazioni sul tema
della filosofia delle scienze sociali e della logica delle norme. Fu iniziato alla massoneria nella loggia
bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro venerabile
della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno chiese e
ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di riservatezza
legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di riservatezza ebbe
la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese antico e accettato.
Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni della sua
maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa cattolica,
dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista Italiano, e
dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta Cordova" (dal nome
del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al centro di polemiche anche
con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di dimettersi dalla carica di Gran
maestro al termine della Gran Loggia annuale a Roma alla quale si era
presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto di una nuova
Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI gli succedette
il reggente Eraldo Ghinoi. La neonata
Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge fuoriuscite dal GOI,
caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese Emulation. Otto anni dopo
la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede alla guida dell'Obbedienza
Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine paramassonico, denominato
Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza regolare. Pur dichiarando di
essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo da anni si presta a rilasciare
interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a giornalisti che ad organi
inquirenti. Nel ha polemizzato con il GOI
dopo aver reso una dichiarazione alla Commissione Antimafia relativa a presunte
rivelazioni del defunto Ettore Loizzo (vedi ). Il GOI ha annunciato
l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione e calunnia. Il lo
stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il Gran Maestro del
GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a carico di Bisi
viene archiviata per insussistenza. Aldo
Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra cronaca e storia, Bastogi Editrice
Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn. Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo.
Aldo A. Mola. Pubblicazioni di Giuliano
Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del
deserto dal 1945 a oggi, GOI. Aldo A.
Mola, 801 e ss. Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova
Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order,
dignityorder.com. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani,
Gran loggia regolare d'Italia Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su
Giuliano Di Bernardo Intervista a
Giuliano Di Bernardo del, Predecessore Gran maestro del Grande Oriente d'Italia
Successore Square compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore
Gran maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg
Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università Università Filosofo del XX secolo Filosofi
italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di
Bernardo. Keywords. la tradizione iniziatica italica, logica dei sistemi
normativi, normativa sociale, l’implicatura del massone, psicologia filosofica,
Homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785611086/in/dateposted-public/
Grice
e Berneri – filosofia italiana nel ventennio fascista – filosofia italiana (Lodi). Filosofo. Grice: ‘I like Berneri; of course we need
to know more about his philosophical background and education – he represents
the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia militante,’ but then I
fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre originario di
Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in provincia di Brescia)
e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la famiglia dapprima a Milano,
poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in provincia di Vercelli) e,
infine, a Reggio nell'Emilia. Qui, da
una testimonianza di Angelo Tasca risulta che Camillo Berneri militava nella
Federazione Giovanile Socialista di Reggio Emilia già dal 1912 (da
"Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo
Masini, Milano, 1966, pag 109). Dopo essere stato membro del Comitato Centrale
della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver collaborato
all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni
dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato convinzioni
anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le dimissioni,
vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del
mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le ragioni del suo
dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del mio catecumenato
socialista". Nel 1916 si trasferisce ad Arezzo dove frequenta il
liceo. Chiamato alle armi ed escluso
dall'Accademia Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel
1918; quindi, ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in
occasione dello sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo
pseudonimo Camillo da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando
per anni a vari periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da
L'avvenire anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di
Ancona. Laureatosi in filosofia, insegnò
tale materia per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la
sua avversione al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i
contatti con gli antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto
Non mollare. Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica
italiana. Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente
in Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era
Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie
Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i
primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria
esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di
Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al
di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche
l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del
socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale
"Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa
secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e
G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli
ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si
dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle
incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di
classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso.
In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del
legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni
rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni,
si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione
ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma:
vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la
sostanza di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta
alla ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre
anarchici era nel governo di Largo Caballero.
Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti
politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza
del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la
socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente
impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai
comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero
così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti
antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i
miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte
circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa
resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le
giornate di Maggio. Il 5 maggio Berneri fu prelevato insieme con l'amico
anarchico Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le
rispettive compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati
crivellati di proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui
caduto in Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni
scrisse: "Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di
Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da
dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della
rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro
Nenni, Nuovo Avanti, Parigi). Altre
opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico”
(Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze);
“Un federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore,
Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia); “Nozioni di chimica antifascista”;
“L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora: Mussolini normalizzatore La donna e la
garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo
di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo
Berneri, Edizioni Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag
115-117) Mirella Serri, I profeti
disarmati. 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio,
2008. Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e
criteri di edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero,
Nicola Fedel (prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero,
Milano, , XVII-XIX , Enciclopedia UTET. Camillo Berneri,
Anarchia e società aperta, Pietro Adamo, M&B Publishing, Milano 2006.
Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica
all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il "programma minimo" dei libertari
del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri,
Mimesis, Milano 2007. Roberto Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri
e la tragedia dei libertari italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008.
Mirella Serri, I profeti disarmati. 1945-1948. La guerra tra le due sinistre,
Milano, Corbaccio, 2008. Flavio Guidi, "Nostra patria è il mondo
intero". Camillo Berneri e "Guerra di Classe" a Barcellona
(1936-37), pubblicato dall'autore, Milano . Giampietro Berti, Giorgio Sacchetti
, Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e democrazia.
Atti del convegno di studi storici, Arezzo, 5 maggio 2007, Archivio famiglia
Berneri A. Chessa, Reggio Emilia . Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista
all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione
Comandante Libero, Milano, ,
978-88-906018-9-7 Antifascismo
Archivio Famiglia Berneri Guerra civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti
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TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Camillo Berneri, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Camillo
Berneri, su Liber Liber. Opere di
Camillo Berneri, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri,
. Camillo Berneri, su Goodreads. Altri
particolari sul sito dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. 6 aprile 2006 31
agosto 2006). Carlo De MariaUn convegno e una nuova stagione di studi su
Camillo Berneri, su storiaefuturo.com 26 luglio 2007). Socialismo
LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario.
Abolizione ed estinzione dello stato (1936) Anarchismo e federalismo di Camillo
Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia Anarchia Biografie Biografie Politica Politica Storia Storia Filosofo del XX secoloScrittori
italiani del XX secoloAnarchici italiani
Lodi BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime
di dittature comuniste. Camillo Berneri. Keywords: normalizazzione, delirio
racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51710211987/in/photolist-2mRXUKj-2mQyhRc-2mKLGeD-2mPHbXQ-2mMsmt6/
Grice
e Berti – la morte di Cicerone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Valeggio sul Mincio). Filosofo. Grice: “I like Berti; of
course he has philosophised on the only two philosophers worth philosophising
about Plato and Aristotle – his interest is in the ‘number idea’ in Plato, the
unity in Aristotle, and various other things – notably Socratic dialectic as
the basis for both!” -- Grice: “I also
love his courtesy: cf. Sir Peter, “Introduction to logical theory,” versus the
gentle “Un invite alla filosofia,” – for philosophy needs to be invited to,
rather than intro- and extro-ducted to and fro’!” Professore emerito di storia della filosofia,
presidente onorario dell'Istituto internazionale di filosofia. Laureatosi in filosofia all'Padova nel 1957,
è stato allievo di Marino Gentile. Dal
1961 al 1964 è assistente presso l'Padova. Nel 1965 diventa professore di
storia della filosofia antica all'Perugia e nel 1969 di storia della filosofia
nella stessa Università. Nel 1971 si
trasferisce all'Padova, dove insegna storia della filosofia. È poi docente
anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di
Teologia di Lugano. Dal 1983 al 1986
presiede la Società Filosofica Italiana.
Nel 1987 vince il premio dell'Associazione internazionale "Federico
Nietzsche" per la filosofia, nel 2005 il premio Iannone per la filosofia
antica, nel 2007 il premio Santa Marinella e il premio Castiglioncello per la
filosofia, nel 2009 il premio "Athene Noctua" e nel il premio giornalistico Lucio Colletti. Nel è
nominato "doctor honoris causa" dell'Università nazionale
capodistriana di Atene e nel Honorary
Fellow dell'"Interdisciplinary Centre for Aristotle Studies"
dell'Salonicco. Pensiero Interessato
particolarmente alla filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le
tracce nella metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in
particolar modo per il problema della contraddizione e della dialettica. Berti si è poi inserito nella dibattuta
questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la
specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a
quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano
più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi
una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera»
della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi
dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità
(comprendente scienza, storia, individuo e società). Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica
della filosofia presocratica” (scuola di Crotone, la porta di Velia); “La filosofia del primo
Aristotele” (Padova, Cedam); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero
politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la
porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi
sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”;
“Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Cedam); “Ragione
scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di
Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola); “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino);
“Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos); :Le ragioni di
Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza);
“Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica,
Torino, UTET); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele
e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero
occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia
antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza,
Roma-Bari); Sumphilosophein. La vita
nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici”
(Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della
verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un
"falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza:
dialogo perduto contro i governanti ricchi.
Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E.
Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e
riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica
Italiana È membro delle seguenti
accademie e istituzioni scientifiche:
Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie
Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture
Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia
delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana
di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note festivalfilosofia, su festivalfilosofia 15
novembre 2008). Enciclopedia
multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai. 10 settembre 27 settembre ). Biografia Enrico Berti [collegamento interrotto], su
comune.ancona. Aristotele Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Enrico Berti, .
Registrazioni di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale. Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti
scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo
del XX secoloFilosofi italiani Professore1935 3 novembre Valeggio sul
MincioProfessori dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli
Studi di PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei
LinceiStorici della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati --
Parmenide -- Zenone, Melisso -- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA
A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e
Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res
publica – “De republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”,
Cicerone e la filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785770523/in/dateposted-public/
Grice
e Bertinaria – l’indole e le vicende della filosofia italiana – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical
cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified
‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’
has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo.
Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha
curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer,
professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di
filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della
Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel
1892. Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino);
“Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e
le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia
e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno
di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere
sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp.
sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e
Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia
dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea
latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni
con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour,
Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia
della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione,
Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il
positivismo e la metafisica” «Riv. cont.», Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e
Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e
condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione
ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile
universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale”
(Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato
sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il
problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le
dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi,
FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice,
Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda,
FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova”
(Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia
trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e
letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia
della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione
dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di
letture e conversazioni scientifiche di Genova», Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema
capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota
storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi,
Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F.
Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia
della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R.
Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione,
Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria,
«Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani,
T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia
trascendente.Discorso, Genova 1876, FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi
ultima del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, XII,
1881, XXIII, 3-28, 231-249; XIII, 1882, XXVI,
84-95. Estr.: Roma 1882. Tolomio,
249-266. Note Bertinaria, su dif.unige. Piero Di Giovanni , Un secolo di filosofia
italiana attraverso le riviste 1870-1960, FrancoAngeli, 304,
978-88-56-86938-5. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su
Francesco Bertinaria Opere di Francesco
Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie Biografie Letteratura Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti
italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore1816 1892 Genova. TAVOLA
GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA ( 1 ) ( Secondo la legge di
creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi
zionalmente un essere razionale, vale a dire un ente creato, soggetto alle
condizioni della sua vita presente ossia all'orga namento terrestre. = UOMO
MORTALE . A ) Teoria o Autotesia ; quello che v’ha di dato nello spirito
dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create . a ) Contenuto,
ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ ELEMENTARI (in
numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE . a4) Elemento
fondamentale ossia neutro ; facoltà di sapere, = COGNIZIONE (Kenntniss]. (I)
64) Elementi primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non - Io . =
RAPPRESENTAZIONE ( Vorstellung]. ( II) ( 1 ) Per la lettura delle nostre Tavole
genetiche noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a siffatta
esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica , ch'è la sola
rigorosamente logica , le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa sono
notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore
d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In
tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno
di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b) ;
ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 )
; ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto
classi , designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè
ciascuna di queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA
-3 34 TAVOLA GENETICA 65) Cognizione dell'Io . = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III)
63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati
ossia distinti . a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. =
SENSIBILITÀ. (IV) Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno.
65) Combinazione della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui
hanno luogo l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale ( quella che
si trova incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo) . 64)
Elementi derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione
dalla Sensibilità all'Intelletto . = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota.
—Qui hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto
alla Sensibilità . = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA . (VII) Nota. — Qui hanno luogo
la Costruzione e la Fantasia . 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE
(in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli
elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della
Rappresentazione nella Coscienza . = SENTIMENTO. ( I) 65) Influenza della
Coscienza nella Rappresenta zione. = COGNIZIONE . (II) b4) Influenza reciproca
di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e
la Coscienza per mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle
Cognizioni. = COMPRENSIONE. ( III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio
teleologico ( per la cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico ( per la
cogni zione del bello e del sublime) . DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63)
Identità finale nella riunione sistematica dei due ele menti distinti, della
Sensibilità e dell'Intelletto , per mezzo dell'elemento fondamentale ossia
neutro , for mante la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo,
nell'aspetto speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il
GENIO, e nel l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità
, la VOLONTÀ. b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte
elementare della costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4)
Per l'elemento fondamentale ; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE. 64) Per
gli elementi primordiali : a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5)
Forma della Coscienza. = SUBJETTIVITÀ . 63 ) Per le facoltà organiche : a4)
Immediate o distinte . a5) Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE ( An
schauung). 65) Forma dell'Intelletto. = CONCETTO ( Begriff ). 64) Mediate o
transitive. a5) Forma dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE . 65) Forma
dell’Immaginazione produttiva. = SCHEMA. 62) Nella parte sistematica della
costituzione psicologica. a3) Nella diversità sistematica . a4 ) Per
l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma del Sentimento. =
APPRENSIONE . 65) Forma della Cognizione. = APPERCEZIONE . 64) Per la loro
influenza reciproca ; forma della Com prensione. = RIFLESSIONE. 63)
Nell'identità finale degli elementi distinti ; forma della Potenzialità . = AZIONE
[Thaetigkeit ). 36 TAVOLA GENETICA B) Tecnia o Autogenia ; quello che bisogna
fare pel compimento delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel
contenuto ossia nella costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di
questa costituzione. ' a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al)
Compimento della Sensibilità . = PERFEZIONE ESTE TICA. 64) Compimento
dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA . Nota. —I caratteri di questa doppia
perfezione, estetica e logica, sono : l'estensione, la chiarezza, la varietà ,
la precisione, il complesso e la certezza . 63) Per gli elementi mediati o
transitivi. a4) Compimento dell'Immaginazione riproduttiva , per la legge
d'associazione delle immagini. = As SIMILAZIONE ( spiritualizzazione delle
intuizioni). 64) Compimento dell'Immaginazione produttiva , per la legge di
schematizzazione delle idee. = MOSTRA ( corporificazione dei concetti ). 62)
Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento
dell'armonia prestabilita ( préfor mation primitive] nei due elementi
primordiali, nella Rappresentazione e nella Coscienza ; la quale armonia
prestabilita fornisce le ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca (
facultas signatrix ) dei concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni
per mezzo dei concetti. = LINGUAGGIO ( in generale). 63) Per il compimento
dell'identità primitiva negli ele menti distinti, nella Sensibilità e
nell'Intelletto ; la quale identità fornisce il compimento della Potenzialità
per via d'indefinita ascensione ai principii, e per mezzo d'indefinita
deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema delle umane cognizioni. =
RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella relazione psicologica.
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 37 a2) Nella parte elementare di questa stessa
relazione; com pimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella
generazione delle cognizioni umane, siccome regola ossia canone psicologico. =
METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com
pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale negli oggetti
delle cognizioni umane, siccome pro blema universale della Psicologia. = IDEE (
trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II. Facoltà spirituali ed iperfisiche
dell'uomo, le quali ne fanno in condizionatamente un essere razionale , vale a
dire un ente assoluto , indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO
IMMORTALE . Nota. - Questa seconda parte della vera psicologia, da niuno finora
avvertita, appartiene solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa
non potrebbe in alcun modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà
che ne formano l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì
creatrici, vale a dire poste fuori del mondo creato , dove si trovano gli
oggetti dell'osservazione e dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A)
Teoria o Autotesia ; quello che vha di dato nell'ipostasi dello spirito
dell'uomo per poterne ricavare le sue facoltà iper fisiche ossia creatrici . a)
Contenuto ossia costituzione eleuterica . a2) Parte elementare. = FACOLTÀ
CREATRICI ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ
PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale o neutro ; principio ipo statico
nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE . ( I) 64) Elementi primordiali o polari. a5
) Coscienza potenziale del Non - 10 . = ALTERIETÀ . ( II) 65) Coscienza
potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. ( III) 38 TAVOLA GENETICA 63) Elementi derivati.
= FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati o distinti. a5)
Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al terietà . = ETERONOMIA . (IV)
65) Combinazione della Coscienza potenziale con l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64)
Elementi derivati mediati o transitivi. a5) Transizione dall'Eteronomia
all'Autonomia . = RELIGIONE RIVELATA . (VI) 65) Transizione dall'Autonomia
all'Eteronomia . = RELIGIONE ASSOLUTA . ( VII) 62) Parte sistematica . =
FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione
sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza
parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. = ETEROTELIA . ( I) 65) Influenza
parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA . ( II) 64) Influenza
reciproca di questi elementi primordiali ; armonia sistematica tra l’Alterietà
e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione propria
dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. ( III) Nota. Questo è il principio più alto della
filosofia di Hegel ; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem meno
l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente peristilio.
63) Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti
dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro
, formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA
ASSOLUTA . (IV) b) Forma o relazione eleuterica. a2) Nella parte elementare
della costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le
facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale ; formadella Coscienza
potenziale. = GENIALITÀ . 64) Per gli elementi primordiali. a5) Forma
dell'Alterietà. = RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. =
PROPRIETIVITÀ ( nella co scienza ). 63) Per le facoltà organiche : a4)
Immediate o distinte. a5) Forma dell'Eteronomia . = MORALITÀ . 65) Forma
dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 ) Mediate o transitive. a5) Forma della
Religione rivelata . = GRAZIA. 65) Forma della Religione assoluta . = MERITO.
62) Nella parte sistematica della costituzione eleuterica. a3) Nella diversità
sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma
dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE . 65 ) Forma dell'Autotelia. =
INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca ; forma dello Spirito. =
SPONTANEITÀ. 63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma
dell'Assoluto nella coscienza . = RAZIONALITÀ CREATRICE . B ) Tecnia o
Autogenia ; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o
creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2)
Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o
distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia ; stabilimento proprio, operato
dall'uomo stesso, del suo essere assoluto . = AUTOTESIA . 40 TAVOLA GENETICA
DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia ; stabilimento
proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto . = AUTOGENIA . 63)
Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata
. = Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO . 64) Compimento della Religione
assoluta . = Per mezzo della LEGGE DI CREAZIONE . 62) Nella parte sistematica
di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita
(préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e
nell'Ipseità ; armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione
della Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO. 63) Per il compimento
dell'identità primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e
nell'Autonomia ; identità che fornisce il compimento dell'Assoluto nella
coscienza per mezzo della sua identificazione col Verbo, come legge suprema
della creazione propria dell'ờomo. = ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE
(nell'ipostasi della coscienza umana ). b) Nella forma o nella relazione eleuterica.
a2) Nella parte elementare di questa relazione; compimento delle facoltà
organiche in ordine all'uniformità nella pro pria creazione umana, come regola
o canone eleuterico per la liberazione dell'uomo dalle sue condizioni fisiche.
= RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO. 62) Nella parte sistematica di questa
stessa relazione ; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine
all'identità finale nel risultamento della propria creazione umana, cioè in
ordine all'individualità assoluta dell'uomo, come problema universale di questa
parte eleuterica della Psi cologia. = CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO ( Immortalità
). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA . PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI
HOENATO WRONSKI PARTE PRIMA PSICOLOGIA FISICA Facoltà spirituali e fisiche
dell'uomo, le quali ne fanno condi zionatamente un ESSERE RAZIONALE , vale a
dire un ente creato , soggetto alle condizioni della sua vita presente , ossia
all'organamento terrestre. - UOMO MORTALE . Commento. — In questa prima parte
della Tavola genetica della Filosofia della Psicologia l'Autore tratta
solamente delle facoltà spirituali da lui dette fisiche per ciò ch'esse sono
date immediatamente dalla natura , e si svolgono per necessità della
costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare delle facoltà
iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa . L'Autore dice che le
facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere razionale, e
spiega l'avverbio , chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente fornito di
tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita presente.
Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente iniziato
alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo d'inarcare le
ciglia udendo queste espressioni ; ma colui il quale sappia che l'Autore
ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente supremo,
e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine eterono
mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito creato , e
costituisce, rispetto allo spirito stesso , l'ordine autonomico governato dalla
libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che l'uomo, quale creatura
di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza soggetto alle
condizioni 44 PARTE PRIMA dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è
vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo ; e quale autore del
proprio svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di
se stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini
di umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi,
sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il
primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in
dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità
eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si
vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così
diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma
condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente
razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia. Presso le
colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di
Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna ;
imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per
l'arte orato ria e la poesia lirica , per un'eccellente scuola me dica
stabilita in Crotone, città salita a prospera for tuna , e per molti vincitori
ai giuochi olimpici , che quivi ebbero i natali . $ 65 PITAGORA da Samo, nato
verso il 584, portossi a Crotone e dimorò per lo più nella Magna - Grecia. La
sua vita è oscura e molto favolosa . Egli fu dotto particolarmente in
matematica , musica teoretica, astronomia e ginnastica . Le favole lo dicono
tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere figlio d'Apollo e
d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi nello stesso tempo.
Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il dono della ricordanza
della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe ridestare la medesi PRIMO
PERIODO -- PITAGORICI. 91 ma in altri . Egli sentiva l'armonia delle sfere
celesti , e venne considerato come una divinità . Però è che si parla di un
culto sacro e di orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete
, ed essere stato educato dai sacerdoti egiziani ; ma da se stesso si procacciò
la maggior parte di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui
si professavano i principii politici dell'aristocrazia : Pri ma che un
individuo venisse accettato in quella do veva subire prove. I membrisi
distinguevano in eso. terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale
società praticavanşi esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e
regole, parole simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (
ovo oltia ) e funerali ; ma non già comunione di beni. I fini principali della
società erano prima la mo rale religiosa , poi la scienza , particolarmente la
matematica e la musica . La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli
interessi politici nelle città di Crotone, Sibari , Metaponto, Locri e Tarento
; ma essendo stata cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e
fors’anche lo stesso Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I
Pita gorici perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica . A
molti di essi, come Timeo , Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti
scritti, e le lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano,
come pure i versi d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici
i migliori sono Filolao ed Archita , e dei primi scritti riman gono ancora
frammenti. 92 FILOSOFIA GRECA S 66 Quantunque la filosofia pitagorica abbia
seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua unità . L'esporre
la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute de'varii
scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi vasi quella
scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui s'impiegavano. -Come
Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo aveva dato forma al Caos
e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità generata dall'unità , ossia
dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il principio (apxn) di tutte le
cose. Il numero è pensato come uno, però anche quale unità di due antitesi ,
del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono i principii delle cose . La
diade è il principio della sostanza informe, ossia il numero indeterminato ; la
monade è il principio ordinatore. La sostanza informe viene alla pluralità ed
alla varietà per mezzo dell'unità ; però tutte le cose si fanno ad imitazione
del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il numero . è il principio
generale tanto della natura , quanto della cognizione. Cosi l'uno è l'essenza
del numero, il numero semplicemente , il fondamento di tutti i numeri, l'unità
suprema, la divinità nel mondo . I Pitagorici dissero triade il numero del
tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e fine. La tetrattisi è
importante, perchè i primi quattro nu meri formano assieme dieci , ed i primi
quattro PRIMO PERIODO — PITAGORICI. 93 pari e dispari formano trentasei; parimente
im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio di tutte
le cose. Nell'essenza del numero , ossia nell'unità suprema, si contengono
tutti i numeri , e per conseguenza gli elementi della natura e dell'universo.
Questa teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo inventato da
Pitagora. Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce l'ottava ;
cosi il tono fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2 : 1 , che è
la perfetta proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà 2/3 della
corda divisa, la quinta che sta al tono fondamentale come 2 : 3 ; così 3/4
della corda dà la quarta , che sta al tono fondamen tale come 3 : 4. Questi tre
intervalli formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei segni 1 ,
2 , 3 , 4. L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura sono
compresi nelle seguenti dieci antitesi : 1. Limitato , illimitato : 2. Dispari,
pari : 3. Uno , più : 4. Destro , sinistro : 5. Mascolino, femminino: 6. Quiete
, moto : 7. Retto , curvo : 8. Luce, tenebra : 9. Buono, cattivo : 10.
Quadrato, rettangolo . Tuttavia non furono escluse altre antitesi. L'uno 94
FILOSOFIA GRECA è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati , come
principio e come sintesi di tutte le an titesi . Nelle antitesi il primomembro
significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal
perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri,
perchè è pari e dispari nello stesso tempo , non solamente è il principio del
perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto , ossia il buono, non è dunque
primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade ; perciò avviene in
prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile ; imperocchè
l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo
sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento
delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella
tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato . Il
limitante è secondo loro, rispetto ai corpi , una pluralità di punti che
formano un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo
spazio di mezzo ; la quale espressione aveva grande significato nella musica e
geometria loro . Dagli spazii musicali mezzani , ossia intervalli, essi
derivavano l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio
e la fine, l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la
geometria secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli , la
superficie da due , la linea da un solo ; il punto non ha intervallo , è l'u
nità . Dal limite e dall'illimitato , ossia dalle unità e dagli intervalli ,
viene la grandezza dello spazio . PRIMO PERIODO -PITAGORICI . 95 Ma d'onde lo
spazio mezzano ? Il secondo membro delle loro antitesi è il negativo ; perciò
l'illimitato, o lo spazio mezzano , è il vacuo. La separazione delle unità ,
ossia numeri , avviene per mezzo del vacuo ; questo è dunque principio e
solamente un'altra espressione dell'illimitato o pari , perchè tutti i membri
posteriori delle antitesi possono es sere mutati, e cosi anche i membri
anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno l'origine del mondo ? Le
cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani , esse formano un numero
di unità , ed in ciò consiste la loro natura e la loro origine, non 'secondo il
tempo , ma secondo la maniera umana di pensare. L'unità suprema come circon
data dall'infinito , ossia dal vacuo, si sforza di di vidersi in antitesi e di
ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una pluralità di cose per mezzo
dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce in più parti affinchè entri
nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo fondamento nel limite .
L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto l'alito ossia la vita del
mondo . Perciò bisogna prendere il mondo come numero , come unità, le quali
sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva , e separate dallo spazio
mezzano . Dalla composizione delle unità provengono diverse relazioni, che sono
ordinate armonicamente e con simmetria . Il legame di ogni relazione è
l'armonia . Ora l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità suprema, essa è
il principio dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed anche l'armonia è
di bel nuovo il principio dell'u 96 FILOSOFIA GRECA nità di tutte le cose . Ma
nell'armonia è pur anco compreso il concetto di ordine. Avuto riguardo all'
importanza della deca , adottavano dieci corpi mondani che si trovano in armoniche
distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono fondamentale all'ot tava adottavano
sette -vocali. La monade è il punto, la diade la linea , la triade la
superficie , la tetrat tisi il corpo geometrico, la pentattisi i corpi fisici.
In questo modo arbitrario continuavano essi a porre cinque elementi, e dicevano
paragonando : Il cubo significa la terra, la piramide il fuoco, l'ottaedro
l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto elemento . Il
migliore di questi ele menti è il fuoco , probabilmente perchè fra le dieci
antitesi la luce e l'inerte significano il perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo
del mondo ed è la guardia ο castello di Giove ( Διός φυλακή .Ζηνός πύργος) , ha
la forma di un cubo, perché questo, essendo consi derato il corpo più perfetto
a cagione dei tre inter valli simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u
niverso ; il qual fuoco si forma prima da sè e guida poi la formazione del
mondo. Dal mezzo il fuoco si spande per tutto l'universoe lo abbraccia .
Attorno al fuoco centrale sono ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo
delle stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna , la terra e la
controterra ( artiyJabí), il quale ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano
in direzione circolare, ad eccezione della terra im mobile nel mezzo (
probabilmente con la contro terra ), e la quale contiene il fuoco ; perchè
anche il mondo intiero corrispondente alla deca è una PRIMO PERIODO PITAGORICI.
97 palla : onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi rende un
tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla nostra
so stanza , e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del silenzio
, l'armonia delle sfere è senza pausa . I corpi circolanti sono otto solamente
, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni , talchè la sfera
delle stelle fissé ha il tono più basso , quello della luna il più alto .
L'imperfezione è particolarınente sulla terra ; però la luna e gli altri mondi
sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato
ed in appa renza molto fortuito ; essa stessa è soggetta all'in stabilità . S
67 Si annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in
senso morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale . L'anima
dell'uomo è parimenti un numero od armonia , l'intelletto o pensiero è l'uno ,
la scienza il due , l'immaginazione il tre , il sentimento il quattro. L'anima
è inserita nel corpo pel número e relazione armonica del corpo , perciò non è
corporea , ma solo apparente in una relazione corporale . Vi sono anche anime
prive di corpo che hanno vita di fan tasma , e le quali non sono mai entrate in
alcun corpo o di nuovo ne sono uscite ; queste sono i de moni . A questo si
riferisce la dottrina esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa
dopo H 98 FILOSOFIA GRECA morte, a cui conseguita la personalità e l'immor
talità dell'anima. L'unione dell'anima con un corpo è la pena di qualche
empietà ; la vita terrena è uno stato d'infelicità , ma necessario ed ordinato
al buo no per mezzo dell'unione col tutto . L'anima umana possiede l'essenza
ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle bestie solamente la
seconda , però ha qualche germe d'intelligenza . La virtù è armonia, la
giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la cura divina :
il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei Pitagorici
si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico ; essi inculcavano la
moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore, l'amicizia, il
lavoro , la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina pitagorica è
in parte etica , rappresentata dall'armonia e dalla musica, in parte fisica per
la matematica , pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della sensibilità ;
la quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in una pluralità
di cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve unire ambe
queste parti . L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua attività, nello
sviluppo mondano della sensibi lità è composta ; il soprasensibile ossia
l'unità su prema è indeterminato . In ciò sta riposta senza dubbio l'idea di
Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato con cui si
presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle cose
singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente
matematica PRIMO PERIODO -PITAGORICI 99 della provvidenza divina . Onde
l'applicazione di questa dottrina alla parte spirituale è difficilissima.
Pertanto la dottrina pitagorica è nell'etica tanto difettosa , quanto pare
siano stati eccellenti i parti giani di essa nell'esercizio della virtù .
I lonii e Pitagorici tentarono spiegare l'origine del mondo ; essi
ammettendo la produzione delle cose riuscirono realisti . Per l'opposto gli
Eleati sono idealisti, tendono alla cognizione del non -sensibile ed affermano
: Nulla viene all'essere, tutto esiste. Il nome loro proviene dalla città
d'Elea nella Magna Grecia , dov'era la sede principale di questa scuola
filosofica . S 69 SENOFANE da Colofone, sede della poesia epica e gnomica ,
contemporaneo di Pitagora, si portò verso il 536 ad Elea nella Magna Grecia, e
fu prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo frammenti delle sue opere . La
sua tesi fondamentale è questa : Dio è, e non può divenire; come pure in
generale nis 100 FILOSOFIA GRECA suna cosa può cominciare ad esistere ;
imperocchè il generato dovrebbe essere uguale al generante , epperò ambi non
sarebbero fra loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio , che il
più pic colo nasca dal più grande e vi ritorni , si deve attri buire
all'opinione insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta
da ciò che esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio , il quale
forma col cielo e la terra un essere solo , unico (in TÒ öv xai tò Tây) . Per
conseguenza il politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i
miti immorali . Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è
mosso e limitato , nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono
pro prie della pluralità , le altre appartengono al non esistente. Dio è
perfettamente uguale perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura
intelli genza, considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo
tali principii era impossibile una spiegazione della natura . Cosi egli oppose
alla verità l'opinione, ossia l'intuizione sensibile ; ep però non seppe
trovare il nesso tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che
l'ignoranza sia retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista ; ma
importante il suo pensiero dell'essere assoluto . S 70 PARMENIDE da Elea fece
verso l'anno 460 con Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate .
PRIMO PERIODO 101 . ELEATI . Egli sviluppò il sistema di Senofane ; tuttavia
non prese le mosse dal concetto di Dio , ma da quello dell'essere e del non
-essere, della certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio
siccome quella che è riposta nell'esistente . Secondo lui v'ha un doppio
sistema di conoscenza , quello della ra gione ossia del vero , e quello dei
sensi ossia del l'apparenza . Il suo poema sulla natura trattava di ambe le
maniere, ma dai frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della
seconda. Es sere , pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile,
tutto l'essere è identico ; perciò il reale non lią cominciamento, è
invariabile, indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita,
sussi ste per legge di necessità : onde qualunque cangia mento, qualunque
movimento è mera apparenza . Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da
una legge, per cui le rappresentazioni delle cose sono costanti ( 80% a ). A
fine di spiegare la natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii ,
il caldo, ossia il fuoco etereo , il freddo ossia la notte della terra ; il
primo è penetrante, positivo , reale , pensante ( Saucoupyós), epperò più
vicino alla verità; il secondo è denso , pesante (@an) , negativo, sola mente
una limitazione del primo . Questa dottrina della natura è meccanica . Da tali
due principii de rivò egli tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso
interno. L'uomo è un composto di fuoco etereo e di notte, per conseguenza
partecipa alla cognizione della verità ed all'apparenza . : 102 FILOSOFIA GRECA
$ 71 MELISSO da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come politico e capitano
di flotta contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e prese a combattere
particolarmente la filosofia naturale della scuola ionica. Non si deve far
parola degli dei, perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna di tali enti.
Presso Melisso ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste è infinito,
non è prodotto , nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione, perché avvi
un essere solo e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la densità .
L'esistente non può essere diviso, cosi non ha parti , non è corporeo . La plu
ralità è sola apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato di
vita . $ .72 ZENONE d'Elea , discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo
un viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile
dialettica , quanto per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la
propria vita a difesa della patria . Egli sostene va il sistema di Parmenide in
ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la
pluralità delle cose , ne dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero
infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima condizione perchè
risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggre PRIMO PERIODO - ELEATI.
103 zo . gato non può produrre grandezza ; la seconda con dizione perchè
risultano da una quantità infinita di parti sempre più estese e per conseguenza
divisi bili. Qui il sofisma consiste in ciò, che nel primo caso suppone
l'indivisibilità , nel secondo la rigetta. In seguito diceva : la pluralità è
ad un tempo limitata ed illimitata ; limitata perchè più o meno determinata ,
illimitata perchè ogni distanza da un punto di una grandezza fino all'altro è
infinito , avuto riguardo all'infinita quantità di parti di mez Egli contestava
il movimento per le contrad dizioni inerenti a questo concetto ; imperocchè bi
sogna che lo spazio misuratore , il quale consta di parti infinite , venga
percorso in un intervallo limi tato . Onde l'argomento detto l'Achille, con cui
af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio d'un passo avanti, non
potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza non cesserebbe mai
appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi che non dovevasi
accettare la dottrina del movimento , risultando da semplici momenti di quiete,
in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in qualche parte . Lo
spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità ed il mo vimento
non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale , esso dovrebbe trovarsi in
uno spazio , giac chè ogni realità è compresa in quello, epperò una
continuazione senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la contenesse.
Queste prove apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione con traria ,
sono sofistiche per lo scambio delle forme 104 FILOSOFIA GRECA rappresentative
logico -matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore
obiettivo. Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità
all'espansione, ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della
ragione e dell'espe rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello
scetticismo , che ben presto venne continuato dalla scuola di Megara e
finalmente corruppe tutta la filosofia greca . $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in
Sicilia , verso l'anno 460, naturalista, medico, celebre come taumaturgo,
perfezionò la fisica degli Eleati, siccome Zenone la metafisica . L'unità delle
cose è il mondo, simile ad un globo, ragione per cui lo chiama opalpos, opera
perfetta dell'amore, da lui governata, a lui iden tica. La materia e la forza
non si decompongono. L'amore irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un
tempo necessità : dipende da tutto pel con trasto delle forze . Essendo l'uomo
solamente una parte della divinità , la cognizione umana non può essere che
imperfetta ,''e quantunque conosca gli elementi del tutto , non può penetrarne
l'unità , che Dio solo può comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza
movente . Le forze solamente movono, ma non variano le cose ; però questa
dottrina della natura è meccanica . Egli è impossibile che il nulla produca
alcuna cosa , e che venga a mancare ciò che esiste . Egli ammette quattro elementi,
fra i PRIMO PERIODO - ELEATI. 105 quali dà preferenza al fuoco, considerandolo
come l'essenza divina delle cose ; imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in
esso tutto si risolve. La sepa razione avviene per odio , ma senza che riman
gano intervalli vacui. L'amore congiunge le cose eterogenee , l'odio le
omogenee, operando la sepa razione del composto. Vi sono periodi nella for
mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola mente una parte del tutto , il
dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche solo presente nella rappre
sentazione. Prima si formano le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la
terra, poi da questi pro vengono le organiche per mezzo dell'amore ; le piante
e gli animali si formano dal concorso degli elementi, ma in principio le membra
esistendo se paratamente hanno prima luogo i mostri. La na tura organica
essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli
spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto , epperò sono neces sarie le
purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e partecipa alla conoscenza. Gli
elementi non godono di vita pacifica, essendo svelti dallo sfero, mossi
dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza propria metempsicosi. Tale
migrazione per tutte le forme è la miseria delle cose , conseguenza dell’o dio
. Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a more. Non v'ha guarentigia
d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La cognizione de' corpi ha per
fondamento l'osservazione sensibile , ed è opera dell'unione meccanica de'corpi
per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e delle correnti che pene 106
FILOSOFIA GRECA trano in altri corpi per via de'pori (xotha ). L'unione delle
impressioni sensibili nella coscienza, spiegasi col congiungersi del sangae nel
cuore . Questa co gnizione procura l'opinione, ma non il vero sapere. La
cognizione divina è somministrata dalla ragione ed avviene in maniera mistica
per mezzo della pu rificazione. — La filosofia di Empedocle è il primo tenue
saggio per rettificare le nozioni sensibili coi puri concetti della ragione, e
disgiungere dai feno meni fisici la cognizione del vero reale, ossia il
fondamento sensibile delle cose. La sua fisica ha tutti i difetti della
spiegazione meccanica della na tura . Anch'egli si duole della ristrettezza
dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò la morte nel cratere
dell'Etna . Empedocle aveva scritto un poena didattico sulla natura, ma non ne
perven nero a noi che frammenti. GORGIA da Leonzio , verso l'anno 440, discepolo d’Empedocle, fu
anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e buono. Egli si
portò 112 FILOSOFIA GRECA in Atene in qualità d'ambasciatore , si attirò gli
sguardi per una nuova maniera oratoria , viaggið all'intorno , raccolse molto
danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue orazioni sono
meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde. Egli si
vantava di parlare all'im provviso di tutto , sia brevemente sia a lungo, e di
sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria consiste in
artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù, tenendo l'arte
di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati pose il non
- esistente . Egli sosteneva tre tesi : 1 ° egli v'ha niente , nè l'essere nè
il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve aver principio
o deve averlo , od ambi assieme. Se non ha principio è eterno , perciò un non -
essere , è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od in se stesso
od in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo contenente e
contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito ; però ambi
i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o dall'esistente
o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la presupposizione eterno e
non avrebbe principio , nel secondo dovrebbe il nulla come non esistente,
produrre alcuna cosa . Ma il nulla esistendo, l'es sere dovrebbe essere non
esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti . L'essere poi non po
trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per essere un'antitesi.
Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti l'essere PRIMO
PERIODO - ATOMISTI E SOFISTI. 113 stesso non potrebbe essere . 2° Quand'anche
qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe conoscere , perchè non si può
pensare che il pensabile, non il reale che è fuori del pensiero. Vi ha
differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è vera , maGorgia ne
fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile ,
essa pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso
si possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli
ele menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a
frontedella verità puramente razionale ; Gorgia si prevalse degli elementi
della dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa ,
essendo contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo
solamente produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della
filosofia greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da
Dio; i primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come
dellaforza prima della natura o della vita ; imperocchè per essa solamente
intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica ,
finchè Anassagora separò Dio dalla materia , però ad ambi attribuendo pari
originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati
rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma 114 FILOSOFIA GRECA
non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo,
cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap
parente. Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente
Dio, la religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale
in un canto . Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col
suo ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al
morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo
eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate , quantunque egli non
abbia seguito la direzione scientifica , ma solo la pratica e religiosa. A ciò
conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la
natura, Dio e la moralità ; ma anche questi uomini dovettero soccombere al
grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il
secondo . Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul
finire del primo periodo , a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera
degli Scettici prese a domi nare il dubbio ; si cercò invano di risolvere il
pro blema dell'unione della materia e dello spirito , dell'intuizione e del
pensiero , e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la
fi losofia greca , avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e
la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione intellettuale
e morale. I Romani non ebbero mente filosofica . Essi ac colsero la
filosofia greca , particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e
Tito LUCREZIO TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. 177 ne fece soggetto di
un poema didattico , cui diede l'antico titolo : Della natura delle cose ;
anche più famigliare si resero la dottrina stoica , che accor dandosi
all'antico carattere romano, esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed
amministrazione, e trovò ancora rinomati partigiani al tempo del l'impero ,
cioè Lucio ANNEO SENECA , maestro di Nerone, autore di molti scritti
filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia , verso lo stesso tempo, schia vo ,
il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compilò in greco un piccolo
manuale ( éyxezpidcov) secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO
, imperatore romano dall'anno 164 fino al 180, autore di meditazioni in lingua
greca sotto il titolo : Eis éautóv. Seneca fu più eclettico , Epit teto si
attenne ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον
και απέχου , 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di
dolcezza e pietà ; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della
filosofia stoica . Che se questi Epicurei e Stoici romani si mantennero fedeli
ad un solo sistema , MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di un compiuto
eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a rendere acces
sibile ai Romani la filosofia greca , quanto gli mancò originalità filosofica .
Nella pratica preferi il sistema stoico, nella teoretica l'accademico,
accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico . In generale poi le dottrine di
Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani tesori
nascosti. Francesco Bertinaria. Keywords:
l’indole e le vicende della filosofia italiana. Refs.: determinazione
dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688571982/in/photolist-2mKxrDy
Grice
e Berto – reductio ad absurdum – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “I like Berto, but then, my
first unpublication is on negation and privation! Against my tutee, Sir Peter,
I always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but the
consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano used
to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” -- Grice: “If Peirce (I lectured on him for
years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate
with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as
‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can
be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s
genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical
question: che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!”
– “He is friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia
con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa
università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un
post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato Chaire
d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia all'École
Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della Scienza e
della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced
Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche
all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute San
Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van
Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla
University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al
dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair
all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van
Amsterdam. Nel 2007 ha vinto il Premio
Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani, con il libro Teorie
dell'assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione. Nel
l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha assegnato il Premio
Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani ricercatori. Nel ha
ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento di 240.000
sterline per il progetto "The Metaphysical Basis of Logic". Nel ha
ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro
per il progetto "The Logic of Conceivability". Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che
cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per
Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza);
“Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali
del Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica
hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La
Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”;
“Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il
Giornale di metafisica. Comune
RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno. 3 febbraio 19 luglio ).
Università Ca'Foscari di Venezia, su unive. 23 aprile 20 luglio ).
Aberdeen Amsterdam Archiviato il
12 febbraio in . Aberdeen Archiviato il 9 settembre in .
PhilPapers.org Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford
Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23 aprile 23 aprile ).Filosofia Filosofo del XXI
secoloLogici italianiAccademici italiani Professore1973 10 luglio
VeneziaProfessori dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti
dell'Università Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad
absurdum, pegaso, il quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System
Q, Myro’s System G, Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica,
contradizzione, negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione,
Hegel e la contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto,
incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino
come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di
predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della
dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian
dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica
ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786036434/in/dateposted-public/
Grice
e Betti – la lupa; ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e
sociale nell’antica Roma – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Camerino). Filosofo. Studia
a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi del
principato in Roma). Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di
Camerino e nel 1915 vince il concorso per la libera docenza presso l'Università
di Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse
di studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e
altre). Nel 1917 diviene professore ordinario all'Università degli Studi
di Camerino. In seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di
Macerata (1918-1922), Pavia (1920), Messina (1922-1925, dove ha tra i suoi
allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma (1925-1926), Firenze
(1925-1927), Milano (1928-1947), Roma (1947-1960). Come Gastprofessor e
visiting professor svolge corsi nelle Università di Francoforte sul Meno, Bonn,
Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto
Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei più importanti giuristi italiani di
tutti i tempi e fu tra i principali artefici del codice civile italiano del
1942 tuttora vigente. Collocato fuori ruolo 1960, emerito dal 1965, è chiamato
a insegnare ius romanum alla Pontificia Università Lateranense. Nel corso
della sua attività accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in
particolare il diritto romano, civile, commerciale e processuale[2]. Nel 1955
ha fondato presso le Università di Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria
dell'interpretazione. È stato socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore
honoris causa delle Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas. Per
il suo sostegno intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu
messo agli arresti nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per
decisione del CLN[3]. Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e
sottoposto a giudizio di epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni
imputazione. Produzione scientifica Le sue scelte politiche comunque non
hanno compromesso il pregio e l'importanza delle sue opere. Le sue opere
principali sono: Teoria generale del negozio giuridico, Teoria generale delle
obbligazioni, Teoria generale della interpretazione. Fin dal 1939 fece
parte delle commissioni ministeriali che hanno redatto il codice civile del
1942. L'influenza di Betti fu determinante nella soluzione, adottata dal
guardasigilli Dino Grandi, dell'abbandono del progetto italo-francese delle
obbligazioni e dei contratti del 1927, che negli intenti originari del piano
per la nuova codificazione avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto libro del
codice civile. Altre opere: “Sulla opposizione dell'exceptio sull'actio e
sulla concorrenza tra loro”; “La vindicatio romana primitiva e il suo
svolgimento storico nel diritto privato e nel processo”; “L'antitesi storica
tra iudicare (pronuntiatio) e damnare (condemnatio) nello svolgimento del
processo romano”; “Studii sulla litis aestimatio del processo civile romano”; “Sul
valore dogmatico della categoria contahere in giuristi proculiani e sabiniani”;
“La restaurazione sullana e il suo esito: contributo allo studio della crisi
della costituzione repubblicana in Roma”; “La struttura dell'obbligazione
romana e il problema della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione
costruito dal punto di vista dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi
della cosa giudicata in diritto romano”; “La tradizione nel diritto romano
classico e giustinianeo”; “Esercitazioni romanistiche su casi pratici”, “Anormalità
del negozio giuridico”; “Diritto romano”; “Diritto processuale civile italiano”;
“Teoria generale del negozio giuridico”; “Interpretazione della legge e degli
atti giuridici: teoria generale e dogmatica”; “Teoria generale delle
obbligazioni”; “Teoria generale della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni
in diritto romano”; “L'ermeneutica come metodica generale delle scienze dello
spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità di una teoria generale
dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la genesi del principato in
Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di studio approfondito da
parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del Novecento : Emilio
Betti : il ruolo del giurista, Milano : Franco Angeli, Ritorno al diritto : i
valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a suo favore di Giuseppe
Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in un’intervista:
formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il Fatto quotidiano,
24 giugno 2017. Bibliografia Crifò, Giuliano (1978). Emilio Betti. Note per una
ricerca, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 7, 1978,
pp. 165-292. Ciocchetti, Mario (1998). Emilio Betti, Giureconsulto e umanista.
Belforte del Chienti. Brutti, Massimo (2015). Emilio Betti e l'incontro con il
fascismo. Roma Tre-Press. Voci correlate Filosofia del diritto Ermeneutica
giuridica Collegamenti esterni Dizionario Biografico, su treccani.it. Controllo
di autoritàVIAF (EN) 109887066 · ISNI (EN) 0000 0001 1082 3180 · SBN
IT\ICCU\CFIV\070637 · LCCN (EN) n79113001 · GND (DE) 11885139X · BNF (FR)
cb121001497 (data) · BNE (ES) XX1205233 (data) · BAV (EN) 495/99257 · WorldCat
Identities (EN) lccn-n79113001 Biografie Portale Biografie Diritto Portale
Diritto Categorie: Giuristi italiani del XX secoloStorici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XX secoloNati nel 1890Morti nel 1968Nati il 20
agostoMorti l'11 agostoNati a CamerinoAccademici dei LinceiProfessori della
Sapienza - Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di
CamerinoProfessori dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori
dell'Università degli Studi di MacerataProfessori dell'Università degli Studi
di MessinaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoProfessori
dell'Università degli Studi di ParmaProfessori dell'Università degli Studi di
PaviaProfessori dell'Università di MarburgoProfessori dell'Università di
ViennaStudiosi di diritto romanoStudenti dell'Università degli Studi di
ParmaStudenti dell'Università di BolognaStudenti dell'Università di
FriburgoStudenti dell'Università di MarburgoStudiosi di diritto civile del XX
secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi di diritto processuale civile del
XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: la lupa; ovvero, problemi di storia
della costituzione politica e sociale nell’antica Roma, auslegung,
auslegungslehre, storia della repubblica romana, diritto romano, exception,
action, vindication, dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare, condemnation,
processor omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer, giurista
proculiano, giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane
rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico,
diritto romano guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico,
interpretazione, genesi del principato, lingua romana, lingua latina, base
etnica della antica Roma, i latini, l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’
(regere, cf. lex, legare), l’eta repubblicana, res pubica used during l’eta
monarchica, Romolo, il primo re, Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la
stirpe dei patrizi, patrizio, cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio
di Caesar, il principato, Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto
Ottaviano’, imperio, imperatore, pater familias, paternalism, diritto
consuetudinario, il fuhrer, l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile,
romanita, diritto romano ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano,
nazione romana, romano e sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini,
vocabulario del diritto romano, dizionario di diritto romano, lexicon di
diritto romano, concetto autenticamente romano di auctoritas, lex, legare,
eddictum, decretum, suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio,
diritto penale, diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano,
stato autoritario, concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu,
pontificex massimo, laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785983424/in/dateposted-public/
Grice e Bianco – filosofia dello
spirito; ovvero, la morte di Patroclo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervinara). Filosofo. Grice: “I
like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but ‘della
vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a
‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha
vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua
intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto
il mondo. Laureato in lettere,
filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del
pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo,
dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo
nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al
premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane. Nel corso della sua carriera ricevette per
tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri: nel 1953, nel
1975 e, infine, nel 1995. Accademico di Francia, membro della Columbia Academy,
nella sua lunga attività letteraria conseguì diversi diplomi e riconoscimenti.
Nel 2003 vinse il premio "Elsa Morante" che gli venne consegnato da
Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino
gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore della Campania nel
mondo. Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue straniere,
compresi alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi africani, che aveva
avuto modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva conseguito, inoltre,
una laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di Parigi gli conferì una
laurea honoris causa in lettere. Un
saggio biografico del 2001 e una raccolta di poesie curata da Alfredo Marro,
direttore del Caudino (mensile cervinarese col quale il filosofo ha a lungo
collaborato), si occupano del filosofo cervinarese. Nell'autunno , Franco
Martino gli dedicò una poesia dal titolo "A Carlo Bianco" nel suo
libro Paese mio carissimo. Bianco morì
il 9 aprile a 99 anni mentre stava
lavorando su un testo di Tommaso d'Aquino. Il 29 ottobre la città di Cervinara gli ha dedicato una
piazza nella natia frazione dei Salomoni.
Altre opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria,
Bergamo); “Saggio di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui
confini dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale
come scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di
Sofistica” (Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini
Editore, Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche
Internazionale, Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto
Fiorentino. Vedi Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3
settembre , Sezione Napoli, Archivio storico.
Vedi È morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel 2006
articolo de la Repubblica, 11 aprile , Sezione Napoli, Archivio storico. Alfredo Marro, Un gigante del pensiero,
Edizioni Il Caudino, Cervinara 2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi,
Edizioni Il Caudino, Cervinara 2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie
scelte di Carlo Bianco, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2006. Filomena
Stanzione, Carlo Bianco nella Cultura Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino,
Rotondi 2000. Carlo Bianco, poeta della
fede e del dolore biografia e nel sito
"carlobianco.blogspot". Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XX secoloLetterati italiani 1911 25 luglio 9 aprile Cervinara Cervinara. Carlo
Bianco. Keywords: la filosofia dell spirito; ovvero, la morte di Patroclo, Centro
Ricerche Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia dello spirito, kantismo,
spiritualismo, morale, vita, liberta, piazza bianco, cervinara. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Bianco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51784476367/in/dateposted-public/
Grice e Bobbio – il bisogno del bisogno del senso
del senso – filosofia italiana – Luigi Speranza(Torino). Filosofo. Grice: “My
favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he is
into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there is
a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a
philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of
philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian
only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially
Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general –
is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he
has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with
some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can
be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look
for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational
co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting –
Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does
a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about
zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher,
who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense,
meaning meaning. «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi
quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.» (Norberto
Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato
«al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo
[italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu
«sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura
filosofico-giuridica e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi,
anche di formazione assai diversa, hanno considerato come un
maestro». Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e
Rosa Caviglia. Una condizione familiare agiata gli permise un'infanzia
serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma
svilupperà, per causa di una non ben determinata malattia infantile «la
sensazione della fatica di vivere, di una permanente e invincibile stanchezza»
che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium vitae, in un sentimento
malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua maturazione
intellettuale. Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo
D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, poi
divenute figure di primo piano della cultura dell'Italia repubblicana. Dal
1928, come molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al Partito Nazionale
Fascista. La sua giovinezza, come da lui stesso descritto fu:
"vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto
fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come
Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti
come Leone Ginzburg e Vittorio Foa". Allievo di Gioele Solari e
Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11 luglio 1931 con una tesi
intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto, conseguendo una votazione di
110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932 seguì un corso estivo
all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e Ludovico Geymonat, ove conoscerà
le teorie di Jaspers e i valori dell'esistenzialismo. L'anno seguente, nel
dicembre 1933, conseguì la laurea in Filosofia sotto la guida di Annibale
Pastore con una tesi sulla fenomenologia di Husserl, riportando un voto di
110/110 e lode con dignità di stampa, e nel 1934 ottenne la libera docenza in
Filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935 all'insegnamento,
dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal 1940 al 1948). Nel 1934
pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e
giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al regime gli valsero, il 15
maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli amici del gruppo
antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a seguito di una
intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale della Prefettura
per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La chiara reputazione
fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una piena riabilitazione,
tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di Mussolini e di
Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a Camerino, che era
occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle leggi razziali.
Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni prima, fu reintegrato
grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di famiglia, mentre era
presidente di commissione il cattolico e dichiarato antifascista Giuseppe
Capograssi. È in questi anni che Norberto Bobbio delineò parte degli
interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei suoi studi futuri: la
filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli studi sociali, uno
sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al contesto politico
temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti, esattamente il 3 marzo
1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la cattedra all'Siena. E
rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per prendere il posto del
professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi nel 1938 nella cattedra
del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché ebreo. Questo episodio
della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse preso direttamente il
posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche. Nel '42, un giovane
Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia del Diritto che
Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX secolo, nel nostro
campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più, criticamente fondato
da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al movimento liberalsocialista
fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e, nell'ottobre dello stesso anno,
aderì al Partito d'Azione clandestino. Nei primi mesi del 1943 respinse
l'"invito" del ministro Biggini (che poco dopo redasse, su impulso di
Mussolini, la costituzione della Repubblica di Salò) a partecipare a una
cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe dedicata una lampada
votiva da collocare al sacrario dei caduti della rivoluzione fascista nel
cimitero della città. Nel 1943 sposò Valeria Cova: dalla loro unione
nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Il 6 dicembre del 1943 fu arrestato a
Padova per attività clandestina e rimase in carcere per tre mesi. Nel 1944
venne pubblicato il saggio La filosofia del decadentismo, nel quale criticò
l'esistenzialismo e le correnti irrazionalistiche, rivendicando al contempo le
esigenze della ragione illuministica. Dopo la liberazione collaborò
regolarmente con Giustizia e Libertà, quotidiano torinese del Partito d'azione,
diretto da Franco Venturi. Collaborò all'attività del Centro di studi
metodologici con lo scopo di favorire l'incontro tra cultura scientifica e
cultura umanistica, e poi con la Società Europea di Cultura. Nel 1945
pubblicò un'antologia di scritti di Carlo Cattaneo, col titolo Stati uniti d'Italia,
premettendovi uno studio, scritto tra la primavera del 1944 e quella del 1945
dove sosteneva che il federalismo come unione di stati diversi era da
considerarsi superato dopo l'avvenuta unificazione nazionale. Il
federalismo a cui pensava Bobbio era quello inteso come "teorica della
libertà" con una pluralità di centri di partecipazione che potessero
esprimersi in forme di moderna democrazia diretta. Nel 1948 lasciò
l'incarico a Padova e venne chiamato alla cattedra di filosofia del diritto
dell'Torino, annoverando corsi di notevole importanza come Teoria della scienza
giuridica (1950), Teoria della norma giuridica (1958), Teoria dell'ordinamento
giuridico (1960) e Il positivismo giuridico (1961). Dal 1962 assunse
l'incarico di insegnare scienza politica, che ricoprirà sino al 1971; fu tra i
fondatori della odierna facoltà di Scienze politiche all'Torino insieme con
Alessandro Passerin d'Entrèves, al quale subentrò nella cattedra di filosofia
politica nel 1972 mantenendola fino al 1979 anche per l'insegnamento di
Filosofia del diritto e Scienza politica. Dal 1973 al 1976 divenne preside
della facoltà ritenendo che mentre gli incarichi accademici fossero «onerosi e
senza onori» era l'insegnamento l'attività principale della sua vita: «un abito
e non solo una professione». La politica, del resto, divenne via via un
tema fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente
alla pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli
intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato
una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla
scienza politica in Italia. Nei venticinque anni accademici all'ombra
della Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke,
lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto,
Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di
saggi, scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in seguito
a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy. Divenuto
condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire dal '53,
fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della quale entrò
a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato socio nazionale
e residente dal 26 aprile 1960. Significativa la collaborazione, sul tema
pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo Capitini, le cui riflessioni
comuni sfoceranno nell'opera I problemi della guerra e le vie della pace
(1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta dal movimento di Unità
Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel 1967 alla Costituente
del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle contestazioni giovanili,
Torino fu la prima città a farsi carico della protesta, e Bobbio, fautore del
dialogo, non si sottrasse a un difficile confronto con gli studenti, tra i
quali il suo stesso primogenito Luigi che militava all'epoca in Lotta Continua.
Nel contempo, venne anche incaricato dal Ministero per la Pubblica Istruzione
quale membro della Commissione tecnica per la creazione della facoltà di
sociologia di Trento. Guido Calogero e Norberto Bobbio alla
Rencontres internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu tra i firmatari della
lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul caso Pinelli. Nel 1998
Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri pubblicata su La
Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato nell'appello ma senza
ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti legati a Piazza
Fontana. Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò intorno al problema
democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa nostra democrazia è
divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento dietro cui si
nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato, sempre più
esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la
tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno a
un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto con
la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è
l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime
che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso
separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che
dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono
molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a
poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili
degenerazioni».[25] A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre
più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in
Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace
dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando
estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo. L'8 maggio 1981,
alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere
della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della
gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una
"politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto
internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991. Delle
venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che
Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume
L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25
febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti
nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e
vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il
Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che
quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo
intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a un'aggressione.»
Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da parte di
"pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse Bobbio, avesse
autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva
"legale", in questo senso, "giusta". Bobbio però
riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo
da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che
si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di
saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata,
come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito
dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della
Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in
campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della
Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come
indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal
1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi
divenuto dei Democratici di Sinistra.[27] Norberto Bobbio e Natalia
Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la
stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne
pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole
dibattito culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il
libro toccò le cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato
l'anno successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici. A
riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto,
della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos
e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le
quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare
alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per
la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.
Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione
aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel
2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita
pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero
rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia
della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla
crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003,
ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno
politico e il contributo alla riflessione storica e culturale". Dopo
avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il
9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma
venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di
Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.[32][33] Il
pensiero di Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una
temperie filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi
torinesi, non abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo
accostamento alla fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere
sulla filosofia di Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e
neoempirista fiorito in Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al
Circolo di Vienna. Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in
contatto con la filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di
analisi del linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola
analitica italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto
figura eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due
saggi: Scienza del diritto e analisi del linguaggio del 1950[34] e Essere e
dover essere nella scienza giuridica del 1967[35]. Dedica studi specifici
a Hobbes, a Pareto e a molti filosofi e teorici della politica di cui già s'è
detto. Vede nell'Illuminismo un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo
di cui riprende l'ideale razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del
sistema democratico e parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi
quali la guerra e la legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la
filosofia giuridica, la storia della filosofia e i temi di attualità
politica. Durante gli ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la
convinzione della necessità di uno Stato democratico, che sgombri il campo dal
pericolo della politica ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di
destra che di sinistra; auspica una gestione laica della politica e un
approccio filosofico-culturale ad essa, che aiuti a superare la
contrapposizione fra capitalismo e comunismo e a promuovere la libertà e la
giustizia. Nel saggio Quale socialismo? (1976), Bobbio critica sia la
dialettica marxista sia gli obiettivi dei movimenti rivoluzionari, sostenendo
che le conquiste borghesi dovevano estendersi anche alla classe dei proletari.
Bobbio ritiene fallimentare solo l'esperienza marxista-leninista, mentre
prevede che le istanze di giustizia rivendicate dai marxisti possano, in
futuro, riaffiorare nel panorama politico. Il pensiero di Bobbio diviene
così, soprattutto tra gli intellettuali dell'area socialista, un modello
esemplare, grazie al suo 'sapere impegnato', certamente «più preoccupato di
seminare dubbi che di raccogliere consensi». Egli stesso riprenderà la
riflessione su un tema a lui caro, quello del rapporto tra politica e cultura,
proponendo, tra le pagine di Mondoperaio, una «autonomia relativa della cultura
rispetto alla politica» secondo la quale «la cultura non può né deve essere
ridotta integralmente alla sfera del politico». Nel 1994 esce l'opera
Destra e sinistra, nella quale Bobbio focalizza le differenze fra le due
ideologie e i due indirizzi politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è
caratterizzata dalle tendenze alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è
ispirata da interessi, mentre la sinistra persegue l'uguaglianza, la
trasformazione, ed è sospinta da ideali. In quest'opera, Bobbio si esprime
anche in favore dei diritti animali[36]. Nell'opera L'età dei diritti
(1990), Bobbio individua i diritti fondamentali che consentono lo sviluppo di una
democrazia reale e di una pace giusta e duratura. Una partecipazione collettiva
e non coercitiva alle decisioni comunitarie, una contrattazione delle parti,
l'allargamento del modello democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli
uomini, il rispetto degli avversari, l'alternanza senza l'ausilio della
violenza, una serie di condizioni liberali, vengono indicati da Bobbio come
capisaldi di una democrazia, che seppur cattiva, è preferibile ad una
dittatura. Per tutta la vita scrittore di numerosissimi articoli, anche
tramite interviste, Norberto Bobbio incarna l'ideale della filosofia critica e
militante che lo vede protagonista anche del Centro di studi metodologici di
Torino e tra i fondatori del Centro studi Piero Gobetti di Torino che conserva
la sua biblioteca e il suo archivio, «Mi ritengo un uomo del dubbio e del
dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande
termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo
ancora un'altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere
quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro
che presumo ne sappiano più di me.» (Norberto Bobbio, Elogio della
mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.) Contrario alla figura
dell'intellettuale «Profeta»[37], preferendo il ruolo del «Mediatore» impegnato
«nella difficile arte del dialogo» (e ciò è anche testimoniato dal colloquio
intrattenuto con i marxisti per un riesame critico del loro «dogmatismo e
settarismo» che coinvolse anche Togliatti), il suo atteggiamento teoretico fu
segnato da una positiva «ambivalenza» fra una posizione realista e una
idealista che non rifuggiva le complessità del discorso, ricorrendo sovente al
paradosso. Ciò gli valse, in virtù dell'amore per il dibattito che consideri
«il pro e il contro» di ogni questione, la qualifica di filosofo «de la
indecisión» (Rafael de Asís Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su
una delle grandi domande [si concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma delle
possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo
libro che raccoglie saggi, scritti e testimonianze su maestri, amici ed
allievi, Bobbio comincia ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero
Martinetti e Tommaso Fiore. L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di
studio come Antonino Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e
colleghi come Nicola Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e
Giovanni Tarello. Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo
Ghezzi, Amedeo Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive,
nel 1972 fu naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del
diritto. Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni Bobbio",
svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale Democrazia" di
Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e
dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della
scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46] Gran Croce del
Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del Merito Civile —
Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per uniforme ordinaria Laurea
honoris causa in Scienze Politiche — Università degli Studi di Sassari, 5
maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Aztecanastrino per
uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Azteca — Torino, Intitolazioni A Norberto Bobbio è stata
intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo Dora Siena, 100 A.
Gli è stato inoltre intitolato un istituto di istruzione superiore a Carignano,
nella provincia di Torino, denominato appunto "I.I.S Norberto
Bobbio". A lui è intitolata la biblioteca civica di Rivalta Bormida,
paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere: “Saggi” (Roma-Bari,
Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica” (Di
Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del diritto” (Torino, Istituto
giuridico della Regia Università); “L'analogia nella logica del diritto” (Di
Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto normative” (Torino,
Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino, Chiantore); “Stati Uniti
d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma, Donzelli); “Teoria della
scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e cultura” (Torino,
Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli);
“Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria dell'ordinamento
giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto, Torino,
Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del diritto” (Torino,
Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da Hobbes a Marx. Saggi
di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia civile. Ritratti e
testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e positivismo giuridico”
(Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento italiano” (Milano, Garzanti);
“La scienza politica in Italia” (Roma-Bari,
Laterza); “Diritto e Stato in Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante”
(Torino, Einaudi); “La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero
politico” (Torino, Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di
un'alternativa” (Torino, Einaudi); “Il problema della guerra e le vie della
pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi hegeliani. Diritto, società civile, Stato,
Torino, Einaudi); “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia,
socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il
futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri
e compagni, 3ª ed., Firenze, Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla
pace e sulla guerra” (Casale Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età
dei diritti, Torino, Einaudi, “Il dubbio
e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma,
Carocci); “Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore);
“Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma,
Donzelli); “Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma,
Donzelli); “Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri
scritti autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né
con Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A.
Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M.
Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino”
(Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo
e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo”
(Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio
"Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su
giovanipace.sermig.org. 3 dicembre
(archiviato dall'url originale l'8 dicembre ). Premi e
riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione
Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org Hegel-Preis der Landeshauptstadt
StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto
Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia , in
Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo. Scrive Bobbio:
«[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia
infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute,
Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio
(SB)centrogobetti , su centrogobetti, N. Bobbio18.
Cesare Maffi, Massimo Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in
ItaliaOggi, n. 206, 1º settembre 11.
Nello Ajello, Una vita per la democrazia nel secolo delle dittature, su
ricerca.repubblica, Anna Pintore, RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico
degli italiani, 86, Torino, Treccani, .
28 aprile . A puro titolo d'esempio si
veda Diego Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del
professore ebreo Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in
ItaliaOggi, Francesco Gentile, Società
italiana di filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra
e il problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e
della pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,
"Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di
Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto, Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,
volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, UTET, Torino Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle
origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in
visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione
italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico
Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita
verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore. Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio
assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi, Torino
Ricordo di Norberto bobio, in Rivista di
Filosofia, Bologna, Società Editrice Il
Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze, N. Bobbio, decima tavola fuori testo. "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza
Fontana" Guido Fassò, La democrazia
in Grecia, Giuffrè Editore, Milano «con
l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il
concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni:
«Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri
come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non
uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il
privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a
Bobbio) Senato della Repubblica, su
senato. N. Bobbio, ventesima tavola
fuori testo. Centenario Norberto Bobbio,
su centenariobobbio 5 aprile 2009).
Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com. I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa
Repubblica Ha lasciato scritto Norberto
Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a
dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure
lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante
le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi
accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione
'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo
della morte. Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei
figli. In un appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto:
vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione
dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per
tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico.
Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la
ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano
in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di
coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il
caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso
dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di
Bobbio.) Né ateo né agnostico ma lontano
dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004. Norberto Bobbio, Scienza del diritto e
analisi del linguaggio , in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
n. 2, giugno 1950, 342-367. 5 luglio
. Norberto Bobbio, Essere e dover essere
nella scienza giuridica , in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre
1967, 235-262. 5 luglio . «Mai come nella nostra epoca sono state messe
in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza
ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella
piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è
uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso
l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti
sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti
della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare,
il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile
estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del
genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono
eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per
cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa
dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra
e sinistra, Donzelli, Roma 1994) N.
BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica
tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’
come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e
politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato
‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte
agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico,
Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’.
(N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di
scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano,
Storia della filosofia, IX, UTET per
Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi
anni Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista,
provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo
persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali
provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura
del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti'
che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi
d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi
più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale
si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal
titolo molto significativo Democrazia e dittatura». Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato
comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica
politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la
democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i
comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un
dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della politica,
Einaudi, Torino 2009618) Sul pensiero di
Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo Bosetti, «No,
non c'è mai stato il comunismo giusto» , in l'Unità, 3 aprile 1998. Segue alla pagina
successiva Archiviato N. Bobbio203. N.
BobbioXVII. N. Bobbio, Elogio della
mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.
Antonino Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida
Repaci Istituto storico della Resistenza
e della società contemporanea in provincia di Cuneo, su beniculturali.ilc.cnr:8080.
19 febbraio 26 aprile ). Sito della Presidenza della Repubblica,
quirinale Comune di Rivalta Bormida | La
Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14 luglio . Norberto Bobbio,
Giuseppe Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori
Riuniti, Pier Paolo Portinaro,
Introduzione a Bobbio, Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in
, Biografie e bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma,
Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di
Norberto Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio
l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo
Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della ragione,
"Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore, Bari-Roma 1995
Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini alla Lega Nord,
Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra filosofia e politica.
Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, Silvio Paolini Merlo, Consuntivo storico e
filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino (1940-1979),
Pantograf (CNR), Genova Morris Lorenzo Ghezzi, La distinción entre hechos y
valores en el pensamento de Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de Colombia,
Bogotá, Tommaso Greco, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra
filosofia e politica, Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni di
Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia
2004 Gustavo Zagrebelsky, Massimo L. Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto
Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005 Marco Revelli , Norberto
Bobbio maestro di democrazia e di libertà, Cittadella Editrice, Assisi 2005
Valentina Pazé , L'opera di Norberto Bobbio. Itinerari di lettura, Milano,
Franco Angeli, Roberto Giannetti, Tra liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul
pensiero politico di Norberto Bobbio, Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi , Omaggio a
Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio, Scienza del diritto, Giuffrè, Milano 2007
Paola Agosti, Marco Revelli , Bobbio e il suo mondo. Storie di impegno e di
amicizia nel '900, Aragno, Torino 2009 Enrico Peyretti, Dialoghi con Norberto
Bobbio su politica, fede, nonviolenza , Claudiana, Torino () Nunzio Dell'Erba,
Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900 italiano", Vincenzo
Grasso editore, Padova , 235–254 Pier
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biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Norberto Bobbio, su BeWeb, Conferenza
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Horizons Unlimited srl. Opere di Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra
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Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio
(altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra
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Repubblica. Registrazioni di Norberto
Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e Archivio "Norberto
Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti" di Torino), su erasmo.
Commemorazione di Norberto Bobbio, su giornaledifilosofia.net. Epistolario
Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione
Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo accesso del 15 ottobre 2009) I
presupposti filosofici nell'opera di Norberto Bobbio di Franco Manni V D M
Antifascismo V D M Senatori a vita di nomina presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio. Keywords: il bisogno del bisogno del
senso del senso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bobbio," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685954349/in/photolist-2mTBDZh-2mTsNRZ-2mSXjtg-2mT5MZr-2mSVv1C-2mSSQnN-2mS25MY-2mRFcpq-2mRsvph-2mRgKq7-2mRfyWo-2mQwYd8-2mQjVch-2mQjnue-2mQ81kz-2mPQGvz-2mPUHFB-2mPyn68-2mPvJmk-2mPoj9X-2mPqEPu-2mN9XHg-2mMZzKx-2mLQdrQ-2mKFrQ6-2mKHfUW-2mLznXk-2mPnLLb-2mLGv16-2mKwv6q-2mPHbXQ-2mPLygi-2mKbok1-2mKhn9c-2mKfNvB-2mKbfaU-2mKbkhx-2mJR8Pr-2mJPC2N-2mKj2vX-2mKgCuj
Grice
e Boccadiferro – luogo comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “Boccadiferro is a good one; he
is what Oxonians call ‘a Renaissance man,’ and all’italiana, he has a beautiful
carved grave – He was into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell would call
‘stone-age metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’ and he was
surely an Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather than a
Bolognese thing – no wonder the first stadium ever in Italy started in Bologna,
not Firenze, whose Accademia platonica was the place to see and be seen!”
-- Ludovico Boccadiferro Bologna: la tomba di Boccadiferro nella
basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista
italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea, Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver
seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo
orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di
Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima
università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi
apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527
quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a
Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte,
avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una
tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna. Scrisse diverse opere, in buona parte edite
postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio
libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio
Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum
Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi
Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in
lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum
copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super
tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo
indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere
continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio
libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra
editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum
Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva
naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium
meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros
Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne
Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon
copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque
illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super
primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices,
nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi
Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in . Fonte Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti in . Antonio Rotondò,
«BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The
Aristotle commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république
des lettres, 1984, pp . 107-18.
Alessandro Achillini Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a
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Boccadiferro Ludovico Boccadiferro, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ludovico Boccadiferro, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Ludovico Boccadiferro, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro, . Ritratto di Ludovico Boccadiferro Quadreria
dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo . Averroismo, in Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo Professore1482
1545 3 maggio Bologna BolognaUmanisti italiani. Eex decem illis
capitibus , quæ præmittenda eſſe alias diximus , cetera , ut mi- Quz præmis nus
neceſſaria huic tra & ationi,prætermittentes, hæc potiſsimú attingemus,
tenda ſunt an te expolitio quodnam fit philoſophi propoſitum in his libris
Topicorum , quæ ſit huius nem Topico partis utilitas, quæ inſcriptio, qui ordo,
& quæ operis diuiſio : quibus abſo- rum lutis,ad textus expofitionem
accedemus. Propolitum igitur in his libris eſt, quod fit phi diale& icam
methodum tradere.quare,ut, quid hoc propofitum nobis polli pofitum in li
ceatur, intelligamus, cognoſcendum eftquid fit diale & ica . & quoniam
tunc bris Topico rem unamquanque optime cognofcimus , fi ipfam à ſui fimilibus
fciamus rum . diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe uidetur
rhetoricæ; ideo ui debimus, quo modo conueniant , differantg; inter ſe
dialectica, & rhetorica. DIALECTICAM Stoici definiunt ſcientiam bene
dicendi. bene dicereautem quidfit diale effe uolunt uera dicere , ac rei conſentanea.cum
autem folus philoſophus corum ſente Čtica ex Stoia hoc efficiat, ipfi ad
philoſophiam ſolum diale &ticæ nomen referunt, ac ſolus cia . philoſophus ,
ex eorum ſententia, diale&icus eſt . PLATO uero, ut Alexanderrefert,
diale&icam eſſe exiſtimauit diuiſiuam me quid iterú fit thodum : cuius opus
eft , & ex uno plura facere, & plura in unum compone- Placonis fena ex
re. hanc enim in Phædro dialecticã appellat, ubi eā ſummis laudibus extollit .
tentia , Vervm alia forte eſt Platonis ſententia : uult enim ipſe , ut patet in
dialogo alia , & uera , de iufto , diale&icam eſſe facultatem , qux
conatur ordinecerto ,circa unum Platonis fen : quodque , quid ipſum ſit ,
inuenire . cum autem hæc facultas dupliciter tentia de dia lectica , quid
conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta ſeorſum conſiderantur;
lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipſis applicantur; diale&ticam Plato à
rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphyſicum appellauit , qui
rationem capit cu iuſlibet eſſentiæ , & non ſolum regulas, & præceptiones
callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed , & interrogare fic ,
& reſpondere , quod eſt diale & ici proprium . cum autem huius fit uel
præcipuum inſtrumentum diuifio , ideo eam in Phædro tantopere commendauit .
ARISTOTELES autem diale & icam poſuit ſyllogiſticã methodum ex proba-
Ariſtotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita . methodum appellat
fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus, quoniammultipliciter
fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica , quid ſecundum propofitionis
ſpecies , uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam ,in qua ſunt.
ſecundum quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii
hypothetici.ſecundum modos , & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe&
i, aliiimperfecti, alii in aliis figura, & modo . fecundum autem materiam
cundum mo differunt , quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui
demonſtratiuidicun- dos & figu tur ; atque ars , quæ huiuſmodi ſyllogiſmos
docer conſtruere, appellaturme ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua . Alexander eam
dicit appellari demonſtrationem . quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex
probabilibus probant , qui diale &tici appellantur ; at cundum ma que ars ,
quæ huiuſmodi fyllogiſmos docet conſtruere, diale & ica methodus teriam . A
eſt EXPOSITIO LIB . 1 . tedicta decla rat . eſt peripateticis , de qua
philoſopho propoſitum eſt agere in his topicorum libris . at uero ſyllogiſmi ,
qui ex apponentibusprobabilibus procedunt, ſo exemplis an phiſtici ſunt; ac
ſophiſtica ars eft , quæ de ipſis agit, horum autem differen tia hinc perſpici
poteſt. ſienim dicamus, nullum bonum eſt imperfe & um ,uo luptas eſtquid
imperfe & um , ergo uòluptas non eſt bona , hic eſt demonſt ra tiuus
ſyllogiſmus, quiex uoluptatis diffinitione procedit . at ſi dicamus , om ne
bonum bonos efficit poſsidentes , fed uoluptas bonos non efficit , ergo
uoluptas non eſt bona : hic erit dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos
efficiat , eſtquidem probabile , non tamen neceſſario uerum . ſcien tia enim
bona eſt , quæ tamen bonos poſsidentes non efficit. at ſi quis dicat, quod eft
bonum , eſt appetibile , ſed uoluptas eſt appetibilis , ergo uoluptas quare
diale- elt bona: ettfyllogiſinus ſophiſticus, quiex apparentibus probabilibus
pro ética ex pro- cedit : fallit autem ex loco à conſequenti.quòd fi quis
cauſam quærat, cur babilibus ,& dialectica ex probabilibus tantú procedat
,hæcnimirum eſſe uidetur , quòd, te propolita cum diale&tica interrogare
doceat,acreſpondere,( id quod uerbum Sráneye agat . sou , à quo dialectica
di& a eft , nobis indicat ) oportet , utdiale & ica de rebus omnibus
differat, cum res omnes interrogando , & reſpondendo tractari poſsinc . ſi
igitur diale & icus de quacunque re propoſita agit, neceſſe eſt , de rebus
etiam fallis quandoque diſſerat. quod li ita fit , impoſsibile eſt , ut ex
rebus ueris ſemper probet: neque enim ex ueris falſum colligi aliquo mo: do
poteſt . ad probabilia igitur diale&icus conuertitur , quæ élicit à reſpon
quare diale- dente, ex illisq; propofitum concludit: neque enim probabilia
omnino ue etica lit à phi ra ſunt. ita igitur patet, quid peripateticis
diale&tica fit . lofopho ap- Quæ cum ita fint , re& e di& um eſt à
philoſopho , diale &ticã eſſe avtispoçor rhet pellata avti- toricæ . tribus
enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica, & diale &tica: primo
quidem, quia definitum genus non habent circa quod uerſentur, ſicut & modis
inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina, & mathematica ,&
naturalis philofo fe conueniát phia , & ciuilis ſcientia , & artes
omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica & tra cuius ambitum
continentur . nihil enim , quod ad humanum corpus non rhetorica .
pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica , quod ad numerum.at diale
&tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca
proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet . ſecüdo , conue niunt
dialectica , & rhetorica , quia utraque non ex propriisrerum princi piis,
ſed ex rebus communibus probat . aliter enim deremedica agit diale Žicus , quam
medicus . hic ex propriis eius artis principiis diſſerit :diale&ti cus uero
ex communibus : eodé modo & orator . Tertio conueniunt , quia circa
oppoſita æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur .
ſimiliter enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam , &non bo, :
nam , animam effe mortalem, & immortalem :& orator , aliquid effe
iuſtum , & non iuſtum , utile & non utile, laudabile, &
uituperabile, eodem modo de fendet. aliæ autem omnes artes , etfi utrunque
oppoſitorum cognofcant, non tamen utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius
eſt , ſemper ſibi pro ponunt.medicus , exempli cauſa , quæ ſanitatem
efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet , non tamen fanitatem , &
morbum indifferenter effi cit , ſed ſanitatem ſibi ſemper proponit.eodem modo
& aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale & ica, ac oratoria ars
circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à philo tur.atque hinc eſt ,
quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent appel fophis lint ap lari.
poteftas enim proprie oppofitorumeſt : hæ autem artes non unum mat pellatę
pote- gis oppofitorum , quam alterum tuentur, licet alii iccirco ipſas
appellari po ſtate ; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt eos, qui
ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim E x P O ŞI T'IQ
LI B. I'I 2 tur . enim non poteſt, qui hominibus probare , ac perſuadere , quod
libeat; pofsit? alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã ad
bonú æque busci nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque hinc
eft, quòd neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint: ficut
enim ,fiad honeſtas rariones dedu cantur , ut ueritatis inuentionem , iuſtitiæ
defenfionem , ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita trahantur,
maxime obelle ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, & rhetorica ,
quòd definitum genus ſub je& um non habent , quod non ex propriis , ſed ex
communibus probant , & quòd utranque oppofitorum æque tuentur. TOTIDEM etiã
modisinter fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot modis cunque
materiam uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter fediffe
dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica , & reſpondendo de
re- rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens quambreuiſsime
differit : rhe- lectica : torica uero continuata , ac diffuſa oracione uritur ,
quod confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ , dialecticam uero
eidem in pu gnum contractæ comparauit . tertio differunt , quia diale&ica
circa séris : quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur . eft autem Siois
quæſtio nullis certiş is ; & quid finibus temporum locorum , perſonarum
concluſa . úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus , uel pluribus horum , ut
fi quæramus , an philoſophiæ ope ra fit danda , siois eſt , fi quæramus , an
nobis hoc temporephiloſophiz ſiç uacandum , utóðeris eft . IT A igitur paret ,
quod ſie philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere , ſcilicet de
dialecticamethodo , uidimusý; , quid eſſet diale &tica , & quid cum
rhetorica conueniat , quid ue ad ipfa differat. AlterVM , quod diſcutiendum
propoſuimus, eft , quænam ſit huius operis diale &icz u . utilitas eftautem
eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes, tilitas , & ad
fecundo ad oratoriam facultatem ,tertio ad ueritatis inuentionem , ultimo quot
res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea demoliri tentet, ad
difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt diale&ica , quoniam loca
nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur argumenta ad quodlibet problema
conſtruendum , uel deftruédum . ad diſputa - præterea docer quomodo interrogare
, ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones. alios interrogabimus, quodlibet
probare poţerimus: fiautem interroganti reſpondebimus, fententiam noſtram
egregie ſuſtinebimus , atque ad ircon ueniens non deducemur.quàm autem
adrhetoricam conferat,hinc patet', quàm confen quod omnes fere , qui de
rhetorica conſcripſerunt, non aliunde , quam ex riam faculta docis, qui hic
traduntur, probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis cor, de- cem , ſumi
tradunt , neque tamen eo minor eft hæc utilitas , quòd plerique rhe cores ex
his Ariſtotelis libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua cti ſunt.magni
enim intereſt, fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex fonte, id autem
uel hinc patere poteſt , quòd , cum apud Ariſtotelem tradi ti ſint tercentum ,
atque eo amplius loci , ita diſtincte ſecundum quæſtionum differentias , ut
nihilmagisrhetores eos omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam ampla facultas in
quantascoa&a anguſtias. Ad ueritatis autem inuent quàm confe tionem dialectica
confert , quoniã cum in unaquaquere poſsimus ad utran- rat ad uerita quepartem
diſputare ex probabilibus . probabilia autem non fint exomni tis inucntio parte
falſa , ideo ex ipſis aliquid ueri colligere poterimus , quod Ariftotelis
reſtimonio confirmatur , qui plerunque in rebusdifficillimis diale & icos
fyl logiſmos pro utraque parte præmittit.deinde fententiam ferens folet often
quim confe dere quoquo modo rem ita ſe habere, & quoquomodo non . Confert
de rat ad ſciena mum diale & ica ad ſcientiarum principia defendenda :
nulla enim ſciétia pro A 2 pria nem . EXPOSITIO. LIB. I. 1 Iteriorum . tiarum
prima pria principia poteſtprobare , fed ea pro ueris aſſumens , alia omnia ex
illis pendapaa pro probat: at fi huiuſmodi principia negentur , nullus præter
dialecticum ,& metaphyſicum poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet,
eſt diale &ticæ utilitas ,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, &
fuftulerunt.fie quòd quidã nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones
intulerunt , ut Protagoras, dialectica im qui cum in dialecticis excelleret,
Deos in dubium reuocauit , unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius
libros arſerunt ,ipſumą; Athenis ablegarunt, tan narint , idq ; Protagoræ e
quam hominem reipublicæ , ac philoſophicæ ueritati perniciofum , id non xemplo.
dialecticæ contigit uitio , ſed eorum potius , qui dialecticam à rerum cogni
tione ſepararunt, quod profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma
ſeparet , aut oculum à uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica
ad deteriorem partem abufi fuerint . quæ fit hu - SEQUITUR , ut inquiramus,quæ
ſit huius operis inſcriptio , et inſcriptionis ius operis in- caula.
inſcribuntur autem hi libri Torine , græco nomine , à uerbo Tótosi,
infcriptionis. quodlocum nobis ſignificat. eſt autem locus , ut Rodulphus
definit ,com munis quædam reinota, cuius admonitu , quid in quaque re probabile
ſit; poteft inueniri , atq ; hinc libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica
appellati. Iam illuduidendum eſt , qui ſit horum librorum ordo ad alios libros
logicæ qui fit ordo facultatis . primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi
debeant libros huius libri. pofteriorum reſolutoriorum : deinde an etiam ſequi
debeant libros priorú , et primo an Primo quidem , quòd pofteriorum libri, qui
de demonſtratione agunt, To cedere debe- pica conſequi debeant ; ex eo probatur
, quoniam demonſtratio eft finis to ant libros Po tius logicæ tractationis , ut
Græci atteſtantur, de ea igitur ultimo loco agen dum eſt .præterea cum
probabilia uiam nobis aperiant ad ipſam demonſtra tionem , fintq; inuentu , ac
cognitu faciliora , dehis igitur priori loco agen huius ratio dum eſt. his
itaque rationibus Topica præcedere Poſteriora ſtatuamus . an uero præcedant, an
ſequantur Priora, non minor eſt difficultas. Marcus Ci Topica cero , cuius
fententiam ſequitur Boetius , logicam facultatem , quam dili - Lebeidlibros
gentem rationem diſſerendi appellat, in duas partes dicit efle diductam , u .
Priorum , nam inueniendi,alteram iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ priorem
idậ; ex fen- dicit . ſi hæcita ſunt, cum inueniendi ars in Topicis libris
tradatur, iudican tentia Cice- diuero in Prioribus, ergo Topica procedut
Priora.quæ enim priora ſuntin ronis, & Boe doctriva ordinata , prius etiam
tradi debent.uerum quoniam plerique ne çit. fciunt qua ratione pars illa
appelletur iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0. ſtendamus. Appellatur hæc pars
inuentiua eo quòd locos, utdiximus, con partes logicæ tinet , ex quibus
probabilia eruuntur.pars uero altera iudicatiua dicitur, altera inuen- quoniam
doceſ, quo pacto, probabilia illa , quæ inuenimus , fint conne& en
tiua,altera ne da , qua ſcilicet figura , & quomodo, ut aliquid
concludamus, non ſolum ma appellentur. teria opuseft , qua id efficiamus , ſed
etiam recto , & artificioſo connexu. , non aliter, quam qui cercas,
autáreasimagines fundunt, non ſolum materia indlgent , fed etiam typis
quibuſdam ,per quos fuſa materia debitam formam fufcipiat.pars igitur illa ,
quæ de locis agit, inuentiua, quæ uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum ,
atque inſuper decautionibuscaptioſarum argumen opinionis fu- tationum ,
iudicatiua eſt appellata . ſed , ut ad rem propoſitam redeamus, perioris effi -
concludebat prior ratio Topica debere præcedere librospriorum , ſed huic cax
oppofi - fententia opponitur efficax ratio.in Prioribus enim agitur de
ſyllogiſmo in . communi, in Topicis autem de ſyllogiſmo dialectico.cum autem
commu niora femper præcedere debeant , ergo priorum libri præcedent Topica,
hancq; ſententiam peripateticiomnes, Græci, Latini , & Arabes concordes cui
caméopi conſequuntur.Si cui tamen prior ſententia magis arrideat , quòd
ſcilicet TO nis confirma tio . an qua ' ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio .
$ Topica præcedane, non concedet ; quod oppoſita ratio aſſumit , quòd fcili-
nioni magis cet in Topicis de diale&ico ſyllogiſmo agatur , ſed dicețibi
agi de materia & eiustatio diale & ici fyllogiſmi , quæ ſunt ipſa
probabilia.hæc poſtea quomodo ſyllogif- nis confirma mosautalia argumentationis
fpecieconnecti debeant,in prioribus traditur. tio . quòd Gi philoſophus
Topicoru initio dicit ſe in propoſita tractatione diale &icum fyllogiſmum
quærere , hoc propterea dicit , quoniam hæc omnia gra- niobiectio. huic opinio
tia diale & ici ſyllogiſmitra & antur: quid enim conferent probabilia ,
nifi ipfi huius obie– recte componere, ac connectere ſciamus? non tamen
ſupponunt do &trinam ctionis diflo de fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur
: Id neque ex eo oſtendi poteſt, hanc lutio . tračiationem eam fupponere , quæ
eſt de fyllogiſmo , quoniam philoſophus alia huius ra obie initio primi
Topicorum de ſyllogiſmo , atque eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his
agit, niſi ut dialectici fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc
loco nou diffiniret , eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e-
ftionis dißio lutio alia, giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione
conſequentur, Priorum conclufio . autem , ac Pofteriorum libros præcedent.
Illvd deniū uidendum ſuperelt , quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ
fic huius tem in tres partes . in primo enim libro oſtendit partes , ex quibus
compo- operis diui – nuntur orationes dialecticæ , & partium partes , uſque
ad fimpliciſſimas. in fio. fecunda parte oitendit loca , ex quibus fumantur
argumenta ad conſtruen dum , & deftruendum omnegenus quæſiti , quod fit in
ſex ſequentibus libris . in tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro
interrogantem inftruit, quo- . modo debeat interrogare, ac reſpondentem ,
quomodo debeat reſpódere . In hoc primo capite proponitphiloſophus propoſitum
ſuum in his Topicis libris . &quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine
tractantur , gratia diale quid in hoc Etici fyllogiſmi tractantur , ideo
præmittit, quid ſit fyllogiſmus , & quæ fint agendum pro eius
differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum , deinde definit ſyllogiſ- ponac
philo mum demonſtratiuum : & quoniam demonltratio conſtat exprimis, &
ueris, fophus . oftendit , quænam ſint hæc prima, & uera , definit etiam
diale &ticum ſyllogif mum . & quoniam conſtat ex probabilibus,oftendit
quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum fyllogiſmum , poftremo
definit paralogiſmum , qui in ſcientiis fit , ac concludens dicit ſe ſummatim
dehis egiſſe , admonetą; ſe non effe de rebus his exactam do & rinam
traditurum , ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit. Propoſitum ) Duæ ſunt apud
philoſophos uoces cognatæ , propofitum , & fub- quid inter se iectum .
ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur: propoſitum differantpro
uero eſt id , quod artifex ſibiproponit , & quo effe & to ceſſat ab opere,
exem- pofitum ; & plicauſa ,fubie& um in medicina efthumanum corpus,
propoſitum uero eſt ſubiectum . fanitatem efficere in humano corpore , &
femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum , quare Græci interpretes, cum
ſemper expofitum quæ rant , de ſubiecto nunquam fere uerba faciunt notandum
autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes factiuæ à diſciplinis
contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium faciuarum tria
complectuntur, effectio primum , quæ eſt cu- ctiuz artes à juſlibetartis finis
, deinde forma, quæ ab artifice introducitur , quæ & ipſa differant. fubie
& um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in medicina ſanitas: ptäte rea
ipſum ſubiectum , atque hæc tria in propoſito artis explicantur , nilicon
tingat formæ illi , &fubiecto unum eſſe nomen impofitum . in propofito au
tem contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio , quæ eſt cuiuſlibet
fcientiæ contemplatiuæ finis , & ipſum ſubie & um licet fiquis in his
etiam diligentius inſpiciat , uidebit formam quandam latere naturalis
philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere , fed forma latet modus 1 1
торт сок у м ARIST , di , dus , ſcilicet & character quo illas cognofcit ,
nempe phyſice eodem modo , &arithmetici propoſituni eſt numeros cognoſcere
ledlatet illud mathema tice , quod eſt quali forma eius cognitionis . notandum
etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam aliquam
tradit , &ipſius ſcientiæ , exempli se àpropoſ- cauſa ,philoſophipropofitum
eſt in hoc uolumine de dialectica agere , ipfius to ſcientiæ , uero diale
&ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de quacunque propofi quä ipfe
fcri- to problemate . utrunque autem propofitum indicant uerba philoſophi. ptor
tradit . quid ſit me Methodum . utcognoſcamus quid methodusſit, quæ res ,
ſicuti non facilis eſt; thodus . ita digniſsima eft cognitione, notandum
eſt,quòd methodus , ficut nomen indicat, elt uia quædam , qua unum poft aliud
certo quodam ordine poſitum eft , quare diſciplinæ omnes , quæ certum quendam
ordinem obſeruant, me : quæ fint pro- thodi appellantur: ſed inter ipſas
diſciplinas aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis deſeruiunt,
& iccirco diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi ſunt
definiendiars , & diuidendi , & aliæ quædam . aliæ uero ſunt di
ſciplinæ , quibus illæ deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis
deſeruientibus conuenit , quæ omnes ad logicam tractationem pertinent , quæ
etiam in cauſa ſunr, cum aliis diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé
accipiant: unde & medendimethodus, & phylica methodus dicitur , cum ſci
licethæ diſciplinæ certo quodam ordine traduntur , quod non aliunde ha bent,
quam ex illis logicis mechodis . quod hæc ars Inuenire. dixit hoc philoſophus ,
quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat nondum inué conſtituta : etſi multa apud
Platonem , & alios ueteres philoſophos reperi ta erat,ſed ip rentur, illa
tamen erant præcepta quædam ſparſa , & difie & a ,neque colle ſe primus
ea inuenit, & p &a in artem . primus omnium Ariftoteles hæc diligenter
perſecutus artem fecit , hanc inſtituit , fimul & perfecit . A quapoterimus
etc, cum diale & icainterrogando , & reſpondendo conſiſtat , quid diale
& i- oftendit philoſophus , quidnam ipſa conferac tum interroganti , tum
reſpon ca cöferat in denti.confert enim interroganti , quoniam docet ipſum
diſſerere de qua reſpondenti cunque re, quæ à reſpondente proponi poſsit:
confert reſpondenti, quonia inftruit ipſum , ne abinterrogante deducatur ad
inconueniens :ſed ſenten tiam ſuam egregie ſuſtinear , De omni, hoc dicens philoſophus
quodam modo diale & icam d rhetorica ſe parauit. etſi neutra earum
habeatſubie & um limitatum ,non æque tamen rhe torica de omni quæſtione
diſputat , ſicut dialectica.circa ciuilia enim nego cia magis uerſatur, quod
quædā Propoſito problemate. Quid ſit problemainferius oftendet philoſophus.
diſpu non ſunt dia- tat diale & icus de rebus ciuilibus , de rebus
naturalibus , de rebus medicis lettica pro- aliisg;, in his tamen quædam ſunt,
quæ non ſuntdialectica problemata , ne blemata . que enim diſputabit de his ,
quæ indigentſenſu , aut pæna,utquòd ignis fic callidus , neque de his , quæ
propinquam habent demonſtrationem , led de his quæ dubitationem aliquam habent.
Ex probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus diſſerat, ſuperius
diximus. quid philofo. Primum igitur. particula igitur coniungit hanc partem
cum eo , quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim docet hæc ars
fyllogizare ex probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet , utcognoſcamus , quid
fit fyllogiſmus ; præterea debemus uidere, quæ igitur . ſint ſyllogiſmorum
differentiæ , ut manifeſtum fiat , quòd fit hic fyllogiſinus ex probabilibus ,
quo dialectica methodus utitur . dubitatio an Hunc enim quærimus. dubitant
quidam , cum diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului operis fubie&
um , quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus , quo fit dialecticus niam
fubie & um debet præcognoſci in qualibet ſcientia, cuiuseſt ſubie & um
: 1 1 1 quod TOPIC Q R VM. ARIS 1 .: 4 tionem . quod autem eft præcognitum ,
non poteſt eſſe quæſitum : ſed dicendum eft , fyllogiſmus, quòd in hoc uolumine
fubie & um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale & i- methodus. ca
methodus , cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus diale&icus . ſed li
folutio Tupe etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum diale& icum ,nó
tamen eſt in- rioris dubita conueniens, quòd quæratur, quoniam ſubie &tum
in ſciétia ſupponitur, quod aliaetiam for fit , & quid ſignificet. ſed
poteſt poſtea quæri , quid fit , quæ ſint eius partes, lutio . paſsiones ,
&proprietates .non igitur idem erit ſuppofitum , & quæſitum . Eft
itaque ſyllogiſinus. fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem ,
quid nobis fi in eius definitione orationem poſuit philoſophus loco generis
(cum enim gnificet fyllo aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro
oratione )non folu gulmus: enim ſyllogiſmum , fed & alia plura oratio
comprehendit.quæ omnia à fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor
adiectisdifferentiis: eam enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam
, aliud quid neceſſario accidit , propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum
appellat. Quibufdampoſitis, per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in
quibus quid ſeparec nihil ponitur , qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem
ſignificat fumptis, hac particula & conceſsis: oportet enim , ut quæ ad
ſyllogizandum ſumuntur , etiam con atis. quibufdá po cedantur , uel ſcilicet ab
alio , fi cum alio quis ratiocinetur , uel faltem à ſe ipſo , ſiſecum
ratiocinetur ,uelab audiente non expetit reſponſionem . præ utrú illud, po
terea illud , poſitis , comprehendit non folum affirmatiuas propoſitiones,
ſitis,compre uerum & negatiuas.nam & negatiuæ nihilo fecius ad
fyllogizandum ſumun- hendat & af tur , quàm affirmatiuæ.præterea illud,
poſitis, proprie reſpicit categoricas negatiuas p propoſitiones. hypotheticæ
enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde ca politiones: tegorici ſyllogiſmi
ſimpliciter , acproprie fyllogiſmi dicuntur. hypothetici utrú illud po ſitis
compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed hoc totum ſyllogiſini
hypothetici . dixit præterea pofitis , & non pofito , quoniam ex uno pofito
nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi , ſed utminimum ex duobus
.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid concludunt , uti
ſunt enthymemara , & quæ Antipatri ſe- quomodo co &tatores Moronéquata
appellarunt, defectuoſa funt ,quod deprehenditur,quiasnofcai qua fi id , quod
prætereunt, ſuppleamus , nihil eft in argnmentatione ſuperuaca veum , quod
profe & o fieret ,fi huiuſmodi argumentationes non eflent defi- etuoſa .
cientes, ut in ſyllogiſmis uidere eft.fiuntautem enthymemata , ubi propofi
quando pof lint fieri en tio aliqua præteriri poteſt , quoniam euidens eſt,
& manifefta , ut reſpirat , thymemata ergo uiuit: at ſi huiuſmodi
propoſitio latens ſit , tunc no poſſunt effici enthy- quando non memata , ut fi
dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ appellantur poſsint fieri
illationes , & conſequentiæ , non etiam enthymemata . enthymema Aliud quid
à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi utilitatem.nul fyllogiſmi
uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum , quàm fyllogiſmus : cú
litas . enim nos fimus cognitionis participes , non tamen fine diſcurſu res
cogno- quotuplici - fcamus , ſicuti beatæ métes , quæ intuitiue cognoſcunt,
ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc quadrupliciter fieri
pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad ignotum ,uel ab ignoto ad
notum, uel à noto ad ignotum ; tres primi modi nihil ad cognitionem conferunt ,
ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum , hoc autem fit per
fyllogiſmum :quare cum im poſsibile fit , ut idem fit notum , & ignotum ,
ideo oportet , ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his , quæ poſita ſunt:
quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit ſyllogiſmus,
quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon dicimus, qui uidendi
uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito igitur à fyllogiſmi
definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror pellari Siepo iſtoicis
appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur , ut uel dies pouuevos.
eſt, do argu menta defe ta . aliud proce TOPIC OR VM ARI S. T. 1 obie &tio
. eſt , uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet quis , liſyllogiſmi
funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt , uel dies eſt, uel nox eít, ſed dies
eſt , non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi fyllogiſmi erunt . uidetur
e nim quòd idem ſit , nox non eſt, & dies eſt , etſi in uerbis fit
differentia.uer borum enim differentia , fi idem ſit ſignificatum , nihil
omnino facit . dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum illud noxnon eſt ,
ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis . men primario , ſed ſecundario.
primo enim ſignificat no &is negationem , ſe cundario autem ſignificat diei
præſentiam , eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies eſt
:quemadmodum & nox eſt , primo ſignificat no &i præſen tiam ,
ſecundario uero diei priuationem . cum igitur aliqua fit inter hæc dif ·
ferentia , quoniam non eandem rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd
fyllogif ſunt. illiuero, in quibus nulla prorſus eſt differentia, inter
aſſumptum , et illa mi,quifiunt tum non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione
& fyllogiſmi illi ſunt , qui ex contradi- ex contradi& tione fiunt, ut
uel dies eſt , uel dies non eſt , ſed dies eſt , non er merentur di- go non
eſt.aſſumptum enim illud primario ponit diem efle , fecundario au ci
ſyllogiſmi. temnegat diem non eſſe . quæna fit ha Ex neceſſitate accidit .
declarat hac uoce philoſophushabitudinem ,quæ eſt in bitudo inter ter
concluſionem , & præmiſſas , quas appellauit pofita . oportet enim quòd
præmillas, & concluſio à pofitis neceffario inferatur . notandum autem eſt
,aliud eſſe con quid differat cluſionem neceſſariam , quàm quæ ex neceſsitate
accidit.conclufio enim eſt inter conclu- neceſſaria , quæ eſt in
neceſariamateria , uthomoeft mortalis : concluſio ue fioné necella ro ex
neceſsitate eſt , quæ à poſitis neceſſario dependet , quod non minus riá ,
& de ne: uerum eſt in materia neceſſaria , quam in contingenti . ſeparauit
autem hoc dentem ,& de dicens philoſophus , ſyllogiſmum ab indu & ione
, in qua , quoniam non om neceffario, nia ſingularia inducuntur , & fi
inducantur, non tamen oportet, quòd eodem ſcilicet é hæc modo fe habeat
uniuerfale , ficut unumquodque ſumptorum , ideo conclu conclufio in lio in ea
non accidit ex neceſsitate. fiigitur conclufio non accidit ex neceſsi Cario ,
tate, non erit ſyllogiſmus: atquehinc merito litigioſus ſyllogiſmus in forma
peccans nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau- Propter poſita. quatuor de
cauſis hoc adiecit Philoſophus, primout deficien lis philoſo - tes fyllogiſmos
ſepararet, in quibus deficit altera propofitio ad ſyllogiſtica il phus poſuerit
lationem , ut lac habet, ergopeperit . ſecüdo, ut ſepararet ſyllogiſmos ſuper
in definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus aſſumitur propofitio aliqua ad
concluſionem non necef particulă hâc faria , ut fi dicamus , omne iuſtum eſt
honeſtum , omne honeftum eft bonum , ſcilicet Pro- omne bonum eſt eligibile , ergo
omne honeftum eſt eligibile.tertio ,ut ſepa pter poſita raret orationes , in
quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid alie tuor de cap - num , ut,
quod eſt ſecundum naturam , eſt eligibile, uoluptas eſt ſecundum na Gis. turam
, ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio , de morte diſſolutum non
ſentit : quod non ſentit, nihil ad nos pertinet :mors ergo nihil ad nos
pertinet. quarto , ut ſepararet eas orationes , in quibus non ponitur aliqua
propoſitio uniuerſalis ,utſi dicamus , linea a eſt æqualis lineæb, &linea c
eſt æqualis eidem lineæb , ergo linea a, & linea c funt æquales inter ſe .
hæc enim concluſionon ſequitur expofitis , fed ex uniuerſali prætermiffa , quæ
dicit , quæ ſunt æqualia uni tertio ,funt æqualia inter ſe . quid differae Demonſtratio
igitureſt , quando ex ueris, & primis ſyllogiſinus eft. Aliud eft demon
inter demon- ftratio , & demonſtratiua methodus.eſt enim demonſtratiua
inethodus ip deinonitrati ſa ars , & diſciplina , quæ demonſtrationes
efficit . demonftratio uero eſt uam metho demonſtratiux methodiopus.cum igitur
uelit philoſophus fyllogiſmi dif duin . ferentias definire , à demonſtratione
incipit , quæ eft omnibus aliis nobiliſſi ma . dicit autem ipſam eſſe
fyllogiſmum , qui conſtat exprimis , & ueris , uel . hoc eft qua 1 ex
торгсок у м AA 5 R I S T. ex his , quæ pro aliqua prima ,& uera ſuæ
cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur , fi definitionem aliquam
cognofcere debemus , icire quænam ſint prima , & uera, quod ipſe paulo poſt
oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia diſciplinarum , quæ nonex
aliis , ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent . hxc enim quoniam funt
principia ,non poſſunt ex aliis demonſtrari , exte, non au quia non amplius
eflentprincipia , ſi ex aliis poflent demonſtrari . & cum ex tem ex aliis
ipfis alia demonftrentur ,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant , alioqui o-
fidem habét . mnia demonſtrata eſſent incerta . ſunt igitur ipſa principia
ſcientiarum cer ta , & euidentia : ex his autem quædam funt nobiſcum innata
, & quæ à præce ptore non diſcuntur , ac proinde appellantur communes animi
conceptio nes , dignitates , & proloquia , ſeu profata . alia uero ſunt ,
quæ non poſſunt quidem demonſtrari , nobiſcum tamen non ſunt inſita , ſed
admonitione quadam , & declaratione indigent.leui enim declaratione ipfis
affentimur, & hæc appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt , uel enim
dicunt aliquid ef quotuplices lint politio ſe , uel non eſſe , &dicuntur
petitiones , uel poftulata , uel quid fit res indi- nes. cant : ſed
non dicunt aliquid efle , uel non efle , & appellantur definitiones ,
quæ omnia apud mathematicos manifefta funt . Quod autem dicit philoſophus, Non
enim oportet in diſciplinalibus principijs inquirere propter quid . Videri
poſſetali- obie &tio , 9 cui dubium , cum Themiftius primo poſteriorum
dicat , prima principia fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam , propter quam
illis affentimur lumen , ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis :
præterea principia cognoſcimus per terminos , ſed ter- habent,pro mini ſunt
cauſamaterialis principiorum , ergo principia habent cauſam.di- pterquam il
cendum eſt , quòd prima principia habent quidem cauſam , quæ affentimur ip
nöautem ex ſis , non tamen habent caufam ,propterquam poffintdemonſtrari. ad
ſecun- fe habentcau dum dicendum eft , quòd ex terminis quidem cognofcuntur
priucipia , non fam . tamen ex illis poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt
incomplexi : ne que omnis cauſa dicitur propter quid, ſed ea, ex qua poſſit
aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur , quæ ſint prima , & uera : addit uel ex
his, quæ per aliqua quare philo prima , & uera, &c. niſi enim hoc eſſet
additum , primæ ſolum illæ effentde- fophus in de monſtrationes , quæ ex
principiis demonſtrantur, cum non minus etiam de- nis definitio monſtrationes
ſint , quæ demonſtrantur ex demonſtratis primis, ſed quamuis ne poſuerit ca ,
ex quibus fit demonſtratio , prima non fint ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc
uer concluſione . ſemper enim debent eſſe caufæ conclufionis , non folum in in-
ba, uel ex his , ſerendo , ſed etiam in eſſendo . propterea dubitat Alexander ,
fi quis ab effe- quæ penalina &u ad cauſam procedat , utrum debeat dici
demonſtratio ,andiale& icus ſyl- uera luz co logiſmus , quia enim procedit
ex ueris, non uidetur, quòd fit diale & icus; qui gnitionis prin ex
probabilibusprocedir : & quoniam ex pofteriori procedit , non uidetur,
сіруй fumple quòd fit demonitratio , quæ ex primis procedit . ſoluit Alexander
, quòdu trunque tueri poſſumus , & quòd ſit dialecticus fyllogiſmus ,
quoniam huiuf modi uera ſumuntur pro probabilibus , ut lac habet , ergo
peperit. luna de ficit , ergo terra inter ipſam , & folem eſt interpofita.
poffumus etiam dice re , quod fit demonſtratio , fed demonſtratio quo ad nos,
quia in ea accipi mus ea.quæ nobis notiora ſunt.eſt igitur demonſtratio imperfe
& a , & im proprie dicta . Dialecticus autem ſyllogiſmusex probabilibus
ſyllogizans.Non poflumus autem hanc quænam fint definitionem intelligere , niſi
cognoſcamus ,quæ fint probabilia, ideo fubdit probabilia. philoſophus ,probabilia
ſunt, quæ uidentur uel omnibus, uel pluribus , uel ſapientibus,& his uel
omnibus , uel pluribus, uel maxime cognitis , & pro- omnibus pro batis ,
omnibus quidem probabilia ſunt, ut fanitatem eſſe expetendam ,ui- babilia .
runt . quænam ſint B tam торт сок у м A R I S T. . tam eſe expetendam , fcire
pulchrum eſſe , parentes eſſe honorandos: hæc e nini omnibus probantur, quòd fi
quialiter affirmant,id aduerſus intrinſeca rationem dicunt . plurimis autem
probabilia ſunt , prudentiam effe diuitiis plurimis quænam fint eligibiliorem ,
& animam corpore præftantiorem . notató; hoc loco Alexan pro babilia . der
, quòd fi diale&icus de his ſoluni diſputaret , quæ in communi notione
uerfantur, ea ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus probātur : fed quo
niam plerunque etiam de his , quæ à communi notitia remota ſunt , ideo ea
quænam fint etiam probabilia aſſumit , quæ ſapientibus uidentur.omnibusautem
ſapien pbabilia om- tibus uidentur , quæanimi bona ſcientia , ſcilicet &
uirtus fint præftantiora nibusſapien- bonis corporis ,quòd ex nihilo nihil
fiat. plurimis autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe per ſe
expetibilem : & fi aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute fieri,
quòd non detur aliquod corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat Democritus
, quòd non ſint mundi infiniti ; & ſi contra Anaxagoras quænam fint
opinatus ſit ; celeberrimis autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im
probabilia ce mortalē , quæ fuit Platonis opinio , uel effe quoddam quintum
corpus,quam leberrimis fa- dicit Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam , quod
& M. Tullius eidem at pientibus . quòd etiam tribuit , licet alii omnes
aliter ſentiant de Ariſtotelis opinione . ſunt autem ,pbabilia ſunt hæc
probabilia, & fiuel pauciadmodum , uelunus tantum forteita ſit opina ea ,
quæ uel tus, quoniam ſicut illi probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime
pro unus, uel pau babiles eſſe uidentur . notandum autem eſt differre probabile
à uero, non eo fenferint-, quòd probabile falſum ſit ,utplurimum enim probabile
, neque omnino eft illi probabi- uerum , neque omnino falſum , ſed differunt
iudicio.dicitur enim uerum ex les fuerint. ipſa re , quando ſcilicet cum re
conſentit. probabile autem dicitur ex audie tium opinione : fi enim ita
audientes opinentur , probabile dicitur.probabi lia enim quatenus probabilia
ſunt, neque uera , neque falſa ſunt: quædam e nim uera probabilia ſunt, ut Deos
eſſe : quædã etiam uera ſunt,quæ non funt probabilia , ut quòd extra cælum
nihil ſit: quædam etiam ſunt falſa , & proba bilia , ut quòd Deus omnia
pofsit, neque enim mala poteſt, ſicut & pleraque ſunt, &faiſa , &
non probabilia : ſed ex his nulla fit argumentatio . notandum etiam eft ,
pleraque probabilia eſſe inter ſe oppoſita . fæpe enim quod proba turuulgo,non
probatur à fapientibus , ut quòd bona animi præſtentcorpo quid fit pro- ris
bonis. M. Tulius primode inuétione probabile dicit effe id , quod fere fie
babile ex M. ri ſolet , ut matres diligere filios ſuos , & id , quod in
opinione pofitú eft , ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe paratas
:&quòd ad hochabetquandã ſimilitu dinem , ut ſi his , qui imprudenter
ceſſeruntignoſci ,conuenit: his , qui ne in quot par- ceſſario profuerunt,
haberigratiam non oportet. hoc autem probabile in tes diuidatur quatuor
partesdiuiditur , in lignum , quod uel negocium præcedit, uel comi probabile .
tatur ,uel conſequitur . credibile iudicatum , quod eſt uel religioſum , uel
commune , uel approbatum : & comparabile , cuius partes tres ſunt, imago,
collatio , exemplum , quotuplex ſit Litigioſus autem ſyllogiſmus . duplicem
oftendit philoſophus eſſe ſyllogiſmum fyllogiſmus litigiofum , & qui
procedit ex apparenter probabilibus , ſed re&am ſeruar litigiofus.
connexionem : & quiconnexionem prauam habet , uel fit ex uere probabi libus
. ftatuita; philoſophus eum , quiin connexione fyllogiſtica peccat, non eſſe
dicendum ſyllogiſmum , fed hoc totum fyllogiſmum contentioſum , quemadmodum
homo mortuus non dicitur homo , fed hoc totum homo mortuus. qui uero
ſyllogiſticam connexionem ſeruat , ſed procedit ex ap parentibus probabilibus ,
dici poteſt ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit fyllogiſmus, hic uero non
eſt, quoniam uitiatur fyllogiſtica connexio , pe rit fyllogiſmi natura non
aliter , quam homo deſinit elle, quod eſt , li anima priuetur, ne . E X POSITIO
LIB L IB. 1 . 6 . priuetur, quoniam non poterat hæc definitio intelligi , nifi
cognoſceremus quid etient apparenter probabilia , & quid differrenta uere
probabilibus, quid fint ap ideo hocipfum declarabit philofophus. dicit enim ,
quòd nihil eorum , quæ bilia ; & quid funt probabilia in ſuperficie idem ,
funtapparenter probabilia , habet omni differant à ue no fantaſiam idem ,
funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re probabili le & in
ſuperficie , quòd facile redarguitur ,quia ſcilicet promptam habet bus .
inſtantiam , ut ſi dicamus , quod uidet, oculoshabet.ſi quis enim hoc admit
-tat , fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur , quæ loque
ris , ex ore exeunt , audire poterit , currũ loqueris ergo : currus ex ore exit
. eodem modo qui oculos habet , uidet , fed dormiens habet oculos, ergo
uidet.in his fi quis parum infpiciat , mox deprehendet mendacium , quod
nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur :neque enim hoc facile quis
redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt ,maius malum eft : in multis eniin
hoc uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius
malum , quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum , quàm
bona habitudo . Principii litigioſarum orationum . per hoc intelligit philoſophus
propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt , non autem horum
argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum , ſeu contentioſum
ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim
eſt ,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat :fophifticusautem , qui gloriam
. ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico . riam captat,
ut inde pecunias acquirat ,ut dicitur ,primo Elenchorum ca pite decimo . Adhuc
autem præter dictos omnes fyllogiſmos . aliam ſyllogiſmidifferentiam affert
quidfit para philoſophus , qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis
quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is
, atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas
ſtereometriam ,per- fcientiæ geo fpe &tiuam , aſtrologiam , arithmeticam
,muficam , archite & uram , chofmo- metriä сo graphiam , mechanicen , &
alias quaſdam.quòd autem huiuſmodiſyllogiſmi gnatæ . à ſuperius di&is
differant , patet : non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam
etſi propria principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt , eo tamenmodo
intellecta , quo falſus deſcriptor illis utitur , ſunt falla. neque etiam
huiuſmodi ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici ; quoniam ex proba bilibus non
ſunt : neque enim quæ omnibus probantur , neque quæ pluribus affumunt , neque
quæ omnibus fapientibus , neque quæ plurimis , neque celeberrimis , ſed
nequedicipoffunthi ſyllogiſmi litigiofi ,quoniam non af fumunt apparenter
probabilia . propria enim principia non uulgo , ſed his , qui in ſcientia ſunt
uerſati,cognoſcuntur quare probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum
ſenſum deducuntur , non etiam dici poterunt apparen ter probabilia . Λημμάτων.
λήμματα funt apud Αriftoteleim propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα . nos
præmiffas appellamus , & ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana
qua ſint . tantū propoſitioni conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt
appellati.notan dum eft paralogiſmum , qui in ſcientiis fit , qui pſeudographusappellatur;ita
quonam mo fe habere ad demonſtrationem , quemadmodum fe habet contentiofus ad
do paralogiſ diale& icum.notandum præterea eſt paralogiſmi nomine,
comprehédi utrun- mus habeat que modum ſyllogiſmi contentiofi , fyllogiſmum
ſophiſticum pſeudogra- ftrationen phum , & tentatiuum . Species igitur
fyllogiſmorum , ut figura quadam complecti licet . Plures affert ratio.
rationes qua nes Alexander , quare dixerit philoſophus, ut figura quadam comple
& i licet, re philofo B 2 uel phus dixerit, quænam Gnt E XPOSITIO L 1 B. I
, 1 tiuus . ut figura qua uel quoniam non tradiderit diligentem , &
exquiſitam horum definitionem , dam comple Eti licet . nonenim ad hoc
inſtitutum pertinebat , uel quia non omnes fyllogiſmorum differentias eſt
perſecutus.eas enim prætermiſit , quæ fumuntur pencs dif ferentias
propofitionum , & quæ penes earum connexionem , uel quoniam prætermiſit
enthymema , quod quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus, eſt tamen ſyllogiſmus
rhetoricus , uel quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta quid fit fyllo tiuum
,dequo alibi fa&a eſt mentio.eft autem fyllogiſmus tentatiuus , qui gıſmus
tenta procedit ex probabilibus , non ſimpliciter , ſed reſpondenti. eft enim
ten tatiuus ſyllogiſinus ad eos refellendos , qui fingunt fe aliquid ſcire, quod
ne ſciunt : fed dubitat Alexander ,ac fere affirmat idem effe Tyllogiſmum tenta
tiuum , ac pſeudographum . philoſophus enim in Elenchorum libro tenta tiuum
fyllogiſmum definit , quod fit ex his , quæ reſpondenti probantur : & quæ
neceſſario tenere debetis , qui profiteturſe habere ſcientiam . hoc au qua in
re ten tem idem eſt, ac fi diceret ex peculiaribus fcientiæ principiis. hæc
enim tene tatiuus fyllo- re debet , qui ſcientiam habere profitetur .
appellatur autem tentatiuus à Fat a pſeudo propoſito , & inftituto
interrogantis, pſeudographema autem ab effe& u. grapho . Vtautem
uniuerſaliter dicamus. Admonet philoſophus in his , quæ di &a ſunt, ac
quòdnon in in omnibus , quæ ſunt dicenda , non eile expectandam certam , ac
demon omnibus re- ftratiuam ſcientiam , quia propoſita tra & atio id non
fert , cum de probabili renda demó- bus fit, quorum certa , atque exquiſita
fcientia haberi non poteft, ut dicebat ftratiua fcien in ſecundo metaphyſices,
certitudo mathematica non eſt in omnibus expe tenda , neque omnium poteſt
haberi demonſtratio . dubitatio Q- QVAER VNT quidam , cum philoſophus attulerit
duos fyllogiſmos con phus attule- tentiofos,alterum ,qui peccat in materia
,alterum , qui peccat in forma, fit du os fyllo cur unum tantum pſeudographum ,
qui in materia peccat, foluunt, quòd giſmos con- peccatum formæ eſt commune
omnibus ſyllogiſmis: quoniam igitur ipſum tentiofos, & expoſuit in
fyllogiſmo contentioſo : ideo hoc loco ipſum prætermiſit, at pſeudogra-
peccatum materix eſt fingulis proprium . Sequitur, ut inquiramus, quæ sit huius
operis inscriptio, et inscriptionis ius operis incausa inscribuntur autem hi
libri topice, græco nomine, a verbo topos inscriptionis munis quædam rei nota,
cuius admonitu, quid in quaque reprobabile sit, potest inueniri, atq hinc
libri, quide huiusmodi loci sagut, topica appellati. Iam illud videndum est,
quisit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui sit ordo facultatis primo
q; inquirendum est, an libri topici se qui debeant libros huius libri ant
libros totius logicæ tractationis, ut græci attestantur de eaigitur ultimo loco
agen Iteriorum .dumest. prætere a cum probabilia viam nobi saperi anta dipsam
demonstrationem, ling inventu, accognitu faciliora, dehi sigitur priori loco
agen huius ratio, dumest his itaque rationibus topica præcedere posteriora
statuamus: an uero præcedant, ansequantur priora, non minor est difficultas.
Marcus Cicero, cuius sententiam sequitur Boetius, logicam facultatem, quam
dili-, posteriorum resolutoriorum: deinde an etiam sequi debeant libros priori
et primo an Primo quidem, quod posteriorum libri, qui de demonstratione agunt,
Topica cedere debe- consequi debeant, ex eo probatur, quoniam
demonstratio est finisto præcedere gentem rationem differendi appellat, in duas
partes dicites sedidu &am , unam inveniendi, alteram iudicandi: ioveniendi
artem ordine naturæ priorem ida; exfen- dicit si hæc ita sunt, cum inveniendi
ars in topicis libris tradatur, iudican tencia Ciceronis diueroin prioribus,
ergo topica procedúr priora quæ enim priora sunt in sciunt qua ratione pars
illa appelletur iudicativa , ideo hoci p sum nunc o qua ratione stendamus.
Appellatur hæc pars inventiva eo quod locos, ut diximus, con partes logicæ
tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars vero altera iudicatiua dicitur,
altera inven quoniam docer, quo pa & t o probabilia illa. Locus
sigitur, ut definit Alexander, est principium, & occasio epicherema-
secundumA eo tis, cum inprimo ea omnia tradiderit, quæ præcognoscenda
erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit explicare locos sed
hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla dixerimus, minandaante
examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius explicatione libri, hoc
ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis, par est, explicandum cum
enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est autem in ixeípnucdiale &
icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo lexandrum. do definivit locum, quod
est principium quoddam, u elelementum, a quo principia, quæ circa unum quodque
sunt, accipimus, ratione quidem circumscriptionis universalium definitum,
ratione vero singularium indefinitum in hac definitione per illud, quæ sunt
circa unum quod que principia, intelligere debemus, quæ de uno quoque
problemate afferri possunt argumenta per illud autem rationem quidem
circumscriptionis universalium definitum, rationeuero singularium indefinitum,
intelligeredebemus, quod huius modi principium & elementum universale ipsum
definit & determinat singularia autem indefinite comprehendit, neque enim
de hoc, aut de illo singulari loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia
singularia indefinite comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui
contrario aliquod inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum
contrarium inerit in hac propositione universale est determinatum, singularia
vero indefinite comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que
eorum, quæ subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit,
ab eo loco accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si
enim malum obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo
loco & est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum
albus color sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum
proposito problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus,
ergo album est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si
enim tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura
alia in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est
locus, si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod
minus videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est,
universale quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim
de hoc, aut illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum
philosophi exponamus, videamus priuseiuspro } H roncm . quando que
ingrediuntur argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi
tribuunt. Cicero autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime
propositiones desumuntur cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini
autem,unde sumuntur, longe pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos
illos terminos collecta est, ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere,
aliæ in roto, at que aliæ in aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur
differentiæ, eo quod maxime proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus
per differentias maximæ enim propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus,
aliæ ex genere, &c & sicut maximæ illæ propositiones minorum
propositionum copiam intra suum ambitum continent, ita termini ili, in quos
maximæ illæ propositiones convenienti ratione re ducuntur, illas continere
quodam modo videntur ideoq loci dicuntur ita igitur locum intelligit M.
Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum Aristoteles priori modo locum
intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc loco non indigna contemplatio
quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius rem hanc tractaverit, an
Aristoteles, qui universales, & maximas illas propositiones explicaverit;
an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter missis eos tantum terminos,
in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita investigari psse videtur
siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione argumenta sibi consicere,
cum ad argumenta conficienda necessariæs intpropositiones id eo oportet, ut
exterminis illis propositiones inveniat, ex quibus argumenta construat sed hoc
dificilli mum est, & multa indiget prudentia, & longa consideratione
quis enim possetstatim inspecto termino propositionum, quæ probabiles sint
& indubita txcopiam inuenire; atque ex hiseas, quæ propositæ quæstioni
conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe consultius, & præstantiu
segisse philosophum, qui has propolitiones nobis invenerit, & explicauerit;
easq; secundum unum quodque quæstionis genus certo ordine ita digesserit, ut
quam vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis pariant, sed maximam, accertamin
una quaquere argumentorum copiam suppeditant neque tamen prætermit tit
philosophus terminos, exquibus maximæ propositiones desumuntur: hoc enim facile
ad modum est exeiusdi & iselicere sed noluit ipse terminorum ordinem sequi,
quoniam ordo ille problematum ordine minterturbasset, qui longe præstantior est
& ad usum accomodatior qai igitur terminorum do &rinam sequitur, primo
propositiones ignorat; quarum præcipuus est usus in argumentis & fine
quibus nullus est terminorum usus deinde nullum secundum quæstionum genera
ordinem habet, quo sit, utinomni qux sionis genere per omnia loca temere
vagaricoa & us sit atque ita patet lon dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota
mende his omnibus possumus argumentari, ut si velimus probare diuitias non esse
bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si sanitas, quæ magis videtur esse
bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo neque divitiæ bonæ sunt si enim
deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo forte, quod aliquibus sit causa
mali, ex loco proposito ostensumerit divitias non esse bonas. probare uule
NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod.
Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico Boccadiferro. Keywords:
luogo comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boccadiferro” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785435563/in/dateposted-public/
Grice
e Boccanegra – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “Boccanegra is a good one; we
often laugh at Aquinas because he is a saint – but we have to recall that
Aquinas never knew it – for centuries after his death he ain’t one! Boccanegra
prefers to call him ‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra is like me
a systematic philosopher: dalla metafisica alla etica – is that possible? Yes,
what is the ‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza, alla
Locke! And co-experience in my conversational model!” -- Alberto Boccanegra (n. Venezia), filosofo.
Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio primogenito di Antonio e Ida
Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale come sottotenente del Regio
esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni successivi all'armistizio
di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie naziste e si ricongiunse
all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò servizio presso la Croce
rossa. Formazione Durante gli anni della
leva trovò il tempo per dedicarsi allo studio dell'intero Organon di
Aristotele. Nel 1948 ottenne il dottorato in filosofia presso l'Università
Cattolica di Milano con una tesi dal titolo I primi principi in Duns Scoto.
Presupposti e corollari. Nell'ateneo milanese, dove Boccanegra frequentava la
cerchia dei neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo Bontadini, gli venne
offerta la cattedra di filosofia teoretica che lui, tuttavia, rifiutò. In
quegli anni scrisse e divulgò le sue idee alternative sulla rivista filosofica
Vita e Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine Domenicano a San Domenico di
Fiesole il 10 ottobre 1948 con il nome religioso di frà Alberto, che lo
accompagnò di lì in poi anche in occasione della pubblicazione delle sue opere. Il 14 ottobre 1949 entrò al Pontificio Ateneo
Angelicum di Roma per lo studio delle materie filosofiche e teologiche dove nel
1953 discusse la sua tesi dottorale in filosofia (De dynamismo entis) e nel
1954 ottenne il lettorato in teologia grazie al suo Fundamenta metaphisica,
tractatus de Deo secundum S. Thomam. Ordinato sacerdote a San Marco di Firenze
il 25 luglio 1953 non abbandonò più il convento di San Domenico di
Fiesole. Attività filosofica, teologica
e critica Boccanegra lasciò per sempre incompiuto il suo trattato dottorale in
teologia, ma nel 1969 pubblicò comunque una esauriente sintesi del suo pensiero
su vari numeri della rivista filosofica “Sapienza”. Fu per anni vice direttore
della Commissione per la traduzione della Somma Teologica di Tommaso d'Aquino
in Italiano presieduta da Tito Centi. Gli imponenti schemi riassuntivi sono
consultabili nei 35 volumi editi dalle ESD di Bologna. Degne di nota furono le
sue corpose introduzioni alla Summa di d'Aquino pubblicate in più edizioni a
partire dal 1959. Neotomista, è
considerato da alcuni filosofo metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre
altri lo ricordano tra i teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita
tuttavia, fu l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè
professore di filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso
ci restano le dispense dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di
vent'anni ha insegnato filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico
Bolognese e nello Studio Teologico Fiorentino.
Migliaia di pagine manoscritte sono conservate dopo la sua morte
nell'archivio conventuale di San Domenico di Fiesole. Fu autore di
pubblicazioni ed articoli filosofici comparsi o recensiti su riviste italiane
ed internazionali. Fu confessore
ricercato soprattutto dai giovani. Nonostante una malattia che lo ha
accompagnato e provato per quasi tutta la vita costringendolo a cure costanti,
riusciva quotidianamente a fare escursioni per diversi chilometri. Quando negli
ultimi anni le sue forze non gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò
alla preghiera costante, sia di giorno che di notte. Saggi e pubblicazioni La beatitudine Gli atti
umani (I-II, qq. 1-21), Edizioni Studio Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza
di Dio e i suoi rapporti con l'antropologia, 1969 Osservazioni sul fondamento
della moralità, 1975 Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, 1966
Circa la relazione di G. Bontadini, 1973 La persona umana centro della
metafisica tomistica, 1969 Note Nome di
battesimo. Angelo Belloni, Biografia di
Alberto Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana
di S. Caterina da Siena, luglio
Relatore Amato Masnovo. Alberto
Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
“Sapienza”, numero 3-4, XXII (1969),
410-513 Alberto Boccanegra, “La
Somma teologica”, VIII, La Beatitudine; Gli
Atti umani (I-II, qq.1-21)” (Prima edizione 1959, seconda 1984) Giuseppe Del
Re, The cosmic dance: science discovers the mysterious harmony of the universe,
Templeton Foundation Press, 2000,
1890151254.62 Giuseppe Barzaghi,
Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3,
Studio Domenicano, 1997,
887094270870. Giovanni Cavalcoli,
Enrico Maria Radaelli, La questione dell'eresia in Rahner. Archiviato il 30
dicembre 2009 in ., articolo uscito su «Divinitas», anno LI, n. 3, III
quadrimestre 2008. Alberto Boccanegra,
L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su
"Sapienza", nn. 3-4, XXII, 1969,
410-513 Alberto Boccanegra, Il rinnovamento metodologico
nell'insegnamento della filosofia, "Revue internationale de
philosophie", Edizioni 87-90, 1969 L'homme et la moraleOrigine et sources
de la morale thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de
saint Thomas, "Revue thomiste", recensione, Volume 62, Saint-Maximin
(France), École de théologie pour les missions176. "Revista nacional de
cultura", recensione, Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto
Nacional de Cultura y Bellas Artes, 196653.311595467 Identities-311595467 Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Filosofo del XX secoloTeologi
italiani 1920 19 ottobreMorti l'11
luglio Venezia FiesoleDomenicani italiani. Alberto Boccanegra. Boccanegra.
Keywords: esperienza. The Swimming-Pool Library.
Grice
e Bocchi – solidarii – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Bocchi is a good one; and Bocchi
is a good one – Gianluca Bocchi is a curator who lives in a Roman palazzo and
whose expertise is ‘natura morta.’ Gianluca Bocchi is also a philosopher of
science – as he calls it – My favourite piece by Bocchi is about collective
thinking, -- solidarieta – Surely when I wrote ‘In defense of a dogma’ with my
tutee we were being solidary with each other, and we own each sentence –
collective thinking --.” Grice: “I could have called my desideratum the
principle of conversational solidarity – I am thinking of course Butler in
mind, and the whole bit is to see why (if at all – cf. Stalnaker) an
utilitarian justification is insufficient, and we need recourse to Kant!” -- Gianluca
Bocchi «La nostra età non ha soltanto
vissuto l'esperienza della relatività da ogni punto di vista. Ha fatto
soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di ogni punto di vista. La
contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni punto di vista sono
condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per dialogare con gli
altri punti di vista, per creare nuovi mondi»
«Per noi, raccogliere la sfida della complessità significa considerare
la scienza una via importante per riannodare i legami con le altre tradizioni,
per riscoprire con interesse i loro significati profondi, per esplorare la
varietà delle esperienze cognitive, emotive, estetiche, spirituali della specie
umana» «Il nostro continente è sempre
stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra
popoli e stirpi differenti, e questa diversità di radici è un elemento
integrante dei suoi sviluppi passati e presenti.» Niente fonti! Questa voce o sezione
sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti
sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti
attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n.
Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un filosofo della scienza e della storia,
esperto di scienze biologiche ed evolutive, di storia globale, di storia
urbana, di geopolitica, di storia delle idee, delle culture, delle lingue. Ha
fra l'altro introdotto in Italia, con Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le
scienze dei sistemi complessi e la connessa epistemologia della complessità,
contribuendo altresì alla loro diffusione a livello internazionale. Pubblicazioni Disordine e costruzione.
Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti),
Milano, Feltrinelli, 1981. Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul
pluralismo evolutivo (con Mauro Ceruti), Bari, Dedalo, 1984. La sfida della
complessità (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con
nuova introduzione, Milano, Bruno Mondadori, 2007). Un nouveau commencement
(con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Seuil, Paris, 1991. L'Europa nell'era
planetaria (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991.
Origini di storie (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1993, 88-07-10295-1. (tr. inglese The Narrative
Universe, NJ, Hampton Press; tr. spagnola El sentido de la historia, Editorial
Débate, Madrid; tr. portoghese Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona).
La formazione come costruzione di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, 1993.
Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica (a
cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, 1994. Le radici prime
dell'Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici (a cura di, con Mauro
Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, 2001. Origini della scrittura. Genealogie di
un'invenzione (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, 2002.
Educazione e globalizzazione (con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina,
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Ripensare l'Europa (con Mauro Ceruti), Milano, Tropea, 2009. Le città di
Berlino (con Laura Peters), Bologna, Bononia University Press, 2009. Le vie
della formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco
Varanini), Milano, Guerini, . L'Europa globale. Epistemologie delle identità,
Roma, Studium, , 978-88-382-4323-3.
Borderscaping: Imaginations and Practices of Border Making (a cura di, con
Chiara Brambilla, Jussi Laine, James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate,
. Note Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti,
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Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La sfida della complessità, Introduzione
alla nuova edizione, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p.XXII. Gianluca Bocchi, L'Europa globale.
Epistemologie delle identità, Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma,
Studium, 26. 978-88-382-4323-3. Sito ufficiale, su gianlucabocchi. 10
aprile (archiviato dall'url originale
l'8 settembre ). CE.R.CO, su cercounibg. 2 giugno 14 maggio ). Filosofia Filosofo Professore1954
19 dicembre Milano. Oddly, my favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi!
Keywords: solidarii, Francesco Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi”
– The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785686384/in/dateposted-public/
Grice e Bodei – geometria delle passioni
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Cagliari). Grice: “Bodei is a good one; of course he is sardo -- my favourite
of his tracts is one on ‘condivisione’ and ‘beni communi’ – which is what my conversational
pragmatics is all about --; he has also philosophised on the tricky Grecian
concept of ‘harmony’, and the very charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and
he has explored the diagogic form of philosophy in his historical analysis of
‘la dialettica,’ – he has explored ‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the
‘geometria delle passioni,’ and he has also shed light on the univocity or lack
thereof of ‘virtu cardinali” – virtue is unitary, but some virtues are more
unitary than others!” Grice: “Bodei has explored ‘coraggio,’ and other
virtues.” – “In his geometry of passions, he sheds light on Plato’s convoluted
idea that in my head I have the reason of a man; in my heart I have the will of
a lion-like warrior, and in my gut I have the love of a multi-headed monster!”
-- Essential Italian philosopher. Remo
Bodei (n. Cagliari) filosofo e accademico italiano. Laureato all'Pisa,
perfezionò la sua preparazione teoretica e storico-filosofica a Tubinga e
Friburgo, frequentando le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg,
con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma
di licenza e il diploma di perfezionamento della Scuola Normale
Superiore. Fu visiting professor presso le Cambridge, Ottawa, New York,
Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA (Los Angeles) e tenne conferenze in
molte università europee, americane e australiane. Dal 1981 al 1983 fu
nel comitato redazionale della rivista Laboratorio politico. Dal 1995
collaborava con Massimo Cacciari, Massimo Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore
Natoli e Stefano Zamagni nell’iniziativa La filosofia nei luoghi del silenzio,
un tentativo di coniugare filosofia e contemplazione nella forma del ritiro
comunitario. Dal 2006 fu docente di ruolo in Filosofia alla UCLA di Los Angeles,
dopo aver a lungo insegnato Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola
Normale Superiore e all'Pisa, dove continuò a tenere, sia pur saltuariamente,
qualche corso. Era anche membro dell'Advisory Board internazionale dello
IEDIstituto Europeo di Design. Dal 13 novembre Remo Bodei fu socio corrispondente
dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e
Filosofiche. Remo Bodei è morto il 7 novembre , a 81 anni. Era marito della
storica Gabriella Giglioni. I suoi libri sono stati tradotti in molte
lingue. Pensiero Si interessò a fondo della filosofia classica tedesca e
dell'Idealismo, esordendo con la fondamentale monografia Sistema ed epoca in
Hegel, dopo aver già tradotto in italiano l'importante Hegels Leben (Vita di Hegel)
di Johann Karl Friedrich Rosenkranz. Appassionato cultore della poesia
hölderliniana, all'autore dell'Hyperion dedicò saggi di notevole interesse. Con
il volume Geometria delle passioni estese la sua meditazione anche a
protagonisti della filosofia moderna come Cartesio, Hobbes e soprattutto
Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del Novecento, in particolare del
marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori 'francofortesi' come Theodor
Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella discussione sulla filosofia politica
italiana, confrontandosi e dialogando in particolare con Norberto Bobbio,
Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola Badaloni. Nei suoi studi
sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto di Johann Karl Friedrich
Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali come le categorie del
bello e del tragico. Costante la sua attenzione per Sigmund Freud e gli
sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e per fenomeni in
apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà vu. Filosofo di
una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo nel
cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare,
Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di assicurarci
quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo noi stessi
pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno saremo noi
stessi"). Nel 1992 vinse il Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione
Saggistica. Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione italiana di
testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch, Theodor Adorno,
Siegfried Kracauer, Michel Foucault. Molti suoi lavori hanno per oggetto
lo spessore e la storia delle domande che riguardano la ricerca della felicità
da parte del singolo, le indeterminate attese collettive di una vita migliore,
i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro vincoli politici,
domestici e ideali. Già in Scomposizioni (1987), affrontò alcuni temi della
genealogia dell'uomo contemporaneo e propose la metafora della geometria
variabile per indagare le strutture concettuali ed espositive che, contraendosi
o espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la formulazione di
problemi. La sua analisi dell'interazione di queste configurazioni mobili
proseguì in Geometria delle passioni (1991) e in Destini personali (2002) che
hanno avuto rilevante successo di pubblico. Alla divulgazione dell'amore
per la filosofia dedicò alcune conferenze e un libro (Una scintilla di fuoco,
2005). Negli ultimi tempi stava lavorando sulla storia e sulle teorie
della memoria. Citazioni «Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre
vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di
porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza. (citato in Corriere
della sera, 16 gennaio 2009)» «Malgrado i ripetuti annunci è certo che la
filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'. Essa rivive anzi a ogni
stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamentee
spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali domande, mute o esplicite, la
filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e
le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e
sentire» (Remo Bodei, La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli,
1997188) «Nel passato il progresso delle civiltà umane era relativo, sottoposto
a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne spezzavano
periodicamente il consolidamento e la crescita» (Remo Bodei, Limite, Il
Mulino, 66) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, 1975.
Riedizione ampliata con il titolo: La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in
Hegel, Bologna, Il Mulino, . Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, (con
Franco Cassano), Bari, De Donato, 1977 Multiversum. Tempo e storia in Ernst
Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979 (Seconda edizione ampliata, 1983).
Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, 1987. Riedizione
ampliata, Bologna, Il Mulino, . Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Madrid,
Visor, 1990. Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il
Mulino, 1991 (Terza edizione ampliata, 2005). Geometria delle passioni. Paura,
speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 1991
(Settima edizione ampliata, 2003). Le prix de la liberté, Paris, Éditions du
Cerf, 1995. Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 1995. Seconda edizione
riveduta e ampliata Bologna, Il Mulino, . La filosofia nel Novecento, Roma,
Donzelli, 1997. Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, 1997.
La politica e la felicità (con Luigi Franco Pizzolato), Roma, Edizioni Lavoro,
1997. Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi,
1998. Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari, Laterza,
2000. I senza Dio. Figure e momenti dell'ateismo, Brescia, Morcelliana, 2001.
Il dottor Freud e i nervi dell'anima. Filosofia e società a un secolo dalla
nascita della psicoanalisi, Roma, Donzelli, 2001. Destini personali. L'età
della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002. Delirio e
conoscenza, Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e
scienze umane, X, N. 3, 2002. Una
scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Bologna, Zanichelli, 2005. Piramidi
di tempo. Storie e teoria del déjà vu, Bologna, Il Mulino, 2006. Paesaggi
sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani, 2008. Il
sapere della follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo per
FestivalFilosofia, 2008. Il dire la verità nella genealogia del soggetto
occidentale in A.A. V.V., Foucault oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita
delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009. Ira. La passione furente, Bologna, Il
Mulino, . Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (con Sergio Givone),
Torino, Lindau, . Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano,
Feltrinelli, . Limite, Bologna, Il Mulino, . Le virtù Cardinali (con Giulio
Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca), Roma-Bari, Laterza, . Dominio e
sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Bologna,
Il Mulino, . Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della
Repubblica Italiana.nastrino per uniforme ordinaria Grand'Ufficiale dell'Ordine
al merito della Repubblica Italiana. — 1º giugno 2001. Di iniziativa del
Presidente della Repubblica. Cavaliere dell'Ordine delle Palme
Accademichenastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine delle Palme
Accademiche immagine del nastrino non ancora presente Cittadino onorario di Siracusa,
Modena, Carrara e Roccella Jonica. Note
È morto il filosofo Remo Bodei, aveva 81 anni, su fanpage, 7 novembre
. Repubblica 18/08/ Albo d'oro, su
premionazionaleletterariopisa.onweb. 7 novembre . «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al
Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica.
Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Bodei Collabora a
Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Remo
Bodei Remo Bodei, su TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Remo
Bodei, . Pubblicazioni di Remo Bodei,
su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de
l'Innovation. Registrazioni di Remo
Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale.
Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Scheda del
professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su fls.unipi.
V D M Vincitori del Premio Dessì Filosofia
Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del
XX secoloAccademici italiani Professore1938
3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici dei LinceiAccademici
italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della Scuola Normale
SuperioreProfessori dell'Università della California, Los AngelesProfessori
dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: geometria delle passioni,
filosofia sarda, I concordati, Concordia, armonia , condivisio. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bodei," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685630143/in/photolist-2mTwHiJ-2mSug6h-2mQtVUe-2mQjVch-2mPYYve-2mPmWDG-2mKhnJa-2mKhn9c-2mKbcpy/
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