Grice ed Antonino – imperare – filosofia italiaa –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo. – marc’aurelio:
antonino -- Grice: “Some call him Aurelio, but I call him Antonino, since the
first time his thing was published in Latin, his thing was under ‘M. Antonini,’
no clue about the Aurelius!” -- Grice: “I once suggested to Strawson that he
should write a dissertation on a comparison of Barberini’s and Xylander’s
translation of Marcus Aurelius; you see, he was a Roman who philosophised in
Greek; and he was translated to Latin only in the 1550s; and into Italian a
century later! Sir Peter responded: “I guess you want me to detect all the
misimplicata!’ ‘Misimpiegato,’ I replied!” Solo il presente ci è tolto, dato
che solo questo abbiamo.» (Marco Aurelio, Pensieri) Marco Aurelio
Antonino Augusto (in latino: Marcus Aurelius Antoninus Augustus; nelle
epigrafi: IMP·CAES·M·AVREL·ANTONINVS·AVG. Meglio conosciuto semplicemente come
Marco Aurelio, è stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su
indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato dal futuro suocero e zio
acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale. Nato come
Marco Annio Catilio Severo divenne Marco Annio Vero, che era il nome di suo
padre, al momento del matrimonio con la propria cugina Faustina, figlia d’Antonino,
e assunse quindi il nome di Marco Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus
Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero di Antonino stesso. Antonino e
imperatore sino alla sua morte, avvenuta per malattia a Sirmio secondo
Tertulliano o presso Vindobona. Mantenne la coreggenza dell'impero assieme a
Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo genero, anch'egli adottato da
Antonino Pio. Morto Lucio Vero, associa al trono suo figlio Commodo. È
considerato dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il
quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward Gibbon.
Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre partiche e
marcomanniche), da carestie e pestilenze. Marco Aurelio è ricordato anche come
importante filosofo stoico, autore dei Colloqui con sé stesso (Τὰ εἰς ἑαυτόν
nell'originale in greco). Alcuni imperatori successivi utilizzarono il nome
"Marco Aurelio" per accreditare un inesistente legame familiare con
lui. Busto dell'imperatore Marco Aurelio (Musei Capitolini, Roma). Nome
originale Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus Tribunicia
potestas 9 anni (da solo), 6 con Lucio Vero, 4 con Commodo e 15 con Antonino
Pio per un totale di 34 volte: la prima volta dal 1º dicembre del 147,
rinnovata annualmente al 10 dicembre di ogni anno. Cognomina ex virtute
Armeniacus nel 164, Medicus e Parthicus Maximus, Germanicus, Sarmaticus. Titoli:
Pater Patriae, Salutatio imperatoria10 volte:[1] I (al momento della assunzione
del potere imperiale) nel 161, (II) nel 163,[11] (III) 165,[12] (IV) 166, (V)
167,[13] (VI) 171,[14] (VII) 174,[15] (VIII) 175,[16] (IX) 177[17] e (X)
179.[1] Nascita26 aprile 121[18] Roma Morte17 marzo 180 Sirmio o Vindobona (attuale
Vienna) PredecessoreAntonino Pio SuccessoreCommodo ConiugeFaustina minore FigliDomizia
Faustina Aurelia Tito Aurelio Antonino Tito Elio Aurelio Lucilla Annia Aurelia
Galeria Faustina Tito Elio Antonino Fadilla Annia Cornificia Faustina minore
Commodo Tito Aurelio Fulvio Antonino Marco Annio Vero Cesare Vibia Aurelia
Sabina Adriano Un altro figlio di cui non si conosce il nome nato dopo Tito
Elio Antonino GensAnnia DinastiaAntonini PadreMarco Annio Vero adottivo:
Antonino Pio MadreDomizia Lucilla Consolato3 volte: nel 140, 145 e 161. Le
principali fonti per la vita e il ruolo di Marco Aurelio sono frammentarie e
spesso inaffidabili. Il gruppo più importante è rappresentato dalle biografie
contenute nella Historia Augusta, composte in epoca successiva al IV
secolo.[34] Le biografie derivate principalmente da fonti ormai perdute (come Mario
Massimo), ma anche da Eutropio e Aurelio Vittore, ovvero quelle di Marco
Aurelio, Adriano, Antonino Pio e Lucio Vero, sono ritenute accurate e
affidabili. Di Frontone, maestro di retorica di Marco e di vari funzionari di
Antonino Pio, si conservano una serie di manoscritti irregolari, che coprono il
periodo che va dal 138 al 166. Nei Colloqui con sé stesso Marco offre una
finestra sulla sua vita interiore, ma gran parte dei libri risultano senza
riferimenti cronologici e con pochi accenni al mondo esterno. La più
attendibile fra le fonti del periodo è Cassio Dione, Egli scrisse una storia di
Roma dalla sua fondazione al 229, chiamata Historia romana.[36] Altre fonti
letterarie e giuridiche, come gli scritti del medico Galeno, le orazioni di
Elio Aristide e le costituzioni imperiali dello stesso Marco Aurelio forniscono
ulteriori informazioni sul contesto storico e sociale in cui visse
l'imperatore. Epigrafi e monete possono integrarle, così come i numerosi reperti
archeologici. La sua famiglia e di origine romana, ma stabilita da tempo a
Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi), una piccola cittadina. Essa salì alla
ribalta alla fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu
senatore e forse pretore. Il nonno, anch'egli di nome Marco Annio Vero, fu
elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio Vero, cioè suo padre, sposa
Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna materna, eredita una grande
fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto
redditizia in un'epoca in cui la città era interessata da una notevole
espansione edilizia. La famiglia della madre e di rango consolare, mentre
quella del padre vanta addirittura una discendenza da Numa Pompilio. Busto di
Marco Aurelio giovane uomo, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, collezione
Farnese. Il busto (fino al collo) è un rifacimento moderno. Nacque da Vero e
Lucilla il sesto giorno prima delle calende di maggio, l'anno del secondo
consolato di suo nonno Marco Annio Vero, corrispondente all'anno 874 dalla
fondazione di Roma. La sorella, Annia Cornificia Faustina, nacque probabilmente
nel 122 o nel 123. Il padre Annio Vero muore giovane, durante la sua pretura,
quando Marco ha solo tre anni. Anche se difficilmente può averlo conosciuto, scrisse
nelle sue Meditazioni che ha imparato modestia e virilità dal ricordo di suo
padre e dalla sua reputazione postuma. Lucilla non si risposa più. La madre di
Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio,
affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua
madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come
evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso
riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre
fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me.
Dopo la morte del padre, anda a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma
anche Lucio Catilio Severo, descritto come il bisnonno materno di Marco
(probabilmente il patrigno o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipa
alla sua istruzione. Crebbe nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era
nato, in un quartiere che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio.
E una zona esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra
cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso
gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli
insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi
che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina presa dal nonno
dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o
qualcuno del suo seguito potevano costituire una tentazione per Marco. La sua
istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno
dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente, introducendo
Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione.
Per volere di Diogneto, prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a
utilizzarne l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco. Altri tutores,
Trosio Apro, Tuticio Proculo edAlessandro di Cotieno, descritto come un
importante letterato (il principale studioso omerico del suo tempo),
continuarono a occuparsi della sua istruzione. Deve ad Alessandro la sua
formazione nello stile letterario, rilevabile in molti passi dei Colloqui con
sé stesso. Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato
di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come
Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo contro la volontà delle
persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e morì, costringendo il princeps
Adriano a indicare un nuovo successore, quando la scelta cadde su Aurelio
Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere
stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col nome di
Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello stesso
princeps, Antonino adotta Marco, allora diciassettenne, e il giovane Lucio
Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo momento Marco muta
il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Rimase
sconcertato quando seppe che Adriano lo aveva adottato come nipote. Solo con
riluttanza passò dalla casa di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano,
che si ritiene non fosse ancora la casa di Tiberio, come veniva chiamata la
residenza imperiale sul Palatino). Adriano chiese in Senato che Marco fosse
esentato dalla legge che richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il
candidato alla carica di questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima
questore, ricevette quindi l'imperium proconsulare maius e il consolato. L'adozione
facilitò il percorso della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente
divenuto prima triumvir monetalis (responsabile delle emissioni monetali
imperiali) e in seguito tribunus militum in una legione. Marco probabilmente
avrebbe preferito viaggiare e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta
che il suo carattere rimase inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per
i rapporti come aveva quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e
attento dei suoi beni come lo era stato quando viveva in una abitazione
privata. La salute di Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando
anche il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore,
gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae,
località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema polmonare. La
successione di Antonino era ormai stabilita e non presentava appigli per
eventuali colpi di mano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine
senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo
"Pio". Governo con Antonino Pio (139-161) L'adozione (Monumento
dei Parti, oggi presso il Museo di Efeso di Vienna): Antonino Pio (al centro)
con Lucio Vero di sette anni (a destra) e Marco Aurelio di diciassette anni (a
sinistra, alle spalle). All'estrema destra, sembra esserci Adriano. Magnifying
glass icon mgx2.svgEtà antonina. Subito dopo la morte di Adriano, Antonino
pregò la moglie Faustina di accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i
suoi precedenti accordi matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa
fatta a Ceionia Fabia e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e
bella figlia, inizialmente promessa a Lucio. Ricopre il suo primo consolato nel
140, con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi
nominato princeps iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il
titolo di Cesare,[69] divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito
si schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato,
Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra
i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis
e i septemviri epulones. Antonino gli chiese di prendere la residenza nella
Domus Tiberiana, uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto
difficoltà a conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche,
anche se ammirò sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di
condotta integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva
essere un obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile
vivere una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile
vivere la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile
attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver
abusato della vita di corte di fronte alla società. Come questore, Marco sembra
abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura
delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in
generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi
compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni
che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo
statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo
tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta
lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare
lo Stato. Il 1º gennaio 145, Marco venne nominato console per la seconda volta,
a soli ventiquattro anni. Una lettera di Frontone esortava Marco a dormire
molto in modo che potrai entrare in Senato con un buon colorito e leggere il
discorso con una voce forte. Marco si era lamentato di una malattia in una
lettera precedente: Per quanto riguarda la mia forza essa è migliorata, sto
cominciando a guarire e non vi è alcuna traccia di dolore nel mio petto, ma
riguardo l'ulcera sto facendo un trattamento e faccio attenzione a non fare
nulla che interferisca con esso. Marco era di salute cagionevole: lo storico
romano Cassio Dione, scrivendo dei suoi ultimi anni, lo elogiò per essersi comportato
a dovere, nonostante le numerose malattie. Matrimonio con Faustina Busto
di Faustina Minore, Louvre, Parigi. Nell'aprile del 145 Marco sposò la
quattordicenne Faustina, come era stato programmato. Secondo il diritto romano,
per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino
liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso
contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua
sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con le
immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come
pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al
matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina. Dopo aver
indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la sua formazione
oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode Attico, e uno di latino,
Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso come suo maestro di stile e
di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e Attico erano gli oratori più
stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori solo dopo la sua adozione da
parte di Antonino. La preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di
quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda
sofistica, una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma,
Marco userà il greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui con
sé stesso. Erode era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco
d'Oriente e mal sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista;
Marco, che sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei
suoi Colloqui, nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei
decenni successivi. Quinto Giunio Rustico in un disegno riportato nel Crabbes
Historical Dictionary. Busto di Erode Attico in marmo, risalente al II secolo
d.C. e conservato al Museo del Louvre di Parigi. Frontone godeva di grande
reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura latina era
considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che oggi, in base
ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non correva una gran
simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in ultimo far scorrere una
vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco. Frontone non
divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di
avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era il
principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese
difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a
far riconciliare i due. All'età di venticinque anni Marco cominciò a
disamorarsi degli studi in giurisprudenza, mostrando segnali di un diffuso
malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di prendere posizione in dibattiti
immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale di Marco era ormai finita. Aveva
mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti e continuava a seguirli con
devozione, anche se la lunga istruzione ebbe negative influenze sulla sua
salute.[89] Quando Marco era giovane Frontone lo aveva messo in guardia contro
lo studio della filosofia, disapprovando come una deviazione giovanile le sue
lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto
Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero
successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo.
Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu proprio Rustico
a suggerire. Nascite e morti nella famiglia. Il 30 novembre 147 Faustina diede
alla luce una bambina di nome Domizia Faustina Aurelia. Era solo la prima di
almeno quattordici figli (tra cui due coppie di gemelli) che Faustina avrebbe
partorito nei successivi ventitré anni.[92] Il giorno successivo, 1º dicembre,
Antonino Pio attribuì a Marco il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè
l'autorità sugli eserciti e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato
conferito. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un
provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri
gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.La prima menzione di
Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma.[94] Lui e Faustina
furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta poi nel
151.[92][95][96] Nel 149 nacquero a Faustina due gemelli, celebrati da
una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini e la scritta
"felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non
sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi
ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono
sepolti nel mausoleo di Adriano. Lo stesso Marco scrisse: Uno prega: «che io
non debba perdere mio figlio!»; ma tu devi pregare: «che io non tema di
perderlo! Marco Aurelio: aureo FAUSTINA MINOR RIC III 682-808351FAVSTINA
AVGVSTA, busto con drappeggioFECVNDITA-TI AVGVSTAE, la Fecunditas (fertilità)
seduta, con un bambino sulle ginocchia e altri due in piedi AV (7,37 g); 161
circa Il 7 marzo del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui
seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153
(un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una
moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine
e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non
sopravvisse a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate
solo le due femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui
mancò la sorella di Marco, Cornificia.[92][96] Un settimo figlio nacque e
morì poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera
di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre
due figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di
Faustina e di Marco.[99] Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al
gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare,
Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo. Lucio divenne
questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva
ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni).[63] Nel 154 ottenne il
consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non
aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una
personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere,
in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai
giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. Antonino
Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in
famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota
dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai
tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da
Adriano,[102] seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il
tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato. Nel 156 Antonino
Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure
avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di
Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio
Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza
con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo successore,
Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico presso il
princeps e poi non durò a lungo.[104] Nel 161 Marco e Lucio furono designati
consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi la fine che
infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti della
Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium, due
giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre.
Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio
imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio
Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro
della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da
Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi
si girò, come per andare a dormire, e morì. Dopo la morte di Antonino Pio,
Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe
presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex
Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra
che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi
carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu
"costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la
morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere
imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita filosofica,
ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo. Anche se
nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per Adriano,
Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne in atto i
piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare solo lui,
egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli stessi onori:
alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio Vero del titolo
di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale, Imperatore Cesare Marco
Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il nome di famiglia di Marco,
Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo, divenne Imperatore Cesare Lucio
Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma veniva governata da due
imperatori contemporaneamente.[109] Fin dalla sua ascesa al principato,
Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse associato su un piano di
parità (diarchia),[62][69] con gli stessi titoli, ad eccezione del pontificato
massimo che non si poteva condividere. La formula era innovativa: per la prima
volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e una parità totale tra i
due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli stessi poteri, in realtà
Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le ragioni pratiche di
questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la memoria di Lucio
Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare l'impero a Marco
Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono completamente chiare. A
dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe maggior auctoritas di
Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso la carica già con
Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E questo fu chiaro a
tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando superiore al fratello più
giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente obbedisce a un proconsole o un
governatore obbedisce all'imperatore. Subito dopo la conferma del Senato, gli
imperatori procedettero alla cerimonia di insediamento presso i Castra
Praetoria, l'accampamento della guardia pretoriana. Lucio affrontò le truppe
schierate, che acclamarono la coppia di imperatores. Poi, come ogni nuovo
imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise alle truppe un donativo speciale,
che fu il doppio di quelli passati: 20.000 sesterzi (5.000 denari) pro capite
ai pretoriani, e in proporzione agli altri militari dell'esercito. In cambio
della donazione, pari a diversi anni di stipendium, le truppe giurarono fedeltà
ai due imperatori. La cerimonia non del tutto necessaria, considerando che
l'ascesa di Marco era stata pacifica e incontrastata, costituì comunque una
valida assicurazione contro possibili rivolte da parte dei militari. In seguito
a questi eventi sembra che la moneta d'argento, il denario, cominciò un lento
processo di svalutazione, che portò sia alla riduzione del suo peso che del suo
titolo (% di argento presente nella lega), che passò dall'89% dell'epoca di
Traiano al 79%. Il funerale di Antonino fu celebrato in modo che lo spirito
potesse ascendere agli dèi, come era tradizione. Il corpo venne posto su una
pira. Lucio e Marco divinizzarono il padre adottivo attraverso un sacerdozio
preposto al suo culto, con il consenso del Senato. Secondo le sue ultime
volontà, il patrimonio di Antonino non passò direttamente a Marco, ma a
Faustina, che in quel momento era incinta di tre mesi. Durante la gravidanza
sognò di dare vita a due serpenti, uno più agguerrito rispetto all'altro. A
Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito Aurelio Fulvio Antonino e Commodo,
che poi sarebbe succeduto al padre come imperatore. A parte il fatto che i
gemelli erano nati lo stesso giorno di Caligola, i presagi sembra fossero
favorevoli, e gli astrologi trassero auspici positivi per i due neonati. Le
nascite furono celebrate sulla monetazione imperiale. Statua equestre di Marco
Aurelio (Equus Marci Aurelii Antonini), in bronzo, situata al Campidoglio
(copia moderna non fedele dell'originale che si trova ai Musei capitolini)
Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a Lucio la figlia undicenne,
Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle celebrazioni dell'evento,
furono donate delle somme per i bambini poveri, come aveva fatto in precedenza
Antonino Pio quando volle commemorare la moglie scomparsa. I sovrani divennero
popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori concessero piena libertà di
parola, come dimostra il fatto che un noto commediografo, un certo Marullus,
poté criticarli senza subire ritorsioni. In ogni altro momento, sotto qualsiasi
altro imperatore, sarebbe stato giustiziato. Ma era un periodo di pace e di
clemenza e il biografo riporta che Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio. Marco
Aurelio sostituì vari funzionari dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio
Volusiano, responsabile della corrispondenza imperiale, con Tito Vario
Clemente, un provinciale, originario del Norico, che aveva prestato servizio
militare nella guerra in Mauretania e in seguito aveva servito come Procurator
Augusti in cinque differenti province. Costituiva l'uomo adatto per affrontare
un periodo di emergenza militare. Lucio Volusio Meciano, che era stato uno
degli insegnanti di Marco Aurelio, era governatore della prefettura d'Egitto.
Marco lo nominò senatore, poi prefetto della tesoreria (Praefectus aerarii
Saturni) e poco dopo ottenne anche il consolato. Il figlio adottivo di
Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei futuri consoli di età severiana
Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio Frontone, venne nominato governatore della
Germania superiore. Non appena la notizia dell'ascesa imperiale dei suoi
allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la sua casa di Cirta e il 28 marzo
rientrò nella sua residenza romana. Inviò una nota al liberto imperiale
Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto con gli imperatori poiché,
disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente agli imperatori. L'insegnante
si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi allievi. Egli, ripensando al
discorso tenuto per l'ascesa al consolato del 143, elogiò Marco con queste parole:
C'era allora una straordinaria capacità naturale in te, perfezionata ora in
eccellenza, il grano che cresceva è ora un raccolto maturo. Lucio era invece
meno stimato dallo stesso precettore, i suoi interessi erano di livello
inferiore. Annia Lucilla, figlia di Marco e moglie di Lucio Vero Il primo
periodo di regno procedette senza intoppi, così che Marco Aurelio poté
dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto popolare. Ben presto,
però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine della Felicitas
temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura proclamato. Nell'autunno
del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando alcune comunità italiche
e gran parte di Roma. Annegarono molti animali, lasciando la città in preda
alla carestia. «Marco e Lucio affrontarono personalmente questi disastri» e le
comunità italiche colpite dalla carestia furono aiutate, permettendo loro di
rifornirsi del grano della capitale. In altri tempi di carestia, gli imperatori
avevano tenuto le comunità italiche fuori dai granai romani. Gli insegnamenti
di Frontone continuarono nei primi anni di regno di Marco. Frontone riteneva
che, visto il ruolo ricoperto da Marco, le lezioni fossero più importanti oggi
di quanto non fossero mai state prima. Riteneva che Marco desiderasse
riacquistare l'eloquenza di una volta, eloquenza per la quale aveva per un
certo periodo di tempo perso interesse. Frontone ricordò nuovamente al suo
allievo l'antitesi tra il suo ruolo e le sue aspirazioni filosofiche:
Supponiamo, Cesare, che tu possa raggiungere la saggezza di Cleante e Zenone,
eppure, contro la tua volontà, tu non possa comunque avere la mantella di lana
del filosofo. I primi giorni di regno di Marco furono i più felici della
vita di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma, era un ottimo
imperatore, uno studente appassionato, e, forse più importante, eloquente come
lui voleva. Marco diede prova di grande abilità retorica nel suo discorso al
Senato dopo un terremoto avvenuto a Cizico. Aveva trasmesso il dramma del
disastro, e il senato era stato intimorito: improvvisamente la mente degli
ascoltatori era più violentemente agitata durante il discorso, che la città
durante il terremoto". E Frontone ne fu enormemente soddisfatto. Politica
interna: l'amministrazione dello stato In politica interna, Marco Aurelio si
comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè
"primo tra i senatori" e non da monarca assoluto, rivelandosi
rispettoso delle prerogative del Senato, consentendogli di discutere e di
decidere sui principali affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle
popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle nomine alle
magistrature.[131] Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre
categorie sociali: ai provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte
cariche dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri antenati
influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito personale. Egli concesse
cariche a persone che riconosceva come illustri eruditi e filosofi, senza
guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto amministrativo introdotto
da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a quel momento aveva
preservato l'Impero anche quando si erano succeduti imperatori dissoluti come
Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra civile del 69, era
imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire piena
consapevolezza del proprio potere. Marco istituì l'anagrafe: ogni cittadino
romano aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla
loro nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e distrusse tutti
i libelli diffamatori che circolavano su molte persone.[135] Proibì i processi
pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai senatori l'antica
immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove certe e una
condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in
opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della rete
stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio,
o in fortezze, accampamenti e città.Egli non amava particolarmente i giochi
gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva e li frequentava
solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità militari ausiliarie di
gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette richiamarli per il
malcontento del popolo che, nonostante le economie necessarie a causa della
guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i suoi ideali
stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze
locali portò alla formazione di una classe burocratica che presto volle
arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe chiusa.
Marco Aurelio Pontefice Massimo Trascorse, inoltre, molto tempo del suo
regno a difendere le frontiere. Tra le altre leggi proibì la tortura per i
cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi,
come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli schiavi, ma solo se
non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo
per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve. Nei processi da lui
presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per tutti, anche quando doveva
emettere una condanna secondo le leggi.[142] Marco e Lucio stabilirono ad
esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un genitore in un
momento di follia, materializzando così un primo concetto di infermità mentale.
Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad
affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie, prendendosi
molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione. Avvocati di
professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e, come sosteneva
il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente giusto». Egli
mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto: l'affrancamento degli
schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta dei consiglieri cittadini
(decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo tornò sui
suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero stava affrontando a
causa delle guerre marcomanniche. E mentre il fratello Lucio era impegnato in
Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni familiari. La
prozia Vibia Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una disputa legale,
dato che il suo ingente patrimonio aveva attratto l'attenzione di molte
persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti a farsi includere nel suo
testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano
essere riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex Falcidia:
Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo patrimonio non alla
propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes.
Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che Matidia non aveva
mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto di morte alcuni
dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone
esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma quest'ultimo,
studiato attentamente il caso, preferì che fosse il fratello a prendere la
decisione finale. Benché a Roma vigessero la tortura e la pena di morte,
applicate con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e stranieri, la
normativa di molti imperatori "illuminati" cercò di ridurre il numero
di reati punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito. Per
Marco anche gli schiavi andavano trattati come persone, seppure subordinate, e
non come oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a
differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore della classe
servile. Alcuni critici tuttavia temevano che il movimento filosofico-giuridico
legato alla politica di affrancamento degli Antonini, se non fosse stato
profondamente ancorato al sistema economico romano, basato principalmente sulla
schiavitù, avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto servile entro
un secolo, ed avrebbe comportato gravi ripercussioni economiche. Marco mostrò
un grande interessamento affinché a ogni schiavo fosse data la possibilità di
riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone avesse espresso la propria
disponibilità a restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa di
manomissione, portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino, e
citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo, egli favorì uno
schiavo. Coerente con lo stoicismo, filosofia contraria alla schiavitù, emanò
numerose norme favorevoli alla classe servile, estendendo le leggi già
promulgate dai suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per esempio
il concetto di diritto di asilo per gli schiavi fuggitivi (che potevano essere
puniti e uccisi in ogni modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si
trovassero presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua dell'imperatore. Sul
letto di morte, Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei confronti di
alcuni re clienti, che il Birley interpreta fossero quelli posti lungo i
confini orientali. Il cambio al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia
incoraggiato Vologese IV di Partia ad aggredire, nella seconda metà del 161, il
Regno d'Armenia, alleato dell'Impero romano, nominando un re fantoccio a lui
gradito, Pacoro III, un arsacide come lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e
parzialmente sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima (114-116), era
così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle province orientali romane dagli
antichi territori dell'Impero persiano.[154][156] Il governatore della
Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i
Parti facilmente, condusse una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu
sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva completamente
distrutta. E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si profilavano
lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del limes germanico-retico,
dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra che
Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche poiché, come ricorda
il suo biografo, non aveva potuto maturare un'adeguata esperienza militare,
avendo trascorso l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non
nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come Traiano o Adriano. Scena
di guerra tra Romani e Parti, sul Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo
delle vittorie di Lucio Vero e Marco Aurelio contro Vologese IV. Poco dopo
giunse la notizia che anche l'esercito del governatore provinciale della Siria
era stato sconfitto dai Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era
quindi necessario intervenire con grande rapidità, anche nella scelta dei migliori
ufficiali da inviare lungo quel settore dell'Impero così strategicamente
importante. Marco pose a capo della spedizione (expeditio parthica) il fratello
Lucio perché, come suggerisce Cassio Dione, era robusto e più giovane del
fratello Marco, più adatto all'attività militare. Birley suggerisce che Marco
volesse spingere Lucio ad abbandonare la vita dissoluta che conduceva e a
capire i suoi doveri. In ogni caso, il Senato diede il suo assenso, e
nell'estate del 162 Lucio partì, lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la
città ha chiesto la presenza di un imperatore. Era però necessario affiancare a
Lucio un adeguato staff militare (comitatus), ampio e ricco di esperienza, e
che comprendesse anche uno dei due prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito
Furio Vittorino. I rinforzi vennero inviati da numerose province imperiali fino
alla frontiera partica. Frattanto Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium,
una nota località turistica sulle coste dell'Etruria, ma le numerose
preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse allora all'amico
Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di descrivergli nei particolari quello
che stava facendo a Alsium, perché sapeva che sarebbe stato rimproverato.
Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare, prendendo esempio dai
suoi predecessori: Antonino era stato un appassionato di palaestra, di pesca e
di teatro, Marco trascorreva invece gran parte delle sue notti insonni a
risolvere questioni giudiziarie. Dai loro scambi epistolari sappiamo che Marco
non riuscì a mettere in pratica i consigli di Frontone poiché ho doveri che
incombono su di me che difficilmente possono essere delegati e rimandati,
adducendo la sua devozione al dovere. Conclude informandosi della salute
dell'amico e salutandolo addio mio ottimo maestro, uomo dal cuore buono. Frontone
rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico una selezione di letture e, per
rimediare al suo disagio per lo svolgimento della guerra contro i Parti, una
lunga e meditata lettera, piena di riferimenti storici, indicata, nelle
edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello Parthico (Sulla guerra
partica). Frontone scrive che, anche se in passato Roma aveva subito pesanti
sconfitte, alla fine i Romani avevano sempre prevalso sui loro nemici: Sempre e
ovunque Marte ha cambiato le nostre difficoltà in successi e i nostri terrori
in trionfi.[164] Il teatro delle campagne militari orientali di
Lucio Vero Intanto Lucio, partito dall'Italia e giunto dopo un lungo viaggio in
Siria, fece di Antiochia il suo "quartier generale", trascorrendo gli
inverni a Laodicea e le estati a Daphne. Durante la guerra, nel periodo
autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a Efeso per sposarsi con
Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante circolassero voci sulle
sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna di umili origini.
Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla madre Faustina,
insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro, nominato per
l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare la figlia fino
a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a Roma, inviò
istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non preparassero
alcun ricevimento ufficiale. La capitale armena Artaxata, venne presa nel 163 e
alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di Armeniacus, pur non
avendo mai partecipato direttamente alle operazioni militari, mentre Marco si
rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno successivo. Al contrario, quando
Lucio venne acclamato imperator, anche Marco accettò la sua seconda salutatio imperatoria.
Le armate romane si attestarono stabilmente in Armenia e l'ex console di
origine emesana, Gaio Giulio Soemo, venne incoronato re tributario d'Armenia, con
l'assenso di Marco. Vide le armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia,
dove posero sul trono il re vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le
metropoli gemelle della Mesopotamia: Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e
Ctesifonte su quella sinistra. Entrambe le città vennero occupate e date alle
fiamme. Cassio, nonostante la penuria di rifornimenti e i primi effetti della
peste contratta a Seleucia, riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua
armata vittoriosa. Lucio venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme
a Marco venne salutato nuovamente imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione
imperiale. Ancora Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri,
permettendo a Lucio di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco
otteneva la IV salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus. I Parti
si ritirarono nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di
dover ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del
fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus
legionis della III Gallica, una delle legioni siriane. Al ritorno dalla
campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata
risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie
nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due
figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il
gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).[176]
Scambi commerciali con l'Oriente Magnifying glass icon mgx2.svgRelazioni
diplomatiche sino-romane. Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver
favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda,
infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata
presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i
Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò
sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia
giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo
predecessore, Antonino Pio, in quanto Antoun equivarrebbe in lingua cinese al
nome latino della famiglia imperiale degli "Anto[u]n-ini". Statua di
Marco Aurelio in uniforme militare (Museo del Louvre, Parigi). Marcomanni
e Sarmati nel 178 Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne
inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove
si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i
nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava
estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata
distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e
settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli
ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di
un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti
vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale. Le tribù
germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i
confini settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo
nuovo slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro
volta dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima
invasione di Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto
più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia,
clienti dell'impero romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò
contro un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre
tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori
compresi tra il Danubio e il fiume Tibisco. Secondo la Historia Augusta,
conclusa la guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni, una
coalizione di natura militare, composta da una decina di popolazioni germaniche
e sarmatiche (dai Marcomanni propriamente detti della Moravia, ai Quadi della
Slovacchia, dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della
piana del Tibisco, fino ai Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale
conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei continui flussi
migratori che avevano ormai modificato gli equilibri con il vicino Impero
romano. Questi popoli erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi,
sia in conseguenza della forte spinta che subivano da altre popolazioni, sia
per il continuo aumento demografico della Germania Magna. Erano, inoltre,
attratti dalle ricchezze e dalla vita agiata del mondo romano. In quel periodo
la frontiera danubiana non poteva contare su buona parte dei suoi effettivi,
sia perché molte legioni avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti
alla guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato
numerosi reparti. Tale epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica
prolungatasi per oltre un ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste
nera. Nel 166/167 avvenne il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera
di poche bande di predoni longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento
delle truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le
limitrofe popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente
dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei
barbari aggressori, recatisi pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di
Carnunto (nel 168).[184] Al ritorno dalla campagna partica l'esercito
portò con sé una terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la
"peste antonina" o "peste di Galeno", che si diffuse a
partire dalle fine del 165 per quasi un ventennio, mietendo milioni di vittime
e riducendo drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno dopo
la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse invece essere vaiolo o
morbillo,[185] avrebbe finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi.
La malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo Dione, e causò fino
a 2.000 morti al giorno a Roma, infettando fino a un quarto dell'intera
popolazione. I decessi totali sono stati stimati in cinque milioni. La colonna
di Marco Aurelio o colonna antonina, fatta costruire dal figlio Commodo Dopo
che la morte colse Lucio agli inizi del 169 (secondo la Historia Augusta in
seguito ad un attacco apoplettico che lo colpì non molto distante da
Aquileia,[187] mentre autori moderni sostengono che il decesso, forse causato
dalla stessa peste, sopraggiunse mentre era impegnato in nuove manovre militari
lungo il limes danubiano), Antonino si trova ad affrontare da solo i barbari
ribelli e con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali,
organizzò una vendita all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi
appartenenti al patrimonio imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo,
vasellame regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta moglie,
oltre a una raccolta di gemme trovata in un forziere di Adriano. In quell'anno
Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo marito, il
fedele Claudio Pompeiano, un militare esperto e affidabile, premiato in seguito
con il consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono, al posto
dello scomparso Lucio Vero, conferendogli perlomeno il titolo di Cesare, ma
egli rifiutò sempre la porpora imperiale. Frattanto lungo il fronte
settentrionale, i Romani subirono un paio di pesanti sconfitte contro le
popolazioni di Quadi e Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via
dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo) e
assediarono Aquileia, il cuore della Venetia, la principale città romana del
nord-est dell'Italia. Questo evento provocò un'enorme impressione: era dai
tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del nord
Italia.[192] Contemporaneamente la popolazione dei Costoboci, proveniente
dalla zona dei Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia,
spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare il santuario di Eleusi.
Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a respingere gli invasori. Numerosi barbari
germanici vennero allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le
due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse
una novità, Marco si adoperò per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra
l'odierna Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera chiamate
Sarmazia e Marcomannia. Quelli che erano stati insediati a Ravenna si
ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco
non portò mai più nessun altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che
qui si erano stabili ti in precedenza. Marco fu così costretto a
combattere una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del
Nord, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia
Cisalpina, del Norico e della Rezia, poi contrattaccando con una massiccia offensiva
in territorio germanico e sarmatico, in scontri prolungatisi per diversi anni. L'imperatore,
in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognomina Germanicus (172) e
Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli Armeniaco,
Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la morte di Lucio Vero, giacché
andava a quest'ultimo il merito del loro conseguimento;[195] tuttavia egli, per
via dell'impegno profuso lungo il fronte pannonico, non riuscirà più a far
ritorno a Roma. Dione e gli altri biografi raccontano anche alcuni
episodi particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo della pioggia,
rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna di Marco Aurelio.[196] I
Romani, circondati dai Quadi in territorio nemico, si salvarono a stento da un
possibile nuovo disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti cristiani per
sostenere che non sarebbero state le preghiere dell'imperatore a ottenere la
pioggia in favore dei soldati romani assetati, ma quelle di alcuni legionari di
fede cristiana.[197] Sempre nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in
Egitto, guidata dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa città
di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio Cassio e le discordie interne ai
rivoltosi portarono alla fine del conflitto entro breve tempo[198].
Rivolta di Cassio (175) Magnifying glass icon mgx2.svgAvidio Cassio § La
ribellione. Nel 175, mentre preparava una nuova campagna contro le popolazioni
della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla notizia che il
governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei migliori comandanti militari
romani, alla falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato imperatore.
Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la Historia Augusta, Avidio
Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina, poiché la stessa
credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero potesse cadere nelle
mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo giovane. Cassio
venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la gran parte delle
province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si schieravano a fianco dei
ribelli. All'inizio Marco cercò di tenere segreta la notizia
dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla pubblica, di fronte
all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso (adlocutio)
rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra Romani. Ma dopo
soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò ufficialmente
falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico dello stato e
del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La testa
dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma
l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non
esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la
clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi
dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando
metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande
quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.[200] Viaggio in
Oriente (175-176) Marco Aurelio: aureo[201] MARCUS AURELIUS RIC III 357-159422M
ANTONINVS AVG GERM SARM, testa laureata con corazza e paludamentumTR P XXX IMP
VIII COS III, la Felicitas con caduceo e scettro AV (7,33 g); coniato nel 176
Nell'ultimo decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali
imperiali, Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma.
Insieme alla moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai
comites del consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le
province orientali nel 175-176.[202] Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo
essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse
a Tarso, sostando in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati
dalla parte di Avidio. Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina
morì in circostanze poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in
Cappadocia ai piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla
morte dell'Augusta: una prima ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto
accordi per la successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la
gotta; una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza
all'età di quarantacinque anni. Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente
con degne cerimonie a Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso
accompagnato il marito in guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a
essere insignita del titolo di mater castrorum.[204] Halala, il villaggio dove
era morta, venne rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono
istituiti collegi di sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo
dell'istituzione benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino
Pio, istituzione che si occupava di fanciulle orfane della penisola
italica.[204] Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio,
spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il
marito, con marinai e gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe
nato Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia
Augusta. Dopo questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la
Siria, forse fermandosi a visitare la città di Antiochia (che si era schierata
con Cassio), perdonandone i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato,
incontrando alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I. Riprese,
quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel 176 in Egitto, dove
ricevette una delegazione dei Parti. Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo
essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove incontrò
Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il filosofo cinico Zenone aveva
fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto, dichiarandosi
"protettore della filosofia". Istituì quattro cattedre permanenti di
studio, finanziandole, una per ogni principale scuola filosofica: platonici,
aristotelici, epicurei e stoici.[209] In Grecia prese parte anche ai riti dei
misteri eleusini.Durante il tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si
rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani. Decise
di associare al trono imperiale il figlio Commodo, l'unico maschio superstite
tra i suoi figli (dopo la morte del giovane Marco Vero Cesare e quella di
alcuni nipoti), nominandolo Augusto e concedendogli la tribunicia potestas e
l'imperium, benché avesse nei confronti del figlio alcune perplessità.[214]
Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia Crispina. A Roma, si
dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di riparare a torti e abusi del
passato; dispose la celebrazione di giochi circensi, mettendo però un limite di
spesa a quelli gladiatorii. Il 23
dicembre del 176, Marco, che aveva battuto le popolazioni germaniche e
sarmatiche a nord del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato
romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da poco nominato Augusto. In suo
onore venne eretta una statua equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei
Conservatori. Offensiva finale in Marcomannia e Sarmatia (177-180)
L'impero romano alla fine del regno di Marco Aurelio, nel 180 L'apparente
tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche, in particolare Marcomanni,
Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto del 178
Marco fu infatti costretto a marciare ancora una volta verso la frontiera
danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai
più tornato a Roma. Egli fece della fortezza legionaria di Brigetio il suo
nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima campagna nella primavera
successiva del 179, che aveva come obiettivo quello di occupare stabilmente
parte della Germania Magna (Marcomannia) e della Sarmatia.[219] Si racconta
infatti che: «I Quadi essendo poco disposti a sopportare la presenza di
forti romani costruiti nel loro territorio tentarono di migrare tutti insieme
verso le terre dei Semnoni. Ma Marco Aurelio Antonino che ebbe queste
informazioni in anticipo della loro intenzione di partire per altri territori,
decise di chiudere loro tutte le vie di fuga, impedendo la loro
partenza.» (Cassio Dione, 72, 20.2.) Dopo una vittoria decisiva nel 178,
il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia),
per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche, sembrava avviato
al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si ammalò gravemente
nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La
sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo costringesse a
fare uso anche di oppio per alleviare il dolore persistente che lo affliggeva
da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo stesso Galeno.[221] Morte
(180) Eugène Delacroix, Ultime parole dell'imperatore Marco Aurelio, una
rappresentazione moderna della morte di Marco: l'imperatore, al centro, siede a
letto, circondato da amici e dignitari, e stringe il braccio di Commodo (a
destra), vestito di rosso, sbarbato e abbigliato in maniera orientaleggiante,
con orecchini e una corona, e che appare distante e poco interessato. «Uomo,
sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o
per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c'è di
grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma
la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire che il dramma è
completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del
dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una né dell'altro. Quindi
parti sereno: chi ti congeda è sereno.» (Marco Aurelio, 12.36.) Marco
Aurelio muore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna).[19] Secondo
invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo
contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante
da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia),[20] che fungeva da
quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Il
Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio
(che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di
Sirmio. Iniziando a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per
prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che
lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne
sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del
padre. Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di partire. Marco,
sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da
stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così
la malattia per permettergli di morire il più rapidamente possibile. Il sesto
giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse loro: perché
piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se
vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene. Mentre anche i
soldati si disperavano per lui, alla domanda su a chi affidasse il figlio,
rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel
settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza,
ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il
capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte
morì.[224] Cassio Dione aggiunge che la morte avvenne "non a causa della
malattia per cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho
chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo", anche se
secondo il Birley, "è inutile avanzare ipotesi". Officiato il
funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato, mentre le sue ceneri
furono portate a Roma e deposte nel mausoleo di Adriano, che divenne così il
sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori
successivi, finché il sacco visigoto della città lo danneggiò gravemente. Le
sue campagne vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la
costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio. Marco Aurelio aveva
stabilito che a succedergli fosse il figlio Commodo, che già aveva nominato
Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore). Questa decisione, che mise di
fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne
fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo non solo era
estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu inoltre descritto, già in
giovane età, come estremamente egoista e con gravi problemi psichici,
appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui lui stesso
prendeva parte), passione ereditata dalla madre. Marco Aurelio riteneva,
a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto
a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero
come quello romano, ma così non fu. A conclusione del principato di Marco
Aurelio, Cassio Dione scrisse un elogio all'imperatore, pur descrivendo il
passaggio a Commodo con dolore e rammarico. Marco non ebbe la fortuna che
meritava, perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare, per la
durata del suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo ammiro
maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e straordinarie,
non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese infelice, il
fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi deluse
le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo argomento,
dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia, decaduta da
un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.» (Cassio Dione, 72, 36.3-4.)
Carattere e pensiero filosofico Magnifying glass icon mgx2.svgColloqui con sé
stesso, Pensiero di Marco Aurelio e Letteratura greca alto imperiale.
Statua equestre di Marco Aurelio (Roma, Musei capitolini) Marco Aurelio fu
l'ultimo grande esponente dello Stoicismo. Marco scrisse i Colloqui con sé
stesso, come esercizio per il proprio orientamento e auto-miglioramento. Il
titolo è stata un'aggiunta postuma, originariamente Marco intitolò l'opera “A
se stesso”, ma non si sa se avesse intenzione di renderla pubblica. Il saggio è
considerato uno dei capolavori filosofici di tutti i tempi. Sii come il
promontorio contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile e
intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi è
capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi è
capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente
e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a
tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora
perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna?»
(Marco Aurelio, 4.49.) Politica religiosa e atteggiamento nei confronti dei
cristiani Magnifying glass icon mgx2.svgPersecuzione dei cristiani sotto Marco
Aurelio. Sebbene Marco abbia da sempre seguito la linea indulgente degli
imperatori Adriano e Antonino Pio, che continuò nei confronti dei culti
ammessi, è elencato tra gli imperatori persecutori dei cristiani. Molti
disordini si verificarono sotto il regno di Marco Aurelio, segnato da epidemie,
carestie e invasioni e più volte le folle diedero la caccia ai cristiani,
ritenuti responsabili di tutto (per aver causato la collera degli dèi, avendoli
negati), e i martiri furono numerosi. Marco Aurelio, personalmente, non mostrò
esplicito disprezzo per i cristiani, né li considerò un vero pericolo, ma
piuttosto dei fanatici.[229][230] Monetazione imperiale del periodo
Magnifying glass icon mgx2.svgMonetazione degli Antonini. Il prototipo di
statua equestre è senza alcun dubbio la statua equestre di Marco Aurelio. In
precedenza l’opera bronzea si trovava nella piazza del Campidoglio a Roma,
prima di essere sostituita da una copia e trasferita nell’adiacente Palazzo dei
Conservatori. Historia Augusta, Cassio Dione, Aurelio Vittore, De Caesaribus,
16. Tertulliano, 25. Grant 1996,27.
Testo per esteso dell'epigrafe: Imperator Caesar Marcus Aurelius
Antoninus Augustus. Il luogo della morte
è incerto tra Sirmio o Vindobona: Tertulliano, 25: (LA) «[...] cum M. Aurelio
apud Sirmium rei publicae exempto die sexto decimo Kalendarum Aprilium
[...]» «essendo stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17
marzo.» Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.14: (LA) «Ita anno imperii
octavo decimoque aevi validior Vendobonae interiit, maximo gemitu mortalium
omnium» «Il diciottesimo anno del suo governo, tra grandi lamenti, il più
forte e più grande di tutti gli uomini morì a Vindobona» Riportato invece
così in Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 16.12 (compendio, più tardo,
della stessa opera di Vittore, attribuita a lui stesso, ma con molta
incertezza): (LA) «Ipse vitae anno quinquagesimo nono apud Bendobonam morbo
consumptus est» «Egli stesso, nel cinquantanovesimo anno della sua vita,
venne consumato da una malattia a Vindobona.» Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.9;
McLynn 2009,24. Cassio Dione, 69, 21.1.
Asse della zecca di Roma antica (del 151-152), RIC, III, 1308a
(Antoninus Pius); BMCRE,1917; Cohen, Cassio Dione, 72, 11.3-5. Machiavelli 1531, I.10. Gibbon 1776-1789, capitolo I: Estensione e
forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini; in particolare I.78, in
cui l'autore descrive il buon governo degli imperatori adottivi; inoltre,273
nota 4 del testo disponibile su Google libri, in cui usa l'espressione "good
emperors". Cassio Dione, 72, 14.3-4. Il libro completo, che parla
dell'epidemia avvenuta sotto Marco Aurelio, è andato perduto; questa nuova
epidemia fu la più grave che lo storico avesse mai visto, a quanto narra nella
"vita di Marco Aurelio".
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 12.13, 17.1-2 e 22.1-8. Renan 1937.
Tra questi vi furono: Marco Aurelio Probo (CIL XI, 1178), Marco Aurelio
Mario (imperatore nelle Gallie), Marco Aurelio Caro e Marco Aurelio Carino (CIL
VIII, 10956), oltre a due imperatori suoi omonimi, Caracalla (AE 1911, 56) ed
Eliogabalo (il cui nome imperiale ufficiale era "Marco Aurelio
Antonino"; CIL VI, 40677 e AE 1990, 469) e che furono i primi, pur non
appartenendo alla dinastia antonina, ad usare il suo nome. Questi ultimi due,
in particolare, come già il padre di Caracalla, Settimio Severo, che aveva
riabilitato la memoria di Commodo, divinizzandolo e rimuovendo la damnatio
memoriae imposta dal Senato, e dato al figlio il nome di Marco Aurelio,
cercavano un collegamento diretto con gli Antonini al fine di nobilitare le
loro origini africane e asiatiche, quindi provinciali. Inoltre, una delle mogli
di Eliogabalo era una nipote di Marco Aurelio stesso, Annia Faustina. Il nome
Marco Aurelio divenne, quindi, un nome di famiglia dei Severi e, come «Cesare»,
«Augusto» e, più tardi, «Flavio», venne utilizzato come prenome imperiale da
molti altri. Birley 1990,317-318.
Birley 1990,269 ss. Birley
1990,316. Birley 1990,313-319. CIL II, 656 (p 696). Birley 1990,31. Historia Augusta, Marcus Aurelius, Birley
1990,32-34. McLynn 2009,14. Birley
1990,34. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.5. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1. Poiché suo fratello Marco Annio Libone è
stato console nel 128 e difficilmente potrebbe essere stato pretore più tardi
del 126, Annio Vero deve essere stato a sua volta pretore prima di questa data,
verosimilmente, appunto, nel 124. Birley
1990,34-35; Marco Aurelio, 1.2 Birley
1990,36-37; Tacito, Dialogus de oratoribus, 28-29; Marco Aurelio, 5.4. Marco Aurelio, 1.3. Birley 1990,40; Marco Aurelio, 1.17.7. Birley 1990,35; Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 2.1; Marco Aurelio, 1.14.
Birley 1990,39; Marco Aurelio, 1.1.
Marco Aurelio, 1.17; Birley 1990,39.
Marco Aurelio, 1.4. Marco Aurelio,
1.6. Norelli,75 Marco Aurelio, 1.6;
Birley 1990,43. Marco Aurelio, 1.10 e
1.12; Birley 1990,46. Birley
1990,51-52. Guido Clemente 2008,629-630. Birley 1990,55 ss. Guido Clemente
2008,630. Birley 1990,69. Birley 1987,38-42. Birley, Cassio Dione, 69, 22.4; Historia Augusta,
Hadrianus, 25.5-6 Cassio Dione, 69,
22.1-4; Historia Augusta, Hadrianus, 24.8-13.
Birley 1990,63-66; Grant 1996,12.
Birley 1990,63. Mazzarino 1973,328. Marco Aurelio, 6.30: "Bada di non
cesarizzarti, di non impregnarti con la porpora: succede infatti". Historia Augusta, Marcus Aurelius, 6.5;
Birley 1990,67-68. Marco Aurelio,
1.16. Marco Aurelio, 5.16. Birley
1990,68. Marco Aurelio, 8.9. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4 e
3.6. Birley 1990,108. Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.8 (trad. da
Haines 1.184 ss.). Cassio Dione, 71,
36.3. Grant 1996,24. Birley 1990,110-111. Marco Aurelio, 1.11. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4;
Cameron 1967,347. Aulo Gellio, 9, 2.1–7
e 19.12; Birley 1990,76-78. Birley
1990,65-67; molti critici moderni hanno avuto dubbi per l'ammirazione dei
contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche: Barthold Georg
Niebuhr, lo descrisse "frivolo", Samuel Adrian Naber lo trovò
"disprezzabile" (Champlin 1980, capp. 1-2); altri lo hanno definito
"pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né
l'analisi politica di un Cicerone né l'introspezione di un Plinio (Mellor 1982
commentando Champlin 1980); una ricerca prosopografica degli anni '80 ha
riabilitato, almeno in parte, la sua reputazione, cfr. ad esempio, sempre
Mellor 1982 su Champlin 1980. Birley
1990,88 ss. Birley 1990,78. Birley 1990,113. Birley 1990,114 ss. Birley 1990,83 ss.; Marco Aurelio, 1.8. Marco ricorda Epitteto come una guida
spirituale, facendo spesso riferimento alle sue Diatribe e al Manuale come ad
esempio in Marco Aurelio, 11.34, dove lo cita e ne commenta alcune
massime. Birley 1990,336-339.
Birley 1990,126 ss. Champlin
1980,174 n. 12. Frontone, Ad Marcum
Caesarem 4.11 (trad. da Haines 1.202 ss.). Birley 1990,130-132. Marco Aurelio, 9.40. RIC, III 682
(Aurelius); MIR, 18, 13-2a; Calicó, 2055 (moneta illustrata); BMCRE,399
note. Inscriptiones Graecae ad Res
Romanas pertinentes, 4.1399, tradotta da Birley 1990,140. Birley 1990,205 e 339. Historia Augusta, Lucius Verus, 2.9-11 e
3.4-7; Birley 1990,132-133. Forse in
omaggio ai filosofi greci o a causa di una cicatrice (cfr. Melani, Fontanella e
Cecconi,58). Bianchi Bandinelli e Torelli
1976, scheda 131 (ritratti di Adriano).
Birley 1990,137-138. Birley 1990,140. Cassio Dione, 71, 33.4-5. Historia Augusta, Antoninus Pius,
12.4-8. Birley 1990,142; Historia
Augusta, Pertinax, 13.1 e 15.8 Birley 1990,142-143. Historia Augusta, Lucius Verus, 4.2. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
15-16. Historia Augusta, Lucius Verus,
3.8; Birley 2000,156 Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 7.9. Savio
2001,331. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 7.10-11; Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.8; Birley
1990,144-145. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 19.1-2; Birley 1990,145.
Historia Augusta, Commodus, 1.2. Birley 1990,145-147. Birley 1990,145-146 cita Mattingly 1940,
Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 155 ss.; 949 ss. Cassio Dione, 71.1, 3; 73.4.4–5. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.1.
Birley 1990,150. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 8.8; Birley 1990,151 cita Eck 1995,65 ss. Vittorino minore fu console assieme al nipote
di Marco Aurelio, Tiberio Claudio Severo Proculo nel 200 (AE 1996, 1163 e CIL
III, 8237). Birley cita Frontone, Ad Verum Imperator 1.3.2 (trad.
da Haines 1.298 ss.). Frontone, Ad
Antoninum Imperator 4.2.3 (trad. da Haines 1.302 ss.). Birley 1990,148
ss. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
8.4-5. Birley 1987,278. Birley
1990,158 ss. Historia Augusta, Marcus
Aurelius, 8-10 e 12. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 10. Pulleyblank 1999. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 11.
La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42
m) fu eretta per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-sarmatico
del Danubio. La colonna era sormontata da una statua dell'Imperatore, dove ora
è posta quella di san Paolo, così come accadde per la colonna di Traiano, dove
venne posizionata una statua di san Pietro in sostituzione di quella
dell'Optimus princeps), in Coarelli 2008,42-43.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17 e 23. Renan, Eusebio, 5.1.77. Codice Giustinianeo, Digesto, 1, 18, 13. Codice Giustinianeo, Digesto, XVIII,
1,42. Historia Augusta, Marcus Aurelius,
24.1-3. Codice Giustinianeo, Digesto,
XLVIII, 9, 9, 2. Codice Giustinianeo,
Digesto, XXXI, 67.10: «Item Marcus imperator […] et ideo princeps
providentissimus et iuris religiosissimus cum fideicommissi verba cessare
animadverteret, eum sermonem pro fideicommisso rescripsit accipiendum». Birley 1990,165 ss.; Millar 1993,6 e ss. Vedi
anche Millar 1967,9-19 Frontone, Ad
Antoninum Imperator 2.1-2 (trad. da Haines 2.94); Birley 1990,164; Champlin
1980,134. Historia Augusta, 24.1-3. Svetonio, Titus, 8 e 9. Casadei e Mattarelli 2009,107-108. Bloch 1947.
Renan 1937,336-337. Birley
1990,170-172. Historia Augusta, Antoninus
Pius, 12.7; Birley 1990,148. Birley 1990,149. Mazzarino 1973,335 ss. Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da
Haines 2.19); Frontone, De bello Parthico 1-2 (trad. da Haines 2.21-23); e 10
(trad. da Haines 2.31); Guido Clemente 2008,633. Luciano di Samosata, Alessandro, 27. Cassio Dione, 71, 2.1; Luciano di Samosata, 21;
24-25 Cassio Dione, 71, 2.1. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.9. Birley 1990,151-154. Birley 1990,154-155. Champlin 1980,134; Frontone, De Feriis
Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Birley 1990,156-157. Frontone, De bello Parthico 10 (trad. da
Haines 2.31); Birley 2000,150-164; Birley 1990,157. Historia Augusta, Lucius Verus, 9; Historia
Augusta, Marcus Aurelius, 9.4; Birley 1990,159.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4-6; Historia Augusta, Lucius
Verus, 7.7; Birley 1990,162. Birley 2000,163. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.1;
Historia Augusta, Lucius Verus, 7.1-2; Frontone, Ad Verum Imperator 2.3 (trad.
da Haines 2.133); Birley 1990,159; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, 233 e ss.. Birley 2000,162.
Farrokh 2007,165; RIC, III, Antoninus Pius to Commodus, n. 511-513255 e
n. 1370-1375322. Birley 1990,163. Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius
Verus, nos. 261ff.; 300 ff. Birley 1990,174. ILS 1098; Birley 1990,179-180; Mattingly
1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus,401 ss.. Birley 2000,164. Birley 1990,183. Birley 1990,180; Pulleyblank 1999; Mazzarino
1973,338 ss.. Frontone, De nepote amisso
2 (trad. da Haines 2.222); Frontone, Ad Verum Imperator 2.9-10 (trad. da Haines
2.232 ss.) Birley 1990,164-165.
Lucio Dasumio Tullio Tusco, un lontano parente di Adriano, fu inviato in
Pannonia superiore, per sostituire l'esperto Marco Nonio Macrino. La Pannonia
inferiore venne affidata al poco conosciuto Tiberio Aterio Saturnino. M.
Servilio Fabiano Massimo venne trasferito dalla Mesia inferiore a quella
Superiore quando Iallio Basso si era recato ad Antiochia di Siria da Lucio
Vero. La Mesia inferiore venne allora affidata al figlio, Marco Ponzio Leliano.
La Dacia venne divisa in tre distretti, governati da un senatore pretoriano e
da due procuratori. La pace non poteva durare a lungo, la Pannonia inferiore
disponeva di una sola legione, ad Aquinco. Cfr. Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,
245 ss.; Pannonia Inferior,251. Birley
1990,189. Southern 2001,203-206. Ruffolo 2004,84. Birley 1990,
194-197. Stathakopoulos 2004,95. Birley 1990,186-187. Historia Augusta, Marcus Aurelius, 14.8;
Historia Augusta, Lucius Verus, 9.11.
Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17.4.
Cassio Dione, 72-2, 3; 73-4,5 e 20,1; 74-3, 1,2. Birley 1990,207; Alföldy 1977, Moesia
Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,245
ss.; Pannonia Inferior,251. Questa
invasione avvenne secondo Birley 1990,184-186, 194-196 e 207-208 ed altri
studiosi moderni (Brizzi e Sigurani 2010,393-394 e 398) nel 170. Birley 1990,208-213. Guido Clemente 2008,635. Kneissl 1969,206-207. Infatti i cognomina
Armeniaco, Medico e Partico sono assenti nella documentazione di carattere
ufficiale posteriori al 172, come ad esempio i diplomi militari: nello
specifico si veda, ad esempio, AE 1990, 1023 o AE 1987, 843 (entrambi del
179). Historia Augusta, Marcus Aurelius,
24.4. Tertulliano, 5, 6. Michael Grant, The Antonines. The Roman
Empire in Transition, Routledge, 1994,50.
Birley 1990,230-231. Cassio
Dione, 72, 27-29; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.10-12. RIC, Marcus Aurelius, 357 corr. (no P P);
MIR,18, 322-2/35; Calicó, 2017; BMCRE,674. Astarita 1983,155-162. Birley 1990,239-240. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 26.3-9. Historia Augusta,
Marcus Aurelius, 19.1-8 e 26.3-9.
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Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi.Rachana Kamtekar, Marcus
Aurelius, in Edward N. Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for
the Study of Language and Information, Stanford. Predecessore: Antonino
Pio161–180 (con Lucio Vero, dal 177 con Commodo)Commodo Predecessore Console
romanoSuccessoreConsul et lictores.png Gaio Bruttio Presente Lucio Fulvio
Rustico II140 Marco Peduceo Stloga PriscinoI con Imperatore Cesare Tito Elio
Adriano Antonino Augusto Pio IIcon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino
Augusto Pio IIIcon Tito Enio SeveroTito Statilio Massimo145 Gneo Claudio Severo
Arabiano II con Lucio Edio Rufo Lolliano Avitocon Imperatore Cesare Tito Elio
Adriano Antonino Augusto Pio IVcon Sesto Erucio Claro II Appio Annio Atilio
Bradua161Quinto Giunio Rustico IIIII con Tito Clodio Vibio Varocon Lucio Elio
Aurelio Commodo IIcon Lucio Tizio Plauzio AquilinoMarco Aurelio Campagne
partiche di Lucio Vero Guerre marcomanniche Imperatori adottivi Imperatori
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Imperatori romaniFilosofi romaniScrittori romani Nati il 26 aprile Morti il 17
marzoNati a Roma Morti a Sirmio Aforisti romani Dinastia antoniniana Consoli
imperiali romani Stoici Annii Auguri Sepolti a Castel Sant'Angelo Marco Aurelio
Persone legate ai Misteri eleusini. Italian philosopherone of the most
important onesVide his letters to his tutor Frontino -- Marcus Aurelius, Roman
emperor (from 161) and philosopher. Author of twelve books of Meditations
(Greek title, To Himself), Marcus Aurelius is principally interesting in the
history of Stoic philosophy (of which he was a diligent student) for his
ethical self-portrait. Except for the first book, detailing his gratitude to
his family, friends, and teachers, the aphorisms are arranged in no order; many
were written in camp during military campaigns. They reflect both the Old Stoa
and the more eclectic views of Posidonius, with whom he holds that involvement
in public affairs is a moral duty. Marcus, in accord with Stoicism, considers
immortality doubtful; happiness lies in patient acceptance of the will of the
panentheistic Stoic God, the material soul of a material universe. Anger, like
all emotions, is forbidden the Stoic emperor: he exhorts himself to compassion
for the weak and evil among his subjects. “Do not be turned into ‘Caesar,’ or
dyed by the purple: for that happens”. “It is the privilege of a human being to
love even those who stumble”. Sayings like these, rather than technical arguments,
give the book its place in literary history. Ab avo meo Vero didici placidis
esse moribus et iram abstinens. Ex estimatione parentis mei cius recordatione
ad verecundiam et VIRO dignos mores usus sum. Matre in studio pietatis erga
deos isberalitate gimitatus. Præterea in abstinendo anno perpetrandis modo sed
et cogitandis flagitiis. Tum in frugalitate victus, ab opulentia comitante luxu
remotissima. A pro-avo id habui ut ne in publicos ludos comcarem sed bonis præceptoribus
domimex uterer, intellige regnullis hac in re parcendum sumptib. Ab educatore,
ne auriga Praginus, aut Venetus, neuc palmularius aut scutarius fierem. Ab
eodem tolerare labores, esse contentus parvo, operari, non immiscere mc multis
negociis, haud facile calumniam admittere, didici. A Diogneto, tudium in res inanes
non conferre, fidem abrogare iisque de incantationibus, de monug
pfligationib. acid genusalii reb pitigiatores et impostores referent. Nec animi
causa coturnices alere, aut fi milium rerum studio et cupiditate teneri. Ite
libere dicta ferre æquo animo, PHILOSOPHIAE ME ADDICERE, audire primo Bacchiu, deinde
Tandasidem ac Marcianum, scriber dialogos puerili etate grabatu, pellem, aliağ ad
greca disciplinam pertinentia, usurpare. RUSTICI monitu in ea deveni
cogitatione, mores meos correctione ac cultu opus habere. Non esse imitandos sophistas,
non esse instituendas de contemplationibus scriptiones ne que oratiunculas
adhortatorias declamandum neq speciem VIRI exercitiis dediti, ac laboriosi
ostentandam. Ad hæc rhetorica, poetica ed atrologia abstinendum, domincuesticu,
negaliis huius modi rebutendum. Epistolas scribendas simpliciter, quomodo
ipsius ad matrem meam est epistola Sinueſſam missa. In super placabilitatem este
et in alloquio facilitatem exhibendam iis qui stomachu nobis moverint, aut aliquid
deliquerít, simulatqii redire adofficium volint. Diligenter etiam legendum, nec
omnino considerationem accuratam satis putandum, ne æceleriter adsentiendum
loquacite LOQUACITER CONVERSANTIBUS. Commentarios Epicteti legendos, quorum et
e domo sua mihi copiam fecit. Apollonius medocuit ut libertatem secta rer,
certamg constantiam, negalio un quam, ne minimum quidem, quam ad rectam
rationem respicerem ac semper mei similis essem in gravibus doloribus a
missione prolis, morbis diuturnis. Uc quem in vivo exemplo evidenter contemplarer,
posse eundem et durissimum esse et remissum quam maxime. Tum etiam ut in
percipienda doctrina menon morosum præberem sed circumspicerem de homine qui
palam experientiam et in tradendis scientijs facultatem mia nimum suorum
bonorum putaret. Præterea modum beneficia utiis videntur ab amicis accipiendi
ne vel accepta ea nos viliores redderent vel stupidem ne gligerenturato
permitterent. In Sexto de præhemdi comitatem et exemplum domo ad arbitrium
patris familias institute, vivem di secundum naturam, gravitatem nion simulatam,
ing consulendo amicorum commodis sagacitatem, facilitatem erga privatos, mores
omnibus accomodatos. Quo fiebat, ut eius consuetudo omni adulatione suavior
ipseos codem tempore in summa apud cos quibus cum agebat veneratione esset.
Porro autem expedicam viam acrationem inveniendi et disponendi præcepta ad usum
vitæ necessaria. item quod nequc iræ neo alius cuius animi commotio nis ullum
indicium dabat, sed simul et quam maxime affectibus vacuus et humanissimi erat
ingenii. In codem honc stam famam finciactatione. Multa rumorerum scientiam
citra ostentationem. Alexandrum Grammaticum obseruabam ab increpationibus sibi
tempera re, neque ignominiose castigare si quis barbarum, lolocum, aut absonum
quippiam protulisset sed civiliter id modo o dicendum fuerat, pronunciare.
Perinde ac si respondens vel suam sententiam interponeret, aut rationem re ipsa
non verbo cum altero conferret. Aut omni no alia quadam solerti et occulta correctione
idem efficiebat. A FRONTONE didici ut scirem quæ consequeretur tyranidem
invidia quæ varietas simulatione. Et quod omnino qui nobis patria icidicunt in
humaniores quodammodo fint reliquis. Ab Alexando Platonico, ne crebro neve nil
necessitate coactus cuiquam dicerem scriberemúeme esse occupatum ne ve
identidem impendetia negocia prætendendo debita familiaribus officia
detrectare, A CATULO, ne parvi facerem li quid amicus conquereretur, etiam et
nulla id ab eo fieretratione. Sed anniterer eum in pristinam gratiam rcducere. Item
ut summa animi contentione præceptorum laudem prædicarem. Uti de Domitio et Athenodoto
traditum est. Ut yliberos vere diligere. A fratre meo SEVERO amore familiarić
et ucritatis iustitiæ. Per eundem cognovi Thrasea, Helvidium, CATONEM, Dionem,
BRUTUM. Idem mihi autor fuit ut animo conciperem formam reipublicam in qua
æquis legibus codemý iure omnia administrarent, ac regni, cui nihil cf afet
libertate subditorum antiquius. Eun dem observans curis esse vacuum, constantiam
in honore PHILOSOPHIAE habendo, beneficentiam et liberalitatem perpetuam
servare, bene sperare ac de amicorum in amore certo libipolliceri, aq bus animo
elſet factus alieno idiis non occultum ferre. Nec amicis eius opus esse ut de
ipsius voluntate coniectura facerent sed eam apertam elle. Maximus adhortatus
me est, ut suo exemplo me ipsum regerem, neq ulla in re præcipitarem, animo
bono cùm aliis in calibus, tum in morbis essem. Ut moribus ut erer temperatis, blandis,
ac gravibus ut quæ instituissem expedite necma gnacum molestia perficere.
Dicebat libi verba facienti aut a genti quic quam nemine non fidem habuisse ex
animi ipsum sententia loqui vel agree. Nullius rei admiratione se obstupuisse
nunquam aut seſsi nasse, aut cunctatum fuisse, nec trepidasse neq mæstitiæ, neo
gaudii nimium fuisse, neqz iracundum neq suspiciosum sed beneficum, placabilem,
veracm, magis có Itantia erroris secura o erratorum correc ioné præ se tulille.
Neminem fuisse, afe 1 abipfo conteptum, aut ipso pstantiorem putaret.
Liberaliter quoß facetum fuisse. Patris notavi humanitatem et inijs quæ semel
essent accuratem deliberata, pmansionem vanægloriæ et eorumque putant, ne que
sunt tim honoru contemptu, tudium laborum, assiduitatem. Libenter audiebat cos,
qaliqd reip. utile poterant adducere. In tribuendo unicuip dignitate suu firmiter
pſeuerabat, pitusubi intendendum et ſet, ubi remittedum. AMORES ADOESCENTU
lorum coercebat, utilitati publicæ, oes cogitationes intendebat. Amicis sec uncce
nan dı, autiter faciendi necessitate remittebat etque necessitate aliqua
impediti cum non conitati fuerant, cunde fempirfum inveniebant.In consiliis
accurateqd conducere possetīqrebat, ac conftanter, nec ob uiis quibusg
cogitationik. contento fine consultandi faciebat.Amicitiam conservabat, neq vel
satietaté amicorum capiebat, ne ad eosparandos furore aliquo ferebat. In
oib.reb. ola sua i se repogta habebat, læto vultu. Longe futura puidebat. Arq
et minima antem pparabat, idý citra tumultum. Acclamationes, oems adulationem
compescebat. Quæ ad magistratum erant necessaria, semper custodiebat, sumptus
procura bat, ncq detrectabat dcijsreb, causam dicere. Deos citra superstitionem
cole þat, homines ne demerebatur, ncquc auram popularem captabat. In omnib, his
sobrius, costans, nusquam ineptus, aut novitatis studiosus. Has porrò res, quæ ad
vitę commoditatem aliquid conducunt, quas fortuna suppeditat, liberaliter,
fimulý sincfastu tractabat, ita ut & liadeffent, haud solicite iis
uteretur, nec defidcraret, li deeflent.Nemo fuit, quieum aut sophistam, aut
vernam, aut hominem de schola esse diceret. Sed VIRUM MATURUM, absolutum,
adulatione superiorem, qui et seipsum regere, et ali ospoflet, Iam PHILOSOPHIAM
VERAM profitentes in honore habens, reliquis nihil exprobravit. Cæterum in consuctudi
ne familiari commodus gratiosuso extra fastidium erat. Corpus suum moderate curabat,
non ut qui vitæ CUPIDUS, aut cuiforme elegantia curæ esset, non tamen interim
negligenter. Itag suæ diligentiæ causa paucissimis medicorum pharmacis et fomentis
opus habuit. Id in co praeclarissimum fuit, quod facultate alicuius rei
præditis concedebat abso invidia, utoratoriæ, historiæ, legum, consuetudinum,
aliorum gid genus. Quin etiam ut gloriam iis rebusquibus excellebant,
adipiscerentur, operam suam ipsis navabat. Eccum ageret omnia secundum
instituta maiorum, ne hoc ipsum quidem studebat consequi, ut videretur a
maioribus accepta obserualle. Ad hæc non erat vagus aut levis sed locise et
negociis iisdem soleba timmorari. Post intentissimos capitis dolores, recens at
que alaçer ad consueta opera redibat. Praeterea pauca ad modum habebat arcana
et hæc quoq tantum derebus publicis. Prudens porroerat, moderatus cum in
spectaculis exhibendis, tumin operum extructionibus congiariis et aliis huius modi
negotiis. Guippe vir ed ex usu foret potius, quam quem gloria fa &tum sequeretur,
reputans. Non utebatur alieno tempore balneis, non erat ædificandi CUPIDUS, non
de ciborum, non vestium texturæ aut infacturæ, non formæ corporis elegantia
anxius. Comitatus ei e prædio qui eum ab inferiori casa deduceret. Inter
Lanuvinos plerum Tusculano publicano utebatur, etiam deprecante. Omnino in eius
moribus nihil in erat in humanum, nihil in verecundum, nihil procax, ne quod
dicitur ad sudorem usque. Sed omnia ita apta
et concinna ut li per otium cogitata fuissent, compositem, placidem,
firmiter et sibi in vicem convenienter. Ac commodari posset ei id quod de Socrate
memoratur, quod et abstinere potuerit,et frui reb.istis, quibus et carere ple
rio per infirmitatem & in fruendo continere se nequeunt: at temperare fibi
ab utroque uitio pofle et sobrium permanere, id VERO VIRI eft animo integroinui
conspræditi: quod ille in morbo maximi præstitit.A diis bonos avos, bonos
parentes, bonam sororem, bonos praeceptores, familiares, necessarios, amicos
bonos accepi feren omnia bona: tum g in nullum eorum quicquam deliqui, quam
quam ita affectus, ut, si occasio incidisset, utiq aliquid tale admisissem verum
beneficio deorum evenit, neresita caderent, ut hoc in me depræhenderetur. Id
quoque iis acceptum refero, quod non diutius apud concubinam avisum educatus,
quodad PUBERTATEM CASTUS perveni, neque ante eam VIR sum factus sed tempus
expectavi. Quod principi et patri subditus fui, qui erat omnem mihi superbiam
excussurus, oftenfurúsque pofle eum qui in aula vivat et ftipatoribus carere
& vestibus pictis et facibus, ftatuisý certi generis, reliquo ğluxu: Sed licercei
proximum privato homini habitum ſumere: imò verò eum splendorem eos, qui
principes rempub.gerere velint, demissio, res segnioresg efficere. Itemque eum
fratrem sum nactus, qui moribus fuis me ad curam mei ipsius habendam posset
excitate, honore autemet amore in me suo
delectare . Quod hberi mi hi neque indole, neque corpore pravinati sunt.
Quodmagnos in rhetorica, poetica, reliquisg studijs progressus non feci, qme
fortassis planem detinuissét, si me feliciter pficeresenlitlem. Quod mature cos
a quibus sum enu tritus in dignitate constitui, quod mihi videbantur cupere,
quodg id iuvenib. Adhuc praestiti, neo diu cas future spela cavi. Quod
Apollonium, RUSTICUM, Maximum cognovi. Quod perspicueat ą sæpe numero naturalem
vitam cum ani momeo reputavi, qualisnam ea esset: nimirum quodad deos attineret
& co rum munera, cogitationcsoninde conceptas, nihil iam obstarc, quin aut
secundum naturam viverem, aut non. Atque boc quidem fore mca culpa, qui deûm
monitus,actantùm non præcepta non obferuaffem . Quòd in cali uita mcum corpus
tandiu durauit.Quòdncquecú Benedicta,nc cumThcodoto rem ha bui , fed &
pofteàamore cócitus, rcctæ rationi parui. QuòdRuſtico fæpiusin dignatus,nihil
prætercà admiferim, cu ius mepæniterepotuiſſet. Quòd ma ter, cum esset adhuciu
venis moritura, reliquos tamen vitæ suæ annos mocum exegit. Quod quotiescung
pauperi ali cui, aut alias indigenti opitulari statuissem, nunquam audivi,
pecuniam mihi non esse, unde id facere et quod mininum quam usu ucnit, ut
alterius ope indigerem . Quod uxorem ita obsequentem, mei AMANTEM ac limplicem habui.
Quod alumni quibus liberos meos credere idonei non defuere. Quod in somnis cum alia
mihi remedia funtdata tum contra sanguinis ex creationem ac contra vertiginem, hocg
Caietę. Sicut Chrękę cuğanimü ad PHILOSOPHIA
adiunxič ſem, nó incidi in sophistam aliquem aut scriptore vel a SYLLOGISMOS dissoluere
doceret aut meteora traderet. Olahực deorum auxilio, forcuna indigent. Hec in
Quadis ad Granuam. Solobatis sibi prædicere, erit ut incidam in curiosum,
ingratum, contumeliosum dolosum, invidum,
DISSOCIABILEM. Omnia hęcijs euenc runt ignoratione bonorum et malorum. Ego
vero, quinaturam boni perspectam habeo, quòdhoncstum fit, & mali, quod
turpc, ipfamg eius qui peccat natura, quod mihi lit cognata non quia ciul dem
carnis efs aut feminis sed mentis et divinem particulæ particeps a nullo cocum
lædi pollum. Nequccnimiamo V turpitudinem aliquam quisquam con ijciec. Ei porrò
quod mihi cognatum est, negira scipossum, neque insensus esse: ute nim unus
alterum iuvaret in suo opere, eo nati sumus, ut manus, ut pedes, ut palpebræ,
ut superiorum inferiorum o dentium ordines. quare contra natura est, ut in
vicem nobis repugnemus: atqui succensere at a versari se invicem, idquidem est
repugnare. Quidquid ego sum, idomne constat caruncula, animula et mente.
Proinde missos fac libros, neß stude, non enim licet. Quin tu, ut mox vitam cum
morte commutaturus,cor pussperne, quod est tabus, ossicula et reticulí
muliebris instar plexus nervorum, venarum arteriarum. Animaquog considera,
qualis ea sit. SPIRITUS nimirum , ne que is idem semper, sed qui in horasali us
efflatur, alius ſorbetur. Restat tertia pars, principatum obtinens. Proindelic
tecum reputa. Senex es? Ne patere hanc principem partem ulcerius feruire, necß
alieno impetu raptari, neq fatú uel præ sensi niquem fer, vel im pedes
subterfuge. Res decorum plenæ sunt prudentiæ. Fortuitæ aut non carent natura,
complexude corum quæ a prudentia administratur. Inde omnia fluunt:necessitas
etiam accedit, et totius universi cuius tu pars es utilitas. Porrò autem quòd
natura univerſi fert, quod quem ad eam facit conservandam, id bonum est unicui
vis univerli particulæ. Conseruant autem mundum, quemadmodum elementorum, ita
& exipsis concretarum rerum mutations .Hec sufficiant tibi, ac sem per
præceptorum locum habcant. Librorum vero Gitim proijce, ne murmurans moriare
sed vere placatus, at ex animo gratiam diis agens. A Emento quandiu hactenus ea
diftuleris, ac quoties prorogato tibi à diis tempore, co non ususlis. Certe
aliqua do te animadvertere oportet, cuius mundi pars sis et a quo mundi gubernatore
de fluxcris. Tum finem præscripti tibi temporis futurum. Quodquidem tempus G ocio
sus intra parietes consumpseris, elabet, nequeredibit unquam tibi defuncto. Singulis
horis animo in id incumbe ut fortiter, quemadmodum ROMANO ET VIRO CONVENIT id
quod præ manibus est, per agas, accurata & non fi &ta gravitate,
humanitate, liberalitate, iustictia g adhi bitis .Interea animum tuum ab omnib
aliis cogitationib. abduc: quodita fict, si unum quodlibet negotium, eorum quæ
in vita tua exequenda cibi fintpo stremum elfe iudicans, ita conficias, ut ne
quid vanitatis, affectuum a conglio avertentium, simulationis, AMORE SUI, aut
earum rerum quæ fato quodam ei negotio adiunctæ sunt improbationis admittat.
Cernis, quam pauca Gint ea, quorum có pos vitam felicem ac diuinæ similem ui
uerc homo potest? nam ea qui adferuarit, ab eo dijnihilultrà exigunt. Ignominia
te ipsum affice anime, contemnete ipsum inquam ut enim honore te ipsum afficias,
non tibi præterea tempus suppetet. Vita enim unicuiqueid præbet. Quæ tibi
propemodum iam exacta eſt. Nonigitur te ipsum venerare sed felicitatem tuam aliorum
in animis reposita habe. Non patere ab ijs quæ extrinfecus accidunt, te
circúagi,ſed otium tibipa raut boni aliquid addiſcas,ac uagari de fine.Eft
& alter declinandus error : nó . nulli enim actibus uitæ ſuæ'confecti de
lirant,quòdfcopum nullum habent,ad qué omnes ſuos conatus & cogitatio nes
dirigant. Haud temere quisquam repertus est infelix ea de causa quod non inquireret
quid aliorum animis accideret. Qui ucrò luiiplius animi motib. non obsequitur,
necessario miser est. Horum semper oportet recordari, quæ sit uniuerli natura,
quæ mea, quomodóque hæc ad illam lit affecta, qualis pars ca cuius totius Git :
adhæc neminem esse qui obstet, quo minus semper ea, quæ naturæ cuius tu pars es
Gintconfentanca et agas et dicas. THEOPHRASTUS in comparatione peccatorum, ubi
ostendit communiorem ea inter se conferendi rationem, PHILOSOPHICE, inquit, ea
quæ per cupiditatem conmittuntur peccata, graviora esse iis quem periram. Et enim
iratus videtur cum dolore quodam et occulte correptus animo a recta ratio ne
divertere. Qui vero per cupiditatem peccat, victus a voluptate, intemperantior
altero censetur, magilý EFFEMINATUS. Recte igitur et ut PHILOSOPHO diagnum
erat. In maiori esse culpa pronunciavit cui voluptas, quam cui dolor peccandi
fuisset causa: ac omnino hic ante læsus, & propter doloré iratus, ille
sponte sua ad delinquendum cupiditatis explendæ causa fertur. Omnia tibi ita et
agenda sunt et dicenda et cogitanda, ut Giam nunc vitam in exitu esse
arbitreris. Cæterum e vivis discedere, si quidem dii sunt, nihil habet
incommode. Neque enim ii te aliquo malo sunt affecturi. Sin autem, vuel non sunt
dii, uc!res humanas non curant, quid atti nebatui vere in mundo deum, ac prouidenti
z uacuo? Enim vero et sunt dii et rerum humanarum curam gerunt et ut ne homo in
ea, quæ re vera sunt mala, incideret, id quidem in eius potestate posuerunt. In
reliquis rebusliquid mali inesset, utique & hinc ei prospexissent, ne omni noin
malum incideret. Quod uerò hominem deteriorem non efficit, quonam id modo uitam
eius poflet redderepeiorem? Et quidem um niuerli natura nunquam neg perigno
rationem ,ncg fciens quidem , non ua lens autem cauere autemědare illa, tan tum
errorem admiſerit,neque imbecil licatis,nequeinſcitiæ caula, ut bona & mala
bonis malisque hominibus promiscuem et ex æquo accidant. Atqui mors et uita ,
honor et ignominia, dolor et voluptas, opes et paupertas, omnibus hæc uniuersa
eadem ratione hominibus cum bonis tum malis contingunt, ſuntg neque honesta, neque
turpia: ergo neque bona quidem, neque mala. Quam celeriter omnia aboletur, in
müdo quidem corpora, in quo autem etiam corum memoria. Omnia quæ sub sensum
cadut, ac præsertim ea, quæ vel voluptate alliciu ut, vel dolore terrent, vel
faste suo clara sunt, quam vilia sunt ca omnia et contemptione digna, quam
sordida, obnoxia interitui et mortua? Intelligentiæ est, indagare quidnam
sintii, quorum opiniones et voces gloria. Quidnam estmors? Certe si quis ea per
se intueatur, cogitatio neg omnia ab ea separet, quæ ciinesse videntur, isi am
nihil aliud existimabic esse mortem, quam opus naturæ. At vero PUER EST, qui
nature aliquod opus formidat. Et quidem mors non opus solum est naturæ sed et
prodest ei. Qoónam modo Deus hominem attingis et qua hominis parte ?preterea
quomodo affe citur eo tactu pars illa? Nihil miserius cít eo, qui omnia
circulando scrutatur, et quod aiunt ea etiam quæ ſunt infra terram rimatur, coniecturağ
ea quæ in aliorum animis eueniant inquirit, neg ſentit ſufficere,utſuu quiſq
quiin ipſo ineſt genium obferuet, eumlegitimè colat.Colitur autem, fi quis
ſeiplum ab animi perturbationib.à vanitate,ab in dignatione eorum caufa quæ à
diis aut hominibus aguntur concepta,uacuum conseruet. Quæ enim dijagút, virtutis
causa honorem quæ ab hominibus, cognationis nomine AMOREM merentur: nonnunquam
etiam miserationem, ratione ignorationis eorum quæ bona aut mala ſunt. qui sane
defectus non uilior eſt eo, quo ne inter album et nigrum discernere poſsimus, impediunt.
Quodf tria annorum millia tibi vivenda forent, insuperg triginta alia, tamen
recordandum tibi est, neminem aliam ab ea quam vivit uitam deponere, negaliam
dep nere quam eam quam vivit. Itagidem est longissimum spatium cum eo quod est
brevissimum. nam quod praesens eſt, id omnibus idem est, quanquã id quod
perijt, non fitidem, atqid quodamitti temporis punctum eſſe apparet. Ete nimncß
præteritum aliquis,neß futu rum quicquã amittere poteft:qui enim id ei
adimatur, quod ne habet quidem. Duo itag hæc memoria sunt tenenda, unum, omnia
ab æterno eſſe ciufdé for mæ, atq circulo reuolui,nequedifferre quicquam,
eadémne cétum aliquis, aut ducentis annis , an uerò infinito videat tempore.
Alterum, quodis qui diutif sime uixit, & is qui celerrimem moritur, tantundem
amittunt: eo enim tantum priuantur, quod præsens est, quando id etiam solùm
habent: quod autem non habet, neid ne deperditur quidem, Universa elle ſita in
opinione. Quod patet ex his quæ cum Monimo Cynico sunt disputata. Perſpicua
autem eft c ius quod dictum eſt utilitas, fi quis ea tenus eius fuauitatem
admittat, quate nus ueritati congruit. Anima hominis contumelia se ipsam multis
modis afficit. Primo, quum quantum in se ipsa Gitum eſt,abſceſſus quidam, &
qua fulcus mundi fit. Abscedit autem à natura, quando ea quæ fiunt, iniquo fere
animo: cuius quidem naturæ una in par e reliquæ singulorum naturæ omnes
continentur. Deinde, quum hominem aliquem auerlatur, aut lædendi causa
adversatur: hoc est iratorum. Tertiò, quum uoluptati aut dolori ſuccum bit.
Quartò, quum fimulat, fidéquc aliquid autfacit aut loquitur. Quin to , quum
fiquam actionem aut cona. tum ad nullum certum scopum diri git,fed fruftrà
quicquam,nulláque con fequentia agit: quum oporteat etiam minima quæg ad certum
finem referri. Finis autem animantiratis eprædi to propoftus eft utrationem
atque Le gem ciuitatis uetuſtiſsimæ fequatur. Humanæ quidem uitæ tempus,momë
tum eft, natura fluxa ,fenſus obſcurus: totius corporis temperamétum putrc
fcitfacilè ,animauaga eſt, fortuna quæ fit, difficile eſt colligere ,
famaincerta eſt. Atque ut ſummam rei dicam , o mnia quæ ad corpus pertinent,
fluuij naturam habent, quæ ad animā,inſom nij & fumi:uita bellum eſt, &
peregri natio , fama poſt mortem ,obliuio eft. b4 Quid ergo eſt quòd tutò hominem por fit deducere?
PHILOSOPHIA. Ea verò in hoc consiſtit, ut genium quiin te est, incontaminatum
conferues, atqz illesum , la voluptatibus et doloribus superiore: ut nihil
fruſtrà, nihilfictè aut falſò agas: nihil cures, agátne quicquam alius, aut
omittat.Præterea, ut ea quæ accidūt, fa tóue eueniunt, ita accipias, tanquã
inde miſſa,unde tu quoqueneris.Poftremò, utplacıdo morté animoexpectes,quip
penihil aliud ,quàm diffolutionem ele métorum eorum ,ex quibus unūquod libet
animal concretum eſt. Iam Gipfis elementis nihil mali euenit continenti bus
iſtis mutationibus, quibus ipfain ter ſe alia identidem in alia uertuntur,
quænam causa est, cur de mutatione universi corporis, dissolutionéque fini
ſtrum quicquam suspicari debeamus? Cum ea fecúdum naturam fiat. nihil vero
malum est, quodnatura cuenit. Hæc Carnunti disputata. qonhoc tantum est
considerandum, singulis diebus vitam cossumi, parcég eius ſubinde
minorérelinqui: fed & hoc cogitandum ,getſiquis diutius lit uictu
rus,incertum tamen eſt,lítne fuppedita tura eadem intelligentia ad cognoſcen
das res et contemplationem cuiusfiniseft peritia rerü diuinarű at humanarum,
Etenim & delirare ceperithomo,fpira bit quidé nihilominus, nutrietur, imagi
nabitur, appetet, reliquasgid genus facultates retinebit: ca vero vis, qua se i
plo uti queat, rationes officii subduce re accuratas, quæ animo pręcepitin or
dinem collocare, de coipſo an iam tem pus fit uitam relinquendi delibcrare, ac
fi quæ alia sunt, ad quæ obcunda ratione probè exercitata opuseft, ea inquã uis
iam antem extincta est. Feftinandum eſti gitur,nonidcò ſolú, quòd fubinde moc b
s ti propiores fimus, fed &quia
rerum in telligentia nos ante exitum uitæ deſti tuit.Id quoß observandum, ca
quę appendicis quafi loco adhæréthis quæ na tura fiunt,haberenonnihil gratiæ
& o blectationis.Viquum panis pinlitur,ui demusquaſdam particulaseius
rumpi: quod ipſum etli quodãmodo accidit præter inſtitutú piſtoriæ artis, habet
ta mennónihil decoris,appetitumg cibi ſuo quodammodo excitat. Ficus quog quú
maximè maturæſunt, fati scut, itém Oliuis maturissimis quiddam putredi
niproximum ,pulcritudinem peculiaré addunt. Iam ſpicas deorſum le flecten tes,
leonis ſupercilium , fpumam apro rú ex ore effluentem ,multa eiuſmodi alia
fiquis ſeorſim confideret,intelliget ca ctGlongèabſuntà pulchritudine,tas men
quia rebus naturalibus inhærent, & eas conſequuntur,co &ornatum his
adferre , & delectare. Quam obrem qui attentiùs ea quæin rerum natura fi
untmente contemplatus fuerit , nihil pon eleganter eſſe factum putabit , e tiam
corum quæ appendicis loco res naturales conſequuntur . Itaque ue ros belluarum
rictus haud minori cum uoluptate afpiciet, quàm quos picto res & figuli
effingunt: uetulæ etiam & ſenis maturam ætatem , puerorúmque amori aptum
florem caſtis oculis in tuebitur: multaque alia cernet, non a. pud omnes fidem
inuenientia sed apud eos folùm , qui naturam , ciúſque opera rectè intelligit.
HIPPOCRATES quummultos sanasset morbo, ipſemor bo deceffit. Chaldæi multis
finem vitæ prædixerunt: post ipsos etiam fatum arripuit, Alexander, Pompeius,
& C . Cesar, quum totas urbes toties deleuiſ ſent, commiſſó queprælio multa
cqui. tum peditúmque millia cecidissent, i pli quoque tandem uita exceſſerunt. HERACLETUS,
multa de natura rerum et incendio finem univerfo allaturo quum disputasset, ipse
intercutc aqua distentus, ftercore bubulo oblitus mortem obijt. DEMOCRITUM
pediculi, SOCRATES CICUTA absumplit. Quorſum hæc? Ingressus es vitam,
navigasti, uc et us cs: discede. Quod fi abcundum esti n aliam vitam, equidem
neibi quido erit quicquam dijs uacuum :lin omnissensus adiinet, non iam
præterea dolores ac uoluptates ferēdæ, nec ferviendum vaſi tantò deteriori.
Quinimo quod servit, id supererit, nimirum mens et genius: cum uas illud terra
fit , & tabus.Proinde reli quum uitæ tépusne abſume de alijs co gitando,
nifi ad commune aliquod co modum id referatur: alioquin enim in terim ab alio
negotio detineberis.Nam cogitare,quid hic uelille agat, quamob rem , quid
loquatur, quid cogitet, quid moliatur automnino de alijs effe folici tum, id uerò
efficitur euagemur,neque obferuemus eam quæ principatú in no bis obtinet partem
.Itaq;in ſerie cogita tionú declinanda eſt uanitas, omniúş maximè curiofitas,
& malitia.Adſuefa cere teipfum debes, ut de his tantùm re bus cogites , de
quibus fi quis te fubitò interroget quid nunc mediteris, confe ftim liberè
pofsis refpondere , hocaut boc:nimirum ut ftatim conſtet,cogita tiones tuas
eſſe ſimplices,placidas,con fentaneas animali fociato alijs , ac negligenti
earum quæ ad uoluptatéoble & ationemúefaciant cogitationum ,ua cuo
contentionis, inuidiæ, fufpitionis, aliorúmue, quæ ſi te animoagitaffefaf fus
eſſes,pudore ſuffundi oportuiſſet. Virad hunc modum compoſitus, non eft cur
diutiusexpectet nomen eius, qui in optimorum Gii numero. Est enim fa cerdos
quasi et administer deum, uti turg eo, quod in ipso tamquam sacrario est positum.
Id autem hominem præstat purum a voluptatibus, inviolatum à do Ioribus, intactum
A LIBIDINE inſciumo mnis malitiem, certatorem maximi certaminis (ne scilicet
ullus cum affectus de ijciat altem tinctum iustitia, ex animo contentum ijs quæ
eveniunt, fató vedesti nata ipsi sunt, non sæpe, ncg niſi magna & publica
necessitate urgente, de alio rum dictis, factis, aut cogitationibus meditantem.
Solis enim iis quæ in ipso sunt ad agendum intentuseſt, ac quæ à fato universi
ipsi sunt deſtinata, continenter conſiderat. Nam illa cenſet honeſta &
pulcra: quæ uerò fibi obtigerunt, cabo Dacſſe perſuaſum habet: quippe uniufs
cuius factű & constat aliunde, & fecü aliud adfert.Meminit etiam oia
ratione prædica eſſe interſe cognata, eſſeſ ,ho minis naturæ cóueniens, ut
omniūho minú curā gerat : exiſtimationem auté non ab omnibus hominibus petédam,
sed ijs tantùm, qui naturæ conuenienter vivunt. Qui uerò aliter uiuunt, hi
quales ſe domi & extra ædes,noctu at que interdiu gerant,ac quibus fc homi
nibus admiſccant, perpetuò memoria tenet : ab his igitur laudariſe nihil cu
rat, quum ij ne fibi quidem ipfis pro . bentur. Ne inuitus accedas ad agen dum,
neque cotus humaniimmemor, neque non bene cogitata re, neque pa tere te
retrahi:nein cogitationibustuis aftutiam ſecteris,nequeuerbolusfis ,ne que
multa negocia ſuſcipias. Enimue ro Deus qui in te ineſt, præfit'tibi,ma ſculo
animanti , ſeni, ciui,Romano, ac principi, qui ſeita comparauerit, ut ad abitum
inſtructus expecter quando re ceptui ex hac uita canat. Neiuramen toindigeas,
néue hominis alicuius teſti monio , Hilari eſto uultu, ac qui exter " A nominiſterio
poſsit carere., eám quam alij ſuppeditent quietc. Rectú elle expe dit te, nó
quilapſus ſe erigat. Si quid in uita humanainuenis potius iuſtitia ,uc ritate ,
temperantia , fortitudine,autfi quid aliud melius eſt, quàm animum tuum eſſe
ſeipſo contentum, quatenus præſtat ut fecundum rectam rationem agas: ſi, inquam,
in fato , & ijs quæ abfo tuo delectu tibi ſunt deſtinata inucnis aliquid
his quæ dixi præſtabilius, caut fruaris toto animo incumbe.Sin co qui in te eft
collocatus genio nihil præftan tius inuenis, qui & appetitus fibijpfi
fubiecit, & uifa examinat, &à perſua fionibus ſenſuum ut dicebat
Socrates scipsum abduxit, féque Dco ſubmißt et pro hominibus procurat: fi hoc
inferiora omnia , & uiliora de prehendis, nulli alteri rei locum con cede,
nefemel ad eam inclinans , poft hac proprium illum tuum bonum præ ferre omnibus
rebus nequeas. Nes fas enim eft ullam aliam diuera generis rem bono
rationcprædito, & effe &tri ci opponi : ut laudem popularem, principatum,
divitias, voluptatum perceptionem: hæc omnia,quel parùm te iis accómodare uiſum
fuerit,confeftim præualent et à recta uia abducunt. Tu uerò , inquam ,
fimpliciter ac liberè id quod eſt meliuselige,eiginhære :me lius autem eſt id
quod conducit. At hocipſú fi ea ratione fitutile, quatenus métem habes, serva: lin
quatenus es ani mal,repudia, & iudicium integrum reti ne. Id modo cura, ne
quid , p tuo como do amplectaris, quòd pofsit aliquando tecompelleread
fallendum fidem ,pro dendam uerecundiam, odium alicuius, fufpitiones,
imprecandum, ſimulandú, appetendúmue aliquid, quod parietes & uelamenta
degideret. Etenim quimé tiacgenio fuo, & facris uirtutis eius pri mas
defert, is tragediam nullam exci tat,nongemet,nó ſolitudinis,nófrequé tiæ
hominum indigebit: plerung uiuet nekappetés quicquā, neqfugiens.diú ne aparuo
téporis {patio incluſa cor pori animautatur, nihil omnino cura bit:nam etli
continuo migrandum fit ,i . ta facile diffoluétur ut fi ad aliam quan dam
functionem uerecundè ac decen ter obeundam ſe conferat. Id unum fi per
uniuerſam uitam obſerues,ut cogi caciones tuæ ſíper lint de ijs rebus quæ ad
ſocietatem ciuilem nato animali, ei que rationis compoti cóueniant , nihil
unquam in animodeprauatú, nihil puc rulentum , nihil contaminatú ,nihilſug .
gillatú invenies Ncą uerò fatum uitá imperfectam adhuc abrūpit, quemadmo dum dici
poſſet de tragãdo fabula no . dum peracta diſccdéte.)præterea nihil feruile,
nihilfucatum ,nihil alligatum, nihil abſciſſum , nihil obnoxium ,nihil
occulcum. Venerare facultatem cogita trice : in co.n.ſuntoía , ut pars cui prin
cipatum obtinés nihil unquam animo concipiat quod fit naturæ inconueni ens, aut
conſtitutionianimalis ratione præditi.Illiusautem conſtitutionis eſt munus,ut à
temeritate alieni, coétui hu mano adiuncti, dijsý obſequentes li mus. Proinde
omnibus proie & is, hæc modo pauca comprchende, acmemo ria tene, gunufquifq
tantùm , id quod præſens eittemporis punctum uiuit: reliquum uitæ aut iam exactum
,autin in certo politum est. Exiguū ſanè tempus quod uiuit quil:perexiguus
etiãter ræ, in quo uiuitur,angulus:etia longiſsi ma poſt obicú fama, cxiguum
cft , quæ &ipſaper ſucceſsionem cóſeruaturho múculorum mox moriturorum ,
acne ſe quidem ipfos cognoſcentium , nedů cum ,quiiampridem fato conceſsit. Ad
dendum his quæ commemoraui præce ptis unum , nempe eius quæquouis tem pore
animo noftro cogitanda accidit rei, definitionem ſeu deſcriptioné effe
faciendam,quo tecúipſe differerepof fis, quęnam lit eiusnuda &abomnibus
alijs ſeparata natura , ac qualis: tú quod proprium eius nomen, quæ item appel
laciones eorum , è quibus ipfa confiata eſt , & in quæ diſſoluet. Nihil
enim per indeaninum magnitudine extollit, ac uia & uerè poſſe lingula,quæ
in hacui. ta nobis occurrunt, examinare, atß eo modo ſemper intueri,utunà
deprehen datur, cuinam uniuerli parti unuquod. que uſui ſit, quo in precio
habendúra tione cum iplius.uniucra , cú hominis, 14 qui ded quiciuis cſt
ſupremæ ciuitatis, ac cuius quaſi domus lunt reliquæ ciuitates . Quid eft,
quibusex elementis concres tum . & quandiu fert natura cius ut per maneat
id, quòd modò cogitatione ani momco attulit?quaporrò uirtuteadid uſus
cric?ſcilicetmanſuetudine, ortitu dine, ueritate, fide, ſimplicitatc , ea qua
totus ex me aprus fum , cęteris?de lingu lis ergo dicédum . Hoc divinitus
venit, hoc faci connexio, casus $ aut fortuna attulit,hoc pfectum eſt à cognato
mco & focio ,ignaro quidem quænam effet cius natura: ego autem & noui,
& cofc cundum legem ſocietatis naturalem u toræquo animo,iuſté ,limulgin mc
dijs rebus coniecturam facio ut unicui que ſuum ut dignum eſt tribuam. Sirea
&am rationem fequens, id quodinſtat agas diligéter,firmiter,æquo animo,nc
quc inftituto negotio alia admiſccas, ſcd cuum geniumGincerum conſerues,
perinde ac fi iam is dimittendus tibieſ let, atqita ſi perſeucres nihil
expectás, nihil fugiens,fed eo quod ſecúdum na turam agis, & heroica in
dictis factiſas ueritate cótérus, bene uiues. Nemo aut eſt, quihocimpedire
poſsit.Quéadmo dum mediciad ſubita malacuranda,in promptu ſua inſtrumenta
habent, at ferramenta : fictu ad res diuinashuman nalý præcepta inſtructa
habe,atos para ta :omniaş etiam minimaita age,ut mc mineris hæc duo genera
interfe eflc có nexa. Neg enim rem ullam humanárc ctè perfeceris,niſi ſimulcam
ad deosre feras:neq contrà. Non erra amplius. Non eniin commentarios leges
tuos, neque priscorum ROMANORUM et græcorum acta, excerptas ex libris, quæ
tibijpfi in ſenectute utenda repoſuiſti. Itaqad fi nem propera,uanaló (pes
miſlas faciés, tibiipfi opem fer, fiquidé(dum licet )tui rationem habesullam .
Neſciunt quàm multa fignificet uocabulum furari, ſerc re, emere,quieſcere,
uidere quid sit agendum. Quorum hocnon oculis cernitur, ſed alio uiſu.Corporis
ſuntſenſus, ani miappetitus, mentis praecepta. Imaginari aliquid , & uiſum
concipere,nobis cu pecoribus eſt communc.Moueriappe titus explendi cauſa ,id
quidé & belluis contingit et ANDROGYNIS et Phalaridi et NERONI. Porrò
mentem ducé habere ad ea quæ apparent eſſe officij, corum etiá eſt, qui deos
eſſe negant, qui patria deſerunt, qui fimulac fores clauſere,ni hil non turpe
perpetrant. Si igitur reli qua his quæ dixinius omnibus funtcó munia,reliquum
ſanè eft aliquid, quòd proprium lit uiri boni: nempe æquo a nimo ferre ca
quęaccidunt,fatog eie ueniút, in pectore collocatum genium non commouere, neg
turba uiſorum perturbare,ſed quietum ſeruare, cique decenter tanquam Deo
obſequi: nihil à ueritate alienum loqui,nihil præteriu ftitiam agere. Quòd fi
nemohominum credat eum fimpliciter, uerecundè , ac tranquillo animo uiuere,
tamdnneque ſuccenſebit cuiquam, nez deflecter à femita ad finem uitæ ducente:ad
quem finem uenire debet homo purus, quie tus, ac diffolutu facilis, & qui
nulla ui coactus ultrò ſuo ſc faro accommodauerit. VAE in nobis ineſt pars prī
cipatum tenens, ea di ſecun dum natura fe habeat, ita ad ea quæ accidunt
comparata cit,ut quouis tépore facile ad id quod poſsibile eft &conceditur
ſe adiungat. Neg.n. materiã aliquä fibi ppria ſubic ctá habet, fed ut cum
exceptione qua dam'ad ea fertur, quę propofita ſunt,ita id quod offertur ei,
pro materia sua accipit. Quemadmodúignis, quiijs quæ inciduntpręualet,à quibus
exiguus ly chnus fuiffet extinctus: at copiofiori gnis ſtatim ea quæ ipG
iniecta lunt, Gibi accommodat,ato conſumir,atg ex ijs ipfis augetur.Nihil
agendú fruſtrà,ne aliter, quàm ſecundum contemplatio nem, qua artisdefectus
compleatur.Se ceflus uulgò quærunt hominibus,rura, litto ra,montes: tu quoq
ſoles maximè cadeliderare. Atqui id planèeft rudiữ & & abiectæ ſortis hominum. Tibi qua cúq
uiſum fuerit hora licet in teipſum recedere:nuſquam enim neg tranquil lior, nec
maioris otii ſeceſsus homini datur, quàm adanimum ſuum : præſer cim ei qui
intus ea habet, in quæ aſpici ens,ftatim ſummam animi tranquillita tem reperit
:bene nimirumomnibus in tus compofitis.Cótinenter igitur te eò recipe,ac
teipfum renoua. Breuia auté fint quædam , & elementorú uicem ob tinentia,
quæ tibiſtatim occurrant, om nig te molcftia liberent, & remittent nihil
indignè ferentem corum ad quæ reuerteris. Quid enim fersindignè ?nú
hominüimprobitatem ?Reputa tecü,i ta eſle ſtatuendum,ratione prędita ani..
mantia unum effe alterius caulanatum : tum æquanimitatem parté cflciuftitiæ :
item non ſua cos peccare uolütate:quá multi exercitisinimicitijs, odijs, ſuſpi
tionibus, confoſsi perierunt,ac in cine remreda & ifunt:ita &
deſinetádem . At molcftú tibi eft fatum tuum ? in mētem reuoca quomodo uniuerfi
partes difti xerit uel prouidentia ,uel atomiillę,uel quodcungillud fuit, ex quo demóftra tum
eft,múduminſtar ciuitatis effe. At quæ corpus attingūt,ca te afficiūt?cogi ta
intellectú, cu femel feipfum college rit,ſuamý uim perfpexerit non permi ſceri
Spiritui leniter aut aſperè moto: præterea quæ de uoluptate & dolore auditu
perceperis,repete, atqillis adfé tire. Sed forlitan gloriola teſolicitúte
net?refpice quá celerrimè omnia obli uione delcantur,quod fit chaos infiniti
utrinæ æui,quá inanis famæfonus, quã ta inconftantia &incertitudo opinio
num humanarum, quàm arcto includā tur hæc omnia loco. Quippe punctum eſt
terra,at huius iplius quàm perexi guus angulus habitai? quot uerò ſunt in ca
ipſa, aut quales illi , qui.tefint lau daturi?Proindememento in hanc (quã
demonſtraui,particulam tui recedere; idó præcipue cura,ne cupiditate traha
ris,fedliber mane,relợita intuere,ut VIRUM UT HOMINEM UT CIVEM UT ANIMAL
MORTALE conucnit. Cæterum ex his quæ tibi infpicienti quàm maximèin promptu
cffe debcãt, duo funt:alterú ,gresipfæ animā non contingut , ſed extra eam fic
matæ perſiſtunt.Perturbationes tátùm ex internis opinionib.naſcunt. Alterú,
goía hæc quæ cernis, statim mutabun tur, nec crunt amplius perpetuog.com gita,
quoriam eorú mutationib.ipfe in terfueris.Mundus quidérerum in uari as fubinde
formas mutatio eſt, uita in o pinione confiftit. Si intelligentia eſſe pręditu
,hominibusnobis inter nos eſt comune, erit &ratio , ob quam illud no bis
adeft cómunis: ſin hæc, etiam ratio quæ præcipit quid agendum fit,quido
mittendum , communis eric omnium: proinde &lcx. Quód Gita habet,ciues
ſumus: crgo ciuitatis alicuius partici pes. Quo reliquit, múdú ciuitatis loco
esse: cuius.n. alius civitatis dicere possimus comunionem esse humano generi?
utruita ex hac comuni civitate nobis eſſe capacib, intelligentiæ, utiratione,
& legi, datú est, an aliunde? Utenim ter renæ mihià cesra aliqua particulæ
sunt tributæ & humorab alio quodā elemento, ités ſpiritus,calor, &
ignca natura, ſuis fingula à fótib. admcderiuataſūt, puso nihil enim eſt ,quod non alicunde &uc niat
, & aliquò abcat .) ita & intelligétia nobis aliunde data eſt . Mors ,
perinde acuita ,arcanum cftnaturæ opus , ex ijſ dem elemétis in eadé confufio
& mix tio.Deniq non est eares, cuius pudere aliquem debeat: neque enim eſt
contra caufas animalis mente donati, ncg có tra eius ſtructuræ rationem. Hæcita
, hiſq de caufis fiút neceffariò. Quod qui fieri nolit ,perinde faciat , acli
ficum ar borem fucco uelit carere . Omnino au tem memineris ,intra breuiſsimum
tem lo pòſt , ne nomen quidem ucftrum ſu pererit. Tolle opinionem , fimul etiam
de accepto damno abolebitur cogita tio :hacý ſublata , ipſum etiam danum non
crit. Quod hominéſeipfo deterio rem efficere nó poteft , id neg uită eius
pciorem reddit ,ncg lædit ,nec extrin Tecus , neg intrīſecus . Natura
utilitatis hoc neccſſariò fccit , ut quicquid acci dat ,iufte accidat : quod,
fi diligenter observes, ita haberc inuenies : atq hocdi co ,non tantùm caufarum
consequentia ita fieri, fed etiam ratione iuſtitiæ , & ab aliquo, g tribuat
unicuip dignita te ſuū . Itaq ,uti coepiſti,obferuare hoc perge, & quicquid
facies, hoc modo a ge,adhibitabonitate , quo modo uerè bonus intelligitur:idgin
omnibus tuis obſerua actionibus. Nonita tibi fentić dum eſt, quemadmodú is quiiniuriá
fa cit , uel iple fétit,uelte cxiſtimare uult: ſed resipfæ quid uerè
lint,perſpice.Sem per hçc duoin promptu habenda ſunt: alterú,utea tãtùm agas,
quod ratio cius partis, quæregnum in te, & poteſtatem
obtinetlegislatoris,te hortat, idý pros pter hominum utilitaté. Alterum , ut fi
quis adfit, qui te corrigere, & ab aliqua opinionc deducereuelit, ſententiamu
tes :modò ut ea mutatio fidé mereatur iuſtitiæ autpublicę utilitatis,aliúſuchu
iufmodi cauſa, nóuoluptatisgloriæúc gratia facta eſſe. Ratione præditus es: cur
ca non uteris ? quid enim prætcrca deſideras, ca ſuum obeuntc officium ? Scis
te, utparté , interiturű in co, quod te produxit universo: imò potius facta
mutationc allumcris ad mcntem cam quæcſtreliquarum origo.Multa thuris grana
eidem aræ impolita, unum altes ro priusignicorripit, ſed nihil intereſt. Intra
decimum diem, Deus uideberis ijs ,qui te nuncbeſtiam & fimiam putát:
fiquidem ad præcepta &ueneratione métis reflectas,ne & cogites uitam
tibi in immenſos annos prorogatum iri. Mors imminet, ergo dum vivis et licet
,bonus ut sis cura.Quantum otij lu cratur, quinon uidet quid proximus di
catsagat, aut cogitet, ſed tantùm quid ipfe agat, curato ut hoc iuftú fit &
fas. At quifecundum Agathonem fortèbo numno circunfpicit nigrosmores , fed
propofitamlineam recto ,non uago cur fu tenet. Quifamæ poftmortem cupidi tate
ducitur,non cogitat quenlibetco Tum, quiipfius mentionem fint facturi, mox
ipfum etiam moriturum : deinde itidem eum quihuic ſuccedit, idő.co uſcs, dum
omnis memoria per attoni. tosinanifama,extinctoſý homines p pagatu aboleatur.
Quinetiam fingeim mortales fore eos, qui tui recordentur, immortalemg tuifutură
memoriam .. quid ergoid adte,ne dicam ,mortuum ? quid ueluiuo tibilaus
proderit?nifi ra tionecuiuſdam difpenfationis: omitte enim nunc naturæ munus,
huic tempo ri non conucnicns et de quo fuo loco erit differendum . Omne quod
pul chrum eſt,ex ſeipſo tale cſt , atquc in ſc ipſo abſoluitur ,nullámque ſui
partem habetlaudem . Ideoid quod laudatur, co ipfoncß peius fit, neq melius.
Idý ctiam deijs intelligiuolo, quęcómuni ori nominc pulcraaut bona dicuntur, ut
quæ ex materia fiunt, &artis opera . Id autem quod rcuera bonum eft, noa
magis alia quadam re opus adid, ut fit bonum, habet, quàm lex, ueritas, cran
quillitas animi,uerecundia :quid horú uelli laudetur bonum fit, uel uitupera
tione corrumpitur? Smaragdus quidem niſ laudetur, debonitate sua aliquid a
mittit? quid aurum , ebur, purpura, cul ter , floſculus, arbuscula? Si
permanent animi, quomodo cosab æterno capit aer : & quomodo terra abęuo
uſquchu matorum corpora recipit? Quemad modum hîc corpora quum aliquádiu in
terra delituere,mutantur,diſsipatag fpacium alijs cadaueribus præbent:fic animæ
in aérem ſubuectę,quum aliquá diu ibiperftiterunt,mutantur, fundun turg,
&ad menté omnium aliarum ge nitricem adiungunt , eağ ratione alijs aduentantibus
locum cedunt. Hocrea fpóderi poteſt, pofito animas eſſc cor poribus
ſuperſtites. Neq uerò tantùm multitudo ſepultorum eo modo cor porum
confideranda eſt: ſed & corum quæ quotidie comeduntur à nobis, &
beftijs animalium et fic quodammo do ſepeliuntur magno numero, acni hilominus
fuppedicat ſpatium alijs, p pter corum in fanguinem , aërem , calo
remgmutationem. Ratio autem ucri tatis conſtat, ſimateria & caufæ inqui
rantur.Non eſt uagandum ,fed in omni appetitu iuſticię ratio habenda:omnig in
cogitatione,certitudinis.Quicquid tibi,ô Naturarerum , conuenit, id omne
mihiconuenit,nihilſ mihi uelimmatu rum eſt,ueltardú , quod tibi ſit tépeſti uum
:oéid fructum meum puto , quod tuæ ferunthoræ .Ex tcfunt, &in una to omnia,
ac in te unam omnia redeunt, Quidam dixit, ô chara Cecropis urbs. ego autem de
tccur non dicam , ô cha ra Dei urbs ? Pauca age , inquit, fi tibi tranquillitas
animi curæ eſt. Nihil co plus cnofert, quàm ea quæ neceffe eft, agere , &
quæ ratio animalis ad ciui lem ſocietatem nati, ac quo ca modo dcligit. Id enim
non modò rede a gendo, fed & paucaagendo animi tran quillitatem parit. Nam
ex his, quæ plurima &agimus & loquimur,fi quis ca quæ non ſunt
neceffaria tollat, is &maiori otio utetur, & pauciores per turbationes
experietur. Itaque lingu . lis in rebus circunfpiciendum , ne quid non
neceſſarium agamus: acnon mo dò actioncs, fed & cogitationes inuti les funt
uitandæ. ita cnim fict, ut nea . &tiones quidem fuperuacaneæ conſe
quantur.Facpericulum ,ut tibiboniui uita quadret:eius inquam ,qui fato fibi
deſtinata æquo fert animo, contentus eſtiuſtis ſuis actibus, &
placidoftatu:ui diſti illa ,hæc quoqueintuere.Non per turbatcipfum , fed
fimplex efto.Si quis U MAwy peccat, fibijpfi peccat. Tibili quidbom ni obtigit,
ab initio tibiid fato tuo fuit deſtinatum . Omnino autem breuis quum sit uita ,
curandum ut præſens tempus lucreris rectam rationem & iu ftitiam ſequutus:
ac in remiſsionibus animi ſobrius fis . Aut compofitus eſt certo ordine mundus,
aut cófuſo quæ ram rerum temerè mixtarum , mundus tamen . An quum in te ipſo
poſsitor dolocum habere, uniuerſum nullo or dine conſtare dicemus? præſertim om
nibus in co rebus ita digeſtis, diffufis, atque inter fe affectis . Mores nigri
uocantur mores effæminati, duri , fe ri, pecorum aut infantium fimiles, ſto
lidi,fucati,fcurriles,cauponarij,tyran nici. Si peregrinus in mūdo habetur,
quæin mundo funt , non cognofcit: haud minus peregrinus erit , qui ea quæ
fiunt:non cognofcit: exul, quiciuilem rationem fugit: cæcus, quiintelligen tiæ
oculos clauſos habet: pauper, qui alio indiget , nequein fe habet omnia quæ ad
uitam conducunt . Abſceſſus,ſiuculcus mundi-eſt , qui ſe à communis naturæ
ratione feiungit ,in dignè ferendo ea quæ cueniunt:(caeń quæ te produxitnatura,
omnia pfert.) fruſtum à ciuitate amputatum , quiſu am animam à communi &
unica om nium ratione præditorum méte reſcin dit. Alius line toga
philoſophatur,ali us abfg libro ,alius feminudus,panes ſe non haberè,&
tamen ingſtere rectæ rationi dictitans,alius ſe diſciplinis ſuis non alere ,
& tamen perfeuerare profi tens.Tu artem quam didiciſti,dilige, in
cağacquieſce. Reliquam vitæ partem : ita exige, ut q ex animo dijs omnia tua
commiſeris,negullius te hominisuel ſeruum uel tyrannum conſtituas. CóGidera
ſuerbigratia) quęVeſpaſia nitēpore euenerint: inuenies homines tum nuptias
contraxiſſe, liberos aluiſ ſeægrotaſſe,diem ſuum obijffe, bellige raſſe ,feſtos
dies egiſſe, negociatos fuif ſe,agricultură exercuiſſe,adulatosfuif
ſc,præfractos ſe geſsiſle, suspicionibus indulgfie, inſidias feciſſe,quoſdami uo
tis mortem uocaſſe,alios quiritatos de præſentererum ſtatu,amalle, theſauros d
TU collegiſſe,conſulatus et regna expetiif fe.Nonne corum omnium uitaiå aboli
ta eſt ?Rurfus ad ætatem Traiani defcé . de: invenies eadem omnia , atque cius
quo ætatis hominesmortuoseſſe,eo dem modo ſi etiam reliquas ætates et gentes
totas conlideres, uidebis quàm multicú ad ſummú cótendiſſent,paulò poſt
ceciderint, & in elementa reſoluti fint.Præſertim uerò hi memoria recole di
ſunt,quos ipfe cognouiſti uana affc Etantes , cum agere fecundum id ad quod
natura erant facti , cizinhærere, &eo contenti effc ceflarent.Id quoque
opuseftmeminiffe,in unaquauis actio necantum uerfandum ,quantum digni tas cius
& modus permitcunt:ita fiet,ut non diutius quum par litreb.exiguisim
moratus, nullú faſtidiú cótrahas. Vlita ta quondā uocabula, nuncinterpreta
tionis loco funt: ita et corum quifuerút olim celeberrimi, nunc quodammodo ſunt
glossæ, ut Camillus, Cæso,Volcſus, Leonnatus, cum paulò post SCIPIO, CATO, inde
AUGUSTUS, ADRIANUS, ANTONINUS. Ist hus : omnia enim hæc euanida ſunt, & mox
in fabulam abeunt: mox obliuio. nc oí a obruuntur.Ato hocdicodeijs, qui ad
miraculü ufo clari erant : relig enim fimulato animam efflarunt, obscuri, &
ignoti facti ſunt. Quáquá quid eſt omnino,cuius fit memoria lempiter ħa? Omnia
füntinanía. Quid eftigitur, in qd Geſtudio incúbendú? Vnicú hoć, ut
cogitationes antiuftæ , actiones ſo cietatem humanam refpiciant , ratio te punő
fallat,itag lis alo affcctus,ut quæ cúqaccidút,catanğneceſſaria,nota,ab codé
principio & fonte promanantia, approbes. Vltrò te fato ſubmitte, pate regid
teijs quæ ei uiſum fuerit rebus destinare:oia in diéfunt, cum id recordat alicuius,
túid, cius fit mentio. Nunquá nó con dera , oía permutationes fieri, neq
uniuerſi naturæ quicquã eſſe ulita tius,ĝres mutare, & innouare. Omnia em
quæ in natura ſubliſtűt,femina qua G ſunt corum , quæ cxillisſunt naſcitus ra ;
eftautem nimium rudis hominis exi Ntimare ea cătùm ſemina cfTe, quæ in cer ram
aut matricem deijciuntur. IM lam morieris,neque in pofterumeris is
quinunces,fimplex, perturbationu uacuus,nihilſuſpicans extrinfecus tibi poffe
damni afferri, omnib . benignus, prudentiam in eo tantum utiuſtè agas poſiram
cenſens. Intuere aliorum principem partem, acquænam fugiant,quæ ſequanturpru
dentes. Tuum quidem malum non eſt in al terius animo pofitú,neg in conuerlio
neulla aut mutatione cæli. Vbi ergo? in opinione demalistua. Nihiligitur malum
eſleiudica , & omniabenehabc bunt.Quòd li corpus, quod animo tuo eft
proximum ,fecetur,uratur,ſuppure tur,putreſcat,tamen ea pars , quæ iudi care de
his debet, quietaGt:hoceft,exi ftimet nihil effe neque bonum ,neque malum ,quod
exæquo poteft bono at que malo accidere:nam quod'ei qui ſe cundum naturam
uiuit, exæquo acci dit, id neque fecundum , neque contra naturam eft, Aſsiduè
tecum cogita,mundum eſſe animal quoddam unum,unam naturā, uno animo præditum,
quomodo om nia ad eius fenfum unicum rcferantur, omnia ab co unico appetitu
mouétea gantur, ac omnes res omnium rerum caufæ aliqua ex parte fint,tum quis
ca rum inter fe contextus & ordo. Animula es , quæ cadauer geſtat: ut
Epictetus dicebat. His qin mutatione funt, nihil eſtma lum: utnequebonum
quicquã his qui è mutatione exiftunt. Aeuum , fluctus quidam eſtrapidus carum
quefiunt rerü :fimulcnim unum quodß & apparet &præterit, &aliud
ſubſequitur, moxitem aliud ſuccedet. Omne quod nobis accidit , ita conſue tum
eſt, & notum , ut roſa uere, fructus æftate. Eadem eſtratio morbi, mortis,
calumniæ, inſdiarum, omniumg eorü, quæ ſtultis uel gaudium, uel triſtitiam
afferunt. Quæ ſubſequuntur ſubinde, ca præcedentibus rite ſuccedunt.Non enim
numerus tantum certus eft eorü, àfolaneceſsitate dependens:fed & có
fentanca corum inter ſe colligatio. ac quemadmodum certo ordine resinter fe
ſunt coaptatæ, ita quæ fiunt,non ſuc ccfsionem nudam ,fed mirabilemctiam
quandam inter fe coniun &tionem etne ceſsitudinem oftendunt. Dictum Hera
cleti ſemper eſtmemoria tenédum :ter ræmortem fcilicer eſſe aquam ,aquæ ac rem
,aêrisigné,idý uiciſsim . Eius quo quc exemplum recolendum ,quineſcie bet
quorſum iter duceret, Et quod cum rationc quæ uniuerſum admini ſtrat,
continenter conſuetudinem ha bentes , tamen ab ea diſcrepant: itag in quæ
quotidie incidunt, ca noua ipfis & peregrina uidentur. Non tanquam ſi
dormiremus, agendum nobis eſt & lo quendum: in fomnis enim tantum uide
murnobissgere aut dicere. Nequeimi tádi ſunt nobis pueri , qà parentib.fuis *
hucé,nudè, Gicutaccepimus,Quéadmo dulias tibi Dcorūdiceret, moriendum tibi aut
cras, aut ad diētertiú : nojā ma gnopètertiú dié craftino pferres,nifi a
nimielies oio abiectiſsimi.quátú emeſt interuallum? Eodēmodoiudicanon in magno
effe fouédú difcrimine,poſtmil lenos acaonos, anuçrò çras decedas. Crebrò
reputa , quàm multi medici fint mortui, qui ſæpenumero ægrotos inſpi cientes
ſupercilia contraxerint : quot Mathematici, qui alijs exitú è uita præ dicédo
ſeiactauerint:quotphilofophi, quide morte & immortalitate multa
alleruiſſent:quotre bellica laudati, qui multos occiderant : quot tyranni, qui
magna cum inſolentia tanquamimmor tales poteſtate luauſi crant:quot urbes
mortuę( utita dică)ſunt,Helico, Pom peij,Herculanú,& aliæ innumeræ .Col
lige etiam ,quos tuipſc noftiunum poſt alium ,cuius funus curaffet mortuos:Et
quod heri fuit piſcis ,cras critfalfamen tum, aut cinis. Momentancum itagté pus
à natura eſſe conſtitutum , conſide randum eft æquoſ animo è uita abeun
dum:perinde ac Goliua maturitaté co ſecuca G decidat,arboréqipfam tulit ac
genuit ,collaudet, & gratiasagat. Simi lis elle debespromontorij, adquod al
fiduè fluctus alliduntur : ipſum autem perfiftit,utcunque undęæftuantes cir cùm
ferátur.Diceret aliquis: infęlicem mé,cuiboçacciderit:quinimòfelicem t me,
quihunc cafum fine dolore perfe ram , & nec præſentibus frangar, necfu tura
extimeſcam.Nam unicuiqtaleąd potuit accidere: at non cuiuſuis craç,li ne dolore
cum caſum excipere. Curigi tur illud potius infortunio, quam hoc felicitati
adſcribis? autcuridinfelicita tem hominis appellas,in quo nihil mali palla eſt
hominis natura? an uerò dam num tibi humanæ naturæ uideri poteſt id, quod non
eſt contra uoluntatem naturæ çius? Quid ergo? Numcaſus ifte ef ficere poterit,
quominusfis iuſtus, magnaminus,temperans,prudens, circum fpectus,tutus ab
errore,uerecundus, li ber?autadimereomnino quicquam co rum ,quçhominis naturę
funt propria? Proinde quoțies inciderit quicquam, quod ad dolorem te prouocet,
recor dare huius præcepti,non illud informado nium eſſe appellandum
,fedfelicitati tri buendum , quòd id fortiter feran Eft quidem
ignobile,præſenstamen ad contemnendam mortem auxilium , memoria repeterc eos,
qui uitam inlon giſsimum extraxerc tempus. Quid enim hi 57 1 hi amplius
consecuti sunt, quàmij, qui immaturamorte ſuntabrepti? Vtique ipfi etiam
defuncti iacent , Cadicianus, Fabius,Iulianus,Lepidus, alijſ corum fimiles, q
cúmultosex tulissent, ipfidein de elati sunt. Omninoeņexiguū eſt ſpa çium,
időper quotlabores,inter quos, &quali in corpuſculo exigendum? Ne
igiturmortem prore difficili accipe. In tuere cius quod retro eſtæui uaſtiratë,
& eius quod reſtat ,immenſam longitu dinem :in tanto tempore quid præſtat
is qui tres ætatcs, ci qui uixit triduum ? Semper breuiorem uiamingrederc:
brevissima autem est ea, quamnatura præ ſcripſit. Itag in omni & fermone
& a . & ioncidfectare, quòd eſtrosiſsimum . Hocpropoſitum laboribus
,militia, çura rei familiaris, & folicitudi neliberat. Anè cum grauatim à
fom no ſurgis, in promptu tibi ſitcogitare,tead humanum opusfaciendum
ſurgere.lca que ergo dices) grauatè acccdo ad agé da ea, quorum cauſa natusſum,
ac pro ter quæ in huncueni mundum? scilicet in hocfactus, ut decumbesin lectome
ipsum calefaciam? Atquihoc iucundi dius eft. Ergónead uoluptatem natus es,
nonad agendum ?nonuides plantu las, palierculos, formicas,arcaneas, a pes,
lingula hæc luo intenta officio : tu uerò ea quæ funt hominis obire recu ſas, nc
ad id te confers, quod naturæ tuæ conuenit? At uerò quiete opus eſt. Sane: fed
& huic ,modü ftatuit natura, pinde,utedédi,bibédig: atqui tu ultra modú
&laq gfatis é, pcedis:n reb.uc rò agedis intro moduſubliſtis. Fit hoc cò ,
qateipſum nó diligis:alioqn eń & natura tua, cius voluntate diligeres.Et
cnim alij qui ſuas artes amāt, operibus fuis ita incumbunt, ut neque balneorü nog
cibi curá habeant. Tu naturm tua non tanti facis, quanti aut tornator, aut
histrio suam artem, quanti avarus argentum , &inanis gloriæ cupidus glo
riolam. Hi enim quarum rerum ftudio tenentur,dum eas augere poſsint, cibų
&fomnum poftponunt. At tibi actio nes ad ſocietatem ſpectanteshumanam
uiliores uidentur', 'minorig opera di gnæ ?Quàm facile eft omnem cogitatio nem quæ
animo aut perturbationem af ferat,aut nóconueniat, reijcere, & delc re,
ſtatimg effc in fumma animi tran quillitate? Omnem fermonem & actionemque
fit fecundum naturam, dignam te iudi . ca:nca te auertat ab ijs reprehenfioare
fermones aliorum ca consequentes. Sed fi quid fa & o dictúue
pulchrumeft,idte neindignum putes. Alij cnim aliam ra fionem ,alios appetitus
fequuntur :ad quos tibi non eit refpiciendum ,fed re Cta via cò pergendum,quò
&tua,& comunis omnium ducitnatura: utriuf que autem una eademg eſtuia
per ca quæ funt fecundumnaturam progre: dior,donec morte finiam: expirans qui
dem eam, quá inſpiro quotidie animā, cadens uerò in terram, ex qua &femen
meum pater, & fanguinem mater,&lac nutrix collegit: quæmeterratot iam
an nos'quotidie alit cibo ac potu, quamc calcantem fert, ac totmodisipla abu
tentem. Auſteritatem tuam ut admirêturno est. Sit fanè, at multa alia ad quæ tc
non eflenatura aptum, dicere non po tes.Eaigitur profert, quętota funtin te:
integritatem, grauitatem ,laborum tole rantiam, uoluptatum abftinentiam ,ani
mum ſua ſorte contentum, pauca defi derantem ,placidum ,liberum, àcurioſi tate
& nugis alienum, altitudine prædi tum.Nonſentis,quam multa poſsisprę ftare,
de quibusnulla eſt excufatio na turæ ad ea non aptæ : & taméadhucfpó te tua
inferius manes. Quid? Ante natura parum bene in ſtructa cogit indigna
ri,cúctari, adulari, corpuſculum tuum incuſare, tuam ſortem improbare,leuć
eſſe, animouagari:nonmehercle,fed his omnibus iampridem ut liberareris malis,in
tua fuit poteſtate.Hoc tantum erat uitij, quod tardioris ingenij, ac qui non
facilè affequeretur ea quæ traderé tur,exiſtimari poteras: Sed & hoc exer
citationeerat corrigendum ,neſubinde cogitares de tua tarditate, néue ca de
lectateris. Eorum qui bene alijs faciút,triaſune genera:primum corum ,
quiſtatim exhi bito beneficio , ſtatim etiam quam ſint meriti gratiam reputant.
Alterum co rum , quiid quidem non faciunt,ta conſcij quid fecerint,debitorem
ſeiam habere cogitant.Tertij quodammodò ne hocipfum quidem quod fecere,no
runt:uiti ſimiles, quæ uuam cum protu lit , ut femel ſuum deditfructum , nihil
præterea quærit. Equus ficucurrit , canis fi uenatus eſt,apis fi mel fecit
,fatis eſt. Homo auté l benè fecit,non reuocatur, ſed ad ali ud negocium
tranſit, quemadmodum uitis,ut rurſum fuo tempore uuam producat . In his nc
igitur eſſe debent, quæ aliquomodo fine conſequentiaid faciunt?equidem .ſed
hocipſum debet confequi. Propriū cnim est inquit animalis lege sociati, ut sentiatle
et societatis causa egisse &ut velit omninoid eû qui ſocietatis eft
ciuſdem, sentire. Verum clt quod dicis: quod autem nunc dici tur, excipe .
Proptereà ex eorum numc ro eris,quorüantè feci mentionem. Hi enim
uerifimilitudine quadam proba bili abducuntur. Quòdh intelligereuis quidná
litid, quod diximus, netimcas, ne obid actio aliqua ſocietati hominü inferuiés
tibi Gt omittêda.Athenienlių erathocuotu:plue,pluuiã ò chare lu piterin agros
& cáposAthenienſes de mitte. Enimuerò aut nihil eft optandū, aut omnino
fimpliciter, & liberalitcr. Quod dicimus Aeſculapium huice quitationé ,
illi lotioné in frigida,alteri utnudispedib.ambulet, iniúxiſſe :nihil aliud eft
cú dicim°, natura uniuerfi huic hoimorbú, defectú autamiſsionémen
brialicui'impofuit.Náutilliccum dici mus iniunxiſſe,intelligit.AEſculapium HUO
O unam rem ad alterāordinafic, uerbigra tia ,camrem reſpectum habere ad fanita
té:ica hicidqunicuiqaccidec, rationé babet & rcfpectumad fatū.Ita enim hęc
nobis accidere & cógruere dicimus, ut opificesquadratoslapides in muris aut
Pyramidibus extruendis congruere a lerunt , quippe certa cos collocation ne
inter ſe componétes. Omnino enim una quædam eſt harmonia: atg ut uni uerG huius
corpus ex omnib.corporib . eſt compactum , ita ex omnib.caufis Fa tum ſuprema
cauſa conſtat.Id quod di co,etiam rudiſsimi intelligút homiues: dicút enim
,hocſors cius tulit,hoceica ratimpolitú.Accipiamusergo hæcita, utilla quæ
Acſculapius impofuit: nā & in illis multa ſunt aſpera, quæ tamen fpc
ſanitatis ferimus.Tibi crgò corú quęcó munis naturatibiiniúxerit perfectio ,fi
milis ſanitati iudicet:atqita æquo ſuſci peanimo oía quæ fiút( ctiāli gd durius
uidcat. ) quoniã adidducunt, quod ra tioncmúdić fanicas,népeadfelicitaté.
Nihileſ accidiſſet tibi, nifi in réuniuer Gita ect:ncq cnim una quæuis natura i
quicquam fert,ſed id modò, quod re fpcctum
adid quod ab ea adminiſtratur, habcat. Quare duæ ſunt rationes,cur ea que
tibicueniunt, çquodebeas animoferre. Vna, quiaſors tua ficferebat, & tibi
de ſtinata erant ab antiquiſsimacauſa fata li habentiaad te certum reſpectum.Al
teras quòd ca faciunt adprofectum , & perfe &tionem , ac permanentiam
eius, quòduniuerfo praecſt. Totum enim muti latur,fi etianminimam partem conti
nuitatis & coherentieutmembrorum , ita etiamcaufarum difcindas. Id autem
quantum intc eft,facis , quotiesea quæ tibi obtigerút,moleſtèfers,ac quodam
modo tollis. Faftidire,animumdeſpondere,ac de terrerinódebes, fi nó ubiq tibi
fuccef ſusrefpondet,fecundum recta præcep ta agere fingula cupienti :ſed
fruſtratus conatu,cum redintegrare, & æquo ani mopleraq humanaferre : neque
debet te eius,ad quod redis ,poenitere.Nequc tibi eſt ad philofophiam tanquam
ad pædagogum redeundum :Sed utſolent qui ex oculis laborant,ad ſpongiam &
ouum, alij ad cataplaſma &perfufioné confugere.Ita enim nó opuserit tibi o.
ſtendi,utrectęrationiobedias:ſed in ca ipſe acquieſces. Memento philofophiam ca
tantum poſcere, quæ natura etiam tua exigit: tu aút aliud quippiam
uolebas.Vtrum uc rò horum blandius'eft an nonhocpa eto dccipit uoluptas ? Vide
gratior no gt magnamitas, libertas, simplicitas,æ quanimitas, fanctitas? Quid
enim ipſa prudentia Git acceptius,ubicùm animo tuoreputes facultatem quæ
ſcientiam certam , & certis conſequentijs nixam habet,nuſquamlabi, &
ubiq ſucceſſum habere? Res quidem ipfæ in tanta quodam modo uerſantur obfcuritate,
ut philo fophorú plerifcb & ijs no ignobilibus, omnino pcipipoſſe nihil
uifum fit:Stoi ci tamé poflc percipi, ſed planè difficul ter,cenſucrunt.Eft
omnis noſtra aſſé lo talis, utfalli & mutati poſsit:quis c nim ſenó pofle
errare dixerit ? Trasfer itag cogitationes ad ipfas res fubice & as ,acuide quàm breues , uilesø Gne, quæ
ctiam à cinædo, fcorto ,autprædo ne poſsint teneri.Inde tranG ad mores corum,
quibuscum uitam degis , inter quos uix eſt etiam gratiofifsimum per ferrc,ne
dicam , quod uix ſeipſum quis perpeti pofsit. Tanta igitur in caligigine,
sordibus, tātoo rerum, temporis, motuumý, & rerum quæ mouentur flu xu , non
uideo quid lit effe in honore, aut obferuantia hominum. Contrà præ ftat feipfum
confirmare, acmortemræ quo animo expectare,ncqmoram indi gnè ferre, fed in his
modo acquieſcere duobus: uno, quòd nihil mihi accidet, quod nó fitſecundum
naturam uniuer fi:alterum , quòd licet mihi, nihil agere quod contra Deum
geniumg fit meú demo em ad hocme cópellere poteft. Subinde hoc
teipſuminterroga: quam adrem nunc utoranimo meo? at & exa mina teipfum :ea
pars, quam principem uocant, quomodo núc habet?cuiusaío prçditus ſum ? num
pueri, num ADOESCENTIS, num mulierculæ , num tyranni, num iumenti,num feræ? Qualia
fint illa, quæ uulgò bona ha bentur, etiam hinc euidens fiat.Sienim animo
concipias ca quæ ſunt reipfa bo na, utprudentia, ut temperantia,utiu fticia ,ut
fortitudo,hisiam antè reputa tis, nihil porrò audies nominari bonú, quod nófub
hæc referatur. Quæ uerò uulgus hominum bona putat ,ca qui an tè mente
conceperunt,fimulatq nomi nari audiút,perfacilè accipiút,perinde ut liquidà
Comico appolice di& ú eft. Hæc eſt fere uulgi de differentia bo norum
opinatio :alioquin enim haud co peruentum eſſet, ut uera bona auer
ſarent,diuitiarū aút, voluptatis aut glo riæ métionéita admitterét, utſcitè ato
urbanè dicta.Progredere ergò,acinter roga,(intne in honore habendaet in bo nis
ducenda hæc, quæ fi animo tuoima ginatus fueris,aptè quis dicere poſsit, cum
quiiſta poſsideat,propterhác co piam ncubi quidem cacec habere. Ex forma &
materia conſto : ho. rum uerò neutrum in nihil uertetur, ut neque ex nihilo
extitit. Ergo om nis mci pars permutationem redigetur in aliquam mundi partem,
atqhæcrur fus in aliam uniuerli portioné tranſibir, ido ad infinitum uſ.
Huiufmodi auté mutatione & ipfe extici, & parétes mei, ide in infinitum
uſo retrò eunti licet dicere:quãquam certis alioquin circui tibusmundusadminiftratur.
Ratio et rationalis ars, facultates funt abiipfæ ſufficientes,fuisg operib.
Progrediunturàſuo principio, acper gunt ad finem propoſitum :habent a &
tiones earum à uiæ cuiinGftuntilleno men apud gręcos, utfine netoptásons:nos
rectas effectiones dicere poſſumus.Ho rum nihil de homine dicipoteſt,neque enim
ei conucnit, ea ratione, qua homo eft : Non hæchomo,ncgiplius natura
profitetur:non eſt ca in humana natura perfectio.Proindein externis rebusnc
quaquam erit finis homini cóftitutus, nepid bonum , quod finem illumabfol
uit:Alioquin hominis partes non fuif ſét,ut eosdeſpiceret,nem laudedignus,
quiſeita parat,utillis non indigeat:no que qui illis rebus abſtinct, bonus dici
mercrctur, fiquidem cæ bona ellent Nunc uerò tanto quiſ melioreſt, quá to
magisſeipſum ab illis rebusabſtinet. Talis erit intellectus tuus, qualia ſunt
ca,de quibus ſubinde cogitas : nam à ui bis fcu cogitationibus illis animus im
buitur.Inficeigitur eum adliduitatehu iuſmodi cogitationum , qualesſunt:ubi
cunqueuiuere,ibietiam bene uiuere li cet :uiuere autem licet in aula, ergo etiã
bene uïvere licet in aula. ltem alicuius rei caufa fingula ſunt facta cui ucrò
gra tia unúquodgfa & ú eft,adid fert, ado aút fert in eo finis eius é
poſitus: ubi ue ro finis ,ibi ét bonú unicuiq. Ergo finis animanti ratione
prędito ppolituseft, focictas, natos cnim nos effe ad eājiam pridem eft
demonſtratum . An uerò non euidens eſt, deteriora præstantiorum , rurſumýex his
unum alterius caufa esse. Præftantuerò inani mis animata,atq inter hæcipfa, ca
quæ rationem habent. Ioſani eſt,ſectari impoſsibilia. At fic ri non
poteft,quinmaliſuomore agāt. Nihil cuiquam accidit,nifi ita Natu rá deſtinarit.
Id quod alius iniquè fert, e bas wal
wide ولا bus alteri accidit, qui fiue ignorationc cius caſus,ſineut
magnanimitatem oftédat, cóftantiā tuetur,atqillæſus manet.Ini quú cſtigitur
admittere,utinſcitia et o pinio prudētiäſupent. Etenim res ipfæ
animúnequaqattingunt, non intrātad eu,ncg mouere, ncq uertere poffunt.
Solusipſe ſeipſum ciet, ac quale iudicia umtulerit, talia ea quæ accidere,
fiunt. Alia róeſumma nobis eſt necefsitu . do cũ hoíe
cóftituta,quaeibenefacere, eumý ferre iubemur :cú aúcimpedire conant noſtras
actiones , nó magis ad nos attinet, ộ Sol, uétus:beſtiæ. Ato hi qdé impedire
effectú aliquãdo pofsint: animi uero appetitioné, & affectum no
qucunt,quiahæcexceptioné habét , & conuerlionem.Ná omneid quodimpe dimento
fuit effectioni,id animus ad ca quæ præcellerút,cóuertit, atßcomo do id , quod
instituto operi, uiccoßinitę obftitit,ei iam confert aliquid . Id quodin múdo
eft præftantiſsimū, cole. Eit aútid, qd oíbusreb.utitur,oía gubernat.
Similiterid quoßhonora, q in te elt primú: nimirú illi alteri cogna tum, cesa
üles DO Pe quatum ,quòd & cæteris quæ in teſuntom nibus utitur, & tuam
uitam regit. Quod civitati nullum affert detri mentum ,idnc ciui quidé nocet. Hæcre
gula recoléda tibič, quotieſcúq telæ ſum aliquâ eſſe cogitas.Sin ciuitas dam no
affecta cft, ei qui ítulit,ſuccéferenó debes. Quid neglectú eft?Sæpenumero
códdera, ệ celeriter oía quæ & funt & fi unt, abripiãtur &
cuanefcát. Etenim & ipfęnaturę amnisinſtarin adſiduo funt fluxu , &
cffectiones cótinétib.mutatio nibus obnoxiæ , & cauſarúinfinitæ ſunt
uices:denią nihilferè perſiat, aut ſui fi mile durat.lā & pręteriti, &
uenturiçuí infinita é, in qua oſaabolentur,uaftitas, Quî ergo ſtultitiæ nó
damnet, qin hoc tā cxiguo téporis articulo ſupbit,appe tit,autmoleſtia fe
affectú quiritaf. Universæ rerum naturam recordare, cuiusmini . mã parté tenes:
totius zui,cui' breue & mométaneútibi éattributúſpacium :fa ti , cuius
perexigua ad te portio ptinet . Peccatalius qs aduerſummc uiderit, ſuā habet
affectioné, ſuum a &um. Ego in præſentia id habeo, quod me habere i t c
& C a & 1 uult cómunis natura: agogid qd'age remeiubetmea natura . Pars
animitui princeps neinucrtatur ullo uelleui uel alpero carnis motu , neg
admittat per fuafones quçinmembrisoriuntur, Sed circumſcribatcas. Quòd fi ex
ratione alterius conſenſusad intelligentiam ef ferútur,nimirum quatennsea cum
cor pore copulata eft, tum quidem ſenſui, cum is a natura proficiſcatur,
reluctan dum non eft: opinioniautem mali aut . boniadfentiremensnon debet.
Viuendum eſt cum dijs.Vitam ucrò cum dijs agit, qui continenterijs ſuum animum
oftendit probātem ea quę ipli fatum tribuit, agentemg ea quægenio placerent:
quem lupiterſuæ quandam particulā naturæ unicuiæ prælidé, du coşdedit, nimirú
mente atæ rationé. Neiraſcaris ei qui hircú olet, autcui aia fætet; nihil, n.ad
teidcmaliredibit, Alæ iplius, & osita ſunt affecta,utne ceflc ùthæcmala
conſequi, Rationc,inquis, præditus eſt homo, ac fi scrutari uclit , intelligere
poteſt quainre delinquat.Benereshabet. Proinde tu, qui & ipfe præditus es
ratione, mentem eiustuæ mentis motu cxcita, doce, commonefac: li enim obtempe
rat tibi, fanabis eum , negira opuserit. Nonita hic uiuendú eſt tibi,ut Tra
gedo autſcorto qui egrediés uiuere co gitat. Quòd li tibinon cóccditur,tunc
uita excedere, ita quidé,ut qnihil mali patiatur,acfumiinitar abeat, Quid hoc
rei eſſeputas? Dum uerò nihilme tale abducit,liber permaneo ,neq mequif quam
prohibet agere ,ut uolo, uolo au. tem ,ut naturæ animantis ratione predi ti,
& ad certum nati conuenit, Mens quæ mundum gubernat, ſocic tatisrationcm
habuit:itag & inferiora præftantiorumcaufa effecit,& pręſtan tiorum
unum alteri ſubdidit. Videt , ut ſubiecerit , cóiunxerit,ac unicuiq ſecu dú
dignitaté ſuú tribuerit,ea quęlunt pręſtátiſsima,mutuo cófenfu deuíxerit.
Quomodo uſus es hactenus dijs, pa rentibus, fratrib. uxore, liberis, docto
ribus, alumnis,amicis,familiaribus, fa mulis? an in huncuſquediem in nemi nem
horrcū uerbóuefuiſti iniurius! Reminiſcere étą ſupaueris , actolc raueris : tum
fabulam uitæ tibiiam pera tam,teş tuo miniſterio defunctum ef ſe. Quàm multa
uidiſti pulcra? quot uo luptates quotdolores deſpexiſti? quot peruerfis
hominib. æquúte præbuiſti? Quamobré animi artis & diſciplinæ uacuiarte
& fcientia præditum confun dunt? quem uerò animum arte & ſcien tia
præditum uocas?cum ,qui principi um & finem cognoſcet,et mentem , quç per
uniuerfam rerum natură penetrat, acper omnes fæculorum curſus defini tos atq;
ftatosmundum gubernat. lãiá cinis eris, &oſſa nuda, nihil öter
nomé(liquidéid ſupererit) tui reſtabit. Noméautnihil eftõſonitus. Atea quæ
magniin uita precij habent,uana ſunt, putrida, cxigua, atą inſtar catellorum
mordicantiŭ, aut pucrorü inquietorů, quimodò rident,mox plorant. Cæterű
fides,pudor,iufticia, & ueritas. Climatib . tcrræ cæld petiere relictis.
Quid ergò reſtat, te hîc detineat? fen Gliane tam fluxa, torý mutationib .
cxpofita ?an ſenſus, obſcuri, & qui facilè decipiantur?animula ipſa, quæ
cft ex halatio à ſanguine? gloria inter huiuf modi homines, inanis illa ? Quid
ergo aliud operiris,niſiuelextinctionem ,uel translationem ,idý æquo animo?Quid
interim dum eam occafio adducit ,tibi fuffi ciet? Quid aliud, quàm deos uene
rari &collaudare,hominibus beneface re,eos &ferre, & ijs
abftinere:quæ cx tra tuæ carunculæ & animulæ ſunt po fata fines,ea
meminiſſenex poſſeſsióis, nco poteſtatis tuæ eſſe? Semper potcs uti
ſecundisſucceſsibus, Gredtæ uiæ in Giſtere uis,duo hæc obferuare, quæ di uinæ
menti communia funtcum homi nis , omnisg ratione præditi aſalis ani mo: unum,
non poſle te ab alio impedi ri:alterum ,iniuſta uoluntate & actione | bonum
eſſe collocatum, cumý ad fino efle appetitionesdirigendas: Si hocneg mca
fitmalicia,ncqactio eſtàmeaproficiſcensmalicia:nequcco munitatidāno eſt, quid
folicitus deco ſum ?querò dānúě cómunis focictatis ? Non debemus nos
cogitationib.om ninoabripiédos præbere, fed opitulari quátum eius fieri poteſt,
& dignum eſt, etiam li in medio lit defectus:ncqueid pro damno ducere.ca
enim cófuetudo mala eſt. Sed quemadmodū ſenex di ſcedens rhombum alumni
poſcebat, memorrhombú cffc.ita etiam hic: quo niam bonú aliquid fiatin roſtris.
Heus homo,oblitus es, adhæc lint? lanè: Sed ca,in quibushiſtudiú
ponát.Propterea tu quoqs ſtultus es fa & us? Aliquando uteung
relictus,factusſum felix. Felici tas auteſt, utbonam tibiipfifortem uendices :
id eft ,boni motus ani mi,bonæ appetitiones,bonæ actiones. Aturauniuerfi ſuo
guberna tori obedies eft, acbene có polita: quæ uerò cam guber nat mens,nulláin
ſeipſa ha betmalè agendicauſam : quippenihilei ineft uitij,nc peccat,nc ab ea
quic quam læditur: omnia uerò fecundum cam fiuntatßperficiuntur. Nullo ponein
diſcrimine,algenſne, an calens, dormiturićsan ſomni fatur, malian benè
audiens,moriens an aliud quid agens id facias , quod te decet: quando mors etiã
una eft carum a & tio num, quæ ad uitam referuntur. Sufficit igitur ea
etiam imminente, id quodin ſtat,benè collocare. Intrò refpice.Nullius rei
nequepro pria qualitas,neqid quod cidebetur, te fallat. Omnia quæſubiccta
ſunt,celerrimè mutantur, & autin halitum refoluun tur, fiquidem fit
compacta corum ſub ftantia,aut diſsipantur. Mens uniuerli gubernatrixſcit quó
ſe habeat, quid agat, & quá habeatma teriam ſubiectam . Vlcilcédi ratio
optima eſt,ne ſimilis fias cius, qui iniuriam fecit. Unohocte oblecta, inguno
hocac. Quieſce, ut ab una ſocietatis humanæ tuendęcauſa ſuſcepta actione,ad
aliam tranfeas, dei memor. Princeps hominis pars eſt ea, quæſe ipfam excitat
atą cict, feğz talem, qualem vult,efficit,præſtatý ut ea quæ eue niunt talia,
qualiaipſa uult , fibi uidean tur. 04 Omnia fecundú naturā uniuerG fiúc:
negenim poſſunt fieri fecundú ali ali quam ,ſiue extrinfecus circumdantem, fiue
incluſam ,fiue foris ſuſpenſam . Vniuerſum aut confufio quædam eſt, &
cótextus fortuitus rerum iterum àſé diuellendarum & diſsipandarú: aut
unitionc ordine , & prudétia conſtat. Si prius illud uerum eſt, quid eft,curcu
pia inani huic colluuiei & mixeuræim. morari? quid aliud expetendum ,quàm
ut in terram utcungredigar? quid per turbor?quicquid egero,tamen difsipa tio mc
corripiet. Sin altero mó res ha bet, uencroreú, animoſ conftári ſum , &
gubernantimundum confido . Cum te rerum præſentium ſtatus nó nihil
perturbat,celeriterad teredi,neg ultràquàm neceſſe é , à modoeius quá
inftituiſti cantilenæ difcede. Nam co fa cilius harmoniam tueberis, ſi continen
ter ad eam reuertaris. Sitibi Amul &nouerca, & mater effet, illam
quidem coleres, &tamen crebrò ad matrem te recipercs. Eadem eſtribi ratio
aulę & PHILOSOPHIæ . Quarc ad hanc sæpe numero revertere, & in hacac
quiefce, quæ efficit,ut &res aulicæ tibi tolerabiles uidcantur, & tu
duminijs ucrſaris,ferri queas. Quid cogitandum est de cibis & id genus
rebus ? hoc eſſe piſcis ca dauer , illud auis , aut porci: item Fa lernum ,
ſuccum eflc exiguum uuulz purpuram capillos elle ouiculæ, modi. co teſtudinis
fanguine imbutos: tum coitum ,inteſtini parui affrictioné, mu ciğ excretionem
non fine cóuulấone. Cogitationes hæ præclarę ſunt: nam ré ipfam
attingunt,acpertranſeüt, ut qua lis cafit ,cerni poſsit.His per omnem ui tam
utendum eft:aclicubiresquàmma ximè uidetur comprobatu digna,tegu mentis cſt
nudanda, ut & eius in cófpe dum ueniat uilitas,& id,quo fe oftenta bat,
ei adimai. Etenim fucus impoſtor eſt callidiſsimus,ac tummaximèin frau dem
inducit,cum quis maximèfe res ſe rias & dignas tractare putat. Videigit,
quid de Xenocrate ipſo Crates dicat: Pleraq, inquit,corum , quæ uulgus ad
miratur , fi fub habitu aunatura conti nerent, ad latiſsimè patentia genera ré
uocabat,utlapides,ut ligna,ficus, uites, oleas.Quęſubarctiorib.aliquanto , ad
animata ,utgreges,arméta.Si qua paulò plº haberćt gratiæ ,hęcad eareducebac a
cópræhédútur fub ala róe prędita,nó quidé uniuerſali,ſed quatenus artes tra
ctat , aut alias facultates: aut ipſa per fc . au L fcæſtimabat, ut:quidnam
cſſct,poſside remultamancipia.Qui uerò animūra •• tione præditum cû omnibus
ſuis facul tatibus,ciuilis coetus ſtudio uenerat, reliquarum is rerum nullam
curat. Sed omnibus poſtpoſitisſuum animum ita affectum ,atgita fe mouentem, ut
ratio ni & ciuili ſocietati cögruit,conſeruat: ijs quiſunt eiufdem generis
, utiden præftent,auxilio eſt. Quædam iam fiút, quædā mox exiſtent, quin
&cius quod fic, pars iam nuncaliqua euanuit. flu xus, & alterationes
continenter mundű renouất : quemadmodum infinitum æ uum temporis adſiduolapſu
nouü ſub indereddit.In hocita @ flumine quifná ca quæ præterferút, ac
quibusinfiftere nonpoſsit, honore aliquo dignetur?is quidem perinde lit ,acli
quis unum de præteruolátibus paſſerculis diligerein cipiat,atisiamè conſpectu
cius abica rit.Itafe & uita uniufcuiufque hominis habet,ut halitus a
fanguine ſublatus,& aër inſpiratus. Quale.n.eft quod femel animāattrahimus,
& efflamus,id quod identidemfacimus,tale ctiam eſt , quòd f ac ad all a .
ba omnem reſpirádi facultatem , quam hc ri aut nudius tertius nati accepimus,
eò reddimus unde accepimus.Quod uege tamurmoreſtirpium ,reſpiramusmore pecudú,
& ferarú , quòduitsafficimur, quòd appetitionis cauſa mouemur, q
congregamur, quòd nutrimur,omnia hæcnonmaioriſunt in pretio ponéda, quàm quòd
excernimus cibirecremé ta. Quid igitur honore dignü est? num plauſus?nequaquá.
Ergo nelaus quidé populi,quænihil eft aliud quãplauſus 1 nguarú.Sublata igit
etiâ gloriola, quid reſtat, quod ſuſpiciamus & ueneremur? Equidéhoccenſeo, ut
quemadmodú fa ciiinſtructiś à natura fumus,ita mouca mur.Eò nos etiam
diligentia opificum , &artes ducût. Ois.n. ars huc collimat, utid quod
paratú eft,aptü fit & idoneu adopus , cuius operis cauſa paratú eft. Idé
querit uinitor,idé qui pullos equo rum domat,idé qui canes educat. Ergo
&inſtitutio primęætatis & doctrina co contédunt:isý finiseſt,quem
expetere debeas. Húc córecutus,nihileft in alijs rebus quod ſis tibi
quæliturus. Quòd fi pergas ES pergas alia eciã expetere , nec liber cris, neg
tibi ſufficies ipſe, negeris affectuú uacuus:neceſſariò.n.inuidebis,æmula beris
,liniſtra ſuſpicaberisdehis , quiilla tibi adimere poſsúc ,infidiaberis ijs ,
qui ? id quodmagni fit à tepoſsidét.Oino.n. necesse est cu esse aio pturbato,
qiſta de fiderat :fępe etiá deos incufare . Quiuc rò mente ſuam reuereturato
colitis & fibi ip , probabitur, & cum cætu homi num bencei conueniet ,
cúmque dijs conſentier ,id eft,laudabit quæcunque ij diftribuunt &
ordinauerunt. Infrà , ſuper , atque circum te motus ſunt elc métorum . Motus
uerò uirtutisin eorú nullo eft,fed diuiniore quadá , & adin telligendum
difficili'uia procedit . Vide quid aganthomines. Eos qui eodem cú iplis uiuúttépore,
laudare nolūt:ipfi uerò à pofteritate laudari magnü exiſti mant :nimirúabijs
quos ne uiderunt, neq uidebūtunqua.Id uerò haud mul tò aliud eft, quàm ſi
dolerét , non à prio ris etiá ætatishominib. felaudatos esse. Non, li quid
allegintelligétia tua neqs , id daullopoile apprehendi homine exiſti 0 co ert
as f 2ti ma: Sed quicquid homo poreft, quic quid ei conuenit, id &
tibiconcediiu dica.ln palæſtra fi quis unguibus aduer farium
laniauit,autcapiteincuſſo ferijt, nonindignamur, ncq;offendinjur,nco inſidiarum
fufpectum habemus : caue mus quidem nobis abeo ,non ut abho ſte, ncquc Gniſtrum
quid de eo ſuſpica mur,tantùm placidè cum declinamus. Id fieri debetetiam in
reliquis uitæ partibus, ucidem de alijsſentianus, quod de ijs, cum quibus
collucamur:poflu muscnim (utdixi) citra fufpitionem & odiűabijscauere,
& cosuitace. Si quis meredarguere poteft, & demonftrare, quòdnon recte
ſentiam ,aut agam,læto animo fentétiam mutabo :ucritatem.n . quæro, quæ nemini
unquam dáno fuit; damnum autem facit,quiin crrorc & i gnorationcſua pmanct.
Ego, quodcft mci officij, ago, cætera menonauellúc. Autenim anima,autrationc
carent,aut uiæ ignara errant. Animantia rationis expertia,tú omnes ciuſmodi res
& fub . iccta,magno & liberali animo ſunt ufur panda tibi,ncmpcrationeprædito.
Hominibus uerò, ut ipſis quogmentcin ſtructis rationeſocietatis habita utere. Inomdisciònegocio
deos comproca rc:neos ſolicitusefto,quantum tempo ris fpatium tibi adagendum
detur:fuffi ciúteoim ucitres huiuſmodi horæ. Ale xander Macedo ,agaloß eius ,
mortui in idem ſuptredacti: autenim aſſumpti ſunt ad mentēmundicam, qua fati
ſunt reliquorum animi , aut diſsipati ſuntin atomos, unus perinde atgalter. Cum
animo tuo conlidera,quàm multa uni co temporis momento fiantin uniuſcu iuſ @
noftrûm ,cùm animo, tum corpo re :ita fict,utnó mireris, quòdlógè plu ra, imò
uerò omnia quæ in mundohoc fiunt,fimul extent. Si quis à te quærat, quomodo
fitnomen Antoniniſcriben dum: nónne fingulatim omnes literas proferres? Quid
ergo fi qui iraſcuntur, num uiciſsim tu quoque ſtomachabc ris?nó potius numerum
inibis placidè ; Ingularum rerú ? Itac ctiam hîçmemé to luis omnc officium
quibuſdam con ſtare numeris: quos li imperturbatos ſeruaueris, ncq indignatibus
alijs ipfo com Spro MIUS. quog indigneris,recta uiaid quod pro pofuifti,perficies.
Inhumanum effe ui detur,hominem impedire, ne ad ea fera turquæ ei utilia &
cognata uidetur. At quiid tu ne faciant prohibes quodam modo,dūiniquo animo
fers cos delin quere.Ferútur enim utiqueadid, quod naturæ fuæ coniunctum ,
& utile putāt. Sed res nó ita habet . IditaB oftéde eis, & & doce
citra indignationé.Morsfinem imponit ſenſuum motus, & cogitation num
officijs ,animúģàcorporismini- situ ſterio liberat. Turpe aút eft in hac uita,
in qua corpus tuũlabori nỏ fuccubit animú tuú elāgueſcere.Videne à pręfé
tiſtatu deiectus obruaris. Poteft.n.hoc fieri.Itaq; cóferua teipfum Gmplice, bo
ne núintegrū,graué,apertū ,iuſtitiæ ſtudio fum ,piúerga deos, benignú, humanú,
ad officiunituendúforté,annitere utta lite lispermaneas, qualetefacere uoluit
phi c loſophia.ucnerare dcos,ſalaté homini busaffer. Breue eſt uitæ in terra
degen dæ tempus,omniſg eius fructus, ſancta animi conftitatio , & actiones
commu- beri pitati hominum utiles .Omniautdecet Anto SE maig Sophie Antonini
diſcipulum.age. Quæ fuerit eius in agendo fecundum rationem fir mitas, quæ
ubiqueæqualitas, quæ ſan ctitas, memento : quæ uultusferenitas, accomitas .
Quantus ille gloriæ con temptor, quod eius in percipičdis reb. ſtudium , quum
nihil prętermitteret,ni fi prius accuratèperſpexiſſet,ac cogno uiffet.Vt
tulerit iniuftè ipfum repræhé. dentes, neque conuitium his repoſuc rit:ut
nihilproperatè aut cupidèaggrel fus fit: ut calumnias nó admiſerit, ut di
ligens fueritmorum actionúmque exa minator:non obtrectator,conmeticu loſus ,
non ſufpitioſus, non fophifta. Quàm paucisfuerit contentus , ut do moleco,
ueſte, cibo,famulatu :quàm tolerans laborum ,quàm lenianimo: ut
tempusnequeadueſperam propter ui ctustenuitaté egerit,ita ut neexcernere niſi
coſueta hora opus ei effet.Queeius in amicitia fuerit conftantia , &æqua
bilitas : quomodo tulerit cos, qui ipfius fententia liberè impugnarent,gauilulý
fuerit,fi quis melius aliquid oſtêderet. Qua ille deos religione coluerit citra
ſuperſtitionem ,recordare, ut iibi quo quc ultima hora perinde atque is fuit re
¿ te tibi coſcio adueniat. Expergiſcere, & tcipſumreuocafomnog diſcuſſo co
gitans quæ te inſomnia perturbarint,ui gilās ea intuere,utilla inſpexiſti, Ex
cor pufculo & anima con to . Corpuſculo nihilintereſt interres , neque enim
po teft difcrimen ftatucre. Rationiautem inter ca diſcrimen habetur, quæ nóſunt
ipfius actiones: has uerò oés in ſua ha bet poteſtate. Quod ipſum tantùm eſt de
præſentibusaccipiendum ,præteritę enim & futurę animi actiones,ipſe quo que
nullum habentiam diſcrimen.Ma nuiacpedi,dum ſuum agunt officium , nullus
eſtpræter naturam labor.ita ho mini quoqueea agenti quæ ipfius ſunt partium ,
nullus eſt præter naturam la bor:ergo nę malum quidé.Quotuolua
ptatibus,acquantis frui contigit latro nibus, cinædis, parricidis , tyrannis ?
Nonnc uidos ut qui ſordidas profiten . tur artes, uſque ad certum finem ſe pri
uatis hominibus accómodent? nihilom minus tamčſuæ artis rationcm retinét, nab
ea decedere uolunt. Nónne aútturpeft, fi architectus &medicus magis lux
artis rationé reuercatur,quá ſuam homo , quæ quidé ei eſt cum deo communis?
Aga& Europa, anguli ſunt mandi: uniuerſum mare, guttamundi: Athos, glebula
mundi : omne inſtans tempus,púctum cſt æternitatis. Omnia
funtparua,mobilia,interituiobiecta: 0 mnia inde ueniunt , profecta à principe
uniuerfi,aut per conſequétiam . Etenim rictus lconis, lethalia uenena, omniaos
maleficia ,ut ſpina, cænú, pulcrarum & bonarum rerum ſunt additaméta, Non
igitur ea aliena ab eo quod colisimagi nare,ſed fontem omnium rerum confi dera.
Qui preſentia cernit,omnia uidit, quæ ab æterno fuerunt, & in infinitum uſg
erunt, Omnia enim ſunt eiuſdem generis, & conformia.Sæpenumero co gita de
omnium in hoc universorerum connexu, mutuag affectionc, Quodá cnim modo omnia
inuicem ſunt impli cata ,ca ratione amica mutuò. Aliud enim ex alio
confequitur,propter con fantem motum, ac conſpirationem & fs unitionem (ut
ita dicam )ſubeſſe. Quib. negotijs addictus es ſorte tua, his teac commoda :
& quibus tehominib.fatū adiûxit, cos amore,idig uero ,proſeque re.Organa,
inſtrumenta, uaſa, quumid agunt,cuius gratia funt adornata, bene habent et quidéis
qui ea parauit, abeſt abipfis.At in his quæ natura continen tur,remanet, intuſý
eſt uis ea paratrix. Ita tanto magis honoranda eſt, &exi ftimandū, li
ſecundum cius uoluntatem agere perſeueres, oía tibifecundum mé tem eſſe:idéo de
alijs hoíbus oíbusin tellige . Quodcu exijsreb.quæ extra te ,negin tua uolútate
ſunt pofitæ ,tibi Ppofueris,boniuel malinoie, id, fi uel utmalú tibi cótingat ,
uelfi, cú pbono ducas,adipiſcinon poſsis , efficiet ut & deos incufes ,
& odio habeas homines quiin cauſa ſūt,aut eo certe noíe ſuſpe cti habét, g
uelmalú hochabeas,uelbo no careas.Propterhác rerú differentia, quam ipfi
ftatuimus , fituc multa pecce mus. Quod fi ſola ea, quæ in nobis ſunt pofita,bona&mala
tractaremus,nihil cauſęreſtaret,ne aut Deú incufaremus, aut cú
hoíbusinimicitias ſuſciperemus. Oés ad eúde finé & effectú agimus: pars
ſciétes, & certo ordine,pars inſcij. Qué admodú & dormiétes.Heracletus
nifal 1 lor dixit eſſe operarios,qui adiuuétlua opera hæc quæ in múdo fiút.
Alius aút alia róneid opus adiuuat :ſupuacanea opera eft eius qrephédit, &
reniticonat ijs quæ fiút, ea reſcīdere:nā & hocuti tur múdus. Proide animum
aduerte, in quorú tute numero reputes. Nã admi niſtratorhuius uniuerd, utiq
teutetre &è , & accipiet te inter cooperarios.Tu vero ne ſis
huiuſmodieorú pars, qualis eſtinfabula uilis ille et ridiculus versus, cuius
mentioné Chrysippus facit. Sólne pluuiæ munia obire cupit,aut Aeſcula pius
terræ frugé ferētis? Quid ucròfyde ra, anno diuerſa quidélingulis eſt actio,
quętnadcómune opus cóferat?Quod fide me & his quęmihieuenire debue rút, dij
cófultauerüt, rectè nimirú mihi confuluerút. Nam Deum fine confilio agentemnc
cogitarequidem facile est: quæautem fuiſſet cauſa , propter quam malè mibi
confultum uoluiſſet? Quid inde ad deos , & ad uniuerſum ( cuius maximè
habentróné fru & usredijſſet ? Sin de me priuato nihil conſultauerüt, ac
deuniuerſo utigrationes duxerunt, ex quo quum ea conſequutur que mihi
cueniunt,non debet mc eoruinpcenite re.Sanède nulla re eos confilium inire,
impiū eſt credere : autneſacrificãdum , neprecandum ,neiurandum quidé, ne que
quicquam corum faciendum ,quæ fingula tanquam cum preſentibus & u nà
uiuentibusdijs agimus. Sed tamen fi nihil illi de nobis ftatuerüt,licet mihi
dcmeipfo cóGliú capere, ac demea uti litate deliberare. Vtile aút eſt unicuig
id, quod eſt naturæ eius & conſtructio ni cófentaneú . Atnatura mea
rationis eft cópos, & ciuili cætui accommodata. Civitas mihi est et
patria,quatenus quidem ANTONINUS SUM, ROMA. Quate nushomo,mūdus:hçcigit tantùm
mihi funt utilia , quæ his ciuitatibus condu cunt. Quælingulis cucniút,ca
profunt uniuerſo : id eratfatis ſcire. Sed &hoc addendum, quòd fi
animaduertere uc lis ,ubig uidebis: quæ homini, autalijs hominibus * Sed
nuncuocabulumu tilis accipiamus latius, ut etiam medijs rebus pateat.. Quæ in
theatro aut fimili bus locis uides,ca quum ſemper eadem ſpectentur, &
uniformia, fpe & aculiſa tictatem afferunt. Idctiam de tota uita ſentiendum.
Omnia enim fuperiora & inferiora eadem funt et exijſdem cauſis
excitcrunt.quouſ igitur?Adliduooís generis homines conlidera, qui ex om nis
generis profeſsionibus & nationi busmortuiſunt:ita ut ctiam ufque ad
Philiſtioncm, Phoebum et Origanio nem deſcendas. Hic fanè cogitandum , idem
euenturú nobis,quodaccidit tot cloquentibusoratoribus,totgrauibus philosophis: HERACLETO,
PYTHAGORæ, SOCRATI, tot Heroibus prius,deinde tot du cibus, tyrannis: tum
Eudoxo,Hippar cho, Archimedi, alijs acutis ingenijs, magnanimis,laborioſis, callidis,
contu macibus,his ipfis ,qui caducam hanc & & in dies durantcm uitam
hominūſub ſannarút,utMenippo &fimilibus.Hos omnes cogitandum eft dudú
eſfemor tuos:quid auté maliinde habent?Quid hi, quorumne extant quidem nomina?
Vnumhocſummi cſt pretij, ueritate iuſtitia feruata,mendacib . & iniurijsho
minibus placidú uiuere. Cùm teipfum oblectare uis , cogita virtutes corú qui
uiuunttecum : ftrenuitatem eius, illius uerecundiam, aut liberalitaté, aut
aliud quippiam. Nihil enim eſt,quòd tantam afferatlætitiam , quantam
limilitudines uirtutum in eorum quibuſcú uiuimus moribus expreſſæ,ac fefe
cófertim offe rentes cófpectui.itaqz in promtu haben dæ.Noniniquè fers, tot
libras te appen dere, &non trecentas: ita etiã quòdan norum certum , &
conon maiorem ui ues numerum, indignari non debes.Etc nim ut corporis tanram,
quanta cibi eſt tributa,portionem probas: ita &de té pore tibi ſentiendum
eft. Annitendum eft nobis, ut perſuadeamusijs cum qui bus agimus: lin minus,
etiam illis inuitis id agendú eft,quod iuftitiæ ratio iubet. Quod li quis ui te
impediat,tranfi adę quanimitatem, eo impediméto ad al terius uirtutis
opusabutere:memor, tc cú exceptione quadaíftituere actioné, negca
appeterc,quęfieri nequeat.Itaq is füitimpetus animi tui , cui ſatiſfiat, ii id,
cuius caufa citatuses, cóſequat. Glo rięcupidus, alienā actioné pluo bono
reputat.uoluptuarius affectioné,quai ple afficit:méte uerò pręditus, ſuã actio
né.Licet etiá nihil de hisexiſtimare.ipſe .n.res nó funt eius naturæ, ut
iudiciú no ſtrúefaciat. Adſuefac te, ut alio docéte cogitationes nó aliò
diuertas,fed totus animo diceris fisintétus. Quodalucari nó pdeſt,id ncapiquidé
pdeſt. Sinau tæ malè gubernét, aut no rectè curétur ægroti,dicúr:alius erat
quærendus,cui mecómitterē: aut quo hic faluté naui gātib. uelægrotis ſanitaté
afferet? Quá multiiam unà cũhis, quibuſcúin mun dum uenerüt, ex múdo exceſſerút
?Mor bo regio laboratib.melamarú uidetur: morfis àrabida beſtia , aqua eft
timori: pueris fphęrula pulcra cft. Quid ergo i raſcor? aut tibi minor uis uidetur
elle fal Gitatis, q bilis apudictericũ, aut ueneni apud morſum à rabioſo
animali.Nemo prohibebit, quin fecundú rationé tuæ naturęuiuas:nec tibi quicqua
accidet, quod fit cótrarónéuniuerg .Qualcsfút illi, quibus cupimus placere, aut
ppter qd, g cis ſuperlis,autper quasactiones? quàm celeriter æuum omnia abſcon
. dat: imò quàm multa iam nunc occultauit? eſtmalicia ?id, quod iệpenumero
uidiſti.Et quic quid omnino acciderit, ex peditin promptu te habere hanc
rcgula, ſæpeid effe à te uifum. Om nino fi ſuperiora &inferiora animore
petas,inuenies omnia cadem eſſe, quo rum plenæ sunt priscæ ,mediæ , recéteró
hiſtoriæ ,& urbes, & domus :nihilnouú eft ,omnia uſitata & breui
durātia tem pore.Neque uerò alia ratione extingui poſluntopiniones, quàm
cogitacioni bus quæ ijs respondent, abolitis : quas quidem ut continéter
reſuſcites , in tua cft pofitum poteſtate. Poſſum de re oblata exiſtimare, id
quod oportet : li hoc poflum , quid eſt cur animo pertur ber?Quæ ſuntextra
mentem meam, ni hil omnino ad cam attinét. Hoc modo affectus,rectus eris.
Reviviscere potes: nam fi res quas antè uidiſti, rursus apud animum tuum
contempleris , exactam uitæ partem qualirepetes. Inane pompa ſtudium , fabulæ
ſceöi tægreges,armenta,uelitationcs,oſsicu lumcatello proiectum ,auteſca in piſci
nám iniecta,formicarūlaborcs,& one: rum geſtationes,murium perterritorü
diſcurſus, Gimulacra ncruis tracta ut le moucát. In his igit oportetanimo pla
cido, &non elato confiftere, & intelli gere,tanto unumquem dignum eſſe,
quâto ea in quibus ftudium fuú is po ſuit . In oratione ſingula uerba, inijs
quæ fiunt, lingulęappetitiones ſuntant maduertendę: ato hic ftatim uiden
dú,quam ad finem cæ referantur; illic quidfignificent: Sufficitne intellectus
meus ad hanc rem, an ſccus? Quòd G fufficit,utoř cô ad rem propogtam tanquam
inſtrume to mihiab uniuerli naturaconcello Sin g. contrà , aut eam rem alteri
cuidam, qui melius id poſsit , perficiendam relin quo,præfertim fi alioquin id
agere offi cium meúnó iubet:autipfe perago pro uirilimea,adſcito mihi
auxiliario,cuius opera mca'mensid efficerepoſsit ,quod in præſentia fitcommodum
, & focieta ti hominum conducat. Quàm multi quondam fucre cele bres, quorum
nunc fama eft obliuioni tradita? quàm multietiam horum , qui iſtos
celebrauerunt , è medio funt fub lati?) Ne ducas tibi pudori, li cuius auxilio
uſus es.Propofitúeftenim tibiid agere, quod fit tuarum partium : perinde ac
militiin oppugnatione muroru. Quid ergò faceres, li tu claudicans folus con
ſcendere propugnaculum nequires: ab alio adiutus,pofles? Ne te perturbent
futura. Nam fi ita uſus erit, peruenies ad ea eadem inftru ctus ratione, qua
nunc in præfentibus uteris . Omnia inter ſe ſunt complexa ſacro nodo és i nodo
neg quicquam ab altero eſ alie ñum , ordincenim omnia certo funt dif polta ,
unum eundem mundum ex ornent. Mundus ex omnibus conſtat unus , unusqueper omnia
diffufus est d Deus, una natura,unalex,unaratio cô munis omnibus ratione
præditis ani mantibus, una ucritas:Siquidem etuna eſt perfectio eorum quę
eiuſdem funt ni generis , eiufdemó participia rationis ui animantium .. Omneid
quodmateria conſtat, ce lerrimè in uniuerlo abolei: omois cau io fa, celerrimè
in rationem uniuerfi adlus mitur:omnium rerum memoria quàm 20 primùm
æuoconfunditur. id Ratione prædito animali cadem a. EEtio & fecundum
naturam eſt, & fccun dum rationcm. Rectus,an qui erigatur? Quam ra. Itationem
in unitis & compactis corpori bus habent membra , eatn obtinent ra tione
prædita animalia in diullia, præ parata ad unam quandam actionem. Hæc cò magis
animum tuum tanget, ſi crebro tibiipfi dicas : pars fum cius, quodeſtex ratione
præditis conflatū , corporis:Si autem propter elementum R.dicas te eſfc partem
, nondum ex ani mo diligis homines, nondum ex bene ficentia delectationcm
capis, quam ue rè apprehendat animustuus,adhucde cori tantùm cauſa ita agis ,
non ut in te ipfumbeneficium conferens. Sanèalijsquęcun & accidant,corum
eft, fi uelint, ca culparc.Ego quidem re bus mihi contingentibus, niſi in malis
eas ducam, nihillædor:& licet mihi ea non putaremala. Quicquid alij loquantur
& faciant, mc quidem oportet ellebonum :haud aliter,gliaurū uel
ſmaragdus,uelI pur pura ſemperita diceret, quicquid alij dicant, aut faciant,
ſmaragdum eſſe o. portet,me colorem ſeruare mcum. Mensipſa ſeipſam nó
perturbat,hoc cſt ,non afert fibiipfiullam cupiditaté autmctum.Si quid aliud
eſt, quod pof fit cam terrere aut dolorem afferre, fa ciat ſanè: ipſa quidé per
ſenulla opinio. nc libihosmotus affert. Corpuſculum ucrò uerò ipſum curet , ne
quid patiatur dis cato, ſi quid patitur.Animonullus me tus dolor,aut opinio
horum accidere pót.negem ci ſunthabitusad hęc. Per le omnimetu mcns uacat , niſ
feipfam deftituat:ita &perturbationis, & im pedimenti exors. Felicitas
eft bonus dæmo, ſeu bonü. Quid igiturtu hic agis phantafia ? ubi, unde ueniſti,
non enim te opushabeo. Sed uenifti fecundum priftinam con fuetudinem : non
tibiſüccéſco, faltem abi , Siquis mutationem timct,is cogitet able ea nihil
fieri poffe , ncque eſte ca quicquam naturæ uniuerli amicius.An tu lauare
poffes, nifi ligna mutarentur? aut ali,nifi nutrimétomutato ?autquid nam aliud
utile poteft abf mutationc fieri ?Non ergo uides etiam tuimutatio nem carum
limilem eſſe ,ac perinde nc ceffariam uniucrü naturæ. Per uniuer ſam
naturam:tanquam per torrcntem , tranfeunt omnia corpora,uniuerſo ipa cognata,
& eius opcrum adiutoria, uti et nostra invicem luntmembra. Quot Chrysippos,
Socrates et Epictetos xuí iamn deglutijt. Idem de omnire & homi ne tibiad
animum accidet. Vnum hocmeſolicitumtenet,ne ad faciam , quodhominis conſtitutio
aut nolit factum ,aut alio modo, uel tempo re factum velit. Propediem erit, ut
et tu omnium re rum obliviſcaris,& nulla Gtuſquam tui memoria. Proprium
hominieſt,ut etiam cos di Jigat,qui peccant. Fiethocl in menté tibi ueniat,
elle cos tibi cognatos , im prudétia, & inuitos peccare,paulò pòſt &
te, & illum qui peccauit,moriturum ; idý potiſsimum ,nó lælum te ab co.no
enim eius peccato tua mens deterior, quàm fuerat,facta eſt, Natura mundi , ex
uniuerſitatetaną ècera modò equum finxit,moxco con fuſo , materia iſta ad
fabricam arboris ulacſt,deinde ad homunculi, inde ada . liarum rerum.Harum
ſingulæ quá bre uiísimo duraruntſpacio . Atquiarcula utlicompingatur,nihil
eftmali:ita neli diffoluatur quidé. Irati uultus oío eft cótra natyrä,quádo
fæpius immoriedi fit prętextus,aut ad extremú extinctus eſt ,ut oſo
inflammarinópotuerit.Hoc ipfo intelligere labora, irá à ratione effe alienam .
Nam fi etiã ſenſus peccati nul lus erit, quæ erit uiuendi cauſa? Quæcung uides,
ea iam iam à guber natrice mundi natura in alias, rurſuso & deinceps in
alias mutabit formas:ut femper recens fit mundus. Si quís aliquid contra te
deliquerit, ftatim cogita quánam boni uel malio pinionc pcccauerit:id.n.fi
cernas, miſc reberis eius,acneobmiraberis,neq ira fceris.Nam
autipſeidé,quodis,bonum putas, aut aliud quidda eiuſdé generis: venia ergo
danda: Sin tu secus de bonis et malis iudicas, cò placabilioreris ei qui falsus.
Non deijs quæ abſunt, tanquam de præfentibus cogitandum eſt:fed præſentium ea
quæ ſunt aptiſsi ma, deligenda funt,illorumg caulame moria repetendū ,quánam
rõefuiſſenç quærenda fiquidem abfuiffent.Caueta men præſentia adeò probes, ut
etiam in honore ca habeas,ac fi quãdo abſint,p turberis.Intra teipſum uertere. Hæceſt
natura mentis,utiuſtè agens, in hocg acquieſcés,nihil extra fe quærat, Aufer
uiſå inhibemotum ncruorú, cir cunſcribe inſtans tempus,cognoſceid quod
uclţibi,uel alij accidat, diuide fubiectum in materiam &formam , co. gita
de poſtrema hora, Quod peccatú eſt, ibi ceſſat , ubi pec cațum ſubliſtit,
Intendenduseſtanimus ijs quæ dicuntur,mente penetrandum in causas et effectus,
Exorna teipfum fimplicitate& uere cúdia, coś, ut quæ ſunt medio inter uir
tutem & uitium loco, in nullo ponas di fcrįmịne, Diligehumanum genus, obſe
quereDeq:is enim aitomnia fieri certa lege. Quod fi diuina ſunt etiam elemen
ta. Sațiseſt meminiſſę,hæc omnia certa lege conſtare,aut admodú paucaſecus,
Mors é auţ diſsipatio ,qui indiuidua rum particularum ſecretio ,aut exinani
tia,autextinctio, aut migratio , Dolorli fitintolerabilis, mortem af,
fert:diuturnus ferri poteſt,interimga. nimus ſuam retinet tranquillitatem ,ne
que fit deterior. At partes dolorç con fectæ, ipsæ quæratur,fiquidem poflunt.
Honinum opiniones de gloria intue cil re, quales Gint, quid propolitụm habc
cidant,quid fugiant, Lide Viß in littore maris arenæ cumuli Co- alij
ſuperaliosappulg ,prioresoccultát, įta in uita quo priora à ſubſequenti bus
celeriter abſconduntur. Platonicũ .Quiigituranimocſt præ unditus alto et
cognitioné habet omnis temporis, omnisg naturæ ,an tu cúpu er tas exiſtimarç,
quòd hominis uita ma - gnum ſit aliquid ?Nequaquam ,reſpon sc ditille. Ergo
,inquam nemortem qui B: dem in malisille reputabit? Minimè Era uerò,
Antiſthenicum ,Regium eftmalè au dire, çum bene feçeris. Turpe eſt uulta co
obſequi intellectuiſco componercita uutisiubeat,cumipfeintellectusſeipſum non
componatat ornet. Namrebus iraſci,nihilfanè expedit: Iram curăt enim noſtram
nihil.Dijslę. tiignaris, & nobis gaudia doncs. Frugiferam uti fpicam mcæ
uitæ mc tam.* At hoc quidem effe, illud nona then Lam LIK trCurl be Quod ſi dij
me , libcross ncgligunt, Ratio eft & huic. Meum enim est bbene efle et
iustitia. Non una lugere, Deg tremere. Platonica. Ego autem haudiniuria hoc
retule. rim.Non rectè dicis, ô homo,liputas ef ſe uel uitam uel morté aliquo in
diſcri mine ponendam ciuiro, qui uel alicu ius fit precij:acnon id potius unum
có fiderare cum inter agendum ,iuſténcan iniuftè agat, & eáne fintuiri boni
anue rò fecus.Reienim ueritas, & Athenien ſes, ita habet, ut quo quis loco
ſeipſum conſtituerit,exiſtimansita optimum el fe,aut cum ita Gtoptimum ,cò
colloca tus fuerit, ibi (mea quidem ſententia ) perGftere debeat, ac quoduis
pericu lum ſubire,neg mortem , uelullam alia rem turpitudine grauioré ducere.
Sed heus tu ,uide,ne animimagnitudo,cibo pum aliud quidpiam ſint, quam ferua
re, & feruari. Neque enim conceden dum eſt,eum reuera uirum diçimereri, qui
quantocuný tempore uiuendum, acquc rationem uitæ habendamputat: Sed 1 leo sel
gar, CO all 1 WC 1 ef Sed eum , qui dehis cura deo commife la, credens
mulieribus , non pofle fa tum ab ullo euitari , id consderandum porrò ducat,
quánam rationetempus uitæ conceſſum fibi quàm optimè exi , Curſus liderum
conſiderareexpedit, quali eos comitaremur , & elementorú mutuæ mutationes
crebrò cogitandæ . Hæ enim cogitationes uitæ humilis for des abſtergent. Bene
eſt à Platonchoc dictum.Etiam cùm de hominibus loq. mur , intuendum est in pes
terrenas . Etc nim qui memoria altius repetierit ho minú cógregationes
,exercitus,agricul turas,nuptias ,pacta ,ortus,interitus,iu 1. diciorum turbas
, uaftitates regionum , varias. Barbarorum gentes , ferias , lu dus, nundinas ,
in ſumma, qui colluui cm illarum , & ex contrarijs compol tum præteritorum
aceruum , tantas 191 imperiorum mutationes recoluerit, is ecià futurā præuiderc
poterit. Quippe et candem hæc habent cum præteritis for mam , nem alio
possuptmo fieri, Itaçćç Cu alia edbo en idem eſt, quadraginta, an decies milių
ſpacio annorum uitam humanam exa mines, nihil enim amplius uidebis. Exterra
enim nata in terramredacta funt:quæucrògenus traxeruntcælitus, redicre ad
æthercúpolü: fiuehæc quæ dissolutio complexuum , quibus ato miiunguntur, sive
elementorum passio nis expertium dissipacio. Cibis, potug, & magicis adeo
artibus Avertimus currum, & mortis fugi mus uiam. Flantem diuinitus auram
Opus eft tolerarclaboribus, Luctu, lachrymisg calentibus. Est aliquis te
peritior luctæ :quid tú? at rófocietatis humanę ſtudioſior eſt, non uerecundior
, non ita commodè fert ca quæ accidunt, nó ita mitis homi num peccatis. Vbicung
poteft aliquid perfici,fecun dum cómuné dijs & hominibusratio ncm, ibi
nihil eftmali.Nam ubi utilita tem conſequi licet actionis, quære&a uia
proccdit fecundum conſtitutioné i hominis,ibinon cft uerendum nequid fubfit tog
fubfit damni. Vbig & femper in tuacſt manupofitum ,ut ca quæin præfentia di
biacciderunt, & approbes piè, & cúbo minibus quicccum lint,iuftè agas,
&ui ſa oblata artificiofe examinesne, quid non facis perceptum admittatur.
Noli aliorum mentes circumſpicere, ſed cò recta intuere, quò te natura ducit,
cùm uniuerli, per ea quæ tibieueniunt,tum tua per ca quæ tibi ad agendum ſunt
propoGta. Id autem unicuiq ad agen dum proponitur, quod eft eius conſti tutioni
conſentaneum. Porrò ita con ſtituta ſunt & comparata fingula: reli qua
quidem omnia corum cauſa, quæ mente ſunt prædita,nimirumdeteriora pręſtātiorum
causa, ratione autem pro ditorum unum alterius caufa factú cft. Primas igitur
inter partes ex quibus ho mo conſtat , ca pars obtinct, que fo cietatcm
humanamreſpicit:alteras,ca, fibi à perſuaſionibus corporeisillo abſtinet.Rationccnim
& intellectu prę ditimotusproprium eſt ,ſeipſum circa ſcribere, &nco
ſenſitiuæ,ncqueappe titiuçmotioniſuccumbere:harumem utrag ctiam brutorum cft. 1
qua Atintelle&iua principatum obtine re, neq ab illis regiuult:neciniuria,
quig pecuius natura ferat ,ut omnibus reli quis ipſa utatur. Tertiú eſt
,uacuitas te meritatis & erroris. Quibus intéta pars princeps,rectà
progrediat, ſuis cóiéta. Tanquam mortuo, &qui hactenus tantùm uitæ uſura
fuerit cóceſſa, quod ſupereſt uiuendum tibi crit fecundum naturam ,tanquam ex
abundanti. Tu ſolus ca diligens , quæ tibi fatum iniunxit, contentus efto .
Quid enim magis congruum, quàm ut ſingula cue niunt,ftatim cosante oculos
habere, & cum eadem ipfis cucniffent, indignati ſunt,nouitatem rei mirati,
&repræhen derunt ea. Vbinuncijſunt?nufquam . Quid attinet te corum fimilem
effe uel le ? acnon potius alijs fuum morem rc linquere , ipfein hoc effe,
utrebustuis bene uraris? Idý poteris præftare, nec deeritmateria , modò
animaduerte , & ftude , uttibiipliin omnibus actionib . uidearis honeftatem
confecutus. Vtri ufgz uerò actionum finis recordandum cft.Intrò
reſpice:intuseft fons boni,ſem per ſcaturiens,fiquidem femper fodias. Corpus
conftare,acneq motu, ncg habitu diffolutum effe debet. Sicutem mens efficit, ut
vultus Gt compolitus & aptus , ita detoto corpore uttale Gt annitendú eſt.
Omnia hæc curandu é, ut ne oftétationis caula Gimulata fint. Vivendi ars
palæſtricæ cft, quòd ſal tatoriæ fimilior,eò quòdipfa quo cu rat,utad ea quæ
incidūt,neq; ancè lune præcognita,parata fit et à caſu tutum hominem feruet.
Adliduò inquire, qualesij fint, quos teftimonium de te ferreuis, ac quæ co rum
fint mentes.Ita nco cos qui inuo luntariè peccantculpabis,nee teſtimo
nijegebis,fiinipfosfontes infpicias,un deijopinionesfuas,appetitiones hau
ſerunt:Omnis animus, inquit illc , non ſua ſponte priuatur ueritatc : idem
sentiendum de iustitia, temperantia, benignitate, omnibusý limilibus.Atnecef
ſariū eſt quâ maxime, id te nunquã nó meminiflc:ita. n. erga oés crismitior.
Dcomni dolorein própru fit tibi co gitare, cum ncg turpem efle, neqmen
tégubernątricem reddere deccriorem feras. Id quog recordare,multa cú ea quippe
hæcnegrationc materiæ , nem ſocietatis humanędamnum accipit. In maiori autem
dolorum numero etiam Epicuri dictum prodeſt,eum ncg into lcrabilem eſſe,ncg
æternum. fiquidem finium recorderis,ac non preiudicium in * dem habeantcum
dolore naturam , ta men occultèmodò moleſta eſſe :ut dor miturire, eſtum
ferre,nauſeare:quorum aliquod li moleftè fers, dic tibiipfi,te dolori
ſuccumbere. Vide neita afficiaris contra inhuma nos, ut homines contra homines.
Vnde nobis conſtat Socratem fuiffc illuſtrem et meliori conſtitutionc præ
ditum? Non enim ſatis eſt eum clariori morte occubuifle ,aut peritiùs cum So
phiſtis diſputalic , & patientiùs in frigo re pernoctalle, & Salaminium
abdu cere iuſſus,fortiter rcpugnaſſe, acíuijs maieſtatem uultus præ ſe
tuliſſe,dequo maximè dubitari poteſt an uerú id fuc rit. Sed hocconſiderandum
eſt, quo ani mo fuerit Socratcs,an potuerit conten tus efle, Siiuſtumfc hominibus
præbe ret, ac pium erga deos, annequç teme rè ob aliorum maliciam
litindignatus, nec ullius inſcitiæ ſubferuiuerit, an ni hil corum quæli
uniuerſi natura attri buiſſet, tanquam peregrinū autintole rabile acceperit,
nunquám ne affecti bus carnis conſentientem mentempræ buerit. Non ita confudit
omnia natura,ut no liceat circúfcribere ſeipſum , & quæ ſont propria cuix,
caipfum in ſua reti nere poteftatc.Admodum cnim poſsi bile eſt,ut quis diuinus
uir fiat,acă ne mine cognoſcatur. Hụius ſemper me mento:atqhuius etiam ,
quòduita bca ta in pauciſsimis rebus eft pofita. Nog guia deſperattice
Dialecticú autPhyl cum futurum ,iccirco etiã liberú ,pudi cum ,fociabilem ,deog
obedientem to fieri poſſe. In maximaapimi uoluptate licețui uere, tutum ab omni
ui,utcung omnes quæ uolunt contranos clamitent:etia li corporeæ huius molis
membra å ferig laniétur.Quid enim obſtat,quominus intcrim meas ſeipfam conſeruet
in tran hic 10 5 quillitate,uero de rebus præfentibus iudicio , & uſu corú
quæ ſuntpræma. nibusexpedito : ita quidem ut iudiciú rei fubicctæ dicat : fanè
cu natura tua họces,etfi aliud uideris :urg ulus dicat rei oblatæ : Ego te
quærebam . Semper cnim id quod adeſt, materia mihi eſt exercendæ uirtutis
rationalis & ciuilis, omninog uirtutis humanę aut diuinç. Omni enim id
quodaccidit,deo eft aut homini familiare,ncgnouum, ncgin fractabile,ſed
conſuctum & tractabile. Perfectio morú hocpręſtat,ut omne diétanquá
ſupremūagas,nihil tremas. nihiltorpeas,nihil Gmules.Dij, cu Gar immortales,
tamen non indignè ferút, quodin tam diuturno zuo ſemper om nino tot improbos
homincs perferre debeant: quinimo illorum curam fum mamgerunc. Tuautem qui
iamiam cef fabisuiuere,defperas,idg unus è numc romalorum.Ridiculumeft te non
fuge rc tuáipfiusmaliciam , id quod potes, aliorum uelle fugere, quodnonconce
ditur tibi. Quicquid rationalis et ciuilis tua uis inuc vn . ich inuenerit nc rationi cóſentancū,ncq
ad focietatem conducens , id rectè ca indignum iudicabis. situ benè alicui
feciſti, & cſt, quià to beneficium acceperit, quid præter hæc duo
tertiumaliquid requiris ftultorü more,ut & uidearis bcnè feciflc , & gra
tiam recipias. Nemo defatigatur accipi endo aliquid utile. Atqui utile tibi
cita tcſecundum naturam aliquid agere: nc igitur dum alij prodes , dcfatigare
tibi aliquid boni parando. Vniuerfi natura olim ad mundum fa bricandum fe
contulit:nunc autem uck omnia quæ fiunt, confequétia fiút ſua, , uel ctiá in
præcipuis corum, ad quæ fa mundi gubernatrix natura confert, ra tioninullum
locum efle & cóGlio, tené dumeft. Hoc, & memoria tencas, multis in
rebus animo ut his tranquilliori cffi ciet. hs 1 'D quoqad minuendamglo riæ
cupiditatem facit, quòd non licet tibi adhuc totam uitam ,quæàprima tuaæta te
fuit,philofophicè uiuere: fed cumul tis alijs , cum uerò tibi ipli manifeſtum
eſt factum ,teproculà PHILOSOPHIA abef fea Gonturbatæ igitur funt tuæ ratio
nes.cumaço ipfeiam nomen philofo phi facilèpoſsis adipiſci, & tuum inſti
tutum repugnet. Siitaque uerè perfpe xiſtį, in quo litrespofita, omitte curare
quis habearis:fatis autem fit tibi fireli quú uitæ arbitrio naturæexigas. Quid
ca uelit , cogita , hinc te nihil diuellat. Expertus enim es circum quotres ua
gatus,nufquam uitam beatam inuene ris:nonin ratiocinationibus, non in di uitijs
, non in gloria, non in voluptate, nullibi.Vbi uero eſt ?in agendo ea, quæ
hominis natura requirit.Quomodo ita aget? Si eahabeatdogmata,à quibus có ſentạneæ
appetitiones &actiones ueni ant.Quęſunt illa?debonis& malis.Sci
licetNihil , effebonühomini, quod nó reddit iuftum ,temperantcm ,fortem , li
beralem :nihilmalum ,niſi quod horum contrarium efficiat. In omni actione à
teipfo quere, qua lis ca tibi Gt. Nec poenitentia eiusmoue re:parum abeſt, ut
moriaris , &omnia è medio fint. Quid prætcrca requiro , li præſens a
&tio animalis eſt mente prædi ti,ſocietatis hominum ftudiofi et deo
æqualis. Alexander, Caius, et Pompeius, quid hiad Diogenem, Heraclitum, vel
Socratem? Hi enim nouerant res, earum cau ſas,materias :ita erant ipſarum
mentes. inſtructę.Ibiuerò, quibusin rebuseſſet prudentia, & feruitus.
Nihilominus cadem facicnt,eciam litute ruperis. Primum cſt hoc,neperturberis:om
nia ſecundum uniuerli naturam eucni unt:paulò pòft,nuſquam eris,ficut núc Adrianus
& Auguſtus. Deinde in rem ipfam intucre,eamg cólidera,recorda tusoz debcrc
tc eſſebonum uirú , acad hominis natura uelit , ageid quod pro pofitum eſt
cóftanter, aciuſtiſsimetúc te egiſſe puta:modòplacidè,uerecúdè, & citra
ſimulationem cgeris. Vniuerli naturehoc agit,ut quæ hoc modo habcnt,aliòmutet,
& exuno lo coin alium res transferat: Omnia con Itant mutationibus, neß
quicquã mc tue: nihil enim noui,omnia uſitata cue niunt, & æqualiter
diſpenſantur.Cæte fum unaquęg natura,firccta uia ingro diatur,fibiipfi
fufficit.Natura autem in tellectiuaid facit, G'in cogitationibus, id
obſeruet,ne falſo,aut obfcuro aftipu letur: impetus animi ad eas folum actio
ncs dirigat, quæ faciunt ad ſocietatem hominum : catantum appetat & uitat,
quæ in nobis funt pofita: omnia quæ à communi natura tribuuntur grata ha
beat.Hiuius enim pars eſt,bcutnatura fi lij,naturæ ftirpis pars eſt: nifiquod
hæc eſt eius naturæ quę & ſenſu & intelle Au carcas,impedirepoſsit:Hominjsną gratis non iraſci. tura,pars eſt naturæ quæ
impedirinon poſsit,intelligat,& iuita fit:liquidem æ qualiter , &
pdignitate uniuscuiuſuis tempora,ſubſtantiam ,actionem , & eué ta diuidit.
Congdera autem æqualitaté că inuenturum te fifingulas res exami nes : finunam
cum uniucrGs conferas, non item. Atqui licetlibidinem arcerc,uolup tatibus
&doloribus ſuperiorem eſſe, item gloriola: licet ctiam ſtupidis & in
Nemo te audiat uitam aulică repræ hendere,ac ne tu quidem teipfum. Penitentia
eſt repræhenlo quędam fui ipfius,propter bonü aliquod dimif ſum :bonú uerò
,oportet utile effe, ideo qúe ciºcura é haběda uiro bono & ho neſto.At
nullus talis pænitentia ducc turobneglectam aliquam uoluptatem , ergo
uoluptasncqin bonis eft, ncoin utilibus numeranda. Resita expédendæ ſunt.Quid é
hocp ſc, & fua, ppria cóftitutionc? ģei° ſubită tia &materia , quæ
forma?quod eius in mundo officiú ,ac quandiu permanet? Si difficulterà fomno expgiſcaris,
reminiſcere conſentaneum eſſe tuæ conſti tutioni , & naturæ humanæ, ut aliquid
agas quod coetui humano pſit. Atdor mire,etiam brutis eſt communc. Quod autem
unicuiq ſecundum naturam eſt , id & magisproprium ei eſt, & cognati us,
adde etiam gratius. Hoc aſsiduo & quibuſcũæ incidétibus cogitationib, li
fieri pofsit, in promptu habendum . Si de natura, affectibus,aut alijs reb.
diſputare cum aliquo libet,ftatim teip fum antè interroga: Quænã is ſentit de
bonis &malis.Nam opiniones de uolu ptate & dolore, eorumg
efficientibus, de honore, ignominia, morte, uita. Non debet mihinouum aut mirum
uideri , li quæ res hoc aut hoc modo a gát: cogitabo em, ita opus efle fieri. Co
gitabo, licut turpe fit uelle me in mira culum raperefificus fructum ſuum pro
ducat, ita etiam, fi mundus ea proferat, quorum eft ferax: etiam medico &
gu bernatori turpe fit mirari uelle , li quis febricitaret, aut fi aduerſus
uentus exi Iteret. Memento mutare ſententiam , & re aệ &
èmonentiobſequi,perindeeffe libe ri. Tua enim adio fecundum tui animi impetum
fit atque iudicium , tuamo mentem. Siin tua eſt poteſtate,cur facis? linin
alterius,quid repræhendis? atomósne, an Deuni? quorum utrungeſt cum inſa nia
coniunctum.Nihiligitur repræhen dédum.Nam fi potes,uel eum qui cau ſa
eſt,corrige,ucl,fi prius nequis,rem ip fam : lin neutrum ,quid iamtibi profuit
repræhēdiffe? atqnihil fruſtra faciédű. Quod moritur,non excidit è mun do :nam
ut conftat, & mutatur , ita etiã diffoluiturin elementa, quẹtibifunt cũ
mundo communia.atq hæc ipfa ctiam mutantur,negindignè ferunt. Vnum . quodgeſtad
certum finem factum , ut uitis,equus.quid mirum? etiam ſol, & reliqui dij
pofluntdicere,cuius rei cau fa facti funt. Tu ucrò cuius cauſa ? num uolupta
tis? uide an hocferat intellectus. Natura confilium inijt de uniuſcuiuſ
quereitam finc,quàm initio & duratio nc. Si quis pilam inſublimçiacier, quid
h nam ea uelcûm effertur, uclcum defert, aut cadit quid bonimaliucpatit ?Quid
bullæ boni accidit fi conſtet,autmaligi diffoluatur ? Idem de lucerna poſsisin
telligere. Cogita quidfiat corpuſculo Genelcat, ægrotet,fi ſcortetura Breuis
uita cft & laudantis, & cius q laudatur , cius quimentionem facit, &
eius, cuius mentio fit:prçterca fit hocin angulo portionis mundi, acncque ibi
quidem omnes contentiunt, imò nelie bi quidem ipfi quifqua. Tota ucrò ter ra
punctumeft. Animum aduerte ſubicctæ opinio. ni,actioniaut di&to. Meritò
hçcpatcris, malles uerò cras bonus fieri quàm ho dic. Siquid ergo , id ita fit
à me, ut ad benefaciendumhominib.referatur.Ac cidit mihi aliqd ,referoidad
Dcos, om niumg rerum fontem ,& originé,à qua omnia inter ſe connexa dependent.
Lauare,quæ tibires uidetur? Oleum, sudor, sordes, aqua, ſtigmenta: omniaab
ominanda.Ita fe omnis pars mundi, om nisgres ſubiecta habet. Lucilla Verum,
deinde Lucilla fecunda Vini, da Maximum.Secunda Diotimum,Fau Itinam , Antoninus
hæc omnia. Cęterű Adrianum , inde Celer. * Vbi ucro auſte ri illi &uates ,
& inflaci ? ut ex auſteris Charax, et Demetrius Platonicus, Eudemon, &
fi qui alij tales. Omnia in diem durant.iampridem mortui ſunt:quorú dam ne
minimo quidem tempore dura uit mcmoria: quidam fabula facti ſunt: ponnulli
etiam c fabulis jam cuanue rűt.Idigiimemoriatenédú, g necelſeç rit autdiſsipari
tuâmixturā, autextin guianimulă,autmutari,ctaliò trasferri. Læticia hois é, ut
faciat quæciſuntp pria.Propria aút cius funt:beneuolétia crgaſuũ genus,cótéptusmotuúq
ſunt in lenGb.diftin &tio inter uiſa pbabilia, cótéplatio naturæ uniuerfi,
& corúqſe cundú că fiút.Itě tres refpeétus:unus ad cauſam pximā,alter ad
diuină çaufam , à quaoíaoíbus cueniüt,tertius ad cose nobiſcü uiuút. Doloraut
corporima lus é:ergo ipfum id pnúcict,autalo.Scd animuspoteft fuam
tranquillitatem & ferenitatcm conferuarc, ncc dolorem pro malo ducere. Omnc
enim iudici ým, omnis impecus,appetitio , & inclinatio intus eſt:ncq.ci
dolorquicquam mali affert. Quare omnia uila tolle ex animo, Continenter te
ipſum admone:Núc in mea cft poteſtate,ut in animo hocni hilfitmaliciæ ,nihil
cupiditatis, nihil. cu multus: accum omnia ita cernam, uti funt, fingulis utor
pro ipsorum dignitate. Hoc tibi licere,memineris fecúdum naturam. Loquere &
in ſenatu, & cum quibus cunghominibus compofitè.Sana ora tione non eſt
apertè femper utendum . Aula Augufti,uxor,filia,ncpotes,po
ſteri,ſoror,Agrippa,cognati,proping, amici,ſoror, Agrippa,cognati, propinqui,
amici, Areus Mæcenas, niedici, sacerdotes: omnino totam aulam mors
abripuit.Deinde etiam accede, ubinon unusmodò eſt mortuus homo.Defecit tota
Pompeiorum gens:hincmonimen tis etiam inſcribi uidemus,fuiſſe aliqué cius
familiæ ultimum . Quàm anxij uc rò fuere maiores cius, ut aliquě ſuccel forem
relinquerent : & tam necesse eft aliquem efle ultimum. Vita componenda est
ita, ut conftet uniuſcuiuſ actionis ratio. Quarum li unaquęg ſuum , quantum
cius fieri po teſtpræſtet officium , contentus fis :at queid quominusfiat,nemo
tibi obfta re poterit.Sedobftabit,inquis, aliquid extrinſecus. Nihil quidem ,
quodiufti ciæ ,modcſtię &prudentiæ impedimen tolt. Atqui fortaſsis
aliquiduim agen dihabens impediet? quin tu id impedi menti boni conſule , fico
ftatim facto tranfitu adid quo conceditur moderá to ,alia emergertibi adio ,
quæ ad cam, de qua loquimur, conſtitutionem qua dret.Accipiendumline faſtu,
dimitten dum cum facilitate, Si quando uidiftimanum abſciſlam , uelpedem
,capútuc amputatum alicu biſcorâmă corporciacere,cogita ei ſe adfimilarc pro
uirilifuahunc, qui im pá bat ea quæipli eueniunt,ſeg à commu ni ſocietate
feiungit,aut agit aliquid ab čaalienum , Ita tu te ipſum ab unitione Dáturali
abrupiſti,cuius eraspars narº: nücuerò teipſum abfcidiſti.Id uerò fei tum eft,
quòd iterum tibilicetei adiun gi:id quod
nulli alij parti deus concef fit, ut ſeparata & auulla rurſum inoleſce ret
toti.Hicmihi bonitatem conlidera, quæ homini tantum honoris detulit. Nam &
initiò iplius in manu pofuit,ac à toto auelleretur: & deinde, ut auulfus
redier,iterug cócreſcerco locü partis recuperarepoſſet , dedir.Nãquéadmo
dugngulç ferè rationis cópotes naturą ab ea cæteras facultatcs , ita nos quoß
hanc ab ipſa accepimus. quemadmo dumenim ipſa omne id quod obftat &
rcfiftit,cóuertit, & fato fubijcit, ſuam partcm efficit:ita animal rationc
prædi tum poteft omne impedimentum pro ſua materia accipere,coğuti adid, qd
intenderat. Note cogitatio totiusuitæ confuna dat: neq animum aducrte ijs ,quæ
mul ta uidentur dolorem poffe afferre.Sed ſingulis rebus oblatis à te ipfo
quæro, quid náca in rc Gtintolerabile:id cnim pudebit te
fateri.Deindememineris,ne que præterita tibi , ncquefutura ullam
afferremoleſtiam , fed præſentia tantű . Achæc cxtenuantur,& fuis ca
limiti, bus, determines , cogitationem tuam redarguas,fi ca tam cxiguæ reinó
Grfo rendæ. Num iam domini tumulo adfident Panthca, aut Pergamus? Num Adriani sepulchro
Chabrias & Diotimus? ridi culum hoc. Quid verò G adGderent, ſentiréntne
illi ? autuoluptatem cape Tent, fiquidem ſentirent? aut fi cam ce piſſent, an
coimmortales eſſentreddi te? Nónnchis quoquefatum fuit ,ut ſencs &uetulæ
priùs ficrent, inde mo scrétur ? Quidautem illi poftmodò fa ciét , his mortuis?
Oia hæc fætida funt, & tabus in facco . Si acutèuidere potes,afpiccetquàm
fapientiſsimè iudica,inquitille. In conſtitutionc animantis mente præditi
nullam inueniouirtutem quæ iuſticiam cxpellat: Sed quæ uolupra . tem
cijciat,uidco continentiam . Si tuam opinionem detrahas ab ea quod uidetur
dolorem afferrc, ipfe in tutiſsimo es collocatus.Quisipſe? Ratio.Verùm ego ,
inquies, non ſumra tio.Efto.Proinde ratio ſeipſamnedolo re afficiat:Si quid
aliudin te eſt quodlæ datur,ipſum de fe iudicet. Cùm impedit fomnus aut
appetitus, idmalú accidit uegetatrici animæ: quæ &alia ratione offenditur.
Ita fi mensim pediatur ,fitcum damno mente prædi tę naturę.Hæcoía ad te
tranſfer.Dolor, uoluptas,attinguntte?Si uiſus impedia tur
quominuscernat,impedituriã fen ſus. Quòd fi abſos exceptione aliquid
appetis,iamid cú rationis capacis par tis incommodo fit :lin communetibi p
poſitum eſt, neg læſus es, nec impedi tus. Mentis quidem proprias actiones
nihil aliud impedire poteft:nonenimac tingitur ab igni ferro ,tyráno ,autcalum
nia ,aut alia ulla talire . Sphæra cum fit ,rotunda manet. Indignum eſt, me
mihi ipfi dolorem afferre,quinullum unquam aliúlubens læferim. Alijs aliæ res
læticiam afferunt:mihi, fi pars mei princeps fana ſit, ne auerſe tur quenquam
uel hominem, uel humanum calum :Sed omnia placidis afpici at oculis , omnia accipiat,
ijsý utatur uti dignum est. Difce præsens tempus tibiip, gratificari. Qui
commendationem pofterita tis magis curant,nó reputant dos horú Similes
futuros,quosnuncægrè ferunt, argipä сcia mortales. Porrò quid om nino tua
intercít, a talibusi) uocibuste cantent,autita de te fèntiant. Tolle mc, &
ponc quocung uoluc tis, ibi enim utar genio mcopropicio.i. cótéto,& habeat
ſe &agar naturæ mica confequenter. Id uerò an dignum eft,ut malè props
tereàhabeatanimusmeus, ac feipfo de terius ?abicctus, appetens, anxius;per .
territus? Ecquid co dignum inueniam ? Homini dihilaccidere poteft quod nó fit
humanum, nccboui,uiti,ſaxo quic quam, quod nonlit confentaneumcius naturæ .
Quòd fi unicuigid contifigit; quod & cófuetum eſt,& naturale,quid eft
cur indigneris? nihiliticoletabile ci bicommunisadfert natura. Sin propter
cttrancam aliquam ré perturbaris: nó A illa tibi,fed tuum de ea iudicium , molc
ſtiã affert : id uerò ut abolcás , in tua eſt poteſtate. Quòd fi quid eorú quæ
in te ſunt, te moleſtat, quis eſt qui prohibe at,ncopinionem emendes? Similiter
Gi doles te hocnon agere,prodeft cogi tare,curnon potius agasaliquid , quàm
doleas: ſin aliquod potétiusobſtat,no li dolere, cùm nófiat tua culpa,neagas.
At uidetur ujuendum non elle ,nig hoc agatur: placidus ergo uitam relinque:
quádo &is qui agit,moritur æquusim pedientibus. Memento partem tui
principem ſu perari non poffe, cum in ſe collecta fc ipsa contenta est, neque
quicquam pre ter uoluntatem agat, etiam fi noninftru eta ratione pugnam
conferat. Quid er gò fier, li étà rõe parata, circúſpectè de
reb.iudicet.Itaqmés ab affećtibus libe ta,arx é: nihil.n.munitius homo habet,
quò refugiés fuperari nópót.Id qui nó uidit,indoctus est: qui uidit, ncq eòrc
fugit, infortunatus. Siqd uiſa aut cogitationes tibi renú. ciāt,caue aliquid cu
addas. Renunciacú 'cit, eft ,aliquem tibi malè dixiſſe. Eftoid al latum ,non
taméid quo $ ,cflc teleſum. Video puerú ægrotare:uideo, sed g inpericulo Gt,non
uideo, Ad hunc modú ſemper ingifte primis uilis, nihilipfein tus adijce:ita
nihil mali erit.Imòhocad 1.dc,noſlete omnia quæ in mundo cuc niunt. Cucumis
amarus cit ,omitte cum: uc i pres in uia ſunt, declina cas :ncq uerò dicas, Cúrnam
hæcin mundo sunt facta. Ridereris enim ab homine naturæ rerű indagatore,
haudſecus quàm à fabro aut futore, damnares quòdinofficina ramenta &
reſecamenta operum uide : res.Atquihi ca poſſunt aliquo abijce re: uniuerli
natura nihil extra fe habet. Verùm hocin cius arte potiſsimùm mirari decet, q
cùm ſeipſam circumſcri pâffet, omnia quæ in ſe habet, quæ ob noxia
corruptioni,ſeniog , & nulli ele uſus uideantur , in ſeipſam tranſmutat, rurfus
ex his alia noua efficit: ita utne que fubftãtiá extra ſe requirat, neqlo cum
,quò uiliores res eijciat.Contenta eſtigitur ſuoloco,materia:& arte. Neqin
rebus agendis flu & uandum eſt, ncqucin communi uita turbandú ,
ncquecogitatiouibus uagandum , nego omnino animus contrahendus, aut fü bito
impetu efferendus,ncg uita occu pationibus inanibus attcrenda.Cædes
peragunthomines , mactant,exccran tur: quid hęc poffunt,quominus mens tua
permancat pura, prudens,modeſta, iufta? Quemadmodum fi quis limpido & dulcifontiaſsiſtens,
eiconuicium fa ciat:illa quidem ob id non ceſſat purā aquam ſcaturire: quin
&fi quis lurum, aut ftercus inijciat,tamen ſtatim illa dif fipabit atą
eluet,ncgabijs obturabit. Quid ergo agendum , ut fontemper en nem habeas,non
ciſternam? Compone te ipſum ,ut fis ad oés horas liber, man fuctus,fimplex
,uerecundus. Qui neſcit effe mundum, neſcit ubi ür. Qui neſcit, cuius rei cauſa
fit natus, ncß quis ipſefit ,neq; omnino mundú cflefcit.Quorum alterutrum cui
decft, is cuius gratia extiterit,dicere ncqucat. Vter uerò tibi elegantior
uidetur, isą plaudentium fugit laudem ,anilli, qui ac negubi,nequc qui
fint,cognoſcunt, Laudari cupis ab hic , & feipfum ſpa cio unius horæter
execrat?placere uis homini, qui ne fibi quidem ipfe proba tur?nifi is
probeturlibiipa ,qui ferè om nium eorum , quæ egerit,poenitétia cor ripitur.
Non iam tantùm unà ſpirandus eſt circumfuſus aër, fed & confentiendum cum
méte quæ uniuerfa complectitur. Haud em minus uis intellectrix omni ci, quod
cam trahere poteſt,circumfu fa eft, quam ſpiritus ſpirare uolenti. Generatim
malicia mundo non ob eft:inſpccie auté,nihil lædit proximu: Soli ci obeltcui
& conceflum eſt , ut cũ primüita uolucrit,liberari ea poſſit. Non magis ad
meam uoluntas alie na pertinet, quam uel anima eius , uel caro.Nam etfi maximè
uerum eft, una noftrûm cffc alterius cauſa natū , tamé principes noftrum partes
,ſuum quæli. bet dominium obtinct.Etenim curalte rius malicia,mihieſſer malo?
cum non Elit uiſum Deo,ut in alterius Gt potefta te, cſſemeinfelicemSol
diffufus effe uidetur? atæ omni. no quidem fufus eſt, non tame effuſus, Fulio
enim eius,cxtenſio.Itaq & fulgo res eius, quos nos radios,actinas ab ex
tendendo Græci dicunt. Quod autem Git natura radij,uidere eſt, fi inſpiciaslu
men ſolis per anguſtum in umbrofam donum immiffum . Recta enim im mittitur,
& diuiditur ad obiectum foli dum corpus, quòd aërem intercipit :ibi ucrò
permanct,ncq decidit. Ita &intel lectum fundiac difundi, non tamen ef fundi
oportet: quippe utextendatur,ne quc ui & temerario impetu ad obiecta
impedimenta impingat:ne concidat, fed perftet , & illuftretid, à quo acci
pitur, id quidem , quòd eum transmit tet,ſplendore ſeipſum priuabit . Qui
mortem metuit, aut amiſsioně ſenſuum timet , aut diuerfum fenfum , Quod&
amitượt ſenſum ,nihilutig ma lifenriet; lin alium ſenſum adipiſcetur, aliud
erit animal, neg amittetuitam . Homines unus alteri cauſa natifunt,
Diſccigitur,aut fer, Aliterjaculú,alitermens fertur.Hæc enim etâ cauta ſit,
&in deliberatione uerſetur, rectà tamen fertur.ingredi in principem
cuiuſuis partem: præbet au tem etiam alij unicuique ingredi in ſu am
principalem partem. Viiniuſtè agit, impietatis reus eſt. Etenim cùm uni uer
natura ratione prędi ta animantia eò effecerit ut quantum eius dignum eft,unum
alteri profit,noceatautem ne quaquam : qui uoluntatem cius præua ricat, impius
utißeſtin omniú dcorú primam .Acqui mentitur,etiam impic tatisin candem dcam
fefe obligat. Na tura enim uniuerfi,corúcſt natura,quæ funt:hęc autem omnia
interfecognata funt . Porrò autem cadem Veritas dicituf,uerorųý primaeft caufa.
Quii. tagſtudiò mentitur, cò quod decipit, impius eſt: quinon dedica opera,eò ,
p ab uniuerh natura diſcrepat , &quòd præter decorum agit, repugnās uniuer,
b naturæ :repugnatenim ei, quiin con frariam partem à ueris deflectit, prætop
quam iplius natura ferat, quęcioccalio nes præbuit, quibus neglectis non pót
jam uera à fallis diſcernere. Impietatis reus is quoque eſt, qui uoluptates tan
, quam bonum appetit, dolorem utma, lum fugit.Hic enim peceſſe eſt ſæpenu merà
incufet communem natura,quae ſi ça aliquid præter dignitatem bonis malísue
tribuerit:ppterca, quod fæpe mal¡ uoluptatibus fruuntur,cag.quib . efficiútur
eæ ,poſsidet:boniuero dolo re afficiunt, & in caufas dolorişincidūt. Jam
qui dolorem metuit mețuet aliquá do aliquid eorum ,quçinmundo fient: įd uerò
impium eſt.Rurfus qui uolupta tem confectatur,non abftinebit fe ab in juſticia
:id uerò palàm impietas eít, O portet autě ad ea ,quæ natura in utraq partem
æqualia effecit (nca cnim utra que feciffet,niſi ad utranæ partem exx quoſe
babuilſet)eum qui naturam uult lequi ducem, fimiliter æqualiter eſſe ef fectum
,Ita & qui dolores & uoluptates, mortem & uitam ,gloriam &
ignomini am ,quibusæqualirationcutitur natu 14, nonin eodem ponitmomento, pro
culdubiò impiè agit. Quod auté dixi, Naturam communcm ijs exæquo uti, ita
intelligendú eſt,qdea cueniút in u traque parté conſequentia quadam, iu xta
antiquum prouidentiæ impetum , quo illa ab aliquo principio ſe ad res i ta
diſponendas contulit,complexa ra ționes quaſdam corum quæ ellent futu ra ,
deſtinatis quibusdam facultatib . ex quibus nafcerentur ſubicctæ , muta ţiones,
& fucceflus eorum, Gratiofius quidem crat, hominem mendacij, fimulationis,
luxus & ſuper biæ omnis inexpertum mori: ſecunda (aiunt)nauigațio eft,fatietate
horum af fcctum antemigrareè uita quàm illa ui tia probare. Nondum ne tene
experien tia quidem docuit,utpeſtem fugias? Pestis enim eft ca intellectus
corruptio, lo gè magis, quàm aëris quædam intempe' ries ifta &mutatio. Hæc
enim animali peftis eft,quatenus uiuitillud : hæcho minum, qua ratione ſunt
homines. Mortem non contemne, boni camć conſule, quippe remexijs unā,quasna
turadecreuit.Qualcenim eftiuueneſco re, ſeneſcere, augerc, uigerc, dentes, barbam,
canos ferre, liberos crcare, uterű ferre, parere, reliquæ $ naturales effe
ctioncs, quas tempora uiteadferút, tale eft etrādiffolui. 'Hominis ita ßrationc
utentis cft,mortem ncggraucm ,ncquc uiolentam , neg contemnendam rem
exiſtimarc,fed operiri eam , tanquam u nam è naturalibus actionibus:perinde
atque nunc expectas, quando fætus ex utero tuçuxoris edatur, ita expectanda
etiam hora, quaanimula tua ex hocre ceptaculo excidat. Quodfi rudequidé, ſed
taméquod corattingere poſsit,do cumentum accipis,omninò ut facile fo ras mortem
efficiet, fi cogites, quales ij fint à quibus diſcedas, & à quorum morum
litanimus tuus ſeparandus col luuica luuie. Iraſci quidé ijs qui tecum uiuút,
nequaquam debes, ſed corum curā gc rere,ijsý placidum te prebere:Cogitan dum
tamē tibi eſt,te ab hominibusnon idem tecum fentientib . diſcedere. Hoc enim
unam erat,quod poterat retinere in uita', G fuiffet homini datum uiuere cum
ijs,quieademſentirent:Núc uides quàm laborioſa fitinter unà uiuentes diffenfio
,ita ut dicas:ô mors, uenicele riùs,ne quádo ipſe quog meiipfius ob liuiſcar. Quipeccat,abiipfi
peccat: quiiniuftè agit, & biipfi iniuftè agit, ſco malum efficiens ipſum
,lædit. Sæpenu merò iniuriam facitis qui nihil agit, nó is modò quiagit. SiadGt
certa de rebus fententia, & a ctio ſocietatem humanam ſpectans, &
animus ita affe & us,ut boni cóſulat om nia quæ accidunt præter id quod eſt
à cauſa profectum: hæcli adfint, ſuficiút ad opiniones tollendas, Gftendum im
petum animi, extinguendum appetitú , &habendum paratam apudſeſc parté
principalem . Vna uita brutis animantibus eft dis tributa:unamens, rationem
adeptis. Qucmadmodum una eſt terrenorú ter ra, & unam lucem uidemus , unum
aêre trahimus. quæcáqucuidendi & uiuédi uim habcmus. Quæ commune aliquid
habent,con tendút ad id quod eft eiufdem generis. Omne terrenum ad terramuchit
,omnc item humidum, aut aërcum ad ſuum iti dem genus,ita ut neceſſe fituiea
inde in tercludi.Ignis furſum effertur, propter clemétarem igncm: omniuerò hic
igni aliquid eſtparatum utinflammctur,ita ut omnis materia paulò ficcior facilè
i gnem concipiat,quia minus eft in eius temperic id quod inflammationě pro
hibeatItag & omnc, id quod commu nis mentis eſtparticeps, limiliter ad co
gnatum ſuum contendit:atq etiam am plius. Quanto enim eſt alijs rebus præ
Itantius, tanto ¶țius ut cómiſcea tur cum co quod eiufdemcſt generis. I
taquc apudipla ſtatim bruta inuenta ſunt examina, greges,pullorum educa tiones,
atq id genusquali amores.Ani macnim iam in his eſt, ido quod ea in unum conduceret,
apud præftantioré partem reperitur:id quodin plantis,la pidibus &lignis nó
inuenitur.Atapud ratione õdita animalia,ciuitatcs funt,ct amiciciç, &
domus, & concilia:ingbel lo pacta & induciæ. Apudpræſtátiora, etiam ex
diuerfis modis unitio quædá conftat, ut apud aftra adcò aſcenſus ad fuperiora
conſenſum etiam in de iua dis cfficere potuit. Atqui apud catan tùm, quæ mentem
habent,obliuio mu tui ſtudij & conſenſus reperitur, & hic modònon
uidetur quomodò adſe in uicem affluant.Quanquam etiam fi fu giant homincs hanc
coniun &tioncm ,ca men ab ea corripiuncur, naturanimirú præualente. Vidcbis
autem id quoddi co, li animum aducrtas. Facilius cnim inuenies tcrrcum aliquid
nulli terreno adiunctum , quàm hominem ab homini bus auulſum . Fructumfert
&homo,& deus,&mú dus,fuo unumquodą temporc : quòd lconfuetum cſtin
uite, ut luum fru & ű, nullum communem ferat, tamen ratio fructumfert
&communem &propriú, naſcunturg ex eo alia quædam eiuſmo di, qualis est
ratio. Peccataliquis.Sipotes,meliusillum doce:fin uerò, meminerismanſuetudi nem
tibipropterea datam : nam & ipli dij illis ſunt clementes, qui& nonnul
lis ad conſequendam fanitatem diuiti as, &gloriam ,auxilium ferüt:adeò funt
benigni. Id & tibi licet, neque impedit quiſquam Labora, non ut miſer, nec
ut qui uel miſericordia ,uellaudé conlequi ſtude as:idunum tibi fit propoſitum
agere ſe cundum ciuilem rationcm . Hodie omni me periculo exemi,imò uerò omnia
quæ uidebantur mala cie ci: nihil enim extrà erat,fed omniaintus in opinione
mea. Omnia hæc, quæ in caducis funt, fa miliaria iam mihifecit experientia:du
ratione autem ſunt diurna, materia for dida,omniatalia, qualia erat etiã apud
illos, quosſepeliuimus. Resipfæ extrafores ſtát,nihilipfæ de feipfisnorūt, neß
pnunciát. Quid igit deijs pronunciat?ratio. Negidperſua fione, fionc,ſed
actione diſtinguit bonum & malum ciuilis animalis ratione prædi ti: ſicut
ncßuirtusneg uitiú in perſua fione, fed actione. Lapidi in altum coniecto nihil
mali accidit fi dccidat,ncg bonum , quòdin ſublime effertur. Introſpice corum
animos, & uidebis quosij iudices timcant, & ut hi ſeipfos iudicent.
Omniafunt in mutatione,ac tuipſe quog in perpetua alteratione, ac quo dammodo
corruptione. Quin & totus mundus. Alterius peccatum ibi eſtre linquendum,
ut firactionis defcctus,ap petitus,opinionis quics,ac quaſi mors. nihil mali.
Tranfi nunc ad ætates , ut puericiam , adoleſcentiam ,iuucatutem ,ſenectam:
horum omnium mutatio eft mors.aun quid mali?Trág deinde ad uită ſub auo acam
,ſub matre, ſub patre: quinetiã ali as multas mutationes & fines inucni cs,
quære ex teipso, an quid mali Git?Ad cundemmodum eſt etiam totius tuz ui sæ
finis, quies,acmutatio. Perpende mentem tuam ,uniuerfi,ac proximi:tuam ,ut ea
iuſtam reddas.uni uerfi ut recorderc cuius pars fis: proxi mi, ut uidcas
fitnein ca igooratio ,an uc rò incellcctus. Simul intelliges te factú ad
explédum ciuile corpus,atqita om nem actionem tuam facere ad uitam ci uilem
complendam.Etenim quecúquc tua actio nó ad focictatem humanam , tanquam finem
uel propinquum uel remotum refertur ,illa uerò uitam inter polat,& unitatem
eius foluit; turbaso ciet,ficut in populo cam plebs ſeceſsio nem facit. Abhac
concordantia. Pue . rorumirę,ludicra ſpiritus qui cadauera geſtant:ut co
efficacius accidatidquod eſtin Necya. Vade adqualitatem cauſa , čamgå materia
ſecretam confidera, tum quàm diu permanerc omnino pofsit ca pro pria qualitas.
Paffus esinnumera, eò quod non có tentus fuiſti cua mente agere ca,ad quæ crat
facta.Sed hæc fatis. Cum te alius repræhendit aut, odit, aut aliquid
talcpronunciat,afpicecorú animulas: intra, & uide quales Gint.Cer nes nihil
eſſe tibi laborandú, ut hocuel illud ij de teiudicent. Bene quidem ijs uelle
debes: Datura em amicifunt, eos dij omni ratione iuuant,perinſomnia,
uaticinia.Hæc quidem de quibus ijcer tant , circulus ſunt rerum mundanaa rum,
quæ ſurſum deorſumgab unoz uoin alterum uoluuntur. Aut ad fingulas res uniuerſi
intelle ctus ſe applicat, quod fi eftita, id , quò ca ſe applicat:approba. Aut
ſemcltan tum impetüfecitipfa més, reliqua om nia conſequéter fiunt.* Et quid
unum alicui. Quodam enim modoAtomi. Omninò autem , que Deus fit, recte omnia
habent : ſiue temerè ſunt omnia; i nunquid & tu ? lam nosomnesterra
occultabit :poſt ipfa quogmutabitur: & res deindealię item in infinitum
mutabuntur.Enimuc ro qui fluctusmutationum & motuum confiderabit, earumg
celeritatem , is omnia mortalia contemnet. Torrentis inſtar cauſa uniuerſi
rapit omnia. lam ó ipſa iſta ciuilia quàm ſuntuilia? & quàm k uidenturhomunciones
iſti philoſophi cè agentes,pleni eſſe muci? Quid facien dum ? quod nuncnatura
poſcit,cò con tende îi liceat , neqcura ,an fit aliquis mortalium
hoccogniturus.Neo Plato nis remp. ſpera: Sed contentuseſto ,G uel minimum
procedat:hứcqueipſum ſucceſſum cogita quàm non fit exi guus . Mutat aliquis
illorum ſuum placitum ? atquiline horum mutatio ne quid eſt, quàm feruitus
gementium, &perſuaſos ſe esse simulantium. Vade nunc et Alexandrum et Philippum
et Demetrium Phalereum mihi dic, Vide rint an ſcierint quid communis uolue
ritnatura, & an leipfos ſub diſciplina te nuerint.Quod ſi tragicè tantùm
ſeſe o tentarunt,nemo me damnauit , ut co gar eos imitari.Opus philoſophiæ
ſim-, plex eft , & uerecundum.Nolimeaddu cere ad faſtú, qui præſeferat
grauitaté. Supernè contemplari infinitaarmen ta,ſacrificia ,omnis generis
diuitias , in tempeſtatibus & ferenitate: quæ facta funt,cum ijs nata,
quæitem deceſſerút. Conſidera etiam uitam eorum qui ante te,& qui poſt te
uiuét: horú ét, qui hodie apud Barbarosuiuút: @multico rum ne nomen quidem tuum
sciant, mul ti ſtatim obliuiſcentur, mulu cũ te núc laudent, ftatim ſunt
culpaturi . Deniz quam res nullius momehti lit memoria aut gloria , aut aliquid
tale. Vacuitas perturbationum in his quæ ab extrinſe ca cauſa accidunt ,
iuſticia in ijs , quarū actionum tu es cauſa : hoc eft impe tus animi , &
actio , quæ finem habe at ſocietatem humanam : id enim eft tuæ naturæ conſentaneum
. Multa fup uacanea ex hisq te perturbát,precidere potes,q tota in tua ſunt
opinione fità, multūý laxitatis et ſpacij tibi acqrere. Torūmundū alo
cócipe,tuuğæuú per pēde, tú celeré lingularú rerú mutatio . né.breue.f.efſe
tēpus ab ortu ad interi.. túid uerò q huncfequit ,idó pillú prę
ceſsit,infinitú. Oía quę uides,celerrime interibút: hi quo ,quieorú interitú ui
dent, ipfi quog mox peribunt. Qui decrepita lenecta moritur, idem ferer cum co,
quiimmaturamorte cadit. Quænam ſunt eorum mentes , quib. rebus ſtudent,quæ
habent in honore, quæ amant?iudicate nudas ipforum in tueri animas.Cum
uituperando obeſſc, aut prodeſſe laudando ſe putant, quæ cítilla opinio?
Amiſsio uitæ nihil eft aliud quàm mu tatio: hacautem delectatur natura uni
uerfi, fecundum quam omnia fiunt rc te. Abæternoreseiuſdem formæ natæ ſunt,
licg eritin infinitum . Quid ergo dicis omnia facta, & futura male. Ergo
nullus inter totdeos repertus eſt, qui ca corrigeret,ſed damnatuseſt mundus ut
perpetuis malis conflictetur. Vide quàm putris ſit omniú rerum materia ,aqua,
puluis,oſsicula,fætor: rurſus calli terræ ,marmora:fęces, aurű & argentum
:crines,ueſtis,fanguis, pur pura,omnia reliqua eiuſdemmodi. Eti am quæ fpiritu
conſtant, alio modo ta lia, atq ex hisin hæcmutantur. Satis miſeræ uitæ eft,
& murmuris, & & imitationis? Quid perturbaris? quid in hisnoui? Qui
terret te ?nú formala ſpicc cã.nú materia ? afpiceilla. Extra hæc nihil eft.
Quin &iam crga deos ſim pliciot &melior esfaćtus. Idem eft Gue tribus
hæc, live centum annis ea diſcas. Si peccauit , malum apud ipſum eſt: fortaſsis
autem non peccauit. Aut ab una aliqua mente tanquam onteomnia progrediuntur,
quæ cor poribus accidunt:proinde pars non de bet euentis totiusfuccenfere.
Autato miſunt omnia,confufio , & diſsipatio ; quid ergò perturbaris?Menti
tuæ dicis . Mortuus es ?perijſti, efferatus es , ſimu las, cs in cætu, aleris?
Aut nihil poffunt dij, aut aliquid. Si nihil ,cur non compræcaris eos?Sin pol
ſunt,cur non magis etiam pecis ut dét tibi, ne quid horum metuas, autexpe
tas,ncque magis doleas ſi abſit,quam ſi adfit.Omnino cnim li poſſunt adiuua
reij homines , etiam in hoc poterunt. Fortè dices,Dcusea in meapoſuit pote
ftate.Efto . Nónne crgo præſtatteijs ģ in tua ſunt poteſtate uti libere, quàm
de · ijs quæ non ſuntin tua man u pofita,ſo icitum eflc , animo feruili & abiecto
9 3 k 3 Quis autem tibi dixit , deos non in his etiam, quæ penes
nosſunt,auxilium ad ferre?Incipe ergo precari de his, et uide bis.Precat alius
, ut cum aliqua cubet: tu petę , ne eius rei appetitustibioriat. Alius petit,
ut certa releuetur, tu, neca leuari tibi op' ft.Alius,ne amittat filiú : tu ,
ne idipfum metuas. Omninò adhuc modum uota concipe, & quid fitfutu rum
uide. Epicurus ait fibicum ægrotaret, nul la fuiffe de corporis affectione cum
ſu is colloquia ,fed decaufis rerum natura lium præcedentibus diſputatum conti
nenter.Eı rei ſe intentum , mentem ha buifſe perturbationum uacuam, ut quę
motuum corpuſculi nullam partem ac ciperet, ſuum bonum cuftodiens,idea qúe ſe
ne medicum quidem qui appli caret pharmaca adhibuiffe; Sed uitam benè
habuiſſe.Tuquod is in morbo po tuit,hoc liquid alterius rei incidat,ob ſerua.
Vt eniin non defiftere à philoſo phia propter quæuis negocia, neg cũ quouis
uulgari homine nugari,omnib, Sectis é cómunc.lic in omniactione cie b h ti incumbendum
ſoli, q ppoſitum eſt,in ftrumétog quoadidutimur. Si cui? impudentia
offenderis,ftatim percótare teipfum , an poſsit fieri, ut nulli fint in múdo
impudétes.nó pótaūt hoc fieri: neigitpoſtula id qd herinequit :alio quin ipse
quoß un'eris eximpudétib. ijs, quos effe in mundo oportet. Idem de uerſuto
,infideli,omnidenim quocú quemó uitiofo in próptu ſit tibi cogita re.Ná
firecorderis neceſſarioid genus hominú efle , fingulos æquioré te prebe bis.Id
quoq utileé,ftatimcogitare,quá homini natura uirtuté cótraid pecca tú
dederit.Remediū.n.tribuit, cotra in gratos manſuetudiné,cótra aliud uitiū,
aliud pharmacũ. Olo aút licet tibi in ui am reducere eu qui errauit: nā oís q
pec cat, cò errat, pàppofito aberrat. Denique quid inde tibidamniallatú é:inue
nies quidénullú eorú quib.iraſceris, tale quippiam fecisse, quomés tua fit futu
ra deterior:atquiin hocunico fitú crat, ut malú tibi atg dánú accideret . Quid
verò malum aut novum accidit, fi indoctus į homo agit suo modo: uide ne tu
tibiip c 2 0 k 4 ſe potius ſisrepræfendis, quinon præ fenferis fore, utisi: a
peccarct. Eenim anſam tibi omnino præbuit ut cogita res, confentaneum eſſe utis
ita pecca ret.Ac tamen eius oblitus,miraris eum deliquiſſe? Maximè ucrò fi cui
infi delitatis uel ingratitudinis cauſa ſuce cenſes, intra te conuertere.
Proculdu bio enim à te peccatum eſt, fi eum ita affectum iudicauifti fidem
feruaturum : aucl beneficium conferens,non eo có tentus fuiſti quod dederis ,
neque fru - & tum teipſa ex actione capere cogitaui ſti. Quid enim aliud
requiris, cum ho mini bene facis?non cibi ſatis eſt ,te tuæ naturæ conuenienter
egiſſe, ſed & mer cedé inſup defideras, perinde ac fimer çede oculus
poſcat,quia uiderit,autpe des ppter grellus. Quéadmodú enim hæc ad certūfiné
facta ſunt,ita ut ſecun dúfuam conſtitutioné atą naturam ſi egerint, fuum finem
adepta ſciamus:ita homo adbeneficentiam natus , & quid beneficij cótulerit,
aut aliud quid ege rit ,quod ſocietati humanæ conducat, fecitid ,cuiusgratia
eſt factus, conſecu tus cft id, quod ad eum pertinebat. Ris aliquando , ô
anima, bona, simplex, unica , & nuda, ſplendidior corpo re tibi circumiceto
. Gu ſtabis olim amoris affo ctum :plɔna eris,nullius indigens , nihil
deliderans ncg animati neque inanimi ad fruitiones uoluptatum :ncqtempus
requires : quo diutius fruare,neq locũ, regionem , aut aèris commoditatem , nec
hominum conuenientiam .Sed có tenta eris præfenti ſtatu , dele & aberis
omnibus quæ cruntin promptu, tibig ipfi perſuadebis,omnia tibiadeſſe,om nia
cuareétè habere,omnia à Dijs tibial lata,probabisquæcúq ijs probabunt, ac quæ
tibi ad perfe&ti animalis ſalu tem dabunt,quod bonum eft, iuſtum , honeſtum
,omnia generat at continet & ample &titur, quæ diſſoluuntur cò, ut alia
exiplis exiftant. Eris aliquando ta lis, utita cum Deo & hominibus uiuas,
utne quid in ijs repræhendas, neg ab illis damneris.Obferuaquid natura tua
requirar , quippe qui tātùm à natura gu berneris :id deinde fac &admitte ,
nifi tuanatura,qua animales, cò fiat deteri or.Secundo loco animaduertédumeſt,
qd animalis natura quæin te eft, requi rat:idgo mne omittendum eſt, nifide
terius tit habitura ea natura , ob quam rationis particeps diceris: nempe ciui
lis , & rationalis. His uſus regulis, nihil ages fuperuacancum . Omni quod
tibi euenit , aut ita euc nit,ut tu laturuses , aut ſecus.Si como do, quo tuid
ferre potes , non fer ægrè, fcd utnatura tua te docet: fin cótrà , no litamen
indignari, etenim ipſum peri bit.Enimuerò memento cam eſſe tuam naturam ,ut
omnia feras ca,quæ an into lerabilia iudicare uelis nécne, in tua eſt fitum poteſtate,ſecundum
uiſa, qua id tibi prodeſſe aut conuenirc ducis. Siquis errat; docercillum debes
benigne, & oftendere quid non animaduer terit.Siidneſcis,teipfumaccuſa,imò
ne teipſum quidem. Quidquid tibieuenit, id omne abę. terno tibi deſtinatum
eſt,atą à conne xu caufarum fataliter tributum . Nam &quod tu es, et quæ
tibi cueniút, ab æ terno dependent. Siue ex impartilibus corpuſculis, fi uc
natura mundus conftat, id primum conſtat,eflcte partem totius quòd à na ra
gubernatur.Deinde,coniunctionem tibi quandam eſſe cum eiuſdemgeneris
partibus.Horum memor,quatenus par tem me eſſe totius fentio, nihilægrè fe ram
eorum , quæ à toto mihi tribuútur. Parti enim nihil poteft nocere, quod to ti
prodeſt. At totum nihil habet, quod nóip6 profit.Id , cùm omnibu set có mune
naturis , tú Vniuerſi naturæ hoc accedit, quod ne ab ulla quidemextrin feca
cauſa poteſt cogi, ut aliquid fibi dá nofum producat. Quatenus uerò mihi
cognatio quædam eſt cum partib . quę funt eiuſdem generis , nihil agam quod non
refpiciat communitatem , imà ſemper ad communem utilitatem diri gammeas
actiones, & à contrario auer tam.Hisita conſtitutis ,necefle eſt uitá
proſperos habere ſucceſſus: ficut & ci uis uitam profperam
intelligeres,proce dentis per actiones ciuibus utiles , boniş consulentis quæcung
ei civitas tribueret. Omnes partes mundi interire necef farium eſt, hoceft, alterari.
Quod fi hoc etiam malumipfis fit ,nónne uniuerfum malè poſsit perdurare,
partibus ad inte ritum, &alterationem cóparatis. Vtrú enim natura
inſtituitſuas partesmalè af ficere,malog obnoxia, & quidéneceſ
ſariò,efficere?aut perimprudentia hoc admifit ? Vtrung quidem non eft ueri li
mile. Quin etiam ratione Natura omiſ ſa, ipfarum rerum naturam confideret, item
ridiculum erit hóc. Simul enim di cere, quod mundi partes à natura factæ ſintad
mutationes et carummutatio ncs quafi contra naturam euenientes mirari aut
indignè ferre, abſurdum ſit: præſertim cum fingula ex quibus ſunt conflata, in
ea etiam diffoluantur. Aut enim diſcretio fit clementorum, cx qui bus concretæ
ſunt res, aut mutatio, ſoli di quidem in terram ,aèrci autem in ae rem, ita ut
hæc quoß aſſumantur in Ra tionem uniuerfi, fiuehoc certis conuer fionibus
inflammabitur, fiue perpetuis uicibus renouatur. Solidas autem &ae reas
partesnon opinare ab ortu te habc re : omnia iſta heri & nudiustertius ex
alimento et inspirato aêre affluxerunt: hæcgmutanti, non id quod ex utero
matris attulifti. Poneaut,hocte admo dum adiungere propriæ qualitati:nihil
rcuera,puto ,adid quod dicitur. Cùm fumpferis tibiipfinomina hęc, bonus,uerecundus,uerax,
intelligens, prudens,alti animi,caucne quando ifta nomina,amittas,alijsg
camutes. Celc riter ea aſo repete, acrecordarcnole in telligentis indicari
ſcientia dc fingulis rebus percipiendi, & eú, qui cogitatio nibus alienis
non occupetur: pruden tis uerò, uoluntariam approbationem corum , quæ communis
natura tribuc rit :altitudine animi,mentis intentioné & ſublimitatem , ſupraleues
& duros motus carnis, gloriam ,mortem , aliasg res elatæ. Siigitur teipſum
dignum his nominibus præftiteris,non id appetés, utab alijs ita
appelleris,alius eris,alião ingredieris uitam . Nam talem te porrò elle,qualis
hactenus fuifti,hoceftin hac uita raptari &inquinari, nimis ſtupidi eft
hominis, & VITAM AMANTIS, fimiliso eorum , qui in pugna aduerfusferas fe
meſi ſunt. Hicnim pleniuulnerum & ta bi,tamen hortantur, ut in craftinum
fer ucntur,iterum pugnaturi aduerſus eof dem ungues & dentes. Itaq te
paucisi ſtis nominibus accommoda, ac,& qui dem pofsis,ea tuere, perinde at
hin In ſulas quaſdam fortunatas commigral ſes.Sin teinferiorem ijs eſſe ſentis,
fece de audacter in angulum aliquem ,utibi uictoriam obtineas: aut omnino è
uita abi, non iratus,ſed Gimplici & libero ani mo, atæ uerecundo, cùm id
unum in ui ta egeris,uteo modo difcedas. Vt auté memoriam illorú nominum
retincas, haud exiguú tibi ad feret adiumentú, ſi recorderis deorum , atß eos
nolle fe adulari,fcd hocuelle, ut ratione prædita animalia, ipforum quàm
fimilima ef ficiantur. Ficus,canis,apis,ſuum quoduis offi ciumfacit: idem eft
&hominis partiú. Mimus , bellú, terror,ſtupor,ſeruitus: hæc quotidic
delebút facra illa tua pla cita, quæè contemplatione naturæ rc rum hauſta
circumfers. Omnia autem, ita ſuntinfpicienda &agenda,ut & cir
cumſtantijs fimul ſatisfiat, & cognitio inactioné uertatur,ferueturó animicó
ſtátia ex earūſciétia accepta. Ignorat, non tñ cft abfcóditú Quando capies fru
&tum fimplicitatis?qñ grauitatis? quan do cognitionis fingularum rerum ?
quæ : nimirum fiteius natura, quis in mundo locus, quandiu ferat eius natura ut
du ret , quibus ex rebus conflata fit, quis eam poſsit poſsidere,quis dare
autadi Aranca, ſi muſcamceperit, exultat: alius G leporem, aut piſciculum ,aut
fu cm , aut urſum , autfarmatas ,nónne hi ſunt prædones? Si opiniones exami
ncs, quomodo unumin alterum tranf mere. mutetur,uiam ac rationem contempla di
parabis.Continenter autem hucani mum aduerte, teý huic parti adlucfac: nihil
eſt enim quòd perinde animum magnum efficiat.Corpus enim exue, in
telligensgiamiam te ex hominibus di ſcedentem ifta omnia deſerturum ,torů teipſum
da iufticiæin actionib . tuis ſer uandæ, in reliquis quę eneniuntrerum naturæ
totum te cómitte: quid alij uel fentiant de te, uel agant contra te, ne ad
mentem quidem tibi tuam accidat. Duobushis contentus eſto , ut & iuftè agas
in præſentia , & id quod nunc tibi obtigit,boniconſulas. Omnes alias oc
cupationes,omnia ſtudiamiſſafac ,huic modò intentus,ut rectà ſecundum lege
ingrediaris, deum ſequens. Quis lituſusderebus tanquam ſuſpe Etis deliberādis
hinc patet. Si quid age dum fit,uideasą id elle ex uſu, firmiter cò
procedendum. Sın id nonintelligis, inhibendaactio , & optimis utendum
confiliarijs.Quòd G alia his aduerſa oc currant,progrediendum eft iuxta præ
fentes occaliones,animo ci quodiuftú uidetur intento . Optimum enim eſt cú
áttingere ſcopum . Quietus fimul, & ad motus facilis, fi mul & lætus ,
& conftans eftis, qui ra-. tionem ubiq fequitur ducem. Interroga ex
teipfoftatim à fomno ex pergefactus,nū tua interſit, fi quæ iuſta funt &
reétè habent , in aliorum fint poteſtate?Nihilintereſt. Nunquid oblicus es,
illi qui aliorum fermonibus & laudibusfeiactant,qua les in lecto
fint,quales inméta quid ? a gant ,quæ fugiant, quæ confectentur? quæ
furentur,quærapiant? non quidé manibus & pedibus, ſed precioſiſsima ipforum
parte,qua acquiri poteſt ( ſi qs uelit) fides, uerecundia,ueritas,lex,bo
nusgnius . Omnia danti & recipienti naturæ p bè inſtitutus & uerecundus
dicit : Da quicquid uis , aufer quicquid uis . Ne que hocaudacia elatus dicit ,
fedeio bediens, camś probans. Vitæ cxigua reſtat pars :uiue tanquá inmonte.
Nihilem refert hîc ne fisuel illic,modò ſcias te ubig in mundo, tan quam in
urbe eſſc. Videant, inquirant hominemhomi nes uerum ac fecundum naturam uiué
tem.Sinon ferunt eum , occidant:præ ftat'enimhoc,quàm illo modo uiuere, Noniam
præçerea tibidiſputandum eſt, qualísnam ſit uir bonus: fed curan dum, ut fis
uir bonus. Subinde tibi ante oculos pone æuũ totum , & uniuerſam
natura:cogita, uc res ſingulæ ratione ſubſtantiæ nuclei fint oliuarum
,temporis,tenebri cóuer lio :1dý de ſingulis rebusindaga .Quem admodum exiam
diffoluátur, finto in mutatione ac qualiputrefactione & dil ſipatione:
utunumquodą ſuam ucluti mortem habeat.Quiſuntilli, qui nunc
comedunt,dormiunt,coêunt,uentrem purgant?cum quiimperant alijs, ſuper
biunt,indignantur,inferiores increpát? quibusilli paulò antè feruierunt, &
qui bus de caulis?quieruntpaulò pòft? Vnicuiqid prodeft, quod naturau niuerG
fert,atx co quidem tépore, quo ca fert. Expetit quidem pluuiam terra: expetit
autem uenerandus æther cum eſt repletus nubibus in terram decide re,ita &
mūdusid agere cupit,quod fit: dico itaqmundo,meei adſentiri. Itag & hocfit,
& dicitur fieri, quod mundus uultita fieri.Authic uiuis, & te adſuefe
ciſti, aut aliò te confers, & hoc uoluiſti: aut defunctus tuo munere moreris.
Nihil eſt præter hæc. Bono ergo esa nimo. Semper fit euidens , hoc efſe agrú :
1 & quomodo omnia funt hieijs qui in ſummo luntmóte,autin littore , autu .
biuis. Omnino enim inuenies Platonis illud, ftabulo in monte abditus : & ba
lare. Quid eſt mens mca ? ad quid nunc ea utor?Eſtne aliquid mentis uacuum ?
cftne aliquid à comunitate diuullum ? num affixum & admixtum carni , ut il
ludunàmutetur? Qui dominum ſuum fugit, fugitiuus eſt.Lex autem dominus eft.
Ergo qui cótra legem agit, fugitiuus eſt. Acdolo-, rem aliquis,iram , aut
metumconcipit, propter aliquid eorum quod facūeſt, uçlât , uel fict ſecundum
uoluntatem & eiusqui uniuerſum gubernat.Hic uerò lex eſt tribuens ſuum
unicuif. Ergo 13 qui hoc modo timet, dolet , aut irafcit, & fugitiuuseft.
Pater semine in uterum matris dimillo abijt. Inde ſuccedés alia cau ſa agit,
& abſoluit facum ,animaduerten dum eſt ex quo quid efficiatur. Rurſus cibus
per fauces dimittetur,deindealia cauſaluccedens,ſenſum ,appetitum ,ui tam
,robur,omniaģiſta aliaefficit.Ita ea, quæ in tanta occultatione fiunt, co
Gderanda ſunt, facultasģita conſiderá da eft ,ut& eam quæ deorſum , &
eam quæ ſurſum uergit uidemus, non ocu lis quidem corporeis , fed haud minus
tamenperſpicuè. Alsiduò conſiderandumeſt,quomo do omniahęcſint,qualia
fuerint,aclint bulæ atqfcenæ earundem in ſpeciem rerum , quasuelexperientia
uidiſti, uel exantiquahiſtoria cognouiſti,ut,aulá Adriani,totam Antonii
aulam,totam Philippi aulam, Alexandri,CroG.Om nia enimhæc, talia erant. Tantú
per alios animo tibi finge cũ, quialicuius rei caufa doletautindigna tur,fimilem
efle porcello qui mactatur, & calcitrat at grunnit, Similisetiã ei qui
gemitin lectulo ſolustacitè alliga tionem noftram . & quod ſolianimali
ratione prędito datum eſt ut rebusque cueniütfpóte obſequat. Olo aut ſequi
eas,oíbusé neceſſariū.In fingulis reb. rereexteipfo debes , fitnemors mala,
proptereà quòd ea re te fit fpoliatura. Cuni alicuiusoffenderis peccato,fta tim
ad te reuertere , ac cogita quain fi milire tu pecces: ut,Quòd argetum ,uo luptatem
,gloriolam in bonisducas. Id iram mox obliuione delebit : accedat autem &
hoc,uteum inuitum peccare ſcias. Quid uerò faceret coactus? Tu; li
potes,efficene cogatur, Cùm Satyronem uides,Socratium ti bifinge conſpectu
dari:cùm Eutychen, Hymenem ,uel Euphratem cervis, Eutychionem, Syluanum,
Alciphronem, uel Trophæiferum imaginare: Xenophon . te uiſo , Critonem aut
Scuerum: denis ſingulis aliquem priorum certa ratio ne limilem oppone.
Simuluerò tibi ad animum accidat,Vbinamfuntilli ? nusquam ,autubicung. Ita
nunquam non cernes res humanas fumum ellc & uani tatem.Maximè fi recorderis
id quod ſe mel mutatum eſt, nihil fore in infinito tépore . Tu aut in quo
tempore es ? aut qui non ſufficit tibi, breue hoc honeſte exigere?quam materiam
, o ſubiectum fugis? Quid enim ſunthęcoia,nifi ex ercitia rationis quæ accuratè
perfpexiç naturam earum quæ in uița occurrunt rerum . Perduraigitur, dum eas
res tibị familiares reddas: Quéadmodú ualid ventriculus oía fibi effiçit
familiaria : & ignis ſplendidus quidad ei inijcias, fla mã ex co
&fulgore edit. Nulli liccat uerè dicere,nó efſe te fimplicé et bonu: sedmentiatur,
quicúq hocde te ſentit. Id uerò omne penes te eſt:quis enim pa
hibeat,nelisbonus&fimplex ? Tibimo ftet ſententia ,nó uiuere,nifi talis ſis
:ne que enim patiturratio te niâ talem . Quid Git, quod poſsit de propoſita
materia rectiſsimè dici, uel agi, conſide ra:quicquid erit,facere tibi uel
dicere li cet,nemine obſtate:neo prætēdete im pediri.Nexprius deſine
ſolicitudiné, ita ſis affectus,ut qďuoluptuarijs ſunt deliciæ, id tibi fit
actio in ſubiecta & ob lata materia , humanæ cóftitutioni co
ſentanea.Oé.n.id qdlicet tibi agere ſe cundú natură, p uoluptatehabendú é:
licet aút ubią .Nam cylindro quidem non datur,ut quouis loco feraturſuo ,p prio
motu, ut negaquæ, neg igni,ne alijs, quęànaturaautanima rationis ex
pertereguntur:multa enim ſunt quęob ſtent eis, & intercipiant.Mensautem, ſi
ueratio per omnia quæ reſiſtunt perge re poteſt ſecundum ſuam natura & uo
luntatem.Hanc facultatem anteoculos tuos ponens, g mens per omnia poſsit ferri,
ficut ignis ſurſum , lapis deorſum , cylindrus per decliue,nihilpræterea re
quire.Reliquaimpedimenta aut corpo reiſuntcadaueris,autpræteropinioné, ipfius
métisremiſsionénó lædunt,ne que ullú afferunt malū :Alioquin is qui impediret,malus
confeftim fieret. Na reliquæ res omnes ita ſunt compara tæ ut fi qd eis
maliaccidat,ftatim dete riores fiåt.At hîc, a oío dicédüeſt,meli or etiam fit
homo , maiorique dignus į aude,fi rectè utatur ijs quæ occurrunt. Omninò autem
memoria tenendum eſt,ei qui natura ciuis eſt,nihil poſſe no cumenti accidere,
quod nonidem ciui tati noceat.Atqui huic nihilnocet,nifi quod obfit legi.Eorum
uerò , quæ incó moda autinfortunia uocant , nihillegi officit :ergo neg
ciuitati,ncg ciui. Qui morſus eſt à ueris dogmatibus, ei ad recordationem
uacuitatis dolorú & metusſufficiet uel minimum . quale illud: Sternit humi
uentus folia. Haud aliter genus humanum . Foliorum uerò rationem obtinent
&liberi tui , &ij homines qui acclamát & collaudantita,utfidem mereri
uide antur, aut contrà execrantur,aut tacitè repræhendunt & fubfannant.
Foliorú rationem obtinent et hi, qui famam po ſteritatis
excipient.Hęcenimomniana fcuntur tempore ueris :pòſt animus ea deijcit: inde
alia ipſorum in locum ſyla ua producit.Breuitas uerò téporis om nibus eſt
communis. Tu autem omnia perinde atque æterna fugis aut appetis, paulò pòft
moriturus:& cum quite ef feret,alius lugebit. Sani oculi eft ,omnia uiſlia
cernere, & non uiridia tantum uelle, quòd faci unt ij, qui vitio aliquo
oculorum laborant.Idem de sano auditu et olfactusentiendum, utriqomnia fui
generis senli lia esse promptè appræhendenda: qua ratione etiam uentriculus ad
omne a limétum paratus debet effe ,inſtar mo læ , quæ ad quæcunque molienda
para ta eſt.Proinde & més ſana parata debet eſſe ad omniaquæ occurrunt. Sed
ea ģ hoc tantum curat, ut liberi fint ſalui, ut ab omnib.laudentur eius
actiones, ocu lo fimilis eft uiridia, autdenti tenuia tan tum uolenti. Nemo eft
adeò felix, cui mortuo non Gintadftituri quidam , qui malú quod ei obtigiſle putatur
, haud malè lit con ſulturus:probus,dicent, & fapiens crat: nónne ad
extremum aliquis dicet fe cum , Etipfe aliquando reſpirabo-ab
hocpædagogo.Nulliquidem noſtrum erat grauis,fed feng tamen clam nos ab
coſperni. Hæc de bono uiro dicentur . ant. Nobis quàm multa ſunt alia, ppter
quæ multi ſunt, qliberari à nobis cupi Hæcmoriens li cogites, cò facili us
diſcedes hinc , reputans te ex ea uita abire , ex quaijipli q ei' ſunt
participes, quorum gratia táta certaminafuftinui, precatus ſum ,pcuraui,meuolüt
migra re,fortaſſe aliquid meamorte alleuatio nis fperátes. Quidé,curdiutius hic
mo rari quæras? Nihilo tn minus benignus illis diſcede,morem tuum ſeruans, ami
cus,beneuolus,propicius:negutis qui abripiatur,ſed quibenemoritur,animu la
facilè ſe foluente è corpufculo. Eo modo & ab his diſcedendum eſt, quib.
nos natura accommodauit & mifcuit. Difloluitnunc? diffoluor et à familias
ribus abducor, non reluctans, non vim patiens. est enim et hoc unum corum, quç
fiunt secundum naturam. Asvesce, utin omni re teipsum per con teris. Hçustu
quorſum hocrefert? A teipso facinitium , teg primo examina, Memento facultatem
motricem corporis intus latere. Hæc est facundia, hæcuita, hoc est, ut ita
dicam, homo. Nunquam circumiecta vasa animo tibi propone et instrumenta hæc tibi
afficta. Similia enini sunt dolabræ, cotantum differentia, quod adnata funt.
Alioquin sine causa, quæ ea movet et continet, haud maio ri sunt usui, quàm
radius te xtrici, calamus scriptori, flagellum auriga. Aec propria sunt animi
ratione præditi. Se ipsum videt, se ipsum componit feipfumtalé, quale vult,
efficit, fru &tus quosfert, ipfepercipit,(Erenim plantarú fructus, atg
etiam animalium , alij percipiunt.) fuum finem conſequitur, quicung ui tæ fit
terminus: nó utin ſaltatione, & a gendis fabulis,alijs id genus rebus fit,
ut fi quid offendatur,tota actio fiat irri ta : fed is animus omni in parte,
ubicuß depræhendatur, id quod oblatum eſt,e fedum & nullius rei indigum
reddit, ita ut dicere poſsit ſeſuum habere.Con plectitur pręterea totum mundum,
eiſ inanc circundatum ,figuram eius, infini tatem qui , certis conuerlionibus
con Itantem regenerationem uniucrſarum rerum contemplatur. Inde cognoscit, ncgnouum
aliquid pofteris cuen turú,nem eos qui ante nos fuere,quica amplius
nobisuidiffe:fed quod is qui è quadraginta annorú,fi méte utaturferè oía
præcerita &fucura uidet in reb.eiul demformę.Hecquoß eifunt propria,
amorproximi,ucritas,uerecundia, utni hil feipſa præſtantius ducat,quod qui dem
ei cum Lege eſt commune,itaut ai hilinterfitinterreciam rationem , &ra
tionem iufticiæ. Cantilenam iucundam ,faltationem , & pancratium contemnes,
Siuocélua uè fonantem diuidas in fingulos fonos, ata ſeorlim de fingulis ex
teipfo quæ ras an ab co patiarete uinci:pudorcpro fe & ò afficieris.Idem
dereliquis fuomo do intellige.Deniqin omnib .illis quæ nonfunt uirtus, nec à
uirtute profici ſcuntur, memento ad partes corum re fpicere, diuifiones illa in
cótemptum adducere : ids in uſum totius uitæ eft transferendum. Qualis eſt aia
quęparata fit, fiiamde beat à corpore ſolui, & uel extingui,ucl
diſsipari,uelconſtare.Vtautem licpara ta ſit , à peculiari iudicio uenit: non
ut fimpliciter mortem aliquis ſubcatid Chriſtiani faciunt,fed bene ſubductisra
tionibus & cum grauitate, ita ut & alte ri hoclincuerború cxaggeratione
per, fuadere poſsis. Egi aliquid ad ſocietatem humana códucens: ergò utilitatem
ſum cóſecu tus.Id femp occurrat, nequnquādebt. Quã tenes arte?Bonuseſſe. Quánam
fic hocratione? Si contempler , partim na tură uniuerâ partimhominis ſtructurā.
Initiò Tragoediæ prolatæ ſunt, quæ monerent de ijs quæaccidere homini bus
ſolent, eam eſſe.rerum naturam , ut liceueniant.At uerò quib . in ſceną
delectabamini, curijſdem offendimini in maioreuitæ humanæ theatro ? Vide . ris
quidem ,quod ita hæcdebuerint per fici,quodý ea feruntetiam ij, qniclama
uerunt. Id Cithoron. Et fanè quædam utiliter à poëtis dicuntur , quale eſtil
ludin primis. : Quod li dijmenegligút , &liberos, Rationem habet illud.item
. Nam reb. iraſciſanènihil expedit. Frugiferam utiſpicam meæ uitæ me tam. aliag
id genus. Poft Tragedia uetus Comædia illata eſt,libertatédiſci plinæ
accommodatam habens, cazip fa haud inutiliter nos monens, ne faſtu
extolleremur. Cuius fimile aliquid etiã Diogenes uſurpauit. Poſthas &media
quædã comedia & ad extremú noua aſſumptæ ſunt, haud alium ob finem , a ad
ſtudiú artis imitando oftentandæ . Dici enim & ab hisipfis quædam utilia,
nonignoratur: fed tota huius poëſeos & fabularum ,ſcriptionis intentio qué
nam finem reſpicit? Quomodoeuidens fit,non eſſe aliud uitæ propofitú ita có
modú ad philofophádū,ut eftid, quod núc tenes?Ramusà pximoamputari ra monó pót,
an & à tota arborere fecet: fic homo etiã ab uno auullus hoie,nó pornó écà
toto excidiſſe cætu. Itagra mum quidem alius aliquis, homo feip ſum à proximo
feparat, cum eum odit aut auerfatur:ignorat uerò étà tota ciui li ſocietate
ſecadéroeabrumpitur. Ve runtamé hoc habemus munere louis, hác ſocietaté
cóftituit,ut rurſum adcre ſcere pximo, & explere totú poſsimus: Ettamen ſi
hæcauullio fæpius admitta tur ,efficie,ut uniriiterum at coaleſce rehaud facile
pofsit id quod erat auul fum :tum uerò , quòdfatent plátatores, non eadem eſt
ratio rami qui ab initio floruit cum arbore,manfitgin ea ,&e. ius qui
amputatus;rurſus deinde eſt in fitus. Oportet igitur in eadem arborc elle, etfi
nonidem cum omnibus ſentias. Qui tibi ſecundum rectam rationem procedenti
impedimento funt,ut auer tere teà recta actionenópoffunt,ica ne que tua erga
ipſos beneuolentia depel lantte:utrobiß teipſum eundem ferua, utnon modò
iniudicado cóftantia, & agédo , fed &aduerſus eosqte phibere conantur,
aut aliâs indignantur,māſue tudiné tuearis . Haudem minusinfirmi eſt illis
iraſci , ô defiftere ab actione, & concideremetu perculſum : utrunque eft
eius qui ordinem ſuú delerit , quod alter mctu facit,alter odio cognati fibi,
&amicinatura. Nulla natura arte inferior eſt: quip PC cùm artes fint naturæ
imitatrices. Quodſi eſt,utiq naturaomnium perfe & tiſsima &omnia
compræhendens, ar tium folertiæ nequaquam cedet. Porro omnes artes præftantiorú
gra tia faciunt uiliora:ergo & cómunis na tura. Acoz hic eſt ortusiuſticiæ:
ab hac reliquæ uirtutes dependent:non enim conitabitiuſticia,ſi uelrebus ſuapte
na tura neqz bonis nec malis nimium tri buamus,uel temerarij,ucl errori procli
ues erimus: Non ueniunt ad teres eę, quarum fu ga uel appetitu perturbaris,fed
tu quo dam modo ad eas accedis :iudiciumita la que deijs quieſcat,ita
etipfçquieſcent, & & ne ſequeris eas,neg fugies. Animus globo
ſimiliseſt , figuræ æ quabilis, quandones effertie, negcó trahit,ſed luminefulget,
quo in omnib. & rebusueritatem cernit,& in ſe quoque Contemnorab aliquo
: uiderit. ego ibi curabo ,nequid contemptu dignum a gam
autloquar.Oditmealiquis: uide ip rit.Ego quidem omnibus ſum placidus ces
&beneuolus,atco ipſo promptus ad ne ch ere cm que ipſo. 100 god m oftendēdos
alijs ſuos errores: neß hoc exprobrādi cauſa, aut ut patientiam o ftentem meam
, fed ingenuè & pro bè. Quantus erat Phocion, nifi idip ſum præ ſe
tuliffet. Intus enim omnia oportetrectèhabere, & à dijs conſpici hominem nullam
rem indignè ferenté, autquiritantem . Quid enim mihi mali accidit,fi alius id
agit, quod eſt naturæ tuæ commodum? nó accipies id quod nuncnaturæ uniuerfi eſt
opportunum, cum ſis homo eò deftinatus,ut commu ni utilitati inſeruias? Qui
contemnunt fe mutuò , ijdem mutuò ſe demerentur: & qui mutuò de primatu
contendunt, mutuò libi con cedunt. Quam putiduseſt, & fallusille , qui
dicit : Statui fimpliciter tecum agere. Quid agis ? non erat hoc præfari opus:
ipla reshocoftendet.Statim ipſo in uul · tuinſcriptus debet efTe fermo,acftatim
ex iplis oculisapparere : Quemadmo dúex afpectu amatores ſenlum ſui ama
fij.ſtatim cognoſcunt.Omninò uir bo nus & fimplex hircoli debet aliquld fi mile
habere, ut qui ei adeft, uelit, nolit, tń cius fimplicitate depræhendat. One
tatio aut ſimplicitatis, infidiæ ſunt te étæ :neq uerò quicộ turpius eftfubdo
lis acinfidis congreſsib .Hocoím maxi mè fugito. Bonus,fimplex& manſuelº
uir ,hæc oíaí oculis habet, ncg calatét, Rectiſsimè uiuédi facultas é in tuo
aío pofita,nimirú ut res neg bonas ne quemalas,in nullo ponas diſcrimine. Id
fet, & unamquamlibet eorum conté pleris diuiſim , & rationetotius,memor
nullam earúin animis noſtris de ſe poſ fe excitare opinionē, negadnos ueni re:
sed ipsas quidem quieſcere,nosautem effe, q deijsiudicia faciamus apudnos,
easýnobis quali depingamus:cú liceat tñ autoío no depingereillas, aut fihoc oío
ſit admiſſum ſtatim delere. Exigui temporis attétio hæc eſt, indefinis erit
uitæ .Quid obftas,quo minus hęcrectè habeant ?Quęli ſuntſecundú naturam, gaudeillis,
& erútfacilia :ſincótra natu ram ,quære quid fit tibi fecundum natu ram
,atpid contéde et si gloria careat. Ignoſcedūé.n.oīci, ſuuğrit bonum. Videunde
uenerint omnia , ex quib. conſtent,in quod mutentur,qualia fint inde futura
,tum nihilmalicis accidere . Primùm , quis mihi ad eos reſpectus. Nati
fumusinuicéun ' alcerius gratia.A lia autem ratione natus fum utipfisprę ſim ,
ficut aries gregi, aut taurus ar mento . Rem altius repetc. Sinó conſtat mú dus
ex atomis , utią natura cum guber nat. Quod fi detur, utiq deteriora præ
ftantiorumgratiafunt: hæcuerò, unum propter alterum . Deinde, quales illi ſunt
in menſa ,le cto ,alibi?Maxime autem quib . illi funt neceſſariò
opinionibusaddicti, & qua to cum faſtu aguntſua. Tertium eft . Sircctè
faciunt hæc, nó eſt indignè ferendum : ſinfecus, at non ſponte,ledignoratione
peccant. Omnis enim anima invita privatur cum veritate, tum eo, ut possit cum
uno quoli betut eſt dignum ,uiuere. Itaque dolo reafficiútur,li iniuſti,
ingrati, auari,om ninoſiniurij erga aliosdicantur. Quartum eſt.Ipfequoginmultis
delinquis, es ipſorum ſimilis:ac tametG quibuſdam peccatis abſtines, tamen ha
bitum ea faciendihabes, ac uel metus, uel gloriolæ conſectandem causa, aut
aliud ob malum, abstines similibus peccatis. Quintunc hoc quidem ſatis ſcis, an
peccent. Quædam enim ordinc fiút. Omnino autem multa experiri opusē, antè quàm
certum aliquid dealiorum actionibus ſtatuas. Sextum.ut maximèſtomacheris,ta men
uita hominum eftmométanca, ac paulò pòſtomncsmorimur. Septimum.Non actiones
ipforúno bis moleſtiam exhibent, cùmeæfint in ipforum animis : fednoftræ
opinioncs. Itaq tolle uoluntatem iudicandi de rc aliqua tanquam mala : limul
ſuſtuleris iram .Quomodo, inquies,tollam? Sire putes,non eſſerem
turpem.Namnig.fo la turpitudomalum eſſet,tu quogne ceffariò multis modis
peccares,ficres latro, & omnia tentares. Octauum.Multò grauiora adferunt
dolor & ira ,quam obaliorum pecca : ta concipimus, quam ipla illa , ob quæ
m 3 raſc imtur & dolemus. Nouú manſuetudo , li genuina fit, no adſcititia
aut fucata,inuictač. Quid uerò uel extremæ libidinis homo tibi faciet, fi
conſtantermanſuetudinem fer ues, acl res ita ferat , placidè eum hor teris ac
doceas eo ipſo tempore , uacás huic reitum , cùm is te lædere nititur. Si
dicas,Noli fili, ad alias res nati ſumº: ego quidem non lædar,ſed tu: ido eia
pertè & integrè oftendas, neque apes, ullum aliud eorum quæad cætű apta
funt natura animalium ita agere. Oportet autem neque irridendi,neque
conuitiandi caufa hocfacere,fed aman ter, atq ita ut ne cor mordeatur, néue
ccio abuti uidearis , acne quis adftans mirctur,fed ut cum ſolo, ita loqui de
bes, etiam fi alijadlint. Horum nouem capitulorum memento, tanquam a Musis li
ea dono accepiſſes. Acincipe tan dem homo efle, dum uiuis . Tam vero cavendum
ne irascaris eis, quam ne aduleris. Utrunque enim a societate est alienum et
damnosum . In promptu tibi fit ira accedente, non iram esse VIRI, fed man ſuetudinem:
id ut humanius, ita & VIRILUS EST, requiritgrobur, nervos et fortitudinem:
quænon ſunt apud indignan tes & morolos.Nam quanto proping or
eftmanſuetudouacuitati affcctuum , tanto & potentia: acquemadmodum dolor,in
impotétes cadit, fic & ira. Uter que enim uulnus accepit, &herbápor
rexit. Quod fi lubet , etiam decimum à duce Muſarum donum accipe:nempe, Inſani
eſſe ,uellene praui homines pec cent.qui enim hocpetit, id petit, quod fieri nó
pót.Alijs uerò cócedere ut fint mali, modònein tepeccent, ingrati eſt, et
tyranni. Quatuor potiſsimum motus animi continenter ſuntobferuandi, ac, fi eos deprehenderis,
inhibendi. Primò, ut dicas. Hæc cogitatio non erat neceflaria. Alterum
,hocfacit ad ſocietatis diſſolu tionem.Tertium, hoc non ex te dices: nam non à
le dicere, inter abfurdiſsima eft reputandum . Quartum : tibiipa ex probra ,
eſſe hoceius, quidiuiniorelui parte uincatur, & cedat ignobiliori &
mortali parti , corpori ſcilicet &eius craſsis uoluptatibus. Aêreū, &
oésigneęparticulæ quęcó miſtæ ſunt tuo temperamto, cth natu ra ſurſum
efferantur,tamen ut obediãt ordini uniuerli,ab ipſa mixtione conti nentur.Similiter
omne terrçumin te, & humidum,cùm natura ſua deorſum fe rantur, tamen in
ſublimimanét, non in fuo naturaliloco. Adcò elementa uni verſo obtemperant, aca
quò deſtinen tur per uim, manent, donec diſſolutio . nis rurſum canat
claſsicum.Nonnc igi tur iniquum lit, ſolam tuam rationem nolle
obedire,ſuumglocú indigne fer re.Etquidem nihil ei uiolentum impo nịtur: ea
modò, quæ eius naturæ conue niunt. Et tamen ea non ſuſtinet, fedin contrarium
fertur.Motusenim adiniu fticiam ,luxuriem iram ,dolores, & me tus, nihil
aliud eft,quàm ſeceſsio à naru ra: & cùmanimusaliquid corum quęc ueniunt
indignèfert, tunc quoqueluú locum deſerit. Etenim ad equalitatem & pietatem
cóftructuseſt haud minus, quàm adiuſticiam : quia & hæ (pecies funt
uirtutum ,quibus benè defenditur focietas humana, imò etiam antiquio resiplis
iuſtis actionibus. Quinon eundem per omnem uitam propofitum habet fcopum , is
unus & idem eſſe,p totā uitam nequit.Non fa tis eſt, id quod diximus, niG
& hocad datur, qualem eſſe oporteat eú scopú. Quemadmodum enim non eſt
Gmilis de bonis utcunqueplurium opinio ,ſed quæ eſt certorum quorundam commu
nis:ita & ſcopus ciuilis, & communita tem reſpiciens eſt ſtatuendus,
Adhuc qui oés fuos animi impetus direxerit, omnes actiones ſimiles reddet,cogmo
ſemper ſuieșit fimilis, Murem montanum, et dameſticum huiusý pauorem &
fugam , Socrates, & uulgi opiniones,Lamias uocabat,puerorum terriçulamenta.
Lacedæmonij peregrinis ſub umbră fede adugnabāt in ſpectaculis, ipli quo uis
loco fedebant, Socrates Perdiccæ quærenticur nő ad ipfum ueniret,refpondit:nc
turpiſsi mointeritu peream.hoceft,ne benefi cio affectus, idnon poſsim
compenſaa re. In Epheliorum literis crat hocprz ceptum, quod iubebat quotidie
remi nilci alicuius ex antiquis, qui uirtutem coluiffent. Pythagorei manè nos
coelum afpice se iubebant,ut recordemur eorum ,qui femper fuum officium
præſtant: ité or dinis,puritatis, & fimplicitatis nudæ:a ftris cnim nullum
eft uelamentum . Memento qualis fuerit Socrates > củ pellem præcingeret, cùm
Xáthippe uc fte fumpta procefsit:acquæ dixerit fo cijs Socrates pudorc
affectis, ac recede tibus, cum uiderent eúin iſto ornatu . Núquàm fcribere
&legere alios do. cebis: nih ipſe prius didiceris: id multò magis inuita
eſt præſtandum.Seruus es, ratione cares.tú charũ cor mihi rifum fuftulit.
Virtuti grauibus facient conui cia urbis . Infani eſt, ficus hyeme quærere.Tale
eft puericiam quærere præteritam . Epictetus puerum oſculatus, interi us cum eo
fe collocutum dixit. Fortaſsis cras mortem obibis. Abo minaris hoc : nihil
dictu graue cft, ingt, quod aliquod opusnaturæ defignat:ni ſi abominere , quod
fpicæ'metuntur: Vua primùm cruda,deinde matura fit, pòſt palla:hæc omnia rei
ſuntmutatio nesnonin nihilum, ſed in id quodiam non eft. Nemo ut dicebat
Epectetus latro eſt uoluntatis.Ars autem , aitidem , in ueniéda eft in
adſentiedo, utgimpetus animiferuentur,ita uthabeátautadiun ctam exceptionem,
spectét societatem et dignitatem. Cupiditate omnino abſtinendum çít, neque
inclinandum ad ea quæ non ſunt penes nos. Itaq , inquit,non de leuire,ſed de in
. fania certatur,nib SOCRATES dixit.Vultis ne compotes rationis animos habere,
aut non ?uolumus. Cuiuſmodi, bonos ne an prauos ?ſanos. Cur ergo nó quæritis?
Quia habemus. Quid igitur conton ditis? Mnia ista, quæ per circui tus temporum
adipiſcio ptas,iam nunc habere potes, nifi tibiipfi invides: hoceft, Siomneid
gpręte. rijt ,omittast,uturum prouidentię com mittas,id modò quod præſens eſt
,diri gens ad ſanctitatem & iuſtitiam : alte ram , ut boni conſulas ca quæ
tibi fatū tribuit etenimid natura tibi attulit alteram , ut liberè ac fine
ambagibus ueri tatem loquaris,agasok ſecundum lege, & ut dignum eſt. Non
impediat autem teneg aliena malitia ,aeg opinio ,ncß vox,nequc fenſus
circundare tibi carnis. Id enim curet, quod afficitur. Itaq jamio exitu cùm
fis,tantummentem tu am ,idç quod eſt in te diuinum ,uenera beris:neo morrem
metues,fed nequan do uiuere non fecundum naturam incipias. Sichomo eris dignus
mundo quite protulit,nec amplius cris tan quam peregrinus patria tua , admirans
ca quæ quotidie eueniunt,ncg de hac uclillare dependebis. Videt dcus omnia
mentesnudas à ua lis materialibus & corticibus iftis repurgamentis.Sola
enim fua intelllige tia ſola ifta cótingit, quæ abipſohucde fluxerút ac
deriuata funt. Quodipfum tu quoque li facere afucſcas,magna cx parte efficies,
ne ita circútrahare. Qui cnim nó aſpicit carncm circumicctam , occupaturin
ueſte, domo,gloria, relia quisg exterioribus ac quali tabernacu lo
contemplando. Tria ſunt ex quibus conſtas:corpus, anima, mens. Priora duo tátum
ea ratio ne tua funt, quòd corum curam geris: Tercium folum ucrè tuum est, quod
si separes à te. Quæalii dicunt aut faciunt aut quetuipſe,aut ģte futura
pturbát, aut quæ corpori tibi circundato, uela nimulæunànatæ præter cuam
uolunta tem accidunt , ac quæfluctusexterna . rum rerum uoluit :Ita ut
intellectus ab illis rebus, quæ fato una sunt, exemptus libera apud feipfam
uitā uiuat, agensiu Ita,probás euéta, dicens uera, fi inquam remoueas à
menteres quæ ci conſenſu quodam naturæ adhærent, itemģfutu rum & præteritum
tempus , efficies ex tcipfo globú, qualis illcEmpedocleus. Sefolo exultās,totus
ceres atqz rotú dus:Diſces id tátú uiuereg uiuis, hocé. in præsentia.I ta fiet,
ut ad fine ufo ui tæ tibi ſupereſt, pofsis abſque petürba tionibus generosè,&
geniū tuú pbás atq amās exigere. Sæpenumeròmihi mirari ſubijt,quidnãeſſet rei ,
q homi nes cùm feipfos magis ĝ quenquam ali um diligat, iñ ſuam de ſeſe
exiſtimatio nem minoris ducant quàm aliorum . Quòd fi quis Deus,aut prudens præ
ceptor mandet, ne quid homo apud fe ipſum cogitet animóue concipiat, nisi id statim
lit prolaturus, certè ne unum quidem diemid coleret: adeòmagis ue remur, quid
proximus de nobis fit exi stimaturus, qusm quid ipsi nos. Qui fit , quod Dij ,
cum oía pulchrè & humaniter ordinauerint , hoc unu neglexerint,quod
nonnullos homines apprime bonos, acin quos in plurimus ſuam erga deum pictatem
quaſi teſſeris fecerunt teſtatam ,unuinig lele familia res multis pijs
actionibus et facrificijs effecerunt, femel fato functos nonredu cunt,fedomnia
extingui finunt. Idaute Gita é,ſcias deos aliterinſtituturos fuif fe,&
aliter fieri expediuiſſet.Nam fieraj iuſtum , erat utiq etiam poſsibile: ac di
erat secundum naturam, certe naturaid tulisset. Quod ergò res nó ita habet Si
tamen non ita habet,id tibi faciatfidem non fuiſſe ex uſu, ut aliter quàm eft
fie ret.Vides enim ipſe quoquete, dúhoc fcrutaris, cum Deodeiure diſceptarc.
Atqui non hocmodo cũ dijs colloque remur , nili cos optimos eſle &iuſtiſsi
mos putaremus.Si autem tales funt, ni hil certè in rerum difpenfione iniuftè
accontra rationem neglectumpręteric runt. Ad sue facte ad ea etiam, de qbus de
ſperas.Etenim læua manus, cum adalia obeunda ſitinhabilis ,propterca q non
conſueuit: tamen frænumfortius quàm dextra continet. Qualete corripiecmorscorpore
et ani mo ?Conlidera uaftitatem æui quod an te & poft te est, brevitatem
vitæ, materiæ imbecillitatem. Causas ipsas ab integumentis nudas inspice. Quo
referantur actiones vide. Quid dolor, voluptas, mors, gloria, quis sibi ipsi
occupationum sit causa.Neminem ab alioimpediri, omnia opinionibus constare. In
uſu placitorum Gimilem oportetel ſe pancratiaftæ , nó gladiatori:hic enim enſem
quo utit li deponit, interficitur, alter verò manum semper habet paratam, camg
ut ex uſu eſt conuertit. Huiuſmodi res conſiderandæ ſunt, diuiſione earum facta
in materiam , formam et respectum. Quanta est potentia hominis? Cui licet nihil
aliud facere, qid ,quoddeus sit laudaturus et amplecti omnia quæ ei Deusobtulerit.
Quodad naturam conſequitur,eius cauſa dei non ſunt culpandi, nam nex volentes ,neg
inuiti peccant nec hoíes. Quamridiculus clt & perigrinus, qui ratur ca quæ
in vita fiunt. Omnia funt aut neceffitas fatalis,at que ordo ineuitabilis,
autprouidentia placabilis : aut confufio inanis & nul lum habés pręfectum
.Quòdfi eft necef fitas ineuitabilis, quid reluctaris? fin p uidentia quę
admittit placationcm, dignum præbe teipſum diuino auxilio. Sin confufio eft,
cui præſtnemo,conté tus eſto , gin tanto rerum fluctuipſe in te habes mentem :
quòd ſi te abripiat æftus,abripiat ſanè corpuſculú, animu: lam
,acreliqua:mentem quidemnó ab ripiet. Quaſi uerò lumen candela tanti ſperluceat
dum extinguatur, ne @ splendorem amittat: Veritas autem in te et iustitia et
temperantia ante obitum tuú extingui debeat. Siquis deſe opinionem peccati præ
beat, cogita:ecqd nofti, finepeccatú ? ac fi peccauit:quid ſiipſe ſeipſum dam
net , ide perindeeſt ac ſuum ipfius lædere oculum. Qui autem prauos pecca renon
uult eius limiliseft, quinon uult ficum in ſuo fructu fuccum ferre, infantes
plorare , equum hinnire: acli quz ſunt alia neceſſaria.Quid enim aliud faceret,
quihuncfibi habitum contraxit. Si igitur trux eſt, cura eum morbum. Sinon
conuenit,neagas:& non eſt uc rum ,ne dicas. Tui animi motusita Gint
compoſiti,ut omnia circunfpicias.Co gita , quid fit quod cogitationem tibi
commouet: idğ excute dividendo in causam, materiam, respectum, tempus, intra
quod ea resdesinet. Senti vel tan dem, elle aliquid in te præſtantius ac di
uinius quam ca ſunt, quæ affectus ciét, ac quæ te mouent. Quid enim est intellectus?
nummetus, nu suspicio, num CUPIDITAS, num aliquid aliud tale? Primò cogita
nihilfruſtra eſſe agen dum, neq quod non aliquò referatur: deinde, ut non aliò
ĝad ſocietatehuma nā referatur. Paulo post nusquam eris, nec quicquam eorum quæ
núc cernis nco quisq eorû q núc uiuunt. Omnia cnim nata ſuntitaut mutétur,
vertatur et pereant , ut in eorum locum alia na ſcantur. Omnia opinione
cóſtát:hęc aúteſtin tua poteſtate. Tolle igit,cu lu bet,opinioné,eritộtibi tanĝ
pronto riú præteruecto oía ſerena, & linus flu etibusuacans. Nulla, quçcung
ca fic actio malú aliquid patitur,fi ſuo tempo re definat : icutnesis, qui
agit, ca róc aliquid mali accipit. Itidem & corpus omnium in uniuerſum
actionú , quod eſt uita,li ſuo tempore deſinat,nihilma li ea rationcpatitur
:neqisquioppor tunè finem facit ſeriei iftiactionú,malú aliqd' fecit. Tepusucrò
debitum et terminum natura costituit. Aliquamdo et privatim utin senectute. Oio
aut univerli natura. Cuius quidem partib.mutatis, fem perrecens &
uigesmundus perdurat. Seper uerò id pulchrū é & fpecioſum , o códucit
uniuerſo.Finisita g uitæ, în gulis mala quidẻ có nó pót.gene cúnố fit turpis :
quippe necuolútate ènoftra depédens,&àfocietate nó aliena. Bona aútfit: cú
& opportune fiat reſpectu u niuerli , & profit, &diuinitus accidat.
His cogitatis , tria hæcin ,pmptu habe. Primúut in agendo cures, ne quid fru
Itra agas, aut fecus quàna ipſa iuſtitia e giflet:in rebus extrinſecus
accidentib. easfortunæ nutu ,aut puidétiæ obtigif fe :quarú neutra éīcuſanda.
Secundum, qua le unum quodlibetam privatioe fuéritufa dum animam accepit ,indeý,donccca
reddidit :ex quibus conflatum fit et in quæ diffoluatur. Tertium ,ſurſum elato
animo humanas res intuere , earumý multiplicem uarietatem : quàm multa circùm
in aëre & inætheréhabitét:caſ te uiſurum , quoties in ſublime attolla ris:
utſintomnia.unius ſpeciei , & breui tempore durent. Hisne superbimus? Eijce
opinionem , & faluus es . nemo id prohibebit. Rem aliquam moleftè ferés,
oblitus es omnia fieri fecundum uniuerfi natu rā; &quod peccatum fit
alienum :præ terea omnia ita ut nuncfiunt, femper fa eta effe , &
futura,núcý fieri ubiq :item quæ homini fit cũ uniuerſo genere ho minú
coniunctio:nó ea ſanguinis autſe minis,fed mentis communicatio. Obli tus es
etiam mentem uniuſcuiuſg eflc Deum et inde fluxiſſe: nihil cuiĝpro prium effe,
ſed illinc & fætum , &cor puſculú & ipſam animulā ueniſſe.Obli t'es
oía uerſariin opinione, gid tm qd præſenseít,unuſquitg uiuit, & amittit.
Crebrò apud animú tuú recole cose certis de rebus nimium sunt indignati, qui maxima
gloria,calamitate, inimicitia, aliáue quacüq fortuna effloruerút. Deinde quære,
ubi nam sintista. Nempe fumus sunt, & cinis et fermo. Aut ne hoc ipsum
quidem. Simulad mentem tibi accidat, qualia Gntomnia. Ut Fabius Cattullinus
rure, Lucius Lupus in hor tis obijt, Stertinius Baijs, Tiberius Caprei, Velius
Rufus Et omnino opinionis cauſa diſcrimě inrebus indifferentibus ftatutum.Tum
quàm uile fit omne quod reliſtit. Item quanto magis fit philofophięconfenta
neum , in data materia tueri iuftitiam , modeſtia ,ac fimpliciterdijs
obſequi.Fa ftus enim qui ſuperbiæ uacuitatem o ſtentando exercetur , omnium eſt
gravissimus. Qui quærit cur Deos colas, quomo do eos uideris, aut elle
deprehenderis, ei reſpondebis, primùm efle cos uigles: deinde absqz hocſit, tamen
animam me am cum non uideam ,nihilominusma gnifacio:ita Deosquoq ex uiribus co
rum quas identidem percipio ,cùm eſſe intelligo,tum ueneror. In cò ſita eſt
uitæ falus, ut fingulas res totas intuea ris, quid in iis formæ sit, quid
materiæ: toto ało ageut iufta agas et vera dicas: Quid enim superest, q ut
fruaris uita bo nis bona annectédo,ita ut minimú ſpa cium intermittas. Vnú
eftlumenſolis, ét fiintercipiaturparietibus, muris,alijs innumeris rebus.
Vnaeſt communis na tura,etſi certo modo affectis corporib. infinitis
diſtincta.Vna anima, et si naturis in numeris,proprijs circúſcriptio nibus diſtributa
uideatur. Una étmens, etsi discreta uideat.Reliquæ proinde di ctorum partes,tanquam
ſpiritus & ſub iecta inſenſata, & inuicé nihilcóiunctio nis habentia,
tamen ipfa quoqà mente & eius potentia continentur.Atpecu liariter
intellectuseiuſdem generis ad iungit ſe naturis, neo a societate divellitur.
Quid quæris? Ut vivas? Id est sentire,appetere,creſcere,deſinere, loqui,
cogitare. Quid horú deſideratu dignu est? Quod Guilia sunt oia hæc,ad extrc mú
te cófer, népe ut fequaris rationem &Deú ducem. Sed utrum huic instituto
pugnat, ægrè ferre aliquid , an uerò morsid abolet? Quanta pars immenſi infiniti
ę ui attributa eſt unicuiq? celeriterea in æternitate euaneſcit. Quanta pars
universi? Quantas est univers? quantula in glebula terræ repis? Hæc omnia tecum
cogitans, nihil animo magnum conci pe, hoc tantum , ut ductu naturæ agas,
&feras quæ communis fert natura. Id cura, quomodomens tua ſeipſa utatur. In
hocenim ſunt omnia. Cætera fine à uoluntate dependeant,quc ſccus, mor tua ſunt,
fumus. Id maximè ad contemptum mortis facit, phi ét ,qui dolore in malis,
&uo luptaté in bonis duxerüt, tamen ea dei fpexerunt. Quiid tantùmboninom
nc dignatur, quod eft opportunum , ac cui perinde eſt pluresne an pauciores
fecundum rectam rationem præftiterit actiones,negin aliquo ponit diſcrimi
ne,lógioréné an brcuiori tempore mű dum contempletur, ei mors nequaqua eſt
terrori. Heustu, ciuis fuiſtiin hac magna urbe, adattinet, utrum quinquénio? Etenim
quod secundum leges, id omni bus est æquum. Quid ergo grave accidit, si te urbe
emittit dominus. Non is quidem iniustus iudex, sed natura quæ te introduxit; perinde
ac fi prætorhi ſtrionem emitrate theatro, in quod cum introduxerit. Quod fi is
dicat, fenon quinque, sed tres modo actus recital fe, recte dicet. Atvero in
vita tres actus fabulam implet. Finem enim is determinat, qui et concretionis
olim fuit et nunc est dissolutionis autor. Tuneutrius es causa. Discedeigitur
æquo animo. Nam. &is qui te dimittit, propicius tibi est. Riconosco da
Vero, mio avolo, la piacevolezza de’ costumi e'l non adirarmi. Dalla
riputazione e ricordanza di mio padre una modestia virile. Dalla madre, la
pietà verso gl'iddii, la prontezza nel donare ed il contenerini non solo
dall'onprar male ma dal fermarmi cicziandio col pensiero. Ancora la semplicità
nelle vivande e l'esser lontano dal vivere dovizioso. Appresi dal bisavolo di
non frequentare le pubbliche ragunanze, e di valermi in casa di buoni maestri,
col conoscere che in questo è di mestiere lo spendere senza risparmio.
Dall'aio, di non parteggiare ne co' prasiani ne co' veneziani, ne co’ palmulari
ne con gli scutari. Ditrava gliar volontieri, d'abbisognar di poco, d'operare
da me medesimo, ne di troppo infaccendarmi, e difficilmente ammetter le
calunnie. Da DIOGNETO, di non perdermi in cose vane e non prestar fede a ciò chei
prestigiatori e gli stregoni dell'inicantare e discacciare le demonia e di
altre cose tali si vantano, di non nutricare coturnici ne perdersi circa si
fatti trattenimenti, di sopportare l'altrui libertà del parlare, D'ESSERMI
FATTO DOMESTICA LA FILOSOFIA, l'haver udito primieramente Bacchio, appresso Tandaside,
Marciano, l'haver composto nell'era puerile dialoghi, e di contentarmi di uni
letticciuolo e di pelle e di tutti altre cose alla greca. Da Rustico: di formar
in me concetto che i miei costumi habbiano bisogno di correzione, e di coltura,
di non divertirmi all'imitazione de' sofisti, di non comporre sopra MATERIE
SPECULATIVE e di distendere orazioncine efore tative, overo con altrui stupore
ostentare di esser huoino di A vita rigorosa e benefico, di lasciar la
rettorica, la poetica e l'elegante parlare, e no andar con l'abito solenne per
casa ed usar si fatte cose, e discriver letteruzze semplicemente, come da lui
medesimo fu scritto da Sinoessa a mia madre, di rendermi senza indugio
reconciliabile co’ quelli, che danno qualche disguſtoso commettono qual che
errore, subito ch'e'volessero ritornare al buono, nella lettura non contentarmi
di passarla superficialmente ma con accuratezza, di non esser inconsiderato in
dar l’assenso a ciarle e che leggessi i commentarii d'Epitteto, prouedendomi
d'un esemplare di quelli ch'egli teneva in casa. Da Apollonio, il proceder con
franchezza, con una ferma costanza senza vacillare e non rimirare ad al ître
por grande che fosse, che alla ragione e l'esser sempre il medesimo ne' dolori
più acerbi, nella perdita della prole e nelle lunghe malattie, dal vivo esemplo
di lui riconobbi che può l'huomo esser fiſo e inficmemente rimer ſo . Era egli
non tedioſo nello fpiegare;e ſcorgeuafi vn huo. mio, che riputaua ben chiara
mente l'infima delle ſue doti la pratica , e ſpedita maniera dello ſpiegare i
Theoremi . Da lui ancora imparai come biſogni riceuer dagli amici le grazie ,
ſenza rimanerne perciò oppreffo,nemeno co me inſenſato ſprezzarle. Da Seſtola
piaceuolezza el'eſempio d'vna.caſa guida ta con carità: Il proponimen to di
viuere fecondo natura: Vna grauità ſenz'affettazio ne:L'inueſtigare attentamen
te il guſto degli amici: Il tollerare gl'idioti, e quelli, che opinano ſenza
conſiderazio ne:L'effer con tutti confacce uole, ficchè la sua conversazione
aggradiua aſſai più di qualſivoglia anche luſinghe uole adulazione; ed era in
quello ſteſſo tempo ſomma mente riyeriro da quelli , che feco erano: E di più
yna ap prenſiua nell'inuentare,e diſ porre con buon ordine le maffime
neceſſarie al viuere . Non moſtraua mai alcun fe gno ne dira,ne d'altro affetto
maera aſfai lontano da tutte le passioni; ed inſieme eglice lebraua, e lodaua
gli altri, ma ſenza ecceſſo ; ed era di gran sapere senza ostentazione. Da
Aleſſandro Gramatico, il non ilgridare, ne riprén dere ingiurioſamente , ſe al
cuno cometteſſe Barbariſmo, o Solleciſmo, o altro,chenon bene fonaua ; ma con
bella maniera ſuggerire quel tanto appunto , che ſi douea dire , apportandolo
per cagione di riſpoſta , di confermamento , o di conſiderazione ſopra la coſa
ſteſſa, non ſopra la paro la, o con qualch'altro manie roſo , e coperto
auuertimento , 9 Da Frontone imparai qual ſia il tirannico liuore, la frode, e
la doppiezza;e come tutti quelli chiamati da noi “patrizi” sieno in certa manie
. m A 4 ra disamorati. D’Alessandro il platonico,non iſpeſſo, ne ſenza ne
ceflità il dire , o fcriuere ad alcuno di non hauer punto di reſpiro; e per tal
modo ſpeſſo eſentarſi dalle conuenienze che per l'affetto ſono douute a quelli,
che con noi viuono ſotto preteſto , che li negozi ciaſſediano. Da CATULO di non
havere in poca stima le querele de gli amicisancorchè foffero ir ragioneuoli ;
maprocurare di ritornarli nel solito stato ; CO , sì ancora di celebrar di cuo
re li precettori;le quali coſe fi rammentano di Domizio, e di Athenodoto :
Finalmente di amare con vero affetto i figli uoli. Dal mio fratello Vero
l'affezione verso i domeſtici ; l'amor della verità e della giuſtizia . E per
fuo mezzo hebbi notizia di Traſca, Elvidio, CATONE L’UTICENSE, Dione, e MARCO
BRUTO; c mi formai nell'immagina zione vn reggimento di Re pubblica , con leggi
eguali a ciaſcuno , e di vn Regno, che antepone ſopra tutte le coſe la libertà
de' ſudditi . Dal medeſimo appreſi la negli genza difeſteiro, e la coſtan za
nel PREGIAR LA FILOSOFIA, anteponendola a ciascun'altra cosa; e la beneficenza
e la liberalità, non mai intermessa, lo sperar sempre bene e l’asicurarmi di
esser AMATO DAGL’AMIICI. Non taceva, lasciando di fare la correzione a coloro,
che conosce la meritassero sicchè a quelli , A 5 che gli crano caduti di grazia
non lo tene celato. E non bisogna alli suoi amici conghietturare intorno a
quello ch'egli voleva o non voleua, ma la di lui volontà e apertamente palese.
Fu eſortazione di Massimo esser padron di se stesso, non lasciarsi aggirare in
cosa alcuna ed esser di buon animo in tutti gli altri accidenti, ancora nelle
malattie. Esser ben aggiustato ne' costumi, foane e onorevole e senza
querimonia esecutore delle cose proposteli. E che tutti credessero ch'e' PARLA
COME SENTE e che nel fare in nulla male opera. Di niente si maraviglia terriua:
in niuna cosa e frettoloso o tardo o perplesso , i ne s'at accdioso o si faceva
befe fe o vero era collerico o sospettoso, ma benefico, indulgente, e verace, e
pare ch'e'e più tosto retto per natura, che corretto per istudio, ne giammai
alcuno si tene da lui disprezzato ne manco presume di stimarſi di lui migliore e
ſe fu faceto fu con modo. Appresi dal padre addotivo, l’imperatore ANTONINO
PIO, la mansuetudine e la stabilità nelle cose già con esaminamento deliberare,
di non esser vanaglorioso negli onori di apparenza ma amatore della fatica,
operando di continuo, e di eſſer pronto ad v dir quelli che hanno da suggerir
cose PER UTILE COMUNE, Iin mutabile in
dare a ciascuno quello che ſecondo il proprio merito gli era dovuto, ed esser
discreto ad usar il rigore, come la moderazione, dove bisogna. Non era egli distratto
con l'affetto verso de giovani ma al pubblico totalmente intento. Non merte GLI
AMICI in necessità che feco cenassero ne bisogna che lontano peregri nafiero
per lui, però lo trovano l'istesso quelli che per qualche necessità erano rima
Ai indietro. E ricercatore ne'consigli esquisito e fermo. Non s'attacca ad ogni
sufficiente indagazione delle opinioni che gli occorreno. Attento e a conseruarsi
GLI AMICI de quali mai non si attedia ne pazzamente amavali e si contenta
d’ogni cosa con volto sereno. L’antiuedendo , e preordinando di lontano,
eziandio le coſe minime senza strepito. Non vuole sentirsi d'attorno ne
acclamazioni ne adulazioni. Tenendo in buona guardia le cose necessarie al principato,
e sempre provveduto di ciò che a quello fa mestiere, sopportando con pazienza
se di questi e simili rigori viene tacciato. Non e superstizioso circa gl'iddii
ne quanto agli huomini troppo popolare, cattando l'aura della plebe, ma in
tutto attento, e ſodo, non dimenticando mai il convenevole. E quelle cose che
conferiscono in qualche modo agli agi della vita delle quali la fortuna gli
tera stata liberale ;vfaua ad un’ora senza fasto , e iſchiettezza , dimodo
ch'egli godeua indifferentemête del le preſenti , non bramando ciò chenon
haueua . Non vi fu alcuno ; che diceſſe di lui che fosse Sofista, o Caſalingo o
pedante ; mavn perſonag gio maturo,perfetto ,ſuperio . re alle adulazioni ,
capace a gouernar ſe ſteſſo e gli altri ; ed oltre ciò onoraua quelli , che
veramente eranoFiloſofi; tuttauia non dileggiava gli altri.Era di più nelle
conuer fazioni huomo compagncuo le, egrazioſo, peròfenza te dio.Del proprio
corpo tene ua cura quanto conueniua , non come huomo del tutto dedito a
prolungare la vita , o per fare il bello , però ne meno con traſcuraggine , ma in
maniera tale, che col propio riguardo aſſai rade vol. te haueſſe biſogno di
medi camenti , o al di fuori epitçi marſi. E ſpezialmente cedeua ſenza inuidia
a que’tali, ch'e rano dotati di qualche facul tà , come a dire , o di ben lare
, o dinotizia per via d'if toria, foſſe di leggi, o foſſe di coſtumi, o di
altre fi fatte co ſe; anzi ſtudiauaſi che ciaſcu ņo ſecondo il proprio talen to
acquiſtaſſe nome e crediato . E facendo ogni coſa ſe condo gl'inſtituti
de'maggio . ri,non perciò veniua ad appa fire rigido guardatore dell'
antichità, non efſendo amico di muouerſi leggiermente , ſuariare,ma di
diinorare ſem pre ne'medeſimi luoghi, ed affari . E dopo i paroliſmidem dolori
di teſta tornania ſubito freſco , e vigoroſo alle ſue ſoli te operazioni.Egli
non hauea ua di molti arcani , ma po chiſſimi , molto radi, e queſti ſolamente
circa gli affari del comune . Andaua con pru denza , e miſura nel conce dere gli
ſpettacoli, nelle fab briche pubbliche, e congia rij , e ſimili opere , fi come
colui, che riguardava a quel to , che conueniuà di fare e non alla gloria , che
dal te coſe fatte ne era per ri fultare : Non vſaua bagni fuor di tempo ,non
era vago di edificarc, non inuentore di viuande, ne di teſſiture, etine ture di
drappi, ne ambizio fo di ſeruirù di bella preſen za . A Lorio ýſaua la tonica
cheſe gli prouuedcua dalla balla villa , e così sſana ordinariamente per
Lanuuio : ma nel Tuſculano per ſoprauue fta yn tabarro ; e di tal licen za ne
faceua come ſcuſa . Era inſomma tale il ſuo tenor di viuere, non diſguſteuolc,
non iinmodefto , non eccedente nelle ſue azioni , ne comeſi dice in prouerbio ,
Infino al ſudore ; ma tutte le coſe fue ſi annouerauano così ben dif poſte ,
come ſe foſſero fatte a bellagio , placidamente, or dinatamente, con ogni vigo
re , e conſonanza fra diloro . Onde a propoſito di lui ſi po teua dire , ciò
che di Socrate ſi racconta ch'egli poteua aſtenerſi, e goderſi di quelle coſe,
delle quali molti, e ncll? aftenerſi s' indeboliſcono , e nel goderle ſi
moſtrano in temperanti. Ma l'eſfer padro 3 nic di ſe , e lo ſtar ſaldo , e sobrio
nell'vno e nell'altro , è da huomo, che ha l'animo ben aggiuſtato , ed inuitto
, come ſi vide nella malattia di MASSIMO. Dagl'Iddij riconoſco l'haucr hauuto
buoni auoli, buoni genitori , buona ſorel la , buoniprecettori, buoni dimeſtici
, parenti, amici , e quaſi ogni coſa buona : che, niun di loro inconfiderata
mente io offendeſfi , benchè con tal natural diſpoſizione', che ſe foſſe venuto
il caſo , io vi farei traboccato . Tuttauia per grazia degl'Iddij non ſe gui
tal combinamento di co le , che ſi diſcopriſſe queſta mia inclinazione: E che
io no foſſi più lunga mente alleua to appreſſo la concubiņa di mio auolo , come
dell'hauer conferuata immacolata la mia pubertà; e che io non mi riſentiſsi
d'eſſer in età virile prima del tempo, anzi in ol tre d'hauer indugiato dopo
che io peruenni a quell'età : L'effereſtato ſoggetto ad un Principe padre , il quale
era per farmi por giù ogni altcri gia, e per farmi appréderc che ſi può viuere
in Corte ſenza che ſieno necaffarie le guardie , le veſti ſegnalate , le
cerimonie delle fiaccole, e delle ſtatue, o altro ſimile ap parato ; ma che ſia
lecito il trattarſi sù l'andare di priua to,ne quindi auuilirſi , o de primerli
per far quello , che conuiene ad vn Principe in riguardo del pubblico go uerno
· Ancora d ' efformi tocco in forte vn fratello tae le , che poteua co’ſuoi
coſtu. mi eccitare in me vn eſatta cura di me ſteſſo , mentre in- : fieme con
l'onore , e con l'a more mi ricreaua : D'hauer hauuto figliuoli d'indole non
tralignante, ne di corpicciyo lo mal fatti: Che io non fa ceſſi maggiori
progreſſi nella Rettorica , e nella Poctica, o in fi fatti ſtudij , ne'quali
for fe mi ſarei troppo ſuagato, ſe mi fofſi auuiſto che in quelli felicemente
m' auanzaua : Che io preueniſſi di colloca re nelle dignità i miei edu catori ,
concioffiecoſa che mi pareua eli lo defiaſſero , non nutrendoli di ſperan za ,
come che cffendo ano cora giouani poteſſero al pettare quello che poſcia io era
per fare : Parimente d'ha uer io conoſciuto Apollonio, Ruſtico , e Maſsimo :
Che ſo uente , e chiaramente mi li presétaſse nell'immaginazio nc la forma
della vita c011 ueniente alla natura . Onde', per quanto appartiene agli Iddij
per le ammonizioni,as ) iuti, ed iſpirazioni da eſsi co partitemi, non vi è
ſtata coſa , che mi tolga il viuere rego lato alla natura , o che'l man camento
non proceda al tronde , che permia colpa, e per non offeruare io gli au
uertimenti, de'quali fui da lo ro come addottrinato : Che: il corpo mio fia
durato nella ſorte divita , che io ho menato: Di non mieſſer non ſolo accoſtato
ne a Benedetta, ne a Theodoto ; mache ancora dopo dalle paffioni ' amore ho
conferuato la men te fana : Che ſpeffe volte tro uandomi adirato con Ruſtico io
no fia traſcorſo tantoltre , che me ne habbia hauuto a pétire:E che giacchè mia
ma dre era per morir giouane, io viuuto ſia cô eſſa inſieme ne glivltimi anni
ſuoi.Ogni vol ta che io habbia voluto fou uenire il pouero ,o qualunque altro
biſognoſo, non vdij mai che i denari , co’quali poteffi ciò fare mi mancaffero
; ne mai accadde tal’vrgenza, che io da altri gli accattaffı. D’ hauer
conuerfato con vna moglie tanto riuerente , tan .. to amoroſa, e tanto ſchietta
: Che ho haluto buona forte negli educatori per li figliuo li: Che in
ſognomifieno ſtati fuggeriti molti rimedij, prin cipalmente quello allo ſputo
del fangue, e quello alla ver tigine; di ciò hebbi la grazia in Gaeta ed anco
in Chre fa: Che, eſſendomi io dato al l'acquiſto della Filoſofia, non
m'abbattei in qualcheSofiſta; ne conſumai il tépo in iſqua dernare ſcartafacci,
ne in or dire , e ſoluere fillogiſini ; ne mi ſmarrij tra le quiſtioni
meteorologiche . Queſte co fe tutte riconoſco dall'aiuto degl'Iddij, e dalla
loro for tuna ; dimorando io nel pacſe de' Quadi preſſo il fiu me Granua. Di
bel mattino ho così da predire a me ſteſſo: E’faci le che io m'incontri in tale
, che ſia o importuno , o diſ grazioſo, o proteruo, o malizioso o invidioso , o
nemico di ogni comunanza . Tutti queſti difetti prouennero in eſsi
dall'ignoranza del bene', e del malc ; ma hauendo io notizia della natura del
be ne, che è l'eſfer'oneſto ; e del male, che porta al no oneſto ; ed eſſendomi
inſiememente nota la natura di chi nel male pecca , poſciachè egliè a me ,
cõgiunto no tanto per la ſimi. gliáza del ſangue, e della ge nerazione, quanto
per la mé te , la quale è comeporzione, della diuinità , ne ho da trar re
conſeguenza ,che non pof lo rimaner leſo da alcuno de detti
difettuoſi;concioffiecofa che niuno mi auuilupperà cô le ſue ſconueneuolezze; e
non ho da ſdegnarmi con chi è a me congiunto neodiarlo , im perocchè ſiamo
fatti a fin di cooperare, come li piedi , le mani, le palpebre, e de i den til'ordine
di ſopra con quel di ſotto . Il contrariarſi dun que l’yno all'altro è contro
all'iſteſſa natura , e l'adirarſi , e lodiarſi è vn contrapporſi. Tutto
quell'eſſer mio ſi ri ſolue ad vn pezzo di carnuc cia , ad vno ſpiritello , ed
al la parte ſuperiore , ch'è la mente. Laſcia da parte i libri, ne coſa alcuna
ti diſtragga . Ciò non t'è permeſſo: ma co me sul'orlo della morte ſprez za
quella carnuccia, che con ſiſte in ſanguuccio, oſſetti, ed in vna teflitura
tramata di nerui, venette , ed arterie . Conſidera ancora che ſia lo ſpirito ?
aura che mai non ri mane ľifteffa ; ma ognora B fuori ſi ſpira , e reſpirando
di nuouo li attrae.La detta terza parte dunque di noi è quella, che ci gouerna
, circa della quale così hai da diſcorrere , Se' vecchio non hai da com portare
che queſta più viua in servaggio. E che ſia più per violenza ſtraſcinata dall'
im peto , ch'è alieno dall'huma na comunicazione ; e che non fi prenda più
faſtidio di quello, che cagioni il fato al preſente, o in auuenire . L ' opere
degl'Iddij tutte fon ri piene di prouidenza; e quelle della fortuna non ſono
ſenza concorfo della natura , o del la coordinazione , ed intrec ciamento delle
coſe guidate dalla prouidenza. Quindi tut to ſcaturiſce. Aggiugni anco ra, che
così èneceffario , conferendo all' vniuerfo Mondo, del quale tu se porzione e
ad ogni parte della natura è buo no quello che porta la comu ne natura ; e ciò
che s'affà al la di lei conferuazione - Però con feruano il Mondo così le
mutazioni degli elementi,co . me quelle de compoſti. Que Ite coſe a te ſieno
ſufficienti , e perpetui decreti . Caccia ľ auidità de'libri per non mori re
fufurrando , ma con vera placidezza , ringraziando di tutto cuoregl'Idddij . Ammcntati
da quan to tempo in quà se? andato differendo queſte co ſe; e quante volte de
termini, a te aſſegnati da gl'Iddij , non ti ſe’valuto.Biſogna vnavolta che tu
riconoſca di qualMon do ſij parte ; e da qual Rettor del Mondo deriui : E come
ti è ſtato circonſcritto yn termi ne di tempo , il quale, ſe tu ben non te ne
varrai per tran quillarti , trapaſſerà, e tu con esso, leſſo;ne ritornerà più .
2 Sta totalmente, e in ogni tempo intento, come conuie ne ad yn Romano d'animo
forte , e maſchio , ad ele guire quello , che hai tra ma no , con attenta , e
non affet tata grauità , con humanità con libertà, con giuſtizia, con dar poſa
a te ſteſſo, rimo uendo ogni altra immagina zione ; E allora la rimouerai ,
quando facendo qualche a zione riputerai eſer l'vltima della tua vita , lontana
però da ogni temerità , e da ogni appaſſionata auuerſione alla retta ragione ,
dalla diſſimu lazione e dall'amor di te ſteſ ſo , e da qualſiuoglia diſpia
cenza alle coſe a te per fatali tà congiunte . Tu vedi quan te poche ſiento
quelle coſe , le quali poffedendo , potrà vno viuere felice , e diuina vita ;
poſciachè gl'Iddij niente di più domanderanno a colui , che queſte tali coſe
oſſerua 3. Rimprouera, o anima,rim , prouera a te ſteſſa , come t'è ſcorſo il
tempo per propria mente honorarti, eſſendo che la vita comunemente ſe'n fugge
;ela tua è già quaſi su I'vltimo, riponendo la tua fe licità nell'opinione
degli ani mialtrui . 4 Perchè fe diſtratto dagli ac . cidenti
ch'eſtrinſecamente di foprauuengono? Proccura del l'ozio a te ſteſſo , per
appren dere qualche bene ; e ceſſa da aggirar la mente. Inoltre hai da
guardarti da vn'altro ſua . ria mento : Imperocchè alcu , ni quaſi delirano con
le loro aziani : cioè quelli , che tra uagliano aſſai nella vita , ne hanno
fine certo , doue indi rizzino ogni inclinazione , e tutta quanta la loro imma
ginazione . $ Non fi vedrà facilmente alcuno eſſer infelice , perchè non
comprende quel, che ſe gua negli animi altrui: ma è Forza cheinfelici fieno
quelli che non offeruano i moui menti del proprio animo. Egli èmeſtiere che ti
ri cordi fempre delle coſe ſe guenti: Qual fia la natura de principij
vniuerfali, e quale la propria ; ecome ſi riferiſca quefta a quella , equal
parte ellaſia, e di qual vniuerfo : E cheniitno impediſce , che tu del continuo
non facci, e non dichile cofe congruealla na B · til tura , della quale tu
ſe'parte. Filosoficamente diſcor re Theofraſto intorno al far comparazione
de'peccati , fe condo che più comunemente fi vſa tal paragonc , afferendo efſer
più graui quelli ,che per la concupiſcibile fi commer tono , di quelli, che per
l'ira fcibile . Imperocchè l'adirato con qualche dolore, e occulto
raggricchiamento dell'animo pare che ſi diſcoſti dalla ra gione; doue quegli,
che pec ca per la concupiſcenza , vin to dal piacere , dimoſtra che in certo
modo più da intem perante ,e più da effeminato fdruccioli nel peccato. Retta
mente dunque, e da filoſofo proferì, maggior colpa incora rere chi pecca con
piacere , che qucgli, che pecca con dia ſpiacere : E in ſoinma l’ynos" assomiglia
più a colui che per innanzi habbia ricevuto qual che ingiuria , e che, forzato
dal dolore, entra in collera;l altro ſpontaneamente fi muor ue all'operare
ingiuſtamente , portato a ciò fare dalla con cupiſcibile. 8 In tal modo hai da
con durre P opere , ei penſieri , come tu foſſi in punto per vſcir di vita . Ne
il dipartirti dagli huomini ti ha dapeſa re; poſciachè, eſſendoci gl'I &
dij , quefti non poſſono mai indurre al male; fe poi gl'Iddij non ci foſſero ,
o nonhaueffen ro alcun penſiero delle coſe humane , che mi giouerà di viuere in
yn Mondo manche : uole degl'Iddij , e doue mans chi la prouidenza ?Ma e gl'Id
BS dij cifono , ea cura loro ſono le coſe humane; e acciocchè lº huomo non
cadetle in quello che veramente è male , il tut to ripoſero nel ſuo volere .
Nell'altre coſe , ſe vi fofle del male , haurebbero pure in torno a queſto
prouueduto , a cagione che niuno mai vi pericolaffe. E in vero quello che non
può render la perfo na peggiore , come potrà far peggiorela vita ſua ?La natura
dell' vniuerfo ne ignorante mente , ne ſcientemente , ma per non poterle
preferuare,ne taddirizzare le haurà trafcura te Ella certamente non com miſe sì
enormepeccato , oper mancanza del potere , odel fapere, che i beni, eimali ac
cadano vgualmente , e indif ferentemente agli huomini buoni, e a imaluagi
;giacche la morte e fæ vita la gloria e'l disonore , il trauaglio e I pia cere
la ricchezza e la pouertà ; e così fatte coſe auuengono vgualmente agli huomini
si buoni , si cattiui, non hauen do elleno in ſe nedell'oneſto ne del
difoneſto; dunque non portano feca ne bene , ne male O come il tutto ben pre
fto ſuamiſce!NelMondo i pro prij corpi , e dopo anche col tempo le memorie di
effi fi dileguano . Di tal condizio ne fonotutte le coſe ſenſibilis e
ſingolarmente quelle, che adefcano col piacere', o che atterriſcono col
tranaglio , o per lo faſto ſono applætrdite , quanto fonovili,diſpregevo Li,
fordide , e facili acorrom B 6 perſi,e già boccheggianti ? 10 Tocca alla
facultà intel lettuale l'auuertire , che coſa fieno quelli, nelle opinioni, e
voci de'quali fi conftituiſce la gloria : Che coſa ſia il morire; il quale, fe
alcuno il contem pla per ſe ſteſio ſolamente ; e conla diſgiunzione della con :
fiderazione ne ſepari tutte l? immaginazioni, che con effo vengono
rappreſentate, com prenderà non eſſer altro , che yn opera di natura : Onde da
fanciulletto è l'atterrirſi ad vi opera della natura ; e pure il morire non
ſolo è opera + zione della natura , ma molto a quella conferente: Come s?
vniſce l'huomo a Dio ; e con qual parte di ſe , e con qua ! maniera ancora tal
particella dell'huomo all' ora è affetta e diſpoſta. II Niuno è più miſerabile di colui che
s'aggira per tut to a rintracciare ogni coſa, e Va razzolando comecolui dice
fin nelle viſcere della terra ; e an cora va cercando per con ghietture quello
, ch'è negli animi altrui, non accorgen doſi che gli ſarebbe a baſtan za di
paſſarfela bene col ſuo genio , e riuerentemente ſe condarlo , eſſendo dentro
di lui . Queſta offeruanza però conſiſte nel preferuarlo puro dalle paſſioni,
dall'eſſerarro gante, dalli diſguſti,che ſi pi gliano per quello che venga da
gl'Iddij, o dagli huominis concioſliecoſa checiò, che vi: ene dagľ Iddij per la
virtù s ? ha da venerare;quello cheda: gli huomini, s’ha da amare per la
congiunzione della natura: anzi alle volte in yn certo mar do fono degni di
compaſſione , per non conofcere il bene , e il male; ne queſta ignoranza è
minore dell? offüfcazione di poter diſcernere il bianco dal nero. Eziandio che
tre mila anni ti rimaneffero a viuere e di più altrettante decine di migliaia'
, nondimeno ricor dati che niuno perde altra vita, che quella , cħeviue', ne
altraviue;che quella cheper . de .. Al medeſimo dunque fi riduce così la vita
funghiffima, comela breuiffima . Perchè quello , ch'è preſente , a tutti &
vguafe,benchè quello , ch'è perduto, a tuttinon è va guale ; ecosì quello, che
& perde , pare chefiavn attimo folo. Imperocchène il paffatoy, neil futuro
da niuno ſi perde; concioſliecofa che quelloche non ſi ha , come può eſſere
tolto da veruno? Però dique ſte due coſe è da ricordarſi : l'vna, che
dall'eternită tutte le cofe fono ſtate ſimili , vol. tandoſi in giro , e non
v'è niu na differenza, ſe per cento , o per dugento anni, o pure per tempo
indeterminato vedrai le medefime coſe : La ſecon da è, che colui, che lunghiſſi
mamente ville, come quegli , che preſtiſfimo muore, refta no pareggiati nella
perdita , mentre non vengono a rima ner priui, chedelpreſente , il quale ſolo
hanno, eciò, che non fiha, non ſi perde. Ogni coſa ſta nell'opia nione, il che
appariſce mani feſto dalli diſcorſi con Monimo Cinico . E chiaro farà l've tile
di queſti diſcorſi, ſe da quelli ſe ne coglierà il midol lo della verità. Oltraggia
ſe ſteſſa l'ani ma dell'huomo:Primieramen te allora che, quanto è per 0 pera
fua , diuenta yn’apofte ma , o ghianduccia delmon do;mentre che chiunque mal
volentieri prende quello , che il tempo porta , è vn ' diſtacs camento della
natura, in par te della quale le nature di cia . fchedun degli altri ficonten
gono:Secondariamente ,quan. do ſi ha auuerſione a qualche huomo , o ſe gli
opponeper danneggiarlo , come fanno que', che ſi adirano : Nel ter żo luogo
tratta male fe me deſimaallora , che ſi arrende al piacere , o al dolore : Nel
quarto, oue diſſimulando fina tamente,e ſenza verità, qual che coſa fa , o
dice: Nel quin to , quando non indirizza l' azioni fue , eiſuoi moti à niun
ſegno; ma opera a cafo , e ſenza congruenza ; effendo neceſſario che ancora le
coſe minutiſſime habbiano rela zione al lor fine. Ora il fine degli animali
ragioneuoli è di ſeguire la ragione, e la leg ge della Città , e dell'anti
chiſſimo gouerno. Il tempo dell' humana vita è vn punto : la ſoſtanza
fluſſibile : il ſenſo caliginoſo: e la coagulazione di tutto il corpo facile a
putrefarſi:lani moyn continuo rigiro: la for tuna difficile a conghietturarm
fi: la fama vna incertezza E per recare
le inolte parole in vna : tutte le coſe corporali vna corrente, quelle dell'ani
ma vn ſogno , e vn fuina d'ac qua: la vita yna guerra , e vor pellegrinaggio di
vn viandan . te : e la famapoftuma farà di menticanza . Checofà è dun que , che
pofſa fare durare 1 huomo Una sola la
Filosofia ; e queſta conſiſte nel con feruare l'interno genio inno cente e
ſenza taccia ,ſuperio re a ' piaceri , e a ' dolori; che niente operi
temerariamente , ne con bugiane con finzione: e che non habbia biſogno , che
altri faccia , o non faccia . In oltre , che ben ricetia ciò , che auuieneso
impoſto gli ſias come di là tutto auuenga , donde egli medeſimo è ve nuto; e
ſopra tutto cheaſpetti la morte con animno ſërena , non : nonla confiderando ,
che co mevn diſcioglimento degli clementi, de'quali qualſiuo glia animale fi
compone. E ſe agl'iſteſſi elementinon è ma. lala mutazione continua ,che ſi fa
di ciaſcuno di eſli in vn altro , per qual ragione hafli a temere la mutazione,
e il di fcioglimento di tutti inſie me , giacchè è conforme al la natura e niente
è male , eſſendo conforme ad effa ? Fin qui a Carnuto. Ccoveredt gde jeunesse
eos POS. Non è ſolamente da confiderare che la vitaſi va di giorno in giorno
conſumando ; e che di eſſa ne rimanc il meno ; ma quel lo ancora fi vuole andar
ri penſando , che quantunque yno viueffe eziandio d'au uantaggio , pur reſta
quegli incerto ſe ſia per durargli la mente habile alla buona in telligenza
degli affari , e di quella ſpeculazione , che ri chiede nel trattare le coſe
humane , e diuine: Imperoc „chè fe comincierà perauuen . zura l'huomo a
delirare , non perciò gli mancheran forze , ne il reſpiro , ne la facultà del
nudrirſi, ne l'immaginatiua , ne gli appetiti ,ne ſimili altre potenzc; ma
s’eſtinguerà ben ſi affatto in lui quella del po terſi di ſe ſteſſo valere , e
di perfettamente adempiere le parti del ſuo miniſtero, e di chiaramente
ſpiegare i con cetti dell'animo , e di confi derare altrui , fe tal volta debba
a ſe medeſimo dare la morte ; e tutti finalmente quci ſimiglianti affari, i
quali per ben riſoluere richiedel vn perfetto , e raffinato di ſcorſo.E'dunque
da non iſtar fone a bada , non ſolo perchè la morte ſempre più s'appref ſa , ma
perchè in oltre il ra ziocinio , e l ' intelletto noi fpeffe volte abbandonano
innanzi alla morte. E'ancora da oſſeruare,che tuttociò, che alle coſe già dal
la natura prodotte ſoprattuie ne , aggiugne loro yn certo che di bellezza , edi
grazia ; comeper eſemplo, quando il pane ſi cuioce , infrangonfi, e in varie
guiſe apronfi four? eſſo alcune particelle di cro ſta , che fuor della creden,
za , ed arte del fornaio co sì ſcrepolate con particolar compiacimento muouono
P appetito. Così a i fichi, quan dogià ben maturi rompeſi la camicia ; e
allylive ſtagiona te , mentre principiano a pu trefarſi , fi viene ad accreſcere
in tal particolare alletta mento: le ſpighe , che per lo pelo s' inchinano , il
ſopraci glio del Lione, la baua, chc1 Cignale ſchiumando getta dal grifo , e
altre coſe , delle quali , ſe ciaſcuna riguardaſi da per fe , appariſce lontana
da ogni bellczza ,per lo effe re all'opere della natura con giunte, recano a
queſte orna mento , e agli animi deri guardanti diletto ; Ondechi ha l'affetto
e la conſiderazio ne intenta intorno a ciò, che vien prodotto nell' vniuerſo ,
quafi niente troverà anco nel le cofe, che a quelle addiuen gono, come
neceſſarie pendi ci , che con qualche buona grazia non le veda congiu gnerfi. E
così i veri digrignan ti grifi de viui animali non con ininor piacere rimirerà
, che quelli, che con iſcherzo dalla pittura, e dal rilieuo ſo no
rappreſentati; e vn certo vigorc , e vna certa maturità d'vna vecchia , o d'vn
vec chio , non che la venuſtà de? fanciulletti , potrà con ben purgata viſta
rimirare; e mol te ſimili cofe , che non ad ogn’vno ſaranno accette ; ma ſolo a
colui , che finceramen te ne'ſegreti,e nell'opere del la natura ſi ſarà
internato . 3 Hippocrate , che haueua fanati molti infermi', amma latoſi egli
ſe nemorì : I Cal-, dei a molti prediſſero le mor ti , ed eſſi poſcia furono
dall : ora fatale portati via : Aler ſandro , Pompeo, e Caio Ce fare , hauendo
intiere Città del tutto , e tante volte di ſtrutte , e tagliate a pezzi in
battaglia molte decine di migliaia d'huomini tra fanti , e caualieri, eſſi
ancora alla fi ne vſcirono di vita : Heracli to , dopo hauer con diſcorſo
naturale trattato dell'incen dio del Mondo , gonfio le vi ſcere d'acqua ,
rauuolto in iſterco bouino, finì i ſuoi gior ni : Democrito da i pidoc chi ,
Socrate da altri vermi reſtarono eſtinti. A che quc ſti racconti ? Entraſti in
bar ca, nauigafti,approdaſti: Eſci fuora , e ſcendi; ſe pervn'al tra vita , iui
ancora faranno gl'Iddij , eſſendo quclli per tutto " ; ſe reſterai
ſenz'alcun ſenſo , ceſſerai d'eſſere.ratte nuto tra i trauagli, ed i piace ri ,
e di feruire ad vn vaſel letto tanto inferiore, quanto la porzione è ſuperiore
a quello , a cui ella ferue . Poi chè queſta è la mente , e il genio , doue
quello terra , e putredine . 4 Non conſumare queila parte di vita, che ti
riinane nel darti inipaccio,o penſiero de? fatti altrui, quando quelli non
riguardino all vtile comune; altrimente tu reſterai impac ciato in coſa da te
aliena, ro fiſticando , che faccia il tale , cd a qual fine e che dica , o
penſi, o macchini, e altre co ſe ſimili, le quali ci fanno de uiare dall'
offeruanza della parte , ch'è la propria di cia fcuno reggitrice . Concioffie
coſa che biſogni nel diuilare ľ immaginazione , sfuggire ogni penſiero
intempeſtiuo , e vano , e molto più quello , che habbia del vizioſo e del
maluagio : Alucfare ancora vuolſi ſe ſteſſo a penſare ſolo a quelli
particolari,de' quali, chi all'improuiſo t’interro gaſſe , che penſi tu adeſſo
? tu polla con franchezza riſpon dere , ſenza interporre tempo di mezzo ,
queſto , e queſto ; dalle quali riſpoſte ſubito manifeſtamente appariſca che i
penſieri tutti ſono in te ſchietti , manſueti , come conuiene a i viuenti per
l'hu mana comunicazione ; e che, tu non ſei applicato ' a i piace ri , ne a
qualſifia voluttuoſa immaginazione , non alle conteſc , non all'inuidia , o a i
ſoſpetti, o ad altro , per lo che tu ti hauefli da arroſſire , diſcoprendo
quello , che tu couaui per auuentura nell' C 2 animo . Giacchè vna perſona,
così coſtituita , è quaſi vno degli ottimi , qual facerdo te , e miniſtro
degl'Iddij,ſer uendoſi di quello, che den tro di lui riſiede Questo rende l'uomo
illibato e libero da i piaceri , illeſo da ogni trauaglio , intatto da ogni
ingiuria e ſenza vn mini mo ſentore di malizia , cam pione del maggior combat
timento , da non eſſer ab battuto da paſſione alcu na , intinto nella giuſtizia
in fino all'intimo , che con tut to l'animo ben riceue quanto auuiene , e
quanto per defti no gli venga compartito. Non iſpeſſo ne, fuori che in grandi
neceſſità , e che ſpet tano all' vtile comune , ri flettente a quello , che
altri ſi dica , o faccia , o penſi, ſolo da vn canto intento a ' proprij affari
, e dall'altro continu a mente attento a ciò, che per le contingenze dell'
vniuefo a lui tocchi; acciocchè s'in duſtrij di rendere quelli di bella oneſtà
compiuti , queſto reputi colmo d'ogni vtile e d'ogni bene. Concior ſiecoſa che
, quanto a ciaſcu no viene dal fato deſtinato , fia portabile , e del bene ſeco
portante . Ed egli tenga a mente , che a lui effcr dee fa migliare tutto quello
che ha del ragioneuole, e che la natura dell'huomo richiede, e che dee
applicare alla cura di qualunque ſi ſia degli aleri uomini. Però non ha a vo ler dipendere dall' opinione
così d'ognuno , ma ſolo di C 3 coloro, che viuono conforme alla natura ; e dee
offcruare quali ſieno quelli , che diuer famente viuono ilmodo, che tengono in
caſa , e fuori , il giorno, e la notte, e quali , e con quali conuerſando ſi me
ſcolino; Eper ciò non ſi ha ď hauer in alcun grado la lode di coſtoro , che ne
meno fe fteſli contentano. Non opererai come con tro tua voglia , ne come ſcor
dato del bene comune , ne ſenz' hauer prima ventilato efattamente l'affare, ne
ritro fo ; ne attenderai con bellet ti di vago dire a vanamente liſciare i tuoi
concetti , non effendo ciarlone, ne troppo faccendiero . Iddio , ch'è in te ,
preſieda al tuo viuere da perſona virile , e nell'età auanzata , e di vita
politica , e da nato Romano, e chema neggia gouerno . Sta in mo do tale
apparecchiato e diſ poſto che alla prima chiama ta tu ſij pronto di ſtaccarti
da i viui fi intero , che ti fia data credenza senza tuoi giuramenti o
teſtimonianze altrui. Queſt'vno non manchi , ch'è tal ſerenità nell'animo , che
non occorrono conforti efterni, ne di effere tranquil lato per opera d'altri:
s'ha dunque ad cſſer per ſe ſteſſo retto , e non raddirizzato . 6 Se nella vita
humana tu trouerai alcuna coſa migliore della giuſtizia , della verità , della
temperanza , della for tezza , e in fomma fe altro meglio , che l'eſſer l'opera
zione della tua mente sufficiente a ſe ſteſſa , acciò ca gioni , che tu operi
ſecondo la retta ragione, e in ciò, che non può dipendere dal pro prio tuo
conſiglio , al fato tu ti accomodi : ſe meglio dico di ciò tu truoui , od
iſcopri ,a quello volgiti con tutto l'a nimo, e godi dell'ottimo , che haurai
ritrouato . Ma fe nulla t'appariſce , che ſia inigliore dell'iſteſſo genio ,
che in te riſiede , il quale habbia sottomessi a se stesso i proprij mori
de'tuoiappetiti, ed eſamini le coſe. immaginate , e che dalle perſuaſioni, o
alletta mcnti de' ſenſi, come Socrate dicea , ſia diſtratto , e con 1 affetto
attento agli huomini , fi fia fubordinato agl'Iddij : Se di queſto trouerai
eſſere ogni altra coſa inferiore , e più vile , non dar luogo nclla mente tua
ad altra cofa veru na , alla quale vna volta che tu o propendendo , o decli
nando aderifli , ſareſti ferma mente impedito a poter libe ramente preferire ad
ogn'al tro il ſingolare , e proprio tuo bene ; non eſſendo giuſto che al bene
ragioneuole e operatiuo ſi contrapponga qualſiuoglia altro , che ſia in diuerſo
genere , come fareb be l'applauſo della moltitudi ne, o la dignità , o le ric
chezze , o il godimento de piaceri;tutte coſe le quali ha. uendo apparcnza ,
ancorchè in minimo , di adattarſi a noi, repentemente preuarranno , e ci
rapiranno . Ondeio ti di co , attienti fchiettamente , e francamente al meglio
; e С aderiſci a quellos e il meglio è quello , che a'te è di profit to ; però
ſe ſi confà , come a perſona ragioneuole , queſto riſerbati ; ma ſe ſolo ,
come. ad animal viuente , riggetta lo , e ſenza gonfiartene,cuſto diſci il
fologiudicio , per po ter formare vn eſame certo , e ſicuro . Non iſtimare giam
mai , che ſia coſa conferente a te ſteſſo quella, che tal vol ta forzeratti a
traſgredire la fede , mancarc all honore , odiare alcuno , ſoſpettare maledire
, fintulare , ed ambi re qualche coſa, laquale hab bia biſogno di naſcondimen
to di muri , e di velami . Im perocchè chi ſtima fopra tut to la propria ſua
mente , e il genio , e l'operazioni della ſua virtù , quegli non fa azione da
tragedia , non pia gne , non hannà biſogno di Itar folitario , ne della com
pagnia di molti . Esquel che più importa , viuerà ſenza de fiderare , e ſenza
sfuggire co fa alcuna ; ne farà molto ca fo , ſe dell'anima circondata dal
corpo ſe ne ſeruirà per più lungo , o per più breue tempo : acciocchè qual ora
s'haueſſe a dipartire , così franco ſe ne vada , come ha ueffe a disbrigarfi di
qualche affare , che gli conueniffe efe guire con decoro , e con ogni modeſtia
: ofſeruando queſto folo puntualmente per tutta la vita , che i fuoi penſieri
s. aggirino attorno qualche co fa , che ſia propria de viuen ti razionali , e
ciuili . 7 Nella mente di perſona C 6 ben aggiuſtata , e purgata non trouerai
niente di guaſto , niente di marciume , o che v'habbia fatto ſaccaia . Simil.
inente . non troncherà il fato la vita di coſtui imperfetta , come ſi direbbe
dell'Iſtrione , fe ,auanti di finire , e compire il Drạmma,gli vditori all'im
prouiſo piantaſſe . Di più non trouerai nulla di feruilc , ne di affettato , ne
di appicci cante , ne di diſciolto che habbia biſogno d' eſſer corretto ,
ncd'eſſer ricoper ne to. Habbi in venerazione la facultà , che forma l'appren
ſione , dependendo da queſta il tutto ;acciocchè niuna opi nione s' inſeriſca
nella tua mente , che non confcnta colla natura , e colla coſtituzione di
viuente razionale : E queſta profeſſi di non cor rerc alla cieca, e che l'huomo
fi confaccia con gli huomini , e verſo gl’Iddij ſia offequiolo. Rigettate
dunque tutt'altre coſe , imprimiti ſolo queſte poche , e ſpesſo rammenta ti che
da ciaſcuno ſi viue il ſolo momento preſente, il re fto l'ha gia viuuto , o
gliè af fatto ignoto . Piccola adun que è l'età di ciaſcuno : Pic colo è il
cantoncino della terra, dove ſi viue , e piccola , benchè lungi s'eſtenda , è a
' poſtuni la fama , proceden do queſta dalla ſucceſſione di homicciuoli , che
preſto ſe ne vanno a morire , i quali non conoſcono le ſteſſi , non che colui ,
il qual di già lungo tcmpo morì. A'già eſpoſti auvertimenti s'aggiunga ancora
di far ſem pre vna diffinizione , o de : ſcrizione di quello , che vie ne dall’iinmaginatiua
rappre fentato acciocchè qual'è nudamente nella propria ſo ſtanza , e il tutto
per tutte le parti diſtintamente , tu rico noſchi,e ſia a te ſteſſo eſpreſ ſo.
e paleſato qual ſia il ſuo proprio nome , e i nomi di quelle parti , delle
quali è compoſto , e nelle quali ſi ri foluerà . Perchè non è cofa , che a
ſolleuare la generoſità dell'animo ſia più poſſente ; quanto l'eſaminare con me
todo , e verità ciaſcuna coſa che può accadere nella vita ': c riguardarla del
continuo in tal modo , che tu comprenda inſieme a qual Mondo , qual vſo porgano
, che poſto tena gano in riguardo dell’yniuer fo , e quale in riguardo dell'
huomozil quale è cittadino di quclla ſopraniſlıma Cittade di cui le altre ſono
come.abi. tazioni di famiglie : Che co fa ſia , o di quali principij ſia
compoſto , e quanto tempo fia per durare quello , che al preſente m’imprime
tale im inaginazione ; e qual virtù in torno quello s'habbia da vla re : come a
dire della manſue tudine , delle fortezza , della verità , della fede, della ſchiet
tezza della contentezza, del la propria ſorte , e d'altre fi mili. Per lo che
biſogna dire di ciaſcheduna coſa : Queſto viene da Dio, ma questo per fatale
ordinazione, e conneſ fione delle cose del mondo o per una tale congiuntura , e
fortuna: E queſto altro pro cede da vn tuo proſſimo , e congiunto , e teco
conuer fante , ignaro di quello , che a lui pernatura ſi conuiene . Ma io che
lo ſo m’auuaglio d' effo , fecondo le leggi naturali della comunicazione , con
af fetto benigno , e giuſtizia ; e inſieme nelle coſe indifferen ti , o mezzane
mi ſtudio d' andar conghietturando , qual ftima a quelle habbiaſi a da re . Se
tu , della retta ragione feguace , opererai quello che haurai dauanti ſtudiofa
mente, validamente , placi damente , e non mirando ad altro che all'intrapreſo
nego zio , anzi conferuerai il tuo genio puro , e conſtante , co me ſe già ti
abbiſognaſſo di renderlo. Se dunque queſto offeru.crai , a niente altro at
tendendo , niente fuggendo ; ma nell'operazione , che hai tra le mani ,
conformandoti alla natura , e contentandoti d'eſprimere con verità eroica tutto
ciò , che a dire intra prendi , tu viucrai felice . In vero non v'ha chi ti
potra quefto impedire . u Comei Maeſtri del cu rare hanno ſempre alla mano gli
ſtrumenti , e i ferri per ogni inopinata cura così habbi tu pronti i decreti a
ri conoſcere per mezzo d'effi le coſe diuine e l'humane , in tutto ciò, che,
quantunque mi nimushaurai da operare ; ben ricordcuole come queſte fia no
amendue tra di loro con giunte , non potendo far nulla , che appartenga agli
huo mini, che per mera corriſpon denza al Cielojne per lo con trario . 12 Non
andar più vagan do, mentre non haurai più da leggere i tuoi libretti di me
morie , ne i fatti degli an tichi Romani , e Greci , ne le raccolte , che hai eſtratte
da varij ſcrittori , le quali riſer bate t'haueui per la vecchia ia .
Affrettati adunque ver ſo la fine , e abbandonando , mentre che t'è lecito , le
va ne ſperanze , porgi ogni aiu to a te ſtello , ſe tu fe'a cuore a te medeſimo
. 13 Gli huomini volgari non fanno quanti ſignificati hab biano le voci rubate,
femina re , comperare , ripoſare ; ne fanno diſcernere quello , che s'ha da
operare : il chenon ſi fa con la viſta degli occhi, macon altra perſpicacia. Habbiamo
il corpo, l'a nima , c la mente : Al corpo appartengono i ſenſi, allani ma gli
apperiti, alla merite i decreti . Si formano le imma ginazioni ancora dagli ani
inali bruti ; ma il laſciarli trarre dagl'imperi degli ap petiti a guiſa di
pupazzi tira ti con cordicelle, è cofa da beſtie , e da effeminaci , e d ' yn
Falaride , ed'vn Nerone . L'applicarela reggitrice men : te all' apparenti
conuenienze è ancora di coloro , i quali non tengono , che ci ſiano gl’Iddij ,
e che alle occaſioni abbandonano cziandio la pa tria , e che quando han chiu te
le porte , fanno di tutto. Se dunque l'altre coſe ſono comuni alli già detti ,
reſta proprio dell'huomo dabbene l'amare, e abbracciare ciò che a lui auuenga ,
e che dal fato gli fia compartito , come il non rimeſcolare , e confon dere il
genio , che nel mezzo del petto riſiede , ne pertur barlo colla moltitudine
dell' immaginazioni : ma conſer varlo placido , e come a vn Dio , decenteinente
portar gli riuerenza , ed oſſequio. Non proferendo mai parola, che tutta yera
non ſia ;ne fuo ri del giuſto facendo cofa al cuna . Se poi tutti gli huomi ni
non crederanno , ch'egli fchicttamente , e oneſtamen te , e tranquillamente ſe
ne viua , non però fi crucсerà con chi che ſia di loro ; ne vſcirà mai dal
dritto ſentiero , che lo conduce al fine della vita , al quale fa di meſtiere
giugnerepuro,quieto, c pron to a diſcioglierſi, e acco- - modarſi di buona vo
glia al proprio de ſtino. Nell interno che domina in noi quando ſi confor ma
alla natura , reſta sì indif ferente a tutti gli auueni menti , che ſenza
ripugnanza ſempre prontamente ſi tra fporta a ciò; ch'è poſſibile , e conceduto
; Imperocchè non s'obbliga a materia deterininata ; ma è facile verſo ciò , che
gli venga propoſto , ben che con qualche eccezione ; e quello , che in luogo
dell eſcluſo è introdotto, s'appro pria come ſua materia , in guiſa del fuoco ,
quando nel le coſe , che incontra predo mina ; dalle quali vna picco la
lucernctta verrebbe e ſtinta,la doue vna gran fiam ma trasforma in ſe preſta
mente tutto quello , che in nanzile è poſto , e lo conſu ma , e di
quell'iſteſſo diuiene maggiore 2 Niun'opera ſi faccia a ca ſo , ne altrimente
ſi eſegui ſca , ſe non conforme agli ammaeſtramenti di perfezio ne dell'arte .
3 Proccurano le perſone di ritirarſi nelle campagne,alla -50 he 9 or it 71 za 2
. e 01 marina , e ne' monti , e an co tu queſti ſe' stato particolarmente
ſolito d'amaro e queſta è coſa ordinarijfſima agl'idioti; eſſendo a te lecito
in qualſifia tempo, che ti pia cerà , ritirarti in te ſteſſo . Ne c'è luogo per
l'huomo di più quiete , e più lontano dalle faccende , per ritirarſi di quello
del proprio animo ; particolarmente ſe haurà in ſe formato tali concetti, che
in quelli internandoti pron tamente rimanga in vna to tale tranquillità . Ne
altro dico eſſere queſta calma che l'animo ben compoſto : Ritirati dunque ad
oraad o ra , e rinnuoua te ſteſſo . Si eno però breui , è ordinati que' ricordi
, i quali ad vn tratto fouuenendoti, ſaran no ſufficienti a liberarti dio gni
moleftia , e di rimetterti nelle tue operazioni ; alle quali ſenz' annoiarti
farai ri torno . Poſciachè di qual co ſa pigti tu noia ? forſe della maluagità
degli huomini ? Rammentati di quel decreto, che i viuenti ragioneuoli ſo no
prodotti a pro \ vno dell'altro ; e che il medeſimo ſofferire è part e della
giuſti zia dell'huomo: e che quelli, che delinquono , no'l fanno di buona
voglia ; e quanti dopo hauere eſercitato l'oſti lità , i ſoſpetti, e gli odij,
e trafittiſi ľ .yn l'altro , ſono morti e diſteſi ridotti in cene, re ?
quietati dunque vna vol ta . Ma tu non t'appaghi di quello , che dall' vniuerſo
ti è ſtato diſtribuito . Richiama : D però nella memoria la pro porzione
diſgiugnéte , che ci è , o la prouidenza, o gli atomi, o anco altre coſe ,
donde ben fi conchiude che il Mondo è in guiſa di ordinata Città. Se poi
t'aggrauono le coſe cor poree , tu quì confidera che la mente , dopo che vna
vol ta ſi ſarà in ſe ſteſſa raccolta , e haurà riconoſciuta la pro pria dignità
, non ſi meſco ſerà con iſpirito , che venga ad eller morbidamente, o ru
uidamente agitato . Aggiu gnidi più tutto quello , che del dolore , e del
piacere tu hai vdito , e l'hai approuato. Mala gloricota ti diſtrarrà ? Da vno
ſguardo , come pre fto va il tutto in dimenti canza , e nel chaos dell'euo da
amendue le parti immen fo , e nella vanità d ' yn rim bombo : e quanto mutabili
, e ſenza giudicio fono quelli, che di noi poſſono formar concetto , e in
quanto poco luogo tutto ciò li circonſcri ue ; mentre tutta la terra è yn punto
, e di queſta non è che yn cantoncello la noſtra abitabile ; e quanti, e quali
fono quelli , che ſieno per lo darti . Ricordati dunque di ritirarti in quella
particella di te ſteſſo ; e ſopra tutto di non ti diftrarre , e di non far
refiftenza ; ma fij. franco, e ri guarda l'opere da PERSONA VIRILE, D’UOMO, da
cittadino , da viuente mortalc. Ma tra i ricordi più pronti e ſpe diti , i
quali hai da conſide rare , fieno queſti due. L'yno, che le coſe iftcffe non
s'at D 2 taccano all'anima , ma ſtan no al di fuori immobili ; e che le
turbazioni deriuano ſolo dall'opinione interna : l' altro è , che quanto vedi ,
queſto non iftarà guari a mu tarſi, e più non ci ſarà; e con fidera a quante
mutazioni già tu ti ſe trouato, e di con tinuo tieni a mente , che il Mondo ſta
nell'alterazione , la vita nell'opinione . 4 Se l'intelletto è comune, comune
ancora è la ragione , mediante la quale noi ſiamo ragionevoli. E ſe è vero que
ſto , eziandio la ragione, che comanda quello , che ſi deb ba , e che non ſi
debba ope rare , ſarà coinune . E ſe è cosi , ſarà comune la legge ; il che
ammettendoſi , verre mo noi ad eſſer Cittadini ; donde è, che hauremo da par
ticipare di qualche Cittadi nanza ; e conſeguentemente reſta il Mondo eſſere
come vna Città . Concio ffiecofa che dirà alcuno : qual'altra Cittadinanza
fitruoua fi co mune , della quale tutto il genere humano partecipi ? E da queſta
comune Città deriua l'iſteſſo effer noſtro in: tellertilo, e ragineuole, e le
gale. O se quindi non ès-don de è perciocchèſi come quel lo , che è di
terreſtre in me , da qualche terra a me ſi com , parte , el eſſere vmido da vn
altro elemento , e l'eſſere fpiritale da qualche ſcaturi gine di ciò , e'l
caldo , e l'i gneo da qualche altra pro pria ſorgente ; imperocchè nulla
prouiene dal nulla, co D3 me ne meno ritorna in quel che non è così anche
l'intel lettiuo da qualche luogo fi comparte . 5 Tale è la morte , quale è la
generazione , e ſono degli arcani della natura ; queſta è miſtura degli
elementi, e quel. la è diſcioglimento ne'mede fimi : In ſomma non ſe n'hà
d'hauer vergogna , poichè non è contra la conuenienza del viuente intellettuale
, ne repugna alla ragione della di lui conſtituzione , 6 La natura porta che
queſte cofe da tali ca gioni nafcano neceſſaria mente ; il che , ſe ad alcuno
non piacerà , vorrà che'l frutto del fico non habbia lattificio . Quello in
tutto , e per tutto rimanga nella mente, che tra breuiſſimo tempo tu , e quel
tale vi morrete , e tra poco non ci ſarà , ne pu re il voſtro nome . Leua via
l'opinione , che ſarà tolta la querela , che dice , IO SO NO STATO OFFESO ,
leua queſto dire : IO SONO STA TO OFFESO , e verrà tolta l'offeſa . Quello ,
che non fa peggiore in ſe l'iſteſſo huo mo , non renderà peggiore la di lui
propria vita; e ne in ternamente , ne efternamen te l'offenderà . 7 La natura
ad operare in tal modo per lo comune vti le fu neceſſitata . E ciò , che
auuiene , giuſtamente auuie ne : il che ſe attentamente of feruerai , trouerai
eſſer vero ; ne per ſola conſeguenza di co , che è queſto, ma perchè D4 così
vuole il giuſto ; venen do da colui , il quale ſecon do il proprio merito ,
diſtri buiſce a ciaſcuno il ſuo .Of ſerua dunque tu queſto , co me hai dato
principio ; e nel fare qualunque coſa ado pera con qucfta oſſeruazio ne, e con
lefſere huomo dab bene; ina di quella maniera , come s'intende propriamen te
l'hucmo dabbene . Tutto ciò oſſerua in ogni tua ope razione . 8 Non farai
concetto del le cofe fecondo il giudicio di chi t'oltraggia ; ne come e quali
eſſo vuole che tu le giudichi ; ma conſiderale , quali eſſe veracemente ſono .
9 Debbonfi ſempre hauer in pronto queſti due punti: primieramente di non operare
in modo diuerſo da quello che la ragione, Rcina, e leg gislatrice per l'vtile
degli huomini fuggeriſce ; ſecon dariamente d'effer facile a mutarti di parere
, ſe qual cuno fi corregga , e rimuoua da qualche opinione ; però queſto
rimouimento s'ha ſempre d'appoggiare alla perſuaſione , che porti del giuſto ,o
del ben comune, O di coſe ſu queſto andare,non per compiacimento , ouero per
apparenza di gloria . Hai tu la ragione ? la tengo : Per chè dunque non te ne
ſeruia Che vuoi cu altro , che que ſta , mentre ella fa quello , che è proprio
di lei ? 10 Come parte di queſto vniuerſo già ſe'ſtato conftitu ito , così
tornando a chi t'ha DS fat 82 LIBRO QVARTO fatto , diſparirai, o più toſtoy con
qualche mutazione, fa rai ripoſto nella ragione fe minále di quello . Di molte
granella d'incenso su Piſteffo altare vna cade prima dellº: altre , purchè ſi
conſumi mula la importa . Tra dieci giorni tu parerai vn Dio a quelli alli
quali ora ſembri vna be ftia ; e yna ſcimia , fe ritorni a ri pigliare i
decreti, e la vene mazione della ragione. Non fare i conti come fe hauefli
ancora a viuere più migliaia d'anni. Il debito fatalc fou raſta , mentre
viui,mentre ti è permeſſo diuenta buono .. II Quanto di quiere d'ani mo
guadagna chi non bada a quello , che'l vicino diſſe, o fece , o pensò , ma ben
fi ſolo a quello , ch' egli ſteſſo fa, acciocchè l'opera ſua ſia giuſta , e pia
? , nericercando va ſe altri ſia di buoni , o rei coſtumi , ma corre a dirittu
ra per la linea , ſenza punto da efla ſcoſtarſi ? I2 Chi dietro alla fama apoſtuma
ſe ne va,come ſtor dito , non conſidera come cia fcuno di quelli , che di lui
li rammenteranno , anch ' egli preſto ſe ne baſirà , e così di nuouo quegli
ancora , chea queſto ſuccedera, finchè ogni memoria , per mezzo di huo mini,
parte ſtupiditi, parte già morti continuata ſi ſpen ga .Mapreſupponi tu , che
quelli che terranno di te me moria fieno immortali , e la memoria rimanga
immorta le ? ciò che gioua a te 2 ne ora parlo di quando tu fa D 6 rai nh ada
Te ef 1 rai estinto, ma del preſente mentre tu viui. Che è la lo de ſe non
certamente yn tal condeſcendimento d'huomi ni . Tralaſcia dunque , come
inopportuni i doni della na tura , mentre che dipendo no dal giudicio d'altri .
Del reſto tutto quello , che in qualſiuoglia maniera è buo no per ſe ſteſſo è
buono , e in ſe ſteſſo fi riſtrigne; ne tra le fue parti annouera la lode ;
onde non diuiene ne miglio re , ne peggiore. il lodato . Queſto dico ancora di
ciò , che volgarmente ſi chiama buono : quali ſono le coſe , che o per la
materia , o per l' operazione dell'arte tali fi ftimano . Ed in vero quello ,
che è realmente buono , di che ha biſogno di nulla più certamente che la legge
, di nulla più che la verità , di nulla più , che la buona mente , che la
modeſtia Quale di queſte per lo eſſer lodata diuiene buona, o bia-, fimata ſi
corrompe ? forſe di uenta peggiore lo ſineralduc . cio, ſe non è lodato? non di
rafli il medeſimo dell'oro, dell'auorio, della porpora, del pugnalett , del fiorellino,
dell'arbuscello? Se l'anime ſempre du rano , come fin dall' eternità le può
contenere in ſe l'aria ? e come la terra i corpi rac chiudere de' ſepolti di
tanti ſecoli: Poichenell'iſteſſo mo. do, che la mutazione, e la re ſoluzione di
queſti danno luogo ad altri cadaueri,dopo eſſer per qualche tépo quag. giuſo ſtati,
così l'anime poi chè ſono ſtate traggettate nell'aria , e trattenuteuifi al
quanto , fi tramutano , e ſi ſtruggono, e s'abbruciano, ri tornando nella
ragione ſemio nale del tuttoje in tal modo fanno luogo ad altre , che appreſſo
vengono a ricongiu gnerſi. A queſto ſi riſponde, che ſuppoſto che l'anime du
rino , biſogna non ſolo con cepire la moltitudine de'cor pi così ſepolti, ma
quella an cora degli animali , che cia fcun giorno da noize da altri animali ſi
mangiano ; poichè quanto numero le ne confu ma, ecosì in yn certo modo ſi
ſeppelliſce nelle viſcere di quelli , che ſe ne cibano de tuttauia capono in
questo luogo per la traſmutazione in in sangue , in aria , e in fuoco. Qualeè
intorno a que ſto la notizia della verità il . diuiderſi in materiale , e cau-,
ſale. Non fi vuole andar con aggiramenti vagando, ma in ogni appetizione
dell'animo deefi aſſegnare il giuſto ; ed in ogniimmaginazione con feruare quello
, che ſi è compreso. Tutto quello, che a cé , o Mondo , è conueniente , a me
ancora ſta bene . Nulla è a me acerbo , o tardivo, che a te ſia ſtagionato;
ogni coſa , che portano le tue ſtagioni, è a me frutto . O natura , da te
deriua il tutto , in te è il tutto , e a te il tutto ritorna . Diffe colui ;
Amata Città di Ci tropese tu non dirai,Amata Cit tà di Gione? Intrigati di poco
, diſſe , se tu vuoi ſtare coll' animo quiero Non è miglior cola , che far ſolo
ciò , che è neceſſario , e quello , che la ragione all ' huomo,nato per la vita
ciui le , detta , e nel modo , che lo detta. Imperocchè queſto non folamente
reca la tran quillità , che dal ben fare procede; ma quella ancora , che dal
poco operare.ti au uiene. Concioſliecoſa che; fe la maggior parte di quello che
ſi dice, o lifa , non eſſen do di neceſſitade , alcuno ri ciderà , egli ſe ne
ſtarà int maggior ozio,c meno ſturba to. Perciò biſogna in ciaſcu na coſa in
particolare ricor darſi che forſe ella ſi è vna di quelle , che non lon neceſſa
rie . Biſogna in oltre non ſo lo toglier vią l'azioni , che non ſon tanto
neceſſarie, ma ancora l'iſteffe immagina zioni, perchè così non ſegui ranno
azioni ſuperfluc. Fa prova, come ti rie fca la vita d'vn huomo dab bene, cioè,
cheſi contenta di ciò , che dall' Vniuerſo gli vien aſſegnato, che ſi ſoddis fa
del proprio operare giu ſtamente , e della ſua man fuera diſpoſizione.Hai confi
derato queſto.2 rimira queſt altro ; non ti turbare , habbi l'animo tuo aperto.
Chi pec ca, contro di fe pecca. Ti au uenne qualche bene ? Dal principio
dell'uniuerso ti fu ciò deſtinatose intrecciato in ſieme ognaltro auuenimena
to.In ſomma la vita è breue. Vuolſi guadagnare il preſen te gote con feguire la
retta ragio ne, e la giuſtizia. Sta attento di non rilaſſarti. 18 O il Mondo è
vna bel la ordinanza,o'vn meſcuglio confuſo , tuttauia & Mondo. Ora ſe in
te ſteſſo qualche Mondo,cioè,comeper efem plo,vna venuſtà può conſiſte . re ,
haurà poi da eſſer yn'im monda ſconuenenza neli'yni. uerfo , mentre in effo
tutte le cofe fi vedono così diſtinte , c dilatate , con effer inſieme
reciprocamente affette ? 19 Ci ſono coſtumi negri , coſtumi effeminati ,
ferrigni, ferini, e diquelli, che ſono fimili a'brutali , e a ' fanciul leſchi,
inſenſati , affettati , buffoneſchi, tauernieri , e ti rannici. Se fireputa
pellegri no nel Mondochi non faciò : che in eſſo ſi truoua , molto o più pellegrino
è colui , che ignora ciò , che in eſſo ſi fac cia. Fuggitiuo farà chi fugge 0
dalla ragione ciuile , è cieco chi ha chiuſo l'occhio dell' intelletto ,
mendico chi ha neceffità d'altri, e non ha ap " preſſo di ſe tutto quanto
gli è neceſſario per vſo della vi ta. Eyna apoſtema del mondo, chi ſi diparte,
e fi difrom pe dalla ragione della comu ne natura , non accomodan dofi agli
auuenimenti ; men tre gli produce quella mede fima , che ha te ancora pro
dotto.E vna ſtracciatura del la Città , chi diſtacca la pro i pria anima dalla
mente r & ei gioneuole, che è vna . 20. Ci è chi filoſofa ſenza tonica , e
chi ſenza libro , vn' altro mezz'ignudo. Non ho del pane, diffe, e nonmipar to
dalla ragione. Io non ho il cibo degl'inſegnamenti , e pur in eſſi perſcuero :
Affe zionati all'articella , che im paraſti , e in quella acqueta ti.Mena il
reſto della vita tua con riporre negl'Iddij la cura d'ogni tuo affare , e ciò
con tutto l'animo : e dhuomo, che viua,non ti fare ,ne tiran i no , ne fchiauo
. 21 Conſidera, verbi gratia, i tempi di Veſpaſiano , tu vi vedrai tutte queſte
medefi me coſe , cioè huomini, e far .nozze, ed educar figliuoli, ed ammalati,
e morienti, e com battenti, e feſteggiantise mer. catanti, e agricoltori , e
adu latori, e arrogantemente par Janti, e ſoſpettoſi, e infidiatori , e
deſideranti la morte , e delle coſe , che ſuccedeuano ha lamentantiſi, e
innamorati, e at intenti ad ammaſſar teſori, e e ambizioſi di Conſolati , e di
1 Regni; tutti fparirono, e della loro vita già non vi rcſta 1 nulla . Appreffo
traſportati all'età di Traiano ; di nuouo I rimirerai tutte le medeſime cofc ,
e pur la vita di quelli non ci è più.Similmente con ſidera altri ſegnalati
inter ualli de' tempi e delle intere nazioni; e offerua,come tanti, e tanti
allora gonfiati l' vno * contro l'altro ,dilì a poco ca e dettero , c fi
dileguarono ne gli elementi . Specialmente B t'hai da rammentare di quel li,
che tu ſteſſo hai conoſcill ti , che vanamente affannati hanno tralaſciato d'
operare conforme alla propria diſpo
fizione , e d'aderire tenace mente a quella , e di quclla foddisfarli . E
neceſſario an cora di rammentarti,che l'ap plicazione in ciaſcuna azio ne ha la
ſua propria conue nienza , e proporzione; per chè così tu non ti dorrai; ſe tu
non più di quello chepor ta il pregio in queſte coſe minori, ſarai occupato. 22
Le voci già correnti , ora fono diſufate , e richie dono chioſe ; così i nomi
di quelli già tanto celebri fono in yn certo modo al preſente fimilia derte
voci: tale è Ca millo, Cefone, Volefo ,Leon .nato; e poco appreffo Scipio ne ;
e Catone ; dopo anco Auguſto , c indi Adriano , e Antonino ; perchè ogni coſa
ſua Ct colla 211 ap 10 16 ber Ol ſuaniſce , e tofto paſſa in fa uoleggiamenti,
cben preſto dentro d' yna totale obbli uione reſta ingoiata.E queſto dico di
quelli , che a maraui glia yna volta riſplenderono; poichè gli altri
nell'iſteſſo lo ro fpirare reſtarono ignoti, e niuno più ne domanda . Che coſa
è dunque queſta eterna memoria ? Tutto vanità. In torno a che dunque s'ha da
porreil noſtro ſtudio in que ſto ſolo ; che la mente ſia giu ſta , l'azione
diretta al co mun bene,tale la ragione che mai non reſti ingannatå, el animo
così diſpoſto, che ciò, che gliaccada, abbracci, co me foſſe a lui neceſſario ,
e co me famigliare , e come dall' ifteflo comun principio , e fonte deriuato .
Di buon ani til zie id 700 DITI OP ON DC1 او و mo gettati nelle braccia del
fato ; permettendogli che e inuolga in quelle coſe , che a lui parrà. Il tutto
va a giorni, e chi rammenta, e'l rammen tato . Mcdita del continuo , come tutto
ciò, che ſi fa a per mezzo delle mutazioni fi fa; e auuezzati a conſiderare ,
che nulla ama così la natura del l' vniuerſo , come di mutare gli entie far
delle coſe nuo ue a quelle aſſomiglianti. Perchè in vn certo modo o gni coſa,
che è, ſemenza è di quella , che da eſſa s'ha da produrre; e tu t'immagini ef
ſer ſoli ſemi quelli, che ſi traſ mettono nella terra , o nell' vtero. Coteſti
fono penſieri da perſona molto idiota. Già ſei all' orlo detta morte e ancora
non se' diue hel nen ZIO pe TI che can de nuto ſchierto , e libero dalle rei
perturbazioni, da’ſoſpettid' eſſere dagli eſterni leſo , ne bi placido inuerfo
tutti;ne ſtimi la prudenza eſſere il ſolo giu ftamente operare. 24 Rimira la
mente conducitrice degli altri e ciò, che veramente fuggano e fe de guano i
prudenti. Il tuo male non consiste nella mente d'altri o ne' rivolgimenti o
variazione dell'ambiente Doue dunque la doue tu hai l'opinionede'tuoimali . Per
di ciò non opinare queſto , che il tutto andrà bene; ancor chè il corpicciuolo
, che a f quello è propinquo ,fi ſeghi,fi abbruci , marciſca , ſi putre faccia
; purchè rimanga quie ta la particella , la quale for ma l'immaginazione di que
dit + C. ef E Ite ſte coſe , cioè che non giudi chi eſſer ne bene , ne male ciò
, che può accadere , tanto all'huomo dabbene , quanto al cartiuo ,
Concioſliecoſa che quello , che ſimilmente auuiene a chi viue , secondo la
natura , e a chi viue diuer ſamente , non è ne secondo la natura ne contro di
essa. Conſidera del continuo il mondo come un' animale, composto d’una sostanza
e di un'anima, e come all ynico ſenſo di quello tutte le coſe ſi riportino, e
come con vn'im peto il tutto operi, e come tutte le coſe tra fe di tutto quello
che ſi produce , ſon co . muni cagioni;e quale ſia l'in trecciamento, ola
teflitura. Sei un'animuccia , che porta un cadauero ; diceua Epitteto. A quelli
, che ora ſono ali nella mutazione , niente è di male, come niente è di bene a
quelli , che nella mutazio ne ſuffiſtono . 28 L'euo è come un fiume, e come yna
corrente violen ta delle coſe , che ſi fanno, perchè, ſubito che ciaſcuna di
quelle compariſce, è rapi ta , e altra ne compariſce , e queſta ancora ſi
traſporterà. Ogni accidente è così ſolito , e famigliare, come nella pri mauera
la roſa , c nella ſtate i frutti . perciocchè tale è la malattia, la morte la
maledi cenza , l'inſidie , e ciò che rallegra i pazzi, o gli contri fta .
Quello , che proſegue, ſempre ſi connette accon ciamente agli anteceden ti .
poichè non è vna nume 1 orazione di coſe tra loro dif crete, e ſuſſiſtenti per
necef ſità ſolamente di calculo; ma èyna congiunzione, ſecondo la ragione; e
come ſono coor dinate, e ben congiunte tut . te le coſe che eſiſtono , così
quelle, che ſifanno non han no vna ſemplice ſucceſſione, ma dimoſtrano vna certa
ma rauiglioſa famigliarità, che è tra di loro. 29 Habbiaſi ſempre a mente quel
detto d’ERACLITO. La morte della terra eſſere quando diuenta acqua ; e la morte
dell' ac qua, quando diventa aria ; come del l'aria, quando fuoco , e così per
l'oppoſito . E ancora da ri cordarſi di colui, al quale era ignoto,doue la
ſtrada condu ceſſe; e di quelli, che ſpecial mente , e del continuo con uerſano
con la ragione , la quale ogni coſa amminiſtra, e nondimeno da quella dif
ſentono , e che quelle coſe , nelle quali ogni dis’abbat tono , a loro paiono
ſtranie re. e che non biſogna fare , e fauellare in guiſa quafi di
dormienti,perchèallora anoi ſembra difare , e di dire ; ne fi hanno da imitare
i fanciul li , i quali dicono con ſempli cità : Così habbiamo appreſo dai
noftri maggiori . « 30 Se alcuno degl' Iddij ti diceffe , che hai da morire la
domane,o al più lungo por domane , non molto ti im portarebbe, che foſſe più to
ito domane, che poſdomar nc, ſe non le d'animoin eſtre mo tralignante. Imperocchè
E 3 quanto ſi è l'interuallo d'vn giorno cosìno iſtimare gran coſa le fia più
toſto dopo moltiſſimi anni che domane. Ripenſa contimamente teco medeſimo;
quanti medici ſon morti, che ſpeſſo hanno le ci glia inarcate ſopra de i ma
lati ? quanti matematici, che come yn gran caſo le morti d'altri prediffero 2
quanti Fi loſofi dopo mille , e mille contefe della morte , e dell' inmortalità
? quanti prodi in armi , che molti vcciſero ? quanti tiranni,checon gran de preſunzione
della loro potestà sopra l'anime ſi feruiro no , quaſi chenon foffero e glino
ancora mortali ? quan te Città ſono , per così dire, affatto morte ? Elice ,
Pom pei , Erculano , e altre innu nie merabili . Traſcorri ancora quanti hai tu
conoſcuti l'yno appreſſo l ' altro morti . Que gli dopo hauer fatto i fune rali
dell'altro , ha ſteſo egli morendo le gambe , e dopo lui yn'altro . Tutto ciò
in bre de tempo . In ſomma ſempre fono da conſiderare tutte le coſe humane,come
d'vn gior no , e di prézzo viliffimo: ieri vn pochin di mocci,domanc falſume, o
ceneri . E perciò queſto momento di tempo paffalo viuendo , ſecondo la natura ,
e muori tranquillo , come l'vliua , che fatta ben matura cade laudando la ſua
producitrice, e rendendo gra zie all'albero , dal quale fpuntò. 31 Sij ſimile a
vn promon torio , nel quale inceffante E 4 mente l'onde s'infrangono; e
nulladimeno egli ſta ſaldo, e intorno a lui fi abbonacciano gli orgogli
dell’acque . Infe . lice me , perche ciò mi è au uenuto l’anzi al contrario, me
ſelice , che essendo miciò accaduto , me ne ſto ſenz'al cun dolore , nedal
prefente offeso, ne temendo l'auueni re . imperciocchè queſto po teua ad ogni
altro accadere , manon ognuno l'haurebbe ſopportato ſenza dolerſi.Per chè
adunque più toſto quello infelicità che queſto felicità farà da noi giudicato ?
echia mi tu a pieno infelicità dell' huomo corefto , che non è difauentura alla
natura hu mana ? E diſauucntura della natura humana pare a te, che ſia quello ,
che non è contra ilvo il volere di lei ? Quello che ella voglia , l'hai tu
appreſo ? Non é impediſce dunque queſto accidente, che tu non ſij giuſto ,
magnànimo, tem perato , prudente , conſidera to ,,verace , modesto , libero,
con le altre qualità , le quali efſendo preſenti , la natura humana gode ogni
ſuo pro prio . Quanto al rimanente ricordati , ogni volta che al. cuna coſa t'
induce ad attri ſtarti, di valerti di queſta ſen tenza . Che queſto , che t'è
accaduto non ti è d'infelici tà , ma di felicità , foppor tandolo generoſamente
. 32 Per certo è volgare aiu to , ma tuttauia efficace, per diſprezzar la morte
, il ri membrarſi di quelli , i quali, attaccati al viuere , lungo Es : tempo
durarono. Che hebbe, ro più queſti di quelli, che in eri acerba morirono
?Giacor ciono ſenza dubbio in qual che luogo Cadiciano, Fabio , Giuliano ,
Lepido , e altri fi mili, i quali , dopo hauer fat ti i funerali a molti,
eglino ancora furono poſcia ſepolti. Finalinente ci è poco d'inter ftizio , il
quale con quante moleſtie , e con quali ſten ti , e in qual corpicciuolo vien
ſofferto ? Dunque non ne far gran conto į rimira però indietro all'immenſità
dell'euo , e a te dauuanti yn altro infinito . In queſto, che differenza è tra
vno morto a capo di tre giorni,e d'vn Ne ſtore di tre ſecoli? Per la ſcortatoia
corri ſempre , e quella via , che ſi conforma alla natura , è la fcortatoia
saluteuole. Però dì , e fa ogni coſa nella ma niera più ſalateuole . Impe
r occhè queſto propofito libe ra dalle fatiche , da i com battimenti , da
ogni ſimula zione , e da ogni oſtentazione . Vando dal ſonno neghittofamente la
mattina ti fue gli , habbi in pronto . lo mi fueglio all'opera dell'huomo;
ancora dunque ripugnanza fento , ſe io vo a fare quello pere , alle quali ſon
nato , e per le qualiſono ſtato intro dotto nel Mondo forſe ſono ſtato
ordinato, acciò tra piu macciuoli giacendo io mi riſcaldi? Maciò è di maggior guſto.
Dunque a pigliarti gu ito, e in ſomma non al fare ne all'operazioni ſei nato ?
non vedile pianterelle, i paſ ferotti, le formiche, i ragnis l'api
comecooperano all' or namento delMondo, e tu non vorrai fare quello , che ſpet ta
all'huomo e non accorri a ciò , ch'è conforme alla nå tura tua ? Ma biſogna
pure ripoſarti. Biſogna.Ed in que ſto la natura aſſegnò lemiſu re ; e diedele
ancora , ed al mangiare , ed al bere; e non dimeno tu pafli oltre alla mi fura
, e oltre alla ſufficienza . Non però così nell'opere; ma affai meno di quello
ſi puote; concioffiecoſa che tu non a mi te ſtello , che quando ciò foffe ,
amereſti la natura , e'l di leivolere . Altri, che amano le loro arti, ſi
conſumano ne’lauorij di quelle ſenza go der de bagni, e ſtando digiu ni . Tu
fai men conto della tua natura , che il tornitore non fa dell'arte del tornire,
o il ſaltatore dell'arte del fal tare , o l'auaro dell'argento , o il
vanagloriofo della glo rietta ; e quando queſti s'af fezzionano a cotalicofe,
alle qnali ſono inclinati, abban donano più preſto ilmangia re , e il dormite ,
che il laſciar d'accreſcerle . E a te l'azioni fpettanti alla comunicazione
humana appariſcono di più baſſo pregio , e men degne ď accuratezza. Quanto è
facile lo ſcace ciare,elo fcancellare ogni turbolenta immaginazione , onon
conueniente , e ſubito metterli in iſtato d'ogni tran quillità ? Reputa te
ſteſſo de gno d'ogni diſcorſo , e d'ogni azione, che lia conforme alla natura ,
ne ti ritragga il ri chiamo d'alcuni, o il biaſimo, che ne ſegue ; masſe farà
coſa oneſta da operare, o da dire, non te ne ſtimerai indegno . Imperocchè
hanno quel li la propria loromente , e v fano della propria inclina zione ,
alle quali tú non hai da riguardare , ma dei cam minare per la diritta , ſegui
tando così la propria comela comunenatura , delle quali amendue èvna via. Io
cammi. nando me ne vo per le coſe, che ſono ſecondo la natura , finchè cadendo
io mi ripoſe rò, e ſpirando in quello ,don de ciaſcun giorno reſpiro , e si
cadendo in quello , donde il ſemuccio da mio padre, e il fanguuccio da mia
madre , e il lattuccio dalla inia nutri ce furonoraccolti; e del qua le per
tanti anni ogni di mi paſco , e m’abbeuero, che mi foftiene mentre lo calco , e
dello ſteſſo in tanti modi in '. abuſo. 3 Non hanno in chemara uigliarſi della
tua acutezza fia così . Ci fono molte altre coſe ,delle quali non puoi ne gare
, che in te non ſia l'abi lità Mettidunque in opera quelle , che ſono tutte a
tua. diſpoſizione, l'eſſere ſincero , grauie,tollerante della fatica , non
amico del piacere , non, quereloſo della tua forte , biſognofa di poco ,
placidos libero,moderato, serio, e magnifico. Non t'accorgi quan te coſe tu hai
poter di fare, per le quali tu non hai prete ſto , che la tua natura non fia
atta , o abile ; nondimeno di propria elezione te ne reſti, comedappoco al
diſotto ? forſe inetto per natural diſpo ſizione ſe neceſſitato a inor morare,
ad eſſere tenace , ad adulare , ad incolpare il cor picciuolo , o a luſingarlo
, ad effere vano, ed a cotanto nel l'animo agitarti d'eſſer natu ralmente
inetto, e dappoco ? Non per gl' Iddij . Ma però già vn pezzo fa di tutte que
Ite coſe tu eri da te ſteſſo pof ſente a libcrarti.E ſolamente , ſe però è
così,poteui ellerac cuſato come più tardo , e du ro ad apprendere. Ed in que
ſto ancora ti doueui eſercitare , non trasuolando altroue con la mente , ne
godendo della pigrizia . 4. Euni chi, quando ha vſa to qualche amoreuolezza in
riguardo d'alcuno, glie lo di chiara incontanente per gra zia : eď emui ancora
chi, ſe non vſa ſeco tal prontezza in ri conoſcerla , nondimeno ap preſſo di ſe
penſa , quanto quegli li ſia debitore, e cono ſce molto bene quello , che egli
haoperato . Fuui ancora chi in vncerto modo non co noſce quello cheha operato ;
ma è fimile alla vite,laquale , prodotto il grappolo,null’al tro di più
richiede , dopo ha uer yna volta dato il ſuo frut to . Il cauallo , cheha corſo
il cane,che ha cacciato; l'ape , che ha lauorato il mele ; 1 * huoc huomo , che
ha ben opcrato , non cerca acclamazioni, ma procede ad yn altr'opera, co me la
vite torna a produrre dinuouo alla ſtagione vn al tro grappolo. Fra queſti dun
que biſogna in un certo mo do eſſere, come chi ſenza ba dare opera ? fi per
certo. Nul ladimeno a queſto iſteſſo s'ha da badare. Perciocchè , dirà alcuno , è proprio del comu
nicatiuo che s'auuegga d'o perare , conformealla comu nicazione; ma perciò ſi
vuole, per gl'Iddi, che anco quegli a chi fi comunica , fe n'accor ga .
E'veriffimo coteſto , che tu dì, ma ſe tu non compren di quello , che'ora ſi dice
, farai per tanto vnodi qnelli, de'quali ſopra s'è fatta men zione: concio
ffiecoſa che ancora quelli da certo probabi le diſcorſo'fi diftraggono, ma ſe
tu vorrai comprendere quale vna volta fia quello , che s'è detto, non temere;
ne perciò laſcia d'operare per beneficio comune. Erano le preghiere degli
Atenieſi: Pioni,pioui, ocaro Gion u éjsopra i campise gli orti degli A tenieſi
. Però o non bisogna pregare , o farlo con iſchiet tezza, e con libertà. A
quello, che comune mente ſi dice : ESCULAPIO ba oi dinqto a queſti il canalcare
, o il lauarli con acqua fredda, d'andar a piedi ſcalzi;è fimile anco queſto
che la natura dell? vniuerſo ha ordinato a quegli la malattia , o la ſtor
piatura , o qualche perdita , o altro ſu queſto andare: poi chè nella parola ,
Ha ordinato, vi è vn tal ſenſo , che coſti tuiſce queſto in ordine a que ſto ,
come per riferirſi alla fa nità , e così qui quello , che accade a ciaſcheduno,
è con ſtituito per relazione al deſti no . E però diciamo queſte coſe
conuenirſi nel modo , che gli artefici dicono le pietre quadrate per le mura ,
e per le piramidi conuenirſi tra di loro in tale commetti tura combaciandoſi .
Perchè in fatti l'armonia è viia , e ' fi come da tutti i corpi ſi viene a compirc
vn tal corpo, che è il mondo, così di tutte le cagioni vien ad esser il fato
vna tai cagione compita. Comprendono ciò , che dico anco le genti affatto
idiote. imperocchè così fauellano. Queſto huyenne a colui, dun que queſto a
colui douea ar rivare ; e ciò era dal fato or dito a queſto . Prendiamo dunque
ſi queſte coſe , co inc quelle , ſecondo che Eſculapio ordinò - Perchè molte
coſe in vero in fc ſter ſe ſono aſpre , e nientediine . no noi l'abbracciamo
per la ſperanza della ſanità. Penſa alle coſe , che per la comune natura
auuengono , la perfe zione , e il compimento effe re , come a te la ſanità. E
così tuto quello , che vien dato ,benchè ti paia vn po co più aſpro ",
abbraccialo , perchè conferiſce alla sanità del mondo , c agli proſperi
auuenimenti , e beneficenza di Gioue. Concioſliecoſa che queſti non produſſe
mai coſa alcuna , fe non per giouare all'vniuerſo ; giacchè qualſifia natura
non produce niente , che non ſia congruo al go uernato da lei.Però biſogna che
per due ragioni tu amio gni qualunque coſa ti auuie ne . Quanto all'vna, perchè
per te ſi fece, e a te s'ordinò , e a te in certo modo attiene, deſtinato da
ſourane , e anti chiſime cagioni. Quanto all' altra , perchè al reggimento
dell' voiuerfo ancora quel particolare,che a ciaſcuno au uiene, è cagione del
progreſ ſo , e della perfezione, come anche in verità dell'iſtella per inanenza
. Perciocchè ſi ſtor pia l'integrità del tutto , fe qualſifia particella tu
tronche rai della conneſſione e conti nuanza ,così delle parti come delle
cagioni ; e , per quanto è in te , lo tronchi , quando non ben lo riceui , ed
in vn certo modo lo toglivia. Non s'ha da maledire , non da ſmarrirſi,nc
ſtomacar fi , ſe volendo tu operare , ſe condo la rettitudine de'pre cetti , in
ciaſcuno di quelli non ti rieſce ; ma ancorchè ſij abbattuto , torna di bel
nuouo ad eſſi , e ad abbrac ciarli nelle coſe , che hanno maggiormente
dell'humani tà ; e affezionatia quell'azio -ne , alla quale tu riedi. Nc ſi ha
da tornare alla filoſofia , nel modo, che ſi fa al pedan te , ma come glinfermi
d'oc chi ricorrono alle ſpugnette e all'youo, o come altri all' impiaſtro, e
altri al lauamen to. Imperocchècosi non ostenterai d' eller lignoreg giato
dalla ragione, ma di ri poſare totalmente in eſſa. Ri cordati , che la
Filoſofia ſolo vuole quello ,che la tua natu ra vuole:ma che tu hai voglia
d'altro diucrſo dal voler della natura . Qual coſa ha più di queſte
deldiletteuolc? poichè il piacere non ingan na egli noi per mezzo di quelle ?
ma tu conſidera , ſe più diletto dia la magnani-, mità, la franchezza , la
ſchiet tezza, l'equità, la ſantimonia . E qual coſa vi è , che ſia più
diletteuole della prudenza , quandoben conſidererai,che ſia il non fallire , e
l'eſſer ben docile in tutto quello , che tocca alla facoltà dell'inten dere, e
del ſapere ? 8 Sono le coſe in yo certo F modo così ricoperte , che a non pochi
Filoſofi, e queſti non ignobili . parue che del tutto fieno incomprenſibili.
Anzi agl'iſteſſi Stoici ſembra rono difficili a comprenderſi. Ed eſſendo ogni
noſtro aſſen ſo ſoggetto a cadere , e mu tarſi, in che luogo dunque fa rà l'
immutabile ? Riuolgiti però col penſiero a queſte co ſe preſenti;e cöſidera
quanto ſieno momentanee , e di po ca ſtima : ch' elle poſſono ef ſere poſſedute
da vn zanze ro , da vna meretrice , da vn aſſaſſino . Dopo queſto tra paſſa a i
coſtumi di quelli che teco viuono , tra quali anco il più da te gradito, malage
uolmente da te vien compor tato , per non dir che l'huo mo appena comporta ſe
ſtesso. In queſta perciò caligine e immondizia, e in tal Auſli bilità della
ſoſtanza del tem po, del moto, e di tutto quel, che ſi muoue, non potrà im
maginarſi qual ſia quello che poſſa eſſer degno affatto di ſtima, e d'affetto .
Dall'altro canto però biſogna confor tarſi ad aſpettare il natural
diſcioglimento , e non dolerſi del rattenimento , ma ac quietarſi in queſte due
ſole coſe: L'yna ſi è, che nulla mi auuerrà , che non ſia confor me alla natura
dell' vniuerſo; e l'altra , che ſta in mio pote re di non operare contro il mio
Dio , e genio :'concioſ fiecoſa che niuno ci forzi a traſgredir queſto. A che
finalmente mi va glio ora dell'anima mia? Ad ogni momento ho da in terrogaré me
ſteſſo , e ricer care che ſi fa adeſſo da quel la porzione , che reggitri ce
viene chiamata ? Di chi dunque preſentemente porto l'anima? per auuentura d'vn
: bambolino, o d'vn fanciullo forſe dyna donnicciuola , d'vn tiranno, o d'vn
giumen to, o d'una fiera? Quali ficno i beni , che alla moltitudine paiono
tali; lo potrai quindi comprende re;poſciachè ſe vno concepi fce nell'animo
efferui alcuni veramente beni, come a dire la prudenza , la temperanza la
giuſtizia , la fortezzá , chii haurà con la conſiderazione concepito queſte
tali cöfe, non potrà più dar luogo ad alcun'altra , che a queſto bene non ſi
conformi . Ma ſe nella mente ſi faran concepi te quelle , che con faccia di bene
agli più piacciono , da rà luogo , e facilmente rice uerà il detto del
comico.Co sì fin il volgo immagina ſimil differenza ;perchè altrimen te quel
detto non offende rebbe , e non ſarebbe con if degno mal preſo. Per lo con
trario l' ammettiamo come propriamente detto, quando cade ſopra delle ricchezz
e, e de cominodi per lo luffo , e per la pompa. Passa più ol e interroga , ſe
queſte coſe hai da pregiare , e ſtima re,quando di eſſe li truoua ef ſer detto
con gaiezza , e gra zia , che al poſſeditor di det te coſe per la gran copia
manca doue egli yoti il triſto facco. Sono ſtato compoſto di cauſa , e di
materia, e ne l'vna, ne l'altra fi dilegucrà nel nul. la; giacchè di nulla non
fu prodotta . Dunque ognimia parte mutandoli rientrerà in qualche parte del
Mondo ; e di nuouo queſta in vn'altra parte del Mondo ſi traſmute rà , e così
in infinito . Per mezzo di queſta mutazione ed io ſon venuto , ed i miei
genitori; e così retrogradan do in vn altro infinito . Ne ci e chi proibiſca di
così parlare , ancorchè per peri odi terminati la macchina mondiale ſi regga. La
ragione, e l'iſteſs'ar te ragioneuole ſono facultà a ſe medefime , e alle opere
loro proprie ſufficienti. Muo uonli dunque dal loro proprio principio ; e
camminano dirittamente al propoſto fine. Per lo che ſi dicono rettifica zioni
così nomate queſte azioni a ſignificar la rettitu dine del ſopraddetto cam mino
. Neſſuna di queſte co ſe è da dir, che ſia dell'huomo la quale non conuenga
all' huomo , come huomo , ne ſi richiedono dall'huomo , ne quelle profeſſa la
natura del l'huomo , ne ſono perfezioni della natura humana . Non è dunque ne
meno il fine dellº huomo ripoſto in quelle , ne meno il bene , che è il
compimento di quel fine . Se pure qualche cofa di queſte foſſe conferente
all'huomo , non gli apparterrebbe ne il diſpregiarla, ne il contrariar la : ne
farebbe da lodarſi chi si moſtraſſe non hauer biſo gno di elle , anzi chi
ſtudiaf fe priuarſi d'alcune di quelle, non ſarebbe buono , mentre quelle
foffero buone . Ora però quanto più l'huomo ſi leua queſte coſe dattorno , 0
altre ſimili ; o permette , che ſe gli leuino , tanto più buo no è. Tale farà
la tua mente quali ſaranno le coſe , che ſpeſſe volte ti ſono paſſate per la
fantaſia :reſtando l'ani ma colorata dall'immagina zione . Immergila dunque in
fi fatte continuate immagi nazioni ; delle quali yna ſi è quella che doue ſi
puòviuere, iui ſi può anco viuer bene: ma nella Corte ſi può viucre , a dunque
nella Corte puoſſi feuza dubbio ben viuere . E dinuouo queſt' altrà , che cia
ſcheduna, coſa a qualche co ſa è diſpoſta , e dou' è di ſpoſta ſi porta , e
doue fi porta conſiſte il ſuo fine , e doue è il fine , iuiè l'vtile , e il
bene di ciaſcuno . Sicchè il bene del viucnte ragion euo le è la comunanza ; e
men tre teftè s'è dimoſtrato che perla comunanza ſiamo nati, non è euidente,
che l'inferior bene per lo meglio è fat to , come vn meglio per l'al tro
meglio?ma migliori deg! inanimati ſono gli animati, e degli animati li
ragioneuoli. E da furioſo il profe guir le coſe impoſſibili : ma impoſſibile è
che i cattiui non facciano alcune tali co fe . Niente auuiene a niuno , che non
gli ſia ſtato dato a portare dalla natura ; ma le medeſime coſe ſuccedono a gli
altri, i quali o non com prendono l'accaduto loro , o per oſtentar la magnanimi
tà , non ſi muouono dal lor fefto , e lieti ſe ne ſtanno Onde ſtrano parrà che
l'in gnoranza , e la propria com piacenza fieno più poſſenti della prudenza .
Le coſe per fe fteffe in niun modo tocca -no l'anima ; anzi non hanno in quella
l'introito , ne poſſo no piegarla, o muouerla . El la ſola riuolge , e muoue ſe
ſteſſa : e le coſe , che le fo prauuengono fono tali, qua ſi ella ſe ne forma i
giudicij . 15 Per vn altra ragione la natura degli huomini è a noi
famigliariſſima , in quanto che noi dobbiamo far loro del bene , e tollerarli ;
in quanto poi alcuni relifto no all'operazioni , che a noi conuengono , l'huomo
a me diuiene come vna coſa del le indifferenti non meno del fole , del vento ,
delle beſtie. Da queſti ſi può impee dire qualche operazione; ma non ſi può
dare impedimen to , ne all'appetizione, ne al la diſpoſizione , a cagion della
eccezione , e del ri. uolgimento.Conciosfiecoſa che la mente riuolge , e tra
muta in coſa a ſe proporzio . nata tutto quello , che all? operare le da
impedimento , e quello , che ratterrebbe l'o pera , l'iſteſſo diuiene opera , e
quello che innanzi era oſta colo al cammino , ſe le fa . cammino. Di tutto
quello , ch'è nel Mondo tu venera l' otti mo; e que to è quello , che ,
feruendoſi del tutto , il tut to gouerna . E così parimen te di quello, ch'è in
te, onora l'ottimo,hauendo queſto fin golar relazione a quello ..
Concioſliecoſa che , eſſendo in te , fi vale delle coſe tue, eſotto il di lui
gouerno è condotta la tua vita. Quello , che non è di danno alla Città , non nuo
ce al Cittadino.Applica que fta regola in ogni occorrenza in cui tu reputi
d'eſſer offeſo. Se da queſto la Città non ri ceue nocumento , ne io lo ri ceuo
; e fe la Citrà riceueffe nocumento , non biſogna , che tu t'adiri contra chi
l'ha daneggiatta . Ma moſtra in che egli ha traueduto. Conſidera ben fouente la
preſtezza,con la quale li por tino via , e ſi fottragghino tutte le coſe , che
ſono , e ſi van facendo; poſciachè la ſo ſtanza a guiſa d'yn fiume è in
continuo fluſſo , eľ opera zioni in non intermeſſe mu tazioni, e le cagioni
ſogget te ad infinite riuolte . Nec è quaſi coſa alcuna, che falda ftia , e che
non ſia vicina ad yn'immenſità infinita , sì del paſſato ,come del futuro,ncl
la quale il tutto ſpariſce.Co me dunque non è pazzo chi di queſte coſe ſi
gonfia,o fe ne trauaglia,o ſi querela dicoſa, che per iſpazio di tempoan , che
pochiſſimolo conturba 2 Ricordati della ſoſtanza vni uerſale, della quale tu
partecipi per vna minima parte , e del vniuerfal tempo,del qua le vn breue
ſpazio , o momen to te n'è aſſegnato ; e nella ſerie fatale che parte fai ?
Alcuno pecca : che impor ta queſto a me ? Egli ſe lo ve drà. Egli ha la propria
diſpo ſizione , la propria operazio ne. Io al prefente ho quello , chela natura
comune vuole , ch'io adcfſo m’habbia , e fo quello , che la mia propria natura
vuole , che io adeſſo faccia. 18 La reggitrice , e domi, nante porzione della
tua ani maſia immutabile, e inarren . deuole a i moti della carne, o morbidi, o
aſpri che ſi fieno; ne vi ſi rimeſcoli,ma conten ga ſe ſteſſa , e confini
quegli affetti dentro i ſuoi meinbri. Quando poi per vn'altra ſim patia ſi
rinnalzaſſero alla mente , per effer ella vnita al corpo , ſtante l'eſſer il
ſen ſo connaturale , non haſli a contraſtare con violenza, pe rò la mente
reggitrice da ſe ſteſſa non v'aggiunga l'opi nione inrorno al bene, o al male. S'ha
da viuere con gli Iddij . Viue con gl'Iddij chi loro fuela continuamente la fua
anima effer contenta del diſtribuitole , ed operando tutto quello, che vuole il
ge nio , dato a ciaſcuno da Gio ue per preſidente, e rettore , come parte a ſe
medeſimo preſa, e queſto è la mente , e la ragione di ciaſcuno. 20 Non ti adiri
tu con co Jui,al quale puton l'aſcelle? E con quegli altresì,che man da fuor
dalla bocca fetente fiatore ? che ti farà coſtui ? Egli ha vna bocca ſi fatta ,
e l'aſcelle di tal condizione : Forza è , che ſimili eſalazioni eſcano da
ſimili parti ; Mal huomo , mi dirà alcuno, ha la ragione , e può s' egli au
uerte conſiderare in che egli difetti . Buon prò ti faccia . Dunque per hauer
tu ancora la ragione rifueglia la ſua ra gioneuole diſpoſizione con la tua ,
inſegnali aminoniſci lo. Perchè fe quello t'aſcol-. terà , lo riſanerai, e ſarà
fu perflua ogni collera . 21 Non fare ne da rappre fentante tragico;ne da mere
trice : Nella maniera che tu diſegni vſcir di vita , così ti lece ora di
vivere? <a quando non te lo permetteſſero , allora eſci di vita , ma però ,
come da niuno infortunio abbattuto ,ma quaſi tu dichi : Qui c'è del fumo, e io
me ne vado . Ti par queſto gran coſa ? mentre nient'altro mi fa vſci re rimango
con la libertà , e niuno mi vieterà di far quel lo , che io vorrò . Vorrò però
quello , ch'è conueniente al la natura dell'huomo ragio neuole, e nato per la
vita cos mune . 22 La inente dell'yniuerſo è comunicatiua ; e perciò hafat te
le coſe peggiori in ordine alle migliori , e le più princi pali tra di loro
ſcambieuol mente compoſe • Vedi come le ſubordinò , come inſieme le ordinò , e
come quello che cra conueniente detre a cia ſcuna e le più principali con
reciproca concordia con giunſe? 23 Come ti ſei portato fin ora con gl'Iddij,
con i geni ( tori , co fratelli , con la mo glie , con i figliuoli , co * pre
cettori,co'nutricatori, amici, domeſtici , e ferui ? hai tu fin ora oltraggiato
alcuno di - loro , o in fatti , o in parole ? -Ricordati di più per qualico fe
ſe paſſato , e quali ſe ſtato fufficiente a tollerare,e come di già per te è
adempita la • ſtoria della vita, ed è finito il miniſterio.E quante coſe bel le
hai vedute ? e quanti pia -ceri , e dolori hai diſprezza ti? quante coſe d'
apparente gloria hai neglette ? a quanti fconoſcenti ti dimoſtraſti benigno? Per
qual cagione l’ani me ſenz'arte, e fenza ſcienza conturbano il perito nell'ar
te , e l'erudito ? quale dun que farà l'anima perita nell' arte , ed erudita
nelle ſcicn • ze ? quella , che ha notizia del principio , e del fine ; e di
quella ragione , che pene trando ogni ſoſtanza dell' vniuerſo , per tutta l'età
, fe condo i periodi ordinaci,reg . ge il tutto . 25 Or or tu farai cenere , é
carcame, ' o ſolamente no 1 me,ma ne pur nome , ridu cendoſi il nome in vn poco
di ſtrepito , e di riſonanza; e certamente quelle coſe , che in queſta vita s '
hanno in i grandeſtima , ſono vane,pu tride , ſcarſe , e in guiſa dica gnolini,
che ſi mordono, e di 2 putti , che contendono , e ri dono, e ad vn tratto
paſſano al pianto. Ma la fede, la mo deſtia, la giuſtizia, e la verità Da
ilarghi ſpazi della terra alCielo s? innalzarono . Che coſa adunque qui ti
rattienca ſe le coſe ſenſibili, ſono faci liffime a mutarſi , e non ſon
conſiſtenti , e gli organi del fenſo oſcuri , e facili a ri ceuere falſe
impreſſioni, e l' iſteſſa animuccia del ſangue yna eſalazione , l'acquiſtar
gloria appreſſo queſti tali è vanità. Che dunque aſpetti? Aſpetta placido o la
eſtin zione , o la traportazione . E finchè il teinpo arriui di que ſto , che
coſa a te farà ſuffi ciente che altro ſe non il ri uerire gl’Iddij, e lodarli,
e be neficare gli huomini, sopportarli e aftenerſi da quelli ? E quanto coſe
ſono fuori del confine della carnuccia dello ſpiritello ricordati, che non ſono
tre , ne ſotto il tlio comando. Potrai profpcrarti per. fempre, e ben
incamminarti, e con buon ordine apprende dre, e operare. Queſte due co ſe ſono
comuni così all'ani ma di Dio , come a quella de gli huomini', e d'ogni ra
gioneuole viuente , cioè di non poter eſſere impedito da che che altro fi fia ,
e di porre nella giuſta affezione, e azio ne il ſuo bene; e in queſto ri ftrignere
ogni ſuo deliderio. Se ne queſto è malizia naia , ne meno l'operazione procede
dalla mia malizia , ne il comune viene offero, perchè di ciò mi trauaglio ? e
qual è il danno del comune? Non ti laſciar così totalmen te rapire dalle
immaginazio ni, ma aiutati quanto puoi , e conforme alla conuenienza; e
ancorchè nelle coſe mezza ne ſieno diffettoſi, non iftima re perciò, che queſto
ſia dan no;perchè auuiene da mala conſuetudine . Ma come yn vecchio andandoſene
richie deua la trottola del ſuo allies uo , ricordandoſi che al fine era vna
trottola , così tu quì, o huomo, quando hai fatto ne’roſt ri qualche coſa di
bel lo , non ti ricordi , che coſa queſto fia ? me ne ricordo . Ma quello è
pregiato da co loro ; perciò dunque hai an che tu da impazzare? Impaz zauo già
vna volta ſoprap preſo , douunque io foſſi , ed ero fortunato; e l'oſſer fortu
nato , conſiſte nel dare a ſe hafteſſo vna buona forte : le buone ſorti ſono i
buoni mo uimenti dell'animo , le buo ne inclinazioni , le buone azioni. La
sostanzia dell'universo è ben ubbidiente e maneggieuole. E pur la ragione , che
la reg ge , non ha in ſe cagione al cuna di mal fare; perchè non ha malizia ,
ne opera malamente , ne da eſſa coſa alcuna riceue leſione ; ma il tutto
conforme a quella fi fa e s'affina. Sia
a te indiffcrente d'operare quello , che ſi conuiene ; ſe tu ti ſenti freddo o
caldo o pur ſonnacchioſo o fazio di dormire o fc di te bene, o male ſi parli o
tu ftij ſulmorire o in qualche altra azione, mentre pure quello è vno degli
atti vitali per i quali noi finiamo. Baſta . dunque, e in queſto ben disponi il
negozio preſente. Guarda al di dentro, ac ciocchè ne la propria qualità , ne il
merito di coſa alcuna fenz ' auuedertene ti scappi . Tutto ciò, che hai dinanzi
affai presto si cambierà , o di leguandofi, se la sostanzia consiste per via
d'vnione, o dissipandoſi La mente reggitrice conosce bene con che disposizione
e che cosa e in qual materia opera . s Belliſſimo modo di ven dicarſi con chi
t'offcfe , è il non aſſomigliarſi a lui . In vna ſola cofa hai da godere , e
d’acquetarti , cioè di paf ſare da vn atto conueniente alla comunità humana ad
vn altra azione , pur conuenien te alla medeſima , con ricor darti , che ci è
Dio . 6 La facultà reggitrice è quella , che ſe ſteſſa eccita , e volge , e
forma ſe ſteſſa in quella guiſa , che ella voglia, e tutto ciò,cheauuiene ſi
rap preſenta , quale più le piace. Ciascuna cosa si conduce a fine conforme la
natura dell'universo e non secondo altra natura, che si fia, o esteriormente
ambiente o al di dentro riſerrata ouero al di fuori ſeparata . Il mondo o è vn
imbro glio , e auuiluppamento , e diſſipazione , ouero vnione , eordine , c
prouidenza : Se i primi , per qual cagione deſidero io di conuerfare con questa
massa confusa , e cotal nieſcolanza? a che m applico io ad altro , che ad
eſſere per qualche modo ter ra ? che ſto a perturbarmi? Concioſliecoſa che
qualun que coſa io mi faccia la dif ſipazione al ſicuro m'arriue rà: ma ſe è
l'altro detto in fe . condo luogo, io riueriſco co lui , che il tutto diſpone,
e in lui m’acqueto e confido. Quando gli anuenimen ti eſtranei ti violentano
per qualche verſo a perturbarti , prontamente ritorna in te ſteſſo ; e non
vſcire dal tenore , e concerto più diquello, che la neceſſità ti ſpigne. Im
perocchè cóſeruerai più con fonanza, ſe toſto in eſſa ti ri metterai . Se
inſieme tu ha uelli la matrigna, e la madre, tu quella feruireſti , e niente
dimeno del continuio alla madre fareſti ritorno . Non altro a te è ora la Corte
, e la Filoſofia : a queſta ſpeſſo ri torna, e in eſſa acquetati, per mezzo
della quale le cofe , che in quella occorrono , ti parranno più tollerabili , e
tu nell' iſteſſe coſe farai da tollerare. 10 O comeè bene formar ſi
nell'immaginatiua intorno alle viuande , e altre cole ſi mili comeſtibili : che
queſto ſia cadauero d'yn peſce,quel l'altro cadauero d'vn' vccello d'un
porcello . Simil mente , che il falerno ſia pic cola gocciola d’yn grappo lino
d'vua , e lo ſcarlatto pe luzzi di pecorella intinta col fanguuccio di vna
conchi glia . Così ancora nelle coſe intorno al congiugnimento carnale , che
fia vn diletico dell'inteſtino , e conqualche conuulfione yna egeſtione di yn
moccino.Ora come queſti fimili conceputi penſieripe netrano je toccano il fon
dodelle coſe in modo , che ſi vedano talis quali elle fono in queſta maniera
biſogna ſeruirſi di queſti in tutta la vita , e doue le coſe paiono più degne
di fede , dinudarz le , e riguardar la loro viltà e ſuilupparie dalla pompa ,
con la quale foſſero poſte in G 3 alterigia.Poichè l'apparenza è vnagrande
ingannatrice e maſſime quando tu penſi di trattare le coſe ferie , allora più
che mai t'affaſcini . Mira dunque a quel , che diſſe Cratete di Senocrate . Il
più delle coſe , che la inolti tudine degli huomini ammi ra , ſi riduce
generalmente a quelle , che hanno dalla na tura le forme, o dall'arte fon loro
aggiunte ; per cfemplo , le pietre , le legne , i fichi, le viti , e gli oliui
, e quelle , che vengono ſtimate da huo mini alquanto più moderati, fi riducono
alle coſe animate, ome a dire, gregge , ar menti : ma quelle , che ſono
pregiate da perſone di più garbo, ſono le dotate d'a nima ragioneuole , non già
di quell'anima , che è dell' vniuerfale , ma di quella , che fi val dell'arte ,
o altri mente come con ingegno penetra , o per dirlo ſempli cemente tutto tiene
ſogget to , in guiſa d'una quantità diſchiaui. Però chi dell'ani ma
ragioneuole, vniuerfale , e ciuile fa conto , non bada a nient'altro , ma ſopra
il tutto conferua la propria anima di ſpoſta , e ſemouente ragione uolmcnte , e
alla comunica zione humana , é con l'vni uerfale , ch'è del medeſimo genere,
coopera . II Alcune coſe s'auanza no al lor facimento , e altre s'auanzano al
lordisfaci mento ; e di quello , cheſi va facendo, vna parte già è ſpas rita .
I corſi delle coſe , e l'al G 4 te terazioni continuamentc ri nouellano
l'infinita eternità , cd il Mondo ; nella maniera , che il corſo non mai man
cante del tempo lo rende ſempre recente . E chi è que gli , che in queſta
corrente poſſa affezionarſi ad alcuna di quelle coſe , che via traf ſcorrono ,
mentre in quella non può arreſtarſi a queſti fa + rebbe in guiſa d'vno, che ſi
metteſſe ad amare vn paſie rotto di quelli , che col volo trapaſſano, dopo che
già dal. la viſta foffe fcappato . La vi ta di ciaſcheduno è come lo ſuaporamento
del ſangue , e'l reſpirardell'aria . Poichè. qual'è l'attrarre dell'aria , e il
renderla, che del continuo ciaſcuno fa, tale è ogni fa cultà reſpiratiua , che
ieri , o ieri 1 ieri l'altro nafcendo fi rice uè , e l’ha da irimandare là ,
donde primafu colta . 12 Stimabil coſa non è , ne l'efferc fuentolati , come le
piante , ne il reſpirare ,come le beſtie , e le fieregne il riceue re
l'impreſſioni nell'immagi nazione , ne l'effer tirato dal l'impėto delle
paſſioni, ne lº adunarfi inſieme,ne l'alimen tarſi ; poichè queſto è il me
deſimo , che lo ſcaricar il fo prauanzo dell'alimento . Di che s'haurà da far
conto de lo sbattimento delle mani ? Non già . Dunque ne meno dell'applaufo
delle lingue ; poichè gli applaufi , ele ladi della moltitudine altro non fono
, che ſtrepito di lingue . Mentre tu dunquc leui via queſta glorietta che ci
riina G 5 ne da pregiare ? Io per me re puto ,che ſia il muouerſi, e com
tenerſi fecondo la propria conſtituzione là;doue gli ftu dij,e l'arti
conducono.Poichè ogni arte ha queſto per mira, che quello, che appreſta , lia
abile all'opera , per la quale è diſegnato . Queſto pure ri cerca il lauoratore
della vi gna , ed il cozzone de' pule dri, e’lcanattiere . E ledu cazione de'
fanciulli, e glin. ſegnamenti a che altro s'in dirizzano ? Qui dunque con ſiſte
il pregio , e , ſe ciò ti ſta rà bene , di niente altro ti curerai. Cheſe non
ti quie ti , e ſtimeraipiù altre coſe , allora non goderai della li bertà , ne
ſarai ſufficiente a te ſteſſo , ne immune dalle paſſioni ; conciofficcola che
ti D ti ſarà di meſtiere d'eſercitar Pinuidia , e l'emulazione , e'l ſoſpetto
verſo quelli , che habbiano potere di priuarti delle dette cofe ; e anco di
macchinar contro quelli » che le da te ftimate poſſiedo no . Onninamente è
neceſſa rio che ſi conturbi chi ďal cuna di dette coſe è biſogno fo , e che in
oltre ſpeſſo faccia doglienza degl' Iddij . Ma chi la ſua propria mente ris
ueriſce , e pregia , compiace rà a ſe ſteſſo , e a quelli , che fecocomunicano
s'adatterà , e fi conformerà con gl'Iddij, cioè loderà quanto eſli defti nano ,
e diſtribuiſcono. Le moſſe degli elemen ti ſono in giù, in fu , e in giro: però
il monimento dellavirtù non confifte in niuna di que G 6 ſtę ; + R ng ſte ;ma come coſa più diuina , per via
malageuole a cõpren dere felicemente s'auanza. Che è quello, che fan no
glihuomini ? ricuſano di lodare coloro , che nel me deſimo tempo , e inſieme
con effi viuono, e poi queſti iſteſ fi fanno gran conto d'eſſer lodati da’
poſteri , i quali ne mai conobbero , ne mai vec dranno ; ed è quaſi lo ſteſſo ,
che fe tu ti doleſli , che da gli antepaſſati in lode tua non foſſe ſtato mai
parlato. Non perchèate ſteſſo quello fia difficile a confe guire, hai
d'apprendere ,che Via impoſſibile all'haomo; ma ſe queſto all'huomo è pofſi
bile , e conuencuole , Itima che anco tu lo poſſi arriuare. 16 Negli eſercizij
corpo rali 1 DIMARCO rali , ſe vno con l'vnghie graffia , o vrtando il capo ha
urà fatto piaga , non perciò glie la ſegnamo , ne ce n'of fendiamo , ne ombra
ne prendiamo come d'inſidia tore ; ancorchè ci guardiamo da lui , non , come da
nimi co , ne con ſoſpetto , ma piaceuolmente ſcanſandoci. Queſto medeſimo s'vſi
da noi ancora nell'altre parti , che reſtano della vita noſtra, do ue ci
affatichiamo aſſai , co me contro quelli , che con noi s'eſercitano; perchè vn
può , come ho detto , fcan fargli ſenza ſoſpetto , e odio . 17 Se alcuno potrà
cor reggermi , o moſtrarmi, che io dalretto m’abbaglio con l'opinione , e con
l'opere , di buona voglia mimuterò , essendo in me brama della vee rità , la
quale non nocque mai ad alcuno: ma egli vien leſo dal proprio errore , e dalla
ſua ignoranza , nella quale egli perſiſte.Io fo quel lo , ch'appartiene al mio
of ficio ; l'altre coſe non mi di ſtraggono , perchè ſono ina nimate , o
irragioneuoli , o che errano e non riconoscono la strada. De viuenti
irragioneuoli , e vniuerfal mente di tutte le coſe , e dem ſoggetti tu come
ragioneuo le ſeruitene con grandezza d'animo, e franchezza , giac chè ragione
non hanno; ma degli huomini , perchè eſ hanno la ragione, ſeruitene nel modo ,
checonuiene alla focietà humana. E ſopra tutto inuoca gl'Iddij, e non ti pi 1 gliar
penadi quanto tempo tu haida porre in queſta o pera , perchè tre fole ore fo no
baſteuoli. Alessandro Macedone , e 'l ſuo mulattiere , ora che ſon morti , ſono
in tutto ri dotti al medeſimo . Auue gnachè o ſono aſſunti nell' iſteſſe
ſeminali ragioni del Mondo 20 parimente ſono difperfi ne gli atomi. Conſidera
quante coſes. dell'animo , o del corpo in yn momento di tempo in qualſiuoglia
di noi tutte in ſieme fi facciano ; ed in tal guifa non ti marauiglierai , fe
molte più coſe , anzi tutto quello , che ſi fà , in queſt vno , c yniuerfo ,
che noi chiamamo Mondo , parinen te ſufliſtano.in 2Se alcuno t'interro ga ,
come fi ſcriua il nome & ANTONINO , proferirai tu appuntatamente ciaſcu-.
na delle lettere ? Che dun que s'egli entrerà in colles ra ,entrerai ancor tu
in collera? Anzi più toſto profe guendo non conterai tu ad vna ad vna con
piaceuolezza le lettere ? Però queſto ti ri durrai nella memoria , che ciò ,
che è conueniente , da alcuni numeri riceue il ſuo compimento.Queſti biſogna
offeruare , e ſenza turbarſi, ne ſdegnarſi contro quelli , che prendeſſero
Idegno , ter minar la faccenda per lo pro prio cammino. E' come yna crudeltà il
non permettere agli huomi ni che ſi diano a far quello , che pare a loro
s'adatti , e conuenga . Il che in vn certo modo tu vieti loro di fare , quando,
peccando eſſi, tu ti diſguſti, e ti ſdegni; auuegna chè allora ſon portati a
quel lo come a coſa, a loro conuc niente, e profitteuole. Ma la cofa , mi dirai
, non va così . Dunque tu inſtruiſcili , e ciò dimoſtra loro ſenza alterarti.
22 La morte fa cellare l' impreſſioni, che da i ſenſi si cagionano . , le
commozioni violente per l'affezioni, co me ancora gli aggiramenti mentali , e
ogni ſeruitù ver ſo della carne . Diſdiceuole coſa è , che in quella ſorte di
vita, nella quale il corpo non s'infiacchiſce , l'anima prima del corpo
s'infieuoliſca. Guarda di non inccfa rirti , per non intriderti , che così
fuole auucnire . Però conferua in te ſteſſo la ſchiettezza, la probità, l'inte
grità ,la conueneuelezza, l'in genuità , l'amore del giuſto , la pietà , la
piaceuol ezza , l'humanità, la fermezza nell operare cofe comuenienti .
Sforzati di mantenerti tale , quale fu l'intento della Filo ſofia di formarci .
Venera gľ Iddij , protegi gli huomini. Breue è la vita , e l' vnico frutto del
viuer in terra è vna ſanta compoſtura d'ani mo, ed il far opere indirizza te al
comun bene degli altri . In ſomma fa ogni coſa da vero allieuo di ANTONINO, Rio
cordati , come egli sempre sta in un retto tuono d'operare ſecondo la ragione dell’uguaglianza
ſua in tutte le cose della santità, della serenità della faccia della soauità,
del diſprezzo della vanagloria e dell'attenzione nell'apprender gli affari . E
come egli non haurebbe trapaſſato coſa alcuna , ſe prima non l'haueſſe ben co
noſciuta , e perfettamente confiderata ; e come egli comportaua quelli', che di
eſſo a torto ſi lamentauano , ſenza ridolerſi diloro ; e co ine in coſa alcuna
non s'af frettaua , c non ammetteua calunnie ; ne de' coſtumi, o dell'azioni
era curiofo fpia tore , ne rinfacciatore , non timido non ſoſpettoſo , non
ſofifta ; ecome conten tauaſi del poco sì nell'abi tare , sì net dormire , sì
pel 0 e veſtire, sì nel mangiare , si nella ſeruitù ; come, pronto trauagliaua
volontieri nel le fatiche, e con longanimi tà ; e in qual modo fe la paf ſaua
fin alla ſera con leggier riſtoro ; non hauendo biſo gno fuor delle ore conſue
te delle folite egeſtioni. In oltre conſidera la fermezza di lui fenza niuna
variazio ne nell'amicizie ; e la tol leranza' di chi liberamente contradicena
a’fuoi pareri, e't godimento , fe venina da al tri moſtrata cofa migliore ; e
come era , religioſo ſenza fuperſtizione : acciocchè nel l'vltinio punto della
tua vita ti truoui con fi buon co noſcimento di te fteffo , me'anuenne a lui. Riſuegliati
e richiama te fter D fteſlo , e di nuouo fuori del fon no conſidera che i ſogni
ti perturbauano, Torna riſuc gliato a rimirare queſte coſe humane, come miraui
quelli. 25 Son compoſto di cor picciuolo , e d'anima . Al corpicciuolo dunque
ogni coſa è vna , poichè egli non può farui differenza ; maall? intendimento
tutto quello è indifferente , che non è del le ſue proprie operazioni Ora le
ſue operazioni tutte ſono nel di lui potere; e fra queſte, quelle che al preſen
te folo maneggia : mentre quelle dell'auuenire , o quel le del paſſato anche
eſſe già a lui ſono indifferenti. Non è fuor di natura la fatica alla mano , e
al piede, finchè il piede fa quello, che ha da fare il piede, e la ma no quello
, che la mano. Co sì ancora all'huomo , come huomo , non è fuor di natu ra la
fatica quando opera quello , che ſi ſpetta all’huo mo ; c ſe ciò a lui non è
fuor di natura , non gli ſta male . Quanti piaceri ſi goderono i maſnadieri, i
zanzeri , i par ricidi, i tiranni ? Non confi deri come i mecanici artiſti
infino agl'idioti in vn certo modo s' accomodano nientedimeno ſoſtengono la
regola della loro arte , ne comportano , che da quella ſi manchi , Non farà
coſa ſconueneuole , che l'archi tetto , o il medico riſpettino più la ragione
della propria arte, che l'huomo la ſua , la quale gli è comune con gli Iddij?
L'Asia , l'Europa ſono angoli del Mondo : tutto ľ Oceano vna gocciola del Mondo
: il monte Atho una zollerella del Mondo : ogni tempo , che corre yn punto
dell'eternità . Tutte ſon coſe piccolc , facili a mutarſi , che preſto
fuaniſcono là , donde procedono , deriuando tutte dal comun direttore . Sicchè
il grifo del Leone , e'l vele no , e ogni maleficio ,come le ſpine, ela mota ,
ſono giun te forucnute da quelle coſe degne , e buonc . Dunque queſte coſe non
reputar alie , ne da quello , che tu riueriſci, ma riuolgi nella tua mente il
fonte di tutte le coſe . 28 Chi vede le coſe pre fenti , l'ha vedute tutte ,
fieno quelle , che furono per tutti i ſe 70 12 lle of chi in ori ſecoli , o
quelle , che per gli infiniti ſaranno;eſſendo tutte dell'iſteſſo genere , e
confor mità. Conſidera bene ſpeſſo la congiunzione di tutte le coſe mondane,e
l'abitudine; o il riſpetto , che vna ha con l'altra ; giacchè in certo mo do
tra ſe tutte le coſe ſono intrecciate, e così tra di loro , ſecondo queſto , ſi
affeziona no , poichè vna ſeguita l'al tra, o ſiaſi per lo moto loca le , o per
la coſpirazione, o per l'vnione della ſoſtanzia. Adatta te ſteſſo a que'
negozij; che ci ſono toccati in forte , ea quelli huomini, co’quali ſei
deſtinato d'eſſere, poni affetto, ma di vero cuo re. Gl'iſtrumenti, gli arneſi,
e ognivaſo, ſe a quello , ache è stato ordinato s'accomoda, è buono ; ancorchè
quegli', che lo fabbricò no vi ſia più. Ma di quelle coſe , che ſotto la natura
ſi contengono den tro vi è ; eperſeuera la facult tà che le diſpoſe . Perciò
tanto più deeſi quella vene rare; e ſtimare , perchè ſe tu opererai , e ti
gouernerai conforme al voler di quella , il tutto ti riuſcirà , ſecondo la tua
intenzione ; così an cora ad ognuno le cofe - rie ſcono , fecondo la mente di
lui . 30 Quando fuor di quello , che cade ſotto la tua elezio ne hai a te
ſteſſo preſuppoſto o bene , o male', è neceffa . rio , ſecondo l'auuenimento di
detto male' , o miſauueni mento di detto bene , lan H mentarti degl'Iddij , e
anco ra odiar ' gli huomini , che ſieno ſtati cagione , o che a te ſieno
ſoſpetti, come che poteſſero eſſer cagione di detti miſauuenimenti , o au
uenimenti . E per queſta dif. ferenza verremo pure a peca car molto. Ma ſe folo
giudi chiamo le coſe buone o cattiue , che ſono in noftro potere, non ci rimane
niuna cagione, ne di dolerci di Dio , ne di contro gli huo mini con oſtil
ſedizione op porci - 31 Tutti cooperiamo a compiere l'iſteſſo ouraggio , alcuni
ſapendo , e compren dendolo alcuni ſenza ſaper lo . E quindi, al mio parere ,
Heraclito chiama operarij, e cooperarij nel facimento di tutto quello , che nel
Mondo ſi fajanco da'dormienti.Altri in altro modo coopera , e molto largamente
ancora quegli , che ſi querela, e que gli , che ſi sforza d'opporſi , e di
diſtrugger le coſe ,che ſi fanno : concioffiecoſa che , di ciò hebbe meſtiere
ilMon do . Reſta dunque , che tu intenda tra quali di queſti tutti annoueri ;
poichè l’ ordinator del tutto in ogni maniera ſi ſeruirà bene di te , e ti
riceuerà in qualche parte di quelli , che cooperano , 0 poſſono operare ; ma tu
fa di non hauer tal parte , quale nel dramavn vile , e ridico lo verſo
mentouato da Cri ſippo . Forſe che'l sol ambiſce far da pioggia ? ed Eſculapio
da terra fruttifera ? Non vedi com 3 li H 2 me ciaſcuna ſtella, quantun que
dall'altre diuerfa , nien tediineno al facimento di vna , e iſteſſa coſa concor
re 32 Se dunquegl'Iddij han no deliberato dime, e delle coſe , che a me ſono
per au uenire , la deliberazione non farà , ſe non buona : hauena do in fe
repugnanza il penſar yn Dio ſenzaconſiglio . Qual cagione lo mouerebbe a far mi
del male ? Poſciachè a los ro , e all'vniuerſo , del quale hanno ſpezial
promuidenza, da ciò che ne riſulterebbe ? ma ſe intorno a me non de liberarono
, certamente in torno dell' vniuerfo hanno deliberato , per cui conſe guenza
eſſendo queſti auue nimenti ordinati , debbo ab bracciarli, ed eſſer contento .
Se poi di nulla ſi pigliano cura , il che è empio a crede Te , non
facrifichiamo noi ? non porghiamo preghiere ? non giuriamo ? e non faccia mo
altre coſe , le quali tutte agl' Iddij , come ſe foſſero prefenti , e
conuerſaſſero con noi ; indirizziąmo ? E ſean cora niente in riguardo no ftro
deliberano , farà lecito ch'io pigli deliberazione di me ftcflojie la mia
riſoluzio nenon farà altro , che intor no a quello , che mi torna 'bene
;maquello torna bene a ciaſcheduno', che è fecon do la ſua conſtituzione , e
nåtura . Ora la mia natura è ragioneuole , c cittadineſca . La Città , e la
patria è a me Roma, in quanto ſon ma in quanto ſon huo . mo è il Mondo . Dunque
quelle coſe , che a queſte Cittadi sono d'vtile, quelle fole ſono a mebuone.
Quello che a ciaſcuno auuiene, conferiſce al' tutto . Queſto doueua effer
fufficientes ma ancora di più quello in ogni maniera con perfpicacia of
feruerai , che ciò , che acca de conferente all'huomo , anche agli altri
huomini conferiſce . Ma al preſente s'intenda queſta parola Eup Os pov nelle
coſe mezzane in ſenſo comune al bene , e al male. Come quanto ti ſi rap
preſenta nella faccia del Theatro , o di ſimili luoghi , fe in vn modoſempre ſi
ve de , e non mai cambi l'aſpetto, diuiene ſazieuole alla vi fta , l'iſtella
apprenſione ſi fa negli auuenimenti per tutta la vita . Poichè ſottoſopra tutte
le coſe ſono le medeſi me , e dalle medeſine ca gioni . Sin doue dunque ?
Conſidera del continuo tuto te le ſorti d' huomini , e ď ogni ſorte di
profeſſione , e di tutte le nazioni, quei che fono morti, con arriuare fi no a
Filiſtione , Febo , e Ori ganione . Paffa adeſſo ad al tre nazioni . Colà
hauemo da tragettare , doue traget tarono tanti graui oratori, tanti venerandi
Filoſofi . He. raclito , Pitagora , Socrate , tanti Eroi primieramente, e poi
tanti condottieri , e ti ranni: e appreſſo a loro Eu doſſo, Hipparco,
Archimede, e altri di perſpicace ingegno, magnanimi , amatori della fatica ,
Scaltriti , arroganti : e quelli ancora , che di que fta vita humana caduca, e
giornaliera ſi ferono beffe come Menippo, e ſimili. Tut ti queſti conſidera che
già yn pezzo fa giacciono . Ora che male è a loro queſto , e che male a quelli
ancora , che in tutto ſono ſenza niuna no minata ? Vna coſa iui è dc gna di
ſtima , il viucr tran quillamente con li bugiardi , e gl'ingiuſti , vſando la
veri , tà ,e la giuſtizia . 34. Quando tu vogli ralle grarti, riuolgil'animo
all’ec cellenze di quei : , ché teco viuono : come a dire all'atti uità di
quegli , alla modeſtia di queſti , alla liberalità d ? vno e così ad altra
virtù di qualche altro . Non ci effen , do cofa , che tanto rallegri , quanto
le ſomiglianze delle virtudi alviuo rilucenti nelli coftumi de contemporaneiig
le quali tutte in vn tratto in fieme a noi rappreſentano. Per lo cheper quanto
è pof fibile , le hai d ' hauer ſempre alle mano. Forſi tu ti duoli , che fei
ſolamente di tante libbre, e non di trecento di Nell' iſtefla maniera , che
fino a tanti anni prolungherai la vita , e non più . Perchè co me della
ſoſtanzia corporea in quanto the determinata e acquieti, così fa ancora del
tempo . 36. Sforciamoci di render gli huomini capaci: però o pereremo ancora
qualche cofà contra guſto loro, quan do la ragione del giuſto così richieda.E
ſe qualcuno vſan doti violenzati si oppone , trapaſſa alla placidezza fen za
dolerti; e dell'impedimen to feruitene per vn'altra, vir tù ; e ricordati che
tu deſideri le coſe con dell'eccettuazio ne , non appetendocofe im . poflibili.
Che coſa dunque appetiſco ? quel certo defi derio regolato ; e queſto tu
ottieniquando , arriua quel lo , che primo, e principal mente viene deſiderato.
L'amator della gloria dall'opere d'altri ſi perſuade il proprio bene; quegli ,
che ama la voluttà , dalle ſue pafſioni : ma chi ha ceruello , dalla propria
operazione! E' in tuo potere ſopra ciò non formarne opinione , e non
perturbarti nell'animo. concioſliecoſa che niuna co fa ha vna natural poffanza
ſopra i noſtri giudicii. Auuezzate ſteſſo ad apo plicare attentamente a quel le
coſe , che da vn'altro fo no dette ; e più che puoi in ternâtinell'animo di chi
fta parlandoti . 40 Quello, che non è gio . neuoleallo fciame , ne' meno gioua
alla pecchia. Se i marinari parlaffe Fo
male del loro piloto , 0 gli ammalari del loro media co , forſe per ciò ad
altro ar tenderebbono, che all'opera re , quegli per la ſaluezza de' nauiganti,
e queſti per la fanità di quei , che fi ciira no? Quanti fon già morti
diquelli, che meco ſon en trati nel Mondo ? -43. Aglitterici pare ilme-, le
amaro : e a ' morſi da ani mal rabbioſo l'acqua è di terrore : e alli putti è
coſa bella il palloncino . A che dunque io m'adiro ? forſi.pa re a te , che
habbia minor forza quello , che falſamen te s'apprende , di quello cheha la
bile nell'itterico , o'l veleno nell'arrabbiato a Non t'impedirà perſona , che tu
non viua ſecondo la condizione della tua natu rà: e niente t'amierrà fuori
della ragione della natura dell’vniuerfo .. 44 Quali ſono quelli , alli quali
ſi deſidcra d'andar a verſo, e per qualiauuenimen , ti , e con quali opere ? 0
quanto preſto i ſecoli ogni coſa copriranno , e quante han di già ricoperte!
Che coſa è la mal nagità? è quello , che ſpeſſo hai veduto ; e ad ognicoſa ,
che ti ſoprauuenga , prontamente rappreſon tati, eſſer lo ſteſſo , che ſpef fo
hai veduto . Vniucrſala mente nelle coſe ſuperiori , ed inferiori , trouerai le
me deſime, delle quali ſono pie nele Storie antiche , e quelle di mezzo tempo,
e lemoder ne , e ora ne ſono piene le cittadi , e le caſe . Non ci è niente di
nuouo, tutto è vſa to , e di corta durata. I dogmi , in qual' altra maniera ſi
potranno in te cancellare ſe l'immagina zioni., che a quelli ſono con formi non
ſi eſtinguono , le quali, a te ſta di continua menté rauuiuare? Reſta in mio
poter di fare intorno a ciò quel concetto , che ſi conuiene: e ſe ſta nel poter
mio , a chemi turbo ? Quel lo , ch'è fuori della mia men te , non ha che fare
in modo alcuno con la medeſima mente . Queſtoſia il tuo ſen timento , e cositu
ſei retto . 3 Pofciache in tua balia è il ritornare in vita, riconoſci le coſe
nel modo , che le hai già vedute ; perchè in ciò conſiſte il ritornare in vita
: Tali ſono la vana curioſità delle pompe , le rappreſen tazioni nelle fecne ,
i bran chi d'animali , le mandre, i giuochi d'arme ; vn ofſetto gettato a
cagnolini; i minuz žoli di pane buttati nel viua io de' pefci , i trauagli , e
il vettureggiare delle formi che, le corfe in quà se'n là de toperti ſpauentati
, i bam bocei, a quali ſi fanno far de moti con cordićelle . Bi fogna dunque
tra queſte coſe fermarſi con animo tranquil lo , e ſenza ſtrepito : e confe
guentemente apprendere , che tanto ciaſcun vale,quan to vagliono le coſe ,
intorno alle quali s'affanna . 4 E' neceſſario attendere nel parlare parola per
parola a quello , che ſi dice : e nell' operare ad ogni moto : e nel l'vno
riguardare ſubito a qual fine ſi rapporti ; e nell? altro oſſeruare quello ,
che venga ſignificato 5 E' ſufficiente il mio intel letto per queſto , o non è
? s' egli è ſufficiente io me ne vaglio come d'inſtrumento datomi dalla natura
dell'yni uerſo nell'opcrare ; se non è ſufficiente , o io cedo l'ope ra a chi
poffa meglio di me condurla a fine, ſe non foſſe a me ſteſſo ſpettante , o vero
la fo come poffo , feruendomi dell'aiuto di quegli, che può cooperando col mio
intellet to effettuare quelloche ſia di preſente opportuno , e vtile alla
comunione humana:per ciocchè ciò che fo, o da per 3 2 3 ine me ſolo , o con
altri, dee ſolo indirizzarſi a quello ch'è pro ficuo , e più proporzionato al
comune . Quanti , che ſom mamente furono celebrati , di già ſono paſſati
nell'obbli uione ? E quanti, che li cele brarono già tempo fa , ſono ſpariti a
Non ti vergognar d effere aiutato; poichè ti con uiene operare quello, che ti
appartiene , come ad vn ſol dato nell'affalto d'vna mura glia . Che dunque
fareſti , ſe azzopppato non poteffi ſolo aſcendere fu i merli, e con yn altro
poteſſi farlo ? 6 Quello, che ha da auueni re non ti ſgomenti, perchè giugnerai
a quello , fe ſarà di vopo , fornito dell'iſteſſa ra ; gione , della quale tu
ora ti ferui in ciò , che t'è preſente. olo bro gal ]l DO ď ti -7 Tutte le coſe
ſono tra di loro auuinte , ed il nodo è fa cro , e quaſi' niuna è all'altra
ſtraniera . Concioffie cofa che tra fc sono ordinatamente disposte, e adornano
l'istesso mondo , poichè di tutte le coſe queſto è vno , e Dio è vno per tutto
, vna la natura , e yna la legge , vna la ragio ne comune a tutti i viuenti
intellettuali , e la verità yna, doue pure vna è la perfezio ne di quelli, che
ſono dell' iſteſſo genere, e di quei, che della medeſima ragione par ticipano.
Ogni coſa materia le preſtamente va a ſuanire nella ſoſtanzia dell'vniuerfo : e
ogni cagione'efficiente pre ſtamente è aſſorbita dalla ragione vniuerſale . I
ſecoli ancora dentro di fe ſeppelli ſcono lo ni. che id at to s ſcono
preſtamente la mc moria di ciaſcheduno, s,is :: 8 L'animal ragioneuole ha la
medeſima opcrazionéry fe condo la natura se ſecondo la ragione , o retto o
raddirizzato. Con qual? abitudine fi riguardano i membrivnitid vn corpo con
tale fi confans no gli enti ragioneuoli, ben chè diſuniti, PER HAVER DISPOSIZIONE
A CONCORRERE IN UNA COOPERAZIONE. E maggior mente ti s'imprimerà l'intelligenza
di queſto , ſe ſpeffe fiate diraia te ſteffo « Io ſono membro di queſto , aduna
mento di razionali . Ma ſe col mutamento d'yna lettera dip'sno , cioè membro,
farai fe'egos, che fuona parte, non di cuore porterai amore agli huo INC die a
re ſteſſo . id -11 huomini , ene anche tu non ti compiacerai fenz hauere altro
fine della beneficienza f operando per 'mera conue polo nienza , e non come per
far beneficio . 10 Accada ciò che ſi vuole i d'eſteriori arucnimenti ſopra a
coloro , che poſſono patir queſti accidenti, e quelli pa tendo ſi querelino
pure à lor e voglia : che quanto a me , se io non reputo che ſia male
l'auuenuto accidente ,non ne reſto lefo : ora da me dipen de il non reputarlo.
II Qualunque coſa altri ſi faccia, o ſi dica, tocca a med eſſer huomo
dabbene:non al trimente, che ſe l'oroj ouero lo ſmeraldo , o la porporaco si
delcontinuo diceſse ; Che che altri ſi faccia , o dica ; a na or el file 7110
Nad fe -em are di col me 1POC fuc da са ) ſim bil vie La 011 me tocca d '
eſſere ſmeraldo, e di ritenere il mio proprio colore. La porzione , che è in
noi reggitrice,non è a ſe ſteſ ſa moleſta , cioè à dire , ella non s'atterriſce
ne s'affige con la cupidigia , e ſe altri è poſſente d'atterrirla, ò di
contriftarla, lo faccia . Certo è cheda per ſe ſteſſa con l'ap prenſione non fi
riuolgerà a tali commouimenti . Alcor , picciuolo ſi laſci il penſiero , che
non patiſca coſa alcuna , ſe potrà; e ſe patiſce lo dica. Però l'animuccia, che
teme, e s'attriſta , e riceuc total mente l'apprenſione , niente patirà ;
concioffiecofa che non procederà mai al giudizio di cose simili. Quanto a ſe
ſteſſa la por qu Id nd CC n A 0 porzione
in noi réggitrice è fuori d'ognibiſogno, ſepure da ſe ſteſſa ella non ſi fabbri
ca la neceſsità , e nella mede fima maniera è imperturba bile, ed incapace
d'impedi mento , fe da ſe ſteſſa non vien perturbata, o impedita. La felicità è
il buon genio, o l'iſteſſo bene. Che dunque quì fai o fantaſia ? deh pergľ
Iddij, vattene comevenifti , nonho vopo di te.Seivenuta conforme all'antica
vfanza: non m'adiro teco ; ma vatte ne vna volta . 14 Alcuno ha paura della
tramutazione ; e qual coſa può eſſere ſenza tramutazio ne , e quale è più di
lei ami ca , o domeſtica alla natura dell'yniuerfo ? Ti potreſti tu lauare, ſe
le legne non ſi tra 2 1 21 -2 al che d 1 mil 1mutaſsero ? ti potreſti nutri re,
ſe i camangiari non ſi tra mutaſſero ? che altro fi com pierebbe di neceſſario
ſenza la mutazione?Non vedi dun que come ancora il tuo tra mutarti è
confacerole, e pa rimenre neceſſario alla natu ra dell'yniuerſo ?. Per l'effen
za di queſto trapaſſano quaſi per yn torrente tutti i cor pi connaturali; e
cooperanti con l'yniuerfo , almodo che le parti noſtre tra di loro cooperano.
QuantiChriſippi, quanti Socrati , quantiEpit teti il tempo s'è inghiottito?
l'iſteſſo in fatti ti ſouuenga di qualunque huomo, e di qua lunque coſa . Vna
coſa fola cruciandomi mi ſcontorce, cioè, che io non forſe faccia quello, che
la conſtituzione dell'huomo non vuole , o nel la maniera , che non vuole , o
come al preſente non vuole . Tra poco tu ti ſcorderai di tutti, e tra poco
tutti ſi ſcor deranno di te. 15 Proprio è dell'huomo amare anco quelli, che
erra no;e queſto ſi fa, ſe nel mede ſimo tempo ti ſouuerrà , che quelli , che
peccano , ſono a te congiunti ; e che o per ignoranza , o non volendo, peccano;
e come tra breuil ſimo tempo , e tu , e quellive n'andrete: e ſopra tutto per
chè non ti ha leſo , mentre la porzione tua principale non l'ha deteriorata più
che per linnanzi ella ſi foſſe. 16 La natura dell' vniuerfo dall'eſſenza
vniuerfale, come ha ora formato vn ca : 3 . da cera , 194 LIBRO SETTIMO
caualluccio , e poi, quello di ftruggendo, ſe n'è valuta per materia d ' yn
albero di poi d'vn homicciuolo , e appref lo per qualch' altra coſa ; e
ciaſcuna di queſte ha durato per cortiffimo ſpazio . Non reca al caffettino
molcftia if diſcomporlo , ficome non gliela recò ne meno il fabbricarlo. La
ſdegnoſa torbidez za del volto è oltre modo fuordel naturale; perchè fa fpeſſe
fiate ſuanire la gratia di quello , ouero alla fine in guifa l'eſtingue ,
ch'ella non poſla giammai più ràuuiuarſi: Dunque, per queſto iſteſſo sforzati
di apprendere che quello è fuori della ragione ; poſciachè, ſe il riſentimento contra
il peccare fi perde, a che gioua il viuere ? 18 Le coſe , che tu vedi , tutto
tra poco le muterà la natura , che gouerna il tutto ; e dall'eſſere di queſte
pro durrà altre cofe , come di nuouo altre dall' effenza di quelle , acciocchè
il Mondo di continuo ſi conferui in giouentù . 19 Quando vn commerta errore
contro di re , toſto conſidera , che coſa egli pec Cando s'immaginò di bene , o
dimale : perchè,conoſcen do queſto , lo compatirai , ſenza marauigliarti, o adi
Tarti . Pofciache o formerai l'isteſſo concetto del bene ch' eſſo formò , o
altro ſimi le a quello concepirai , on de fia neceſſario perdonar gli . Ma
quando anco tu non 1 3 2 I 2 facefli lifteffo concetto del bene, o delmale , ti
renderai più facilmente benigno ver fo colui , che ha traueduto . 20 Non
s'hanno da conſi derare le coſe aſſenti nel ino do di quelle , che ora ſono :
ma fi dee ſcegliere delle preſenti le più abili , e ricor darſi con quanto
ſtudio quc fte fi cercherebbono , fe non foſſero preſenti. Però è inſic me da
guardare cheper trop. po gradirle non ti auuezzi a ſtimarle vantaggioſamente .,
a ſegno tale , che, ſe ti inan caffero , te ne turbaſſi . 1.21 Raccogliti in te
mede mo. La parte ragioncuole , e principale , è di tal natura , ch'è
ſufficiente a ſe ſteffa , quando giuſtamente opera ; e in ciò truoua la sua
quiere. Scancella l'immaginazione, arreſta la violenza delle par fioni ,
circonfcriui il prefente del tempo , riconoſci quello, che auuiene così a te ,
come ad altri : diftingui , e partiſci quello , che ti ſta fra mano nelle fue
cagionimateriali, e caufali: figurati l'vltima ora : laſcia l'errore comineffo
a quello , e dove fu l'errore. L'animo dee star applicato a quanto si dice e la
mente dee internarsi nelle cose operate, e negli operanti : Abbelliſci te
ſteffo colla ſemplicità, è vergogna , e coll indifferenza , ch'è in mezzo tra
la virtù, e'l vizio . Ama il genere humano, con formati con Dio . Quegli diſſe,
ogni coſa eſſer ordina ta con legge certa , ma gl’elementi soli muoverſi con
mouimento incerto , e for tuito . Baſta hauer nella me moria tutte le coſe
eſſere rc golate con legge fiſſa , c po chiffime andare a caſo .. 23 Intorno
alla morte : 0 è diſipazione , o atomi, o euacuazione , o eſtinzione, o
trapaſſo . Intorno al dolore : fe non è ſoffribile porta via ſe fi allunga nõ è
inſoffribile; e l'animo nel formare i con cetti conferua la ſua pro pria
tranquillità , e la parte ſuperiore non peggiora: le parti affitre dal dolore ,
ſe poſſono,palefino il loro ſen timento . Intorno alla glo ria : riguarda gli
animi di co loro , quali ſieno, e qualico fe abborriſchino, e qualiap
petiſchino : e come l'arene de i lidi , che vna ſopra l'al tra venendo a
ſoprapporſi naſcondono le prime, fimil mente nel noſtro viuere le coſe
antecedenti ſono dalle foprauuenute ben preſto ca cellate . 24 Da Platone.
Penſi tu dunque , che quegli, che ha penfieri da magnanimo colla fpeculazione
d'ogni tempo , e d'ogni ſoſtanzia faccia gran concetto del viuere dell'huo po ?
Non può eſſer che ſia , riſpoſe . Dunque ne queſti potrà reputare che ſia male
la morte . Non per certo . Detto di Antiftene. E' coſa da Re operar bene, e
riceuer ne biaſimo . E ' ſconuenelio le , che'l noſtro volto obbe diſca , e ſi
regoli, e s'abbel liſca , come la noſtra mente I 4 or 200 LIBRO SETTIMO ordina
, e che queſta per fe medeſima non ſi regoli, ne ſi abbelliſca . Se con le cofe
diſdegnar ti vuoi Che non curan diſdegno, il tutto è vano . A i mumi da cui
morte va lontano Diaſi allegreza ,e diaſi pur'a noi. Che ſi tronchi la vita ,
come ſuole Matura Spiga , e un viua, e un ' altro mora Che di me cura , e de'
miei figli 'ancora Non ſi prendan gl'Iddij, ragion il vuole . 26 Da Platone .
Io riſpon derei con giuſta riſpoſta . Che tu , o huomo , non ben diſcorri, ſe
penſi douere fti mar coſa di gran momento il viuere , o il morire dell huomo,
per poco ch'effo va glia , e non più toſto queſto solo confiderare , cioè , ſe
quando opera , operi coſe giuſte , o non giufte e da huo mo buono , o cattiuo .
Così il vero ſta , o citta dini d ' Athene : fe alcuno reputando il poſto cfler
otti mo vi ſi collocherà Principe vi farà collocato , " conuiene , come a
me pare , ch'iui ſi fermi , anco che vi foſſc pericolo , non facendo conto ne
della morte d'altro , fuori che della brut tezza . Ma poni cura , o galant
huomo , ſe altra coſa è l'effer buono , e generoſo , che'l faluare altri , e
faluare ſe Ateffo · Concioffiecoſa che non è da deſiderarſi dall ' huomo
veramente prodc la vita lunga ,ne dee ftare appiccicato al yiuere , ma rimet
terſi intorno a tutto ciò in Dio , credendo alle donne , che neſſuno può
ſcanſare il fato ; e in conſeguenza qui ha da premere in qual ma niera poſſa
impiegare , per ottimamente viuere , il tem po , che gli reſta da viuere. Offerua
il corſo delle ſtelle , comeſe tu giraffi in compagnia loro e confide ra del continuo
le vicende uoli tramutazioni degli ele menti ; perchè coll' appren fioni di
queſte coſe fi purifi cano l'immondizie della vi ta terrena . Bene ne i
diſcorſi dell'huomo fu da Platone af ſerito che ſi debbono con templar le coſe
terrene, co me da alto in baſſo , le con greghe , gli eſerciti , i lano ri et
is 20 90 7.1 her III le in ri de'campi, i congiugnimen ti de' parentadi , i
diſciogli menti, le nafcite , le morti , gli ſtrepiti de' tribunali , i paefi
diſertati, le varietà del te genti barbare , le feſte , i pianti , imercati,il
rimeſco famento del tutto, e l'abbel limento del Mondo per le coſe tra di loro
contrarie. Riuedi conſideratamen te le coſe dianzi ſuccedute : le tante
mutazioni degl'Im perij. E lecito ancora preue dere le coſe future: perchè a
tutti i modi hauranno l' iſteffa ſomiglianza , c non trauſeranno mai dall'
ordine di quelle, che al preſente ſi fanno . Quindi auuione che il miſurar la
vita humana con anni quaranta non ſia diffe rent e dal miſurarla con an 1 fir 1
0 I 6 ni 204ni diecimila. Perchè qual coſa vedrai tu di più ? Vanno indietro le
coſe, e ciò che diede La terra in terra , e nel celefte templo Ciò che venne
dall'etera ſen riede Ouero queſta è , yna riſolu zione degl'intrecciamenti de
gli atomised vna diſſipazione degli elementi, che non ſog giacciono à paſſione.
Con beuande,con cibi,e con magia Della morte cerchiam ſuolger la via . Conuien
Soffrir con ftenti , e ad occhi afciutti Il vento,ch'a noiSpira dagl'Iddi 29
Rieſce vno più di te de ftro nella lotta per atterrare gli altri : ma non ſia
più co municatiuo , non più riſpet toſo , non più compofto ne gli accidenti ,
non più benigno verso gli abbagliamenti de ' profſimi. 30.: Douc , secondo
l'intendimento comune agl’Iddij , e agli huomini,ſi può condurre vn'opera à
fine , iui non è del male : auuegnachè doue è le cito di trouar l'vtile per l'o
perazione , che proſpera mente s’auanza , e non trali gna dalla ſua
diſpoſizione , iuinon s'ha da ſoſpettar di danno . In ogni luogo , e in ogni
tempo ſta in re il pren der a grado , con la douuta pietà , quello , che
preſente mente accade , e di portarti con glihuomini , li quali con te
conuiuono , giuſtamente , ed eſaminare efattamente quello , che fi rappreſenta
all'immaginazione ; accioc chè non vi fubentri qualche coſa , che non ſia per
prima bene compreſa . 31 Non inueftigare ciò che ad altri paſſa per la men te ,
ma riguarda diritta mente à quello , a che la natura ti conduce, o ſia quel la
dell'vniuerfo , per le coſe che ti accadono , ouero la tua , per l'azioni , che
da te dependono . Ora quellos? haurà a fare da ciaſcuno, che conſeguentemente
corriſpo de alla ſua diſpoſizione . Per rò tutte l'altre coſe ſono diſm poſte
per quelli , che ſono ragioneuoli , come in ogni altra l'inferiori in riguardo
delle migliori, e le ragioner. uoli l'vna per l'altra.Dunque il primo e
principale nella: diſpoſizione dell'huomo ſi è l’essere COMMUNICATIVO. Secondariamente
non arrenderſi alle corporali inclinazioni . Concioſliecoſa che proprio del
mouimiento ragioneuo le , e . intellettuale è dicir confcriuer fc fteffo , e
non laſciarſi ſottomettere da mo. ti ſenſuali, o impetuolis poi chè tanto gli
yni , quanto gli altri hanno del beſtiale . Ma la intellettiua vuol la
preininenza, e non eſſere do minata da quelli : e a ragio ne ; perchè è fatta
per feruir ſi di tutti quelli. Il terzo nel la ragioneuole conſtruzione , è di
non trauedere , nc d'ef ſer ſoppiantato. A queſte co ſe dunque applicata la men
te proceda a dirittura , e co si conſeguirà quello , ch'è fuo proprio . 32 Come
tu non hauefli havuto a uiuere , che fin ora , e già foffi morto , queſto fo
pra più che c'è dato diuiuere , dourai viuerlo fecondo la natura , folamente
contento di quello , che ti auuenga , e che ti è deſtinato dal fato, imperocchè
qual coſa ti può efferpiù couveniente ? 33 In ogni accidente vo glionfi hauere
auanti agli oc chiquellija' quali occorſero cafi fimili , e che poi fi dole
uano, e ſembrado loro ftrano fi lamentauano . Doue dun que ſono eglino ora ? in
niun fuogo. Vorrai tu dunque fare altrettanto ? Perchè non la fci gli altrui
rigui alli rigi ranti, e rigirati ?: e non te ne ftai tutto intento come ti
habbi da ſeruire di tali acci denti ? Te ne feruirai dunque bene , e quelli ti
ſerui ranno per materia. In ogni coſa , che farai; non hai da applicare ad
altro , ne altro proccurare , che d'effer a te Iteffo buono . Nell' yno , e
-nell'altro ( fia di ciò , che hai da ſcanſare , o ſia di ciò , che hai da fare
ricordati che'l foggetto dell'operazione è indifferente. Con perspicacia rimira
dentro te stesso, che la fonte del benc è dentro di te , la quale non ceſſerà
mai di ſca turire , ſe tu di continuo la terrai ſcanata . 35 Il corpo ha da
ſtar fiffo , e non ſi ſtorcere , o fia nel moto , o fia nella poſtura . Perchè
nel modo , che l'ani mo imprime vn certo che nella faccia , ferbandola ſe 7 1
Il ria , e ben composta , al trettanto ſi dee ricercare che ſegua intieramente
nel corpo ; e tutte queſte coſe s'hanno da offeruare fcirza affettazione . Il
noſtro modo di viuere è più da affomi gliarſi alla Paleſtra , o lotta , che all'Orcheſtra
, o al ballo; douendo alle coſeche ſopra uuengono , e non ſono pre ucdute
trouarſi appareccħia to , e fermo pernon cadere. Giammai non laſcerai
d'eſaminare quali ſieno quel li , dalli quali tu brami le te ſtimonianze , e
quali l'inten zionidella loro mentc: per chè ne accuſerai quelli , i quali
peccano inuolontaria mente , ne ricercherai la lo ro teftimonianza , fc rimire
rai da qual fonte ſcaturiſco no 10 a ,al ercare ate ni € fcuzi mode allomis
Torta ballo lopera t no le loro opinioni, e i loro appetiti. Niun'anima , diſſe
que gli , di ſua fpontanea elezio ne ſi priua della verità. L'i ſteſſo s'ha da
dire intorno al la giuſtizia , alla temperanza, alla benignità, e a tutte le ſi
mili.Però è fommamente ne ceffario di non mai ſcordar d'ognuno ſarai più
benigno. In ogni coſa penoſa, che ti ſucceda , ti fouuenga prontamente che
quella non ha bruttezza , ne può peggiorare la mente in noi reggitrice ; poichè
non le nuoce , nene in quanto è ragio neuole , ne in quanto è co municatiua ; e
nella maggior parte de dolori ti venga in mente quello d'Epicuro ; Che to pre
cchia dere ulcera quel let inter : per Uli, / taria a lo mit rico no 2 I 2Che
non è intollerabile , o non è eterno ; ricordandoti però di laſciarlo ne' ſuoi
termini fen za aggiugnerui altro con la tua opinione . Ancora quel lo hai da
hauer a mente , che molte coſe , che partecipa 110 propriamente del dolore,
copertaméte ci trauagliano : come è l'hauer ſonnolenza , lo fmaniar di caldo ,
il patir faſtio di ſtomaco ' . Quando dunquc alcuna diqueſte coſe maltolenticri
ſopporti, con feffa a te fteffo d' ellerti arre ſo al dolore. Auuerti di non
hauere tal volta quell' auuerſione agl'inhumani, che gl'inhu manihanno agli
huomini . 40 Donde argomentiamo, che Socrate foffe illuſtre , e di diſpoſizione
d'animo migliore? Mentre non baſta , che haueffe vna morte delle più glorioſe,
c più acutamen te co ' Sofiſti diſputaſſe più ſofferentemente ſopra'l ghiaccio
pernottaſſe , e co mandato a condurre quel Salaminio , più d'ogni altro generoſamente
fi moſtraſſe renitente , e che per le ſtrade andaſſe con graue contegno .
Intorno a che era aſſai da in ueftigare le così era vera mente . Maquello è
neceffa rio conſiderare , qual ' animo s'haueſſe Socrate , e ſe egli po teſſe
appagarſi d'effer giuſto inuerſo gl’huomini , e fanto inuerſo gļIddij,nő
iſdegnan doſi temerariamente contro la malizia , ne punto feruen do
all'ignoranza d'alcuno , ne accettando come ſtranie Fit Ho fe je . Te ne ng€ ra
uc PC PE ra alcuna cofa datagli dall' vniuerſo , o ſopportandola come
intollerabilc: në hauef ſe mai acconſentito , c piega to l'animo alle paſſioni
della carnuccia. La natura non in fi corporò talmente il compó fto , quaſi che
l'huomo non poſſariſtrignere , e regolar ſe lo medeſimo e far le ſue proprie VE
coſe foggiaceré a ſe feflo . 41 Può eſſere facilmente , in che vn diuenga huomo
diri no , e non fia conoſciuto da alcuno . Ricordati ſempre di queſto : e in
oltre di quello , 1 che ?l viucre felicemente conſiſte in pochiſſime coſe . E
non perchè habbi tu per duto la ſperanza d' eſſere Dialettico , o Fiſico, ti
ſtime rai rigettato dal poter eſſer libero , pudico , comunicati uO. E I uo , e
oſsequente a Dio . 42 Senza alcuna violenza potrai trapaſſare la vita in vna
piena giocondità , an corchè tutti ſtrepitino ,come fi voglino, ancorchè le
belue ſtrappino i membricciuoli di queſta mafsa , che t'è cres ſciuta addoſſo ,
perchè , che vieta in tutte queſte coſe ala l'animo di conferuar ſe ſteſso in
tranquillità , e nel giudi cio vero delli circonſtanti accidenti , e collyſo
pronto i delle coſe preſenzialmente ayuemute : in modo che poſsa il giudicio
ſentenziare ſopra è quello , che vien accadendo: queſto fe' in ſoſtanza , ben
chè lecondo l'opinione , al tro appariſci; e l'vſo poſsa di re all'accidente :
tu fe' quel lo , ch'io cercaua . Perchè fem - 01 te elle est sempre quello ,
ch'è preſen te , ferue per materia della virtù ragioneuole , e ciuile; e
inſomma è materia dell'ar te dell'huomo,ouero di Dio. Laonde tutto quello , che
auuiene ſi fà famigliare a Dio o all'huomo; e non è coſa nuoua , ne
intrattabile , ma conoſciuta , e maneggieuo le . 43 La perfezione de'coſtu mi
porta feco queſto ; ch? ogni giorno ſi trapaſſi come fe foffe l'vltimo , non ſi
com mouendo a coſa alcuna , ne con iftordimento , ne con fi mulazione 44
GI'Iddij eſsendo immor tålicnon hanno a male , che in tanti ſecoli ſia a tutti
lo to neceſsario comportare ta li , e tanti fcelerati , anzi han Q b f Uella
bile ar Dio. che Dio cola m2 Cuo hanno in oltre di quelli vna total cura ; e tu
che ſtai già per mancare ti ſtracchi, non oſtante che tu ſij vno degli
ſcelerati ? è da riderſenc ; tu non fuggi la tua propria mal uagità , il che è
poſſibile , ę fuggi quella deglialtri, il che t'è impoffibile . 45 Quello , che
la facultà ragioneuole , e ciuile truoua , non fecondo l'intelletto , ne
ſecondo la ſocietà , con buon dettame lo giudica più viledi fe ftefla . 46
Quando tu hai benéfica to, e vi altro ha riceuuto il beneficio , oltre di
queſto che terza cofa pretendi,comefan no i pazzi , di parer d'hauer fatto bene
, e d'hauer a rice uere il contracambio ? niuno s'affatica, mentre riceue vtili
K tå , oſtur ch 9 come COM 2, ne ont 7mor s che tti lo are ta anzi 9 Tantà , e
mentre l'vtile è azione ſecondo la natura ; non ti af, fannar dunque riceuendo
yti lità in quello che tu ſe'di gio uamento agli altri . La natura
dell’yniuerlo per proprio inſtinto venne alla fabbrica del mondo , donde è che
ora tutto ciò , che ſi va facendo, procede in ſeguime to di quello ; ouero le
coſe principaliffime , alle quali la mente reggitrice del Mondo ha:vna
particolar inclinazio ne, ſono ſenza ragion prodot te . Se tu ciò a memoria ha
urai, ti renderà più tranquillo in molte cse. E è azione non tia4 ndowe 'digia
erloper e alla Ponde fi va imé coff lila 1 do 1 10 ota 1 Vello ancora è gio
ueuole contro la vanagloria , con fiderare , che non iſta più in tuo potere
l'eſſer viuuto tutta la vita , o almeno la paſſata dopo la giouentù ,
filoſofica mente: ma a molti altri , e a te medeſimo hai dato a co nofcere ,
che tu ſeben lonta no dalla DALLA FILOSOFIA. Dunque ti truoui imbrogliato :
perchè K 2 1 1 # oramai non ti è più facile.d ' acquiſtare ſtima di Filoſofo ,
ſenza che ti è contraria ancor ra la tua profeſſione. Se adun que tu penetraſti
veramente fin doue conſiſte ľaffare , non ti curar quale tú habbi da ef ſer
riputato , ma baſtiti ſe tu il reſto menerai della vita,fe cõdo il dertame
della tua na : tura . Conſidera dunque quel lo ,ch'eſſa ſivoglia, ne altroiti
diſtragga : perciocchè hai già prouato per quantecoſe ſe'i to vagando , ne mai in
niuna hai trouato il ben viuere , ne nel fillogizzare , ne nella ric chezza, ne
nella gloria,nenei piaceri, ne in che ſi fia . Don ue dunque farà ?
nell'operare ciò , che richiede l'iſteffa na tura humana. Come dunque queſto li
eſeguirà ? quand'v no faciled Elofoto ta anch eader zmente y101 dach fetu 2,fe
na no haurà nell'animo fermati queidogmi, dalli quali han no origine
gliappetiti , elo pere. E quali ſono queſti do gmi? quelli, che appartengo no
ai beni , e a i mali, come nulla eſſer bene all'huomo , che non lo renda
giuſto, tem peratoforte, liberale, enulla male, ſe non quello, che ope ra il
contrario delle coſe ſud dette , 2 In ogni operazione in terroga così te ſteſſo
: in qual maniera queſtaa me fi confà ? forfe appreffo non ine ne pen . cirò a Di
qui ' a poco io farò porto , e ogni coſa fuanirà. Che coſa di più ricerco, ſe
no che l'azione preſente cõuen ga ad animale ragioneuole , e comunicatiuo , e
che nella legge ſi conformi con Dio? Alessandro, Caiose Pompeio , che coſa ſono
appetto a DIOGENE, ERACLITO, E SOCRATE? Queſti penetrarono le coſe, e le
cagioni,e le materie , e tali erano le menti loro : ma quelli a quanti haueuano
da prouedere ? a quanti haueua no da ſeruire ? 4 Ancorchè tu crepaffi
tutttauolta gli huomini fará no l'iſteſſe coſe . Al bel primo non ti ſtare a
turbare ; poichè tutte le cole, fuccedono fe condo la natura dell'vniuerſo ; e
tra poco tempo tu farai nič te ; ed in niun luogo , come non é Adriano, ne
Auguſto . Appreſſo fiſſandoti nell'opera ſteſſa, conſiderala , ed inſieme riducendoti
a memoria che ti biſogna eſſere huomo dab bene, e ciò che la natura del l'huomo
richiede , fa ciò , che tu ti proponeſti con inuaria bile fermezza , e parla
come giuſtiflimo ti parrà ; però con placidezza e con rispetto e senza
ſimulazione. Questa é della natura dell'uniuerso l'opera e'l ministero. Le cose
che ſono qui traſportar colà , tramutarle leuarle di quà, ed iui riporle. Ogni
cosa è mutazione , non però sì , che s'habbia da te mcre di nouità , andando il
tutto ſecondo il conſueto ; anzi le diſtribuzioni delle co fe fono eguali .
Ogni natura ſi ſoddisfàdi ſe ſteſſa , s'ella cà. mina per la propria via . E la
natura ragioneuole cammina bene, quando nelle immagi nazioni non conſente al
falfo, o all'incerto ; e negli appetiti, quando alle ſole opere co munali gli
dirizza ; e nellide fiderij, e nelle auuerſioni, qua do le reſtrigne a quelle
coſe fole , che ſtanno in noſtro ar bitrio ; e abbraccia volentie ri tutto
quello , che dalla na tura comune le vien datos poichè è parte di quella , co
me la natura della foglia è parte della natura della pian ta , ſe non che iui
la natura della foglia è parte di natura , che è ſenza ſenſo , e ſenza ra
gione, e che ſi può impedire : doue la natura dell'huomo è parte della natura
ad impedi mento non ſoggiacente , in tellettuale , e giufta ; mentre eſſa ,
ſecondo l'egualità , ei meriti, diſtribuiſce a ciaſcuno i compartimenti de'
tempi , delle ſoſtanzie della cagione, dell'operazione, e delle con tingenze. "
Anuertiperò ,che non trouerai in niuna coſa , conſideratele ad vna ad vna ,
queſta vguaglianza pari ad vn tutto ;maſi bene accumulata mente , conferendo il
tutto dell'vne col tutto dell'altre . 6 Non te conceduto di poter leggere,maè
in tuio po tere il non far delle ingiurie , -il vincere i piaceri , e idolori,
l'effer ſuperiore alla glorietta: di più ,il non alterarti contro de i
difenfati , e degļingrati : anzi tè conceduto l'hauere etiandio cura di loro. Niuno
ti oda querelarti del viuer nella Corte, neme no di quello, che tocca a te. 8
Il pentimento è vna tal riprenſione di te ſteſſo per yn ytile traſcurato . Ora
il bene de' efſere qualche vtile , e de eſſere procurato.dall'huomo dabbene, e
di buoni coſtumi. Ma neſſuno huomo dabbene, e bene accoſtumato haurà pen.
timento di hauer traſcurato qualche piacere. Non è dun que coſa vtile , ne
buona il piacere . 9 Che cofa è queſto ſecon do te ſteſſo nellapropria con
ftituzione ? Quale è il ſuo ſo ſtanziale , e materiale ? Quale è il ſuo caufale
? A che serve nel mondo? E quanto tempo fulliſterà? Quando ti ſuegli con di
fguſto dal ſonno ricordati ciò etſer conforme alla tua conſtituzione , e
fecondo la condizione naturale dell'huo . mo di produrre operazione a prò dell
humana focietà : dove il dormire è comune an cora agli animali irragiuneuo. li.
Quello perù , ch'è naturale ad ognvno , quello è più pro prio , e più comodo ,
ed è più giocondo . II Continuamente , ed in ogni immaginazione , giuſta tua
poffa , eſamina la ſua na tura, ricerca le fue paſſioni, e dialetticamete
intorno a quel. la diſcorri . In chiunque t'ab batti , prontamente diſcorri
dentro di te ; Queſti che maf fime può hauere intorno al bene, e intorno almale
?. Im perocchè , fe ha tali , e tali maſſime intorno al piacere, e al dolore, e
le cagioni dell’y -no , e dell'altro , intorno alla gloria , all'ignominia ,
alla morte, e alla vita, non mi ma rauiglierò , ne mi parrà coſa K 6 ſtrana ,
s'egli opera tali coſe; e mi rammenterò , che quegli è violentato ad operare in
fi mile maniera . Rammentati , che come è coſa difdiceuole lo ſtimare ſtrano ,
che'l fico produca fichi così che'l Mon do produca quelle coſe, delle quali è
fecondo . E ſimilmen te ancora farebbe vergogna al medico , ed al piloto il pa
rer loro ſtrauaganza , ſe viene ad yno la febbre , e fe il ven to ſoffia in
contrario . 12 Ricordati , che tanto il mutarſi quanto il conformar fi a chi ti
corregge, non ti to glie l'eſſer libero ; perciocchè l'azione è tua , e ſecondo
il tuo appetito , e giudicio , co me anco conforme al tuo in, tendimento, ſi
riduce a fine . 13 Se depende da te, pers ché in chè lo fai ? ſe depende da al
tri , di che ti lamenti ? degli atomi, o degl'Iddij ? mentre così l'vna , come
l'altra è paz zia . Non dei querelarti d'al cuno : perchè ſe è in tuo po tere
queſto , correggi l'iſteſſa azione ; ma ſe quello non tuo potere , a che gioua
il do lerti, giacché non conuiene far coſa alcuna inuano ? 14 Ciò che morì non
caſca fuori del Mondo :ſe reſta dun que qui , e qui fi muta , anco qui ſi
riſolue nelle coſe pro prie , le quali ſono elementi del Mondo, e tuoi; e
queſti pure ſoggiacciono a mutazio ni, nc fi qucrelano. Ciò che è, per qualche
coſa è fatto , come a dire il ca uallo, la vite.Di che ti maraui. gli ? Il Sole
pure dirà , per qual'effetto ſon fatto , e così gli altr’Iddij . Tu dunque per
qual coſa per pigliarti piace re ? conſidera ſe l'intclletto lo comporta. La
natura s'ha preſo pen fiero diciaſcuno , non meno del fine , che del principio
, e della durata dellavita. 17 Quando alcuno tira in alto vna palla, che di
bene ne riporta fa palla quando va balzata in alto , o che di male quando
fcende, e quando ca de in terra ? E che di bene n'auuiene alla bolla dell'ac
qua , ſe dura in eſſere , e che di male, ſe fi dilegua. In que ſta guiſa puoi
ancora diſcor rere della lucerna . Riuolta il corpo, e vedi quale è , e in
uecchiandoſi , quale diuiene , o pure cadendo in infermità , o dap o dappoi che s'ha preſo i ſuoi guſti carnali .
18 E ' di breuc durata echi loda , e chi vien lodato: il men touato , e chi lo
mentoua.Ag giugniui , che ciò ſuccede in yn cantone di queſta regione, ne in
quello ancora tutti ſono del medeſino ſentimento ; ne pur yno è ſempre del
medeſi mo con ſe ſtcffo.E tutta la ter ra è finalmente yn punto . 19. Applica
l'animo a quel lo che ti ſi appreſenta, o al de. creto, o all'operazione , oal
fignificato . Giuſtamente que ſto patiſci, perchè vuoi diffe rire a domane a
diuenirc huo . mo dabbene , più roſto ch'er ſerlo oggi? 20 S'io fo coſa alcuna,
la fo riferendola a bencficio d'huo. mini . Se m'auuiene qualche ? l 1 P cofil
232coſa la riceuo , riferendola al.. tresì agl Iddij , e al forte d'or gni coſà
, dal quale tutto ciò che auuiene inſiemederiua. Che ti pare che ſia il la
uarſi ? olio , fudore , fucidu , me, acqua', ſtrofinacci , coſe tutte
difpiaceuoli: I ale èogni parte della vita, e tutto quel lo,che a noi fotto ſta
. 22 Lucilla ſeppelli Vero , appreſſo morì Lucilla. Secon da fepellìMaflimo,
appreſſo morì Seconda . Epitinchanó Diotimo, appreſſo Epitinchano. Antonino
ſeppellà Fauſti na', appreſſo morìAntonino . In tal modo cammina ogni cofa .
Celere ſeppellì Adria no , appreſſo morì Celere . Quelli anco d'acuto ſpirito,
o indouini; o fuperbi, doue ho ra ſono ? come Charace, Demetrio il Platonico ,
Eudemone , e altri ſimili d'acuto spirito tutte le coſe ſono tran. ſitorie in
yn giorno , e di già morte , e mancate : alcuni ne meno per poco rcſtarono nel
la memoria : altri trapaſſaro no in fauole ; altri già dall'i ſteſſe fauole
ſcancellati, Quel lo dunque non è da ſcordarſi, che biſogna o diſſiparli queſta
tua compoſizioncella, o eſtin guerſi lo ſpiritello , o traſpor tarſi, e altroue
riporſi. - 23 La conſolazione dell' huomo conſiſte nell' operare ciò , che
appartiene all’huo mo ; e appartienſi all'huomo il voler bene a quello , che
gli è ſimile per natura : ſprez zare i moti delfenſo , diſcer ner le probabili apparenze
, contemplar la natura dell'y Olli" ello 300 ha 710 on te ho DP niwer niuerſo
, e tutto ciò , che in quella ſi produce . Tre fono le abitudini , l'vna alla
ca gione,che circoncigne, l'altra alla cauſa diuina , dalla qua le il tutto a
tutti deriua , la terza a quelli, che con noi vi uono. Il dolore o è male del
corpo , el corpo ſia quello , che lo paleſi , o è dell'animo : ma l'animo ha in
ſua balia il conſeruar la propria tranquil lità, e ſerenità, e di non rcpu tar
, che quello fia male . Per chè ogni giudicio , e inclinac zione, e appetizione
, e de clinamento ſta nel didentro e da indi non afcende male neſſuno . 25
Scancella l'immagina zioni del continuo dicendo a te fteffo : Ora è in mio potere,
che in 10 tra 12 10 vi del 09 70: che in queſt'anima non hab bia luogo alcuna
maluagità , ne la cupidigia , ne qualſiuo glia turbolenza : ma cono fcendo
ciaſcuna coſa , fecon do il ſuo eſſere , mi ſerua di ciaſcuna per quanto vale.
Ri cordati di queſta facultà a te conceduta dalla natura . 26 Parla nel Scnato
, e con ciaſcun'altro in particolare co decoro , e non con troppa li fciatura ,
ma vſa vn modo fa no di parlare. La corte d'AUGUSTO, la moglie, la figlia , i
nepoti, i defcendenti; la ſorella, Agri pa si parenti, I famigliari, gli a
mici, Ario ,Mecenate , i medici, i sacerdoti, tutta quel la corte è svanita con
la morte. Mettiti poi a conſiderare altre famiglie,nelle quali non trouerai la
morte d'vn huo mo ſolo , ma di tutte , come dei Pompeij . Mancò quella, e ne'
fepolcri iſteffi leggiamo chi fu Byltimo di quella gen te : come anco. quello ,
che viene ſcolpito ne'monumen ti , vltimo della ſua gente . Conſidera poi
quanto fi tra uagliarono i loro antenati , di laſciar yni fucceſſore , e pure
fu di neceſſità , che alcuno for ſe l'vltimo , e qui parimente conſidera la
fine di tutta quel. la gente . 28. S'ha collazioni ad vna ad yna a compor la
vita ; e ſe ciaſcuna vi ha la ſua parte , Thuomote nºha đa content - re; e che
quella non habbia il ſuo pienoaſufficienza , niuno lo potrà impedire.Se poi
s'op- ' poneſſe qualche cofa eftra nea ?1€ lagi 110 11 Pr di 24 nea ? niente al
certo s'oppor rà al giuſto, modefto , e confi derato . Ma forſe qualche al tra
operazione l'impedirà?Pc rò ſe tu prendi a grado l'iſteſ fo impedimento , e
trapaſſe rai coll'animo ben aggiuſtato a quello, che ti vien dato ti ſi
furrogherà vn'altra operazioa ne, che quadri a quella com poſizione d'animo di
cui ora ſi parla, che veramente firice na ſenza fato , e fi laſci pure con
facilità 29 Se mai vedeſti vga ma no, o vn piede troncati, avna tefta dal reſto
del corpo reci fa in qualche luogo giacere ; a queſti ſimile per quanto a il
Luiſta ſi rendechiunque ricu fa le coſe ch’auuengono , e ſe ftetſo quafi tronca
, o fa quel ſa lo, chenon ſi confaccia al be ne of Tele nd f noto iF ne degli
altri , col diucller i in certo modo dall' vnione della natura; mentre tu effen
do nato parte di cffa , da te ſteſſo te ne fe'reciſo , ma qui cade in acconcio
il dire , che in tuo potere ſta di ritornarti a riunire : il che Dio a niuna
altra parte ha conceduto, che ſegregata ,e reciſa , di nuouo fi tornaffe a
congiugnere. Però confidera la fouranz bontà , che tanto onore conceffe all'
huomo . Poichè nel principio poſe inſuo potere il non di uel'crſi dal corpo
intero , e dopo diuelto, il ritornare, ed il ricongiugnerſised il ricupe rare
il poſto di parte. 30 Come ciafcuno de'ragio . neuoli ottenne dalla natura
tutte l'altre facultà quaſi qua to è capace la condizione del. boz fa € 1li ragioneuoli, così ancora da lei
riceuemmo queſta facultà , la quale è, che in quel modo , che quella tutto ciò
, che le reſiſte , e le oſta, lo conuerte , e rimette nel fato, e lo fa ſua
parte , così l'animal ragione uole può d'ogni impedimen to farſi propria
materia, e ben vſar di quello , a che ella per iſtinto e portata . 31 Non ti
confonda l'imma ginazione di tutta la vita Non iſtare a ghiribizzare pen ſando
quanti, e quali trauagli poſſano ſoprauuenirti; ma in qualunque delle coſe ,
che ti ſi preſentino,interroga te ſtefa ſo : in queſto fatto ,che ci è
d'incomportabile , che ci è d ' intolerabile ? Concioſliecofaa che t'arroſſirai
di confeſſarlo . Appreſſo ricorda a te ſteſſo , che 7 ge 10 14 fel 2 t C a C
che ne il futuro,ne quello che è paſſato t'aggraua , ma ſem pre quello che è
preſente ; é queſto ſiſminuiſce,ſe diſtinta mente lo ſeparerai, e la men te tua
riprenderai, ch'ella non fia baſtante a reſiſtere a que ſto ſolo . 32 Forſe
aſſiſte per ancora al ſepolcro del ſuo Signore Panthea , o Pergamo ? o pure a
quello di Adriano Cabria , o Diotimo ? E ' da riderſene , E ſe aſſiſteſſero ,
ne haureb. bono ſentimento ? E ſe ne ha uefíero ſentimento , haureb bono
godimento di queſto E ſe haueſſero godimento, fa rebbono diuenuti per queſto
immortali ? Non portò il f to , che ancora queſti prima diueniſſero vecchi, e
vecchie, ed appreſſo moriſſero ? Che dun il 762 en 101 JUICE Con 701 dunque
erano perfare quelli, dopo che queſti foffero mor ti 2 Il tuttoè puzza , e mar
cia in yn ſacco . 33 Se tu haiacuta viſta , adoprala , difle quegli ſauia mente
, nel giudicare . 34 Non vedo , che nella conſtruzione dell'animal ra gioneuole
ſia virtù alcuna re pugnante allagiuſtizia : ma fi bene vedo cffer repugnante
al piacere la virtù della con tinenza . 35 Sea quello chepare ap porti a te
meſtizia , detrarrai la tua apprenſione, tu ſteſſo ti ſe’poſto in ſicuro . Chi
è quel tu ſteffo ? la ragione. Ma io non ſono la ragione. Così fia: dunque la
ragione non tra uagli ſe ſteſſa . Maſe qualche altra coſa in te patiſce del L
male 16 han Foi [ um 10 The male, ella
medefima ne formi il fuo concetto. L'impedimento del fen ſo è male della natura
vitale , e ſimilmente è male della na tura vitale l'impedimento del l'appetito
: ed ecci eziandio vn altro parimente impedi mento , e male della conftitu .
zione vegetatiuas. Così duna que l'impedimento dellamé te è male della natura
intel lettiua ; applica : tutte queſte coſe a te ſteſſo. Il dolore, e ? I
piacereti co muotono ? il ſenſo fę n'auuer . drà . Nell'apperire ti ſi poſe
oſtacólo ſe tu ti folli moffo fenza ſottraimento , e rifertias allora farebbe
male delura : gioneuole ;mia fe tu lo riceuí, come coſa comune tu non
fe'dannificato , ne impedito , po es el Bio di tu né ele poſciache nigni altra
cola ſuo le impedire le coſe proprie della mente : perchè in quieta la ne fuoco
, ne ferro , ne ti ranno , ne maledicenza , ne altra coſa del Mondo può pe
netrare :che cheſi faccia della palla, eſſa ſempre rimane tony da.:' 37 E' coſa
indegna il mole ſtar me ſteſſo , mentre a niun ? altro mai di proprio volere ho
dato moleftia Altre coſe cagionano allegrezza in altri; io m'allegro , ſe la
mia facul tà guidatrice ſtarà fana , la quale non habbia auuerſione ad alcuno
huomo, ne adal cuna coſa di quelle , che fuc cedono agli huomini , mail tutto
rimiri con occhi placi di; e riceua ciaſcuno , e dieſſo fi ferua,fecondo il ſuo
pregio. L 2 38 Ve có LIF CA Mo It This 700 TO : Vedi di ſpendere a tuo prò
queſto tempo preſente . Coloro, che più affettano la fama apoftuma , non
conſidc rano , che quelli , da’quali la ſperano ', faranno tali , quali al
preſente ſono coloro , che a lor non piacciono, poichè eſſi ancora ſono
mortali. In ſom ma che t'importa , ſe quelli con tali, o tali voci ftrepitino,
o habbiano di te queſta , o quella opinione ? 39 Prendimise gettami do ue vuoi
: poichè iui ancora trouerò il mio genio buono , e propizio , cioè a dire a me
ſufficiente , purchè habbia e operi quello , che è confor me alla propria fua
condizione. E' forſe coſa che meriti, cheper eſſa s'incommodi l'animo mio , e
peggiori ſe ſteſ ſo con auuilirſi , appctire , confonderſi , e ſgomentarſi ? E
che trouerai, che tanto ine riti ? Non può auuenire coſa a vn huomo, che non
ſia acci dente , che non habbia dell? humano ; ne al bue che non ſia accidente
, che egli non habbia del bue ; ne alla vite , che non ſia della vite ; ne alla
pietra , che non ſia proprio della pietra . Se accade dun que a ciaſcuno quello
, che è folito , e connaturale, perchè t'attriſti ? mentre non è intol lerabile
quello, che la natura comune a te contribuiſce . E ſe ti pigli moleſtia per
qual che coſa eſtranea , non certo efla ti moleſta ,mail tuo giudi cio intorno
a quella . E pure il cancellar quello depende da L 3 te. E ſe ti trauaglia
qualche cofa nella diſpoſizione del tuo animo , chi è quegli , che ti vieta di
rettificare il tuo concetto Con tutto ciò ſe tu ti affanni , perchè non operi
tu ciò , che a te pare ben fat to ? Perchè più toſto non ope ri , che
contriſtarti ? Mavna coſa più valeuole mi oſta Dunque non ti affannare; poi chè
non proccde da te la ca gione del non operare . Ma non par che conuenga di più
viuere, fe ciò non fi fa . Dùn que placidamente finifti la vita : mentre ancora
quegli fa qualche coſa , che muore benigno eziandio verſo colo ro ; che gli
fanno oſtacolo. Osserva che la princi pal parte dell'huomo resta inespugnabil ,
quando in ſe Iter ko fel he UNO steſſa ritirandoſi di ſe ſi con tenta non
facendo quello che effa non vuole, ancorché ſi metta in battaglia ſenza la.
iuto della ragione . Che dun queſarà , quando coll'aiuto della ragione
prudentemen te giudicherà qualche coſa ? Per queſto la mente libera delle
paſſioni è come vn'alta rocca , giacchè l'huomo non ha coſa più forte , nella
quale ritiraro rimanga poi ſempre incípugnabile. Chì dunque queſto no comprende
è igno rante : chi l'ha comprefo , non ſe ne vale,difgraziato. 42 Niente di più
ſuggeri fci a te ſteffo di quello , che portarlo Ic mere priine ap prenſioni.
T'è ſtato riferto , che il tale dice malc di te ; queſto è vn rapporto . Ma L 4
che tu ſij ſtato, offeſo , non ſi contiene nel rapporto . Veg gio , che il
figliolino è am malato , queſto ilvedo , ma che ſia in pericolo nol vedo già.
Dunque reſta ſempre ne gli primi apprendimenti della immaginazione , e non
v'ag. giugnere dentro da te ſteſſo niente d'autantaggio : e così niente ti
ſopragiugne ; anzi aggiugni , che non ti viene nuoua qualunque coſa , che nel
Mondo accade . Il cóco mero è amaro , laſcialo ; le fpine ſono nella ſtrada ,
ſchi fale , baſta ; non iſtar a fog giugnere: e perchè queſte co fe ſono ſtate
fatte nelMondo concioffiecoſa che ſi burle rebbe di te ogn'huomo, che fia
inueſtigatore della natura: come appunto ſareſti derifo da of 12 do De le SI da
vn fabbro , o da yn coiaio , ſe tu li condennafſi , per ve dere nella ſua
bottega fca muzzoli , e ritagli delle coſe , che effi lauorano. E pure que gli
hanno doue gittar queſte coſé ; il che non può fare fuori di ſe la natura
dell'vni. uerſo : maciò che recamara uiglia di queſta ſua arte è, che
circonſcritta in ſe ſteſſa , quan to dentro di fe fi corrompe , e s'inuecchia ,
e appariſce non eſſer più ad alcun yſo , tutto in ſe ſteſſa tramuta , e di nuo
uo di quelli forma cole recen tizin tal guiſa , ch'ella non ri cerca ſoſtanzia
eftrinfeca , ne ha biſogno di luogo per git tarui le coſe più corrotte . Così
le ſono baſteuoli la ſua regione , la ſua materia , e la propria arte . Dzi De
TC O le Dj D D? 7 0 L 5 43 Non andar vacillando nelle azioni; e nelli congreſi
non far confufione . Nelle immaginazioni non andar ya. gandojne in modo alcuno
con Panimo o angoſcioſo, o trop po impetuoſo, non accupare ja vita in fouerchie
faccende. Se ammazzano , fe mandano a fil difpada , fe con efecra zioni
infeftano , che nuocono quefte coſe al conſeruarti Ja mente pura , prudente,
contes nente , e giuſta ? fiati per e fcmplo : le vno auuicinatofi ad vna fonte
di dolce; c limpi da acqua,a quella diceſſe del le ingiurie,non perciò ceffereb
be di porger l'acqua da bere, e fe ancora vi gettafle del fan go , ' e dello
ſterco , immanti nente ella lo ſegregherebbe , e diffiperebbe , e in neſſun
modo Llande agreb Nelli dara 1000 Otrop CINK cord ndan Mocht OCOMO artil СОЛь
modo fe n'imbratterebbe .. Come farai dınque per hauer vna fontana ſempre viua
; e non vn pozzo d'acqua fta gnante ? Merci te ſteſſo ad ognora in libertà ,
ſtando con l'aniino trãquillo, ſchiet to , e modeſto . 44 Chì non sa , che coſa
ſia il Mondo , non fa doue egli fia.E chi non ſa a che fine egli medelino fia
ſtato fatto , non få ne qual'egli fi lia ,ne che co. fa ſia il Mondo . A chi
manca vna di queſte coſe , non può dire a che fine egli fia fatto Chi dunque
pare a te , che ftia più contento , quegli, che fugge le lodi degliadulatoris o
quelli, che nonfanno doue, o quali eſli fi fiano Ti com piaci d'effer lodaro da
vnos che tre volte l'ora maledice Del & zarob limpi edel flerech berty bhe
cfiun do L 6 se ſteſſo ? Vuoi piacere ad huomo, che ne pure ſoddisfà a ſe
ſteffodroddisfà a ſe mede ſimo quegli, che in tutte quafi le azioni, alle quali
pon ma no, ſi pente? Avverti per l'avvenire non ſolo di reſpirare nell'am
biente dell'aria , ma ancora di conformare i tuoi penſieri con l'intelletto , che
tutte le coſe contiene . Concioffieco fache non meno queſta facul tà
intellettuale fi diffonde, ed entra in quello che la puòat trarre , che quella
dell'aria in quello , che può reſpirare . 46. Generalmente la mali zia non
danneggia il mondo ; e quella che riſguarda il par ticolare , non fa danno ad
vn altro , ma a quel folo e noci ua , al quale ancora è conce duto read Idishi
med quafi ma enie l'am ncora ofieri tele eco cu duto di libcrarſene , qualun
que volta egli ſia pronto a volerlo. Al mio arbitrio è indift ferente
egualmente l'arbitrio del proſſimo , ficome anco il fuo fpiritello , e la
carnuccia : Imperciocchè fe bene ſiamo fatti principalmente l'vno per l'altro ,
niétcdimcno ciaſcuna delle menti noftre ha il fuo dominio particolare ; altri
mente ſeguirebbe, che la ma lizia del profſimo foſſe il mio male , coſa che non
è piaciu ta a Dio , acciò non dependa da altri il far il mio ſtato in felice.
Il Sole par, che fià dif fuſo , c veramente per tutto fi fpande , ma non però con
queſto Ipandimento fi fparge, e perde; perchè queſta ſua ef fuſio Ged at iain
ali doi par yn ci ce fuſione è vn diſtendimento': che però gli ſplendori ſuoi ,
o raggi ſi chiamano in Greco con parola , che viene dallo diftenderk . Ma quale
sia la natura di queſto raggio , tu la potrai conoſcere,fe riguardila luce del
sole penetrata per qualche feſſura in vna ofcura ftanza imperocchéciò ſi fa di
rettamente , e quaſi vien diui fose ſquarciato da ogni corpo folidojin cui
s'incontri no am * mettente più oltre l'aria : e qui ſi ferma,nc inciampa, ne
cade. Tal effuſione , e diffuſione del eſſere della mente , non ell çuamento,
ma diſtendimento ; ficche agl'impedimenti chein. contro le ſi parano non
violen. temcntene temerariamente re fifta , mà refti ſtabile , e illumi. ni ciò
che la riceue. Imperoc chè llo be 1 ih
pier lill chè priua fe ſteſſo di luce, quegli , che non l' ammets te . 49 Chi
teme la morte, o te me la perdita de'fenſi, o qual che altra forte di ſenſo ,
ſe non haurà niun fenſo , non fentirà male alcuno . Se poſſederà vn'altra ſorte
di ſenſo , farà yn altro animante , e non reſterà di viuere . 50 Gli huomini
ſono fatti P'yno per l'altro ; Dunque in ſegna, o ſoffriſci. Altrimente la
faetta , al trimente ſcorre l'intelletto . Ma l'intelletto e quando cau tamente
procede , e quando alla conſiderazione ſi volge , non meno ſi porta per diritto
, ed al berſaglio . S'ha da penetrare den tro alla mente di ciaſcuno e per DO 1]
Te te } 0 re e permetter altresì ad ognu no di penetrare dentro la pro pria tua
mente. Chi fa ingiuſtizia fa vn atto d'empietà . Im perocchè , hauendo la
natura dell' vniuerfo fabbricato gli animali ragionevoli , vno a prò dell'altro
, acciocchè , ſe condo il douere , vno gioui all'altro , e in niuna guiſa gli
muoca , chi traſgrediſce tal decreto di queſta , commette manifeſta empietà
contro il nume' antichiſſiino tra gľ Id dij. Concioffiecofache la natura dell'
vniuerſo è natura di enti , e gli enti hanno vna coral fratellanza con tutte
l'altre coſe eſiſtenti. Di più queſt' iſteſſa fi noma verità , ed è prima cagione
di tutte le cofe vere . Onde chi ſponta neamente mentiſce è empio in quanto con
l'inganno fa in . giuſtizia, come ancora chi in uolontariamente mentiſce, in
quanto difcorda dalla natura dell'vniuerfo, e in quanto ca gion deformità ,
ripugnando alla natura del Monda . Im; perocchè ripugna quegli, che per ſe
ſteſſo è portato alla contrarietà delle coſe vere : giacchè haueua innanzirice
uuto dalla natura alcuni in ſtinti, i quali poi eſſo traſcu rando , non può ora
diſcerne re le coſe falſe dalle vore . E pure chi ſegue i piaceri, come coſa
buona , e fugge il traua glio , comemale, commette empietà. Perchè è
neceſſario, che coftui fi quereli ſpeſſe vol te della comune natura , qua fi
ch'ella faccia diſtribuzioni di beni a traſcurati , ed a fol leciti contra il
lor merito ; effendo che fouente i traſcu rati fieno di piaceri abbon danti, e
di quelle coſe ond'ef fi deriuano ; ed i ſolleciti al l'incontro fieno da
dolori op preſli , e cadano in quelle co fe , che dolore cagionano • In oltre
chi teme i dolori , ha urà ancora in orrore qualchu na di quelle coſe , che
hanno da ſucceder nel Mondo ; e ciò fimilmente ha dell'empietà . chi va dietro
a’piaceri, non s'afterrà dal far'ingiuſtizia , e qucſto Lira Ck Ho che all te:
Ice FCH E re queſto è chiaramente empie tà . Biſogna, che a quelle co ſe , alle
quali la natura comu ne egualmente ſi porta ( per chènon haurebbefatta l'vna, e
l'altra , fe all'vna, e all'altra di queſte coſe indifferenti non foffe ftata
vgualmente pro penfa ) quelli , che vogliono eſſere ſeguaci della natura ,
hauendo i medeſimi ſenti menti , con eſſa ſiano vgual mente affetti. Dunquc chi
a' dolori , ed a'piaceri , o alla morte, e alla vita , o alla glo ria , e al
diſonore , delle quali egualmente fi vale la natura dell'vniuerſo , non è per
fe ſteſſo parimente affetto, chia ra cofa è , che fia empio . Io però dico
valerſi di queſti v gualmente la natura comune, in luogo di dire , che auuengono
vgualmente per certa conſeguenza alle coſe , che ſi fanno, o che vanno ſucceden
do conforme allancico im pulſo della prouidenza , col quale ſi moſſe ſin dal
princi pio ad ordinare queſta bella macchina mondiale, hauendo concepute alcune
ragioni del. le coſe future , e determinate le facultà feconde dell'eſi ſtenze
, delle traſmutazioni, e di fimili fuccedimenti . 2 Migliore , e più deſidera
bil coſa certamenteper l'huo mo ſarebbe ch'egli da quefta vita partiſſe digiuno
affatto ; così dire ,del mentire, del ſimulare , del luſſo , e della fu perbia
: defiderabile dopo ciò ( quaſi come vna ſeconda men profpera nauigazione)
ſareb be , che almeno vno già fazio 1:22 il alla to ali UTA per f j 10 j” 19 21
di queſte coſe ,voleſſe più to fto morendo fpirare , che nel la prauità
continuare viuen do" . E non t'inſegna ancora l'eſperienza a fuggire dalla
peſte ? e la corruttela dell'a niina è aſſai peggior peſte a riſpetto di
quella, che dall intemperie , e mutazione del l'aria , che d'intorno fi fpande,
e fpira : poichè queſta peſte è degli animali in quanto fo no animati : e
quella è degli huomini in quanto fono huo mini . 3 Non diſprezzar la morte , ma
fija quella ben affctto , ef ſendo ancor eſſa yria delle co ſe ; che la natura
richiede ; poichè quale è la giouentù ; la vecchiaia , il creſcere , l'in
uigorire , il naſcere de’denti , la barba , i canuti , il genera re100 nel ICP
1000 dali ell Mei de ant re figliuoli, portargli nel ven tre , e partorirgli, e
altre ope re naturali., le quali prodịco, no le ſtagioni della tuavita , tale è
ancora il diffoluerfi . Dunque queſto è da huomo, che ben ſi ſerue della
ragione ne ſuperficialmente, ne impet tuoſamente, ne ſuperbamente fiporta verſo
la morte ;, ina l'attende come yn'opera del la natura . Nel inodo che tu ora ,
aſpetti o cheſca il fe to del ventre ditua moglic , .com hai da caſpetar l'ora
, nella quale la tua animuccia diqueſto ricettacolo eſca ca dendo . E fe vuoi
ancora vn conforto cordiale , benchè volgareztirenderàſoprammo do prontoalla
morte l'appli cazione alle coſe preſenta nec , dalle quali douraieſſere ſe A
oto des Tak ler jed Simi Jä Teni Nem If feparato , e a'coſtumi di colo ro , con
i quali non t'haurai più da meſcolare : tuttavia con quelli non s'ha da rompe
re , ma ſtudiare di curarli , e placidamente ſoffrirli . Onde hai da
rammentarti, che que ſta ſegregazione s'ha da fare da huomini, i quali non han
no teco glifteſli ſentimeriti : mentre queſto folo potrebbe ſeruirci di
contrappeſo,e rite nerci in vita , ſe ne foſſe con ceduto il conuiuere con quel
li; che haueſſero gl'iſteſifen timenti . Ma tu- ora vedi quanto malageuole ſia
il con uiuere in tanta diffonanza de' conuiuenti . Sicché ſi può di re :
Sollecita o morte a veni re , accioché io non arriui a fcordarmi vna volta di
me ſteffo . 4 Chi rola aurai mpe afait
har caini ebbe 4 Chi péccas contro le ſtefi ſo pecca • Chi opera ingiu
ftamentega ſe medeſimo nuô ce , rendendo maluagio ſe ſteſſo ; è ingiuſto ſpeſſe
volte , non ſolo chi opera alcuna co fa , ma ancora quegli , che nonfa qualche
cosa. Basta la presente opinione apprensiua e la preſente operazione
comunicativa e la presence disposizione, che fi compiace d'ogni cosa , che da
principiocauſante prouen . ga; per iſcancellar l'immagi nazione arreſtar
l'impeto de gli affetti, temprare gli appe titieper mantenere nella ſua facultà
la parte principale . 6 Fra i bruti viuenti è diui:. ſå vnà fòl'anima: c tra i
viuen . ti ragioneuoli è compartita vn’animà intellettuale : fico. M me COlle
auch Tere vad COll ade bel oni qili? mi me a tutte le coſe terreftri è vna ſola
terra , e tutti quanti habbiamo facultà di vedere e facultà diviuere, con vna lu
cc vediamo , c d'un aria respiriamo. Tutti quelli , che partecipano d' vna coſa
co mune a quella, che è del me deſimo genere, anſiofaniente fi portano . Ogni
coſa terrc ſtre inchina alla terra . Tutto l'ymido va inſieme ſcorren
do,ogniaereo ſimilmente : ſic chè biſogna diuidergli a for za . Il fuoco s'erge
a cagione del fuoco elementare . Tutto il fuoco , ch'è quà giù, è così pronto
ad ardere con l'elc mentare, come ogni materia le alquanto più ſecco è facile
ad accenderſi pereſſere meno abbondante di quello , che impediſce l'accenderſi.
Dun que letes re CO me In 170 za que
tutto quello che è parte cipe della comune natura in tellettuale, corre
ſimilmente verſo il ſuo connaturale, anzi più ;: perchè quanto è meglio degli
altri, tanto è più diſpo fto à miſchiarſi inſieme col ſuo famigliare -
Anticameji te dunque furono tra i bruti inuentati gli fciami, le greg ge > i
pollai , e quaſi ynioni d'affetti; imperciocchè ancor? efli hanno animais ecosi
la virtù congregatiua tra i min gliori ſpicca maggiormente, il che non è
nell'erbe , non è ne faffi , non è ne’tegni. Ma tra gli animali ragioneuoli fi
truouano leRepubbliche;lean micizie , le famiglie leraunan ze , e in tempo di
guerra le paci, e le tregue . Anzi nelle coſe piùveccellenti, benchè M 2 ell
fit 01 DINE TTO OSİ [ 7110 Fle 70 7e tra ſe lontane, in qualchemo do vi è vnione
, come a dire, tra le ſtelle, così il deſiderio d'auanzarſi al meglio ha po
tuto operare la ſimpatia ezian. dio tra le coſe diſtanti. Vedi dunque quello
che ora ſi fa . Perchè foli gl'intellettuali ſi ſono ſcordati del conſenti
mento, e dell'affetto tra loro ; e queſto concorrimento in effi ſolamente non
ſi vede; e nien tedimeno, ancorchè fuggano, reſtano accerchiati , e preſi,
poichè la natura in ciò pre uale . E vedrai queſto, che di co , offeruando, che
più preſto trouerai qualche coſa terre ftre non congiunta ad altra terreſtre ,
che vn'huomo dall' altr'huomo totalmente diſ giunto . 7 Producon fruttto e
l'huomo dire deria apo 2126 Vedi fifa. alii enti. oro; mo, e Dio e il Mondo; e
ſi pro duce ciaſcun frutto nelle ſue proprie ſtagioni ; e ſe la con ſuetudine
principalmente ſi ferue di queſto modo di dire nelle vitije altre ſimili
piante, cið poco importa : però la ra gione produce il frutto si proprio , come
il comune; e da quella fi propagano altre tali cofe , della condizione delle
quali è ancora l'iſteffa ragione . 8 Se tu puoi , inſegna ſem pre il meglio a
quelli, che er rano ; e ſe non puoi, ricordati che per ciò fare t'è ſtata data
l'amoreuolezza , e che gl'Id dij ſon amoreuoli verſo que? tali , e tanto ſon
benigni in alcune coſe ,ch'e'dan loro aiu to per la ſanità ,per le ricchez ze,
e per la gloria . E queſto a neft viera 2110 vrela pre edi ceſto erre Ultra
dall ' dile 10 M 3 te lice , o ſeno , dichiara , chi te lo vieta ? 9 Trauaglia
, non come vn tapino, ne meno a fine di pro cacciarti compaſſione, o mara.
uiglia : ma vn folo fia il tuo fine di muouerti , e di fermar ti , fecondo che
la ragione ci uile richiede . 10 Oggi vſcij d'ogni mole ftia , anzi ſcacciai
fuori tutte le moleſtie; poichè quelle non erano eſterne , ma couauano dentro
nelle opinioni . 11 Tutte queſte coſe fami gliari per l'yſo di vn fol dì quanto
al tempo , fordide per la materia , ſono ora tutte le medeſime, quali furono a
tem po diquelli , che habbiamo ſepolti. 12 Le coſe ſtanno in ſe ſteſ ſe fuori ,
per così dire , delle por ch meni dipro mara il 2016 Amal onec 1270 tutte porte
, е da per ſe medeſime , niente fanno del ſuo eſſere , e niente a noi fanno
apparire . Che dunque è quello , che le diſcuopre? la ragione . Non nella perſuaſione
, ma nella operazione conſiſte il bene ,e'l male dell'animal ragionclio le
ciuile: ſicome ancora la vir tù , e’lvizio di queſto non è nella perſuafione ,
ma nell'o perazione.Alla pietra fcaglia ta non ſuccede male ſe caſca , ne bene
, tirandoſi in alto . 13 Entra più addentro nelle menti degli huamini, cſcor
gerai quali giudici tu tcma , e quali ſieno elli giudici intorno a fe ſtelli .
14 Tutte le coſe ſtanno in continua mutazione, e tu ſtef fo in vna continua
alterazio nc , c in vn certo modo cor jenon Lidlo fami Cold de pe urtel atem
bilam ' efter dell corruzione, e così ancora tut to il Mondo . 15 L'errore d’yn
altro biſo gna laſciarlo doue è . 16 Il finire della operazio ne , il ceffare
dell'appetito , e dell'apprenſione , e quaſi la loro inorte , e nulla nuoce :
Fa ora paſſaggio all'età,qual'è la pucrile , alladolcfcenza,al la giouentù ,
alla vecchiaia . Ogni ſcambiamento di cia ſcuna di queſte è morte . E per ciò
ne auuiene danno ? Paſ. fa adeſſo ricercando il tempo, che ſe’viuuto fotto
l'auolo ; appreſſo, quello , cheſotto la madre, dopo ſotto il padre , e
trouando altre molte diuerſi tà, mutazioni , e termini , di manda a te
medefimo, ſe ve alcun' nocumento . Dunque fimilmente pe manco nel finire , nel
ceſſare , e nel mutarfi del total tuo viuere . 17 Rifletti alla propria tua
mente, e a quella dellyniuer fo , e a quella d'altri; alla tua per farla giuſta
, a quella del I'vniuerſo per rainmentarti di chi ſei parte, a quella d'altri
per conoſcere , le viene da ignoranza , o da animo deli berato ; e nell'iſteſſo
tempo fa tua ragione , che colui e a te congiunto.Sicome tu ſe'ſtato fatto per
dar compimento al la conſtituzione d’yn corpo ciuile , così ogni tua azione
compia la vita ciuile , Dun que qualſiuoglia tua amone , che non iſtà in tal modo
che o proſſimamente, o remo tamente non ſi riferiſca a quc. ſto comun fine ,
quella fcon certa la vita , ne le permette , che continui l'iſteſſa ; ed è di M
5 più fedizioſa , quale è colui nel popolo , il quale diſtrae il fuo partito da
fimile concor dia . 18 Riffc , e giuochi di figlio letti , e ſpiritelli
foftenenti cadaueri ; acciocchè con più efficacia fi rapprefenti il Dra ma del
martorio. Applica alla qualità del la cagione ; c conſiderala aftratta dalla
matcria , dopo preferiui il tempo , in cuitale , è tal coſa in particolare ſia
per più lungamente durare . : 20 Haiſofferto mille coſe per eſſerti nö
ſoddisfatto del la tua mente operante quello , in ordine a cui ella fu fatta :
ma queſto baſti . 21 Quando alcuno ti biafi ma , o t'odia , o con ſomiglian
ticoncctri di te ſparla, rifletti all'animucce di cotoro pene tra 1 nione ? 3
tra dentro , e ſcorgi quali quel. le filiano. Vedrai, che non bi ſogna
trauagliarti per l'opi ch'elli hanno dite , ma è neceffario voler loro be ne,
ftante che, ſecondo la na tura, foto amici, e gl’ladij in ogni manicra li
foccorrono con fogni, e vaticinij, ancora in quelle coſe , nelle qualief fi
difſentono . 22 Queſti fono i rivolgi menti fotto e fopra del Mon do , da vn
ſecolo all'altro. . E la mente dell' vniuerſo oli applica alli particolari , e
fe ciò è , riceir volentieri ciò che quella ti porta : ouero, ſe vna volta
dette la molla , e l'al tre coſe camminano per con ſeguenza , e come vna è
nell' altra; perchè queſti in qual che maniera o ſono atomi, a M 6 corpi 276
LIBRO NONO corpi indiuiſibili : e in fom ma, ſe ci è alcun Dio , ogni coſa ſta
bene : ſe il tutto è a caſo , e tu non le'a caſo? Fra poco la terra naſcon derà
tutti noi ; appreſſo anco ra eſſa fi muterà , e quelle co fc, in cui eſſa s'è
mutata, in in finito fi muteranno , e quelle di bel nuouo fi cambieranno in
infinito . Perciò chi conſi dera queſti maroſi delle mu tazioni, e alterazioni,
e la ve locità di quelle , diſprezzerà ogni coſa caduca. La caufa vniuerfale è
vn torrente , che rapiſce il tut to . Quanto vilc e ancora queſta politicheria
, e queſte faccende humane , ſe filoſo ficamente vno le conſidera , quanto ſono
piene di mocci ? O huomo fa yna volta quello che ora la natura richie de . Se
ti da facultà accorriui, e non riguardare fe alcuno ſe n'accorge : ne hauere
fperan-. za di vedere la Repubblica di Platone : ma contentati ſe la cofa,
ancorchè mcnomiffima , ti rieſce profitteuole , e l'eſito di quella conſidera
non come coſa piccola. Imperocchè chì mutcrà i loro deliberamenti ? e ſenza la
mutazione delli de. liberamenti , che altro farà che yna feruitù di lamentoſi ,
e di fimulanti di obbedire in Ora paffa auanti. Raccontami d'Aleſſandro , di
Filippo, e di Demetrio il Falereo:vedran no eſſi ſe conobbero quel lo , che
voleua la natura vni uerfale , e ſe inſtruirono bene ſe ſteſſi , o fe pure
fecero da recitanti di Tragedia , Niu j -1 no m'ha condannato ad imi tarli:
l'opere da Filoſofo fona fincerità , e modeftia ; non mi traſportare alla
faftoſa graui tà . 25 Conſidera per lo paſſato gregge d'Armenti fenza nu mero,
innumerabili ſacrificij e nauigazioni d'ogni forte, e nelle procelle , e nelle
bonac ce ; e diuerſità di coſe , che fi fanno , che inſiemefi fanno , e che ſi
disfanno . Conſidera ancora la vita già viuuta ſot to d'altri , e quella, che
dopo te s'haurà da viuere, e quella, che oggidi fra barbare genti ſi viue . E
quanti vifono, che non ſanno ne manco il tuo nome ? Quanti pure prefto fe lo
ſcorderanno? E quanti , che ora ti lodano, di qui a po . co t’incolperanno . E
coine non è da fare ftima , ne della gloria , nc d'altro tal, qual a fia . Sij
tu imperturbabile in torno a quello, che da cagio ne eſtrinfeca ti auuiene ,
ela giuſtizia fia nelle operazioni, delle quali tu ſela cagione, cioè a dire ,
che habbiano i moti dell'animo , ele aziciri da terminare nell'operare conforme
al ben comune, co me quello, che a te appartie ne , fecondo la natura.1 526
Molte coſe fuperflue , che ti trauagliano , puoirife gare , le quali ſono
ripoſte to talmente nella tua opinione : e così yn molto ampio cam po a te ftcffo
dilaterai. 27 Concepifci nella tua mē te l ' vniuerfo Mondo , e va conſiderando
il ſecolo , nel quale ſci ; e medita la preſta mutazione di ciaſcuna cofa ; e
particolarmente come è bre. ue il tempo dalla naſcita al diſcioglimento; quanto
è im menſo quello , che è ſtato a uanti al naſcere ; e come pa rimente infinito
è quello, che ha da ſeguire dopo il diſcio glimento . Tutte le coſe, che tu
vedi periranno preſtiſſima mente , e quelli, che al pre fente le rimirano
perire , pre ftiffimamente anch'eglino pe. riranno . E quegli , che nella
decrepità fi muore , paſſerà a Atato pari con quegli , che muore immaturamente
. 28 Quali ſono le menti di coloro , e a quali coſe atteſe rose per quali
cagioni le ama no , ele onorano ? Reputa 11!. de l'animucce di queſti tali ;
perchè hanno apparenza di C nuocere , mentre biaſimano , e di giouare ,mentre
lodano. O quanto è vana queſta im maginazione ! 29 Il perire non è altro che
mutazione : e di queſta gode la natura vniuerfale , in con formità della quale
tutte le coſe bene ſi fanno . Ab eter no tutte le coſe ſono ſtate dell'iſtetfa
forma, e così in in finito altre coſe ſaranno. Per chè dunque tu dì , che tutte
le coſc fatte , e tutte quelle , che ſi faranno ſempre faranno mali? E tra
tanti Iddij non mai s'è trouato niuno di tanto va lore , che poteſſe vna volta
correggere queſte coſe ? ma è ſtato condennato il Mondo ad eſſere coſtretto da
mali che mai non ceffano ? 30 La putredine della materia, che è ſoggetta a
ciaſcu na coſa, è acqua, poluere, of ficelli,immondezza , o pur cal li della
terra , come i marmi ; o feccia,comeè l'oro , e l'ar gento; o peli, come la
veſte ; o ſangue, come la porpora , e tutte le altre cofe fimili . Elo
fpiritello ,benchè altro , è tale, e di queſto in altre cofe ſi tra finuta . 31
Sc'viuato affai in queſta vita trauaglioſa, di mormora rione, e alla
ſciiniatica. A che ti perturbiè che ci è di nuouoa che ti fa attonito .
Lacaufiri, guardala. O forſe la nateriale riguarda quella , fuori di que fte
non è cofa veruna: mna vna volta inuerfo gPIddij diuieni e migliore , e più
piaceuole . 32 Il medefimo è , che tu habbi conoſciutoqueſte coſe per CH sof cz. mi te ; o 2,6 Elo tra per cent'anni
, o per tre . 33 Se quegli peccò, egli ha ilmale , ma forſe non peccò. Certamente,
come in yn corpo , da vna fonte intellet tuale tutte le coſe deriuanose non
biſogna , che la parte fi quereli delle coſe fatte a pro del tutto ; ouero
fonoatomi, e nient'altro : ouero yn me ſcuglio , e diſſipazione , che ti
conturbi dunque? Alla men . te tu dì ſe'morta, fe’perdutå , ſe'rigettata , ti
congreghi , e a modo di armenti ti pafci? O gl’Iddij non poſſono far niente , o
lo poſſono. Se non poſſono a che li preghi? ma ſe poſſono , perchè più preſto
loro non dimandi , che ti concedino di non temere coſa alcuna, che ſi ſia di queſte,
ne di bramare quella , ne di do clie 012 che 2012 VII CITI leer le dolerti di
qualſiuoglia di effe più toſto , perchè eſſe non ſi habbiano , che acciò fi hab
biano.Imperocchè,ſe nel tut to poſſono foccorrere agli huomini , poſſono ancora
in torno a queſte coſe giouare . Ma forſe dirai. Poſero gl'Id dij queſte coſe
in mio potere. Non è dunque meglio valerſi con libertà di quello, che de pende
da te , che laſciarti di ſtrarre con feruitù , e baſſezza intorno a quello ,
che da te non depende ? Machi ti diſſe , che gli Iddij non aiutano in quelle
coſe , che ſono in no ſtro potere ? Comincia dun que a pregargli intorno di
effe e vedrai. Prega il tale diccn. do: come potrò io godere co . lei ? tu anzi
dì; come potrò io non deſiderar di goderla ? vn altre dichi 11001 Thebe elcut e
agli Ora in Quare 8 !!!! Orere valení hede altro: come mi libererò io da colui
? tu dì: come non haurò biſogno di priuarmene? vn al. tro : come non perderò il
fi gliolino ? tu dì : come non temerò di perderlo ? In ſom ma in queſta maniera
indirizza le tue preghiere, c conſidera che ne ſuccede. 36 Dice Epicuro : Nella
malattia i ſuoi diſcorſi non ef ſere ſtati intorno alli pati menti del
corpicciuolo i ne meno con quelli , chelo viſi tauano hauer di coſe ſimili fa .
uellato : ma hauer ragionato filoſofando ſopra la naturą delle coſe
premeditate; tutto intento a queſto , cioè, come. partecipando la mente di co
tali mozioni , ch'erano nella carnuccia, ſteſſe imperturbabi. le conſeruando il
proprio be ortida lezza dar idilli 110 i in no dur dielli dicas reca troi tre
ne. Ne hauer dato occa fiorea' medici, che ſi vantaſſero d'ha uer operato
qualche coſa, ma che contuttociò ſe n'andaua tirando'auanti la vita tran
quillamente,e bene.Il medeſi. mosch'egli fece in quella ma lattia, tu hai da fare,
ſe ti ſen . tiffi male, o ſe ti trouaſſi in al. tro trauaglio . Poichè il non
partirſi dallaFiloſofia in qual fiuoglia cofa , che vada acca dendo ; e il non
applicare alle bagattelle degl'idioti' , e fofi fti è comune diqualſiuoglia
fetta , è di ſtar fiffo ſolo nella coſa, che al preſente l'huomo fase nello
ſtrumento permez zo del quale ſi opera :" ) 37 Se vienioffeſo dalla sfac.
tiạtezza di alcuno, ſubito in : terroga te fteſfo : Può forſe il Mondo essere senza
sfacciati non 0 ca fara ' cobs vanda ta tra ētiles trinal non può . Non
ricercare dunque l'impoſſibile : poſcia chè queſti è yno di quelli sfacciati, i
quali è neceſſario, che ſieno nel Mondo. L'ifter ſo ſia del macchinante, e del
l'infedele , e di qualſiuoglia vizioſo. Habbi qucſto ſempre in pronto ; Quando
ancora ti ricorderai eſſere impollibile , che tal forte di gente non ſia, tu
ſarai più placido iuuerfo ciaſcuno di eſſi . Sarà pari mente gioueuole il
conſidera. re ſubito qual virtù habbia dato la natura all ' huomo contra di
queſto vizio : men tre ha dato , come antidoto contra l'ingratitudine, lc mã ,
ſuetudine , come contra d'vn altro qualche altra virtù . E ſopra tutto t'è
lecito di diſin gannare chi errò . Ora ogni aqual 1107 ve all chat uoghi JOMO
m.cz sfac it feil nii 10 ,no,che erra , Si deuia da quel, che gli fu propoſto ,
e va va gando . E poi in che ſe'ſtato danneggiato ? poſčiachè tro uerai ,, che
niuno di coloro , contro de'quali tu ſei eſacer bato , habbia operató tal fat
to,dal quale la tua inenté po teiſe cffere peggiorata ; men tre in queſto è
ogni ſuſſiſten zadel tuo dannose malé.Che đi male , o di ſtrano è ſtato fatto ,
ſe vn'ignorante opera da ignorantc ?Guarda,che tu non habbi più toſto a ripren
dere te ſteſſo del non hauer hauuto riguardo , ch'egli for: fe per commettere tal
man camento ; done tu haueui i motiui della ragione à conſi derare, ch'era
veriſimile; che quegli in tal modopeccaſſe : E nientedimeno ſcordato ti maAtato
170 1001 opo per ter marauigli, ch'egli fia caduto? quel principalmente quãdo
tu l'ac. the cuſi, come d'infedele , o d'in . grato, rifetti in te ſteſſo :con
cioſliecoſache più che manis oros feſtamente l'errore é tuo , ſe credeſti , che
yno sin tal mort fue do diſpoſto , e haueſſe ad of feruare, la fede ; e ſe
facen dogli delle grazie , non le haidate coinpitamente, ne in che modo da
riceuere dall'iſteſſa tua azione tutto il frutto ſu bito . Perchè qual coſa più
deſideri , che di hauerbenefi cato vn'huomo? e ciò non ti baſta, che tu hai
operato coſa conforme alla tua natura ? e di quefto ricerchi lamercede ? come
ſe l'occhio domandafle la ricompenfa , perchè vede , ei piedi perchè camminano
. E fi come queſti membri ſo N no 7210 Toy tell for 2014 alf che Te ! 2 ho
farti a queſto effetto , e ſe condo la loro conſtituzione operando si ne
ritraggono quello che è loro proprio : così l'huomo dalla natura pro dotto
benefico , quando be nefica , o nelle coſe mezzane coopera, ha operato, ſecondo
la fua condizione , e ottiene quello , che a lui ſpetta . Fine del Libro Nono .
LI 10 291 180 ,CH tituziar TAGION propri cura on do be 70272 cond l’Anima ſarai
tu mai Ovna volta buona, e ſemplice , e vna , e quda, più ſplendida del corpo ,
che ti circonda guſterai tu giammai della diſpoſizioneamicabile e caritatiua
quando farai pienamente fornita,e von bi. fognofa, e di niente altro de
fideroſa , e di niente o ani mato , o inanimato anida, per N 2 prender piaceri
? ne di temo Po , nel quale più lungamen te habbi da fruire : ne di luo go , o
paeſe, o buona tempe. rie d'aria : ne d'huomini au uenenti ; ma ti compiacerai
del preſente ſtato , e goderai di tutte le coſe a te preſenti , e inſieme
perſuaderai a te Itefla , che tutto ciò , che ti fia dauanti , tutto bene ti
ſtia , e che dagl'Iddij a te venga , e ti parrà bene tutto quello , che a loro
piacerà', e quello , che da loro ſi concederà s'in riguardo della ſalute , e
con ſeruazione d'vn animal per ferto, buono, e giuſto , ebel los é quello ,
chetutte le co fe genera; contiene, circon da , e abbraccia , le quali fi
diſſoluono , generando altre cofe fimili . Sarai dunque finalmente talc , che
tu ſij atta à viuere in cittadinanza con gl’Iddij, e con gli huoinini in modo
che tu non c'habbi da dolere di quelli in coſa alcu na, ne quelli t'habbiano a
condannare . 2 Oſſerua quello, che la na tura tua richiede in quanto dalla mera
natura vien diret to : poſcia fa quello , cab ) braccialo , fe la natura tua ,
7 come diviuente , per queſto non ſia da peggiorare • Ha urai daoferitare
appreffo ,che 1 coſa richieda la natura tua , come di viuénte, e tutto ciò f
hai da riceuere , ſe da queſto la natura tua come quella d'un animal
ragioneuole , , nó fia perdiucnirne peggiore, e'l ragioneuole, nell'iſteſſo
tempo ancora ciuile . Ditali 01 N 3 regole ſeruendoti non andar cercando altro
curioſamente . 3 Tutto ciò , che e ' auuie ne, o in modo ti fuccede che ſij per
natura abile a com portarlo , o pure a non com portarlo . Se dunque t'accade
nella maniera , che puoi fof. ferirlo , non l'haucre a male ma
ſopportalo,fecondo chefe naturalmente idoneo'; fe poi non fe'idoneo per
fofferirlo , aðn ti diſguſtare: perciocchè, confumando té , confumerà fe
parimente . Niente dimet no ricordati , che tu ' se fatto per fofferirc
ognicoſa ; ' eche ſia in potere della tua opinio ne di farla tollerabile ,
cfof. feribile, fecondo il concerto che farai, che quello ti conferiſca , o che
ti conuenga ſofferirlo. Se qualchuna erra man fueramente s'ha da inſtruire , e
moſtrargli quello , ch'hab , bia traucduto . Però ſe ciò non ti rieſce , la
colpa è di te ſteffo , anzi ne meno di te ſteſſo . 5 Qualunque coſa c'auuie ne
, queſta ab eterno ti ſi prc. paraua , e l'intralciamento delle cauſe fin
dall'eternità fi aggomitolaua inſieme con Peffer tuo , e con quelli au
venimenti. 6 O fieno gli atomi , o ſia la natura , ftabiliſcafi primie ramente
che io ſon parte dell'yniuerfo , che la natura gouerna ; appreffo, che io ho vna
famigliarità in vn certo modo con le parti della me deſima forte; pofciachè
ricor dandomi di queſte coſe , in quan 40 TO ON ng N quanto io ſon parte,non
pren derò a male coſa alcuna , che venga compartita dall'vni uerlo :
concioffiecofache ni ente , che conferiſca all'vni. uerfale può nuocere alla
par te :imperocche non vi è coſa , che all'vniucrfo non conferi ſca.E ciò hanno
comune tutte le nature ; e quella del Mondo ha queſto di più , che da niu na
cagione eſtrinſeca può ef ſere forzata a produrre cofa alcuna a ſe nociua ; e
ſecondo quella ricordanza , che io fon parte di talvniuerfo, mi com piacerò
ditutto ciò , che au uiene ; e ſecondo che io ho fi fatta famigliarità colle
parti , della medeſima forte , non o pererò coſa , che non ſia co municatiua con
queſte , ma più toſto porrò mira alle parti della medeſima forte , e condurrò
ogni mia inclina zione all'vtile del comune , e dal contrario me ne ritrarrò
Queſte cofe così da te con dotte , ne ſegue neceffaria mente, che ci traſcorra
la vi ta felice,quale ſtimereſti quel. la d'vn citttadino , che gui daſſe il
ſuo viuere in azioni vtili a i cittadini , c.abbrac ciaſſe tutto quello , che
dalla città a lui determinato viene. 7 A tutte le parti dell'vni uerſo , quelle
dico , che il Mondo contiene , è di necel ſità il corromperſi ,cioè a di re,
l'alterarſi, ma ſe aggiungo, ciò , che loro è necellario , el fere dannoſo, non
ſi gouerne rebbe bene l'yniucrfo , eſſen do le parti di lui nell'altere zione
diſpoſte a corromperſi in diuerſe maniere Diremo N dunque, o che la natura
ftef- . ſa intraprendeſſe a fabbricare il male alle ſue parti , e le fa ceffe
fuggette al male , e che di neceſſità caſcaſſero a far il male , o'che
inconſiderata mente non s'accorgeſſe , che le faceffe tali : ma ne I'vno' , ne
l'altro certamente è da credere . E ſe qualcheduno laſciando da yn canto la nas
voleſſe dir , ch'effe ſom no così nate , quanto ſarebbe ridicolo nell'iſteſſo
tempo il dire , che la naſcita loro le porta , come parti dellyni uerſo ,alle
mutazioni, e in ſieme marauigliarſi, e hauer ciò a male , come ſe auuenifs ſe
fuori della natura dell'yni. uerfo ? Tanto più , che la dif ſoluzione vien
fatta in quel le coſe , delle quali ciaſcuna è compoſta , e conſiſte . Im
perocchè , o è diſgregazione degli elementi , dequali le coſe eran permiſchiate
, o conuerſione del folido nel terreſtre ; o dello ſpirituale nell'acreo , in
modo , che queſte coſe fi ritornino nella ragione dell'vniuerfo : o è che dopo
più periodi di temu ро ſe ne vada in fuoco , o po re con perpetue viciffitudini
fi rinnuoui. E queſto folido , e queſto ſpiritale , non t'im maginar , che fia
dalla prima naſcita , perchè tutto queſto l'altro giorno , o al più tre di fa
dall'alimento ; e dall'aria attratta riceuè l'accreſcimen to . Dunque queſto ,
che ri ceuè fi muta, non quello che la madre partori; e,fupponi, che - quello
ti riduce affai N 6 vicino alle qualità del ſug getto particolare , che a ri ſpettodi
quello , che ora fi dice, ſecondo la mia opinio , ncé nicnte . 8 Quelli titoli
, che ti se poſto dibuono , di modeſto , di verace , d'accorto , dipru dente ,
di magnanimo , au uerti che giammai non ti ſi cambino, e,ſe li perdi , ſolle
citamente torna a ripigliarli . Ricordati, che col nome d'ac corto ti ſi
ſignifica l'attenzio ne, che tu deiporre per com prendere diſtintamente ciaf
cuna coſa ſenza abbarbagliar. ti la mente : con quel di pru dente , la
ſpontanea approua zione delle coſe , che dalla natura comune vengono di
Itribuite: con quel di magna. nimo , l'alcanzamento della particella del fenno
ſopra i moti della carne , ſieno aſpri, o morbidi , intorno alla glo rietta ,
intorno al morire , o a coſe si farte . Se dunque tra queſti nomiriſtrigni te
ſteſſo , e di riceuer queſti titolida al tri non ambirai , farai yn al tro , e
darai principio a dif ferente vita. Concioſliecofa che il proſeguire d'eſſer
come finora ſe'ſtato , e ſtraſcinarti in tal vita , e imbrattarti , è da troppo
inſenſato , e da in namorato del viuere , e da fi mile a quelli che, combatten
do colle beſtie, reſtano ſmoz zicati , i quali,pieni di ferite , e di marciumi,
ſi raccoman dano ad eſſere riſerbati fin ål giorno ſeguente,per rigettar fi di
nuouo , così come ſono alle medefime'vnghie , e zan ne. Interna dunque te
fteffo nella confiderazione di queſti pochinomi, e ſe puoi man tenerti in
quelli,fermati, qua fi traſportato a ſtanziar' inal cuna dell'Iſole
Fortunate.Ma fe t'accorgi chetu ſcappi fuo. ra , e non reſti ſuperiorez riti.
rati con ardimento in qual che cantone , doue fignoreg gerai, quero in tutto
eper tut to eſci di vita , non iſdegnan doti, ma con ſemplicità , li bertà , e
modeftia ; mentre non hai pretefo altro in queſta vita che di cosi vſcirne. A
conſeruarti peròla memo ria di queſti titoli grande mente t'aiuterà il
rammentar. ti degl'Iddij ; e come quelli non vogliono eſſere adulati , ma chei
ragioneuoli tutti so afſomiglino a loro. E come ! 1 il fico fa quello , che
appar tiene al fico , e'l cane opera da cane , e l'ape da ape , così Phuomo da
huomo . 9 Il giullare, la guerra, lo , sbigottimento, il terrore , la feruicù
ſcancelleranno coti dianamente da te que' ſacri decreti,che tu eſaminator del
la natura ti fe'nella mente tra ſmeffo coll'immaginazione . Però abbiſogna
conſiderare il tutto , e operare in modo che inſieme s'habbia da adempie re
quello, che la congiuntura porta, e che nell'iſteſſo tempo ciò che s'è
fpeculato ſi metta in opera ; e la franchezza , che s'acquiſta dalla ſcienza in
torno a ciaſcuna coſa , fi con ferui occulta sì , ma non - for terrata . Dunque
quando go derai della ſemplicità ? quai do della grauità d e quando della
notizia di ciaſcuna coſa in particolare, quale ſecondo la ſua ſoſtanzia ella fi
fia , e qual luogo habbia nel Mon do , e per quanto debba du rare , e di quali
coſe ſia com poſta , e chifia' per hauerla , e chi fienoquelli che poſſono
darla , e ritoglierla a · 10 Il ragnetto grandemen te s'infuperbiſce per hauer
predato vna moſca : ma vna perſona pervn leprotto, altri per vn'alice prefa
nella rete , e altri per i porcaftri , . vn'al tro per g’orſie altri per i Sar
. mati. Non faranno queſti la droni fe eſaminerai i conce pimenti della mente
loro ? 11 Seruiti del metodo fpe culatiuo , oſſeruando , come tutte le coſe in
fe RECIPROCAMENTE fi trafinutano , e di con . tinuo ſta applicato,e intorno a
queſta parte eſercitati ; im perocchè niuna coſa ti cagio nerà altrettanto la
magnani mità . Del corpo ſi Spogliò . E conſiderando , come ben pre ſto
partendo dagli huomini, gli biſognerà laſciar'il tutto , ſottopoſe intieramente
ſe ſteſ ſo alla rettitudine ' , nell'ope rar quello , che da luidepen de , e
alla natura dell'vniuer ſo negli altri accidenti . Ma che dica alcun di lui ,
ouero creda , o faccia contro di lui , ne pur colla mente vi bada : contento di
queſte due coſe , dell'operare giuſtamente ciò che al preſente opera ; e di
compiacerſi di quello , che a lui preſentemente vien diſtri buito , e libero da
ogn'altra occupazione , e ſtudio , non altro vuole che paſſarſela dirittamente
in vigor della legge e ſeguir Dio ,che a dia rittura cammina . Perchè hai da
vſare il ſoſpetto , quando ti è lecito di conſiderare quel che ſi dee operare e
fe lo conoſci , proſeguirai in quel lo dibonariamente , e fenza mai voltarti
indietro : ma fe tu non lo conoſci , trattieni il giudicio , e feraiti di confi
glieri ottimi. Se poi ii ſucce dono in contrario di queſto altre coſe , cammina
pruden temente fecondo l'occaſioni , che ti s'offerifcono,adcrendo al giuſto,
che fecondo l'appa renza ti fi porge innanzi: per chè è boniffima coſa arriuare
a quello, nel quale il non ac certare ſia caduta . Quegli , che in tutto ſegue
la ragione è inſiememente agile, e poſa to , e vnitamente viuace, e co Itante .
12 Subito che dal forno ſe fuegliato interroga te fteffo , ſe hauratti a
importare , che quello che è giuſto é, retto , da qualch'altro fi efeguiſca?
Non t'haurà a importäre . Ti fe'forſe ſcordato, che queſti , i quali ſi
vanagloriano nelle lodi, e ne biafimialtrui , tali ſono nel letto , e tali
nella menfa : e quali coſc fanno , quali fuggono , quali ambi fcono , quali
naſcondono quali rapiſcono', non con le mani, o'con i piedi , ma con la
digniffima parte di loro , colla quale ,volendo jacqui ftar potevano la fede,
la mo deſtia , la verità , la legge, e'l buon genio . 13 Il ben diſciplinato ,
e modefto,dice alla natura,che da il tutto , e riceue: Da ciò che vroi,ritogli
ciò chevuoi:ne queſto dirà con tracotanza , ma con pura obbedienza pienezza di
gratitudine verſo quella . 14 Poco è quello che ti re ſta ;paſſalo come tu
ſteſſi in vn monte : imperocchè niente importa che qui , o lì fi ftia , quando
doinunque fi fia , s'ha da viuere nel Mondo , come in vna Città . Veggano , eri
conoſcano gli huomini yn huomo vero , che viua con forme alla natura . Se non
lo ſopportano , l’ýccidino: per chèqueſto èmeglio che viuer nella maniera di
quelli. !! 15 Tu non timpiegherai più tutto in difcorrere qual fia, l'huomo
dabbene , ma proccurerai d'eſſer tale . 16 Conſidera del continuo tutto l'euo e
la ſoſtanzia vni uerſa ; e comeognicoſa par ticolare riſpetto alla ſuſtan zia è
come vn granello di mi glio ; e riſpettoal tempo vn roteare di trapano : e appli.
candoti a ciaſcuna delle coſe prelenti, conſiderala già nel disfacimento , e
nellamuta zione , e comenella putrefa zione,o diſlipazioncs o ſecon do che
ciaſcuna coſa è ſtata fatta in ordine al finire. Con. ſidera quali fono quelli
, che, mangiano,che dormono, che attendono alla generazione , che mandano fuori
gli cſere menti , t. altre coſe fimili : appreſſo quelli cheſignoreg : giano
gli huomini , e s'inſu perbiſcono , o li ſdegnano , e come fuperiori inſultano
, e pure poco innanzi a quanti feruiuano , e per quali occa fioni, e di quì a
poco in che fi ridurranno 17 Ad ognuno conferiſce quello , che apporta a ciaſcu
no la natura dell'vniuerfos, e allora conferiſce quando ella l'apporta . La
terra ama-cer. tamente la pioggia, amaque ftaianco l'almo etera , amai
Mondod’eſeguire quelloche ha da effere lo dico dun que al Mondo : '10 ti Tono
compagno nell' amore . Non fi fa ancora queſto se fi dice ; che s'ama di far
quefto ; 0 quello 18 O quà tu viui , e a queſta vita fei di già accoftumato , o
elci di effa, e ciò era quello , che tu voleui , e hai finito l'officio tuo ;
fuori di queſto non c'è altro . Dunque ita di buon animo . 19 Habbi ſempre per
cui dente , che ogni luogo è fi mile ad vna campagna, e che tutte le coſe
rieſcono le me. deſime a chi ſtia fopra ad vn alto monte , o sul lido del mare
, o douunque ti piaccia . Perchè chiaramente incon trerai da pertutto quello
che diſie Platone : la greggia Ata torniata di fiepi? ful monte 501 Che coſa è
in me la mérite mia 2 e quale ora io la fac cio ? Ache di quella di pré fente
mi ſerito a forfe, che è qualche coſa vacua d'ogni in telligenza ? forſe è
qualche cofa diſciolta, e diſtratta dalp accomunamento di forfu qualche coſa
liquefatta,e me ſchiata nella carnuccia ,ſicchè habbia da commutarſi con quella
? 20 Chi fugge dal padrone chiamafi feruo fuggitiuo: la legge è la padrona,
echi ope ra contro la legge , é fuggiti. uo . E inſieme , chi ſi da alla
malinconia , o alla collera , o al timore , per qualche coſa delle ordinate ,
che già ſon fatte , o fi fanno , o ſono per farſi da quello, che governa il
tutto , che è legge, così det ta dal diſtribuire a ciaſchedu no quello , che
gli vienę. Chi dunque fi daal timore; o alla malinconia , oall'ira è feruo
fuggitiuo 21 Depofto che alcuno ha lo ſperma nell'utero , fi dipar tegte
appreſſo , qualch'altra cagione raccogliendolo , lo perfeziona , e compie il
feto : di qual materia ? è quale è ? ſimilmente tramiſe l'alimento per la gola
, e poi qualche altra cagione raccogliendolo, produce il ſentimento, l'ap
petito , la vita , e la robuſtez za , e altre coſe ( c quante , c quali ? )
Biſogna dunque, che tu contempli quelle co fe , che ſotto tal copertura ſi
fanno, e in queſta manicra ri conoſcere la facultà come noi vediamo, c quella
cheaggra ua , e quella cheſolleua, non con gli occhi, ma non meno euidentemente.
22 Del continuo conſidera, come tutte le coſe ſono tali , quali ora ſi fanno, e
già ſono ſtate; e conſidera quelle , che ſono per eſſere , erappreſen O tatele
auanti agli occhi come intiere fauole , e ſcene , cun forme alle coſe le quali
o per tua eſperienza , o per antichi racconti ti fono note . Verbi gratia tutta
la Corte di Adria no, tutta la Corte di Antoni no, tutta la Corte di Filippo, di
Alessandro, di Creso, poi chè tutte quelle erano l'iſteſ fe, che queſte , variando
ſolo ne'perſonaggi. Immaginati , che que gli, il quale per qualſivoglia coſa ſi
rammarica , e s'afflige, è fimile ad vn porcello , che fi macella calcitrante ,
e gru gnente; ne è diuerfo chì pian. ge solo ſopra il letto con si lenzio la
noſtra dappocaggi ne ; e immaginati , che al fo lo animal ragioneuole è con
ccduto d'accomodarſi volon ta hi volontariamente
agli accidenti , e l' accomodarli ſemplicemen te è a tutti neceffario. 24 In
ciaſcuna delle coſe , bi che tu operi applicando a parte a parte la mente, in
tcrroga te ſteſſo , le la morte 01 pare terribile a cagione , che habbiamo a
reſtare priui di e quella tal cofa . 25 Subito, che tu ti offendi per l'altrui
peccare ,, rientran do in te ſteſo , fa tua ragione, 111 ſe in caſo fimilcru
erri : come a dire giudicando, che ſia co fa buona la moneta , il piace re , e
la glorietta , e altre co ſe sì fatte. Perciocchè con fi qneſta conſiderazione
preſta mente ſmorzerai la collera , venendoti inſieme in mente , che colui
opera forzatamen te . Che ha egli dunque da fare? ſe è in tuo potere , libe
ralo dalla violenza. Vedendo Satirione, vno de Socratici , immaginati o
Eutichete , o Himene : e ve dendo Eufrate , immaginati di vedere Eutichione , o
Sil uano : e vedendo Alcifrone , di vedere Tropeoforo ; e ve dendo Senofonte ,
immagi nati Critone , o Seuero : e ri mirando te ſteſſo , immagina ti
qualcheduno de ' Ceſari , e in ciaſcun altro qualche coſa {imile a proporzione
. Ap preſſo ti ſouuenga , doue ſo -no dunque quelli? o in nilt no , o in
qualſiuoglia luogo . Così di continuo vedrai le coſe humaneeffer fummo, vn
nulla ; maſſime fe eandrai rammentando , che il mu tato vna volta per tutta
l'infinità de'ſecoli non tornerà ad accadere . E tu quanto tem po ſtarai a
mutarti ? perchè dunque queſto breue tempo non ti baſta per degnamente paſſarlo
? qual materia, e qual foggetto abborriſci ? che al tro ſono tutte queſte coſe
, che eſercizij della ragione, la quale accuratamente ha con fiderato , e
diſcorſo ſopra la natura di quello , che è nella vita? Perſiſti dunque finchè
tu ti renda famigliare queſti , in guiſa d'vn gagliardo ſtoma co che ognicofa
abbraccia , e come il chiaro fuoco di qua lunque coſa , che tu gli butti dentro
ne forma fiamına , e fplendore. Non poſſa alcun veritie ro dire di te , che tu
non se {chietto , o huomo dabbene. Il Do le ai 0 3 .ma mentiſca chiunque di te
ha fimile opinione . E rutto queſto è in tuo potere . Per chè chi t'impediſce ,
che non fij huomo dabbene , c ſchiet to ? A te folo ſta lo ftatuire di non
voler viuer più , ſe tik pon farai tale : imperocche non comporta la ragione ,
che tu non ſij tale. Che coſa è , che ſi pora fa intorno a queſta materia
rettiſſimamente operare , je dire ? qualunque coſa queſta fia è lecito di farla
, e dirla , e non metter préteſto d'effe re impedito . Non prima cef ſerai di
lamentárti , che tu ſij ridotto a queſto , che quale è agli huomini voluttuoſi
il luſſo , queſto è a te l'operare nella ſoggetta , e ſommini Itrata materia ,
conneniente alla conſtituzione humana Imperocchè s'ha da concepi re perdelicia
tutto quello , che farà lecito d'operare con forme alla propria natura , e
queſto è lecito in ogni luogo. Perchè al cilindro non è con ceduto di portarſi
per qualſi uoglia luogo col proprio mo. to , come ne meno all'acqnas ne al
fuoco , ne ad altre coſe , le quali ſono rette dalla na tura, o dall'anima
irragione uole ; eſſendo molti li rat tenimenti , e gli oſtacoli:ma la mente ,
e la ragione può . penetrare pertutti gl'impedi menti, ſecondo la ſua natura ,
e a ſuo beneplacito . Queſta facultà , poſta che tu te Phai innanzi gli occhi ,
fecondo la quale la ragione potrà portar fi per tutto , come il fuoco in 04 alto
, come la pietra al baſſo , come il cilindro per dio , nicnt'altro ricerca. Per
chè gli altri impedimenti che. procedono o dal corpo , ch'è yn cadauero , o
ſenza l'opi nione , e inchinamento dell' iſteffa ragione , non fanno . leſione,
ne apportano danno alcuno , altrimente a yn trat toil patiente di quello diuer
rebbe cattiuo : perciocche in tutti gli altri apparatid'opera, quel danno , che
ad alcuno auuiene rende peggiore quel lo , che lo patiſce . Ma quì , le è
lecito il dirlo , ſi fa l'huo. mo migliore , e più degno di lode , ſeruendoſi
rettamente di queſti incontri . In ſomma ricordati, che a colui, il quale è per
natura cittadino , nien te nuoce , che alla Città non 1 nuoca: e a queſta non
fa dan no chi alla legge non fa dan no . E niuna di queſte , che chiamano
difgrazie offende la legge . Quello dunque che non offende la legge , non
offende ne la Città , ne il cittadino , - 29 A quello che gia è toc co da veri
dogmi , è fuficien te ogni piccoliffimo, e ordi nario incontro per ricordarli
di sbandire ogni dolore , e ti more . Quale è queſto ? Delle foglie altre il
vento a terra abbatte, Altre produce il verdegiante bosco ; Quando la primauera
fa ritorno. Cosi ſuccede alla natura lumana', Che mentre Spriiita l’vil ,
l'altro ; dien em . Fogliucce fono i tuoi figlio lini : fogliucce ancora que
fti , alle acclamazioni de qua 70 ol 70. di ite yle 00 05 322 quali ſi da tanto
credito , e che parlano bene del fatto tuo ; o pure per lo contrario quelli ,
che maledicono , o tacitamente biafimano , o di leggiano:fogliucce ſimilmen te
ſono quelli, i quali aderi ranno alla tua fama dopo la tua morte . Perchè tutte
que fte coſe naſcono al tempo della primavera, dopo il ven to le butta a terra
, e appref fola felua in luogo loro altre produce. La breuità del tem po'è a
tutti comune. Ma tu ogni coſa fuggi, e appetiſci tutte le cose , quafi
chefoffero per eſſer perpetue. Tra poco tu ferrerai gli occhi , e vn al tro
piangerà quello , che ben preſto ti porterà alla ſepoltu . 30 L'occhio fano è
dime ra . Itie ftiere , che veda tutte le coſe viſibili ; e non dire : Amo ve
dere il verde , che queſto è perchi patiſce di viſta ; e l'v dito fano , o
l'odorato biſo gna , che ſieno pronti a tutte le coſe da vdirſi, e da odorar fi
; e lo ſtomaco ſano a tutte le cofe , che nudriſcono : pa rimente , come yna
macina dee eſfer ammannita per tuta te le coſe da macinare , nell' ifteſſo modo
la mente ſana dee effer difpoſta a tutti gli auuenimenti ; maquella , che dice
: Sieno faluii figliolini , e tut ti lodino quello, che io farò ; fono occhio ,
che cerca il verde , o denti , che cercano il tenero. Niuno è talmente feli .
ce , che qualcuno di quelli , che ſi truouano alla ſua morte O 6 non ſia per
godere di qucl . cattivo accidente . Era egli di valore , era fauio ? non fa rà
alla fine chi del medeſimo fra feſteffo dica ? reſpireremo pur una volta da
queſto pedante , Non era faſtidioſo con alcuni di noi, ma io m'accorſi , che
tacitamente ci riprendeua . E queſto d'vn huo mo di valore;main noi quan te
altre coſe ci ſono , per le quali molti bramano liberarſi da noi ? queſto
dunque confi dererai nel punto del morire ; e meno trauaglioſo ti riuſcirà
diſcorrendo come ſegue. Da quella vita io parto , dalla quale quelli , che meco
co municano , e per li quali ho trauagliato intante cofe , ho pregato , m'ho
preſo tanti penſieri, quegl'iſteſſi deſide rano ich DO 100 Ilo son O le rano ,
che io me ne vada, fpe randone facilmente da que ſto qualche ſollieuo . Chi
dunque non saccomoderà a non far più lunga dimora in queſte parti? Non partirai
per ciò da quelli men verſo foro benigno; majconſeruando il proprio tenore ,
amoreuole , beneuolo , e propizio : e non come ſe foſli per forza ſtrap pato ,
ma come a quegli, che felicemente trapaſſa , facil mente l'animuccia ſi
diſtacca dalcorpo , così biſogna , che fi faccia queſta ſeparazione. dalle coſe
preſenti ; giacchè la natura con quelle ci vnì , e congiunte . Doue ora ti diſ
giugne ? mi diſgiungo perciò, come da famigliari, non già con renitenza ,ma
fpontanea mente ; poichè queſto anco rfi [ rà 12 y 0 0 ti ra è vna delle coſe
conformi alla natura . 32 In tutti gli atti , che da ciaſcuno ſi fanno , cerca
d'af fuefarti, per quanto c'è poſsi bile, di ricercar dentro di te: Il tale fa
quefto , per qual ca gione ? comincia però da te medeſimo , e printieramente
eſamina te fteſso . Ricordati , che , comequelle cordicine , che tirano i
bambocci , non appaiono , così quello , che t'addolora , è dentro nafco fto .
Quello è la perfuafiga , quello è la vita , quello , ſe conuiene cosi dirlo , è
l'huo mo .Non fantaſticar dunque di quello , chea guiſa di vafo ti circonda, e
di queſti inſtru mengucci , che attorno a te fono formati; poichè queſti ſono
ſimili all'aſcia , folo in 1 1 ciò diffcrenti , che ſono con naturali . Mentre
ſenza la ca gione , che gli muoue , e rat ticne , non è maggior l'vtile , che
da queſti membri s'ha , di quello, che ne ha la teſli trice dalla fpola, gli
ſcrittori dalla penna , e dalla fruſta i ! cocchicro. E proprietà dell'anima
ragioneuole ſono , il ri mirare ſe ſteſſa, ſe ſteſſa minu tamente ricercare,
fare fe fter ſa quale più a lei piace:il frut to,ch'ella produce lo produce a
ſe ſteſſa ( giacchèi frutti del. le piante , e ſimilmente quelli degli animali
, altri godono ) in qualunque luogo le ſoprau uenga il termine della vita ,
arriua ella al fuo proprio fine: non come ne i balli , e nelle
rappreſentazioni, e in fimili coſe , nelle quali, ſe qualche impedimento
s'intrapone,tut ta l'azione rimane imperfetta : ma ella in qualſiuoglia parte,
e douunque s'interrompa ,ren de tutto quello che ſe le pro pone innanzi
perfetto , e non biſognoſo di coſa alcuna; ſic chè può dire ; lo poſſiedo il
mio . In oltre , traſcorre per tutto il Mondo , e per lo va cuo, ch'è intorno
ad eſſo , e al la di lui figura : ella s'eſtende nell'infinità de'ſecoli ,
eleri generazioni di tutte le coſe , che a certi giri de' tempi ſi fanno ,
comprende, intende , e diuiſa , che niente più di nuouo ſono per vedere i po
ſteri , e niente di più videro i . noftri aſtepaſſati: ma in certo modo chi
haurà quaranta an ni, s'ha fior d'ingegno, haurà veduto tutte le coſe paffare ,
future , per la ſomiglianza tra effe. Di più è proprio del l'anima ragionevole
amare il proſſimo, effer verace , mo deſta , e non iftimare niuna co . ſa più
di ſe ſteſſa . Il che è proa prio ancor della legge . In queſta maniera tra
laretta ra giòne , e tra la ragione del la giuſtizia non è differen za . 2
Sprezzerai il canto Infin gheuole , il faltare , e'l pan crazio , cioè
l'eſercizio degli atleri : ſe tu ſpartirai la voce armoniofain ciaſcuno de'tuor
ni, e in qualſiuoglia di quelli interroga te fteffo : Se da quel lo tu refti
vinto ; perchè in ve ro te ne vergognerai . Nell' eſercizio del ſaltare farai
l'i ſteſſo a proporzione, a cia ſcun moto, egefto; il medefi mointorno al
pancrazio . In ſomma, in tutto quello , che e fuori della virtù , o da quel la
non deriua , ricordati di traſcorrerlo a parte a parte; e con la diuiſione di
quelle ver rai a vilipenderlo . E queſto l'hai da traſportare allvſodi tutta la
vita 3 Quale è l'anima , che ſta pronta, fe già bifognaffe , a fcioglierſi dal
corpo , o eſtin guerſi , o diſliparfi , o a rima nerui ? pronta , dico , ma che
tal prontezza prouenga da vn particolare diſcernimento di mente ,non da vna
nudacapar. bietà , comeè quella de'Chri ſtiani , mi conprudente diſ corſo , e
maturità da poter ciò perfuadere ad altri ſenza tragica impreſione, 4 Operai
qualche cofa ap partenente al comune ? Dun que n'ho ritratto dell'vtile .
Queſto ſia fempre alla mano in ogni occorrenza,fenza mai traſcurarlo. Qual'è il
tuome ſtiere ? l'eſſer buono ; ma que fto non ſi fa bene, ſe non per mezzo
delle fpeculazioni, e maſſime, o intorno la natura . dell'vniucrfo , oltero
intorno la propria conſtituzione della huomo. 5. Al principio furono in
trodotte le Tragedie , per rammemotar agli huomini gli accidenti ; e che queſti
così naturalmente, loro fogliono auuenire . E acciocchè quelle coſe , che ſu le
ſcene vi ricre aſſero l'animo , non vi contri- , ftal ila NO jai 76 il Her e
ftaffero nella ſcena maggio re , Perchè vedete eſſer così neceſſario che queſte
coſe in cotal modo ſi terminino ; e così le comportano quelli, che eſclamano:Oh
CitheroneE fi dicono alcune coſe vtil mente da quelli , che com pongono ii
Drami , quale è particolarmente quella . Che di me cura , ne de’mieifigli uoli
. Non ſi prendan gl'Iddi ragion il vuole E parimente Che con le coſe diſdegnar
non lice . E Cheſi mieta la vita,come ſuole Matura spiga . 119 e altre coſe ſimili.
Pure dopo la Tragedia fu introdotta l'antica Commedia hauente vna libertà di
maeſtreuol 10 2 Blo cer li si 0 mente correggere , rammen tando non inutilmente
col fuo retto parlare la modera zione del faſto ; al quale me defimo fine in
qualche modo Diogene ſe ne valeua . Dopo queſta conſidera quale è la Commcdia
mezzana ; e ap preſſo la nuoua , a che fine fu poſta in vſo , o come a poco a
poco per l'arte , e applica zione dell'imitare ſubcntrò ; mentre ſi ſa, che
anco da que TE fte fi dicono alcunecoſe gio fe ueuoli; ma l'vniuerſale inten to
di tal forte di poeſia , o rappreſentazione mimica a qual ſegno hebbe la mira ?
C 6 Come truouafi euidente non ci eſſer altro modo di vi PE vere tanto a
propoſito per fi po loſofare di queſto, nel quale VE tu se'di preſente ? to ta
7 II zenu co TIE • H 0 - Mode 7 Il ramo non ſi può ſchian tare dal vicino ramo
, ſe non fi diſtacca inſieme da tutta la pianta ; cosìyn huomo non ſi può
difceuerare da vn altro huomo, ſe non ſi ſepara dalla comunione . Il ramo
dunque Jo diuide vn altro , ma l'huo mo li ſegrega da per ſe ſteſſo dal
proſſimo, con odiarlo , e renderſigli auuerſo. Però non ſi auuede , come dalla
gene rale cittadinanza ha ſeparato ſe ſteſſo E nulladimeno quella è yn dono
particolare di Gioue il quale ha conſtitui to queſta comunicazione .
Concioffiecolache è lecito di nuouo ricongiugnerſi col proſſimo , e dinuouo
incor porarſi colla perfezione dell' vniuerſo ; ma ſe ſimile ſepa razione fi
fpeſſeggia , fi rende ľu più niC di le ds .81 tra tutduqunat più dificile il riunirſi
, e'l tor nar a rallignarſi . In ſomma il ramo , che da principio ger minò con
l'altro , e como conſpirando conſiſte , non é fimile a quello , che dopo il
taglio vn altra volta è ſtato inneſtato . Il che pur dicono gliagricoltori .
Biſogna effe re dell'iſteſſo germoglio , ma non dell'iſteſſa lembianza . 8
Quelli , che ad impedirti ti ſi frappongono , quando tu cammini conformealla
retta ragione , ſi come non ti po - tranno trauolgere dalla fana operazione ,
così non t'han no da ritirare dalla buona vo lontà verſo di loro : ma cuſto
diſci te ſteſſo egualmentenel I'vno , e nell'altro ; ne folo colcoſtante
giudicio , ecol l'azione , ma col portarti per9 all anttö ting allaOr? allo
tejla -1 man zumail coloro , che ſtudiano d'impe manſuetamente ancora verſo 1
tor ger COM 1100 opo il Stato , ma d . dirti dirri , o in altro modo ti mo
leſtano Imperocchè così è da animo iinpotente lo sde gnarſi contro di quelli
comeil tralaſciar di operare, e abbat cono i tuto arrenderſi. Perchè amen. effe
due abbandonano il poſto , queſti intimorito , quegli alie nato dal congiunto ,
camico per natura , 9 Niuna natura è inferiore retta all'arte ; concio
liecofache le arti imitano le nature . Sc pe Cana rò queſto è , la natura
perfet tiffima tra tutte l'altre, e che il tutto abbraccia , non cederà Ao alla
più atificioſa induſtria . Ora da tutte le arti in ordine alle coſe migliori ſi
fanno le inferiori.Dunque anco dal la natura comune ; donde é , P che Jo tu ipo
han vo nel ! olo 04 arti ſo & 11 re
M che da quella deriua la giu ſtizia , e da queſta poi tutte le virtù hanno la
ſua ſufiften za . Perchè non ſi conferucrà il giuſto, fe o alle coſe di mez zo
troppo attribuirem'o , o fa remo facili a prender errore , ead cſſer temcrarij
, e muta bili . 10 Se non vengono a te le coſe , delle quali il proſegui mento
, o la fuga ri perturba 110 , ma tu in certo inodo a quelle ti conduci , dunque
il giudicio intorno ad eſſe s'ac quieri , e quelle rimanghino immote, e tu non
ſarai vedu to , neappetirle , ne fuggirle. La sfera dell'anima è luminosa ,
quando ella non ſi eſtende fuori a qualche co fa , ne dentro ſi ritira , o fr
conſtipa , ma riſplende con P d d . a 0 fc PE 9 mi ch ch quel a Giv tutti
Tilter TUOTI Legii proccurerò di eſſer manſueto , quel lume, col quale ſcorge
la verità di tutte le coſe , e quella , che è in lei medesima .Mi fprezzerà
talvno ? ſe n'accorgerà cgli . Io mi guarderò bene , che niſſuno mi truoui o
opcrare, o parla re coſa degna di diſprezzo Miodierà ? guardiſi egli. Io mez ot
TOTE , MUT tele urb.2 do 1 quei rhino reche e di eſſer di buon volere verſo di
ognuno , e con queſto me deſimo ancora pronto a farlo accorgere detfuo
trauedere , non per modo di rinfacciare , o di far moſtra della mia fof.
ferenza ; ma con ingenuità , e probità , nell'iſteſſo modo di quel Focione, ſe
pure non fi mulaua. Perchè così biſogna, che ſieno le coſe interiori , e che
l'huomo ſia veduto dag! P 2 Iddij irle 1.2 € 1101 CO 0 h C011 I iddij , così
diſpoſto a non ri ceucre coſa alcuna con iſde . gno , con querele . Poſcia. chè
di che danno è a te , ſe tu fteſſo fai al presére quello, che e proprio della
tua natura ? non accetterai tu ciò , che ora è opportuno alla natura dell'
vniucrlo , o huomo ordinato per far qucllo , che conferiſce al comune 13 Quelli
, che l'vn l'altro fi difprezzano , l'un l'altro fi luſingano : e quelli , che
cer cano diſoprauanzar l’yn l'al tro , l'vn all'altro ſi ſottomci tono. Quanto
rancido , e non ſincero èil dire: Miſono propoſto di portarmi teco
ſchiettamente. Che fai , o huomo ? non è di me ftiere far queſto prologo :
apparirà da per ſe . Nella fronte iſtekla dce eſſere ſcrit ta la voce . Quello
, che hai dentro , ſubito viene eſpref fo negli occhi , come nel lo ſguardo
degli amanti il tutto fubitamente conoſce Pamato . Tale inſomma biſo gna , che
ſia il fincero, e buo no , che ſappia vn poco di ca prino; acciocchè chi ſe gli
ac coſta , nell'iſteſſo primo in contro voglia , o non voglia , al fiuto lo
riconoſca . L'affet tazione della femplicità è vn ferro traditore . Niuna coſa
è più brutta, che l'amicizia lu pina . Fuggila più di ogni al tra . Gli occhi
del buono del ſemplice, del manfueto han no queſto chenicite in quel li ſi
naſconde . 15 La facultà di vinere ot timamente è poſta nell’anima. Se pur le
coſe indifferen ti le piglia indifferentemente : e le prenderà indifferente
merte , ſe ciafcuna di quelle contemplerà ſeparatamente , e con riguardo al
tutto ricor dandoſi , che niuna di quelle può formae in noi l'opinione di ſe
ſteſſa , ne a noi venire : ma quelle ſtanno ferme,e noi fiamo quelli , che formiamo
i giudici di quelle , come in noi dipignendole ; mentre è lecito laſciar di
dipigaerle , è lecito ancora,ſe furtivamente s'infinuaffcr, o di ſubito ſcan
cellarle. Che queſta attenzio ne ſarà per corto tempo , e appreffo terminerà la
vita . E che difficultà ci è in ben pi gliar queſte coſe concioſie cofache ſe
ſono ſecondo la naturai , habbile care , e ti 8 a I rega antes cate uck Ente;
ca uelle vant 1 enoi moi ne if färanno facili; ſe ſono contro la natura , cerca
quello , che ſia ſecondo la tua natura , e intorno a queſto ſtudiati , an
corchè ſia ſenza gloria , eſſen đo da vſare indulgenza con chi cerca il proprio
bene . 16. Conſidera donde ciaſcu na coſa è venuta , e di quali fubbietti
ciaſcuna conſiſta , e in quali ſi muti , e mutandoſi quale ſarà , c come non
ſog opere di giacerà a dannoniuno. E pri ma qualabitudine ſia in me verſo di
quelli , eſſendo che ſiamo nati vno a prò dell'al tro ; e ſecondo vn altra
'ragio ne ſon fatto per preſedere a quelli , come ariete al greg : ge , o toro
all'armento . Poida queſto paſſa a raziocinar più alto ', che ſe non è vn
concor fo diatomi, è la natura , che: legi ente car Slicet ndo ed P4 il tutto
regge; e ſe ciò è, l'infe. riori coſe ſono fatte per le mi gliori , e queſte
l'vna per l'altra. Secondo offerua , quali ſie no nella menfa , quali nel
letticciuolo , e in altri luo ghi, ma ſpezialmente quali neceſſità apportino
loro i dog mi , che effi fi ſono profiſſi, e con quanta preſunzione met tino in
opera quegl' ifteffi lo ro decreti. Per terzo . Se quelli retta mente queſte
coſe operano , non è da diſpiacerci; ma fe non rettamente , chiara co fa è ,
che operano per for za , o per ignoranza ; perchè ogni anima dimala ſua voglia
reſta priua come del vero ,co sì di comportarſi con ciaſcu no fecondo la ſua
conucneuo lezza ; e perciò prendono a ma , afe ml 12 fit re 110 cal 105 et FO male
l'eſſer chiamati ingiuſti, ingrati,auari,e al tutto procli ui al peccarecótra
de proſſimi. In quarto luogo . Che tu ancora fai di molti errori , e come yn
aftro di loro pecchi; ſe da alcuni errori ti aſtieni , tuttauia hai l'abito di
com mettergli , quantuinquc per cagione di tinore , o di glo ria , o d'altro
ſimile vizio tu ti rattenghi da si fatti crrori . Per Quinto . Che manco hai
ben penetrato , ſe errano: auuenendo molte volte , che lo fanno
diſpenſatiuamente; c in ſomma è neceffario d'ap prendere molte coſe auanti di
pronunciare aſſeuerante mente delle azionialtrui. Per feſto.Che quando fuor di
miſura tir ti degni,o da im pazienzia fei prcfo ,fouuenga DI H ľ ¿ 2 P 5 tia
346 [ f fi ti , che la vita humana è mo montanea; e che tra poco tut ti ſtaremo
diſteſi . Settimo. Che non ſono l'o perazioni loro ', che ci pertur bano ;
imperocchè eſſe ſono nelle menti di quelli , ma ben sì i noſtri apprendimenti.
Deponili dunque, e conten tati di laſciarne il giudicio , come di coſa a te
graue ; e la collera farà ſùanita . Or bene in qual maniera li deporrò ?
diſcorrendo ;che non té inter. venuto niente di diſdicevo le ; poichè ſe non
foſſe fe nori quel ſolo ', ch'è diſdice uole ,male', néceſſario fareb be, che
tu in molti modi pec cafſi , diuenendo ladro , e af fatro ſcelerato . Qttauo.
Quanto fono coſe più graui quelle , che apport tano C t t C te al more f per le
30 tano per cagionc loro i cor rucci, e languſtie dell'animo, che non ſono le coſe
i, quali ci contriftiamo, c adi riamocon quelli. Che la manſuetudine.è
inuincibile, quando ſia fincera , e non affettata fimulata. Che ti farà vno per
fouerchieuoliſſimo , che cgli fi fia: , ſe tu perfeueri d'eſſere con lui
piaceuolc ? E , ſe così t'auueniffe, placidamente l'aer uertirai ' , e meglio
l'inſegne rai' , attendendo a ciò quieta mente in quell'iſteſſo tempo ni che
colui fi ftudia di fare a re il male , dicendogli tu :: Non figliuolo , noi
ſiamoprodottiat altre coſe . Io non rimarrà l'offeſo , ma tu bon fi ,figliuolo
; e con de ſtrezza e fommariamente gli moſtrerai , che la cofa paf P 6 ſa cosi
. E che ne le api ciò fanno , ne niuno di quegli animali , che per lor natu ra
inſieme ſi congregano E però di biſogno , che ciò ſi faccia lontano dall'irriſione
, o dall'improperio ; ma ami cheuolmente , e ſenza mor dergli l'animo , e non
come nelle ſcuole , ne acciocchè altri, chepreſente ſia , faccia delle
marauiglie , ma a ſolo a ſolo , quantunque alcuni altri vi ficno intorno .
Queſti noue capitoli tiengli a mente , come doni a te fatti dalle Muſe: e yna
volta, men. tre se'in vita , da principio ad eſſer huomo . Però biſogna
guardarſi egualmente , come di non adirarti contro quelli, così di non adularli
; perchè l'vno , e l'altro ſono contro l'hu D. l'humana comunione , e tira no
al danno . Ti ſia in pronto, mentre ti traſporta la collera, che non è da prode
huomo l'adirarſi; ma la placidezza , e la manſuetudine , quanto più fono da
huomo , tanto più hanno del maſchio ; poichè. queſti partecipa più della for
tezza , e della neruoſità, e det vigore , ma non già chi è ſdegnofo , e
diſamoreuole. Perché quanto più queſtoè proprio della tranquillità dell' animo
, altrettanto è ancora del vigore. E come la triſtez za è de deboli , così è la
col lera . Poſciachègli vni , e gli altri ſono feriti, e ſi arrendo no . E ſe ti
piace, dal principe delle muse riccuiancora que ſto Decimo dono: Che è da
furioſo il non volere j , che i cit 350 1 cattiui pecchino , concioffie colache
in ciò fi pretenda l'impoſſibile .Ora il concede re, che verſo gli altri ſieno
tali , e il volere , che contro di te non pecchino", è cofa da : huomo-
ftolido , c.da tiranno. S'ha del continuo da of ſeruare', eſfer principalmente
quattro i moti dell'anima . E quando tu li ſcoprirai , gli hai da ſcancellare;
dicendo fra te ſteſſo ſopra ciaſcuno. Queſta immaginazione non è necef-. ſaria:
Queſto diſcioglie la co -- munanza : Queſto non lo di rai di capo tuo ;perché
il non dirlo da fenno, reputalo tra le coſe ſtrauagantiſſime : II quarto è ,
che tu a te ſteſſo rimprouererai queſto eſſere yn dare per vinta la portione
più diuina , che in te è, e fot to و in te è , bench cometterla alla parte più
i gnobile,e mortale del corpo, e alle ſuematcriali voluttà. Il tuo spiritello e
tutto quello d'igncos che è in te miſchiato ,diſua natura tende 1 in alto' ,
nondimeno per ob bedire all'ordinanza dell'vni uerſo dentro del miſto ficon
tiene . Ancora' , tutto quanto di terreſtre , e d'humido , che tuttauia refta
ſollevato', e ſta non ſecondo il natural ſuo ſito. Così gli elementi ancora
obbediſcono alle cofe vni verfali , quando , douunque fieno traſportati,
reſtano per forza,finchè dinuouo lorven. ga fignificata la facultà di di
fciorli . Dunque non è egli mal fatto che la ſola tua par ce intellettuale ſia
dura all'obbedire, e che ſdegni la ſua re gione ? e pure non ſe le ordi na
niente di violento , ma ſo lo quello , che é ſecondo la natura fua ; tuttauia
non vi s'accomoda, ma corre al con trario . Concioffiecofache on gni commozione
verſo l'in giuſtizie, le lafciuie , i ran cori, c i terrori non è altro che vna
riuolta contro la natura . E quando la mente piglia mal volentieri qualche coſa
di quelle , cheauuengono ,allo ra abbandona il ſuo poſto ; giacchè quella è
fata diſpoſta all'equanimità , e pietà verſo gl’Iddij , non meno , che alla
giuſtizia ; perchè queſte ſono d'yna tal forte , che tendono alla buona
comunanza , e fo no più antiche delle iſtelle opere giuſte. A cui non è ſempre
vno, e'l medeſimo fine della vira , non può eſſer vno, e'l medeſi mo per tutto
il tempo della fua vita .Ma non baſta quefto, che s'è detto , ſe non aggiu gni
à quello , quale dee effere queſto fine. Imperocchè co me non è ſimile l'apprendi
mento di tutte le coſe, che in qualſiuoglia modoalli più pa iono buone, ma di
quelle di vna tal forte , cioè di quelle, che ſon volte al comune, così anco il
fine dee eſſere diretto alla vita comune , e ciuile . Perchè chi a queſto
indirizza - tutti i proprij appetiti, rende rà vniformi tutte le azioni, ed
egli in tal modo farà ſempre il medeſimo. Conſidera il topo nion tagnolo , el
domeſtico , e la 4 Vand S vana paura , e fuga di queſto . Così l'opinioni del
volgo chia. maua Socrate lamie , e spaventacchi de'putti. I Lacedemonij negli
ſpettacoli poneuano i fora ſtieri ne ſedili all'ombra; effi ſedeuano doue a
forte loro toccaua .. 22. Socrate riſpondendo a Perdicca , perchè non andaua da
lui, diſfc ; Acciò io. non periſca di così infame morte ; mentre non po teſſi
corriſpondere alla grazia , che riceueſji. Tra gli ſcrittide gli E feij taua vn
auuertimento y che ſpeſſe volte ſi ricordaſſero di qualcheduno degli anti chi,
i quali haueſſero eſſerci-. tato la virtù. I pitagorici ordinavano, che di
mattino si riguardatſe: ili 8 po fe BE il Cielo ; acciocchè ſempre ci
ricordaſſimo di quelli , che ſempre ſimilmente , e nell'i ſteifa maniera
compiono l'o pere loro e dell'ordine, e del la purità , e difuelamento; im
perocchè niun velo hanno le feller 25 Ti fouuenga quale cra Socrate cinto d'vna
pelle , quando Santippe coperta del la di lui veſte vſcila fuori di caſa ; e'
rammentati quello , che diffé Socrate alli compa. gni, che fi vergognauano , e
ſi ritirauano , quando lo vidde ro in tal'abito : 26 Non far il maeſtro di
fcriuere, e leggere ad altri, in nanzi che ſij ammacſtrato ciò è da oſſeruare
molto più nella vita . Seruo tu Lei peròparlar non dei. Allora io di buon cuo
re me ne riſto Rampognan la virtù con aſpri det ti . 27 E' da pazzo domandar i
fichi l'imerno . Tale è chì quando non è più tempo d'ha: uerne , deſidera yn
figlioli no . Epitteto ammoniua quc gli, che baciaua il figliolino , che
diceſſe tra di fe: domanefor fi morrà . Sono parole di mal augurio coteſte ?
Non è , di ceua cglig parlar di male au gurio vſar parole ſignificanti qualch'
opera conforme alla natura : altrimente il mietere le ſpighe, ſarebbe yn
cattivo augurio , L'vua è prima agre ſto , poi matura , e poi paſla. Ogni coſa
foggiace a mu tarſi , non nel non eſſere , ma in quello , che di preſente non
è. Detto è d'Epitetto , che Ninno è ladro della volonti . Vn arte , diſſe
egli,s'ha da ritro uare d'aggiuſtar gli affenfi , e in materia degli appetiti
biſo gna conſeruare l'attenzione , acciocchè ſieno con eccezio ne , e che
s'indirizzino al be. ne comune, e ſecondo la con ueneuolezza e totalmente
aſtenerſi dall' auide voglie e non iſchifare coſa alcuna , che non ſia in
noſtro arbitrio. Non è dunque , diſſe egli , la conteſa intorno ad vna coſa
ordinaria ; ma intorno all'ef fer pazzo , o ſauio . Diceua Socrate , che anime
volete ha uere, de'ragioncuoli, o degl'ir. ragioncuoli de'ragioneuoli. Di quali
ragioneuoli, de’lani, o de’deprauati ? de'fani . Per chè dunque non le cercate
? perché le habbiamo :dunque a'che contraſtate , e diſcor date ? Fine del Libro
Vndecimo , CO b pa te fa fa PI all ace Vie LI 359 INO cercarei curse dike op. G
là fta in tuo potere di poſſeder tutte quelle coſe , alle quali anſioſamente
bramafti con aggiramenti di peruenire , ſe tu non inuidij a te ſteſſo : cioè a
dire, ſe tu non farai più caſo di tutto il paf fato , e 1 futuro laſcerai alla
pronuidenza,e'l preſente ſolo bu indirizzerai alla ſantità , e alla giuſtizia .
Alla ſantità , acciò tu ami quello , che ti vien deſtinato ; concioffieco C1
facció 0 li fache la natura ha portato quello a te , comc te a quel to . Ma
alla giuſtizia liberamente fuori d'auuilup pamenti tu dica parlando la verità,
c operi ſecondo la leg fi ge , e la conueneuolezza . E non ti ſia d'impedimento
ne l'altrui maluagità , ne l'opi nione , ne le ciarle , ne meno ti il ſenſo
della carnuccia teco connutrita . Però , chi pati- re. ſce , cipenſi . Se tu
dunque tú quando in qualſiuoglia tem po t'approſſimi all’yſcita, ab bandonando
tutte l'altre co ſe , solo stimerai la tua mente, e quello che di divino è in
te; e non temerai il cessar vna volta dal vivere, ma il non haper cominciato
giammai a vivere secondo la natura , ſa rai huomo degno del Mondo, che le TOLE
to mi che wani DI110 ne Oi 70 c0 ti chet ha generato , e nonſarai più
foreſtiere nella patria , e non ti marauiglierai,come di coſe inopinate, di
quelle, che alla giornata auuengono ,'e finiraidi rimaner ſoſpeſo per queſta, o
per quell'altra co fa . 2 Iddio ſcorge tuttelemen. ti diſpogliate de’yaſi
materia li , delle corteccie e lordu re. Poichè con la ſua ſola vir tù
intellettuale attigne quel le coſe , che da eſſo ſcaturi rono , e deriuarono in
queſte eofe materiali . Il che,ſe tu ti auuezzerai di fare , ti liberc rai da
molti ſpafimi. Percioc chè chiriguardo non haalle carnucce chelo circondano,fi
tratterrà forfi a badare al ve ſtito alla caſa , alla gloria, é a fimili
abbigliamentie arredi? Tre ſono le coſe , delle qualitu fe conpofto, 'il cor
picciololo fpiritello, vela mente . Di queſte le prime duefono cue , finche ta
dilo To habbi cora. La terza fo la è propria rerire, tua . Setu fequeſtrerai da
te , cioè dalla tua confiderazione in tutte quelle coſe che alla faccia no , o
dicano , e quelle ,'che Tu hai-detto e fatro , e que te ,'che ,comefe falfero
per auucnire, ti- boiterbhojne quelle ancora cheper lo cort picciuolo , che ti
circondala per Minneſtæto " piritello tohi tro tua vogliati fuccedchos de
quelle, che intenten einer hohen mente con vina contratttváre tiğine ſi
rivolgonoi, fieche; rendendo la potenza santé fertuale efente delle cofejohe fono
inſieme fatali, pura , eili ibera viuerà in fe fteſfa', ope rando : le cofe
" giufte , te rice uendo volentieri gli auueni menti, e proferendo la veri
tà : Se tu ſeparerai, dicdi, da quefta potenzaquefte. cofend elfæaderentiper
graditimpa zia, edaltempo, quelleche hanno da auuenire appreffo.. pilepaffate,
etiformerairale, qualeè la palla sfericadiem pedocle ; Chestutta titanda guide
della-poluere, ch'attornojpelte rigiza, attenderai ſolo alviuere , the gu viui,
cioè al preſente, e po tmisfio alla morte viuendo trapalaretuttoquello che ti
reſta imperturbato gencroſa mente si emanſuetamente, fet condo il tuo genio.
Speffo miſonimarauiglia TO :, come ciaſcuno più di tut Q :2 ti ti ami ſe
ſteſſo; e come non dimeno tenga in minor conto l'opinione propria intorno a ſe
medeſimo , di quella degli altri. Se dunque Dio ſoprau uenendo , o vn macſtro
pru dente , comandi ad alcuno , che nulla dentro dife penfi, o diſcorra , che
ſubito l'ha conceputo, non lo palefi, non lo razterrebbe ne pure per vn giorno.
Cosìpiù temiamo di quello , che i proſſimi giudi cano di noi, che di quello,
che noi medeſimi giudichia mo. : 5 Come farà mai , cheha uendo ordinato il
tutto gl'Id dij bene, e con carità verſo l'huomo , queſto folo habbia no
traſcurato ,che alcuni degli huomini, e molto buonije che colla diuinità hāno
tenuto co me 01 700 011 22 TU 101 olis ha On di me ſpeſſi commercij, e
che ſouentemente per l'opere fan te , e ſacrificij ſi ſono reſi à quella
famigliari, queſti, vna volta morti , non ſi facciano ritornare , ma rimangano
del tutto eſtinti ? Queſto , ſe pu re così ſta , tu hai da ſapere , che fc
altrimente biſognaſſe , che foffe ; l'haurebbero fat to . Concioffiecoſa che ſe
era giuſto , era poſſibile, e ſe era ſecondo la natura , l'haureb be prodotto
la natura . Dal non eſſer così , ſe così non è , tu ti hai da perſuadere non
eſſere ſtato neceſſario , che al trimente fi faceſſe . Imperoc chè tu ſteſſo
t'auuedi , che ciò ricercando , tu entri a con tendere in giudicio con Dio . Ma
noi non diſcorreremmoco sì con gl’Iddij , ſe ottimi , e Q 3 giufillimi non
foſſero . E ſe così è , nicnte ingiuſtamente hanno traſcurato , e irragio
nevolmente negletto nellab Tellimento dell'vniuerſo .. 6 Afſucfatti ancora a
quel le coſe , delle quali non bene ſperi.Imperocchè la mano fi miltia inabile
per non eſſere aylata all'altre coſe , reggeil freno più fortemente , che la
deſtra , e queſto perchè vi s'e ZUL Czzata. Penſa quale biſogna , che tú ti
truoui,e del corpo,e del Panima, ſopraggiunto che fą rai dalla morte : la
breuità della vita , la vaſtità de'ſecoli ayanti , e dopo , la debolez za
d'ogoi materia . Content pla ſpogliate d'ognicorteccia le caufalità , le
relazioni dold' opere ; che fią la fatica , che'l piacere , che la morte ,
chela gloria : chi ſia a ſe ſteſſo cagio ne deltrauaglio , e coine niu nofią
impeditodaaltrise che ognicoſa lia opinione. & Nell'vſo delle tue maffime è
neceffario , che tų fij, limi le non all'accoltellatore , ma al combattente
maneſcamen . te con le pugną. Concioſſie cofache quegli, ſe pone giù la 1pada,
della quale ſi ſerue, re fta vcciſo , ma queſti ſempre ha la mano , nę gli
biſogna nient'altro , che ſerrarla . 9. Di queſta fatta s'hanno a riguardar le
coſe , diuidendo ke in materia , forma , e rela zione Quanto potere hą l'huomo
a non faraltro , faluo quello, che Dio ſia per gradi re , e riceuere tutto
quello , che Dio gli diſtribuiſca , con Q 4 forme all'ordine della natu ra . To
Non s'ha da querelarſi degl'Idij, mentre non ſono , nevolendo, ne non volendo,
ſoggetti ad errori ; ne meno ſono da áccufare gli huomi ni ; perchè non peccano
, fe non contra voglia , Diniuno dunque s'hanno da far querele. Quanto è
ridicolo, e ftra niero chi s'ammira di qualſi uoglia coſa , che nella vita occorre!
Oviè la neceſſità fatale e ordinazione inuiolabile , o prouuidenza piegheuole ,
o confuſione temeraria ſenza gouerno . Se è neceflità iné witabile , a che ti
contraponi? ſe è prouvidenza che ammet tc eſſer piegata , fa degno te ſteffo
del fuſſidio diuino : ſe è confuſione ſenza reggimen to , rallegrati , chein
queſta tempefta tu medeſimo hai in te ſteſſo per gouernatrice qualche mente : e
ſe la tem peſta t'aggira , fia traportata la carnuccia , lo ſpiritello , e
l'altre coſe , ma la mente non farà traportata . Il lume della lucerna , finché
fi ſpenga , 'ri luce sì , e non perde lo ſplen. dore : ma la verità , che è in
te , e la giuſtizia, e la tempe ranza , anticipatamente s'e ſtingueranno? Dove
l'immaginazione concepiſca , che vno ha peca cato , rifletterò donde ho,che
queſto fia peccato , e ſe que gli peccò, ſe fi fia egli reſo reo per quell'atto
? perchè ciò ſa rebbe quali vn lacerarſi il proprio volto. Poſcia rifletti, che
chì non vuole , che'l cattivo, pecchi; è da raſſomigliarſi ad VCO , che voglia
, che l'arbo re de i fichi non produca il lattificio , e i bambini non
piangano, ei cauallinon ani triſching, e altre coſe taliche feguono di
neceſſità . Pero , che coſa ha da fare , hauen do contratto " va cotal mal
abito ? Dunque , ſe ti ſenti da ciò , riſanalo. Se non conuiene , non do fare .
Se non è vero , non lo dire, ma l'appetito dia fox , to dite per conſiderare il
gut to che è quello , che fa im preſſione nella tua immaginas zione , e
diſcutilo , diuidenz dolo nel formale , nel mate , riale nella relazione neltem
po , dentro al quale quello ha da Vis petto ? forſe cupidigia a forfe da
finiie. Riconoſci una vol ta , che in ce è vna coſa più eccellente , e più
diuina di quelle , che te paffioni in te cagionano. E in ſomma,quan te cofefono
,che in qràge in la in guiſa d'un bamboccio con de cordicelle ti abburattano . Che’çoſà
è ora il mio penfie rodforfe timore ? forfe for . cofa alia fimile : 15
Primieramente penfais che niente è a caso e niente, senza relazione .
Secondaria mente chea niun altro fine , che a quello della focictà fi riduc.
Che non molto dopo niūno in niun loco farai, ne pur cofa alcuna fari di tutte
quelle , che orá vedi , ne al cuno di quello che ora : vi -91 I Qo NOuono ;
conciofficcofache tut te le coſe ſono nate per mu tarſi , trasformarſi , e
perire , acciò altre per ſucceſſione ſe guano. Ogni cosa è opinione,e queſta
depende da te . Togli dunque, quando tu vuoi, l’opinione; e , come chi volge al
ridoſſo d'vn promontorio trouerai ferenità ferma di tutte le coſe , e vn ſeno
tran quillo . : -18 Vna , e qualſiuoglia fi fia operazione che a ſuo tem po finiſce
, nonpariſce danno niuno , perchè finì ; ne l'ope rator di quella , per hauer
finito, patiſce mal alcuno . In ſimil modo dunque il ſiſte ma, o fabbrica
ditutte l'ope razioni, che è la vita , ſe in qualche tempo finiſce , non rice
etut or me erine Quel one, Togh oila ageal torio ma Stra / di riceue alcun
danno , percioca chè fini; ne quegli , che in tal tempo terminò queſta ſerie ,
fu malamente trattato . Il tempo , e'l termine fono dále la natura conſtituiti
, talvolta dalla propria ,come nella vec chiaia; ma generalmente dal
I'vniuerſale , le cui parti con tinuamente mutandoſi , reſta tutto il Mondo
ſempre nouel . lo , e vigoroſo . Tutto ciò del continuo è buono , e oppor tuno
, che all'yniuerfo.confe riſce . Dunque il finir del vi uere a chiunque tocchi
, non è coſa cattiua , perchè non è vergognofa , come non de pende dal noſtro
volere , ne contraria al comun bene del l'yniuerſo . Anzi è buono quando è
opportuno , e con ferente all' vniucrſo , e con quel elial tem dan l'ope verf
olfille 12 l'ope ſe i non . lo 1 quello è inheme portato Concioffiecofache è
portato da Dio quegli , che fi perta vnitamente con Dio , e a quel le ifteffe
cofe collintendimen to fi conduce. ! 19. Queſte tre coſe hanno da cflere fempre
in pronto.. Primieramente in ciò , che tu fai, non fia niente inuano , ne
altrimente fi facciay.che felis fefla giuſtizia haveſſe,opera to : ma nelle
cofe , che anlı uengono di fuori , mentre quelle o fono procedurea ca fo , o
fecondo la prouuidenza non s ' ha da querelarſidel ca fe , ne accufare la
prouuiden za Secondariamente qual cofa faccia ciafcuro dal non effene , fino
all'animazione , e dall'animazione , fino al ren dimento dell'anima, e da qua.
li coſe da fatto l'adunamento, e in quali il diſcioglimentos Terzo come ſe
ſoprad'yu’ers minenza follcuato tu rimiral G le coſe humane', e dopo ha. ụer
compreſa, la lor gran va rietà inſiemeconoſcelli quan to ci ſia dell'abitato, e
nel l'acre , e nell'etera , e çoine quante volte cu foffi cosi fol leuato ,
vedreſti le medeſime, l'iſteſſa ſpecie, la breue dura ta . Ed in queſte éla
noſtra ſu perbia , 29. Gitta fuori l' opinio ne, ſarai ſaluo. Chi dunque
e’impediſce il gittarla. Quando perqualche co ſa ti prendi diſguſto,ti ſe (cor
dat , che ogni coſa li fa', le condo la natura yniuerſale , che quel peccato è
d'altri. E oltre queſto , che tutto ciò , che pure , che ſi fa,cosìſempre's'è
fatto, e li farà, e di preſente ſi fa per tutto: ancora , quanta è la co
gnazione dell'huomo con l'o niuerſo human genere ; per chè non è la comunione
del fanguccio, ò della poca ſe menza ; ma della mente . Ti fcordaſti che la
mente di ciaſcheduno è Dio , e che da lui ſcaturì, non eſſendoui coſa alcuna
propria di niuno , anzi il figliolino, e'l corpic ciuolo , e l'iſteſſo
ſpiritello in di vennero . E ancora ti ſcor daſti, che ogni coſa è opinio ne, e
parimente, che ciaſche duno il preſente ſolo viue, e che queſto ſolo ſi-perde.
Del continuo riuolgi nell'animo quelli , che per qualche coſa li corrucciarono,
e quelli, che in grandiſſime glorie , o calamità , o inimicia zie , o in alcuni
altri auueni menti li ſegnalarono . Dopo medita , doue fono al preſente tut te
queſte coſe?in fummosin cenc re, c fauole, e ne meno favole . Tiſouuenga di
tutto queſto', cioè, come furono Fabio Catullino in Villa, e Lucio Lupo, e
Stertinio a Baia, e Tiberio a Caprise à Velia Rutfo ; e in ſomma di chi ha
fatto con l'apprenſione gran caſo di qualunque ſia cofa : ecome ſia di vil
prezzo turto , che in tentamente appreſe , e finala mente quanto più foffe da
Fi loſofo nella materia toccata gli, portarſi da giuſto , e da fa uio e da
ossequioso schietta mente agl'iddii. Imperocchè la superbia, che sotto velo di
umiltà si nasconde è la più l’intolerabile daograbra. Agudligiche dimanda
nosperchè vonsrigť Iddij acat me turgli habbi vechutia e dom de tu habbi
appreso, che vi freno Primieramente risponde, che sono visibili agl’occhi, e
poi a benchè io, non abbia veduta la mia anima, tuttavia l'onoro. Così dunque è
degl'iddii, la potenza de’ quali mentre ogni giorno io pruqyosda questo
comprendo, che ci sono, e gli venero. La salvezza della vita consiste, che ciascuno
riguar di che cosa sia il tutto, il materiale, il formal, che con tutto l'animo
FACCIA IL GIUSTO, DICA IL VERO. Che resta
altro, che goder della vita , aggiugnendo un ben fatto all'altro, sicche ne pur
si perda un brevissimo spazio di tempo? Il lume del Sole, è uno a benchè venga
interrotto dal: o e pareti, dai monti , e da altre mille cose. Una è la
sostanzia comune, ancorchè ſia di partita tra migliaia di corpi, qualificati
dalle loro proprietà. Una è l'anima con tutto che si distribuisca a mille e
mille nature con ſsngolari circonscrizioni. Una è l'anima all'intelligente, se
bene apparisce, che si divida. L'altre parti dunque delle cose dette: s, com!
me gli spiriti, ei subbietti; so no senza senso, ne famigliarmente si uniscono
insieme. Questi nondimeno contiene LA MENTE UNIVERSALE e poi la propensione,
che al congiugnere gli spinse. Ma l'intelletto propriamente propende
all'istesso suo genere, è s’unisce, ne fi può fradicare l'affetto al ben
comune. Che cerchi? Di campare? o'pur di sentire, d’appetire, di crescere, e
poscia diterminare? Di valersi della voce di DISCORRERE con la mente? Qual cosa
di queste ti pare degna d'essere desiderata Male que ste una ad una non sono da
frezzare, portati alla conclusione d'ossequiare la ragione e gl’iddei. Ma li fa
contro alla stima di queste cotrammaricar si di rimaner perla morte privo
d'alcune di queste. Quanta parte dell'immensa e infinita durata a cia. founo é
compartita? Poichè ben prestissimo si dilegua nell' eternità. Quanta parte di
tutta la sostanzia? Quanta parte di tutta l'anima? In quanta zolletta di tutta
la terra ferpendo tu vai? A tutte coteste cose applicando l'animo, non
t'immaginare niente di grande o questo solo se tu operi come la tua natura ti
conduce, e soffri come la natura universale portage comeliva. le di se stessa
la parte tua reggitrice; polciachè in cio il tutto consiste. Tutte le altre
cose, o sieno nel tuo arbitrib. no fuori di quello. Sono cadaveri, e fummo:
om.svisli! Efficacissimo è il rifletterre, per eccitarci al disprezzo della
morte, che quelli ancora, che stimano essere il bene nella voluttà, e'l male
nel dolore, nondimeno quella disprezzarono. A chi quel so. Lo che è opportuno è
bene je a chì tanto è l'aver molte azioni fatte. Secondo la ragione retta,
quanto poche. Ie a chì non iinporta contemplare il mondo in maggiore, o minor
spazio di tempo, nemanco la morte è terribile. O huomo sosti cittadino in que
sta gran città che ti fa te per cinque anni mentre quello. Che è conforme alle
leggi ad ognuno è dellistesso peso. Perchè dunque ti ègraine, se dalla città ti
manda via non il tiranno, o un ingiusto giudice, ma da natura, che vi
t'introdulfezlic come dalla see, na licenzialse vas comico il capo della truppai
che l'han keva, condotto. Però tu dii, non vappresentaii i cinque atti, ma solo
tre. Tu dibeneze a proposito mentre che nella vita anche tre atti compiono
tutto il drama. Conciossieco fache quegli impone il termine, dove abbia da
finire, che allora ordina l'adunamento, cora fa lo scioglimento, nel li quali
tu non ci hai avuto parte. Vattene dunque placido. Poichè quegli che ti
licenzia, è placido. Dal mio avolo, Vero, la gentilezza del costume, e il non
adirarmi. Dalla fama e dalla memoria del mio genitore, l’esser verecondo
e maschio. Dalla madre, l’esser pio, il donar volentieri, l’astenermi non
solo dal fare il male ma anche dal venirne in pensiero. [Ancora,
l’esser Sottintendi, come nei paragrafi seguenti, il verbo ‘imparai’,
ovvero ‘riconosco’, nel senso di iono riconoscente ili aver ricevuto
chessia, cosa, o esempio di qualsivoglia cosa o virtù), o altra
espressione che riempia acconciamente le ellissi. ‘Maschio’: intendi
forte costante, non molle ed effeminate], frugale nel vitto e alienissimo dall’usanze
dei ricchi. Dal mio bisavolo il non essere andato alle pubbliche
scuole, l’avere avuto di buoni maestri per casa e il conoscere che
in siffatte cose non si vuol guardare alla spesa. Dal mio aio: il
non essere stato nè di parte prasina nè di parte veneta, nè parmulario, nè
scuta- [Il bisavolo paterno di Antonino e Aunio Vero. Il bisavolo
materno e Catilio Severo. Non è chiaro di quale dei due si parli nel
testo. Intendi: la scola elementare. Poiché ognun sa che Antonino frequenta assiduamente
come ‘scolaro’ le varie ‘scuole’ dei fìlosofi a Roma. Non si conosce il nome
dell’aio] [elio morendo lascia grande desiderio di sè in Antonino. Sono i
colori che distingueno i due grandi partiti degli aunghi del circo,
che non sono piccola parte nella storia delle follie dell’impero.
Nunc favent panno, pannum amant,’ disse energicamente Plinio il giovane,
IX, 6. Lucio Vero, collega d’Antonino, la pensava altrimenti, secondo le
parole di Capitolino. Rio]. Il reggere alla fatica, l’aver bisogno di poco, il
saper fare da me, il non intromettermi nelle faccende altrui e il non
porger facilmente orecchio ai delatori. Da Diogneto imparai il non
occuparmi d’inezie, il non dar fede a ciò che i magi e i
fattucchieri dicono intorno alle malie, allo scongiurare gli spiriti e
altre cose di tal fatta, il non avere atteso a nutrir quaglie nè essermi
dilettato di simili cose, il patire ehe altri mi parli francamente.
[Parmularius e il gladiatore armato di un piccolo scudo di cuoio
detto ‘parma’ o parmula, e ‘scutarius’ quegli che porta lo ‘scutum’, grande
e lungo. Questo Diogneto era non solamente filosofo, ma anche pittore, secondo
Capitolino, ed avea dato intorno a quest' arte alcune lezioni ad
Antonino. Si allude ad un giuoco dei romani aveano prego dai greci,. Si
faceano combattere fra loro questi uccelli, o dai casi del combattimento
si traevano presage]. L’ESSERMI DATO ALLA FILOSOFIA. L’avere udito
primieramente Bacchio, poi Tandaride e Marciano. L’avere scritto dialoghi da
ragazzo. L’ avere voluto il lettuccio con la pelle sopravi e le altre cose
che vanno appresso nella educazione greca. Da Rustico: l’esser venuto
in pensiero che i miei costumi avean bisogno di correzione e di
coltura. Il non essermi sviato dietro ad un’ambizione di sofista, o
scrivendo su materie speculative, o declamando orazioncelle esortatorie, o
facendo, per dar nell’occhio altrui, 1’uomo austero e benefico e l’avere
abbandonato la rettorica e la poetica e il bel favellare, e il non
passeggiare togato per casa e altre tali cose e lo scriver le lettere
semplicemente [Era uno stoico come quell’altro romano fatto uccidere da
Domiziano per aver lodato Trasea Peto] e naturalmente, come quella
ch’egli scrisse da la citta di Sinuessa a mia madre, e il non serbar
rancore verso le persone che si son, meco adirate e m’ hanno offeso e
rappacificarmi volentieri con loro tosto eh’ elle si voglion ricredere, e e il
leggere con attenzione e non contentarmi di capire così air ingrosso, nè
assentire troppo di leggieri a quel che i circostanti dicono, e lo
avere avuto contezza dei ‘Ricordi’ d’Epitteto che Rustico mi dona di
suo proprio moto. Da Apollonio: la libertà dell’animo e la fermezza nel
proposito senza dar mai nulla al caso, il non guardare ad altro mai,
nè anche per poco, che alla ragione, l’esser sempre uguale, nei sommi
dolori, nella perdita del figlio, nelle lunghe malattie, l’aver veduto ad
evidenza nel vivo esempio di lui siccome può la stessa persona essere
gagliardissima ad un’ ora e rimessa e il non impazientarsi nello spiegare
e l’aver conosciuto un uomo che manifestamente tene pel minimo de’ suoi pregi
la pratica e la facilità ch’egli ha del comunicare altrui la scienza, e l’avere
imparato come convenga liceverc fivelli che il volgo chiama benefizi dagli
amici, senza diventai, e loro divoto per ciò nè per altra parte,
lasciando correre la ('osa senza saperne grado. Da Sesto:
l’amorevolezza e l’esempio del governare da buon padre una casa e il
concetto di vivere “secondo natura” e la gravità non affettata, e l’indagare
con sollecitudine quello di die gli amici hanno uopo, e il sopportare
gl’ignoranti e il sapersi adattare a Nello spiegare. [Intendi: nel dare
altrui tutte le spiegazioni di die possa aver d’nopo per ben capire
le cose]. [Intendi: senza diventar loro obbligato in modo che nìccia alla
Ina libertà] tutti per modo ch’il CONVERSARE
con esso lui era più dolce cosa che l’adulare di chicchessia ed e egli nondimeno
in quello stesso punto ed appo quelle stesse persone in venerazione
grandissima, e la chiarezza di mente e la sagacità con cui trovava ed ordinava
le verità filosofiche necessarie alla vita, e il non aver dato mai
indizio di collera nè d’altra passione, ma essere stato ad un’ ora il più
impassibile uomo ed il più tenero, e il dir volentieri liene d’altrui,
senza menar remore per ciò, e la molta dottrina senza che
paresse. Da Alessandro: il non isgridare e il non riprendere ingiuriosamente
chi faccia un barbarismo o un solecismo o un cattivo accozzamento di
suoni, parlando; ma profferire destramente ciò che quegl’avrebbe dovuto
dire, per modo di risposta, o di conferma, o come volendo esaminar
con esso la cosa, non già la parola, o per qualsivoglia *altro modo
di suggerimento indiretto* [IMPLICATURA], garbatamente. Da Frontone:
quanta invidia, quanta malizia, quanta simulazione, sia nella tirannide. E
siccome questi da noi chiamati ‘patrizi’ son cattivi padri anzi che
no. Da Alessandro, il platonico: il non dir sovente nè senza necessità a
nessuno, nè scriver per lettera, ch’io sono occupato, nè contrarre r abito di
disimpegnarmi in tal modo dei doveri verso le persone con le quali
io vivo, allegando per iscusa le faccende. Da Catulo: il non tener
poco conto delle doglianze di un amico, quand’ anche si dolga fuor di
ragione. [Secondo Filostrato e un segretario di Antonino]. [Cinna Catulo,
filosofo stoico, menzionato da Capitolino] ma anzi sforzarmi di ricondurlo
alle maniere di prima, e il parlar bene e volonterosamente dei
maestri, come si narra di Domizio e di Atenodoto, e l’amar i figli con vero
affetto. Dal mio fratello, Severo, l’affezione ai dimestici, l’amor
del vero e del giusto, l’avere, per mezzo di lui, avuto contezza di
Trasea, d’Elvidio, di Catone Uticense, di Dione, di Marco Bruto, ed essere
venuto in pensiero di un reggimento civile dove la legge sia una per tutti
e pari i [Neppure l’eruditissimo e diligentissimo Qataker potè
chiarire chi fosse questo Severo che Antonino chiama fratello. A tutto quello
che ci è dimestico] [Una delle più illustri vittime della crudeltà di Nerone] [Genero
di Trasea, esiliato da Nerone]. [L'illustre stoico Catone Uticense] [L' amico
di Platone, l’avversario di Dionigi tiranno di Siracusa, la cui vita fu scritta
da Plutarco] [Marco Bruto, la cui vita fu pure scritta da Plutarco] diritti
di ciascheduno, e di un governo regio che sovra ad ogni altra cosa tenga
conto della libertà dei governati. Ancora quel suo tenor costante ed
uniforme nel culto della filosofia e la beneficenza e il far parte
altrui volentieri e senza rispar- mio delle proprie sostanze; e lo sperar
bene; e l’aver fede nell’amicizia degli amici e quel suo non infìngersi con le
persone quando disapprova alcuna cosa in loro; e il non aver mai avuto
bisogno gl’amici di lui di andare indovinando che cosa egli volesse o non
volesse, sendo l’animo di lui sempre aperto. Da Claudio Màssimo: il
contener sè medesimo, e non lasciarsi andare in nulla malgrado suo,
l’esser di buon animo nelle malattie e negli altri casi avversi e
quella temperatezza di costume, soave ad un tempo e [Clandio
Massimo filosofo stoico] dignitoso e l’eseguir prontamente senza
querimonia qualunque cosa gli accadesse di dover fare e la credenza che
tutti avevano di lui, ch’egli pensas tutto che dicee fa a lìn di
bene tutto che fa; e il non istupir di nulla, non isgomentarsi di nulla,
non esser mai nè frettoloso nò tardo, nè imbarazzato, nè sfiduciato, nè
infingardo, nè ripentito del consiglio preso, nè sospettoso e il
beneficare e il perdonar volentieri, e l’esser veritiero e il parer piuttosto
uomo per natura incontaminato che non per arte emendato e siccome nessuno fu
mai che o si credesse dispregiato da lui, o ardisse riputar sè
migliore di lui; e quel suo piacevoleggiare a proposito. Da mio padre
adottivo: l’imperatore Antonino Pio]: l’esser bonario, e irremovibilmente fermo
nondimeno nei partiti pi'esi dopo accurata disamina, il non trar vanità
da quelli che il volgo chiama onori, l’amore al lavoro e l’assiduita;
il dare ascolto a chiunque avesse da proporre qualche cosa di utile
al comune; il non lasciare che nessuna considerazione lo distornasse
dal retribuire a ciascuno secondo il merito, il conoscere dove bisognasse esser
rigido e dove indulgente, L’AVER POSTO FINE AGL’AMORI DE’ RAGAZZI e il
sentire modestamente di sè e volere stare ad uno stesso ragguaglio con
gl’altri, il permettere agli amici di non cenar punto con lui, e di non
accompagnarlo nei viaggi, e lo accoglier con gli stessi modi di prima chi
per qualche sua bisogna non lo avea potuto seguire; e la diligenza e la
persistenza con che esamina le cose nei consigli, non come
quell’altro di cui è stato detto che tòsto lascia la deliberazione
contentandosi dei primi pensieri che gli furon venuti, e il conservar gli
amici, non recandosi a fastidio nessuno, nè incapricciandosi di nessuno; e il
sopperire a sè stesso, sempre; e la serenità del volto; e l’antivederei
da lontano e pral ovvedere senza scliifiltà anche alle rnenome cose e
l’aver dato bando alle acclamazioni e alle adulazioni d’ogni genere e
il tenere allestito sempre quanto era necessario per le occorrenze
dello stato, moderando le spese e sopportando di buon animo la taccia
che alcuni gli davano per ciò, e l’essere alieno e dalla superstizione
verso gli dei e dalla piagenteria verso gli uomini, non curandosi di acquistar
grazia appo il popolo o con le larghezze, o con le1 Luogo intricato. Nota
due modi condannevoli e vani: di acquistar grazia appo gli Dei, con
pratiche superstiziose; appo gli nomini, con l’andar loro a genio e
secondarli anche a costo del dovere lusinglie, o con lo imitare i
modi di quello] ma sobrio in ogni cosa e saldo, e non mai altro che
dilicato e gentile e osservatore della convenienza e del costume
stabilito, 0 il servirsi seifza boria e senza scrupolo di tutte quelle cose che
conferiscono agli agi della vita, delle quali la fortuna è larga a’ suoi
pari, per modo che delle presenti ei si giova senza farne casa e le
assenti non desidera; e siccome nessuno avria mai detto di lui
ch’egli fosse un sofista o un dileggino o un pedante, ma sibbene un uom
maturo, perfetto, nemico dell’adulazione, capace a governar sè medesimo
ed altri. Eri inoltre quel suo onorare i filosofi veri e non fare
scherno de’ falsi, non lasciandosi nulla dimeno facilmente ingannare da
loro e il conversare sciolto, e quella
sua grazia Come tanti imperatori die It) avevano preceduto. che non
ristuccava; e il tener cura del proprio corpo, non tanta da parer tenero
deliavita, o damerino, nè tanto poca da parere trascurato, ma quanta
basta per non avere quasi punto bisogno di medicine o simili cose. E sovratutto
quel suo cedere senza invidia a chi avesse acquistato abilità in qualche
cosa, come nell’eloquenza o nella conoscenza delle leggi e
dei costumi de’ popoli, e altro di cotal fatta e lo adoprarsi insieme
con essi perchè ottenessero fama, ciascuno nell’arte in che
primeggia e quel suo fare ogni cosa secondo gl’institnti d’ maggiori,
senza dare a divedere che avesse nessuno intento particolare, nè anche quello
di volere conservare essi institnti. Ancora il non esser nè randagio
nè avventato, ma continuar volentieri a star nel medesimo luogo e ad
occuparsi delle medesime cose; e dopo passati gli accessi del dolor
di capo, ritornar iU^teu Aurelio. fresco e vigoroso ai lavori
solidi; e il non aver di molti segreti, ma anzi pochissimi, e di
rado, e solamente nelle cose di stato; e la prudenza e la misuratezza
nel dare spettacoli, nell’ intraprendere opere pubbliche, nel far
distribuzioni ai soldati, e simili cose; siccome uomo che riguardava a
quello che conveniva fare, e non alla fama che gli sarebbe venuta dalle cose
fatte. Non al bagno fuor d’ora, non la smania del fabbricare, non
ricercatezza nel cibo o nella tessitura de’ panni o tintura, o
nell’appariscenza de’ servi. La toga dalla villa inferiore e da quelle di
Lanuvio il più sovente; i modi che tenne col pubblicano in Tusculo,
che supplica; e altre sue simili maniere. Nulla di men che umano,
nulla d’ immisericorde, nulla di violento, nè, come direbbe taluno,
siìw al su- dove; tutte le cose di lui, pensate, distintamente
avvertite, con pacatezza, con ordine, con vigore, e d’accordo le une con le
altre, come se le avesse premeditate per ozio. Ed a lui si potrebbe
applicare ciò che VIEN DETTO DI SOCRATE, che egli poteva e astenersi e
godere colà dove a gran parte degli uomini manca la forza per 1’uno e
la temperanza per l’altro. E il saper reggere con fortezza e con sobrietà
ad ambedue non appartiene se non a colui che ha l’animo sano ed invitto,
quale egli il dimostrò nella malattia di Massimo. Dagli dei: l’avere avuto
buoni avoli, buoni genitori, buona sorella, buoni maestri,
domestici, congiunti, amici, tutti, a un dipresso, buoni. E il non
avere offeso mai nessun di loro, benché talmente disposto di 1 Claudio
Massimo menzionato] natura, che io l’avrei fatto forse, ove fosse venuto
il caso: ma per bontà degli dei non incontra mai tal concorso di
cose che mi ponesse a repentaglio. Il non essere statò più lungamente
allevato appresso la concubina del mio avolo; l’avere serbato nel fior
degli anni la purezza del costume e non aver dato saggio di età virile
prima del tempo, anzi avere soprastato anche più in là, l’essere stato
sottoposto ad un principe e padre il quale doveva sgombrar da me ogni
sorta di boria e farmica pace come egli si può vivere in corte e non aver
bisogno nè di guardie nè di vesti screziate nè di fiaccole nè di statue,
come s’usa, nè d’altre simili pompe; ma anzi, che egli v’ha un modo
di ristrignersi quasi alla ondizione di private e non perder nulla
però nè della dignità nè del nerbo necessario al trattar le cose dello
stato, l’essermi tocco in sorte il fratello ch’io ho il quale se è
d’incitamento a me co’ suoi costumi, ad invigilare sui miei, mi
consola nondimeno e mi rallegra con la riverenza e con l’amore ch’egli
mi porta, l’avere avuto figli nè ottusi d’ ingegno nè contraffatti
di corpo, il non aver fatto maggiori progressi nella rettorica nè nella
poetica nè nelle altre arti, dove sarei forse rimasto allacciato s’ io mi
fossi accorto ch’io vi riusciva, l’eessermi sbrigato di costituire in dignità i
miei educatori, come parve a me ch’essi
bramassero e non avere indugiato con la speranza del potere far
cotesto di poi, sendo essi ancor giovani, l’avere conosciuto Apollonio,
Rustico, Massimo. Lo aver concepito chiaramente e più volte qual sia la
vita [Lucio Vero fratello per adozione, uomo in vero viziosissimo,
più assai, probabilmente, che non fosse noto ad Antonino; ma devotissimo e
affezionatissimo a Ini] secondo natura: s'i che per gli dei non manca, nè
per aiuti e suggerimenti ed ispirazioni loro, ch’io non vivessi a quel
modo; manca bensì por me, il quale non osservai gli avvisi e, sto
per dire, gli insegnamenti che essi mi dano, l’aver potuto reggere della
persona durante cotanto tempo in cotal vita. Il non aver avuto a
fare ne con Benedetta nè con TEODOTO e che di poi, CADUTO novamente nella
PASSION D’AMORE passion d’amore, io abbia potuto guarirne. Che, essendomi
adirato più volte con Rustico, io non abbia fatto nulla di che
avessi poi a pentirmi; che, dovendo mia madre morir giovane, abbia
nondimeno vissuto con me gli ultimi suoi anni; e che, ogni volta eh
io volli soccorrere alcuno, o povero o altrimenti bisognoso, non mi
fu mai detto ch’io non avessi danari per farlo e il non essermi
trovato mai io medesimo in simigliante occorrenza, da dovere aver ricorso
ad altri, l’avere la moglie ch’io ho, così docile, così amorevole, così
alla buona; il non essermi mancato acconci educatori pe’ miei figli, l’essermi
stati dati rimedi in sogno, e, fra gli altri, contro lo sputo di sangue e
contro le vertigini, e il non essere caduto nelle mani di un qualche sofista,
quando io venni in desiderio della filosofia, nè essermi posto a far lo
scrittore, o a risolver sillogismi, o a speculare sui fenomeni del cielo.
Le quali cose tutte richiedono l’aiuta degli dei e della fortuna.
Fra i Quadi, ulle sponde del Or amia. A FauRtiiia non dovè esser
diffìcile il celare coir astuzia o colla fìnta tenerezza! [Suoi
pessimi portamenti ad un nomo di sì poco sospettosa natura qual era
Antonino, massime verso dii mostravagli affeziono]. Al mattino, fa’ che tu
dica a te stesso. Avrò da fare con un curioso, con un ingrato, con un
soperchiatore, con un furbo, con un invidioso, con un insociale. Tutti
questi difetti han per causa la ignoranza dei beni e dei mali. Ma
io, il quale conosco la natura del bene, e so ch’egli è l’onesto; e
quella del male, e so cb’egli è l’inonesto; e quella di lui
medesimo che pecca, e so ch’egli è mio congiunto; non perch’egli
sia d’ uno stesso sangue o d’uno stesso seme con me, ma perchè
partecipa «r una stessa mente e d’ una stessa origine divina. Io
non posso ricever danno da nessun di loro. Giacché nessuno mi farà
incappar mai nell’inonesto malgrado mio; nè adirarmi posso col mio congiunto,
nè diventargli inimico; perchè NOI SIAM NATI PER COOPERARE L’UN COLL’ALTRO, siccome
i piedi, siccome le mani, siccome le palpebre, siccome i denti di sopra e
i denti di sotto. E però l’andare a ritroso l’ un dell’altro è cosa contro
natura, ed è uno andare a ritroso lo adirarsi l’un coll’altro
e l’aversi in dispetto. Questo checchessia, che io mi sono, è un
composto di carni, di fiato, e della parte sovrana. Lascia stare i
libri; non travagliartene più; non ne hai più il tempo. Ma, come quegli
che sei presso a morire, metti le carni in non cale; elle non sono
altro che sangue, ossicini, e una rezza, per così dire, di nervi, di vene
[La parte sovrana, cioè la ragione o la mente e d’arterie. Vedi anche il
fiato che cos’è: imvento; e non sempre il medesimo, ma di continuo
rigettato e rinnovellato. Rimane la parte sovrana. A questa hai da
badare. Tu sei vecchio. Non lasciare che ella serva più oltre. Non
lasciare che ella sia tirata più oltre, quasi fantoccino, da
appetizioni insociali; non lasciare che ella contraddica più oltre al destino,
0 crucciandosi delle cose presenti o respignendo da sè le cose
avvenire. Le opere degli dei sono ripiene di provvidenza. Le opere
della fortuna non sono infuori della natura, cioè di quella
coordinazione e connessione di cause cui la provvidenza governa. Tutto
scaturisce di là. Aggiugni che quanto è, di necessità è, ed è utile all’ universo
di che tu sei parte. Ora, ad ogni parte della natura è buono ciò che porta
la natura comune e che è sostentativo di quella. E sostentano il mondo,
siccome le mutazioni degli elementi, cosi ancora le mutazioni dei
composti di essi elementi. Queste cose ti bastino, queste sieno sempre
mai le tue ferme credenze. E caccia via quella tua sete di libri,
affinchè tu non muoia morando, ma sereno e ringraziando gli dei
sinceramente e di cuore. Ricordati da quanto tempo tu vai differendo
queste cose, e quante volte, avendo ricevuto opportunità dagli dei,
non te ne sei valuto. E convien pure che tu riconosca una volta di
qual mondo fai parte e da quale reggitor del mondo sei emanato; e siccome
un tempo ti è prefìsso, del quale se tu non fai uso per acquistare la
tranquillità dell’ animo, egli passerà, e tu passerai, e non sarà
più. per ritornare. Sii sempre INTENTO AD OPERAR GAGLIARDAMENTE DA ROMANO
E DA MASCHIO QUAL SEI, quel che hai por le mani, con serietà diligente e
non punto affettata, con amorevolezza, con libertà, con integrità; e
sgom-bra l’animo tuo da ogni altra cui*a. Lo sgombrerai, se farai ciascuna
tua azione come se fosse l’ultima della tua vita, scevra affatto di
leggerezza, e di avversione appassionata ai consigli della ragione, e di
doppiezza, e di amor proprio, e di scontentezza per le cose
condestinate ab eterno con te. Vedi quanto poco ci vuole perchè altri
possa vivere una vita avventurosa e accetta agli dei! Chè di fatti
gli dei non richiederanno nulla più da chi osserva cotesto. Disonorati
su, disonorati, o anima; d’onorarti poi, non ti rimarrà più tempo. Perchè
tanto di bene ha ciascheduno, quanto la sua vita glie ne arreca; e
tu hai pressoché consumato la tua, non già rispettando. Con/’ala/ia, disse
CICERONE usando anch’egli una voce ignota sinallora ai latini. 2t)
te medesima, ma riponendo nelle anime altrui la tua felicità. Se’
tu svagato dalle impressioni del di fuori? Concedi agio a te stesso
di imparare alcun che di buono, o cessa dall’errare qua e là. Ornai
anche hai da guardarti da un secondo svagamento. Perchè vaneggiano anche
con le azioni gli uomini stanchi della vita e non aventi uno scopo a
cui dirigano ogni loro sforzo ed ogni lor pensiero qualunque. Per non
avere avvertito ciò che succede nell’anima d’un altro, di rado
l’uomo fu mai veduto infelice, ma chi non avverte i moti dell’ anima
propria, è infelice di necessità. Queste ione conviene avere a mente
sempre. Quale è la natura dell’universo e quale la mia. Qual relazione ha
questa con quella. Qual parte è del tutto e di qual tutto. E come
nessuno può impedirti dal far sempre E DIRE ciò che è consentaneo alla
natura di che sei parte. Filosoficamente Teofrasto, nel paragone
ch’ei fa dei peccati, secondo che volgarmente si suole, afferrna esser
più gravi le colpe che si commettono PER CONCUPISCENZA che non quelle che si commettono PER
IRA. Imperocché non senza un certo dolore e raggricchiamento segreto
deir animo mostra l’uomo adirato ch’egli si torca dalla ragione; laddove
CHI PECCA PER CONCUSPISCENZA, VINTO DAL PIACERE, sembra, in un certo modo, più
intemperante e più EFFEMINTATO nel fallo. Rettamente adunque e con molta
filosofia dice egl’essere maggiore la colpa di chi PECCA CON PIACERE che non di
chi pecca con dolore. Ed infine,’ uno rassomiglia piuttosto a
persona ingiustamente [volgarmeutu: detto por opposiziono al dettato
stoico, essere i peccati uguali. olTesa, che il dolore abbia sforzato a
sdegnarsi. Ma l’altro si muove spontaneo e da per sè all’ingiustizia, recandosi
PER CONCUPISCENZA a far
checchessia. Convien pensare ed operare ogni cosa come se tu dovessi
uscir di vita in quell’ ora. Uscir di vita, se ci sono gli Dei, non è
punto cosa tremenda. Da che non è possibile ch’essi ti vogliano fare
incappar nel male e se non ci sono, o se non curano le cose umane, a
che vivere in un mondo orbo di provvidenza e d’Iddei? Ma e ci sono
gl’iddei, e si piglian cura dell’uomo; e perch’egli non inciampasse
nei mali veri, posero in arbitrio di lui la cosa; dei rimanenti se alcun
fosse male, a quello ancora avrian provveduto, sì che potesse
ognuno guardarsene. Ma quello che non fa peggiore l’uomo, come farebbe
peggiore la vita dell’uomo? Oltre che la natura dell’ universo non saria stata
mai trascurata A TAL SEGNO non, perdi ella non sapesse; non, perchè
sapendo non potesse); non saria mai, dico, nè per impotenza nè per
disavvedutezza incorsa in tanto errore da lasciare che i beni e i mali
toccassero del pari e senza differenza nessuna ai buoni ed ai
tristi. E pur noi veggiamo che la morte e la vita, la gloria e l’infamia,
il dolore e il piacere, le ricchezze o la povertà, cose tutte che non sono
nè oneste nè inoneste, toccano senza differenza ai tristi ed ai buoni.
Adunque, nè benf olle sono nè mali. Come tosto svanisce e va a
per- dersi ogni cosa, nel vortice del mon- do i corpi, e nello
avvicendarsi del tempo la memoria di quelli! quali sono tutte le
cose sensibili, e mas- simamente quelle clic adescano col piacere o
atterriscono col dolore o sono dalla vanità degli uomini celebrate!
quanto son vili, dispregevoli, sucide, corrottibili, morte! questo
è . da considerare per una facoltà intel- lettiva: che cosa son
coloro le opi- nioni dei quali e le voci distribui- scono la fama ;
che cosa è il morire ; e siccome, chi lo considera solo da per sè,
separandolo con la mente da tutto ciò che la fantasia v’ ha aggiunto, non
se ne fa più concetto se non come di operazione della natura : ora
il temere un’ operazione della na- tura è cosa da fanciullo. E
questa non solo è operazione della natura, ma operazione utile a
quella. In che maniera 1’ uomo comunica con Dio, e per qual parte
di sè; e come disposta debb’ essere allora questa parte dell’ uomo. Non
v’ ha misero al pari di colui che va esplorando in giro ogni cosa,
come disse quell’ altro, anche le cose di sotterra, e vuol
penetrare, per via di congetture, ciò che sta nell’ animo del vicino,
senza accor- gersi che gli basterebbe pure tenersi accanto al genio
che è in- lui, e servir quello di cuore. Servire il genio che è in noi,'
vuol dire mantenerlo netto di passione, di operar teme- rario, e di
scontentezza per cosa che venga dagli Dei o dagli uomini. Per- chè
quel che viene dagli Dei è ve- nerabile, per la virtù eh’ è in loro
: quel che vien dagli uomini è ami- chevole, per la parentela che
abbiam con loro; e talvolta anche compas- 1 sionevole per l’
ignoranza in che ' sono de’ beni e dei mali ; cecità non minore di
quella che impedisce di scernere il bianco dal nero. Quand’ anche
tu avessi a vivere tre migliaia d’ anni ed altrettante diecine di
migliaia, sovvengati non- dimeno che r uomo non perde altra vita
che quella eh’ egli vive, nè vive ' Inteudi la ragione.
altra vita che quella ch’egli perde. Ad uno stesso fine adunque
riescono e la più lunga vita e la più breve. Perchè il presente è
uguale per tutti, se bene non è uguale lo spazio di vita insino
allora trascorso; e così appare che il tempo che l’ uom perde è un
momento indivisibile. Nè il pas- sato di fatti nè il futuro non può
perdere egli mai; come perdere ciò che non ha ? Di questi due punti
adunque ti hai da ricordare; l’uno, che il mondo va eternalmente sem-
pre ad un modo, ravvolgendosi come in un cerchio, e che non v’ ha
dif- ferenza dal vedere le stesse cose per cento anni al vederle
per dugehto o per la infinità dei secoli; l’ altro, che ugual vita
perde e chi muor decrepito e chi muore'per tempissimo ; perchè il
presente è la sola vita che venga lor tolta, essendo la sola che
ciascun d’ essi abbia, e nessuno non potendo perdere quel che non
ha. Siccome tutto è opinione. È noto il detto di Monimo il cinico.
E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il midollo per insino
ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè stessa,
primieramente quando ella ; diventa, per quanto sta in lei, come
chi dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da quello
co- me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un
accidente qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro
alla quale son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature
degli altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un [Diceva
che] [Ogni nostra opinione è fumo e boria. “Apostema” in greco vuol dire ad un
tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli stoici il torre
esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome quella in cui
è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche uomo, od
anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime degli
adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua deter- minazione di volontà, ma opera a caso e senza
sapere che cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non
(iovrian farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli
animali ra- gionevoli è il conformai'si alla ragione e legge della
più antica fra le città e le repubbliche e della più veneranda. Della
vita umana, la durata è un punto; la materia, fluente; il senso,
tenebre ; la compagine di tutto il corpo , corruzione ; l’anima,*
un La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo
certamente ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere;
la fama, cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda
il corpo, è un torrente; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo ; la
vita tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le
vien dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere?
Sola ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo-
dire per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti
ogni avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o
la parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle , linee
segnenti; ma solamente il principio della vita animale [Una distinzione è fatta
distinzione fra corpo, anima e mente. nato siccome cosa che gli viene
di colà d’ onde è venuto egli stesso ; sovra tutto poi, aspetti la
morte con mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli
elementi onde ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo
essere trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca-
gione si avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’
essi tutti in una volta? Ella è cosa se- condo natura; e nulla che
sia se- condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non solamonte
è da considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che sempre ce ne
riman meno, ma eziandio che egli è incerto, ove ancor l’uomo viva lungamente,
s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per la intelligenza
degli affari e la contemplazione che ha per iseopo la conoscenza
delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli incominci a
vaneggiare, non cesserà però, egli è vero, nè di tra- spirare, nè
di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene,® e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto
bene esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà
spenta anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente
perchè ci facciamo ognora più vicini alla morte , ma ancora perchè
cessano in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com-
prensione delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle
cose le quali sono un mero accompagnamento necessario [‘Onesto’
chiamano gli stoici il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede.] [Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita
r nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo] d’ ima operazione
della natura hanno un non so che di grazioso e di dilettevole. Per
esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi luo- ghi. Or
bene, anche quelle così fatte screpolature che stan là, per così
dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un certo garbo o
muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio. Ancora i fichi,
quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive lasciate lunga
pezza in su V al- bero, quello stesso essere già vicine a
corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza particolare. E
le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del leone, e la
schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte altre cose le
quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni bellezza, nondimeno,
perch’ elle accom- pagnano necessariamente un’ opera della natura,
aggiungono a quella ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi
avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad una ad una le cose
che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne troverebbe per
avventura, anche di quelle che sono mera conseguenza- necessaria
delle altre, la quale non gli paresse farsi con una certa grazia.
Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra viva con non meno
piacere che quando gli scultori o i pittori glie la fan vedere
imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi scorgerebbe un certo che
di finito e di maturo non meno piacevole ai casti occhi di lui che
là venustà dei fanciulli ; e molte altre cose gl’ incontrerebbe di
vedere, che non fan senso in tutti, ma solamente in chi s’ è
veramente addimesticato con la natura e con le opere di
quella. Ippocrate cura di molti ammalati. Poi s’ammala egli stesso,
e muore. I caldei predicono a molti la morte, e poi venne anche per
loro la morte. Alessandro e Pompeo e Giulio Caio Cesare, i quali
distrussero dalle fondamenta le tante città, e tagliarono a pezzi in
giornata campale le tante migliaia di cavalli e di fanti, usceno poi
anch’essi di vita, alla fine. Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e
ragioni naturali discorso intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli
d’acqua il corpo, coperto di letame se ne muore. DEMOCRITO e spento da’
pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’
imbarcato, hai navigato, sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’altra
vita, nessun luogo è vuoto di iddii, e nè anche [Diogene Laerzio
narra che Democrito mori di vecchiaia. LUCREZIO, che nscì spontaneamente
di vita, perchè sente il suo spirito indebolirsi per effetto degli
anni. Non trovasi nota alcuna tradizione che concordi con ciò che
qui dice Antonino] quello dove vai; se per rimanere senza
sentimento, avrai finito di soffrire i dolori E I PIACERI e di dovere andare a
versi ad un vaso che è di tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè
l’ uno è mente e genio, e l’altro è terra e sangue. Non consumare
quella porzione che ti rimane di vita nel pensare ai fatti altrui,
ogni volta che tu noi faccia con un fine di comune utilità. Cioè nello
andar fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che
dice, e che pensa, e che macchina, e somiglianti cose, le quali tutte ti
fan deviare dalla custodia della tua parte sovrana. Conviene adunque
guardarsi, nella succession dei pensieri, dall’ozioso e dal vano, ma
molto ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a
pensar solo tali cose che, quando altri, all’improvviso ti
domandasse, che pensi ora? Tu possa risponder tosto e senza tema.
Questo, o quest’altro. Onde appaia subito manifestamente non avervi nulla in
te che non sia schietto e benevolo, nulla che non convenga ad
animai socievole; il quale non si compiace nelle immaginazioni di
piacere o di godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti o d’invidia o di
sospetto, o di qua- lunque altra cosa ti facesse arrossire quando
tu avessi a confessare che l'avevi in mente. Un uomo di tal fatta,
il quale non indugia d’ oggi in domani a por sè nel novero degli
ottimi, è come un sacerdote e un ministro degli Dei, devoto, non
meno che agli altri, a quello che ha il suo tempio in lui medesimo;
per virtù del quale l’ uomo diventa inconta- minabile ad ogni
jiiacere, invulne- rabile ad ogni dolore, inviolabile ad ogni
ingiuria, insensibile ad ogni malizia, sostenitore in campo della
massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna
passione, imbevuto di giustizia in- sino al fondo, disposto ad accogliere
con tutta r anima quanto accàSe e gli vien destinato, e non
occupan- tesi se non di rado nè mai senza una grande e pubblica
necessità, di CIÒ che altri fa o dice o pensa ; perch’ egli non ha altre
azioni in sua balìa che le proprie, e pensa conti- nuamente alle
cose che il fato del- r universo gli arreca; per far si che le
prime sieno oneste, siccome ha fede che le seconde sien buone ;
quando la sorte attribuita all’ uomo procede dalla stessa causa che l’
uo- mo e concorre insieme con 1’ uomo ad un medesimo fine. Sa inoltre
che tutti gli esseri ragionevoli han pa- rentela fra loro; che è
quindi con- forme alla natura dell’ uomo il tener cura di tutti ;
benché non sia da far conto deir opinione di tutti, ma solo di
coloro che vivono secondo natura. Quanto a quelli che vivono altra-
mente, egli tien sempre a memoria che sorta cT uomini sono, e quali,
e in casa e fuor di casa, e di notte e di giorno, si dimostrano, e
con quali praticano; non ha quindi in pregio nessuno la lode che
gli può venire da tallente, la quale nè anche a sè stessa non
piace. 5. Non operar mai nè contro al tuo volere, nè senza
relazione al bene della società, nè senza avere esaminato la cosa,
nò con renitenza ; non adornare con isquisitezza di frasi il tuo
pensiero: non esser uomo nè di molte parole, nè di molte faccen-
de.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in- terno abbia a governare in te
un animale maschio, attempato, citta- dino, romano, imperatore,
apparec- chiato di tutto punto, siccome quegli che non aspetta
ornai se non il suono Di molte faccende in cattivo senso, come chi
dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita, e
non occorre sforzarlovi nè col giu- ramento, nè con la
testimonianza (f altr’uomo ; nel lieto aspetto del quale ben si
scorge non avere egli bisogno nè dell’ aiuto che vien dal di fuori,
nè della tranquillità che gli altri procurano. Conviene adunque
esser ritto in piedi già, e non riz- zarui solamente. Se tu trovi
qualche cosa di meglio nella vita dell’ uomo che la giustizia, che la verità,
che la temperanza. che la fortezza, e, in una pa- rola, che quella
disposizione della mente per cui ella si appaga di sè medesima
nelle cose die ti fa ope- rare secondo la retta ragione,, e del
fato, nelle cose che senza parteci- pazione della tua volontà ti
vengono distribuite; se, dico, tu trovi alcun che di meglio che
questo, a quello 1 Similitudine tolta dagli ordini della
milizia appo i Romani. voiti con tutta l’ anima e godine siccome di cosa
che hai ritrovato esser l’ottima. Ma se nulla ti si presenta di meglio
che il genio stesso tuo interno, quando si è fatto signore de’
propri moti, e rivoca ad esame le proprie immaginazioni, e si è sot-
tratto^ come dice SOCRATE, dalle passioni del senso, e vive
sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli uomini. Se, a paragone di
questa, tutte . le rimanenti cose ti paion picciole e vili, non dar
più luogo appresso te a nessuna altra, alla quale una volta che tu
ti sentissi propendere, più non potresti senza repugnanza preferire
a tutti quel bene che è proprio di te ed è il tuo; perchè al bene
j’azionale ed efficiente non vien contrapposto impunemente mai
nulla che sia di natura diversa, come le lodi della moltitudine, o il comandare,
o i piaceri del senso ; tutte queste cose, per poco che le si
paiano Ò1 adattare,' ti sopralfamio in un attimo
e ti strascinano. Or tu, dico io, sce- gli schiettamente e liberamente
il meglio, e a quello ti attieni. — Ma il meglio è l’utile. Se
l’utile all’uomo in quanto è ragionevole, bene sta, quello procura: se l’
utile all’ uo mo in quanto animale, dillo su aper- tamente e vivi di poi
senza boria nò fasto, secondo quella determinazio- ne. Ma bada,
ve’, che non ti inganni nell’ esame. Non riguardare giammai come i
[Par ch’Antonino alluda qui alla teoria dell’adattare le nozioni generali
alle cose particolari, o, del concetto alla rappresentazione, che è ciò
in che consisto il giudizio]. Dillo spiattellatamente, se ardisci,
senza avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi tutte le
conseguenze di quel tuo detto: cioè, vivi poi da animale mero e puro,
senza in- gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù nè di
giustizia, nè d* altro simile, che in quel caso sarebbero un vano fasto
di parole. E provocazione al senso intimo dell'uomo. Utile a te nulla che sia
per isforzarti un dì a violar la fede, abbandonare il pudore,
odiare alcuno sospettare, maledire, simulare, desiderar cosa j che
abbia bisogno di pareti e di ve- lame . Chi ha posto innanzi ad
ogni altra cosa la sua mente e genio, e il culto della virtù eh’ è
propria di quello, non fa tragedie, non geme, non ha bisogno di
solitudine, non di frequenza d’ uomini; quel che più impoita, vive
senza ricercar nulla nè fuggire; abbia ad esser lungo o , abbia ad
esser corto Tintèrv^allo di tempo durante il quale sarà conte- nuta
nel corpo l’ anima con che egli lia a fare,' non se ne piglia nè
an- clic il minimo pensiero; e quando Con che egli ha a fare. Non
veggo che cosa abbia voluto dire l’ornato. [Il senso letterale del
testo è: sia lungo o sia breve il tempo, eh' egli avrà a far uso dell'
ani- ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi- vale a dire: sia
lungo, o sia breve il tempo ch'egli ha a vivere. L’è giunta l’ora dello
sgombrare, cosi spiccio se ne va, come se imprendesse un’ altra qualunque
di quelle azioni che si possono con verecondia e con dignità
operare; da questo solo guardandosi per tutta la vita, , che veruno
dei moti della sua men- te non sia mai men che convene- vole ad
animale intelligente o sociabile. Nella mente dell’ uom castigato e
puro non troverai nulla di marcio, nè tampoco nulla di contaminato
o che paia sano al di fuori e noi sia. La vita di lui, a
qualsivoglia ora lo sorprenda la morte, non è mai imperfetta, come tu
diresti quella tragedia d’onde un attore si fosso riti- rato prima d’
aver condotto a fine la sua parte. Ancora non è in lui nulla di
villano, nè nulla di artata- mente gentile; nulla che il leghi alle
cose esteriori nè nulla che lo separi da quelle; nulla onde egli
sia palesemente ripreso,' nè nulla che covi addentro nascosto.
Abbi in rispetto la facoltà giudicativa.^ Per lei sta che non si ge- neri
nella tua parte sovrana nessuna opinione che non sia consona alla
natura o al fine per che 1’ uomo è ordinato. Ed essa promette la infallibilità,
e l’amicizia con gli uomini e l’ubbidienza agli Dei. Messe adunque
da banda tutte le altre cose, queste poche sole abbi in mente; ed
ancora ricordati che i r uomo non vive altro tempo che questo
presente, cioè un attimo; il rimanente o lo ha vissuto o non sa se
il vivrà. Picciola cosa pertanto è [Intendi: nulla che appaia manifestamente
vizioso. Ossia la virtù del non cadere in errore ; che vien definita da Zenone la
scienza del quando conviene assentire ad i un' apparenza, e quando no.
Questa accompagna sempre il giudizio comprensivo, che è il criterio della
verità appo gli stoici. 0 Digitizedh, Cnoi^li: il tempo che
l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive. Picciola
cosa la fama anche la più lunga eh’ egli lascerà dietro sè, e questa
tramandantesi per successione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti quasi
appena nati, ed ignari anche di sè medesimi, non che di colui il
quale moriva è già gran pezza. li. Agli avvertimenti dati sin
qui s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de- finir sempre o descrivere
l’oggetto che cade sotto al tuo senso, si che tu lo scorga a parte
a parte distin- tamente e tutt’ insieme quale egli è nella sua
essenza nudo, e dir teco stesso il nome proprio di quello e il nome
delle cose di che è compo- sto e in che s’ ha da risolvere. Perchè non v’
ha nulla che sublimi cotanto l’animo quanto il potere arguire per la
diritta via e con verità ciascuna delle cose che incontrano nella
vita, e saperle vedere per ino» do da conoscere nello stesso tempo
di qual uso sendo questa tal cosa al mondo, e a qual mondo, qual
valore ha rispetto al tutto e quale rispetto air uomo, che è cittadino
della suprema fra le città, della quale le altre città sono' come
al- trettante famiglie. Che cosa è, e di che cosa è composto, e
quanto tempo è por duiare ij cesto che fa impres- sione ora sul mio
senso; di che virtù s’ ha da far uso con esso, per esem- pio, della
mansuetudine, della for- tezza, della veracità, della fede, della
semplicità, della frugalità, o simili. Però, intorno a ciascuna cosa,
con- vien dire : questa mi viene da Dio. Questa dalla sorte, dalla
complica- zione delle cause condestinate, e so- miglianti cose;
quest’ altra dal mio consorto, dal mio congiunto, dal partecipe d’
una stessa società con me, il quale ignora nondimenò ciò che è
secondo natura per lui. Ma 10 non lo ignoro ; e però mi
governo con lui secondo la legge naturale della società, con
benevolenza e giu- stizia; e ad uno stesso tempo ho riguardo, nelle
cose mezzane,' al valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la
retta ragione quel che hai fra mano, stu- diosamente, c
vigorosamente, placi- damente, e non t’ occupi d’ altra cosa tra
via, ma conservi puro ed intatto 11 genio tuo, come se tu dovessi
già rassegnarlo ; se a lui ti tieni stret- Si chiamai! còse
mezzane appo gli stoici quelle che non sono nè ben nè male, cioè nè
virtù nè vizio. Le quali, comecché da per sè non meritino d' esser
cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o si rigettano per r
aiuto o disainto che elle possono ar- recare alla vita secondo natura.
Quelle che arrecan più aiuto, han più valore: quelle che più
disainto, più disvalore. Di questò ha da tener conto il savio, ed
accettare, quando gli è data la scelga, quelle che han più valore,
o che han meno disvalore. 0. Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla
aspettando, da nulla rifug- gendo, contentandoti dell’ azion tua
presente secondo natura e della eroi- ca verità d’ ogni cosa che tu
dica: felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti possa
questo impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro ferri e
strumenti per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i principi!
* per la cognizione delle cose divine ed umane; e non far nulla
mai, per poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce
queste con quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo
ri- ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per-
chè non sei per rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le azioni degli
an- tichi romani e greci, nè gli estratti Punti fondamentali di
credenza, cre- denze prime, dommi : decreta . appo CICERONE. d’ autori
che riserbavi per la vec- chiaia. Studiati dunque d’ arrivare al
fine, e poste da banda le spe- ranze vane, soccorri a te stesso, se
pur ti cale di te, mentre che il puoi. 15. Non sanno * quanti
significati abbiano le parole rubare, seminare, comperare,
riposare, veder quel che sia da fare, il che non si reca ad effetto
con gli occhi, ma con un’al- tra sorta di vista. Corpo, anima, mente
; del corpo son le sensazioni, deh’ anima le ap- petizioni, della
mente le credenze.^ Ricevere impressioni nella fantasia è cosa
anche da giumento; esser mosso da appetiti è cosa anche da fiera,
anche da androgino, anche da Falaride, anche da Nerone; avere per
iscorta la mente a quello che ci pare nostro ufficio, è cosa anche
I Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello
che ci par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano Dei, da chi abbandona
la patria, da chi fa, quando ha chiuso le porte, ogni opera
nefanda. Se adunque tutte queste cose abbiam comuni cogli
anzidetti, resta che sia proprio dell’ uomo dabbene lo amare ed ab-
bracciare gli accidenti ad esso con- destinati e guardarsi dal
macchiare e turbare con immaginazioni sconce il genio che risiede
nel petto di lui, ma conservarlo propizio, seguendolo modestamente*
come un Iddio, non dicendo mai nulla che sia contro al vero, nè
dicendo mai nulla che sia contro al giusto. Che se nissuno
ttro interene. Questo è il significato generale della parola ufficio appo gli
stoici. Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di perfetto
denota essa il dovere^ che è come V intereae iublime dell' uomo. Noto
questo perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo anche il Corai,
hanno maravigliosamente scompaginato - e interpolato questo passo;
frantendendolo. V. Diog. Laerz.; Stobeo ; Cic. de Officiùt otc. degli
uomini non gli vuol credere eh’ egli viva con semplicità, con ve-
recondia, e di buon animo ; nè s’adira egli contro costoro, nè si svia
dalla strada che conduce al fine della yita. al quale si vuol
giunger puro, tranquillo, spedito, e conformato di vo- lontà col proprio
destino. La parte che dentro di noi regna, quando è nel suo stato
natu- rale, ha tal disposizione verso gli accidenti, che senza
difficoltà si rivolge sempre al possibile e al dato. Perch’ella non ama
nessuna mate- ria determinata ; ma si porta con eccezione* a quello
che si ha pro- posto, e quando alcun che se le viene ad
attraversare per via, ella si fa di quello stesso materia ; come il
fuoco, quando s’ impadronisce delle [La parte sovrana o dominante. [Eccezione
: vocabolo stoico. Indica limitazione del proponimento al possibile]. Farò
la tal cosa, se non sarò impedito] cose die incontra, dalle quali una picciola
lampana sarebbe spenta. Ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni
cosa che se gli butti dentro, e la consuma, e per quella stessa
s’in- nalza più in su. 2. Nessuna azione sia fatta a
caso mai, nè altrimente che secondo una delle regole costitutive
dell’arte. Van cercando ritiri, alla campa- gna, alla marina, sui monti;
e tu stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma cotesto è da uomo
ignorantissi- mo, potendo tu, a quell’ ora che tu vuoi, ritirairti
in te stesso. Perchè [Ad ogni caso della vita corrispondo una virtù
da esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni
virtù è appo gli stoici nna scienza nello stesso tempo ed un’ arte:
parlo delle virtù pro- priamente dette. Come scienza quindi e come
arte consta di certo proposizioni o re- gole, ciascuna delle quali è
parte integrante di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni
ufficio consta di corti numeri. inroRDi.
«4 in nessuno altro luogo si ritira l’ uomo con più tranquillità e
con meno brighe che nell’ anima sua ; massi- mamente chi ci ha
dentro tanto alti oggetti di contemplazione che il solo affacciarsi
a loro procaccia tosto ogni sorta di agevolezza. Quan- do dico
agevolezza, non voglio dir altro che buon ordine. Concedi adun- que
sovente a te questo ritiro e rin- novella quivi te stesso. Breve
sia r espressione ed elementare la forma di quelle verità
contemplative che avran forza di rasserenare al primo incontro V
anima tua c. rimandarti senza corruccio alle cose alle quali
ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'- rucci? Della malizia degli
uomini? Rammentati di quella sentenza, che gli esseri ragionevoli
son fatti gli uni per gli altri; che il sofferire è parte della
giustizia; che malgrado loro peccano ; che tanti si son già inimi-
cati, sospettati, odiati, perseguitatisi
a morte, i quali ora sono spenti, son fatti cenere; e te ne darai pace.
0 ti crucci tu di quella parte che a te Vien compartita dell’
universale de- stino? Rinnovella il dilemma. 0 è la provvidenza o
son gli atomi,' op- pure gli argomenti con che s’ è di- mostrato
che il mondo è come una città. Ma forse tu ti contristi delle
affezioni del corpo? Pensa che non han più nulla che fare con la
mente i moti o sieno soavi o sieno aspri del senso, ogni volta che
questa s’ è raccolta in sè medesima ed ha cono- sciuto la sua propria
potenza; al che potrai aggiugnere quelle altre cose che intorno al
piacere e al dolore hai apparato ed accettato per vere. 0
sarà forse T amor di gloria quello che ti turba? Considera come è
ratto Si allude al sistema atomistico di- Epicuro, il quale
ne- gava la previdenza, e attribuiva il mondo e tutti i fenomeni
del mondo ad una causa non intelligente. l’oblio d'ogni cosa, interminato
dal - runa parte e dall’ altra* il caos della età, vana cosa il
rumore, mutabile, e inconsiderato chi in apparenza ti‘ esalta,
angusto il luogo dove è cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta la
t.erra' è un punto: e qual parte di essa è l’angoletto che tu abiti?
e quivi ancora quanti avrai lodatori, e quali? D’or innanzi adunque
sov- vengati di ritirarti in questa tua vil- letta di te medesimo;
e sopra tutto, non. t' affannare, non t’agitare, ma sii libero e
vedi le cose da uomo, da ‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed
abbi in pronto, fra le verità alle quali dovrai far ricprso, queste
due principalmente: 1’ una, che le cose non arrivano sino all’
anima, anzi stanno al di fuori immobili;* e i turbamenti nascono
dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice la scuola. [nione,
che è dentro. L’ altra, che quanto tu vedi già già si muta e più
non è quel desso ; e rivolgi in mente ciascuna delle mutazioni alle
quali tu stesso sei inten'enuto. Il mondo^ alterazione. La vita,
opinione. Se la intelligenza ci è comune a tutti, anche la ragione
per cui siam ragionevoli ci è comune; se cotesto è, anche la
ragione imperativa di ciò che si dee fare o non fare ci è comune; adunque
anche la legge ò comune; aifunque siam concittadi- ni ; adunque
partecipiamo tutti ad una specie di reggimento civile ; adunque il
mondo è come una città. Perchè qual altro direm noi che sia quel
reggimento civile di cui tutto il genere umano partecipa? Di colà,
da quella città comune, viene a noi r intelligenza, la ragione, la
legge, o d’ onde verrebbon esse? perchè, siccome quanto v’ ha in me
di terreo viene da una certa terra di cui fa parte; e quanto v’ ha
in me d’umido, da un altro elemento; e quanto v’ha di caldo e d’
igneo, da una certa sorgente propria (nulla venendo mai dal nulla
nè ritornando nel nulla); così anche la intelligenza dee venire da
qualche cosa. La morte è come la nascita, un mistero della natura.
Composizione e risoluzione di certi elementi in quegli elementi
medesimi. Ad ogni modo non è cosa di
che1’ uomo debba arrossire ; perchè non è cosa che repugni
alla natura dell’ animale intellettivo o disconsegua al principio della
formazione di quello. Tali cose debbono di necessità farsi in tal
modo da questi tali; chi le vuole altrimente, vuole che il fico non
abbia lattificcio. Del tutto, sov- vengati che in brevissimo tempo
e * Intendi ripugni, non aia conforme. !'• tu e costui
sarete morti: e che, poco dopo, non rimarrà più di voi nè an- che
il nome. Togli via r opinione, ed è tolto via il « sono stato offeso
: » togli via il « sono stato offeso, » ed è tolta via r
offesa. Quello che non fa peggiore l’uomo non fa nè anche peggiore la
vita di lui, nè le nuoce, nè esternamente nè internamente. È
necessitata dall’ utile ‘ la na- tura a far cotesto. Siccome ogni cosa
che accade, giustamente accade; il che, se tu osserverai con
attenzione, troverai 1 Comune. Più letteralmente : « È necessitata
la na- tura deir utile a far cotesto.» La natura deir utile, cioè
il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente
in questo luogo la voce natura), il quale evolvendosi, come ragion
seminale, successivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia bene. Perchè
non conviene dimenticar mai che, appo gli stoici, l'utile non è altro
che il bene. sempre vero: non solamente, dico, secondo l’ordine di
conseguenza, ma ancora secondo l’ordine di giustizia; come se le
cose procedessero da tale che distribuisse a ciascuno secondo il
merito. Osserva adunque, come hai cominciato ; ed ogni cosa che tu
fai, falla con questa condizione, che tu sia uom dabbene, nel vero
signifi- cato della parola dabbene. Questo carattere conserva in
ogni tua azione. Non concepir le cose quali le giudica colui che fa
ingiuria, o quali egli vuole che tu le giudichi; ma vedile quali
sono in realtà. Conviene esser sempre pronto a queste due cose ;
fai' solamente quello che la ragion dell’ arte regia e legislativa
ti suggerisce per 1’ uti- lità degli uomini ; e cangiar partito,
quando altri viene a raddrizzarti e rimuoverti da una qualche falsa
opi- nione. Ma questo cangiamento dee farsi sempre per un qualche
motivo plausibile, come di giustizia, o d’ utilità comune, o somigliante
; e non mai perchè la cosa ti piaccia o sia per arrecarti
gloria. Hai la ragione? Si. Che dunque non 1’ adoperi? Perchè, se
essa fa quanto le spetta, che ti resta a desiderare? Sei venuto al mondo
qual parte ; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai
nella ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti grani d’
incenso su uno stesso altare: l’uno è caduto prima e l’altro dopo.
È lo stesso. Tra dieci giorni parrai un Dio a coloro, ai quali pari
ora una bestia e una scimmia, se fai ritorno ai prin- cipii e al
culto della ragione. Non come se tu avessi a vi- vere molte
migliaia d’ anni. La morte ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è
dato, fa’ che tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera chi
non bada a quello che ha detto il vi- cino, o ha fatto, o ha pensato, ma
solo a quello eh’ egli stesso fa, affinchè r opera sua sia giusta,
e santa, e qual si richiede dall’ uomo dabbene ! Non andar
guatando attorno i neri costumi, ma corrér diritto in sulla linea
senza volgersi a destra nè a manca. Chi vive abbagliato dal
pensiero di lasciar fama dopo morte, non considera come ciascun di
quelli che si ricordano di lui morrà tosto aneli’ egli, e poi
ancora chi sarà a costui succeduto, sinattantochè, pas- sando da
abbagliato in abbagliato e da morente in morente, venga a spe-
gnersi affatto ogni memoria. Ma sup- poni anche immortale chi s’ ha a
ri- cordare di te, ed immortale la fama ; che fa ssi abbia, e
nessuno non potendo perdere quel che non ha. Siccome tutto è
opinione. È « noto il detto di Monimo il cinico.
E nota anche V utilità di quello, chi ne colga il midollo per insino
ai confini del vero. L’anima umana fa onta a sè stessa,
primieramente quando ella ; diventa, per quanto sta in lei, come
chi dicesse un apostema o tumore del mondo, ritraendosi da quello
co- me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un
accidente qualunque è un ritrarsi dalla natura univei-sale, dentro
alla quale son contenute, siccome parti di quella, tutte le nature
degli altri. In secondo luogo, quando ha avversione a un *
Diceva che «Ogni nostra opinione è fumo e boria. Apostema in greco
vuol dire ad un tempo ed apostema e ritiramento. È solenne agli
stoici il torre esempi, nelle cose morali, dalla natura fisica, siccome
quella in cui è contenuta, secondo loro, ancho la natura morale. qualche
uomo, od anche se gli volge contro per nuocergli, come le anime
degli adirati. In terzo luogo ella fa onta a sè stessa quando si lascia
vin- cere dal piacere o dal dolore. Quarto, quando ella s’ infinge
ed opera o parla con simulazione e contro la verità. Quinto, quando
ella non in- dirizza a nessuno scopo una qualche sua azione o una
qualche sua determinazione di volontà, ma opera a caso e senza sapere che
cosa si fac- cia; laddove nè anche le minime cose non (iovrian
farsi mai se non con rela- zione al fine. E il fine degli animali ragionevoli
è il conformai'si alla ragione e legge della più antica fra le città
e le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata
è un punto; la materia, fluente; il senso, tenebre ; la compagine
di tutto il corpo , corruzione ; l’anima,* un [La città e
repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente
ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa mala a prevedere; la fama,
cosa senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda il corpo,
è un tor- rente ; ciò che riguarda l’ anima, so- gno e fumo ; la
vita tutta intera, guerra e pellegrinaggio; e la rino- manza che le
vien dopo, oblio. Che i adunque v’ ha a cui tu ti possa atte- nere?
Sola ed unica una cosa; la filosofia. E questa consiste nel custo-
dire per tal modo il genio interno, eh’ egli non riceva nè onta nè
danno, sia superiore al piacere e alla pena, non operi nulla a
caso, nè infìnta- mente 0 con animo d’ ingannare, nè abbia bisogno
mai che altri faccia o non faccia checchessia; inoltre ac- cetti
ogni avvenimento a lui desti- r anima ragionevole, nè la mente, o
la parte sovrana, o il genio interno menzionato nelle , linee
segnenti; ma solamente il principio ’ della vita animale. Vedi il § 16
del lib. Ili | dei Bicordi, ove è fatta distinzione fra corpo,
anima c mente. P. I nato siccome cosa che gli viene di colà
d’ onde è venuto egli stesso ; sovra tutto poi, aspetti la morte
con mente serena, siccome nulla più che dissoluzione degli elementi
onde ogni animale è composto; ai. quali se non è grave lo essere
trasmutati di conti- nuo r uno nell’ altro, per qual ca- gione si
avrà ella a temere la tras- mutazione e la dissoluzione d’ essi
tutti in una volta? Ella è cosa secondo natura; e nulla che sia se- condo
natura non è mai un male. Tn Carnvnto, Non solamonte è da
considerare che la vita si va consumando ogni dì, e che sempre ce ne
riman meno, ma eziandio che egli è in- certo, ove ancor 1’ uomo
viva lunga- mente, s’egli avrà sempre vigor 'di mente che basti per
la intelligenza degli affari e la contemplazione che ha per iseopo
la conoscenza delle cose divine ed umane. Perchè, quan- do egli
incominci a vaneggiare,* non cesserà però, egli è vero, nè di tra-
spirare, nè di nudrirsi, nè di avere immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose
di tal fatta; ma valersi di sè stesso, ma avvertire distintamente
tutti i numeri * del dovere, ma chia- rire i propri concetti, ma, quel
che importerebbe allora, deliberare se sia già tempo per lui di
andatene e quante altre cose richieggono una raziocinativa molto bene
esercitata, cotesto non potrà egli più, chè la facoltà sarà spenta
anzi tempo. Con- viene adunque affrettJirsi, non sola- mente perchè
ci facciamo ognora più vicini alla morte , ma ancora perchè cessano
in noi anzi il finir della vita la intelligenza e la com- prensione
delle cose. È degno pure d’ osservazione che anche quelle cose le
quali sono un mero accompagnamento neces- [“Onesto” chiamano
(gli stoici) il perfetto bene per lo avere esso tutti i numeri che
la natura richiede. Secondo gli stoici non dovea rimanere in vita r
nomo che non potea più adempire gli uffici d’uomo, 0. ] sario d’ ima
operazione della natura hanno un non so che di grazioso e di
dilettevole. Per esempio, cocen- dosi il pane, si screpola in certi
luo- ghi. Or bene, anche quelle così fatte screpolature che stan
là, per così dire, fuori dell’ intenzione del for- naio, hanno un
certo garbo o muo- vono r appetito in un certo modo lor proprio.
Ancora i fichi, quando sono ben maturi, si aprono. E nelle ulive
lasciate lunga pezza in su V al- bero, quello stesso essere già
vicine a corrompersi, aggiugne al frutto una certa bellezza
particolare. E le spighe che s’ inchinano, e la guar- datura del leone,
e la schiuma che esce fuori di bocca al cinghiale, e molte altre
cose le quali, considerate da per sè, sono lontane da ogni bel-
lezza, nondimeno, perch’ elle accom- pagnano necessariamente un’
opera della natura, aggiungono a quella ornamento e dilettano
altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in- gegno e considerasse ad
una ad una le cose che accadono nell’ universo mondo, nessuna ne
troverebbe per avventura, anche di quelle che sono mera
conseguenza- necessaria delle altre, la quale non gli paresse farsi
con una certa grazia. Costui vedreb- be la gola spalancata d’ una fièra
viva con non meno piacere che quando gli scultori o i pittori glie
la fan vedere imitata; e nelle vecchiarelle e nei vecchi
scorgerebbe un certo che di finito e di maturo non meno piacevole
ai casti occhi di lui che là venustà dei fanciulli ; e molte altre
cose gl’ incontrerebbe di vedere, che non fan senso in tutti, ma
solamente in chi s’ è veramente addimesticato con la natura e con
le opere di quella. Ippocrate curò di molti ammalati, e poi s’
ammalò egli stesso e muore. I caldei predissero a molti la morte, e
poi venne anche per loro la morte. Alessandro e Pompeo e Caio
Cesare, i quali distrussero dalle fondamenta le tante città, e
taglia- rono a pezzi in giornata campale le tante migliaia di
cavalli e di fanti, uscirono poi anch’ essi di vita, alla fine.
Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e ragioni naturali discorso
intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,
coperto di letame se ne morì. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da
pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai na-
vigato, sei giunto; esci di nave. Se per andare ad un’ altra vita,
nessun luogo è vuoto di Iddii, e nè anche [Diogene Laerzio
narra che Democrito mori di vecchiaia; Lncrezio, che nscì spontaneamente
di vita, perchè sentiva il suo spirito indebolirsi per effetto degli
anni. Non trovasi nell' antichità a noi nota alcuna tradizione che
concordi con ciò che qni dice Antonino. P. quello dove vai ;
se per rimanere senza sentimento, avrai Unito di sof- frire i
dolori e i piaceri, e di dovere andare a versi ad un vaso che è di
tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è mente e genio,
e r altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione che
ti rimane di vita nel pensare ai fatti altrui, ogni volta che * tu
noi faccia con un fine di comune utilità; cioè nello andar
fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che
dice, e che pensa, e che mac- china, e somiglianti cose, le quali
tutte ti fan deviare dalla custodia della tua parte sovrana.
Conviene adunque guardarsi, nella succession dei pensieri, dall’
ozioso e dal vano, ma molto ancora^più dal curioso e dal maligno;
ed avvezzar sè stesso a pensar solo tali cose che, quando altri,
all’ improvviso ti domandasse, che pensi ora? tu possa
risponder tosto e senza tema: questo, o que- st’ altro ; onde appaia
subito mani- festamente non avervi nulla in te che non sia schietto
e benevolo, nulla che non convenga ad animai socievole; il quale
non si compiace nelle immaginazioni di piacere^ o di godimento qual
eh’ ei sia, o di gaiti o d’invidia o di sospetto, o di qua- lunque
altra cosa ti facesse arrossire quando tu avessi a confessare che
l'avevi in mente. Un uomo di tal fatta, il quale non indugia d’ oggi
in domani a por sè nel novero degli ottimi, è come un sacerdote e
un ministro degli Dei, devoto, non meno che agli altri, a quello
che ha il suo tempio in lui medesimo; per virtù del quale l’ uomo
diventa inconta- minabile ad ogni jiiacere, invulne- rabile ad ogni
dolore, inviolabile ad ogni ingiuria, insensibile ad ogni malizia,
sostenitore in campo della massima fra le imprese, quella del non
essere abbattuto da nessuna passione, imbevuto di giustizia in-
sino al fondo, disposto ad accogliere con tutta r anima quanto accàSe
e gli vien destinato, e non occupan- tesi se non di rado nè mai
senza una grande e pubblica necessità, di CIÒ che altri fa o dice o
pensa ; per- ch’ egli non ha altre azioni in sua balìa che le
proprie, e pensa conti- nuamente alle cose che il fato del- r
universo gli arreca; per far si che le prime sieno oneste, siccome
ha fede che le seconde sien buone ; quando la sorte attribuita all’
uomo procede dalla stessa causa che l’ uo- mo e concorre insieme
con 1’ uomo ad un medesimo fine. Sa inoltre che tutti gli esseri
ragionevoli han pa- rentela fra loro; che è quindi con- forme alla
natura dell’ uomo il tener cura di tutti ; benché non sia da far
conto deir opinione di tutti, ma solo di coloro che vivono secondo
natura. Quanto a quelli che vivono altra- mente, egli tien
sempre a memoria che sorta cT uomini sono, e quali, e in casa e
fuor di casa, e di notte e di giorno, si dimostrano, e con quali
praticano; non ha quindi in pregio nessuno la lode che gli può
venire da tallente, la quale nè anche a sè stessa non piace. Non
operar mai nè contro al tuo volere, nè senza relazione al bene
della società, nè senza avere esaminato la cosa, nò con renitenza ;
non adornare con isquisitezza di frasi il tuo pensiero: non esser uomo
nè di molte parole, nè di molte faccende.' Ancora, fa’ che il Dio tuo
in- terno abbia a governare in te un animale maschio, attempato,
citta- dino, romano, imperatore, apparec- chiato di tutto punto,
siccome quegli che non aspetta ornai se non il suono [Di
molte faccende in cattivo senso, come chi dicesse faccendone, o
faccendiere. della tromba* per uscir della vita, e non occorre
sforzarlovi nè col giu- ramento, nè con la testimonianza (f altr’
uomo ; nel lieto aspetto del quale ben si scorge non avere egli
bisogno nè dell’ aiuto che vien dal di fuori, nè della tranquillità che
gli altri procurano. Conviene adunque esser ritto in piedi già, e
non riz- zarui solamente. 6. Se tu trovi qualche cosa di me-
• glio nella vita dell’ uomo che la giu- stizia, che la verità, che
la tempe- ranza. che la fortezza, e, in una parola, che quella
disposizione della mente per cui ella si appaga di sè medesima
nelle cose die ti fa ope- rare secondo la retta ragione,, e del
fato, nelle cose che senza parteci- pazione della tua volontà ti
vengono distribuite; se, dico, tu trovi alcun che di meglio che
questo, a quello [Similitudine tolta dagli ordini della milizia appo
I ROMANI. 0Virco \urcIio. rivolgiti con tutta l’ anima e godine siccome
di cosa che hai ritrovato esser V ottima. Ma se nulla ti si pre-
senta di meglio che il genio stesso tuo interno, quando si è fatto
signore de’ propri moti, e rivoca ad esame le proprie
immaginazioni, e si è sot- tratto^ come diceva Socrate, dalle
passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli
uo- mini ; se, a paragone di questa, tutte . le rimanenti cose ti
paion picciole e vili, non dar più luogo appresso te a nessuna
altra, alla quale una volta che tu ti sentissi propendere, più non
potresti senza repugnanza preferire a tutti quel bene che è pro-
prio di te ed è il tuo; perchè al bene j’azionale ed efficiente (3)
non vien contrapposto impunemente mai nulla che sia di natura
diversa, come le lodi della moltitudine, o il co- mandare, o i
piaceri del senso ; tutte queste cose, per poco che le si paiano adattare,'
ti sopralfamio in un attimo e ti strascinano. Or tu, dico io, scegli
schiettamente e liberamente il meglio, e a quello ti attieni. — Ma
il meglio è l’utile. Se l’utile al- r uomo in quanto è ragionevole,
bene sta, quello procura: se l’ utile all’ uo- mo in quanto animale,
dillo su aper- tamente® e vivi di poi senza boria nò fasto, secondo
quella determinazio- ne. Ma bada, ve’, che non ti inganni nell’
esame. Non riguardare giammai come i [Par che Antonino
alluda qui alla teoria dello adattare le nozioni generali alle cose
particolari, o, come diremmo noi, del con- cetto alla rappresentazione,
che è ciò in che consisto il giudizio. Dillo spiattellatamente, se
ardisci, senza avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi tutte le
conseguenze di quel tuo detto: cioè, vivi poi da animale mero e puro,
senza in- gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù nè di
giustizia, nè d* altro simile, che in quel caso sarebbero un vano fasto
di pa- role. E provocazione al senso intimo dell'uo-mo. Utile a te nulla
che sia per isforzarti un dì a violar la fede, abbandonare il
pudore, odiare alcuno^ sospettare, maledire, simulare, desiderar cosa
j che abbia bisogno di pareti e di ve- lame . Chi ha posto innanzi
ad ogni altra cosa la sua mente e genio, e il culto della virtù eh’
è propria di quello, non fa tragedie, non geme, non ha bisogno di
solitudine, non di frequenza d’ uomini; quel che più impoita, vive
senza ricercar nulla nè fuggire; abbia ad esser lungo o , abbia ad
esser corto Tintèrv^allo di tempo durante il quale sarà conte- nuta
nel corpo l’ anima con che egli lia a fare,' non se ne piglia nè
an- clic il minimo pensiero; e quando [Con che egli ha a
fare. Non veggo che cosa abbia voluto dire Ornato. Il senso letterale
del testo è: sia lungo o sia breve il tempo, eh' egli avrà a far uso
dell' ani- ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi- vale a
dire: sia lungo, o sia breve il tempo ch'egli ha a vivere. è giunta V ora
dello sgombrare, cosi spiccio se ne va, come se impren- desse un’
altra qualunque di quelle azioni che si possono con verecondia e
con dignità operare; da questo solo guardandosi per tutta la vita,
, che veruno dei moti della sua men- te non sia mai men che
convene- vole ad animale intelligente o so- ciabile. Nella
mente dell’ uom castigato e puro non troverai nulla di marcio, nè
tampoco nulla di contaminato o che paia sano al di fuori e noi sia.
La vita di lui, a qualsivoglia ora lo sorprenda la morte, non è mai
im- perfetta, come tu diresti quella tra- gedia d’onde un attore si
fosso riti- rato prima d’ aver condotto a fine la sua parte. Ancora
non è in lui nulla di villano, nè nulla di artata- mente gentile;
nulla che il leghi alle cose esteriori nè nulla che lo separi da
quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che covi
addentro nascosto. Abbi in rispetto la facoltà giu- dicativa.^ Per
lei sta che non si ge- neri nella tua parte sovrana nessuna
opinione che non sia consona alla natura o al fine per che 1’ uomo
è ordinato. Ed essa promette la infal- libilità,* e l’amicizia con
gli uomini e r ubbidienza agli Dei.Messe adunque da banda tutte le
altre cose, queste poche sole abbi in mente; ed ancora ricordati che
i r uomo non vive altro tempo che questo presente, cioè un attimo;
il rimanente o lo ha vissuto o non sa se il vivrà. Picciola cosa
pertanto è 1 Intendi: nulla che appaia manifesta- mente
vizioso. Ossia la virtù del non cadere in er- rore ; che vien definita da
Zenono « la scienza del quando conviene assentire ad i un'
apparenza, e quando no. > Questa ac- compagna sempre il giudizio
comprensivo, che è il criterio della verità appo g-li stoici.
0. Digitizedh, Cnoi^li: il tempo che l’ uom vive,
picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive ; picciola cosa la
fama anche la più lunga eh’ egli lascerà dietro sè, e questa
tramandantesi per succes- sione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti
quasi appena nati, ed ignari anche di sè medesimi, non che di colui
il quale moriva è già gran pezza. li. Agli avvertimenti dati
sin qui s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de- finir sempre o
descrivere l’oggetto che cade sotto al tuo senso, si che tu lo
scorga a parte a parte distin- tamente e tutt’ insieme quale egli è
nella sua essenza nudo, e dir teco stesso il nome proprio di quello
e il nome delle cose di che è compo- sto e in che s’ ha da
risolvere. Per- chè non v’ ha nulla che sublimi cotanto l’animo
quanto il potere ar- guire per la diritta via e con verità ciascuna
delle cose che incontrano nella vita, e saperle vedere per ino» do
da conoscere nello stesso tempo di qual uso sendo questa tal cosa
al mondo, e a qual mondo, qual valore ha rispetto al tutto e quale
rispetto air uomo, che è cittadino della suprema fra le città,
della quale le altre città sono' come al- trettante famiglie. Che
cosa è, e di che cosa è composto, e quanto tempo è por duiare ij
cesto che fa impres- sione ora sul mio senso; di che virtù s’ ha da
far uso con esso, per esem- pio, della mansuetudine, della for-
tezza, della veracità, della fede, della semplicità, della frugalità, o
simili. Però, intorno a ciascuna cosa, con- vien dire : questa mi
viene da Dio ; questa dalla sorte, dalla complica- zione delle
cause condestinate, e so- miglianti cose; quest’ altra dal mio
consorto, dal mio congiunto, dal partecipe d’ una stessa società
con me, il quale ignora nondimenò ciò che è secondo natura per lui.
Ma 10 non lo ignoro ; e però mi governo con lui secondo la
legge naturale della società, con benevolenza e giu- stizia; e ad
uno stesso tempo ho riguardo, nelle cose mezzane,' al valore di
ciascheduna. Se tu operi secondo la retta ragione quel che hai fra
mano, stu- diosamente, c vigorosamente, placi- damente, e non t’
occupi d’ altra cosa tra via, ma conservi puro ed intatto 11
genio tuo, come se tu dovessi già rassegnarlo ; * se a lui ti tieni
stret- Si chiamai! còse mezzane appo gli stoici quelle che non sono
nè ben nè male, cioè nè virtù nè vizio. Le quali, comecché da per
sè non meritino d' esser cercato nè fug- gite, si accettano nondimeno o
si rigettano per r aiuto o disainto che elle possono ar- recare
alla vita secondo natura. Quelle che arrecan più aiuto, han più valore:
quelle che più disainto, più disvalore. Di questò ha da tener conto
il savio, ed accettare, quando gli è data la scelga, quelle che han
più valore, o che han meno disvalore. 0. ^ Sottintendi « a chi tol
diede. » to, nulla aspettando, da nulla rifug- gendo, contentandoti dell’
azion tua presente secondo natura e della eroi- ca verità d’ ogni
cosa che tu dica: felicemente vivrai. Ora non v’ ha nessuno' che ti
possa questo impedire. Come i medici han pronti sem- pre i loro
ferri e strumenti per le cure inopinate, così abbi tu alla mano i
principi! * per la cognizione delle cose divine ed umane; e non far
nulla mai, per poco che sia, senza ricordarti del legame che unisce
queste con quelle. Perchè nulla di umano farai tu bene se non lo
ri- ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando;
per- chè non sei per rileggere oramai nè i tuoi ricordi, hè le
azioni degli an- tichi romani e greci, nè gli estratti *
Punti fondamentali di credenza, cre- denze prime, dommi : decreta .appo
Cicerone. d’ autori che riserbavi per la vec- chiaia. Studiati dunque d’
arrivare al fine, e poste da banda le spe- ranze vane, soccorri a
te stesso, se pur ti cale di te, mentre che il puoi. 15. Non
sanno * quanti significati abbiano le parole rubare, seminare, comperare,
riposare, veder quel che sia da fare, il che non si reca ad effetto
con gli occhi, ma con un’al- tra sorta di vista. Corpo, anima, mente
; del corpo son le sensazioni, deh’ anima le ap- petizioni, della
mente le credenze.^ Ricevere impressioni nella fantasia è cosa
anche da giumento; esser mosso da appetiti è cosa anche da fiera,
anche da androgino, anche da Falaride, anche da Nerone; avere per
iscorta la mente a quello che ci pare nostro ufficio,* è cosa anche
Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi,
decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’
abbiano Dei, da chi abbandona la patria, da chi fa, quando ha
chiuso le porte, ogni opera nefanda. Se adunque tutte queste cose
abbiam comuni cogli anzidetti, resta che sia proprio dell’ uomo dabbene
lo amare ed ab- bracciare gli accidenti ad esso con- destinati e
guardarsi dal macchiare e turbare con immaginazioni sconce il genio
che risiede nel petto di lui, ma conservarlo propizio, seguendolo
modestamente* come un Iddio, non dicendo mai nulla che sia contro
al vero, nè dicendo *mai nulla che sia contro al giusto. Che se
nissuno ttro interene. Questo è il significato gene- rale
della parola ufficio appo gli stoici. Solo allor quando le si aggingne
l'epiteto di perfetto denota essa il dovere^ che è come V intereae
iublime dell' uomo. Noto questo perchè alcuni degli interpreti, e per
ultimo anche il Corai, hanno maravigliosamente scompaginato - e
interpolato questo passo; frantendendolo. Diog. Laerz.; Stobeo ;
Cic. de Officiùt otc. 0. degli uomini non gli vuol
credere eh’ egli viva con semplicità, con ve- recondia, e di buon
animo ; nè s’adira egli contro costoro, nè si svia dalla strada che
conduce al fine della yita. al quale si vuol giunger puro, tran-
quillo, spedito, e conformato di vo- lontà col proprio destino. La
parte che dentro di noi re- gna,* quando è nel suo stato natu-
rale, ha tal disposizione verso gli accidenti, che senza difficoltà si
ri- volge sempre al possibile e al dato. Perch’ella non ama nessuna
mate- ria determinata ; ma si porta con eccezione* a quello che si
ha pro- posto, e quando alcun che se le viene ad attraversare per
via, ella si fa di quello stesso materia ; come il fuoco, quando s’
impadronisce delle [La parte sovrana o dominante. [Eccezione
: vocabolo stoico. Indica limi- tazione del proponimento al possibile.
Farò la tal cosa, se non sarò impedito. cose die incontra, dalle quali
una picciola lampana sarebbe spenta ; ma lo splendido fuoco
assimila a sè tosto ogni cosa che se gli butti dentro, e la consuma,
e per quella stessa s’innalza più in su. [Nessuna azione sia fatta
a caso mai, nè altrimente che secondo una delle regole costitutive
dell’arte.* 3. Van cercando ritiri, alla campa- gna, alla
marina, sui monti; e tu stesso suoli desiderare siffatti luoghi. Ma
cotesto è da uomo ignorantissi- mo, potendo tu, a quell’ ora che tu
vuoi, ritirairti in te stesso. Perchè * Ad ogni caso della vita
corrispondo una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11, e più abbasso,
IX, 11, 42): ed ogni virtù è appo gli stoici nna scienza nello
stesso tempo ed un’ arte: parlo delle virtù pro- priamente dette.
Come scienza quindi e come arte consta di certo proposizioni o re-
gole, ciascuna delle quali è parte integrante di quella, e tutto
insieme" la costituiscono. Ogni ufficio consta di corti nu meri.
0. inroRDi.
«4 in nessuno altro luogo si ritira l’uomo con più
tranquillità e con meno brighe che nell’ anima sua ; massi- mamente
chi ci ha dentro tanto alti oggetti di contemplazione che il solo
affacciarsi a loro procaccia tosto ogni sorta di agevolezza. Quan-
do dico agevolezza, non voglio dir altro che buon ordine. Concedi
adun- que sovente a te questo ritiro e rin- novella quivi te
stesso. Breve sia r espressione ed elementare la forma di quelle
verità contemplative che avran forza di rasserenare al primo
incontro V anima tua c. rimandarti senza corruccio alle cose alle
quali ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'- rucci? Della malizia
degli uomini? Rammentati di quella sentenza, che gli esseri
ragionevoli son fatti gli uni per gli altri; che il sofferire è
parte della giustizia; che malgrado loro peccano ; che tanti si son
già inimi- cati, sospettati, odiati, ^perseguitatisi a morte,
i quali ora sono spenti, son fatti cenere; e te ne darai pace. 0 ti
crucci tu di quella parte che a te Vien compartita dell’ universale
de- stino? Rinnovella il dilemma. 0 è la provvidenza o son gli
atomi,' op- pure gli argomenti con che s’ è di- mostrato che il
mondo è come una città. Ma forse tu ti contristi delle affezioni
del corpo? Pensa che non han più nulla che fare con la mente i moti
o sieno soavi o sieno aspri del senso, ogni volta che questa s’ è .
raccolta in sè medesima ed ha cono- sciuto la sua propria potenza; al
che potrai aggiugnere quelle altre cose che intorno al piacere e al
dolore hai apparato ed accettato per vere. 0 sarà forse T
amor di gloria quello che ti turba? Considera come è ratto [Si
allude al sistema atomistico d’Epicuro, il quale nega la previdenza, e
attribuisce il mondo e tutti i fenomeni del mondo ad una causa non
intelligente.. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal - runa parte e dall’
altra* il caos della età, vana cosa il rumore, mutabile, e
inconsiderato chi in apparenza ti‘ esalta, angusto il luogo dove è
cir- coscritto il suo dire. Perchè tutta la t.erra' è un punto: e
qual parte di essa è l’angoletto che tu abiti? e quivi ancora quanti
avrai lodatori, e quali? D’or innanzi adunque sovvengati di ritirarti in
questa tua vil- letta di te medesimo; e sopra tutto, non. t'
affannare, non t’agitare, ma sii libero e vedi le cose da uomo, da
‘ maschio, da cittadino, da mortale. Ed abbi in pronto, fra le
verità alle quali dovrai far ricprso, queste due principalmente. L’una,
che le cose non arrivano sino all’anima, anzi stanno al di fuori
immobili e i turbamenti nascono
dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice la
scuola], che è dentro. L’ altra, che quanto tu vedi già già si muta e
più non è quel desso ; e rivolgi in mente ciascuna delle mutazioni
alle quali tu stesso sei inten'enuto. Il mondo, alterazione. La
vita, opinione. Se la intelligenza ci è comune a tutti, anche la
ragione per cui siam ragionevoli ci è comune; se cotesto è, anche
la ragione impera- tiva di ciò che si dee fare o non fare ci è
comune; adunque anche la legge ò comune; aifunque siam concittadini ;
adunque partecipiamo tutti ad una specie di reggimento civile ;
adunque il mondo è come una città. Perchè qual altro direm noi che
sia quel reggimento civile di cui tutto il genere umano partecipa?
Di colà, da quella città comune, viene a noi r intelligenza, la
ragione, la legge, o d’ onde verrebbon esse? Perchè, siccome quanto
v’ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa parte; e
quanto v’ ha in me d’umido, da un altro elemento; e quanto v’ha di
caldo e d’ igneo, da una certa sorgente propria (nulla venendo mai
dal nulla nè ritornando nel nulla); così anche la intelligenza dee
venire da qualche cosa. La morte è come la nascita, un mistero
della natura; composizione e risoluzione di certi elementi in
quegli elementi medesimi. Ad ogni modo non è cosa di che 1’ uomo
debba arrossire ; perchè non è cosa che repugni alla natura dell’
animale intellettivo o disconsegua* al prin- cipio della formazione
di quello. 6. Tali cose debbono di necessità farsi in tal
modo da questi tali; chi le vuole altrimente, vuole che il fico non
abbia lattificcio. Del tutto, sov- vengati che in brevissimo tempo
e [Intendi: ripugni, non aia conforme. !'• tu e costui
sarete morti: e che, poco dopo, non rimarrà più di voi nè an- che
il nome. Togli via r opinione, ed è tolto via il « sono stato offeso
: » togli via il « sono stato offeso, » ed è tolta via r
offesa. Quello che non fa peggiore l’ uo- mo non fa nè anche
peggiore la vita di lui, nè le nuoce, nè esternamente nè
internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la natura a far cotesto. Siccome
ogni cosa che accade, giustamente accade; il che, se tu osserverai
con attenzione, troverai [Comune. Più letteralmente: « È
necessitata la na- tura deir utile a far cotesto.» La natura deir
utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa
sostanzialmente in questo luogo la voce natura), il quale
evolvendosi, come ragion seminale, succes- sivamente nel tempo, fa che
ogni cosa sia bene. Perchè non conviene dimenticar mai che, appo
gli stoici, l'utile non è altro che il bene. Digilized by sempre vero:
non solamente, dico, secondo l’ ordine di conseguenza, ma ancora
secondo 1’ ordine di giustizia; come se le cose procedessero da
tale che distribuisse a ciascuno secondo il merito. Osserva
adunque, come hai cominciato ; ed ogni cosa che tu fai, falla con
questa condizione, che tu sia uom dabbene, nel vero signifi- cato
della parola dabbene. Questo carattere conserva in ogni tua azione. Non
concepir le cose quali le giudica colui che fa ingiuria, o quali
egli vuole che tu le giudichi; ma vedile quali sono in realtà. Conviene
esser sempre pronto a queste due cose ; fai' solamente quello che
la ragion dell’ arte regia e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-
lità degli uomini ; e cangiar partito, quando altri viene a raddrizzarti
e rimuoverti da una qualche falsa opi- nione. Ma questo cangiamento
dee farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia,
o d’ utilità comune, o somigliante ; e non mai perchè la cosa ti
piaccia o sia per arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che
dunque non 1’ adoperi? Perchè, se essa fa quanto le spetta, che ti
resta a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte ; disparirai dentro al
tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella ragion seminale di
lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno stesso
altare: l’uno è caduto prima e l’altro dopo. È lo stesso. 16.
Tra dieci giorni parrai un Dio a coloro, ai quali pari ora una
bestia e una scimmia, se fai ritorno ai prin- cipii e al culto
della ragione. Non come se tu avessi a vi- vere molte migliaia d’
anni. La morte ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è dato, fa’ che
tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera chi non bada a quello
che ha detto il vi- cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo a
quello eh’ egli stesso fa, affinchè r opera sua sia giusta, e santa,
e qual si richiede dall’ uomo dabbene ! Non andar guatando
attorno i neri costumi, ma corrér diritto in sulla linea senza
volgersi a destra nè a manca. Chi vive abbagliato dal pensiero di
lasciar fama dopo morte, non considera come ciascun di quelli che
si ricordano di lui morrà tosto aneli’ egli, e poi ancora chi sarà
a costui succeduto, sinattantochè, pas- sando da abbagliato in
abbagliato e da morente in morente, venga a spegnersi affatto ogni
memoria. Ma sup- poni anche immortale chi s’ ha a ri- cordare di
te, ed immortale la fama ; che fa egli a te cotesto? E non
dico. a te quando sarai morto, ma a te mentre sei vivo: che è
la lode, se on forse talora un mezzo per una qualche dispensazione?
Lascia stare ora, che sarebbe inopportuna, la considerazione dello essere
secondo natura o no e cosa quindi che non ha pregio se non per rispetto
d’ una qualche altra. Tutto che è bello, qual che egli sia, è bello
da per sè, ha il termine della sua bellezza dentro di sè, nè annovera tra
le sue parti la lode, e lodato, non diventa nè peg- giore, nè
migliore. Dico, anche i belli volgari, le cose belle per materia o
per lavoro artificioso (perchè, in quanto al bello per essenza, ha egli
mai bisogno di lode alcuna? No, niente più che la legge, niente più
che la verità, niente più che la be- nevolenza o la verecondia). Quale
di esse è bella per venir lodata o perde per venir biasimata? Lo
smeraldo diventa egli peggiore, se non si loda? E l’oro, l’avorio,
la poi^pora, una cetra, una spada; un fiorellino, un arboscello? Se le anime sussistono dopo morte, come
può, dalla eternità in qua, contenerle in sè l’aria? E come
contiene la terra i corpi che da tanti secoli vi sono seppelliti?
Perchè nell’ istesso modo che questi, dopo essersi conservati alcun
tratto di tempo, col mutarsi di poi e col dis- solversi dan luogo
ad altri cadaveri : cosi le anime che passano nell’ aria,
soffermatevisi un certo tempo, si mu- tano si struggono e accendono, e
ve- nendo accolte nella ragion seminale dell’universo, fan luogo
alle altre che lor vengono appresso. Questo si può rispondere nella
ipotesi che le anime sussistono dopo morte. E convien recarsi a
mente il numero non solo dei corpi seppelliti a questo modo, ma
anche di quelli che ogni di e da noi e dagli altri animali si mangiano. Perchè
quanti se ne consuma egli e se ne seppellisce, per così dire, nei corpi
di coloro che se ne cibano! E pur nondimeno li cape uno stesso
luogo, pel convertirsi, eh’ essi fanno, in sangue, pel trasmutarsi loro
in aria od in fuoco. Come giugnere, intorno a ciò, alla
cognizione del vero? Col distinguere in materia ed in causa. Non isviarti
; ma fa’ sì che ogni atto della tua volontà rappresenti il giusto e
che ogni tuo giudizio serbi il carattere di comprensivo. Tutto a me
conviene quel che a te conviene, o mondo. Non è im- matura per me
nè tardiva nessuna cosa che sia opportuna per te. Tutto è frutto
per me quel che portano le tue stagioni, o natura. Da te viene. 0il
tutto, in te è il tutto, a te ritorna il tutto. — Queir altro dice: 0
amica città di Cecrope! ‘ e tu non dirai : 0 amica città di
Giove? Fa’ poche cose » dice colui, se vuoi viver contento. Non era meglio
il dire, fa’ le cose che son necessarie, quelle che vuol la ragione d’un
animai socievole, e a quel modo ch’ella le vuole? Cosi acquisterai
la contentezza non solo che nasce dal far bene le cose, ma quella
ancora dell’ averne a far poche. Perchè, se dalle cose che diciamo
e facciamo lu tronchi via le non necessarie, che sono il maggior
numero, assai più agio ti rimarrà ed assai brighe avrai meno.
Quindi, ad ogni cosa che sei per fare, domanderai a te stesso: Non
è questa una di quelle che non [Aristofane, nella commedia de' contadini
[DEMOCRITO, in un frammento conservatoci dallo Stobeo] sono necessarie? E
conviene troncar via, non solo le azioni che non son necessarie, ma anche
i pensieri ; perchè in questo modo non avrai nè anche più* a temere
che azioni so- verchie li seguano. Fa’ un po’ il saggio
dei come ti riesce la vita dell’ uomo dab- bene, dell’ uomo che
accetta con pia- cere ogni cosa che gli venga com- partita dal
tutto ed a cui basta che r azion sua propria sia giusta e la
disposizione dell’ animo suo bene- vola. Hai tu veduto quelle cose?
Vedi anco queste. Non turbar te medesimo. Fa’ che tu sia semplice.
Pecca egli, un tale? A sè medesimo pecca. T’ è accaduto qualche
cosa? Bene sta; ab eterno era stato destinato per te, destinato
insieme con te, tutto ciò che ti accade. Al postutto, breve è la
vita: conviene far guadagno del [seguendo la ragione ed il
giusto] Sii in te anche quando ti ricrei. il mondo o è ordinato da
una mente, o è un accozzamento fortuito di cose, venute d’ ogni
parte, sì, ma non di meno ordinate. 0 credi tu che possa avervi un
cotal ordine in te e che nell’ universo alberghi il disordine?
massimamente quando ci vedi, le cose cosi distinte le une dal- r
altre, così mescolate le une con r altre e cosi intimamente
collegate tutte insieme col vincolo di reciproca dipendenza?
28. Neri costumi, eiremminati co- stumi, costumi duri, brutali,
pecorini, puerili, infingardi, falsi, buffo- neschi, taverneschi,
tirannéschi. 29. Se è uno estraneo nel mondo chi non sa che
cosa c’ è nel mondo, non è meno un estraneo chi non sa che cosa vi
si fa; un fuoruscito chi esce fuori della ragion civile ; un cieco
chi chiude gli occhi della men- te ; un mendico chi abbisogna d’
al- trui e non ha in sè quanto gli fa d’uopo alla vita: un
apostema' del mondo chi si separa é allontana dalla ragione della
natura comune, avendo a male ciò che accade; perchè quella te lo
arreca la quale arrecò te* me- desimo ancora; una smozzicatura di
città chi distacca la propria anima dall’ anima comune degli esseri in-
telligenti, che è una. Chi filosofa senza tunica, e chi senza libro.
Quest’altro, mezzo ignudo. Non ho pane, die’ egli, e pure sto fermo nella
ragione. Ed io non ho il cibo della dottrina, e pur ci sto fermo
anch’io. Ama l’arte che hai apparato; in essa ti acqueta ; e vivi il
rimanente della tua vita come quegli che ha accomandato le cose sue
con tutta l’anima agli Dei, e che di nessun uomo non vuol essere ne
tiranno nè servo. Figurati, per esempio, i tempi di
Vespasiano; vedrai le stesse cose che adesso: uomini che
s'accasano, che educan figli, che s’ammalano, che muoiono, che fan
guerra, che fan festa, che mercatano, che coltivan la terra, che
adulano, che presumon di sè, che sospettano, che tendono insi- die,
che desideran la morte di alcuno, che mormorano del presente , che
fanno all’amore, che ammassan te- sori, che voglion diventar
consoli, diventar principi. Or tutta quell età è sparita. Passa ai
tempi di Traiano] le stesse cose di nuovo. Quella età è spenta anch’
essa. Considera nello stesso modo le altre generazioni d’ uo- mini
e le nazioni tutte intere, e vedi quanti si travagliarono e
straziarono per morir poi poco stante e risol- versi negli elementi.
Massimamente ricorderai coloro i quali hai veduto a’ tuoi di
aiTaticarsi per cose da nulla e trascurare quello per che eran
nati, dove era da attendere a questo uni- camente e non cercare
altra cosa. Qui è pur necessario il rammen- tarti che a
ciascuna azione corri- sponde un certo valore e un grado di
applicazione proporzionato.* Per- chè allora solamente eviterai il
rin- crescimento e la noia, quando non ti occuperai più di quel che
conven- ga, nelle cose da poco. 33. Le voci che altre volte
erano in uso, or sono antiquate; così an- [Termine stoico. Un
grado di applicazione (dovutale per parte deir uomo) proporzionato al
valore, cioè air importanza di essa. E vuol dire che dobbiamo
attendere e applicarci a ciascuna azione secondo il valore o l'
importanza di essa azione, cioè molto a quelle che hanuo un gran
valore, e meno a quelle che ne hanno un minore; e fra due di valore
ineguale, attendere piuttosto alla più importante, che alla meno
importante. che i nomi di coloro che una volta furon celebri, or sono, per
cosi dire, antiquati; Cammillo, Cesene, Voleso, Leonnato ; e poco
dopo, Scipione, Catone ; poscia Augusto, poscia Adriano c Antonino.
Incerti e favolosi presto diventano; presto ancora son sepolti
nell’ oblio universale. Parlo di co- loro che in un qualche modo
furon chiari e ammirati ; perchè, quanto agli altri, appena han
reso l’ ultimo soffio. «Nessun ne parla più, nessun ne chiede. Ma
che è ella poi, alla fin fine, la. eternità del nome? Vanità pura. Che
è dunque quello a cui dobbiamo seriamente badare? Questo solo : che
le_ nostre intenzioni sien giuste; le azioni, utili alla so- cietà;
le parole, non mai menzogne- re; e r animo, disposto ad accettare
tutto che accade, siccome cosa ne- cessaria, siccome cosa amica,
sicco- me cosa derivante dallo stesso prin- cipio e dallo stesso
fonte che noi. Volontario i’ abbandona nelle mani del Fato,
lasciando eh’ egli ti destini a quelle cose eh’ ei vuole. E il
ricordante e il ricordato, ambidue han la vita d’ un giorno. Osserva
di continuo coipe ogni cosa nasce per via di mutazione ; ed
avvezzati a pensare che nulla ama tanto la natura dell’universo,
quanto di mutar le cose che esistono e farne dell’ altre simili.
Perchè ogni cosa che esiste è seme, in un certo modo, di quella che
per essa esisterà. Ma tu ti immagini come semi quelli so- lamente
che si gittano nella terra 0 nell’utero. Cotesto è da uomo rozzo assai. Or
ora moirai, e non sei giunto per anche ad esser semplice, nè im-
perturbato, nè senza sospetto che le cose esterne ti possano nuocere,
nè sereno inverso tutti, nè a riporre la prudenza nel solo operar
con giu- stizia, Guarda alle menti di costoro, e
dei prudenti fra loro; quali cose fuggono, e quali cercano!
39. Nella mente d’ un altro non istà il tuo male; nè tampoco in un
i qualche cambiamento o alterazione di quello che ti circonda.
Dove sta egli adunque? In quella
parte di te, che giudica intorno ai mali. Quella parte adunque non
giudichi, e tutto andrà bene. Ancorché la cosa a lei più vicina, io
voglio dire il corpo, sia tagliata, sia abbruciata, marcisca,
infracidisca, stiasi nondimeno quieta la pjirte che giudica di siffatti
acci- denti; cioè giudichi non esser nè j male nè bene ciò che può
accadere ! ugualmente al tristo ed al buono. Perchè quello che
accade ugual- ^ mente e a chi vive contro natura e a chi vive
secondo quella, non è cosa nè secondo natura nè contro. Avvezzati a
considerare il mon- do come un animale unico, avente un corpo unico
ed un’ anima unica ; e come ad un senso unico, che è il senso di
lui, ogni cosa risponda; come con un impulso unico - ogni cosa
operi ; come ogni cosa concorra alla produzione d’ogni cosa; e qual
sia la connessione e il concatena- mento di tutte. Sei una
animuccia che porta un cadavero, come diceva Epitteto. Non è punto
un male il venire a mutazione, come non è punto un bene l’esser nato da
mutazione. L’età è come un fiume di cose che accadono, e una
corrente rovi- nosa; ' appena vedi 1’ una, ed è già passata ed un’
altra passa, ed un’al- tra passerà. Tutto quel che accade è
cosa tanto solita e tanto familiare quanto le rose nella primavera
e le frutta [Intendi rapidissima e non cagione di rovine , il che
sarebbe nn disordine nel mondo, che è 1' ordine per eccellenza. sa
nella state ; nè son da riguardare altramente la malattia, la’
morte, le calunnie, le insidie, e tutto quello che allegra o
attrista gli sciocchi. Nella successione dei casi, quelli che
seguitano han sempre re- lazione di parentela con quelli ché li han
preceduti. Perchè non è già quivi come un novero di cose indi-
pendenti r una dall' altra, cui la sola necessità * insieme costringa,
ma sibbene una connessione ragionevo- le ; e come negli enti si ravvisa
una coordinazione armonica degli uni con gli altri, cosi negli
accidenti si manifesta, non già semplicemente la successione, ma un
certo modo di parentela mai'aviglioso. 4C. Abbi a mente
ognora il detto di Eraclito ; che la morte della terra è il
diventar acqua, la morte del- r acqua è il diventare aria, la morte
I Intendi «necessità esterna.» dell’ aria il diventar fuoco e viceversa.*
Ricordati ancora di colui che non sa dove inette la via;* e sicco-
me la ragione con la quale gli uo- mini conversano il più assiduamente,
e che governa ogni cosa, è quella per r appunto con che essi non
van d’ accordo ; e le cose in che s’ imbat- tono ogni dì, son
quelle che ad essi paiono più strane. E siccome non conviene fare
nè dire a guisa di dormienti; perchè anche dormendo ci par di fare e di
dire; nè come fan- ciulli che van dietro ai lor padri, cioè
nudamente e semplicemente a quel modo che abbiamo appreso.
47. Come se un Dio ti avesse detto che domani sarai morto, o
posdomani [Pasfio famoso di ERACLITO, rammentato da Diog. Laorzio,
Plutarco, Massimo Tirio, Clem. Aless. Filone, ecc., allegati tutti
dal Gataker a questo luogo]. Anche questo, come i seguenti, pare un
detto di ERACLITO. Vi fa allusione, credo, al più, tu non ti
cureresti gran fatto dell’ avere a morire posdomani piut- tosto che
domani, ove tu non sia il più codardo degli uomini; perchè, quanto
sarebbe il divario? così non ti paia nè anche gran fatto l’avere a
morire piuttosto in capo a molte diecine d’anni che domani.
48. Pensa di continuo quanti me- dici son morti, che sovente in
su gli ammalati le ciglia aggrottarono ; quanti astrologi, che la
morte altrui, come un gran caso, predissero; quan- ti filosofi, che
intorno alla morte o alla immortalità migliaia di discorsi fecero ;
quanti prodi, che molti am- mazzarono; quanti tiranni, che con
orribil ferocia, quasi non avessero essi mai a morire, la podestà in
sulle vite esercitarono; quante città tutte intere, per dir così,
son morte. Elice, Pompei, Ercolano, altre senza fine. Rammemora ancora
quanti hai conosciuto, l’ un dopo V altro : questi fece a colui la
sepoltura, e poi morì egli, e queir altro la fece a lui; tutto ciò
in breve. La somma è, che le cose umane son da riguardare come di
nessuna durata nè pregio; un po’ di moccio, ieri ; mummia o ceneri,
doma- ni. E quindi, questo attimo presente di tempo, si vuol
passarlo conforme la natura richiede, e finirsela in pace; come
oliva matura che cada, benedicendo la terra che la portò, e
ringraziando l’ albero da cui fu ge- nerata. 49. Sii simile
ad un promontorio, contro al quale incessantemente s’in- frangono fonde,
e quegli sta saldo, e s’abbonacciano intorno a lui i gorgogli dell’
acque. Sventurato me, che la tal cosa ra’ è accaduta. Anzi, avventurato,
che, la tal cosa essendomi accaduta, me ne sto nondimeno senza
cruccio, nè ango- sciato del presente nè pauroso del- f avvenire.
Ad ogni altro poteva accadere ; ma ogni altro non l’avria senza angoscia
sopportata. Perchè adunque sarà quello una sventura piuttosto che
questo una ventura.* E poi, chiami tu. sventura per l’ uo- mo
quello che non defrauda punto la natura dell’uomo? E ti par egli
che defraudi la natura dell’ uomo quello che non va contro al
volere di quella? E che? il volere della natura tu il sai; forse
che questo accidente ti impedirà dall’ esser giu- sto, magnanimo,
temperante, pru- dente, cauto, veritiero, verecondo, libero,
fornito, in somma, di tutte quelle doti che. unite insieme appagano e
soddisfano intieramente la natura dell’ uomo. Sovvengati adun- que,
ogni volta che una qualche cosa ti contristerà, di ricoiTere a
1 Cioè a dire: c perchè chiameresti dun- que sventura V esserti
accaduta la tal cosa, piuttosto che chiamare avventura felice r
aver tu saputo sopportarla con impertur- bata costanza? » questo
pensiero: che non solamen- te essa non è sventura, ma anzi il
sopportarla da forte. è una buona ventura. Volgare aiuto, sì, ma
nondi- meno efficace per disprezzar la morte è il rimembrar coloro
che durarono lentamente vivendo sino all’ età più decrepita. Che
hanno essi ora di più che gli spenti di morte immatura? Kcco, son
buttati là in un qualche canto essi pure e Cadiciano e Fabio e Giuliano
e Lepido e quanti altri ve n’ebbe di cotal fatta, i quali accompagnarono
molti alla tomba, e poi ci furono accompagnati essi alla fine.
Breve, ad ogni modo, è l’in- tervallo che l’uom vive, e questo
breve, tra quali cose, con quali uo- mini, in qual corpicciuolo
conviene stentarlo! Non farne adunque gran caso. Vedi, dietro a te,
una eternità senza fondo, e un’altra eternità in- nanzi a te :
posto così in mezzo, che divario fai tu ,da una vita di tre giorni
ad una di tre secoli? Fa’ che tu vada sempre per la più corta via.
E la più corta via è la via secondo natura. Seguirai quin- di, in
ogni cosa che tu abbia da fare o da dire, il più sano partito. Que-
sto proponimento ti libera dai tra- vagli, dai combattimenti interni,
e da ogni sorta di dispensazioni* e d’astuzie. Al mattino,
quando con difficoltà ti svegli, abbi in pronto questo pen- siero:
Mi sveglio all’ufficio d’uomo; come adunque m’ incresce, s’ io vo a
far quello per che son nato e in grazia di che sono stato messo al
mondo? 0 sono io stato fbrmato forse per riscaldarmi giacendo in
sul letto? Ma quest© mi dà più gusto. Per pigliarti gusto adunque
sei nato? e non anzi per operare? per essere attivo? Non vedi le
pian- te, le passere, le formiche, i ragni, [Intendi: cO il
fine a cui nacqui è for- se di giacermi a godere questo tepore del
letto?» le pecchie, far
ciascheduna l’ ufficio suo, concorrer, ciascheduna all’ordi-
namento di quel mondo che le è proprio? E tu non vuoi-far
l’ufficio d’uomo? Non intendi a quello che è secondo natura per te? Ma è necessario poi anche il riposo. È
necessario, è vero; ma la natura vi ha posto un limite ; ve n’ ha
posto anche al mangiare ed al bere; e tu nondimeno varchi quei
limiti, vai al di là del bisogno; quando si tratta di fare, poi, la
è un’altra cosa, tu stai sempre al di qua del possibile. Gli è perchè tu
non ami te .stesso. Se tu amassi te stesso, ame- resti anche* la
natura tua, e la vo- lontà di lei.* Gli artisti, che amano l’arte
loro, si consumano in sui la- vori di quella, dimenticando il ba-
gno ed il cibo : ma tu, fai men caso della tua natura che il tornitore
del [Intendi agire, operare, essere attivo, e non infingardo] torniare,
che il ballerino del ballare, che r avaro della moneta, che il va-
nitoso della gloriuzza. Quando la passione ha preso. piede in
costoro, lascian piuttosto di mangiare e di bere che di attendere
ad avanzare la cosa a che son portati. E a te, le azioni sociali
paiono esse cosa di men pregio, cosa men degna di applicazione?
Come è facile il respingere e il cancellare ogni immaginazione
turbolenta o disconvenevole, e tro- varsi tosto in piena calma! Reputa
degna di te ogni parola ed azione che sia secondo natura; e non ti
persuada il biasimo od il garrire che ne seguirà di taluni ; ma, se
è onesto il farla o il dirla, credi eh’ ella è anche cosa da te.
Perchè quei tali hanno una mente lor pro- pria per guida, ed
operano per una lor propria volontà; alle quali tu non badare, ma
va’ innanzi per la diritta, seguendo la natura comune e la tua. La
via dell* una e dell’ al- tra è una sola. Vo per la carriera delle
cose secondo natura, sino a tanto che cadendo io trovi requie ;
esalando lo spirito in quello di che ogni giorno respiro; giacendo
su quello di che mio padre raccolse il seme, mia ma- dre il sangue,
la balia il latte; di che da cotanti anni mi pascolo e mi abbevero,
che sopporta me il quale lo calpesto e in tanti e sì vari modi lo
adopro. Non s’ ammirerà la prontezza del tuo ingegno. E sia. Molte
altre [Intendi: «Vo per la via per cui vanno tutte le cose che sono
secondo natura, in- sino a che cadendo io trovi requie; esa- lando
lo spirito in quest' aria che ogni giorno respiro, per essere sepolto in
que- sta terra onde mio padre raccolse il seme dell* esser mio, mia
madre il sangue, la ba- lia il latte; dalla quale da tanti anni io
traggo di che nutrirmi e abbeverarmi, che mi sostiene mentre ora la calco
coi piedi 0 ne uso ed abuso in tanti modi.» P. cose ei sono, delle
quali non puoi dire, la natura non mi ci ha dato disposizione. In
quelle adunque ti esercita, le quali dipendono intera- mente da te
: la sincerità, la gravità, r amore al lavoro, l’ indifferenza al
piacere, la rassegnazione, la fruga- lità, la mansuetudine, la libertà
dello spirito, r incuriosità, la serietà, la generosità. Non vedi
quante cose puoi acquistare, dove certo non ha luogo la scusa dello
esserci disadat- to, e tralasci per colpa tua? 0 è ella forse la
tua mala disposizione natu- rale quella che ti sforza a mormo- rare,
a star neghittoso, a piaggiare, ad accagionare il corpo, a
lusingare, a millantare, a passare per tanti e tanti turbamenti
dell’animo? No, per gli Dei ! Da lungo tempo tu potevi esser libero
da tutto cotesto ; ma solo avevi a cuore, se pur l’avevi, di non
farti scorgere per uno ottuso e di poca penetrativa! E questo [Antonino
ancora si vuol correggere col por mente alle cose, e non istar
sopra pensiero, nè compiacerti nella tua propria
infingardaggine. V’ ha chi, quando ha prestato un rpialclie
servigio ad alcuno, è pronto anche a domandargliene il contracambio. Un
altro non domanda con- traccambio veramente, ma riguarda colui come
suo debitore nel suo se- greto,, e sa quello che lia fatto. Un
terzo poi, non sa, per cosi dire, nè anclie quello che ha fatto, ma so-
miglia ad una vite che ha portato un grappolo, e non cerca nulla
più in là, messo eh’ ella ha fuoià il frutto a lei proprio. Il
cavallo die ha ga- loppato, il cane che lia ormato, l’ape che ha
fatto il miele, e cosi Tuomo 1 Intonili: e questo t/t/'cf/o ancora
si vuol nondimeno correggere, quello cioè dell’ es- sere ottuso e
di poca penetrativa. Il testo in questo luogo, e nelle linee che
precedo- no, è molto ellittico e poco chiaro, e diversamente spiegato
dagli interpreti. che ha prestato un servigio, non Lschiamazza,' ma passa
atl altro, co- me passa la vite a portar di nuovo un grappolo d’
uva nella stagione. S’ha egli adunque ad essere un di coloro che
fanno il bene, per così dire, senza saperlo? Sì Ma convien pure che
1’ uom sappia quello che fa : sendo proprio dell’ animai sociabile il
conoscere ch’egli opera so- cialmente, e, per Giove, il votere che
anche colui, con chi egli ha a fare, lo conosca. Tu di’ il vero: ma
non. pigli pel lor verso lo mie parole; quindi sarai anche tu un di
coloro di che ho fatto menzione quassù. Perchè anche essi son
tratti in errore da una qualche apparenza di ragione. Ma se vorrai
intendere che cosa è quello eh’ io dico, vivi si- curo che non
avrai a lasciare indie- tro nessuna azione sociale per questo. Cioè
non dee schiamazzare, ma passuire ad altro ecc. Preghiera degli
A.teniesi: «Pio- vi, piovi, o amico Giove, sui campi degli Ateniesi
e sui prati. )> 0 non s’ha da pregare, o così alla buona s’ ha da
pregare e con libertà di parole. Come s’ usa di dire, Esculapio ordinò a
colui il cavalcare, o il ba- gnarsi nell’ acqua fredda, o l’andare
a piè nudi, si dice del pari, e con locuzione non diversa, la natura
or- dinò a colui una malattia, una stor- piatura, una perdita, o
altro simile. In quella prima frase, di fatti, la parola « ordinò »
vuol dire assegnò la tal cosa a colui siccome correla- tiva alla
salute; e in questa, i casi che avvengono all’ uomo gli sono as-
segnati, in un certo modo, come correlativi al destino. Così ancora
si dice « i casi (die avvengono a come son dette dagli artefici «
avvenii*si » le pietre quadre nelle mura o nelle piramidi quando
elle s* adattano l’ una air altra secondo un disegno deter- minato.
Perchè del tutto l’armonia è una. E siccome di tutti i corpi presi
insieme è composto il gran corpo del mondo, cosi di tutte le c,ause
prese insieme è composta la gran causa del fato. Intendono ciò eh’
io voglio dire anche i più rozzi, quando dicono : * ella è toccata a
lui. Adunque ella andava a lui, adunque era ordinata per lui.
Riceviamo per- tanto gli ordinamenti della natura come facciamo
quei d’Esculapio. Anche in questi v’ ha molto dell’ amaro, e pur gli
accettiamo di buon grado per la speranza della sanità. Or be- ne, r
adempimento di ciò che la natura ha voluto sia lo stesso per te che
la tua sanità. Accetta di buon grado, per dura che ti paia, ogni
cosa che accade,- pensando che ella conferisce alla sanità del mondo
e [Vale a dire: « itiostrauo di intendere] quando dicono ecc. al buon
successo dei disegni di Giove. Perchè ella non sarebbe venuta a
qualcheduno, se non fosse conve- nuta al tutto: sendo questo il
pro- prio d’ogni natura, e poni anche la più infima, che quanto
ella arreca sia sempre acconcio al governato da iei. Per due
ragioni adunque dèi tu aver caro ciò che accade: Tuna, che questo
accade a te, è ordinato per te, ha attinenza in un certo modo con
te, essendo stato conde- stinato di lassù con te dalla più an- tica
delle cause e dalla più veneran- da; l’altra, che quanto tocca in
sorte a ciascuno, concorre, come causa par- ticolare, alla
prosperità, alla perfe- zione, e, sto per dire, alla perma- nenza
istessa del reggitore del tutto. Perchè diventa mozzo l’intero
quando tu tronchi via un minimo che, sia dalla continuità delle
parti, sia dalla concatenazione delle cause. E tu lo tronchi,- per
quanto sta in te, e lo distruggi, per così dire, quando ti corrucci
di quel di’ è accaduto. Non dèi indispettirti, nè per- derti d’
animo, nè impazientirti teco stesso, se la non ti riesce cosi per
be- ne ogni volta il governarti secondo i retti principii in quello
che tu fai; ma, uscito di via, ritornarci; quando la maggior parte
delle tue azioni sono passabilmente degne d’un uo- mo,
contentartene; ed amare quello a che ritorni ; RITORNANDO ALLA FILOSOFIA,
non come ad un pedagogo, ma come un eh’ abbia mal d’occhi alla
spugna ed all’uovo, un altro al cataplasma o alla doccia. Così non ti
darà più fastidio il dovere ubbidire alla ragione, ma anzi troverai in
quella il riposo. E ricordati che la filosofia vuole quello
solamente -che la tua natura vuole; e che sei tu quegli il quale
volevi altro, che non era secondo natura. Ma pure, che v’ha egli di piii
liisingliiero? E il piacere, non t’ inganna egli appunto perchè è
lusinghiero? Ma vedi se non fossero cosa più lusinghiera la
magnanimità, la libertà, la sempli- cità, la bonarietà, la santità.
Quanto alla prudenza poi, v’ ha egli cosa più lusinghiera di
quella? se tu badi allo andar esente da ogni fallo e all' avere a
seconda ogni cosa, che è il proprio della virtù comprensiva e
intellettiva? Le cose stanno immerse, per cosi dire, dentro a un
buio tanto folto, che a filosofi non pochi, e non dei più volgari,
elle son parate del tutto incomprensibili. E gli stoici essi
medesimi tengono che elle sieno - comprensibili sì, ma
difficilmente: e che ogni nostro assentimento sia mal certo;*
perchè, dove è fuomo [Questa ed altri Inoghi dei Ricordi provano che
gli Stoici dopo Crisippo venivan.<»i facondo sempre più scettici, ed
aveano essi medesimi il sentimento della debolezza scientìfica della loro
scuola. che non si sia mai ricreduto? Prendi quindi a considerare gli og-
getti in sè stessi; come poco dura- no, come poco valgono, come
possono - cader nelle mani d’ un bagascione, d’ una cortigiana, d’
un malandri- no. “- Passa ai costumi degli uomini con chi tu
vivi; il più gentile dei quali appena si può tollerare, per non
dire che appena v’ ha fra loro chi possa tollerar sè medesimo. In
tanta caligine adunque, in tanto lez- zo, in un tal flusso continuo e
della materia e del tempo, e del moto e di quanto è in moto, qual
cosa v’ ab- bia mai che meriti la nostra stima, o anche pur solo la
nostra premura, io noi so immaginare nè vedere. Che anzi ci bisogna
confortar noi medesimi con l’aspettativa della dissoluzion naturale, e
non adirarci dell’indugio, ma acquietarci in que- ste sole due cose
: T una, che nulla mi può accadere che non sia secondo la natura
dell’ universo ; l’ altra, che è in mia potestà il non far nulla
contro il Dio e il Genio mio. Perchè nissuno y’ ha che mi possa
sforzare mai ad offenderlo. il. Che uso fo io ora della
mia anima? cpiesta interrogazione con- vien fare a sè medesimo in
ogni circostanza, ed esaminar sè stesso, che v’ ha egli ora in
quella parte di me la quale è detta sovrana? e che sorta d’ anima è
ella ora la mia? Non è un’ anima di fanciullo? o di gio- vinetto? o
di donnicciuola? di tiran- no? di giumento? di fiera. Quali sieno quelli
die al volgo })aion beni, tu il potrai conoscere anche da questo.
Chi ha preconce- pito nella mente, qual bene, alcuna di quelle cose
che sono un bene davvero, come, per esempio, la prudenza, la temperanza,
la giustizia. la fortezza, non può, sincliè un tal concetto gli
dura, pre^star più orec- chio a chi venga a dire in sulla scena,
«Tanta ho di ben dovizia .... eco. I perchè questo ripugnerà
al bene al (juale egli pensa. Ma chi ha precon- cepito alcun dei
beni volgari, ascol- terà ed accoglierà con piacere sic- come
arrecato a proposito, quello che il comico dice. Così persino il
volgo s’ accorge della differenza. Altrimenti non rigetterebbe nell' un
.de’ casi quel motto, che accoglie poi,’ siccome calzante e faceto,
nell’altro, quando lo vede applicato alle ricchezze o a quelle altre cose
che fo- mentano la effemminatezza o l’am- bizione. Fàtti innanzi
adunque e domanda se si hanno da stimare e [Verso di tm autor
comico, che dovea esser famigerato in sul teatro a quei tem- pi; il
senso del quale, benché Tautore noi citi intero, appare dall' ultime linee
di que- sto paragrafo] da riguardar come beni quelle cose
rispetto alle quali può molto accon- ciamente venir soggiunto, che
al possessor loro, per la soverchia ab- bondanza, non riman più luogo
ove fare i suoi agi. Sono un composto di causa e di materia.
Ora nè questa nè quella non è per ridursi a nulla mai; co- me
neppure non è venuta dal nulla. Adunque ciascuna parte di me di-
venterà per via di mutazione una qiìalche parte del mondo, e quella
poi ancora un’ altra parte del mon- do, e così all’ infinito. Da una
simi- gliante mutazione ho avuto io resi- stenza, e la ebbero i
miei genitori, e così risalendo, sino ad un^altro in- finito;
perchè nulla osta che si fa- velli a questo modo, quand’ anche
vogliamo stabilire che il mondo si regga a periodi determinati.'
1 Allusione alla c conflagrazione del mondo » domma Eraolitico, la
quale doveva accadere. La ragione e V arte ragionativa sono facoltà che
si contentano uni- camente di sè medesime e delle operazioni lor
proprie. Piglian le mosse dal principio peculiare a loro ; vanno
dirittamente al fine proposto; ondechè son nomate catortosi le
azioni di cotal sorta, significando col nome la rettitudine della
via. Non è da dire che sia dell’uo- mo nessuna di quelle cose che
non ispettano all' uomo in quanto uomo. Non sono punto requisiti
dell’uomo, nè le promette la natura dell’ uo- a certi tempi,
e distruggersi allora tutto r ordine esistente delle cose, per dar
luogo ad un nuovo. Fu accettato dagli stoici ante- riori,
modificato e cangiato dai posteriori : tra i quali non volle decider nulla
Antonino. por essere consumato ivi dal fuoco, se T universo va
soggetto a con- flagrazioni periodiche, o per servire con vicenda
perpetua al rinnovamento di lui s'egli dura eterno o incorrotto. Beota
effectio appo Cicerone, lib. Ili de Fin., cui vedi. Ciò che in questo § è
no- mato catortoei è l'aziono conforme al dovere, ed è voce solenne
alla scuola. lYio o attende complemento da quel- le. Adunque non
istà nè anche in loro 11 fine dell’uomo, nè iLbene. per conseguenza,
che è parte integrante del fine. Ancora, se alcuna di queste coso
spettasse all’ uomo, non ispetterebbe a lui il dispregiarle o r
opporsi ad esse ; nè sarebbe lo- devole chi mostrasse non averne
bisogno; nè sarebbe buono chi se ne disdice alcuna, se buone elle
fossero, f^ppure, quanto più Tuoino si priva di queste cotali cose, o
so- stiene d’ esserne privato, tanto più buono è tenuto.'
IG. Quali saranno i tuoi pensieri abituali, tale sarà la tua
mente: perché si tigne dai pensieri la men- te.^ Tignila adunque
con l’ abitudine ' Dunque queste cotali cose non sono veri
beni per l' uomo in quanto è uomo, cioè ragionevole. [Questa conclusione è
sott' intesa]. [Demostene più di una volta nelle sue Filipj iche disse
che quali sono le azioni in (li pensieri come questo, per esempio:
Dove si può vivere, quivi si può anche ben vivere. Nella corte si
può vivere; adunque anclie nella corti; si può ben vivere. K come
quest’ altro: Una cosa eh’ ò fatta a contem- plazione d' un’ altra, è
fatta per qucl- r altra; se è fatta per quell’ altra, a quella ò
portata; se a quella c por- tata, quivi è il suo fine; se quivi è
il suo fine, quivi è anche il suo utile e il suo bene. Adunque il bene
del- r animai ragionevole è la comunità; sendo dimostrato già da
lunga pezza che per la comunità siam nati> O non era evidente
forse, che gli es- seri men degni son fatti a contem- plazione dei
più degni, e i più de- gni, a contemplazione gli uni degli altri?
che gli esseri animati son più degni che gli inanimati, e i ragio-
nevoli più degni che gli animati? cui sogliono versare gli uomini,
tali soglio- no pur essere i sentimenti deU’animo loro, Andar dietro all’
impossibile è cosa da stolto. Ora è impossibile che i malvagi non
facciano cose di questa sorta. Nulla accade a nessuno, che egli non
sia nato per sopportare. Le stesse cose accadono a un altro, il
quale, o ignorando eh’ elle sieiio accadute, o volendo dar a
divedere grandezza d’ animo, sta inaltérabile e non se ne duole.
Tristo a noi, se la ignoranza o il rispetto umano avran più forza
che la prudenza. Le cose, per sè stesse, non toccano l’ anima punto;
nè hanno accesso all’ anima; nè posson volger r anima nè muoverla.
Si volge ella e si muove da per sè sola; e quali sono i giudizi di
che ella si reputa degna, tali ella fa che sieno per lei gli oggetti
che le stan presso. Cioè, quali io le vedo fare a costui, ora. Cioè a
dire: «quali sono i giudizi che Per un riguardo, l’ uomo è
di quelle cose che ci toccano il più strettamente, in quanto
convien far del bene agli uomini e sopportarli; ma in quanto si
oppongono alcuni alle azioni debite, diventa per me cosa
indifferente 1’ uomo, non meno che il sole, non meno che il vento,
non meno che le bestie. Dalle quali cose può benissimo venir
impedita una qualche azione; ma la volontà, ma la disposizione
interna non in- contrano impedimento mai, per l’ ec- cezione ‘ con
che l’anima accompagna i suoi conati e pel rimovere, eh’ ella fa,
l’ostacolo. Perchè l’anima ha facoltà di rivolgere al suo scopo ogni
cosa che s’ opponga alla attività di lei; e serve quindi ad un’ azione
ciò che impediva quella certa azione, e ella stima degno di
sè il fare delle cose esteriori, cotali ella fa che per lei sieno
le dette cose. diventa una via ciò che le sbarrava quella certa
via. Di quanto v’ lia al mondo, onora r eccellentissimo. L’
eccellentissimo ò quello che si vale di tutto il resto e che tutto
il resto governa. E così ancora, di quanto v’ ha in te, onora
l’eccellentissimo. L’eccellentissimo in te è quello che v’ ha in te
di congenere a quel primo. Di fatti esso si vale in te di tutto il
resto, e da esso è governata la tua vita. Quello che non offende la
città, non offende il cittadino. Ad ogni pensiero di offesa che ti
paia aver ricevuto applica questa regola; se la città non è offesa
da costui, non sono offeso nè anche io. Che se la città è offesa,
non conviene adirarsi, ma insegnare ‘ a chi l’ha offesa dove sta il
mancamento. Do il mio pieno voto alla correzione dello Schultz,
preceduto dal Gatakero, ben- ché questi non sapesse così bono porro
al suo luogo le pardo scadute. Considera sovente la rapidità con
die passa e si dilegua tutto quello che esiste e che nasce. Per-
chè la materia, a guisa d’ un fiume, è in un flusso perpetuo; le
azioni, in uno avvicendarsi continuo ; le cause, in mille
determinazioni di- verse; nulla, per cosi dire, che stia; e questo
infinito che presso presso t’incalza, del passato e del futuro, è
un abisso dentro al quale si spro- fonda ogni cosa. Come adunque
non è uno stolto chi, fra questi termini, si gonfia, o si
travaglia, o guaisce, per cosa che minimamente il mo- lesti, come
s’ ella avesse pure a du- rare un buon tratto di tempo? Pensa a
tutta quanta la materia, della quale per una minima parte partecipi; e a
tutta quanta la età, della quale un breve e momen- taneo intervallo
ti è assegnato; e all’ universale destino, del quale che parte
aliquota sei? /Ucuno pecca. A me che fa? Tocca a lui il pensarci;
sua è la volontà, sua 1’ azione. Io ho adesso quel che la natura
comune vuol che adesso io abbia, e fo quello che la natura mia
propria vuol che adesso io faccia. La parte sovrana e dominante
deir anima tua stia salda ai moti della carne, o sien piacevoli o
in- grati, e non vi partecipi, ma circo- scriva sè stessa e tenga
confinate nelle membra quelle passioni. Che se elle penetrano ciò
nondimeno sino alla mente, per la simpatia in- volontaria che han
fra loro le parti d’ uno stesso tutto ; allora, al senso, che è
cosa naturale, non -si vuol tentar di resistere; ma si guardi la
parte sovrana dallo aggiungervi del suo r opinione che quello sia
un bene od un male. Vivere con gli Dei. E que- gli vive con
gli Dei, il quale di con- tinuo appresenta loro T anima sua disposta
di tal maniera che élla si contenti di quanto le vien distribui- to
e faccia quanto vuole il Genio cui Giove distaccò da sè stesso e
diede a lei per reggitore e per guida. Questo è la mente e la ragione
di ciascheduno. T’adiri tu con quello che sa di caprino?
T’adiri tu con quello a cui pute la bocca? Che vuoi tu che ci
faccia? Egli ha la bocca a quel modo, egli ha le ascelle a quel
modo, di necessità debbono uscirne esala- zioni a quel modo. Ma,
odo chi dice, r uomo ha la ragione, e può scorgere, rillettendo, in
che pecca. Egregiamente. E anche tu, dunque, hai la ragione ; eccita, con
la disposi- zione razionale, in lui la disposizione razionale;
ammaestralo; ammonisci- lo. Perchè, s’egli ti ascolta, lo gua-
rirai, e non c’ è più uopo di collera. 28. ' Nè eroe di tragedia,
nè putta. Come fai conto di vivere uscito di qua,^ puoi vivere in quello
stesso modo anche qua. Che se non tei permettono, allora esci pur
anche <lalla vita: ma come quegli a cui non incontra nulla di
male. C’è del fumo qua, io me ne vado. Perchè stimi questo gran
cosa? Ma sin- [Queste parole nella vulgata stanno alla fine
del § precedente; ma, se non sono cor- rotte, debbono essere separate e
formare da por sè sole un paragrafo. 2 Cioè, non camminar sui
trampoli, e non istrascinartì per terra: non tanto alto da parer
gonfio o affettato, non tanto basso da muovere a schifo altrui. Cioè,
dalla corto. Allude, secondo che ci avverte il Gata- kero, al proverbio
:« tre esserle cose che ci caccian fuori dì casa; il fumo, il
pioverci dal tetto, e la moglie astiosa.» Vuol dun- que che r uomo
esca di vita con quella in- differenza con che uscirebbe dalla
camera dove vi avesse fumo. tantoché nulla di somigliante non mi
sforza a partire, me ne rimango libero, e nessuno m’ impedirà dal
fare le cose eh’ io vorrò ; e vorrò se- condo la natura d’un animai ragio-
nevole e sociabile. La mente dell’ universo ama la comunanza.
Perciò ha fatto gli esseri men degni in grazia dei più degni, e i
più degni ha conciliato gli uni con gli altri. Tu vedi come essa gli
ha subordinati, coordinati, dato a cia- scuno secondo il suo grado,
e ridotto a mutuo consenso i primi tra loro. Come ti sei portato
sinora con gli Dei, co’ genitori, coi fratelli, con la moglie, coi
figli, coi maestri, co- gli educatori, con gli amici, coi fa-
migliari, co’ servi; se, riguardo a tutti, puoi dire insino ad ora:
« Nè d’ opre mai nè di parole oltraggio A nullo io fea.*
» ' Omero, Odiss. Kanimenta per quali traversie sei passato e
quali hai avuto la forza di tollerare : e siccome è piena ornai per
te la storia della vita e termi- nato r incarico. Che cosa s’ è potuto
scorgere in te di bello; quanti piaceri e quanti dolori hai dispre-
giato ; quante occasioni di gloria hai negletto ; a quanti sconoscenti ti
sei dimostrato amorevole. Forse tutto il paragrafo sarà più chiaro,
e il pensiero di Antonino meno ambigua- mente espresso se diremo : <
Qual fosti infino ad ora verso gli Iddii, i parenti, i fratelli, la
moglie, i figlinoli, i maestri, gli educatori, gli amici, i servi? Puoi
tu dire, rispetto a tutti: nè d'opra mai, ni di parole oltraggio a
nullo io /«a ? De' passati tuoi casi e delle passate fortune, quante
hai saputo tollerare da uomo? Conchiuso per te oramai è il dramma
della vita, finita la parte che ti era assegnata. Ebbene, quante sono
le buone azioni che di te puoi ric-ordare? Quanti piaceri, quanti
dolori hai saputo disprezzare? quante cose stimate gloriose, * non
curare? a quanti ingrati essere bene- fico e amorevole?» In questo
paragrafo il Pierron ed altri dei migliori interpreti pre- sero
alcuni grossi granchi ; 1' Ornato intese Per qual cagione certe
anime inesperte ed ignare confondono esse una esperimentata e
sapiente? Qual è dunque l’ anima esperimen- tata e sapiente? Quella che
sa il prin- cipio ed il fine, e conosce la ragione che penetra la
materia delle cose e governa, secondo cicli determinati, per tutta
la eternità 1’ universo. Oramai sei cenere, e schele- tro, e un nome,
o nè anco un no- me; e il nome è strepito e rimbombo mero. Le cose
di che si fa gran conto nella vita son vuote, fracide, picciòle,
cagnolini che si mordono, fanciullini astiosi che ridono e poco
stante guaiscono. E la fede, e la ve- recondia, é la giustizia, e la
verità, oc Air Olimpo, la terra abbandonando Dalle vie
spaziose.* » meglio di tutti ; ma troppo fedele alla let-
tera del testo, non fu chiaro abbastanza nello esprimerne il senso. Esiodo,
opere e giorni, v. 195. Sottin- Che dunque ti può trattenere
qui ancora? quando le cose sensibili sono senza costanza nè
sussistenza; gli organi del senso, ottusi- e pronti a
impressionarsi del falso; l’animuc- cfa * tua stessa, non altro che
una esalazione del sangue ; e 1’ aver fama appo cotali, cosa del
tutto vuota. Che dunque aspetti? Con pazienza il tuo qual eh’ ei
sia o spegnimento 0 traslocamento. Ed intanto che quel- lo viene,
che cosa ti basta? Che altro, se non venerar gli Dei e bene- dirli,
beneficar gli uomini e soppor- tarli e astenerti con loro,^
ricordan- doti che quanto è fuor dei limiti del tuo corpicciuolo e
della tua aniinuc- cia non è nè in tuo potere nè tuo? tendi
un verbo, recaronsi o altro che più ti piaccia. P. t Per
antniuccta, intende* spesso Antonino il principio animale mero, comune
anche ai bruti, vedi la nota (6) in fino del volume. Cioè nelle tue
relazioni con loro. Tu puoi prosperar sempre, giacché puoi andar per la
diritta sempre, giacché puoi giudicare di- rittamente sempre ed
operare. Due proprietà son queste, comuni al- l’anima e di Dio ' e
dell’ uomo e d’ogni animai ragionevole: il non potere essere
impedito da altrui, e lo avere il proprio bene interamen- te
riposto nella disposizione interna e nella azione conforme alla giustizia,
senza che il desiderio arrivi più oltre. Comuni all'anima e di Dio e
dell'uomo. Secondo il concetto stoico Iddio ora un corpo o un essere
vivente ed eterno, non simile all' uomo, ma composto tuttavia, come
rnomo. d’anima e di corpo. L’unità del corpo divino coll’anima divina ora
per essi il mondo, e quindi si accordavano a dire che Dio è il
mondo, cioè la materia, dotata di una certa qualità e forma, colla
forza attiva in essa immanente. L'anima di Dio sarebbe dunque questa
forza attiva immanente nel mondo, cioè nel corpo divino. Se cotesto non è
malizia mia, ' nè azione procedente da malizia mia, ' nè
riceve danno la società, perchè me ne do io fastidio? E qual dan-
no per la società v’ ha egli? Non lasciarti portar via dalla immaginazione
al primo incontro; porgi aiuto altrui, sì, a tuo potere e secondo
l’ importanza .del caso, qiiand’ anche lo scapito non sia se non di
cose mezzane ; * ma guardati • dall’ immaginare che sia un danno.
Perchè è una cattiva abitudine. Come quel vecchio che nel partirsi
domandava la trottola del suo allie- vo, sapendo bene che ella era
solo una trottola: così hai da fare anche tu * sui rostri.
L’uomo, hai tu dimenticato che cose son queste? No. Mma costoro ne
fanno gran caso. E per questo hai da diventare stolto anche tu ? ®
Dovunque il colga la morte, uomo avventurato. E avventurato vuol
dire che ha dato buona ventura a sè stesso ; e buona ventura sono i
buoni moti dell’ ani- mo, le buone volontà, le buone azioni. La
materia delle cose è ar- rendevole e piglia volentieri ogni forma.
E la ragione che 1’ ammini- stra non ha in sè nessuna causa di mal
fare, non avendo malizia, e non fa (juindi male a nulla, nè nulla è
dannificato da lei. Ed ogni cosa av- viene ed ha compimento per
essa. Non ti curare che tu stia al freddo o che tu stia al caldo,
quando fai il tuo dovere; che tu caschi di sonno 0 che tu abbia a
sufficienza dormito ; che te ne venga biasimo o che te ne venga
lode ; che tu muoia, o che tu attenda ad un’ altra azione qualunque.
Perchè ella è anche una delle azioni pertinenti alla vita, quella
per cui si muore; e basta anche quivi, per conseguenza, ben
disporre del presente. 3. Vedi addentro; nè la qualità
propria di nessuna cosa nè il valore ti sfugga. Tutti gli oggetti
in brevissimo tempo si mutano; ed o avvampe- ranno, se la materia è
unificata, o si disperderanno. La ragione governatrice sa bene
con qual intenzione e che cosa opera, e su qual materia. Il miglior
modo di vendicarsi d’ una ingiuria è il non rassomigliare a chi r
ha fatta. D’ una sola cosa prendi piacere, è di quella ti soddisfa;
del passare dall’ una azion sociale all’ altra azion sociale,
ricordandoti di Dio. [Intendi per aziono sociale una aziono utile
alla comunità dogli uomini, e qual si conviene ad un animalo socievole
qual è l’uomo. La parte sovrana è quella che eccita e volge sè
medesima; che fa sè quale ella vuole,* e fa parere a sè quali ella
vuole tutte le cose che aw^engono. Secondo la natura dell’ universo
ogni cosa si fa; non potendosi fare secondo una qualche altra natura
la (piale 0 conterrebbe in sè quella, o sarebbe contenuta in
quella, o sta- rebbe separata al di fuori di quella. 0 confusion d’ ogni
cosa, accozzamento d’atomi, e disperdimento; o unità nel tutto, ordine,
prov- videnza. Se- il primo supposto ha luogo, come desidero io di
rimanere [Cioè che ha il potere di modificare sè stessa come ella
vuole. Se contenesse in sè la prima, non sa- rebbe più questa la natura
universale, ma r altra; se fosse contenuta in essa, quel che si
farebbe secondo lei sarebbe fatto, a fortiori, secondo l' altra: e se
stesse sepa- rata al di fuori, ci sarebbe qualche cosa fuori dell*
universo, il che è assurdo. più .a lungo in un guazzabuglio di quella fatta
e lordume? Che altro mi debbe star a cuore che il « diven- tare
terra a qualunque modo? » E di che mi turbo io? Verrà il disperdi-
mento a me, checché io mi faccia. Ma se è vero il secondo, adoro il
reggitore dell’universo, e in lui sto fermo e confido. Quando vieni
sforzato punto punto dalle circostanti cose a tur- barti, rientra
subitamente in te stes- so, e non istar fuori del ritmo ’ pili di
quello che la necessità ti costringa. Perchè ti farai più valente
nella misura col ritornare ad essa di continuo. Se tu avessi la
matrigna e la madre nel tempo istesso, alla prima faresti onore, ma
torneresti pur non- dimeno sempre accanto alla madre. Cotali son
per te la corte e la filosofia [Paragona la vita alla mimica. 0. Ifarco
Aurelio]. Torna sovente alla seconda e in essa ti riposa, la quale fa a
te sopportabil la corte, e te sopportabile in quella. Come ti fai
concetto di tale o tal altra vivanda, dicendo teco stesso: è un
cadavero di pesce, è un cadavero d’ uccello o di porco ; e del
falerno, è succo di grappoletti d’uva; e della porpora, son peluzzi
di pecora intinti nel sangue d’ una conchiglia; e del congiugnimento,
è attrito di membrane ed escrezione di moccio con un po’ di spasmo
; come tu giudichi allora, penetrando col concetto sino alle cose
esse mede- sime e rappresentandole nella es- senza loro quali sono;
così hai da fare in tutte le occorrenze della vita; e quando le
cose ti si fanno innanzi con molta appariscenza, denudarle, e
scorgerne la bassezza, tolto che avrai d' intorno a loro la pompa
onde si fan magnifiche. Imperocché gran madre illusioni è la boria;
e quando tu credi più fermamente eh’ elle sieno serie le cose a cui
attendi, allora sei più affascinato. Vedi che cosa dice Cratete di
Senocrate stesso.’ Le cose che il volgo apprezza sono per la
maggior parte di estremo genere ed infimo, di quelle cioè che dall’
abito (0) o dalla natura son go- vernate : pietre, legni, fichi, viti,
ulivi, (rii uomini un po’men rozzi tengono in pregio quelle che son
governate dall’anima: greggio, per esempio, e mandre. Gli uomini
ancor più còlti, quelle che son governate dall’anima ragionevole;
non tuttavia in quanto è universale, ma in quanto è arti- ficiosa
o, come che sia, ingegnosa. 1 StìTi Socrate tu discepolo di
Platone, e famoso per l’austerità del suo carattere, (guanto al Cratete
qui menzionato, ignorasi se fosse il filosofo Cratete di Atene,
oppure il cinico di Tebe; come ignorasi pariraentn qual fosse il
detto a cui si acceuna in questo luogo. 1 m2 ricordi. V
od anche senza relazione a nulla, ' come il possedere
semplicemente una moltitudine di schiavi.* Quegli poi che fa stima
dell’anima ragione- vole universale e sociale, non si cura delle
altre cose più punto; ma si studia di consolidare in istati ed in
moti conformi alla ragione e volti al bene della società 1’ anima
sua, ed aiuta il suo congenere a far lo stesso. Una cosa s’affretta
a nascere, iin’ altra a venir meno, e di quella stessa che nasce ima
qualche parte è già spenta; il flusso e l’alterazione
ringiovaniscono ad ogni ora il mondo, come lo scorrere non interrotto
del tempo fa sempre nuova 1’ eternità. Tn tal fiumana di cose che
vengono e passano, che v’ ha egli che altri 1 Intendi che
costoro ameranno possedere* nn gran numero di schiavi come i detti
pocanzi ameranno possedere nna mandra numerosa. debba aver caro, quando
,su nulla può' far fondamento? Gli è come se imprendesse ad amare
uno degli uc- celletti che volano, e quegli è già sparito
via. La vita di ciascheduno è non al- trimenti che una
esalazione del san- gue o una respirazione dell’aria. Pei> chè
non v’ lia differenza, che tu tragga • a te l’aria una volta e la renda,
il che tu fai tuttodì, o che tu renda tutta insieme colà d’ onde l’
hai tratta la facoltà respiratrice che ieri o ier l’altro nascendo
acquistavi. 16. Non il traspirare, come le piante, è degno di
stima, non il re- spirare, come i giumenti e le bere, non il.
ricevere impressioni nella fantasia, non Tesser mosso dagli ap-
petiti, non l’adunarsi in branco, non il nutricarsi ; cosa non dissimile
dal mandar fuori il soverchiò del nutri- mento. Che è degno di
stima adun- que? lo strepito? No. K per conseguenza nè anche lo strepito
delle lingue. Ora le acclamazioni del volgo non sono altro che
strepito delle lingue. Anche la gloriuzza hai posto adunque da
banda. Che rimane, che s«i degno di stima? Il muoversi, pare a me,
e il ristarsi * secondo il prin- cipio della propria costituzione,
al che conducono ancora le arti e le culture diverse. Perché ogni
arte ha questo per iscopo, che il formato da lei sia acconcio
alPopra per la quale è formato ; e il vignaiuolo che coltiva la
vite, e il cavallerizzo, e il canat- tiere, cercano pur questo. E le educazioni,
e le scuòle, a che tendono? Questo adunque è il degno di stima. E
se questo vien condotto a bene, non occorre procacciar più altro. —
Non finisci di stimare ancora molte altre cose?* Nè libero adunque
sarai 1 L'operare e il non operare. 0. ^ Cioè, non
cesserai dallo avere in pre- gio molte altre cose? tu mai, nè bastevole a te, nè im-
passibile ; perchè ti sarà mestieri invidiare, ingelosire, sospettare
chi ti può tórre le cose che stimi, mac- chinar contro a chi le ha;
in fine, conturbato convien che sia chi d’ alcuna di quelle è
privo, ed ol- tracciò, che mormori contro agli Dei bene' spesso;
laddove la riverenza della propria mente e la stima ti farà accetto
a te medesimo, accomo - devole agli uomini e consonante agli Dei,*
io voglio dire, contento di tutto che essi distribuiscono e di tutto
che hanno ordinato. Air insù, all’ ingiù, a cerchio intorno,
son le mosse degli elementi. La virtù non si muove in nessuna
^ cDi modo che ciascheduno che procac- cia di desiderare e fuggire
solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, pro- caccia
al tempo medesimo di esser pio -- Epitteto, Manuale, traduz. di G.
Leopardi. Vedi tutto questo capitolo del Manuale. di queste guise, ma in
una certa sua più divina, e per via mal compren- . sibile procedendo
va di bene in meglio. Che cosa è mai quel che fanno ! Ai loro
contemporanei, che insieme con essi vivono, non voglion dar lode ;
ed essi medesimi poi agognano di aver lode dai posteri i quali non
videro mai, nè vedranno. Gli è come se tu ti dolessi del ' non aver
lode anche da’ tuoi antenati. Non ogni volta che una cosa è
malagevole a te, hai da credere però eh’ ella sia impossibile all’uomo
; anzi, ogni volta ch’ella è possibile all’ uomo e dimestica, credi
ch’ella è conseguibile anco da te. Nell’ esercizio della lotta alcuno
talora ci graffia, o venendoci addosso ci percote malamente col
[Merico Casaabono cita qui, siccome un bel comento a questo §, il
saggio di Giobbe, che vuol leggersi tutto intero. capo. Ma noi diamo a
divedere, e non ce ne tenghiamo olfesi, nè stiamo in apprensione di
lui quindi innanzi, come se ci insidiasse ; ce ne guardiamo, sì, ma non
come da nemico, nè con. animo sospettoso; lo scansiamo con
piacevolezza. Questo medesimo s’ha da fare in tutte le altre parti
della vita: molte cose lasciar correre, come tra persone che lottano. Perch’egli
si può, come ho detto, schi- vare altrui, e non averlo però a so-
spetto nè odiarlo.Se altri mi può convincere e far capace eh’ io penso ed
opero non rettamente, di buon grado son per ricredermi; perchè io
cerco la verità, la quale non noeque mai a nessuno. Nuoce bensì
altrui il li- manere nell’ inganno e nell’ ignoranza propria. Quanto a
me, io so l’ufficio mio; le altre cose non me ne distolgono ;
perchè o sono inanimate, o irragionevoli, o vanno errate e non conoscon
la via. Gli animali irragionevoli e le cose in generale a te
sottoposte, quando esse non han la ragione e tu r hai, usa senza
riguardi altera- mente; gli uomini, che han la ra- gione, usa come
vuol la legge di com- pagnia. In ogni cosa poi, invoca gli Dei. E
non curarti del più o men tempo che tu durerai a far cotesto :
perchè bastano anche tre sole ore cotali. Alessandro il Macedone e
il mulattiere di lui si ridussero, morendo, alla medesima stregua.
Perchè, o furon ricevuti ambidue nelle stesse ragioni seminali del
mondo,' o si dispersero del pari in atomi. Pensa quante cose, in un
medesimo istante, dentro a ciascuno * Nel caso che sia vero il
sìsteina ato- mistico di Epicuro. di noi han luogo, relative al
corpo nello stesso tempo ed all’ anima ; e non istupirai che molte
più, anzi tutte quelle che avvengono, coesi- stano simultanee in
quel tutto ed uno a cui diamo il nome di mondo. Se
qualcheduno ti domanda come si scriva il nome d’ Antonino,
proferirai tu forse con isforzo di voce ogni sillaba? E se quegli
s’adira, t’adirerai alla tua volta anche tu? Non annovererai tu
piuttosto, pa- catamente procedendo, l’una dopo l’altra le lettere?
Cosi hai da fare anche adesso. Ricordati che ogni ufficio* consta
di certi numeri; col- r osservare i quali, e non col tur- barti, e
non coll’ adirarti con chi s’adira, arriverai direttamente al fine
, proposto. Come è crudele il non per- mettere agli uomini
che seguano quel che sembra a loro convenevole ed utile? E tu noi
permetti, in un certo modo, quando ti corrucci del loro fallire.
Perchè del tutto e’ non vi si indifcono se non in quanto il credono
convenevole ed utile a loro. Ma non è così. Dunque ammae- strali e
falli capaci, senza corrucciarti. La morte è una pausa alla im-
pressione dei sensi, allo stimolo degli appetiti, al discorrer della
mente èd alla servitù verso la carne. È un vituperio che in
quella vita dove non ti s’è stancato ancora il còrpo, ti si sia
stancata innanzi tempo r anima. Bada a non incesarirti,* a
non imbrattarti; chè cosi suole avvenii-e. Conservati adunque
semplice, buono, ^ Intendi : sebbene tu sia stato adottato
nella famiglia dei Cesari, bada a non t«cc- sarirli, cioè cadere nei
costumi viziosi di molti dei Cesari o imperatori che. ti hanno, preceduto.
intemerato, grave, ingenuo, amico del giusto, pio, mansueto,
amorevo- le, saldo nell’ adempire al tuo ufficio. Combatti per
mantenerti tale, quale ti ha voluto fare la filosofìa. Venera gli
Dei, fa’del bene agli uomini. Breve è la vita; e l’unico frutto di
questa esistenza terrena è la santa disposi- zione deir animo e 1’
opere indiriz- zate al comun bene. Ogni cosa da vero discepolo di
Antonino quel suo vigor costante in ciò che operava secondo
ragione, e 1 umor sempre uguale, e la santità della condotta, e la
serenità del volto, e la soavità dei modi, e il dispregio della
vana gloria, e l’ ardore nel voler comprender le cose, e come non
avrebbe lasciato andar nulla mai, ch’egli non avesse ben bene
considerato in prima e chiarito; e come sopportava quelli che si
dolevano di lui ingiustamente, [Antonino Pio, suo padre di adozione. senza
ridolersi egli di loro; come non faceva mai nulla in furia ; come
non dava adito ai delatori; come era diligente esploratore dei costumi
e delle azioni, non maldicente nè te- mente i rumori, non
sospettoso, non sofistico; come si contentava di poco, in materia
d’abitazione, per esempio, di letto, di vestito, di cibo, di
servidori; come era operoso, lon- ganime, e di tal tempra da poter
durare in uno stesso luogo sino alla sera, senza aver uopo, per la
fruga- lità del vitto, nè anche di uscire ai bisogni del corpo fuor
dell’ ora con- sueta; e la costanza e il tenor sempre uguale nelle
amicizie ; e il sopportare che altri contraddicesse con libertà di
parole al suo parere, e rallegrai’si quando glien era mostro un migliore
; e come era religioso senza supersti- zione; affinchè, con una
buona coscienza pari alla, sua, tu incontri come egli incontrò l’ultima
ora. Esci dall’ ebrezza, ritorna in te; e cacciato via il sonno, e
veduto ch’eran sogni quelli che ti turba- vano, risvegliati una seconda
volta, e guarda le cose della vita come tu guardavi quelle altre.
Son composto di un corpicciuolo e d’un’ anima. Al corpicciuolo tutte le
cose sono indilferenti; non potendo egli nè manco far differenza.
Air anima sono indifferenti tutte Qui r Ornato volea fare una nota,
come è indicato nel manoscritto, ma non la fece. Verosimilmente
egli volea gìnstiiicare e il- Instrare la sna interpretazione di
questo luogo, alquanto diversa da quella degli altri interpreti. La
traduzione letterale di tutto il § è cEsci d'ebrezza, richiama te
stesso; e cacciato via il sonno, e veduto che eran sogni quelli che ti
turbavano, desto una seconda volta, guarda queste cose, co- me tu
guardasti quelle altre. Intendi anima
razionale, la quale per gli Stoici non era altro che ragione e vo-
lontà, esclusa la sensibilità appartenente solo airantmwccta, mero
principio animale comune anche ai bruti. quelle che non sono azioni di
lei. E quelle che sono azioni di lei, stantìo tutte in balia di
lei. E di queste an- cora, quelle sole che riguardano il presente. Perchè
le azioni future e le passate sono pure indififerenti per
lei. Il lavoro non è cosa contro natura nè per la mano nè pel
piede, sintantoché il piede fa le cose del piede, e la mano le cose
della mano. . Quindi non è nè anche cosa contro natura per V uomo,
in quanto uomo, fìnch’egli fa le cose dell’uomo. E se non è cosa
contro natura per lui, non è nè anche per lui un male. Quanti
piaceri non godono i malandrini, i bagascioni, i parricidi, i
tiranni? Non vedi come gli artisti mec- * canici condiscendono bene in
.qual- Sottintendi ; € hanno importanza per lei. che cosa agli
imperiti, ma non seguitai! meno però la ragione del- l’arte, e da
quella non si vogliono distaccare? Non è ella una vergogna che
l’architetto e il medico abbiano più rispetto per la ragion dell’
arte loro propria, che l’ uomo per la sua, la quale egli ha in
comune con gli dei? L’Asia e
l’Europa son cantucci del mondo; tutto il mare, una goc- ciola del
mondo ; l’ Athos, una zolletta del mondo ; ciascuno degl’istanti
pre- senti del tempo, un punto dell’ eter- nità. Tutto è piccola
cosa, mutabile, peritura. Tutto vien di colà, da quella mente
comune, o voluto da lei, o per concomitanza.* E quindi la gola del
leone, e il veleno, ed ogni cosa ma- lefica, come le spine ed il loto,
sono un accompagnamento e quasi una produzion necessaria di quanto
v’ha d’eccelso e di bello. 'Non immaginai ti adunque che sien cose
aliene da quello che tu veneri; ma pensa alla sorgente del
tutto. Chi ha veduto le cose d’ adesso, ha veduto tutte le cose,
quante per gl’ infiniti secoli furono e per gli jiltri infiniti
saranno ; perch’ elle son tutte d' uno stesso genere e d’ uno
stesso coloi'e. Considera sovente la concate- nazione di tutte le
cose nel mondo e la relazione dell’ una all’altra. Per- di’ elle
son tutte intrecciate, dirò così, r una colf altra, e tutte, per
(piesto motivo, amiche l’ una del- l’altra. Di fatti all’ una vien
sempre dietro 1’ altra ; del che è cagione iJ moto tonico e
consenso di tutte e r unità della rnateiia prima. Alle cose che ti
sono date in sorte, ti devi adattare; e gli uomini, coi quali hai
comune la sorte, li devi amai'e, ma amar veramente. Uno strumento, un
ordigno, un arnese qualunque, se è atto, a tutto quello per che è
stato formato, va bene; ancorché non ci sia più chi r ha formato.
Ma negli esseri governati dalla natura è immanente dentro e
continua la virtù che li formò; per lo che conviene ancor più venerarla,
e stimare .che, ove secondo il voler di quella tu viva, sia per
riuscirti secondo il tuo in- tento ogni cosa. E questo ò quello che
succede all’ universo, che gli riesce secondo il suo intento ogni
cosa. il. Quale che sia la cosa dove tu riponi il tuo bene o
il tuo male, s’ ella è una di quelle che non di- pendono dalla tua
volontà, di neces- sità debbe accadere che, incorrendo tu in quel
male, o non conseguendo quel bene, tu accusi gli Dei, e che tu odii
inoltre gli uomini, i quali ti saran causa, o i quali tu sospetterai
avere ad esserti causa del non conseguir 1’ uno o dell’ incorrer
nel- l’altro; e molte iniquità, certo, com- mettiam noi, per non
essere indif- ferenti a siffatte cose. Ma se noi tenghiamo per beni
o per mali quelle cose soltanto che dipendono da noi, nessuna causa
rimane più nè di ac- cusare Iddio, nè di stare in ostilità verso
l’uomo. ANBEDUE COOPERIAMO AD UN MEDESIMO FINE. Gl’uniscienti e intelligenti,
gl’altri alla cieca; per modo che anche i dormienti, come disse Eraclito,
se non erro, lavorano e COOPERANO a ciò che si fa nel mondo. L’ uno ci
lavora in una guisa, l’altro in un’altra; e ancorché senza suo prò,
ci lavora e coopera anche colui che si va querelando e fa prova
' Vedi il § 16 di questo medesimo libro. Con questo § finisce il
volgarizzamento del- r Ornato, e col § seguente incomincia il volgarizzamento
rifatto da me. di resìstere e distruggere l’opera altrui: perchè anche di
questi ha bisogno il mondo. Rimane dunque che tu vegga nel novero
di quali tu ti vuoi porre : perchè chi governa il tutto, saprìi ben
valersi di te in ogni modo, ricevendoti in questa o in queir altra
banda de’ suoi lavora- tori e cooperatori. Se non che hai da badare
che tu non sia tal parte della brigata, qual è del dramma quel
povero e ridicolo verso di cui parla Crisippo. Il sole vuol egli fare le
veci della pioggia? o Esculapio quelle di Cerere? E gli astri non
hanno essi i loro uffici diversi, ciascuno il suo, 1
Plutarco {de comm. adv. Stoicot) cita le parole di Crisippo, alle quali
allude Anto- nino: «In quel modo che le commedie hanno talvolta dei
versi ridicoli e facezie che non hanno alcun valore in sè, ma giovano
non- dimeno all'effetto generale del poema; pa- rimente il vizio è
certamente riprovevole in sè, ma non è inutile a tutto il rimanente
delle cose.» ma COOPERANTI AMBI AD UN MEDESIMO FINE? Se gli Dei hanno
deliberato intorno a me ed alle cose che deb- bono incontrarmi,
hanno bene deli- berato e provveduto : perchè un Dio senza senno e
improvvido non pos- siamo neppure immaginare. E farmi del male, per
qual motivo l’ avreb- bero essi voluto? Qual pio ne sa- rebbe
venuto ad essi o al tutto di che prendono sì gran cura? Che se non
hanno deliberato intorno a me in particolare, essi hanno al certo
deliberato universalmente intorno a tutto il complesso delle cose.
Io debbo quindi accettare e aver caro tutto che mi accade, come
conse- guenza necessaria di quella loro ge- nerale determinazione.
Che se poi non pensano nè provvedono a nulla (è una empietà il
crederlo ; o vera- mente non facciam più sacrifici, nè preghiere,
nè alcuna di quelle cose che suppongono presenti gli Dei e viventi
con noi); ’ se, dico non pen- sano nè provvedono in. alcun modo a
niuna delle cose mie; posso io almeno pensare e provvedere a me
stesso: e mio primo pensiero debbe essere di conoscere in che
consiste Futile mio. Ora egli è utile ad un essere qualsivoglia ciò
chcs è con- forme alla costituzione e natura di lui. La mia costituzione
è ragionevole e socievole: la mia società e LA MIA PATRIA, come Antonino,
è ROMA; come uomo, è il mondo. Ciò solo adunque che giova a queste due
patrie, ò utile a me. Ciò che avviene a ciascheduno, è utile al tutto. Questo
solo basta. Ma tu osserverai ancora, so tu ci badi, che per F ordinario
ciò che succede ad un uomo, è utile an- cora agli altri uomini.
Intendo ora ^ Intendi: «che suppongono la presenza J e la
provvidenza divina.» r utile nel senso
volgare, cioè attri- buendo utilità alle cose medie. Quello effetto che
fanno in te gli spettacoli degli anfiteatri e di simili luoghi, chè
per essere sem- pre le medesime cose, ti rechi a noia il vederle,
quello effetto me- desimo facciano in te tutte le cose della vita:
perchè esse sono, dalla cima al fondo, sempre le stesse, e nate
sempre dalle stesse. K fino a quando adunque? Non cessare di
rappresentarti al pensiero uomini’ trapassati di ogni fatta 0 di
ogni sorta di condizioni, discendendo anche a Filistione, a Febo e
a Origanione;* passa di poi ad altri generi di viventi. Colà dob-
I[Vi fu un Filistione poeta comico, contemporaneo di Socrate; vi fu
ancora un Filistione di Locri, il quale era medico, e da alcuni
creduto autore dei libri sulla dieta che fanno parte della collezione
ip- pocratica. Quanto a Febo e Origanione ci sono al tutto
incogniti. biamo andare anche noi dove sono iti tanti valenti oratori,
tanti gravi filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate; tanti eroi prima
di loro, tanti capi- tani dopo, tanti tiranni; e insieme con loro
EUDSOSSO, IPPARCO, ARCHIMEDE altri acuti ingegni, uomini magnanimi,
laboriosi, scaltri, arro- ganti, beffardi, schernitori di questa
povera vita di un giorno, siccome fu MENIPPO ed altri simili a lui. Pensa
che tutti costoro sono spenti. II celebro matematico discepolo di Platone, il
cui sistema è esposto nel XII della Metafisica di Aristotele ; e che
insieme cou Speusippo assorbì tutto il Platonismo nella teoria dei
numeri. A lui si applica, non meno che a Speusippo,!' osservazione di
Ari- stotele: «la matematica è divenuta tutta la filosofia del
nostro tempo. [Matematico contemporaneo di Tolomeo Filadelfo, nato in
Nicea] [Filosofi» cinico nato a Gadara, dal quale un certo genere di
satiro che furono dette menippee: orasi beffato dei filosofi e delio
loro dispute scrivendo con uno spirito e una vena inesauribile, che gli
fu invidiata, come pare, anche da Luciano. da gran tempo. Ora che male
per essi? che male per coloro dei quali non resta pure il nome?
Solo una cosa è qui da avere in gran pregio : r osservar sempre la
veracità e la giustizia, comportandoci benevol- mente anche verso i
bugiardi e gli ingiusti. 48. Quando vorrai rallegrare
te stesso, rappresentati al pensiero le migliori qualità degli
uomini coi quali tu vivi: per esempio, l’ope- rosità efficace di
questo, la vere- condia di quello, la liberalità di quel- r altro,
e cosi via via. Perciocché non è cosa che tanto rallegri, quan- to
le sembianze della virtù espres- se nei costumi delle persone colle
quali viviamo, e quanto più esser possa, accumulate e frequenti. Vuoisi
dunque averle pronte alla memoria. Ti quereli tu del pesare solo
cotante libbre e non tre cento? Così non ti querelare dello aver a
vivere solo tanti anni e non più. Come ti tieni per pago e lieto
della quantità di materia che ti fu assegnata, così accontentati
del tempo. Fa’ prova di persuaderli ; ma non lasciar di operare
anchh mal- grado loro, quando ragione di giu- stizia il richieda.
Che se altri ti impedisce colla forza, volgiti alla rassegnazione,
e serba la serenità dell’anima, facendo uso di quello impedimento
per l’ esercizio di un’altra virtù. E ricordati che tu vuoi
condizionalmente,* e che non si ri- chiede da te r impossibile. Ora
che si richiede adunque? Una cotale determinazione di volontà. E
questa [ La volontà giusta è solo scopo e termine di sè medesima,
sia o non sia ella efficace, cioè a dire, sia o non sia seguita
dall' effetto esteriore, il che dipende dalle circostanze esterne. tu
l’hai: il fine a cui sei venuto nel mondo è conseguito. L’ambizioso
ripone il ben suo nell’ azione altrui; il voluttuoso nelle proprie
passioni ; ' il savio nella sua propria azione. Io posso astenermi
dal fare concetto alcuno intorno a ciò, e non turbarme nell’anima.
Non le cose, ma noi siamo gli autori dei nostri giudizi. Fa’
di avvezzarti ad ascoltare senza distrazioni ciò che altri dice, e
ad entrare quanto più puoi nel- l’animo di chi favella. Ciò che non
giova allo sciame, non giova neppure alla pecchia. Quando i
naviganti mormorano contro al nocchiero, o gli infermi. Meno
stoicamente direbbesi nel soddisfacimento delle proprie passioni, » cioè
nel piacere procurato da questo soddisfaci- mento. Perchè il piacere
stesso è per gli Stoici una passione, un patire e non un agire
dell' anima. Di contro al medico,' qual motivo può moverli a ciò se
non se il modo con che il medico e il nocchiero procacciano la sanità
e la salvezza loro? Quanti di coloro, coi quali io venni al
mondo, se ne sono già andati! Agli itterici sembra amaro il miele,
l’acqua è spaventevole al- r idrofobo, pel fanciullo è bellissimi
una palla. A che dunque mi adiro? Stimi tu men potente una falsa
opi- nione che la bile nell’itterico, o il veleno
nell’idrofobo? Niuno può recarti impedimento al vivere secondo la
legge della tua natura; nulla accaderti contro la legge della
natura comune. Che è il vizio? è ciò che tu spesso hai veduto. E ad
ogni acci- dente che t’ intervenga abbi apparecchiato questo pensiero,
che è cosa da te spesso veduta. Su e giù, a dritta e a manca
troverai pur sem- pre le stesse cose, di che sono piene le antiche
storie, le mezzane e le moderne; di che ora son piene le città e le
case. Nulla di nuovo : tutto consueto e di poca durata. La fede nei
domini come può venir meno se non se collo spegnersi di quei
pensieri che sogliono ali- mentarla? i quali sta in te jl ride-
«^tar di continuo. Posso pensare di una cosa quel che ne debbo pensare
: se questo è in mia facoltà, a che mi turbo? Ciò che è fuori
ilella mia mente, non ha nulla che fare colla mia mente. Fa’ di
essere cosi dispo- sto e sei ritto. Il risorgere sta in poter tuo :
vedi di nuovo le cose a quel modo che tu le vedevi: sarà il tuo risorgimento.'
3. Pompe, trionfi, vani apparati, drammi che si recitano in sulla
sce- na, greggi, armenti umani, scara- mucce, ossicciuolo gittate
al cagno- lino, tozzo di pane ai pesci nel vivaio, affanni e
lavorar di formiche,, discorrimenti qua e là di topi spaventati,
fantoccini mossi da un filo. È mestieri assistere a codeste cose con
viso benevolo e non burbero, ma non però dimenticare che tanto vale
cia- Pare che ad Antonino in un momento di sconforto sombrasse aver
perduta la fede nei domrai della filosofia. E si conforta a ri-
cuperarla. Bello e profondo paragrafo, stoicamente considerate] scuno quanto
vaglion le cose cui dà le sue cure. Conviene por mente parola per
parola a ciò che si dice, e atto per atto a ciò che si fa. E veder
tosto nell’ una cosa qual è lo scopo ; nel- l’altra, qual è il
significato. 5. Basta, o non basta il mio in- gegno a proccurare
questo effetto? Se basta, io ne fo uso come di uno stromento che la
natura dell’ universo mi diede. Se non basta, ove non osti il dover mio,
lascio fare r opera a chi può condurla a fine meglio di me; ovvero
io la fo co- me posso, giovandomi dell’aiuto di tale, che possa,
scorto dal mio pro- prio consiglio, recare ad effetto ciò che è utile
ed opportuno alla co- munità. Perchè questo deve esser sempre il
fine di ciò che io faccia, sia da per me solo, sia coll’aiuto altrui:
l’utile e il convenevole al comune. 6. Quanti lodatissimi
sono già stati dati all’oblio! e quanti che li loda- rono sono
scomparsi, già è gran tempo! 7. Non ti vergognare
dell’essere aiutato. Tu ci sei per fare quello che tocca a te, come
un soldato ad una battaglia murale. Ora se tu, offeso in una gamba,
non potessi solo salire in sui merli, e ti venisse fatto col- r
aiuto di un compagno? Non ti mettere affanno delle cose future. Tu
arriverai ad esso, se il dovrai, recando teco quella mede- sima
ragione di che fai uso nelle cose presenti. D, Tutte le cose
sono reciproca- mente collegate fra loro; sacro è il legame che le
unisce, e niuna cosa può dirsi estranea ad un’altra. Esse sono
tutte coordinate insieme e con- corrono ad ornare lo stesso mondo. Perchè
uno è il mondo che è formato di esse tutte, uno Iddio che penetra
tutto, una la materia prima, una la legge, una la ragione comune a
tutti t?li esseri intellettivi, una la verità: . essendo pur anche
una sola la perfezione di tutti gli esseri congeneri e partecipi della
stessa ragione. Presto svanisce ogni corpo, risolvendosi nella sostanza
universale ; presto svanisce ogni causa, rientran- do nella ragione
universale; e la memoria di ciascheduna cosa è presto inghiottita
nell’abisso del tempo. Per l’animale ragionevole, la stessa azione
che è secondo natura, è anche secondo ragione. Se non sei ritto,
dirizzati. Quella relazione che hanno fra loro le membra del
corpo nell’ ani- ' male individuo, hanno fra loro gli esseri
intelligenti nel corpo collet- tivo della società: tutti sono fatti
per cooperare insieme ad uno scopo comune. E per meglio
ricordartene avrai cura di ripetere . spesso a te medesimo: io sono
un membro del sistema degli esseri intelligenti. Ma se tu di’
solamente : io sono una parte, tu non ami ancora di cuore gli
uomini ; il beneficarli non è ancora per te cosa che per se me-
desima ti diletti e ti contenti : tu il fai tuttavia per pretto dovere,
non perchè tu senta di beneficare ad un tempo te stesso. Accada
che vuole al di fuori a quelle parti che possono ricevere nocumento
da cotali accidenti : se ne dorranno esse che patiscono,’ se il
vogliono. Quanto si è a me, ove io non faccia concetto di siffatti
ac- cidenti come di un male, non ne ricevo nocumento veruno. E sta
in mia facoltà il non fare cotali concetti. Che che altri faccia o
dica, a ine conviene essere uomo dabbene: per appunto come se V
oro, o la porpora, o lo smeraldo dicesse : che che altri faccia o
dica, a me conviene essere smeraldo, e avere il mio pro- prio
colore. 16. (7) La parte sovrana non dà mai noia a sè stessa,
vale a dire, non è mai cagione nè di tristezza, nè di timore, nè di
concupiscenze a sè stessa. Se altro v’ ha che possa moverla a ciò, vi si
adoperi. Quanto a lei, operando razionalmente, non sarà mai a sè
stessa cagione di cotai moti. Provveda il corpo, se può, al non
avere a soffrire; e se soffre, lo dica. Quanto si è all’animuccia, nella
(filale veramente cade la tristezza e il terrore, basterà solo che la
parte ove si formano i giudizi* del terribile [Animuccia ;
intendi il principio della &dìoi&1o e del tristo, non
dia luogo a quelli: essa animuccia non ha attitudine a formare
giudizi cotali. La parte sovrana, considerata in sè, non ha mai manco di
nulla, ove ella non venga meno a sè stessa: e similmente non è mai
turbata nè impedita, ove non turbi o impedisca ella sè medesima. Beatitudine
vuol dire buon genio, vuol dire mente buona. Che fai dunque tu qui,
o immaginazione? Va’ via, te ne prego per gli Dei, vat- tene come
sei venuta: non ho bisogno di te. Tu sei venuta secondo l’usanza
tua vecchia. Non mi adiro teco ; ma vattene. V’ha chi teme il
mutamento? Ma che può farsi mai senza muta- mento e trasformazione?
E che v’ha di più caro, di più proprio e consueto alla natura
dell’universo? E puoi tu stesso prendere un bagno se le legna non
si trasformano? puoi tu nutrirti, se non si trasformano i cibi? E
v’ha egli alcuna delle altre cose necessarie alla vita che possa
elfettuarsi senza trasformazione? Non vedi tu dunque che il dovere
tu ancora essere trasformato, va del pari con tutte le altre trasformazioni,,
ed è parimente necessario alla natura dell* universo? 19. Per
entro la sostanza dell' uni- verso, come per entro a un torrente,
passano tutti i corpi connaturati a (jiiello, siccome sono connaturate a
noi, e cooperano con noi le nostre membra. Quanti Crisippi ha già inghiottiti
il tempo, quanti Socrati, quanti Epitteti! Lo stesso sovvengati (l;ogni
altro uomo, o cosa qualsi- voglia. Una sola cosa mi turba : la
tema di far cosa che la natura dell’ uomo non voglia, o come essa
non voglia, o quando essa non voglia. Presto avrai tutto obliato,
e presto ancora sarai obliato da tutti. È proprio dell’ uomo l’
amare anche colui che ci offende. Il che ti verrà fatto se tu
penserai che egli è pur tuo congiunto,^ che ha peccato per ignoranza
e suo malgrado, che fra poco sarete morti ambidue, e so- pra tutto
che egli non ti ha nociuto: perchè non fece peggiore che olla prima
si fosse la tua parte sovrana. La materia comune di tutte le cose è
nelle mani della natura universale, come la cera in quelle dello
scultore.^ Ora ella ne fa un cavallo, poi, rifusa la materia del cavallo,
ne fa uso alla produzione di un albero, poi a quella di un
omiciattolo, poi a quella di qualche altra cosa, e ciascuna di
queste cose dura un brevissimo spazio di tempo. Ma e'non è oggi più
tremendo pel forzierino r essere sconficcato e disfatto, che non fu
ieri 1’ esser fatto. Il quale si serve di essa cera per fare i
modelli delle sue statue. II livore in sul viso è cosa contro natura, da
che spesso vi al- tera anche il colore che naturalmente 10
abbellisce, e che alla fine vi si spegne in modo da non potervisi
più ravvivare. Questo ti provi che è cosa eziandio contro ragione:
perchè se anche la coscienza del peccare si perde, qual motivo di
più vivere? Tutte le cose che vedi, già già le viene mutando la natura
reggitrice del tutto, la quale ne farà altre della materia loro, e
poi altre della ma- teria di queste, affinchè il mondo sia sempre
giovane. Quando altri ti offende in che che sia, considera
tosto qual cosa egli abbia dovuto estimare come un bene o come un
male perchè fosse così mosso ad offenderti. La qual cosa scorto che
tu abbia, tu avrai compassione airuomo, e cesserai dal maravigliarti
e dallo adirarti. Perdiè o tu stesso stimerai tuttavia come un bene
o come un male quella medesima cosa od altra somigliante ; e allora
gli si vuol perdonare; o tu farai altra estimazione ch’egli non
fece, e più facilmente benigno sarai a chi travide malgrado suo. Non
pensare alle cose che tu ancora non hai come se tu gȈ le avessi.
^Ma facendo piuttosto il no- vero delle più comode tra quelle che
liai, sovvengati quale studio porresti in procacciarle se tu non le avessi.
Bada nondimeno che questo tuo averle in grado non ti venga avvez-
zando a stimarle in modo da turbar- tene poi quando elle ti
mancassero. Ravvolgiti in te stesso. La parte sovrana e ragionevole
dell’ uomo ha natura tale che basta a sè quando agisce rettamente e
sa trovare in ciò la sua quiete. 29. Cancella le immaginazioni,
raffrena gli appetiti, circoscrivi il pre- sente del tempo. Conosci ciò
che accade a te e ad altrui. Dividi e ri- solvi ne’ suoi elementi,
la parte causale c la parte materiale, ogni oggetto di appetizione
o di aver- sione. Pensa all’ ultima ora. Lascia stare il peccato
altrui colà dove ò nato. no. Segui col pensiero le
altrui parole. Penetra coll’ acume della mente nelle cose che si
fanno e nel- r animo di coloro che le fanno. 31. Adornati di
verecondia, di sem- plicità e di indifferenza verso tutte le cose
che non sono nè virtù nè vizio. Ama il genere umano. Obbedisci a Dio. Tutto
le cose, disse colui, si fanno secondo una legge immutabile. 0 gli
Dei, o gli atomi. Ma basta il ricordare che tutto si fa [Cioè a
dire : o v' ha una provvidenza divina, o non v' ha, secondo il sistema
ato- mistico di Epicuro. secondo una legge. Ma troppo è anche il
poco già detto. Quanto alla morte, o essa a un disperdimento, se la vita ò
un accozzamento fortuito di atomi o altra aggregazione qualsiasi.
Ovvero essa è uno spegnimento, ovvero un traslocamento. Quanto
al dolore, se è intollerabile, ti uccide. Se dura, è tollerabile. E la mente
conserva la sua tranquillità se si raccoglie in sè stessa: e la parte
dominante non si è fatta peggiore. Quanto alle parti che sono
offese dal dolore, ce lo dicano se il possono. Quanto alla gloria,
vedi le menti loro, quali cose fuggono e quali cose ricercano. E
ancora, che a quel modo stesso che gli strati di arena novel-
lamente gittati in sul lido ricoprono i precedenti; similmente nella
vita le cose nuove ricoprono, sovrappo- nendosi, per così dire, ad
esse, e fanno dimenticare quelle a cui succedono. Di Platone: Ad
uomo di eccelsa mente, al quale sia dato di abbracciar col pensiero
tutta la serie dei tempi e l’ università degli esseri, credi tu che
la vita sia per sembrare un gran che? Impossibile, disse quegli. E
la morte, per conseguenza. non sarà punto stimata da lui una tremenda
cosa. — No certo. » Di Antistene: Operar bene ed essere
lacerate è cosa da re. È vergogna che il
volto ubbidisca alla mente e si componga ed assesti come ella vuole; e
che la mente poi non sappia comporre e«l assestar sè medesima.
Contro le cose lo adirarsi è vano, Ch'esse non se ne curano. 1 Fiat. Rep.
lib. VI. [Lacerato, intendi, dai maldicenti. Plutarco negli Apoftegmi
attribuisce questo detto ad Alessandro]. [Tratto dal ‘Bellorofonte’,
tragedia perduta di Euripide. E gli immortali e noi di te fa lieti. Mieter la
vita Come spica matura, e morir l' uno, E viver l’altro. Sed ime
vède’nii eigl’ilddii non curano, Ciò pure ha sua ragione. Che il bene e il
dritto è dalla mia. Non pianger con altrui nè esultare. (Di Platone). A chi mi favellasse in colai
guisa, potrei con giu- stizia rispondere: Tu erri dal vero, o
amico, se tu credi che un nonio di qualche vaglia debba, quando im-
prende a far che che sia, computare le probabilità dello avere a
morire 0 a vivere ; e non piuttosto conside- rare unicamente se ciò
ch’egli im- t Nel testo è un verso esametro, ma igno- rasi
onde 1' abbia tratto Antonino. P. 2 Due versi dell' Isipile, tragedia
perduta di Euripide. II primo di questi due versi è citato anche al
§ 6 del lib. XI, come verso di un tragico ; ma il nome del poeta non è
noto. D’ ARISTOFANE negli Acarnesi. P. 5 I §§ 44 e 45 sono tratti
dall’Apologia di SOCRATE; il § 46 dal ‘GORGIA’] prende a fare sia giusto
od ingiusto, se azione da uomo dabbene, o da tristo. Perchè così è
veramente, o Ateniesi : quale che sia il posto che altri scelse
nell’ordinanza, giudicatolo il migliore, o in che sia stato
collocato dal capitano; egli vi dee perseverare, secondo che mi
pare, e sostenervi tutti i pericoli, non avendo in conto di nulla la
morte ne altro checchessia, in paragone della disonestà e vergo-
gna che sarebbe lo abbandonarlo. Ma bada bene, o valentuomo,
che altra cosa non sia la gentilezza, d’animo e la virtù, ed altra il
pro- cacciare salvezza asèe ad altrui; e che ufficio deir uomo,
dico chi voglia essere uomo veramente, non sia per avventura,
anziché lo ingegnarsi di campar lungo tempo avendo cara sopra ogni
altra cosa la vita, il ri- mettersene piuttosto a Dio; e pre-
stando fede a ciò che dicono le fem- mine. essere inevitabile il destino
di ciascheduno, studiare il modo di vi- vere, il più virtuosamente
ch’ei può. quel tempo che ha a vivere. Contemplai’e il giro degli
astri accompagnandoli, per cosi dire, nel loro corso; e ripensare
di continuo al perpetuo tramutarsi degli elemen- ti da una in altra
forma. Cotali pensieri purgano l’anima dalle lordure di questa vita
terrestre. 48. Bello è quel luogo di Platone: « Chi ragiona*
degli uomini, deve an- che osservare, come da un’ alta ve- detta,
tutte queste cose terrene : adunanze popolari, eserciti campeg-
gianti, agriculture, nozze, divorzi, nascimenti',’ morti, strepiti di
tribu- nali, contrade inabitate, varietà di nazioni, feste, lutti,
mercati, e que- sto miscuglio di tutti i contrari, e l’ordine di
questo miscuglio di che si compone il mondo. Questo brano di Platone non
si trova nelle opere che ci rimangono di lui. E’ giova il rimembrare le
cose che furono prima di noi: tanti mu- tamenti, tanti e sì grandi
rivolgi- menti di stati. Puoi anche conside- rare le cose che
seguiranno in futuro, perchè esse saranno pur sempre ti’ un taglio,
e non è possibile che escano mai del tenore usato infino ad ora.
Onde che tanto vale il ri- cercare gli eventi di che si compone il
vivere umano ^ in un periodo di t^uarant’ anni, quanto in uno di
dieci mila. Che potresti trovare di più? E questo. Ciò die fu terreo
torna alla terra ; Ciò die d’ etereo seme è germoglio.
Del deio etereo torna allo sfere. Che vuol dir ciò? Separazione
degli atomi terrei che erano insieme ag- gregati, e somigliante
separazione degli elementi attivi.^ ^ Intendi il vivere dell'
umanità, o non deir individuo umano. Gli elementi attivi erano, secondo
gli dE con cibi il torrente e con bevande £ con incanti di stornar
proccnra Perchè a morte noi tragga. Con quel vento Che Dio ne
manda navigar ci è d'uopo, £ non spargere inutile lamento.» Pili
valente nella lotta, ma non piò devoto al ben comune, non piò
verecondo, non piò indulgente e piò benevolo verso il prossimo che
ha peccato. Ogni volta che può condursi a fine una impresa secondo i
precetti della ragione comune agli Dei e agli uomini, non hai nulla
da temere: perchè dove sta in te lo avvantag- giarti coir esercizio
libero della tua operosità, procedendo secondo la costituzione
dell’ uomo, quivi non è luogo a timore di avere a soffrire alcun danno.
stoici, Paria e il fuoco, con che intende- vano il freddo e il
caldo; i passivi, la terra e l’acqua. In ogni luogo e in ogni tempo
è in tua facoltà lo acconciarti di buon grado e con pia
rassegnazione all’ evento che ti occorre ; e il por- tarti con
rettitudine verso gli uomini coi quali ti trovi; e il vegliare
dili- gentemente con quelli spedienti che tu sai sopra ogni tuo
pensiero pre- sente, affinchè non v’entri inavver- titamente nulla
che tu non abbia perfettamente compreso. Non andare investigando
in qual modo credano di doversi governare gli altri, ma guarda
dritto . Non andare investigando
gli altri. [Intendo: non curarti di ciò che le menti degli altri
approvano o disapprovano; bada dirittamente a ciò che approva la tua.
Noto questo perchè altri non creda essere il qui detto da Antonino
cosa contraria a ciò che disse in molti altri luoghi, e
segnatamente nell’ Vili, 61: entrare nella parte sovrana di ognuno.
Le sono due cose diverse. In quanto al tuo operare, non badare a ciò che
le menti degli altri prescrivono, bada a ciò che prescri- ve la
tua. In quanto ai giudizi che tu fai degli altri, entra il più che puoi
nelle menti loro, per vedere quai motivi li spingano. allo scopo verso il
quale ti scorge la natura universale per mezzo degli eventi che
essa ti manda ; e la tua propria natura per mezzo dei doveri che
essa ti impone. E dovere di cia- scheduno sono quelle azioni che
cor- rispondono al fine pel quale è stato formato. Ora gli esseri
non ragio- nevoli sono stati formati per gli es- seri ragionevoli
(come universal- mente tutte le cose che hanno minor valore, per
quelle che ne hanno un maggiore); e gli esseri ragionevoli, gli imi
per gli altri. Primo dovere adunque dell’ uomo, in conseguenza
della sua costituzione, è di cooperare al bene di tutti i suoi simili. Il
secondo è lo star saldo contro gl’appetiti e le AFFEZIONE DEL CORPO. Essendo
proprio della forza razionate e intellettiva il serbarsi pura e distinta,
circonvallando, come a dire, sè stessa, e noh essere vinta mai dalla t
Vale a dire che non deve ammettere in forza sia sensitiva sia appetitiva.
Perchè queste due forze sono animale- sche, e sopra di esse quella
vuole aver primato e signoria, e non la- sciarsi signoreggiare da
esse. E con ragione: quella essendo fatta per servirsi di queste.
Terzo dovere del- r uomo \i è il procedere cautamente ne’ suoi
giudizi, per non cadere in errore. A queste cose applicandosi la
parte tua sovrana, compia per la diritta via il suo corso; ed ha tutto
ciò che le spetta. Come se tu avessi dovuto mo- rire testé e fornito
già tutto il corso della tua vita; vivi secondo natuia (piei giorni
che ti rimangono, con- siderandoli come un soprappiù che tu non
avessi sperato.’ se alcuna mistura di elementi estranei alla
sua natura, . e apparir quindi distinta con taglio nettissimo da tutto
ciò che ha na- tura diversa dalla sua. [A quel modo che se ci
trovassimo al punto della Cari ti sieno quelli eventi soltanto che t’
incontrano, e sono quindi come a dire contesti insieme collo stame della
tua vita. Che potresti desiderare di più accomodato a te? Ad ogni
accidente che ti occorre abbiti davanti agli occhi coloro ai quali
incontrarono le stesse cose; ed essi se ne adirarono, parve loro
strano, se ne querelarono. Ora dove sono coloro? In niun luogo.
Perchè vuoi tu dunque rassomigliar loro? e non lasci piuttosto a
chi li vuole quei moti alieni da te, e non badi unicamente all’ uso
che devi fare deir accidente intervenuto? Perchè tu ne farai buon
uso, e ti sarà nuova materia a virtuosamente operare, solo che tu
intenda ad esser uomo morte senza speranza di riaverci e
consi- derassimo la nostra vita trascorsa; ci dor- remmo di averla
male impiegata, e vor- remmo caldamente impiegarla meglio per
l’avvenire, scampando; cosi dobbiamo vo- lere ora ec. dabbene agli occhi
tuoi propri, sia qual si voglia la cosa che tu faccia; e ti
sovvenga di queste due verità: im- portare assai quale sia l’ azione, e
non importare nulla in che cada razione. Guarda dentro di te. Ivi è
la fonte del bene, la quale non sarà esausta mai, solo che tu ci
vada scavando di continuo. 60. Anche il corpo, e nel
cammi- nare e nello stare, serbi un contegno egualmente alieno
dalla avventatezza e dalla mollezza. Imperocché siccome l’anima si rivela
nel volto, imprimendovi un certo che di assennato e di composto; così
ella dee rivelarsi anche nel rimanente del corpo. Ma ciò vuoisi
fare naturalmente, senza che vi appaia studio nè affettazione. La
volontà giusta è per gli Stoici solo scopo e termine di sè medesima, sia,
o non sia ella efficace, cioè a dire sia o non sia seguita dall'
effetto esteriore, il che dipende dalle circostanze esterne. La virtù
sola è huona.essa sola basta alla beatitudino. L’arte del vivei e
virtuosamente rassomiglia piuttosto all’arte della lotta che a
quella della danza, in quanto bisogna essere apparecchiati ad ogni
accidente non preveduto, e saldi per non cadere. Non cessare di
recarti a mente le qualità di coloro dai quali vorre- sti essere
lodato, e quelle delle menti loro. Così non ti avverrà di trascor-
rere all’ ira contro uomini che fallano malgrado loro, nè ti curerai
dell’es- sere da loro lodato o biasimato, ve- dendo qual sia la
fonte onde moiVono i giudizi loro e le loro azioni. Non per sua
elezione, dicea quegli, ma sempre malgrado suo, è l’anima umana
priva del vero.' E [La sentenza è di Platone, ed è citata anche da Epitteto
(Dissert.), il quale nomina T autore. Nel Sofista parti-
colarmente, Platone intende a provare che r ignoranza è sempre
involontaria, e che sempre malgrado suo è l’uomo privo della cognizione
del vero. parimente malgrado suo è priva della giustizia, della
temperanza, della mansuetudine e di tutte le altre cose cotali.
Sommamente importa che tu r abbi sempre a mente : sarai più mite c
be_nigno inverso di ognuno. Oi. In ogni caso di dolore abbi
apparecchiato questo pensiero, che non è cosa disonesta, non tale
da far peggiore la mente che ti gover- na: perocché non le nuoce nè
in quanto ella è ragionevole, nè in quan- to ella è socievole. Nel
maggior nu- mero dei casi troverai soccorso efficace anche in quel detto
di Epicuro: il dolore non esser mai nè intollerabile nè di lunga durata,
solo che tu non lo ingrandisca colla tua im- maginativa, nia lo
vegga ne' limiti suoi naturali. Avverti ancora che molte cose ci
muovono ad atti di impazienza senza quasi che vi ponghiaino mente, le
quali non sono pur altro che dolore: siccome lo aver sonno quando
vorremmo veglia- re, r essere travagliati dal caldo, o r avere
inappetenza. Ora quando tu sostieni malvolentieri alcuna di que-
ste cotali cose, di’ a te medesimo che tu hai ceduto al dolore.*
65. Bada a non comportarti mai verso i disumani, come i disumani
si comportano verso gli altri uomini. Come sappiamo noi che Telauge,
quanto alle disposizioni dell’animo, non soprastasse a SOCRATE? [Intendi
che non basta reggere ai dolori gravi, ma conviene saper vincere anche
i leggieri: coi quali sovente non ci pigliani briga di combattere,
perchè la loro piccio- Iczza fa che non ci badiamo; o ci troviamo
vinti senza accorgercene. In quei casi, dico r autore, di’ a te stesso: «
ho ceduto al do- lore: » qnasi volendo, col rammentare quel nome,
che è il vero, faro a sò stesso parere più gravo il caso,o destare cosi
la sua attenzione. [Filosofo del quale Eschine Socratico diede il nome ad
uno de' suoi dialoghi]. Imperocché non
basta che la morte di SOCRATE Socrate sia stata più famosa, nè eh’
egli abbia fatto prova di mag- giore sagacità nel disputar coi sofisti,
di maggiore fortezza col pas- sare la notte in sul ghiaccio, di più
nobile coraggio col disobbedire al comando di andare a prendere
quel- r uomo di Salamina,' nè eh’ egli camminasse per le vie con
altero contegno : la qual cosa sarebbe mas- simamente da
considerare quando fosse vera. Ma vorrebbesi vedere quale
intimamente fosse l’animo di Socrate. Se egli potea contentarsi
dell’ esser giusto verso gli uomini e [Quest’ nomo chiamavasi Leone e
posse- dea grandi ricchezze. Delle quali i trenta tiranni sperando
poter fare lor preda, avea- no comandato a Socrate che andasèe, ac-
compagnato da altri quattro, ad arrestarlo. Socrate, con pericolo della
sua vita, disub- bidì al comando. Questo fatto è ricorda- to nell’
Apologia di Platone, da Eschine il Socratico, da Diogene Laerzio e da Epitteto.
santo verso gli Dei se non gli accadesse mai di adirarsi ciecamente
contro il vizio, nè di servire all’altrui ignoranza, nè di accogliere
come strana o incomoda o intollerabile veruna delle cose che gli
venivano compartite dal tutto,* nè di lasciare che la mente sua
partecipasse delle affezioni della carne. Cioè [8’ egli riponeva in ciò
solo, nella santità e nella giustizia, la sua felicità, Renza nulla
desiderare di più. Da queste parole di Antonino non bassi ad inferire che
egli particolarmente dubi- tasse della grandezza mórale di Socrate;
ma esse vogliono piuttosto esser prese in un senso generale, servendosi
Antonino del nome illustre di SOCRATE, come di un esempio, por avvertire
quanto sia malagevole il giudicare del valore morale degli uomini da
alcune loro azioni esteriori, sieno buone o sieno cattive; e come
l’eccellenza morale non consista solamente nel compiere este-
riormente qualche grande atto di virtù, ma richiegga inoltre tutte quelle
disposizioni intime e abituali di cui fa la rassegna. Detto di Fociono. La
mente non fu dalla natura mescolata per modo e confusa in- sieme
col corpo che essa non possa distinguersi da esso e come a dire circonvallare
sò medesima, ed eser- citare libera signoria sopra ciò che è ‘suo;
sendo che possa darsi benissimo che un uomo sia sommamente buono, e che nissùno
il vegga. Questo abbiti a mente, e ancora, che in pochissime cose
consiste il vivere Ecco come intendo io questo luogo: Noi conosciamo
altrui dalle azioni e dalle parole, quindi sempre per qualche organo corporeo,
quindi dal corpo. Ora può benissimo immaginarsi il caso che un uomo moralmente
eccellente sia posto in tali condizioni, o per malattia, o per estrema
povertà, 0 altra forza esteriore, da non poter usare in verun modo
del corpo per compiere alcuno di quelli atti che sono la manifestazione
esteriore delle disposizioni virtuose deir animo. In questo caso esse non
potranno essere conosciute. E però quando Antonino dice: «esercitare
libera signoria sopra ciò che è suo, non vuol dire sopra il corpo,
ma sulle facoltà stesse della mente. felice. E per ciò che tu abbia
dispe- rato di dover essere mai eccellente nella dialettica o nella
fìsica, non disperare medesimamente di dover esser libero, e
verecondo, e socievole, e obbediente a Dio. Vivere non vinto da
alcuna forza esteriore e colla più grande contentezza d’animo,
ancora che tutti gli uomini schiamazzino a posta loro contro di te,
e le fiere mettano in brani le membra di codesta conge- riedi carne
e d’ ossa che ti è venuta crescendo intorno; sì' tu lo puoi. E che
v’ ha in fatti in tutti questi co [tali casi, che possa impedire la mente
tua dal serbarsi mai sempre imperturbata, dal fare sempre giusta estimazione
delle cose circostanti e uso ragionevole degli accidenti che intervengono?
Per tal modo che la tua facoltà giudicativa dica all’ oggetto
presente: « secondo T opinione tu sei altra cosa; ma Tessere tuo vero,
è cotale. E la tua facoltà operativa dica immantinente all’
accidente in- tervenuto: « te appunto io cercava: perchè io non ho
altro intento che di operare razionalmente e socievole mente, e
tutto che accada me ne porge occasione, tutto può essere materia ad
esercitare questa virtù, quest’ arte umana e divina. Perchè
qualsiasi cosa che intervenga, ha qualche relazione di convenienza o con
Dio 0 con l’uomo, e può questi acconciarvisi, e non è mai nuova nè dif-
ficile, ma sempre nota e consueta, e facile 1’ uso che hassene a
fare. Perfettamente costumato è co- lui il quale vive ciascun giorno
come se quello fosse l’ ultimo. Non mai affannosamente operoso, non
neghittoso, non infinto mai. Gli Dei che sono immortali, non indispettiscono
d’ avere del continuo a tollerare, e per tanta durata di tempo, tanti e cotali
dappochi: ed oltre a ciò prendono ogni cura di loro. E tu che oramai
sei per finire, tu rinneghi la pazienza, e quando sei tu medesimo
uno di quel novero? È cosa da ridere che l’uomo non voglia fuggire la
propria malizia, il che è possibile e voglia poi fuggire la malizia, il
che è impossibile. Tutto ciò che la ragione speculativa e civile non
vede essere ragionevole e socievole, è da lei giudicato inferiore a sè
stessa. Quando tu fai del bene ed io ricevo quel bene, che vai tu
cercando, come gli stolti, una terza cosa di più, cioè, che si sa che
tu fai del bene, o che te ne sia reso il contraccambio? Nissuno si
stanca del ricevere giovamento ed è a giovamento nostro [Cioè del novero
di quei dappochi, anche per la ragione appunto che tu non sai tollerarli,
come sarebbe tuo dovere di fare] e d’altrui ogni azione conforme alla
natura. Non istancarti dunque di giovare a te medesimo col giovare ad
altrui. La natura universale produsse il mondo. Ora o tutte le cose
che succedono nel mondo sono conformi alla intenzione di quella
natura; ovvero sarebbero *sragionevoli*, cioè dilformi dalla detta
intenzione, anche talune delle cose principali che si fanno pel ministero
particolare della mente che governa il mondo. In molti casi sarai più
tranquillo se avrai questo a mente. A ritrarti dal vano amore della gloria
giove anche il considerare come non è più in poter tuo il fare che tu
sia vissuto da FILOSOFO tutta la tua vita, cioè insino dalla giovanezza:
cioè anzi molti si ricordano di un tempo, e te ne ricordi benissimo tu
stesso, nel quale tu eri LONTANO DALLA FILOSOFIA. Sicché tu
sei contaminato. Non è dunque più facil cosa per te l’acquistar
rinomanza di FILOSOFO al che si oppone anche la condizione del tuo
stato. E però, se tu hai veramente scorto dove batta il punto,
lascerai da banda il pensiero dell’opinione che altri sia per avere di te,
e ti contenterai di vivere conforme alla tua natura quel rimanente di vita
che ti è conceduto. Pensa adunque che cosa vuole la tua natura, e niuna
altra cura ti distragga da ciò. Perchè tu sai bene di quante altre
cose hai voluto fare esperimento e in nissuna di esse hai TROVATO LA
BEATITUDINE. Non nei sillogismi, non nelle ricchezze, non nella gloria,
non NEL GODIMENTO DEI PIACERI, in niun luogo, insomma. Dove sta essa
adunque? Nel fare ciò che richiede la natura dell’uomo. E come fai tu cotesto?
Lo fai, se hai la credenza che e produttrice di quella azione. Quale
credenza? Quella intorno al buono ed al malo. Non essere il buono per l’uomo
ver una cosa che non lo faccia essere giusto, temperante, forte e libero.
Non essere il malo veruna cosa che non lo faccia essere il contrario. Cioè
non lo contamini del vizio opposto alla VIRTÙ. Ad ogni tuo atto
interrogate medesimo. Che relazione ha esso con me? Non avrò io da
pentirmene? Ancora un poco e son morto e tutto è finito. Se ciò che so
ora è conforme alla natura di un essere intelligente, socievole e
avente le stesse leggi che gli’idei, che cerco io di più? Alessandro, o Caio,
o Pompeo, che e rispetto a Diogene, Eraclito, o Socrate? Diogene, o
Eraclito, o Socrate conosce la cosa e la causa e la materia de la cosa;
e la parte sovrana e in Diogene, o Eraclito, o Socrate, veramente sovrana. Ma
quelli, che cosa Giulio Cesare. seppero prevedere? E di quante
non sono schiavi? Credi pure che non cesseranno di fare la
medesima cosa quando pure tu avessi a scoppiare predicando il
contrario. In primo luogo non turbarti. Ogni cosa succede secondo
la natura dell'universo. E tra breve tu non ci sarai più in nissun
luogo, siccome non ci *sono* più. Nè Adriano nè Augusto. Di poi
affisando lo sguardo nella cosa, vedi che è. E rammentando che ti bisogna
essere uomo dabbene e quello che richiede la natura dell’uomo, fallo
senza guardarti indietro, e favella ciò che a te *sembra* esser
giusto, ponendo mente soltanto che questo tu faccia e dica sempre con
amorevolezza, con verecondia e senza simulazione. Intendi la cosa che ti
turba. Questa faccenda ha la natura dell’universo. Trasportare colà le
cose che sono qui, cangiarle, tramutarle da uno in altro luogo. Tutto
è mutazione. Non però in modo che s’abbia a temere nulla di nuovo. Tutto
è cosa solita ed anche tutto è distribuito egualmente. Ogni natura
qualsiasi è contenta di sè, quando procede libera nella propria via. E la
natura ragionevole procede libera nella sua via, quando non assente ad
alcuna rappresentazione falsa od oscura, quando indirizza i suoi
sforzi verso la sola cosa che e utile al comune, quando non ischifa nè appetisce
se non la cosa che e in nostro potere, quando si accomoda. Il tutto non è
che un giro; onde che non v' ha nulla di nuovo da temere. Di buon grado ad
ogni cosa che le venga compartita dalla natura comune. Perchè essa è parte
di questa, a quel modo stesso che la natura della foglia è parte
della natura della pianta. Se non che la natura della foglia è parte
di una natura senza senso e senza ragione, e che può essere
impedita. Dove che la natura dell’*uomo* è parte di una natura che non
è sottoposta a ricevere impedimento ed è intelligente e giusta. Poiché
distribuisce egualmente, e secondo i meriti di ciascheduno, il tempo,
la sostanza, la causa, razione, l’accidente. La quale egualità di
distribuzione potrai osservai e se tu paragm. r^rai non già separatamente l’una
cosa di questo con l’una cosa di quello, ma *complessivamente* ogni cosa
di questo con ogni cosa di quell’altro. Non puoi leggere. Ma reprimere ì moti
insolentì dell’animo, tu il puoi. Ma non lasciarti SIGNOREGGIARE DAL
PIACERE o dal dolore, tu il puoi. Ma essere disprezzatore della gloriuzza. Tu
il puoi. Ma non adirarti contro gli stolti e gl’ingrati ed anche pigliar
cura di loro, questo ancora tu il puoi. Fa che ninno t’oda più
quind’ innanzi querelarti della vita in corte nè della tua. Il
pentirsi è un rampognare se stesso dell’aver trascurato qualche cosa di
utile. Ora il bene conviene di necessità che sia qualche cosa di
utile, e però l’uomo onesto deve averne gran cura. Ma l’uomo onesto non si
pentirà mai dell’aver trascurato un piacere. Adunque IL PIACERE non è
il buono o cosa utile. Che è questa cosa considerate. Sottintendi: e questa
è la ragione per cui l’uomo onesto si pente di aver trascurato di far del
bene. In se stessa e nell’essere suo proprio? che v’ha in essa di
sostanziale e di materiale? che v’ha di causale? Che fa essa nel
mondo ? Quanto tempo è per durare? Quando peni a riscuoterti
dal sonno, sovvengati essere particolar mente conforme all’esser tuo e
alla natura dell’uomo il fare opere socievoli. Dove che il DORMIRE ti è comune
cogli animali irragionevoli. Ora ciò che è più particolarmente conforme
alla nostra natura, è anche più particolarmente accomodato a noi,
più facile e ancora più giocondo a fare. Non ommetter in verun caso li
esaminare, per quanto è possibile, ogni cosa, facendo uso degl’ammaestramenti della
FISICA, di quelli dell’ETICA e di quelli della LOGICA. Divisioni principali
della filosofia appo gli stoici. In chiunque tu ti avvenga, di’tosto a te
medesimo. Che opinioni ha costui intorno al buono? Perchè se egli ha
intorno al PIACERE piacere o alla cosa che e produttrice del PIACERE, e intorno
alla gloria e all’ infamia, alla morte e alla vita, certe cotali
opinioni, non mi pare rnaraviglioso nè strano che faccia certe cotali cose.
E mi ricordo sempre lui essere sforzato ad operare in tal guisa. Ricordati
che siccome è da vuol dire. Esamiua ogni oggetto, riferendolo alla natura
generale, e vedendo, secondo il precetto della fisica, elio relazione ha
col tutto. Riferendolo a te stesso, in quanto sei capace di felicità, la
quale non può mai andare disgiunta dalla VIRTÙ ed è sostanzialmente
identica con essa, e vedendo a che cosa ti giova, secondo il precetto
dell'etica; paragonando il giudìzio che tu ne fai con altri giudizi anteriori,
e vedendo se non ìstà in contraddizione con quelli; esaminando inoltre le
conseguenze che si possono dedurre da questo giudizio: tutto ciò secondo
il precetto della LOGICA. stolto il maravigliarsi che la ficaia produca
il fico, così è il maravigliarsi che il mondo produca quelle
cose che è destinato a produrre. Non altrimenti che stolti sarebbero
quel medico e quel pilota i quali si maravigliassero che altri avesse la
febbre e che il vento fosse contrario. Non dimenticare essere da uomo
libero anche il mutar parere e seguire il consiglio di chi propone un
avviso migliore del tuo. Perchè egli è pur sempre tua l’azione che tu fai
coir esercizio della tua volontà, della tua facoltà giudicativa, e secondo
il tuo intendimento. Se la cosa sta in poter tuo, perchè la fai? Se
sta in potere altrui, di chi ti lagni? Degli atomi o degli dei? E di
questi e di quelli il [Se sta in te il fare o non fare yna cosa, o
l’impedire che si faccia da altri, perchè la fai, o lasci che ai faccia
per dolertene poi? lagnarsi è pazzia. Non occorre lagnarsi di nissuno. Perchè se
il puoi, hai a correggere l’uomo. Se non puoi l’uomo, hai a
correggere la cosa. E se anche questa non puoi, il lagnarti a che
giova? Non vuoisi far nulla a caso e senza scopo. Fuori del mondo non
può cadere chi muore. E se riman quivi, quivi anche e non altrove si trasforma
e si risolve ne’ suoi principi, che sono gl’elementi del mondo e
tuoi. E questi ancora si trasmutano d’una in altra forma, e non
mormorano. Non è cosa che non sia nata ad un certo fine: il cavallo, la
vite ecc. Qual meraviglia? Anche il Sole Febo Apollo dice. Io nacqui ad un
certo fine e similmente gl’altri iddii. E tu a che sei nato? A darti bel
tempo? Vedi se ciò concorda col concetto che tu fai dell’uomo. Non
meno che il cominciare. Cioè nel mondo e crescere delle cose la natura ha in
mira il loro decrescere e finire, non altrimenti che il giocatore
che gitta la palla. Ora c^ual bene per questa il salire o il
discendere, od anche il cadere a terra? e qual bene per la bolla
d’aria il formarsi e qual male il dileguarsi? Il medesimo puoi dire
della lucerna. Arrovescialo codesto corpo e vedi qual è: e qual diventa
invecchiando, e ammalandosi e depravandosi.Di corta vita sono e il
laudante e il laudato, il ricordante e il ricordato; ed anche ciò accade
in un [Il qual giocatore non lancia la palla perchè abbia solo ad
andare in alto, ma ancora perchè abbia a discendere. La quale si accende, arde
e si spegne, o tutto è naturale egualmente. S Àrroveciato codc lo
corpo. Mettendo coir immaginazione al di fuori ciò che sta al di dentro. Depravandosi
coll’ABUSO DEI PIACERI SENSUALI. angolo di questa contrada, nè quivi pure
sono tutti d’accordo, e v’ha tale che non è neppure d’accordo con sè
medesimo: e tutta la terra non è poi altro che un punto. Applicati
all’oggetto, o al domma, o all’azione, o al significato. È tua colpa se
questo ti accade. Tu vuoi piuttosto diventare domani che essere oggi uomo
dabbene. So io una cosa? La so riferendola al bene degli uomini. Mi accade
una cosa? La ricevo riferendola agli dei e alla fonte di tutte le cose,
dalla quale procedono in- Cioè fa' che la tua attenzione sia sempre
rivolta ad una di queste quattro cose. O all'oggetto su che tu operi,
esaminando che è in realtà: o al domma o credenza per virtù della
quale tu operi, esaminando se ella è vera; o all’azione tua stessa, esaminando
se tu la fai come vuoi farla; o al SIGNIFICATO della parole, cioè riferendo
il particolare al generale, per capire l’ESSENZA della COSA SIGNIFICATA. sieme
conserte le une colle altre tutte le. cose che accadono. Che ti pare che
sia il lavarsi? Olio, sudore, sudiciume, acqua fecciosa, cose tutte
stomachevoli. Tali sono tutte le singole parti della vita, tutti li
oggetti esteriori. Lucilla fe il corrotto a Vero, poi altri a Lucilla;
Seconda a Massimo, poi altri a Seconda; Epitincano a Diotiino, poi altri a
Epitincano. Antonino a Faustina, poi altri ad Antonino; Celere ad Adriano.
Poi altri a Celere. Sempre e in tutto il medesimo tenore. E quei
belli spiriti, quelli antiveditori dell’avvenire, quei burbanzosi dove
sono egli- no? Come per esempio, fra i belli spiriti, Carace,
Demetrio il Platonico, Eudemone e simili? Tutti sono vissuti un giorno,
tutti son morti da lunga pezza; di alcuni non si è fatta più menzione
nè anche per un poco. Altri sono passati nelle favole, e alcuni di essi
scomparvero già anche dalle favole! Sovvengati dunque come bisognerà
pure che o si dissolva codesto tuo composto, o si spenga codesto tuo spirito
vitale, o sia tramutato altrove e vengagli assegnato un altro
posto. È letizia dell’uomo il fare ciò che è proprio dell’ uomo. E
proprio dell’ uomo è il voler bene a’ suoi congeneri, disprezzare i
moti del senso, distinguere fra le rappresentazioni quelle che sono degne
di fede, contemplare la natura dell’universo e le cose che conformemente a
quella si producono. Tre relazioni. L’una colla causa circostante.
L’altra colla causa divina, dalla quale procede tutto che accade ad
ognuno. La terza cogli uomini che vivono con noi. O il dolore è un
male pel corpo, e se questo è, il corpo ce lo dica. O è un male per
l’anima. Ma questa ha in poter suo il conservar sempre la sua calma
e serenità, e il non fare concetto del dolore come di un male.
Imperocché ogni giudizio, ogni volizione, ogni appetizione o avversione
qualsivoglia è un atto del tuo principio interno, e niun male può salire
insino ad esso. Rimovi da te le false rappresentazioni dicendo continuamente
a te stesso. Ora sta in poter mio il fare che in questa mia anima
non sia veruna malizia, veruna concupiscenza , veruna perturbazione,
in somma; e vedendo le cose nel vero esser loro, fare uso di
ciascheduna secondo il valore di essa. Nel senato e con
chicchessia parla compostamente, fuggendo il soverchio delle parole,
e il tuo ragionare sia senza orpello. Corte di Augusto. Moglie,
figlia, nipoti, progenitori, sorelle. Agrippa, congiunti,
famigliari, amici. Ario, mecenate, medici, sacrificatori. Tutta una
corte che è morta. Procedi innanzi e considera il venir meno non delle
persone ad una ad una, ma, per esempio, della famiglia Pompeia. E quella
scritta che si legge sui sepolcri. L’ultimo della sua schiatta ; w e
pensa quanto s’ebbero a travagliare gli antenati di colui perchè non
mancasse loro un successore. Nondimeno è pur forza che qualcheduno sia
l’ultimo, ed ecco allora la morte di una intera prosapia. Colla bontà
delle singole azioni vuoisi procacciare di ben comporre la vita. E
se ciascuna di esse, per quanto è possibile, fa quelli effetti che dee fare, ti
basti. Nè ciò può essere impedito mai da checchessia. Sorgerà qualche
impedimento esteriore. Ninno impedimento che possa toglierti di operar
giustamente, temperantemente, razionalmente. Tale o tale altra opera
potrà essere impedita. Ma se tu accetti di buon animo quello impedimento, e
passi alacremente a far buon uso della nuova occasione che ti vien
data, ecco posta nella serie degli atti di che si compone la vita,
in luogo di quella che ti avevi pro- posta, un’ altra azione la quale
non è meno acconcia a quella buona composizione della vita di che
si favella. 33. Ricevi senza boria, lascia an- dare senza
ripugnanza. Vedesti mai una mano tronca. t Cioè i beni della
fortuna. Gli è come se dicesse: Non tenerti per da più, quando la
fortuna ti viene a trovare; non tenerti per da meno, quando ella se ne
va. o un piede, o una testa giacenti lungi dal corpo onde furono
recisi? Cotale si rende, per quanto sta in lui, chi ripugna ad
accomodarsi r ciò che accade, e si separa a questo modo dalla
società comune, o fa qualche atto contrario al bene di quella. Tu
te ne stai là gittate in un canto, fuori dell’ unione naturale
degli esseri. Perchè tu eri nato parte di quella, e te ne sei spiccato.
Se non che tu puoi sempre rappiccar- viti di nuovo, usando della
facoltà a te concessa da Dio, e non concessa a veruna altra parte
di checchessia, che spiccata una volta dall’ intero potesse
rappiccarvisi.Evedi di quanta eccellenza volle Iddio adornare la
costituzione dell'uomo: chè, primie- ramente, egli pose in potestà di
lui il non separarsi punto dal tutto ; e poi il rapprendersi e
compigliarsi di nuovo con quello, quando se ne fosse spiccato, e
riprendere il suo posto e le condizioni sue come parte aderente qual era
da prima. 35. Dalla natura degli intelligenti ha ricevuto
ciascuno di noi,’ come tutte le altre facoltà (e sono tante quasi e
tali, quante e quali quella medesima ne avea ricevute*), e così
anche quest’ una: che a somiglianza di lei, la quale volge e dispone
nella serie del fato, facendone cosa sua e quasi parte di sè
medesima, tutto che a lei si venga ad attraversare e a resisterle;
così può T animai ra- gionevole far cosa sua di ogni im- pedimento,
pigliandone materia al suo operare e all’ esercizio della propria
virtù ; sia pur qualsivoglia la cosa nella quale venisse impe- dito
(14). 36. Non ti turbi il pensiero, quale [Intendi: in qnanto
siani ragionevoli]. [Sottintendi: da chi è maggioro di lei. sia per essere
tutta la tua vita, e non darti pena e sconforto coll’an- dare
fantafticando quanti e quali travagli avrai forse ancora a soste-
nere : ma ad ogni caso presente in- terroga te stesso col dire: che v’ha
in ciò d’impossibile a sopportare? Perchè avrai vergogna di
rispondere affermando che v’ abbia alcun che di tale. E poi ricorda
a te medesi- mo, non essere mai nè il futuro nè il passato quello
che ti grava, ma pur sempre solo il presente. E que- sto presente
s’ impicciolisce assai quando tu il consideri ne’ suoi pro- pri
confini, chiedendo poi alla tua mente, se anche così impicciolito
ella non sia buona da sopportarlo. Pantea o Pergamo stansi forse
tuttavia seduti presso alla tomba di Vero? o Cauria e Diotiino presso
a quella di Adriano? è follia il chie- derlo. Ma quando pure
stessero tut- tavia colà seduti, forse che ai loro signori ne
giungerebbe notizia? e quando ciò fosse, forse che ne avreb- bero
diletto? e quando ne avessero, sarebbero Pantea e Pergamo e Caiirio e
Diotimo immortali? non era egli destino che anche questi invec-
chiassero e poi morissero? e morti che fossero, che rimarrebbe a
fare ai loro signori ? fetore è tutto cotesto, e marciume in un
sacco. Se hai la vista acuta, dice egli, ' adoprala, giudicando
saviamente delle cose. Una virtù che si opponga alla giustizia non veggo
nella costituzio- ne deir animai ragionevole ; ma una che si
opponga al piacere veggo io bene: la temperanza. Togli via il tuo concetto
in- 1 Epitteto. P. Intendi: se hai P ingegno sottile,
fa' che la tna condotta il dimostri, cioè non contentarti di dire
le belle cose, falle. Dai giudizi dipendono, secondo gli stoici,
ne- cessariamente le azioni. torno alle cose che sembrano darti
noia, e tu ti troverai al sicuro. Ma chi è questo tu a cui favelli? La
ragione. Ma io non sono ragione. Sta bene. La ragione non dia dunque noia
a se stessa. E se poi v’ ha altro in te che si dolga, faccia egli
concetto di quel suo dolore. Un male per la natura anima- le è r
impedimento del senso. Ancora un male per lei è ciò che può impedire la
soddisfazione dell’appetito. Medesimamente v’ hanno im- pedimenti alla
natura vegetale, e sono quindi un male per essa. Adun- (jue ciò'che
può recare impedimento alla mente è un male per la natura
intellettiva. Fa’ l’ applicazione di que- sto ragionamento a te stesso.
Il do- lore ti tocca o il piacere? lascia che ci badi il senso.
Qualche ostacolo è sorto ad impedire un effetto da te voluto? se tu
volesti senza la debita riserva, questo invero fu un male per te, in
quanto sei animale ragio- nevole. Ma se fu una appetizione nel
significato comune, tu non hai ricevuto nocumento nè impedimento
alcuno. Perocché tutto che è pro- prio della mente non può essere
impedito che da lei stessa; non è dato nè a fuoco, nè a ferro, nè a
tiranno, nè a maldicenza il giun- gere insino ad essa: quando si è
fatta sferica, permane liscia e rotonda. Allusione ad alcuni versi d’Empedocle,
il quale considerava la sfera come la più perfetta delle figure ;
onde che appo Orazio la rotondità potè anche essere immagine a
significare l’eccellenza morale, Sat. II, 7; «Quisnara igitur
liber? Sapiens, sibique imperiosus: Quera neque pauperies, neque
mors, neque vincula ter- reni: Responsare cupidinibus, contemnere
bonores Fortis, et in seipso totus teres, atque rotundus: etc. » Ai quali
versi di Orazio alludeva pur forse Antonino in que- sto luogo.
Anche a Dante piacque una figura geometrica come immagine di una
virtù morale quando disse: < Ben tetragono ai colpi di ventura. Non
debbo, io, che non ho mai voluto contristare altrui, voler con-
tristare me stesso. Chi piglia piacere ad una cosa, chi ad un’
altra. A me fa piacere se ho una mente sana, che non abbia
avversione a verun uomo, nè a ve- runa delle cose che sogliono
acca- dere all’ uomo, ma guardi ed accetti ogni cosa con sereno
occhio, facendo uso di ciascheduna secondo il valore di essa.
44. Pigliati questo tempo presente: chi vuol piuttosto darsi
pensiero della fama che lascerà dopo sè, non considera che i
posteri saranno tali tuttavia quali sono i contemporanei eh’ egli
ha in fastidio, e mortali essi pure. A te che rileva al postutto
che dalle bocche loro s’ oda echeggiare tale piuttosto o tal altro
suono, e che essi abbiano di te tale piuttosto o tale altra
opinione? Toglimi di qua e gittami dove vuoi. Colà ancora* avrò meco
il mio genio propizio, vale a dire pago di sè medesimo, quando le
disposizioni . sue sieno conformi alla sua propria natura.
Ciò * vale il pregio che la mia ani- ma se ne turbi e voglia farsi
peg- giore di sè, essere travagliata da desiderii e timori,
sconfortata, im- miserita? E qual cosa troverai tu ' che lo
valga? 4G. Air uomo non può nulla ac- cadere che non sia un
accidente umano, nè al bue che non sia acci- dente’ proprio del
bue, nè alla vite che non sia accidente proprio della vite, nè alla
pietra che non sia ac- cidente proprio della pietra. Ora se a
ciascheduno accade quello che è solito accadergli e gli è
connatura- * Intendi: colà ancora dove mi avrai git- tato, e
dove-che sia, avrò meco ec. Intendi : ciò che ora mi accade, o chec- ché
altro di somigliante. le, a che ti crucceresti? la natura comune non può
arrecarti nulla che tu non sia fatto per tollerare. Se ti attristi
per alcuna cosa esteriore, non è la cosa esteriore quella che ti
turba, ma si il giudizio che tu ne fai. E lo annullare quel
giudizio sta in te. Se ti attristi per alcun che del tuo stato
interiore, chi ti impedisce che tu non raddrizzi l’opinione onde deriva
quel tuo stato? Che se ti attristi perchè non fai tale o tal altra
cosa che ti par buona, chè non ti volgi al farla anzi che
attristarti? — Ma sorse osta- colo più potente di me. Non attristarti
adunque se tua non è la colpa del non fare. Ma non porta il pre-
gio di vivere, se questo non posso fare. Esci dunque pacatamente di
vita (dacché muore anche colui cui vien fatta la cosa che imprende),
o con animo benevolo verso chi ti ha contrariato. Sovvengati
come divenga ines- pugnabile la parte sovrana dell’ uomo quando
rinchiusa in sè stessa non abbia altro proponimento'che di non
lasciarsi indurre a far cosa che essa non voglia, anche nei òasi in'
che quel suo ostinarsi a non volere fosse fuor di ragione. Ora che
non sarà quando la sua risoluzione proceda da sano e ben ponderato
consiglio? La mente scevra da passioni è dun- que una eccelsa
rócca, nè 1’ uomo ha luogo più validamente munito ove raccogliersi
per non esser vinto mai. Chi non conosce questo- rifu- gio, è un
ignorante ; chi lo conosce e non vi ricovera, è uno sciagurato.
49. Non dire tu a te stesso più che non siati annunciato dalla
per- cezione immediata. Ti si annuncia che il tale sparla di te. Questo
ti si annuncia ; ma che tu ne riceva no- cumento, non ti è
annunciato. Vedo che il figliuolo è ammalato. Questo veggo io ; ma
ch’egli sia in pericolo non vedo. Fa’ dunque di attenerti sempre a
ciò che ti dice la perce- zione immediata, non aggiungendovi nulla
del tuo, e così non ti accadrà nulla mai.' Anzi aggiiignivi pur
qual- che cosa, e siano le riflessioni di un uomo che conosce le
relazioni e le con»lizioni vere di tutte lé cose che accadono nel
mondo. Il cocomero è amaro? non man- giarlo. V’hanno sterpi nella via?
fa di non inciamparvi. Tanto ti basti. Non farti a dire: che
bisogno ci avea anche di cotali cose nel mondo? perchè ne avresti
le beffe dell’ uomo versato nella scienza della natura, come avresti
quelle del legnaiuolo Nulla di male, intendi, perchè tutto quello
che sarà oggetto immediato della percezione, senza alcuna aggiunta del
tuo, non sarà mai gran male. Cioè che tutto che accade è nell'
ordine della natura, e vuol essere accettato di buon grado. e del
calzolaio se ti facessi a biasi- marli del trovarsi trucioli e
ritagli nelle loro botteghe.' E nondimeno per costoro v’ha luogo
ove gittarli fuori delle loro officineT mentre la natura dell’
universo non ha fuori dell’ universo alcun luogo. Ma questo è appunto il
mirabile dell’ arte di costei, che essendo essa circo- scritta da
quei limiti che ella pose a sè stessa, tutto ciò che nella sua
officina sembra guasto, vieto, non più utile a nulla, ella riprende
in sè stessa e ne fa materia alla pro- duzione di cose nuove.
Perchè ella non vuole aver bisogno mai nè di estranea materia, nè
di luogo este- riore ove gittare il vietume, e a lei basta il suo
proprio luogo, la sua propria materia e l’arte sua propria. Fa’ di
non essere molle o negligente nell’ operare, non confuso nel favellare,
non vagante qua e là senza scopo nel pensare; fuggi, in quanto si è
agli affetti, lo scoramento e la subitanea gioia, e nel tenore
della vita lo impigliarti in troppe faccende. Ammazzano, tagliano a
pezzi, fanno imprecazioni. Che vale tutto questo ad impedire che la
tua mente non si conservi pura, assen- nata, temperante e giusta?
Se alcu- no fattosi vicino ad una fontana lim- pida e dolce si
ponesse a maledirla, forse che da quella cesserebbe di scaturire
acqua potabile? Vi gittasse ancor dentro fango e sterco, essa lo
avrebbe sciolto ed espulso in poco d’ ora, e non ne rimarrebbe
conta- minata. Come avrai tu dunque in te una fontana limpida e
perenne, e non un pozzo? Col non cessare di rivendicarti in
libertà, serbandoti sempre mansueto, schietto e verecondo. Chi non
sa che cosa è il mondo, non sa dove sia egli stesso. E chi non sa a
che il mondo e stato fatto, non sa nò qual sia egli stesso, nè
" che cosa sia il mondo.* E chi ignoia r una di queste due
cose, non può neppur dire a che fine egli stesso sia nato. Ora che
ti pare di colui che ambisce esser lodato da tali che non sanno nè
dove essi sono, nè quali essi sono?^ 53. Vuoi tu essere
lodato dall’uo- mo che tre volte all’ora maledice se stesso? Vuoi
tu piacere all uomo il quale non piace egli stesso a sè medesimo?
Piace egli a se medesimo chi si ripente quasi di ogni cosa die va
facendo? Oramai non ti basti' più sola- E chi non so o che il
mondo ..... nè che cosa sto il mondo. StiU" interpretazione di
questo luogo diversamente inteso dagli interpreti, si può vedere la nota
nell' edi-zione di Torino. [Intendi quali ^ieno le loro condizioni. mente il
respirare* con l’aria* che ti circonda, ma fa’ eziandio di pen- sare
e di volere con l’ intelligenza universale* che in sè contiene ogni
cosa. Perchè la potenza intellettiva si diffonde e penetra per ogni
dove, chi voglia attingere da essa, non [Respirare: intendi
vivere la vita sensitiva per mezzo della respirazione. Il verbo “respirare”
e il corrispondente nel testo hanno nelle dne lingue rispettive oltre al
senso proprio, quello di vivere. [Con “l’aria”: intendi coll’ aiuto e
cooperazione dell’aria, conformemente - alla na- tura di essa aria, e
insieme con essa; chè essa pure vive è spira, o respira. La preposizione
con e la corrispondente in greco esprìmono nelle due lingue rispettive,
oltre alla relazione di compagnia, quella ancora di conformità,
aiuto reciproco o COOPERAZIONE', esprimono ancora il rapporto di causa sia
istrumentale, sia materiale. Tutte queste rela- zioni di compagnia,
conformità, aiuto e causa materiale, vogliono intendersi come
simul- taneamente espresse, confuse insieme in una idea complessa,
nelle dette preposizioni, così in questa come nella frase seguente. Coll’intelligenza universale : intendi
coir aiuto di ossa, conformemente ad essa e insieme con essa. meno che l’aria
rispetto a chi la aspira. Il vizio, universalmente, non nuoce al
mondo; e singolarmente, non nuoce ad altrui. Nuoce solo a colui al
quale è dato di potersene liberare al primo momento che il voglia. Alla
mia volontà la volontà del vicino ò cosa tanto indifferente quanto
la anim uccia di lui e il cor- picciuolo di lui. Perchè, sebbene
siam nati tutti gli uni per gli altri, la parte sovrana di ciascuno di
noi ha nondimeno il suo proprio domi- nio separato; altrimenti la
malvagità del vicino potrebbe essere un male per me. Il che non fu
voluto da Dio, affinchè non fosse in potestà altrui il far me infelice. Il
sole sembra versarsi per ogni dove, e effettivamente si diffonde
' Cioè alPuomo vizioso, che può cessare di esser tale tosto che il
voglia. da tutti i lati, ma non però si effon- de.* Quel suo diftbndersi
è uno esten- dersi: e però gli splendori di lui si chiamano actines
(raggi) da ecteine- sthai (estendersi).* Tu puoi vedere che cosa è
un raggio guardando la luce del sole che penetra per un piccol buco
in una camera oscura: ella si allunga in diritta linea e va come ad
applicarsi sul corpo opaco qual siasi, che le si fa incontro e
intercetta 1’ aria al di là.* Quivi si ferma senza sdrucciolare giù nè
ca- dere. Cosi dee pure diffondersi la mente, non effondersi, ma
esten- dersi ; e quando s’ appresenta un ostacolo, applicarvisi
senza violenza nè urto, nè tampoco cader giù, ma Non si versa fuori
in modo eh' egli ab- bandoni il luogo onde parte la sua luce. [Falsa
etimologia, simile a tante altre che puoi incontrare presso' gli antichi.
Vale a dire intercetta come corpo opaco il passaggio della luce agli
strati d' aria che sono al di là. star ferma e- illuminare 1’ obb
ietto che la riceve. Che se questo non vorrà trasmettere la luce, tal
sia di lui se rimarrà privo di essa.Chi teme la morte, teme o di
non dover più aver sentimento, o di dover avere un sentimento diverso dal
presente. Ma se tu non avrai più sentimento, non sentirai verun
male; e se tu avrai un sentimento diverso, sarai un animale diverso,
e non avrai cessato di vivere. Gli uomini sono nati gli uni
per gli altri. Ammaestrali dunque, o sopportali. Altro è il moto
della freccia, altro quello della mente. Perchè la mente anche
quando procede cautamente e s’ aggira* nel deliberare, va 1
Intendi: non vorrà lasciarsi penetrare da essa luce, dandole passaggio nelle
parti più interne. Cioè illuminato solo esteriormente, ma al buio
nell' interno. nondimeno per la diritta via verso Io scopo.
61. Entrare nella parte sovrana di ciascheduno, e far sì che
ognuno possa penetrare nella parte sovrana di noi medesimi. Chi fa
ingiuria ad altrui, è reo d’ empietà. Perchè la natura univer- sale
avendo fatto gli animali ragio- nevoli gli uni per gli altri,
affinchè r uno giovi air altro, secondo il merito, e non gli noccia; il
trasgre- dire le intenzioni di lei, è manife- stamente un peccare
contro la più veneranda fra le Dee. Chi mente, è pur reo di quel
medesimo peccato. Perchè la natura universale è natura degli enti,
e gli enti hanno relazione di parentela con tutti gli esistenti. [Secondo
il merito; frase stoica. Di tutti gl'interpreti anteriori all’ornato il Kmtz è
il solo che intendesse bene Oltre che ella è nomata la
verità, ed è la causa prima di tutti i very. E però *chi MENTE CON
INTENZIONE*, è reo verso di lei, in quanto fa torto ad altrui
ingannando; e chi mente senza intenzione,' in quanto che ad ogni
modo discorda dalla natura universale, e turba V ordine andan- do a
ritroso della natura del mon- do ; * perchè va a ritroso di essa
non senza sua colpa anche colui che insciente va a ritroso del vero;
sendo che non per altro che per non aver profittato di quelli
indirizzi e sussidi di cui gli fu prov- vida la natura, non è egli più
in grado di distinguere il vero dal falso. Ancora è reo di empietà
chi segue il piacere come un bene e schifa il dolore come un male.
Perchè non questo luogo, ancora che un po' troppo pla-
tonicamente. Vedi la nota dell' Ornato nel- l'edizione di Torino. Cioè
per ignoranza, o a caso. P. * Che è l'ordine per eccellenza. può
essere che costui non mormori spesso contro la natura comune, quasi ’
ella non abbia riguardo al merito nelle dispensazioni che va
facendo ai buoni ed ai tristi, veg- gendosi spesso i tristi vivere
nei piaceri e nella abbondanza di tutte le cose che li procurano,
quando i buoni cadono nel dolore e van sog- getti a tutti gli
accidenti che ne sono cagione. Oltre che chi teme il dolore, temerà
pure talvolta alcune delle cose che sono per accadere nel mondo: il
che è già da per sè cosa empia;* e chi va in cerca del piacere non
si asterrà dal far torto agli altri. Del resto, chi viiol seguire
la natura, dee consentire colla natura [Epitteto, Manuale XXXII, 4.
« Di modo che ciascuno che procacci di desiderare e fuggire
solamente quello che è da essere desiderato e fuggito, procaccia al
tempo medesimo di esser pio » (traduz. di G. Leopardi). Cfr. Manuale. ed
essere indifferente rispetto a tutte quelle cose rispetto alle quali ella
si dimostra indifferente col far che suc- cedano egualmente nel
mondo. K • però chi non fa eguale stima del dolore e del piacere,
della morte e della vita, dell’ infamia e della gloria, delle quali cose
fa uso egual- mente la natura universale, è mani- festamente reo di
empietà : dico che la natura ne fa uso egualmente, vo- lendo
significare che sono accidenti a cui sono deipari sottoposti
secondo la legge di anteriorità e posteriorità,' tutti gli esseri
che nascono e si suc- cedono gli uni agli altri per conseguenza
necessaria di .quello impulso primordiale con cui la previdenza
concependo in sè certe ragioni del futuro,* e determinando virtù
gene- ratrici di esistenze, di cangiamenti 1 Abbiamo seguito
l' emenda^siono del Ce- rai. Ragioni seminali. e di successioni conformi
a quelle,' diè principio a questo ordinamento di cose.
2. Certo meglio era per te serbarti puro di menzogna e di ogni
sorta di finzione e di boria sino al punto della tua dipartenza
dagli nomini. Ora il partire nauseato di queste cose è, dopo quello,
il miglior par- tito che ti rimanga. 0 hai tu forse deliberato di
marcir sempre nel vizio, e r esperienza stessa non ti persua- de
ancora a fuggire dalla peste? Perchè è peste la corruzione della
mente ancor più che lo infettarsi c corrompersi di quest’ aria che
ne circonda. L’ una è peste degli ani- mali in quanto sono animali
; l’altro è peste degli uomini in quanto sono uomini.
3. Non disprezzare la morte, ma accettala di buon grado,
siccome Conformi a quelle ragioni seminali. quella che è una delle cose
che la natura vuole. Perchè quale è il giun- gere alla adolescenza,
alla vecchiaia, il crescere, il giungere alla virilità, il mettere
i denti e la barba, il ge- nerare figliuoli, portarli, partorirli,
e tutti gli altri effetti che arrecano le stagioni della vita, tale è
ancorji il dissolversi. Appartiensi dunque ad uomo assennato il non
procedere alla cieca colla morte, nè all’ avventata nè con
superbia, ma aspettarla come uno dei tanti effetti naturali: come
aspetti l’ora che dall’utero della mo- glie esca il feto, a quello stesso
modo aspetta l' ora in che l’ anima tua uscirà di codesto suo
invoglio. Che se ti è bisogno anche di uno em- piastro da idiota il
quale s’ applichi al cuore,' ti gioverà il considerare Che se ti è
bisogno anche appli- chi al cuore. Le parole del testo, chi
ben le intenda, non sono, a parer mìo, senza una certa ironia.
Perchè a far riguardare quali sieno le cose onde t’ hai a dipartire,
e gli umori degli uomini tra i quali l’anima tua non sarà più
impigliata. Non che tu abbia a re- carteli a noia, chè anzi hai da
averne cura e sopportarli con amore ; ma potrai ricordare che non
sei per di- partirti da uomini che la pensino come te. Perchè, se
ci avesse cosa con indifferenza la morte, la ragione specu-
lativa data già innanzi dovrebbe, secondo l’autore, bastare al filosofo, al
quale non dovrebbero abbisognare argomenti che ai indirizzino alla
sensibilità, e che Antonino chiama “empiastri da idiota che s’ applicano
al cuore”. Ornato traduce questo luogo come segue: Che se vuoi
inoltre uno espediente da nomo materiale che ti muova sensibilmente:»
notando al margine: c anzi tutto conveniva far capire il senso, e
qui era maggior fedeltà il la- sciare la lettera. Il primo mezzo, dice
An- tonino, era da filosofo: questo secondo da illetterato: e però
quello era speculativo, questo pratico. Ma vedi se puoi dir meglio,
chè sono scontento assai. » Per dir meglio io ho stimato che fosse da
conservare il linguaggio figurato e l'ironia del testo, non tanto
difficile poi a capire anche nella traduzione. che dovesse affezionarci alla
vita, questa sarebbe fuor di dubbio; lo averla a passare con chi sente
e giudica come noi. Chi pecca, pecca a suo danno : chi
commette ingiustizia, fa ingiuria a sè medesimo, facendo sè malva-
gio. 5. È ingiusto soventi volte non solo chi fa, ma ancora
chi non fa. Se il giudizio che tu fai nel momento presente è vero ;
se l’azione che tu fai nel momento presente si riferisce al ben
comune ; se la disposizione in che sei nel momento pre- sente è di
accettare di buon grado quanto avviene per virtù della causa
esteriore ; non ti abbisogna più altro. Togli via le false
immagina- zioni ; contieni i moti dell’ animo ; spegni i desiderii
troppo accesi ; fa’ che la mente sia padrona di sè. Una è l’anima
distribuita fra tutti gli animali irragionevoli; una la ragione
compartita a tutti i ra- gionevoli come una è la terra di tutte le
cose terree, una la luce per cui veggiamo, ed una 1 aiia che respiriamo
tutti quanti abbiamo vista! e respiro. Tutte le cose che hanno
alcun che di comune fra loro, tendono l’una verso dell’altra. Il
terreo tende verso la terra, V umido s ac- costa all’umido, l’aereo
all’aereo. Il fuoco va in su per cagione del fuoco elementare
; e quaggiù è così pronto ad unirsi con altro fuoco, che ogni
materia un po’ secca s accende di leggieri per lo esservi mescolata
dentro minor quantità di ciò che impedisce l’unione, h sunilmente
ciò che partecipa della natura intellettiva tende verso il suo congene-
re, e con più forza eziandio : perchè quanto ha più eccellenza delle
altre cose, tanto ha maggiore inclinazione ad unirsi con chi ha
somigliante natum, e a confondersi con esso. E però tu trovi appo
gli animali privi di ragione sciami, mandre, nidiate, e come chi dicesse
amori: sono già anime in essi, e la virtù unitiva, più intensa nel
più perfet- to, vi si manifesta quale non è an- cora nelle piante,
nelle pietre o nei legni. Ed appo i ragionevoli tu vedi città,
amicizie, famiglie, radunanze pubbliche; e anco nelle guerre patti
e tregue. E appo gli esseri ancora più eccellenti l’unione ha luogo
in certo modo anche fra i disgiunti e lontani, come puoi vedere
negli astri.' Cosi un più alto grado di eccellenza può generare
scambievole corrispon-. Molti degli Dei popolari riferivano gli stoici ai
gran corpi celesti, al sole, alla luna, alle stelle. Gli Dei medesimi
non sono pure, agli occhi degli stoici, ciascnno per sò medesimo; ma
tutti sono per tutti, per la loro comunità, pel Dio supremo, pel mondo ecdexiza
negli esseri anche a mal grado della distanza che è tra mezzo. Ma
vedi ora a che siamo : soli i ragio- nevoli sembrano talora aver
posto in oblio la loro qualità che li chiama ad unirsi
reciprocamente gli uni cogli altri, e quivi solo pare che non si
trovi sempre concorso reciproco. Nondimeno con tutto che essi fug-
gano a poter loro, e’ sono da ogni parte arrestati ; chè la natura è.
più potente di loro. Tu vedrai manifesto (j nello che io dico, se
tu saprai osservare. Perchè ti verrà più agevolmente fatto di trovar terra
scompa- gnata dalla terra, che non uomo scompagnato dall’
uomo. Porta il suo frutto anche l’ uomo, ed anche Dio, ed anche il
mon- do: e ogni cosa nella sua stagione porta il suo frutto. Che se
l’uso ap- plica questo modo di dire propria- mente alla vite e alle
altre cose di simil fatta, non monta nulla. La ragione poi porta un
frutto c per gli altri e per sè stessa,* e nascono da lei cose che
hanno natura e qualità simili alle sue proprie. Se tu il puoi, fa’
che si ricre- da ; se non puoi, sovvengati che la benignità ti è
stata data per questo.* Anche gli Dei sono benigni a questi tali ;
e in certe cose eziandio li aiu- tano, come a conservare e ricuperare la
sanità, ad acquistare fama e ricchezza: cotanto sono essi amorevoli. Il
medesimo puoi fare .tu an- cora ; o veramente di’ chi ti impedisce che tu
noi faccia. Lavora non già come un ta- pino nè come chi voglia farsi
com- miscrare o ammirare ; ma intendi a ciò solamente: operare e
astenerti. Cioè per tollerare amorevolmente an- che chi erra e non vuole o
non può ricredersi. Intendi « agire o non agire, » frase solenne appo gli
stoici, non traducibile. secondo che la ragion civile * richiede. Oggi
sono uscito d’ ogni mia noia, 0 per dir più vero, ho cacciato fuori
ogni mia noia, perchè non era fuori di me, ma dentro, nelle mie
opinioni. Sion tutte cose, in quanto al numero delle volte che si
sono ripetute, consuete ; in quanto alla durata, transitorie ; in quanto
alla materia, sordide. Tutte sono ora quali erano al tempo di
coloro che abbiam sep- pelliti. Le cose stan fuori dell’ uscio,
^ dapersè, nulla sapendo disè, nè giu- dicando. Chi è dunque che
giudica intorno a loro? la parte sovrana. Intendi il bene della società. Intendi
fuori di noi, e non hanno adito a noi nè potenza di turbarci, se noi
non apriamo loro l’uscio, facendo stima di loro disuguale al vero.
Ho creduto di dover con- servare l'espressione figurata del testo
greco. Cioè la ragione. Non nella passione, ma nella razione sta il bene e il male dell’animai
ragionevole e socievole; come non istà nella passione ma nell’
azione la virtù di lui e il vizio. Alla pietra scagliata in
aria non è punto un male lo andare in giù, nè un bene lo andare in
su. Penetra nell’interno delle menti loro, e vedrai che gente è
quella di cui tu temi il giudizio, e che sorta di giudici sono
anche verso di sè medesimi. L’esistenza delle cose è un passare
incessante da una in altra forma. E tu stesso non perduri un istante
nel medesimo stato, ma ti vai di continuo alterando e come a dire
dissolvendoti. E l’universo
parimente. Cioè iniqui anche verso sè stessi, non che verso gli
altri; dannando essi la lo(o parte sovrana a servire alla inferiore. Il
fallo altrui coiivien lasciarlo dov’è. Il finire di una azione, il cessare
di una volontà o di un pensiero e, per così dire, il morir loro,
non è punto un male. Considera ora le diverse età: l’infanzia, L’ADOLESCENZA,
la giovinezza, la vecchiaia. Il cessare di quella che precede per dar
luogo a quella che segue, è ancora, come a dire, una morte. È egli un
male? Passa a considerare la vita che vivesti sotto 1’ avolo, poi
quella sotto la madre, e rammenta ancora molte altre diversità di
stati, e mutamenti dall’ uno in un altro, e ces- sazioni ; e interroga te
stesso; è egli cotesto un male? Adunque nò anco il cessare e
concludersi della vita, nè il totale mutamento di essa non è punto
un male. Cioè in chi n’è autore, il quale non nuoce che a sè medesimo.
Bada alla tua parte sovrana, a quella dell’ universo, a quella di
costui. Alla tua, per ridurla giusta ed imparziale ; a quella dell’
uni- verso, per non dimenticare di che sei parte; a quella di
costui, per chiarire s’ egli operò per ignoranza ovvero con intenzione, e
ricor- dati ad un tempo che egli ti è congiunto. Come tu medesimo
sei parte del corpo sociale, così anche ciascuna delle tue azioni è parte
inte- grante della vita di quello. Adunque se una qualsivoglia di
esse non ha per iscopo, o immediato o mediato, il bene della
società, ella turba la vita comune rompendone l’ unità, ed è
sediziosa come è sedizioso chi parteggia in una città e guasta, per
quanto è in lui, la comune concordia. Sdegni fanciulleschi, bambo-
late, animucce che portano cadaveri, cose che rappresentano al vivo ciò
che narra Omero delle anime degli spenti. Considera la qualità della
causa, e separando quella dalla materia, fa’ di contemplarla
distintamente in sè stessa; di poi vedi anche e circoscrivi
distintamente entro i suoi confini il tempo che, al sommo, possa
cotal cosa per la natura sua durare. Hai sofferto mille travagli
per non aver voluto appagarti unicamente del far quello a che sei
stato ordinato: ma basti. Quando altri ti lacera o ti odia, o che
schiamazzano contro di te, come fanno ora, pensa alle animucce Farla
di tutte le cose di questo mondo. L’Odissea, lib. XI, discesa di Ulisse all’Inferno.
Intendi: per non aver riposto unica- mente il tuo bene nel far quello ohe
ec.Come schiamazzano ora ; relativo a qualche caso particolare. di questi
tali, penetra loro addentro e osserva che uomini sono. Ve- drai che non
ti conviene il dar;(:i briga perchè essi abbiano di te piut- tosto
tale che tale altra opinione. Hai nondimeno a voler loro bene : chè
sono per natura amici tuoi. IC anche gli Dei non lasciano di giovar
loro in ogni modo, per mezzo di sogni, di oracoli, sebbene in
quelle cose soltanto che da costoro si pregiano. Cotale è il
perpetuo giro delle cose mondiali ; all’ insù all’ ingiù, d’ età in
età. 0 la mente dell’ uni- verso determina con atti particolari di
volontà ciascuna cosa ; e se que- sto è, tu hai da ricevere con
amore il voluto da lei : o ella ha voluto e determinato una volta
per sempre, o tutto pende e procede da quella determinazione ; e allora a
che il ri- calcitrare? Egli è, in certo modo, come se non ci avesse
altro che atomi e indivisibili. Al postutto, o egli v’ ha un Dio
intelligente e provvido, e tutto sta bene ; o le cose si governano dal
caso ; e tu almeno non governare a caso te stesso. Oramai la terra
ci ricoprirà tutti quanti siamo ; e poi anche la terra si trasformerà; e poi si
trasformerà quello ancora in che si sarà trasformata la terra ; e
quest’ altro ancora di nuovo, air infinito. Davvero chi ripensa a
un cotale incalzarsi di mutamenti e di moti e alla rapidità con che si
suc- cedono, non può essere che al tutto non disprezzi ogni cosa
mortale. La causa universale è un tor- rente che trae seco ogni
cosa. E que- sti omicciuoli che al parer loro ma- neggiano secondo
filosofia gli affari «li Stato, come son piccioli! Veri bimbi in culla.*
0 uomo, attendi a Letteralmento : « pieni ,di moccio, moc- ciosi, »
cioè « bimbi col moccio al naso. far quello, che che sia, che la natura
richiede da te nel momento presente, e non andar guardando attorno se
altri il saprà. Non isperare la repubblica di Platone, e sii contento ad
ogni po’ di progresso che tu vegga ; pensando che anche il ridurre questo
ad- effetto non è pic- cola cosa. Perchè le opinioni degli uomini
chi può mutarle? E senza correggere le opinioni, che puoi tu avere
se non ischiavi che gemono e s’infingono di obbedire ? Or va’, non
istar più ad allegarmi Alessandro, Filippo, Demetrio Falereo. Buon
per loro, se conobbero che cosa vuol la natura comune, e seppero
raffrenare e governar sè medesimi. Che se operarono solo per parere,'
nissuno ha moT'oeuXy direbbero i Francesi. Dal novero di
questi bimbi non pare che Antonino intendesse escludere sè medesimo. Fare il
bene per amor del bene piutto- sto che della lode, voler essere
piuttosto che parere ottimo, è il tratto più essenziale condannato
me ad imitarli. Semplice e modesta è l’opera della filosofia. Non
indurmi ad ostentazione di gravità. Contempla, come da un’ alta vetta,
mandre infinite d’uomini, usi di religione innumerevoli, e un na-
vigar da ogni banda, in tempesta, in bonaccia, e diversità di
nascenti, di conviventi, di morenti ; pensa an- cora alla vita che
si vivea per lo addietro, e a quella che si vivrà dopo te, e a
quella che tra le nazioni barbare si vive ora, e quanti v’ ha che
di te ignorano anche il nome, dì un gran carattere morale, dipinto
da Eschilo con tre versi sublimi nei Sette a Tebe parlando di
Amfiarao, in parte fran- tesi dal Belletti; e la cui traduzione
let- terale, per quanto è possibile, sarebbe : « non sembrare, ma
essere ottimo ei vuole, fa- cendo fruttificare il fertile terreno
della sua mente, ove germinano gli assennati pensieri. [ Bellissimo e nobilissimo
paragrafo ! quanti insegnamenti, e per quanti, si compendiano in esso! P e
quanti che sono per dimenticarlo in breve, e quanti che ti lodano
forse ora, e ti biasimeranno tantosto: e come non è da fare stima nè
della ricordanza, nè della gloria, nè di ve- runa cosa quaggiù.
Imperturbabilità rispetto alle cose che procedono dalle cause este-
riori; rettitudine nelle cose di che tu stesso sei causa : vale a dire,
determinazioni ed azioni non aventi altro fine che sè medesime, cioè
d’o- perare socievolmente, siccome cosa che è secondo la tua
natura. Fra le cose che ti molestano, molte le quali hanno sede
nella tua opinione, tu puoi sgombrare da te, o darai cosi campo ed
agio a te stesso. Fa’ di abbracciar colla mente l’uni- verso
mondo, e concepir nel pensie- ro r eternità dei secoli, e considera
la rapida trasformazione di ciascuna cosa particolare, e quanto è
breve l’intervallo dalla nascita alla dissoluzione, e infinito il tempo
che precedet- te la nascita, e infinito del pari quello che terrà dietro
alla dissoluzione. Tutte le cose che tu vedi si tlissolverannò tra
breve, e coloro che le vedranno dissolversi, si dissolveranno tra breve
anch’essi. E chi morrà d'estrema vecchiezza, si tro- verà ad un
medesimo ragguaglio con chi mori anzi tempo. Che menti son quelle di
costoro ! e per che motivi amano e onorano altrui! abbi in uso
diveder nude le loro animucce. Quando si credono nuocere
biasimando, o giovare lodando, che vanità! Una perdita di che che sia non è
altro che una trasformazione. Edi ' questo si compiace la natura dell’universo,
conforme alla quale tutto [Intendi: qual vanissimo errore!] Perchè
la lode e il biasimo di chi che sia noii aggiunge e non toglie nulla al
valor vero degli uomini o dello cose. si fa bene. Per secoli
innumerevoli le cose si sono fatte a questo modo, e continueranno a
farsi' a questo modo per altri secoli innumerevoli. Che dirai
dunque? Che sempre sensi fatte male, e che continueranno a farsi
male per l’avvenire? Or nissuno dunque s’ è mai trovato fra cotanti Iddìi, il
quale avesse potestà di correggere tutto questo? E il mondo è egli
condannato a mali che non avranno mai fine? Vedi il marcio della
materia che sottosta alle cose: acqua, polvere, ossicini, sudiciume. Il
marmo, callosità della terra; l’oro e r argento, capomorto di quella
; la veste, peli ; la porpora, sangue: cosi di tutto il rimanente.
E la materia organica vivente, altrettale: di La conclusione è che le
perdite, i mu- tamenti, e tante coso allo quali il^ volgo dà il
nome di mali, non sono mali veri. quei medesimi ingredienti si com- pone,
e in quelli si risolve. Abbastanza hai tapinato, abbastanza hai
mormorato, abbastanza hai fatto la scimmia. Che ti turba? Che
t’interviene di nuovo? Che è ciò che ti trae dal senno? La causa?
vedila. La materia? vedi la materia. Da queste cose in fuori non v’
ha nulla. Ma anche fa’ di essere più pio verso gli Dei e più
semplice. Lo stare a veder queste cose tre o cento anni è
tutt’uno. Se egli ha peccato, in lui sta il male. Ma forse non ha
peccato. 0 da una sola fonte intelligen- te, come in corpo organato procedono
tutte le cose ; e se ciò è, non appartiensi alla parte il
querelarsi di ciò che fassi ad utilità comune del tutto ; o sono gli
atomi. E tutto che esiste, accozzamento del caso, vien dissipato dal
caso. A che dunque ti turbi? Di’ alla parte sovrana : sei tu morta?
sei tu fradicia ? sei tu altra cosa che te? sei tu imbestiata? sei
tu giumento ? sei tu pecora? gli
Dei non possono far nul- la, o possono. Se non possono ; a che li
preghi? Ma se possono, che non li preghi piuttosto perchè ti concedano
di non temere nè desidarare alcuna di queste cose, nè di rattristarti per
esse, anzi che pre- garli che tu possa ottenerle o evitarle? perchè ad
ogni modo, se e’ pos- sono aiutare gli uomini, debbono poterli
aiutare anche in questo. Dirai forse : cotesto gli Dei hanno posto in mia
facoltà. 0, non è dunque meglio valerti con altezza d’ animo
indipendente di ciò che sta in poter tuo, anzi c he affannarti abbiettamente
e servilmente per ciò che non dipende da te? E poi chi ti ha detto
che gli Dei non ci aiutino anche nelle cose che stanno in poter no-
stro? provati di pregarli, e vedrai. Altri prega : fa’ che io possa giacere
con colei. E tu prega: fa’ che io non desideri di giacere con colei.
Altri : fa’ che io mi possa liberare dal tale. E tu: fa’ che io non
abbia bisogno li liberarmi dal tale. Altri ancora : fa’ che io non
perda il figliuolo. E tu: fa’ che io non tema di perderlo. In somma
raddrizza cosi le tue pre- ghiere, e sta’ a vedere che ne segue.
4L Dice Epicuro : « Ammalato, io non facea mai parola delle
affezioni del mio corpicciuolo nè d’altre co- tali cose, quali
sogliono essere quelle di che amano gli infermi inti’atte- nersi
con coloro che li vengono a visitare. Ma attendeva tuttavia a ragionare
intorno ai punti principali della filosofia naturale, soprasUmdo
ad investigare e dimostrare ciò ap- punto : come possa V anima,
ancora che partecipe dei moti del corpo, serbarsi nondimeno
imperturbata, e conservare in sè quel bene che è proprio di lei: nè
dava, aggiunge egli, materia ai medici d’insupei- bire, come se
facessero gran che : chè la mia vita, anche in quello stato, non
era senza calma e giocon- dità. » Ora fa’ tu altrettanto, sia,
ponghiamo caso, che tu ammali, o t’ intervenga qualsivoglia altra
mo- lestia: perchè"' il dover serbar fede alla filosofia in
ogni congiuntura qualsiasi, e non delirare con lo stolto e con l’ignaro,
è precetto comune a tutte le sètte. Bada unicamente a ciò che tu
fai nel momento presente, e all’ istro- rnento con che il fai. Quando
ti senti offeso dall’impudenza di alcuno, interroga tosto te n'iedesimo :
ò egli possibile che non ci abbia impudenti nel mondo? Non è. Non
voler dunque l’impos- sibile : questo è uno di quelli impu- denti
che di necessità hanno ad essorci. Lo stesso hai da dirti e del furbo e
del disleale, e di qualunque altro vizioso che pecchi in qualsi-
voglia modo. Perchè ricordandoti essere impossibile che tal sorta
di gente non sia, tu ti farai più mite verso ciascuno. Giova ancora
il pen- sare subito. Qual virtù ha dato all’uomo la natura contro questo
peccato'? Ha dato, per modo di eseni- [Intendi: tosto che ci
sentiamo offesi por tale 0 tal altro fatto biasimevole di chicchessia. Intendi
: contro al sentirsi offeso da questo peccato del vicino. Perchè colle
stesse parole in altro luogo potrebbesi anche si- gnificare: qual
virtù diede all'uomo la na- tura .per combattere in sè medesimo
questo peccato e serbarne puro sè stesso. pio, contro all’ ingrato la
mansuotudino, 0 contro a ciascuno altro vizio, altre virtù. Ad ogni modo
tu puoi far prova di ravviare quel traviato; perchè chi fallisce,
fallisce Io scopo a cui mirava, ed è quindi traviato.' E ancora tu
hai a pensare qual danno te ne viene : eli è troverai nissuno di
costoro, contro ai quali ti adiri, aver fatto cosa per cui la mente
tua sia. per divenir peggiore. Ed ogni tuo male, ogni tuo danno,
ben sai, non poter essere altrove che in quella. E poi che male ci
ha, o che v’ ha egli di strano se l’indotto fa cose da indotto?-
Vedi piuttosto che tu non abbia a rampognar te medesimo, il quale non hai
aspettato da colui tal sorta di fallo. Perchè a te la ragione
porgeva argomenti a pre- vedere che costui fallirebbe probabilmente in
quella guisa; ’ e tu non badasti, ed ora ti vai maravigliando eh’
egli abbia fallito. Massimamente (juando parratti aver rimproveri a
fare a un disleale, a un ingrato, fa’ che tu rivolga contro te
medesimo r accusa : sendo manifestamente tuo r errore se hai
creduto che un uomo in cotale disposizione d’animo fosse ' per
mantenere la fede; o,se facendo tu del bene ad altrui, non l’hai
fatto senza un rispetto al mondo ad altra cosa che al bene che
volevi fare, nè con r intento di avere a raccogliere immediatamente
e unicamente dal fatto stesso dello aver compiuta una buona azione,
tutto ed intero il frutto di essa. Nel vero quando tu hai
beneficato un uomo, che vuoi tu an- cora di più?^ Non ti basta aver
fatto II saggio, diceano gli stoici, avrà amici, ma li amerà per utile
loro, e non di sè stesso. un’azione che è conforme alla tua natura,
e vuoi inoltre ima mercede, come se gli occhi avessero ad esser
pagati perchè vedono, e i piedi perchè camminano? Perchè siccome queste
membra furono così confor- mate affinchè avessero a fare cotali
uffici, e quando hanno fatto i servigi a che furono ordinate, hanno
ricevuto tutto ciò che è dovuto loro; cosi l’uomo, per 'natura
benefico, quando ha operato alcun che di bene, o semplicemente aiutato
altrui nelle cose medie, ha fatto quello a che è stato ordinato ed
ha ricevuto tutto quello che gli è dovuto. E quando mai, o anima,
sarai tu buona, o schietta, ed una, e ignuda, e più appariscente ' del
corpo che ti (àrconda? Quando gusterai tu di quello stato che è
tutto dilezione ed amore? Quando sarai tu fornita di tutto punto,
non mancante di nulla, non agognando nè desiderando nissuna cosa,
sia animata o sia ina- nimata, per pigliarne diletto ? nè tempo
perchè il diletto più duri? nè ' luogo od opportunità di paese o di
clima, nè conformità d’uomini che ti vadano a genio? ma sarai paga
[Intendi visibile, chè questo senso ha pure il vocabolo
appariscente] del tuo stato presente, facendo piacer tuo di tutte le cose
presenti, e persuadendo a te stessa che tu hai tutto e che tutto va bene,
e che tutto li viene dagli Dei e tutto andrà bene, checché piaccia
ad essi d’ inviarti per la salute di quello animale per- fetto e
buono e giusto e bello, il quale genera tutte le cose, e tutte le
contiene ed abbraccia e riceve al- lorché si dissolvono per la
riprodu- zione di altre simiglianti? Quando mai sarai tale che,
vivendo in una società con gli' Dei e con gli uomi- ni, non ti
accada mai né di dolerti di loro, né di essere condannato da
loro? Vedi quello che richiede la tua natura in quanto sei governato
dalla sola natura,’ e fàllo o accettalo ogni volta che non sia per
patirne danno la tua natura d’animale; Di poi os- Cioè a dire in quanto soi organismo viventi. serva
quel che richiede la tua na- tura d’ animale , e questo ancora ri-
duci ad atto ogni volta che non sia per patirne danno la tua natura
razionale. Ma il razionale importa, qual conseguenza immediata, il
so- cievole. Metti in pratica queste re- gole, e non darti pensiero
più d’altro. Checché ti accada, è o non è comportabile alla tua
natura. Se è, non hai motivo di crucciartene, ma Adunque Antonino,
come già gli stoici antichi, come i fllosofl moderni (vedi particolarmente
Burdach, Antropologia), tre diverse nature, o per dire più propriamente,
tre diversi gradi simultanei di vita distin- gueva nell' uomo : la vita
plastica o vegeta- tiva, la vita animale, e la vita razionale.
Quanto al principio unico, o moltiplico di queste tre vite, le idee degli
stoici erano confuse. E Antonino errava lungi dal vero quando
diceva, parlando della vita plastica o vegetativa, questa essere «
governata dalla sola natura, » se con ciò intendea che a produrne,
o a spiegarne tutti i fenomeni bastassero quelle leg^ che i moderni
chia- mano « leggi generali della natura. attendi a portartelo in pace,
essendo tu nato a ciò. Se non è, ancora non crucciartene ; perchè
verrà meno come prima ti avrà consunto. Ma sovvengati che sei tale
per natura da poter tollerare tutto ciò che sta in potere della tua
mente di rendere tollerabile col persuaderti che ti giovi 0 sia
dover tuo il tollerarlo. Se falla, correggilo amorevol- mente, e
mostragli in che ha falla- to. Se noi puoi, incolpane te stesso, o
veramente nè anche te stesso. Qualunque accidente ti occorra, egli ti era
da secoli innumerevoli predestinato, e la serie fatale delle cause * avea
connesso insieme quello accidente colla tua esistenza. 6.
Atomi, o nature, quale che fosse dei due, io pongo per fermo in
primo luogo che io sono parte di ^ Concatenazione delle cause, o
serie delle cause è appo gli stoici la definizione stessa del fato.
un tutto governato da una natura; e- in secondo luogo che io ho
rela- zione di affinità con tutte le parti a ine congeneri. Avendo
ferme nel- r animo queste due cose, in quanto io sono parte, non
avrò a grave nulla di ciò che mi viene compartito dal tutto, non essendo
nocevole alla parte quello che al tutto è giovevo- le ; nè potendo
il tutto aver nulla in sè che non conferisca al bene di lui ;
primieramente perchè questa è proprietà generale di tutte le na-
ture, e poi perchè la natura del- r universo ha questo ancora di
più, che non è càusa alcuna esteriore da cui possa essere
necessitata a pro- durre mai cosa la quale sia per nuo- cerle.
Ricordandomi adunque che io sono parte di un tutto cotale, avrò
caro ogni cosa che avvenga. E in quanto ho relazione di affinità
colle parti a me congeneri, attenderò a non far nulla mai che non
si riferisca a quelle ; ma anzi mirando sem- pre a» miei simili,
rivolgerò tutte le mie forze a procacciare il ben co- mune, e mi
asterrò da tutto che possa ridondare in altrui danno. E così
governandomi' non può essere che la vita non abbia un corso fe-
lice ; come felice stimeresti il corso della vita del cittadino il quale
pro- cedesse d’ una in altra opera giove- vole ai suoi compagni di
patria, e avesse caro tutto quello che fosse voluto dal
comune. Alle parti del tutto, quante per natura contengonsi nell’
universo, è necessità il corrompersi: questo sia •detto per
significare lo alterarsi di esse. Il quale alterarsi se fosse per
natura un male, come è una neces- sità, poco felici sarebbero le
condi- zioni del tutto, le parti di lui es- sendo, come a dire,
avute in odio da chi governa, e da lui fatte tali da doversi chi in
uno, chi in altro modo corrompere. Dove converrebbe dire o che la
natura avesse' voluto nuocere ella stessa alle proprie sue parti
(20), sottoponendole al male, e facendole tali che dovessero neces-
sariamente incappare ' nel male, o che ciò sia avvenuto senza che
sia stato voluto nè avvertito da lei. Delle quali cose nè V una nè
1’ altra ò da credere. Che se taluno, messa da canto la natura,
presumesse espli- care il nodo affermando le cose essere nate a
ciò, non sarà punto meno strano il dire essere le parti del tutto
nate ai mutamenti, e ad un tempo il maravigliarsi e dolersi quan-
do questi mutamenti si compiono: massimamente quando noi veggiamo
che esse risolvonsi sempre in quei medesimi elementi di che è
compo- sta ciascuna. Avvegnaché la corru- zione o dissoluzione
delle cose altro non possa essere e non sia in ef- fetto che una
disgregazione e dispersione di quegli elementi, del cui ag- gregato esse
si compongono, o vogliam dire un ritorno al terreo di I ciò che v’ ha in
esse di solido, e al- r aereo di ciò che v’ha in esse di vitale,'
di modo che la ragione se- minale dell’universo riprenda di nuo- vo
in sè questi elementi, perchè al- r ultimo sieho consunti dal fuoco,
se r universo è sottoposto a conflagrazioni periodiche, o servano con
per- petua vicenda al continuo rinnovel- lamento di lui, se egli
dura eterno ed incorrotto.* E questo solido e que- sto vitale non
darti già a credere I che sia quello che tu avesti dalla madre
nascendo : perchè ieri, e ier r altro è venuto ad aggregarsi in te [Ricorda
siccome appo gli stoici la vita consiste nella respirazione, e quindi T
es- senza di quella è 1' aria. Opinione degli stoici più antichi:
Ze- none, Cleante, Crisippo. Opinione di molti stoici posteriori: Zenone
da Tarso, Boeto, Posidouiu, Panezio. e tiai cibi, e (-l’aria die hai respi rata.
Questo adunque che ti si è assrefiato ora si trasforma, e non
oo o più. quello che partoriva la madre. Fa’ che tu vi
sottoponga col pensiero quel che ti lega sì strettamente a ([ueste
tali e tali altre cose, le quali sono un nulla, cred’ io, jrispetto
a quello di che io ragiono Avendo tu imposto a te mede- simo questi
nomi di buono, di mc- ciosto, di veritiero, di assennato, di,
consenziente, di magnanimo, fa’ che non abbiansi a mutare nei loro
con- trari ; e ove mai ti accadesse di per- dere quelli, fa’ che tu
non tardi a ri- cuperarli. E ricordati che con la pa- rola
assennata, tu volevi significare r attenzione discernitiva a
ciascuna cosa presente, e il non pensare ad altro in quel mentre. Con
la parola consenziente, l’accettazione volontaria di quanto ti viene
compartito dalla natura comune; e con la parola ma( filammo, la
elevazione dello spirito al di sopra di ogni moto soave o insoave
della carne, e al di sopra I della gloriuzza, della morte c di si-
mili cose. Se adunque tu ti assicu- rerai il possesso di quei nomi
senza bramare che ti vengano dati da al- trui, sarai un alti ò uomo
ed entrerai in ima vita nuova. Percìiè il continuare ad essere per lo
innanzi quale sei stato infino ad ora, e il continuare a voltolarti fra
le brutture e I Je angosce di una vita cotale, troppo è da uomo
stupido e codardo, simile a quei bestiari ' mezzo rosi dalle fiere,
i quali pieni di ferite e con- taminati di sangue e di loto, pre-
gano pure di essere conservati infine al domani, ancora che
.consapevoli di dover essere di nuovo esposti, conci in quel modo,
alle medesi- Cosi chiamavano i Romani quelli accoltollatori che negli
spettacoli combatte- vano contro le fiere. me unghie e ai medesimi
denti. Gittati adunque con animo delibe- rato in su quei pochi
nomi, e se puoi tenertivi saldo ed eretto, tien- tivi, non
altrimenti che se tu fossi venuto ad abitare in qualche isola
fortunata ; se ti accorgi che tu vi tentenni, e non possa vincere la
prova, vattene animoso in qualche cantuccio ove tu sia certo di
vincer- la ; od anche esci al tutto di vita, senza adirarti, ma
semplicemente, liberamente, modestamente contento di aver fatto
pure una cosa nella vita: Tesserne uscito in cotal modo.* E al
farti ricordare di quei nomi gio- verà non poco il ricordarti degli
Dei, i quali non vogliono essere adulati ; * ma bensì che tutti gli
esseri ragio- nevoli facciano di assomigliarsi a Epitteto,
Manuale. La pietà verso gli Dei consiste massimanientG in avere
sane e rette opinioni intorno a quelli (traduz. del Leopardi). loro, e che il fico faccia le cose che
s’appartengono al fico, il cane quelle che si appartengono al cane, e
Tuomo quelle che s’appartengono all’ uomo. Il teatro, la guerra, lo
sbigot- timento, la torpidezza, la servilità andranno in te
cancellando di giorno in giorno quelle sante massime, le quali tu
apprendi bensì colla imma- ginativa e confidi alla memoria, ma
senza dar loro fondamento nè fer- marle colla considerazione del tuttto
022) . Egli ti bisogna vedere le cose e fare in modo che e il
particolare che è intorno a te, sia bene osser- vato, e la
relazione di quello al tutto sia contemplata, e quella compia-
cenza di sè medesimo che nasce dalla scienza di ciascuna cosa si
con- servi nell’ interno tuo, segreta, ma non celata. Altrimenti
quando godrai i frutti della semplicità? quando quelli della
gravità e sodezza ? quan- do quelli della conoscenza di ciascuna cosa, quale
ella è per essenza, che posto occupa nel mondo, quanto tempo è per
sussistere, di che è composta, in quali obbietti si può trovare, e
chi sono coloro che possono darla o toglierla. Il ragno superbisce se ha
preso una mosca ; altri, se un lepratto ; altri, se un’ acciuga;
altri, se un cinghiale o un orso; altri, se fece prigioni alcuni
Sarmati. Non sono dunque assassini costoro se tu consideri i principii
che li movono? Fa’ che tu impari il modo ac- concio di contemplare
come tutte le cose si mutano le ime nelle altre, e attendi senza
ristare a questa parte della filosofìa, e vienti esercitando in
essa. Perchè nuli’ altro è che tanto innalzi 1’ animo. Chi è
assiduo in questa contemplazione si spoglia, sto quasi per dire,
del corpo, e considerando siccome in poco d’ ora gli converrà lasciare
tutte le cose di qua e partirsi dagli uomini, non at- tende più ad
altro che a conformarsi alla. giustizia e alla natura dell’ uni-
verso in tutto che egli fa o patisce. Che dirà un tale, che opinione
avrà di lui 0 che farà contro di lui uìi tal altro, egli non se ne
dà un pen- siero al mondo, pago e contento di queste sole due cose
; se egli fa con giustizia ciò che egli fa nel mo- mento presente,
e s’ egli ha caro qualsiasi cosa presentemente gli ac- cada. Tutte
le altre cure e negozi lascia andare, e d’ altro non gli calo che
di camminare perla diritUivia, tenendo dietro a chi sempre cam-
mina per la diritta via, a Dio. A che il sospetto quando tu puoi
ricercare che cosa è da fare nella congiuntura presente? Che se tu
il vedi, mettiti a ciò, e va’ in- nanzi alacremente per quella via,
senza guardarti dietro ; se noi vedi, sospendi il giud^io, e aiutati
del consiglio degli ottimi. Se insorgono ostacoli al compiere quello
che hai deliberato, governati razionalmente secondo la nuova
occasione che si presenta,* attenendoti sempre a quel- lo che ti
par giusto. Perchè questa è r ottima cosa da conseguire, sendo che
lo scostarsi dalla giustizia è un decadere dalla natura umana. Egli
è un certo che di lento e posato e insieme di mobile ed alacre, di
ilare e sereno e insieme di serio e grave, colui che segue la
ragione in ogni cosa. Appena riscosso dal sonno chiedi a te
medesimo se ti impor- terà che da altri anzi che da te si faccia
quello che sta bene ed è giusto. Non te ne importerà : o avre- sti
tu dimenticato quali sono costoro che superbiscono nel farsi
dispensa- M t Cioè volgi l'ostacolo a profitto, servendoti
di Ini come di nuova materia ad azione. tori della lode e del biasimo,
quali nel letto, quali a mensa; e quali cose facciano e quali
fuggano, a quali intendano, e quali rubino e quali rapiscano ' non
colle mani o coi pie- di: ma colla parte più nobile di loro, la
quale può diventare, solo ch’ella il voglia, fede, verecondia,
verità, legge, buon genio. Alla natura che dà e ritoglie tutte le
cose, 1’ uomo bene instituito e modesto dice : « Da’ quello che
vuoi, togli quello che vuoi, o natura. E questo dice non già con baldanza
orgogliosa, ma con intimo senso di alfettuosa obbedienza verso di
lei. Appo gli stoici imà virtù è la parte so- vrana deir anima
talmente modificata. [‘Natura’ per gli stoici è lo stesso che ‘Dio’. Queste
parole di Marcaurelio corri- spondono perfettamente a quelle di
Giobbe: Dominui dedita Dominus abstulit, osserva qui bouissimo il
Pierron. Poco^ è questo che ti rimane a vivere. Vivi dunque come in
sulla montagna. Perchè a qui, o colà, nulla monta, se, dove che tu
sii, tu vivi sempre nel mondo come in una città. E veggano e
conoscano pure* gli uomini un uomo davvero, il quale vive secondo
natura. Se noi possono tollerare, uccidanlo. Meglio questo che
vivere com’ essi fanno.* 1(». Non è più tempo di far parola
intorno a ciò che deve essere Tiiomo dabbene, ma di incominciare ad
esserlo. Il pensiero del tempo universo e della materia universa ti
sia del continuo presente, e che tutte le cose particolari sono,
rispetto a que- sta, un granello di miglio, e rispetto a quello, un
batter d’ occhiò. Considerando ciascuno degli obbietti che offronsi alla
tua osser- Letteralmente: un volger di trapano. vazione, fa’ di
rappresentartelo come già in atto di dissolversi e trasfor- marsi;
d’ infradiciare, per esempio, o dileguarsi in fumo, o altro, secondo
il genere di morte a cui nacque. Vedili quando mangiano, quan- do
dormono, quando usano con fem- mina, quando sono al cesso, o fanno
altre cose tali. Vedili poi (piando stanno in sussiego o fan
cipiglio, quando van tronfi e pettoruti, o s'adi- rano, rabbuffano
altrui con alterigia. E poco innanzi servivano pure come schiavi a
tante cose, e per quali motivi ! E poco dopo ritorneranno a quelle
medesime cose. Giova a ciascuno ciò che ar- reca a ciascuno la
natura comune. Ed allora giova, quando essa lo arreca. La
terra ama la pioggia; e l’ama ancora 1’etere venerando. E il mondo ama far
quello che è per accadere. Dico adunque al mondo: Io amo con te. E non
dicesi egli parimenti che una tal cosa ama accadere? 0 tu vivi qua, e ci sei già avvezzo ; 0 vai
fuori, e questo tu desi- deravi ; 0 muori, ed hai finito il tuo
compito. Fuori di questi tre casi non v’ ha altro. Adunque stattene di
buona voglia. Abbiti sempre per certo che quel tuo vivere in
villa non è punto diverso da questo, e che tutte son qui le cose
come in sulla cima del monte, o sulla spiaggia del mare, o dove che
tu voglia. Perchè ti si pa- rerà davanti a bella prima il detto di
Platone : « Egli sta nella reggia come in una capanna sul monte, mugnendo
l’armento. Che è in questo istante la mia parte sovrana ? e quale la fo
io ? A che Tadop ro io? Non è ella per av- 8Ìde«nd^‘°R
sognando o deventura vuota di ragione? Non è ella separata, divelta dalla
comunità? Non è ella cosi congiunta, conglu- tinata col corpo, da
doverne seguire tutti i moti?* 25. Chi fugge dal suo signore,
è servo fuggitivo. Ma la legge è signora: chi trasgredisce la legge,
è dunque un servo fuggitivo. E similmente chi s’ attrista, o teme, o
non vorrebbe che fosse accaduta o acca- desse 0 fosse per accadere
alcuna qualsivoglia di quelle cose che ha ordinato il reggitore di
ogni cosa, cioè la legge distributrice di quello che tocca a ciascheduno.
Adunque Bene rammenta qnì ìi Gataker ciò che Platone avea già
.detto nel Fedone: «Cia- scun piacere e ciascun dolore, non altri-
menti che un chiodo confìgge l'anima al corpo e con esso la unifica per
modo che ella, accetta per vero tutto che è affermato dal corpo. La
legge di cui qui parla Antonino è la legge universale, quella della natura,
di Dio. chi teme, o s’ attrista, o s’ adira, è nn servo
fuggitivo. 2(ì. Chi introdusse il seme nella matrice, se ne
va ; un’ altra causa sottentra immantinente, e lavora e conduce a
termine il feto. Qual cosa e da quale? Ancora, egli manda giù il
cibo per la gola : e tosto un’ altra causa sottentrando produce
senso, moto, vita, vigore, eccetera. Quante e quali cose? Queste
maraviglie, che si compiono sotto un velo si impe- netrabile,
sianti spesso subbietto di contemplazione, e sappi fare concetto
della potenza operatrice di ({uelle, come facciamo della causa che
fa gravitare i corpi o li spinge in al- to, la quale non vediamo cogli
occhi, ma non però meno certamente. Non dimenticare che tutte
queste cose, che ora si fanno, si sono fatte prima d’ ora: e pensa*
che si faranno per l’avvenire. Pònti da- vanti agli occhi quanti
drammi o scene vedesti tu stesso, o leggesti nelle antiche storie :
come, verbi- grazia, tutta intera la Corte di Adrian no, tutta
intera quella di Antonino, tutta intera quella di Filippo, di
Alessandro, di Creso: perchè erano tutte la stessa cosa che adesso, solamente
erano diversi gli attori. Fa’ ragione che colui il quale si
attrista d’ alcuna cosa, o l’ ha a male, non è punto dissomigliante
dal porcellino percosso dal ferro del sagrifìcatore, il quale ricalcitra
e grida. Non altro concetto hai da farti di chi lamenta solitario
sul suo lettuccio le catene che ne stringono. E pensa come al solo
animale ragionevole è dato seguire volontario gli eventi : che in quanto
al se- guirli ad ogni modo, è forza di ne- cessità per tutti.
1 Lettuccio è qui come chi dicesse il canapè su cui l’uomo lavora e
studia. Cosi, bene il Casaubono. Considera segregatamente in sè
stessa ciascuna delle cose che vai facendo, e interroga te medesimo
se la morte è un male perchè ti priverà del potere di farla. Quando
per l’ altrui fallo ti senti montare la collera, rivolgiti tosto
sopra te stesso ed esamina in qual cosa simile a quella tu pecchi :
stimando, per esempio, che le ricchezze siano un bene, o il piacere, o la
gloria; secondo il genere del- l’altrui peccato che ti sprona all’ira.
Perchè se tu badi a ciò, presto cesserà la tua collera. E ancora
con- sidererai che colui è forzato.* E in vero che farebbe egli?
Ovvero, se tu il puoi, rimovi da lui ciò che lo sforza. Cioè a
dire, rimovi dalla sua mente l’errore, il falso giudizio; perchè gli
stoici deriTavano interamente il bene morale dal giudizio
razionale, e riferivano quindi uni- camente alla luce della ragione le
risoln- [Veggendo Satirione, immagina di vedere Socratico o
Imene : veggendo Eufrate, immagina Eutichione 0 Silvano : quando vedi Alcifrone,
immagina Tropeoforo. Qquando vedi Senofonte, immagina Oritene o Severo; e
in te stesso figurati di ve- dere qualcheduno dei Cesari ; e così
via via. Poi ti occorra alla mente : ora dove sono costoro? In
nissun luogo, 0 chi sa dove. Di questa maniera tu verrai avvezzandoti a
consi- derare le cose umane come un fumo ed un nulla : massimamente
se ti rammenterai come ciò che fu mu- tato una volta, non
riprenderà mai più quella forma in tutto il tempo infinito. E tu in
qual tempo? Che non ti basta adunque il passare co- zioni
virtuose della volontà: secondo essi il giudizio determina la volontà
necessariamente. Intendi: se gli altri non ci ritornano mai più, ti credi
tu di averci a ritornare tu solo? 0, stumatamente questo poco che ti
è dato ? Da qual materia d’ azione, da quale impresa rifuggi? Tutte
queste cose che ti accadono, sono esse altro che occasioni di
esercizio alla ra- gione, la quale abbia diligentemen- te, e come
si addice allo studioso della natura, considerate le cose che
avvengono nella vita? Rimanti adun- que finché tu abbia assimilato a
te medesimo ancor questo,' come il valente stomaco assimila a sè
tutti i cibi, come lo splendido fuoco fa fiamma e luce di tutto che
tu getti in esso. Nissuno sia veritiero il quale dica di te che non
sei sempli- ce e schietto, che non sei uomo dabbene: ma menta chiunque
fac- cia di te un tal giudizio. E tutto ciò sta in poter tuo.
Perchè chi è [Intendi: ciò che ora ti è dato per ma- teria di
azione f frase solenne ad Antonino. quegli che ti possa impedire che tu non
sii schietto e dabbene? Solo che tu abbia fermo nell’ animo di non voler
più vivere quando tu non sii tale. Nè la ragione il vorrebbe. Che è
ciò che in questa occa- sione che mi è data si può fare o dire per
lo meglio? Checché egli sia, è in mia facoltà il farlo, o il dirlo.
Non iscusarti col dire che ne sei im- pedito. Non prima cesserai dai lamenti
che non sii fatto tale, che r operare conforme air istituzione tua
in (jualsivoglia caso non sia per te la stessa cosa che è pel sen-
suale la voluttà. Perocché ciò ap- punto vuoisi dall’ uomo avere in
conto di vero godimento. L’operare. In questa occasione - in qualsivoglia
caso.» Chi preferisse la frase stoica dica: « in questa materia — in
qualunque materia a te sottoposta » come disse Ornato. A me parve troppo
alieno dall’ uso, ed anche poco chiaro in italiano. conformemente alla propria
natura. E questo può egli in ogni caso. Al cilindro in tutti i casi
non è dato potersi muovere in quella forma di moto che gli è
propria, nè all’acqua, nè al fuoco, nè a nissuna delle cose che sono
governate o da natura inanimata, 0 da anima irrazionale : molti sono gli
impedimenti che loro si frappongono, molte le resistenze. Ma la
mente, la ragione può seguire, solo che il voglia, la sua propria
via vincendo tutti gli ostacoli. Questo potere e agevolezza che ha
la ragione di seguire la sua via in tutte le direzioni, all’alto, al
basso, per 10 declive, come il fuoco, la pietra, il cilindro,
pònti davanti agli occhi, e non cercare più oltre. Tutti gli
ostacoli che tu puoi incontrare non hanno relazione se non se al
corpo che è cosa morta ; o veramente, se non sottentra l’ opinione,
e se la mente non cede, non possono nuocere nè far male veruno.
Altrimenti chi ne patisse, dovrebbe eziandio pa- tire
deterioramento, come veggiamo di tutte le altre produzioni sia
della natura sia dell’ arte ; le quali tutte trovansi deteriorate
ove incolga loro alcun male ; ma, qui al contrario, r uomo, se ho a
dirlo, si fa migliore e più degno d’ encomio, quando fa retto uso
degli accidenti, quali essi sieno, che gli incontrano. In som- ma
ricordati che non offende il ve- ro cittadino ciò che non offende
la città; che non offende la città ciò che non offende la legge; e
che nissuna di tutte queste così dette avversità offende la legge.
E se non offende la legge, non of- fende adunque nè la città nè il
citadino. A colui che fu ben penetrato dalle vere credenze, basta
il più breve detto, anche di quelli che sono a tutti i più noti, a
sgombrargli dall’animo la tristezza o il timore. Per esempio. Quali sono
le foglie, e tali sono Le schiatte degli umani. Quelle il vento A
terra sparge, ed altre ne produce La germogliante selva a
primavera. Cosi le schiatte degli umani : questa Or nasce, or
quella muore. Foglie sono i tuoi figliuoli, foglie tutti costoro che ti
acclamano, e schiamazzano sì forte da far credere che dicano il vero ;
foglie questi altri che altamente ti maledicono, o ti vilipen- dono
e lacerano in segreto. Foglie sono ancora quelli che ricorderanno
il tuo nome dopo la tua morte. Tutte queste cose spuntano fuori alla
verde stagione, poi fi vento le sparge a terra, e(i altre in loro
vece ne ri- produce' la germofjliante selva. Il durar poco è comune
a tutte. Ma tu le fuggi 0 le cerchi come se aves- sero a durar
sempre. Ancora un poco e chiuderai gli occhi; e a quello che ti
comporrà sul rogo, altri farà il corrotto. 35. L’ occhio sano
deve essere dis- posto a vedere tutto ciò che è vi- sibile, e non
dire: io voglio vedere solamente il verde ; perchè ciò è da occhio
ammalato. L’ orecchio sano e r odorato debbono essere disposti a
udire tutti i suoni e a sentire tutti gli odori. E lo stomaco sano
deve essere preparato a digerire tutti i cibi, non altrimenti che
la macina è pronta a macinare tutto quello che ella fu fatta per
macinare. E così pure la mente sana deve essere pronta ad accettare
tutto quello che accade. Colui il quale dice : « sieno salvi i
figliuoli » e « tutti lodino le mie azioni » è come 1’ occhio che
vuol vedere solamente il verde, o come i denti che vogliono
masticare sol cose tenere. 36. Nissuno è tanto
avventurato che al suo morire non sia per avere intorno a sè chi si
rallegrerà del male che gli incontra. Savio e dab- ben uomo sia
stato ; non mancherà all’ ultimo chi in sè stesso dirà. Respireremo una
volta da questo pedagogo. A nissuno di noi diede noia con rampogne,
è vero; ma ci siam pure avveduti che in cuor suo ci condannava. »
Questo si dirà del- r uom savio. E di noi, quante altre cose
possono fare a molti desiderare che ce ne andiamo! A questo pen-
serai quando sarai per morire, e la tua partenza ti verrà fatta più
facile. Ragionerai teco stesso: me ne vo da questa vita, dalla
quale questi miei concittadini, pei quali ho in essa tanti travagli
sostenuto, tante preghiere fatto, tante cure avuto, vogliono ora
essi medesimi. eh’ io me ne vada, sperando forse che debba seguirne
loro qualche profitto. Chi dunqu e potrebbe desiderare d’avere
a starci più lungamente? Non per questo partirai tu men benevolo
verso di quelli, ma, serbando inai- terato il costume e 1’ indole
tua, amico loro tuttavia qual fosti, pro- pizio e amorevole a
tutti, e non però mesto nè ripugnante. Ma co- me veggiamo in chi
muore di fa- cile morte V anima soavemente scio- gliersi dal corpo,
cosi conviene che si faccia la tua separazione da co- loro. Perchè
la natura ti avea pure congiunto e complicato con essi. Ora me ne
disgiunge? Ed io mi lascio disgiungere come da amici e carissimi
congiunti, non però turbato nè ripugnante, ma tranquillo e di mio buon
grado. Perchè anche questa è una delle cose volute dalla
natura. A ciascuna cosa che tu vegga fare a chicchessia, vienti
avvezzando, per quanto è possibile, a ricercare, ragionando teco
medesimo : costui a che riferisce quello che sta facendo? E incomincia da
te, esami- nando te stesso il primo. 38. Ricordati che chi dà
V impulso e muove, per cosi dire, le fila del fantoccino, è il
celato nel di dentro. Quello è il dicitore che persuade, t|uello è
la vita, quello è, se vogliam dire il vero, V uomo propriamente.
Guardati dal figurartelo come una sola cosa con esso il vaso le cui
pa- reti lo circondano, o con questi in- gegni che songli cresciuti
intorno.* Questi somigliano alla scure ; se non che gli sono per natura
aderenti. Si capisce facilmente che per ingegni bassi qui ad
in- tendere ordigni, cioè gli organi e le mem- bra del corpo. Gli
Inglesi e i Francesi presero dai classici Italiani questa parola
ingegno con questo senso, e dicono quelli engine e questi engin ; come ne
presero tante altre bellissime o utilissime dello quali si servono
quotidianamente ; e di tali ancora che noi abbiamo interamente
dimen- ticato: e per significar poi quelle cose di cui abbiamo
dimenticato i nomi italiani, an- diamo ad accattar vocaboli dai
forestieri, E in effetto, allontanata la causa che li muove, non è uso
alcuno di essi pili che non sia della spola, senza la mano, al
tesserandolo, nè della penna allo scrittore, nè della frusta al cocchiere. È
proprio deir anima razionale' il veder sè medesima; il conoscere
partitamente sè medesima ; il far sè meilesima quale ella vuole: il cogliere
essa medesima il frutto che ella produce, laddove i frutti delle
piante e i portati degli animali sono colti da altrui; il giugnere
sempre allo scopo che è proprio di lei, in qualsivoglia punto
arrivi il termine della vita : perchè 1’ azione di lei, in
qualsiasi momento ne sia arrestato il corso, non rimane imperfetta,
co- [Razionale per distinguerla da quella dei bruti, che
dagli stoici è chiamata anima semplicemente. me nelle rappresentazioni
sceniche o nel hallo, o in simili cose; ma anzi in qualsivoglia
istante, in qual- sivoglia luogo le sopravvenga la mor- te, ella
compie nondimeno intera- mente, e in modo soddisfacente a sè
stessa, quanto si avea proposto (28), e può dir sempre: io ho tutto il
mio. Ancora ella va spaziando colla speculazione per tutto il mondo e
il vuoto che lo circonda, e contempla la forma di quello, e si estende
nella infinità dei secoli, e abbraccia col pensiero i rinascimenti
periodici della università delle cose; e contemplan- doli si fa
capace che non rimane da vedere nulla di nuovo ai nostri po- steri,
siccome nulla di più videro i nostri antichi ; chè anzi 1’ uomo
giunto all’età di quaranf anni, per poco che abbia di buon discorso,
ha 1 Tutto il mondo : intendi ciò che noi di- remmo tntto il
creato. Ma l'idea di crea- zione era aliena dagli stoici. in certo modo
veduto e conosciuto tutto ciò che fu e tutto ciò che sarà per la
somiglianza che hanno le cose fra loro. Ancora è proprio del- r
anima razionale l’ amore del pros- simo, la veracità e la verecondia,
e il non anteporre nulla a sè mede- sima: * il che è proprio
eziandio della legge. Onde segue che la retta ra- gione e la
ragione di giustizia sono una sola cosa. I canti aggradevoli e le
danze e gli esercizi ginnastici ti cadranno Bene avverte qui il
Gataker come an-che la legge cristiana ci prescrive di non avere a nulla maggior
rispetto che alla propria anima (confer. s. Matt. Evang. XVI, 26; s.
Marco Vili, 36). E san Gregorio Nazianzeno: c nulla, disse, è più prezioso a
ciascuno che la propria anima» riproducendo quasi nella sua prosa
il verso 301 dell’Alceste di Euripide. [Esercizi ginnastici,
letteralmente il pancrazio. Ognuno sa che i romani per mezzo della
ginnastica voleano esercitata la forza del corpo con signiftcazione di
leggiadria. E quindi i giuochi ginnastici erano pur uno degli spettacoli
più graditi ad un popolo, in disprezzo, se tu dividi, per esempio, la
cantilena melodiosa in ciascuno dei suoni di che ella si compone, e ad uno ad
uno considerandoli, domandi a te stesso, è egli questo quel che mi vince?
» perchè ne avrai vergogna. E similmente in- torno alla danza,
considerando sepa- ratamente ciascuno dei moti, cia- scuno degli
atteggiamenti; e così per gli esercizi ginnastici. E gene- ralmente
in tutto ciò che non è virtù, o che non procede da virtù, i
sovvengati di ricorrere alla divisione delle cose nelle parti loro (29),
si che divise a quel modo elle ti cadano in dispregio. Fa’ l’applicazione
di ciò anche alla vita intera. Quale debba essere 1’ anima in
tutto r ordine della cui vita regnava sovranamente l'idea della bellezza.
Cioè, dividi la vita umana in tante pic- cole porzioni, per disprezzarla
tutta insieme. Sottintendi ronsi'lera, o ricordati. apparecchiata a
sciogliersi, ove oc- corra, immantinente dal corpo, a spegnersi o a
dissiparsi, o ad entrare in una nuova condizione di esistenza. E questa
disposizione proceda da giudizio particolare della mente, non da
sola pervicacia di volontà, come nei Cristiani; sia scevra da ogni
tragica ostentazione, non però senza dignità, da poter anche
persuadere gli altri. Ho io fatto qualche cosa che giovi alla
società? Adunque ho gio- 0 ad entrare eiUtenta ; letteralmente: 0 a
perdurare. Ornato traduce: o a rimanere ancora dopo morte Non mi piacque,
ma la mia versione, che svolge il pensiero dell’ autore, ha un
coloro troppo moderno. I Cristiani
erano ancora comunemente mal conosciuti, e creduti settari fanatici,
nemici dell’ impero. Cioè a dire; sia tale, non solo intimamente. ma anche pe’
suoi caratteri esteriori, da poter persuadere altrui che essa
procede da ben ponderato giudizio,* nòn da codardia 0 vanità o da
intemperata esaltazione o concitazione di mente. vate a me stesso.' Questo pensiero ti
occorra sempre pronto alla mente, e ti conforti a perseverare. Qual
è r arte tua? L’esser buono. E quest’ arte come altrimenti s’acquista, se
non per le buone dottrine, le une intorno alla natura dell’uni-
verso, le altre intorno alla costituzione propria dell’ uomo? Da prima fu
istituita la tragedia a ricordare i casi che sogliono av- venire e
come essi sieno così fatti per natura, e ad avvertirci nel medesimo tempo
essere una contrad- dizione il pigliarne diletto quando li vediamo
sulla scena del teatro e dolercene poi quando accadono sopra una scena
maggiore. Voi vedete di [Sono le parole di' Salomone, Prov.
XI, 17: « Benefacit sibi ipsi vir beneficus.» Epitteto svolgo il
medesimo concetto, dis- sert. I, 19; Seneca, epist. 48, disse: «Non
potest beate degere qui se tantum intuetur, qui omnia ad utilitates suas
couvertit: al- teri viVas oportet, si vis tibi vivere.» fatti essere pur forza che 1’ azione si
compia a quel modo (30), e che deb- bono ad ogni modo soffrirlo
anche coloro che esclamano : « 0 Citerone, ahi lasso.* w E invero
alcune cose diconsi utilmente dagli autori di tra- gedie siccome
questa: Che se gli Iddìi Di me nè de’ miei tigli non
han cura, Ragion pur anco a ciò li move. E quest’ altra. Contro
alle cose lo adirarsi è vano. » E ancora quest’ altra:
€ Mieter la vita Come spiga matura -» E le altre
di cotal fatta. Dopo la tragedia fu introdotta hi t
Parole di Edipo. Vedi Sofocle, Edipo re, vers. 1391. Ecco, secondo la
traduzione del Belletti, i tre versi che formano il periodo intero
di cui quelle parole sono il comin- ciamonto: Oh Citeron!
perchè raccormi? o tosto Perchè morte non darmi, ond' io giammai
L'origin mia non rivelassi al mondo! vecchia commedia, la quale, con
quella sua libertà, facesse come da aio al popolo, e con quel suo
chia- mare le cose coi nomi loro, ne ri- cordasse agli uomini la
vanità: i quali modi assunse poi Diogene ezian- dio ad un fine
somigliante. Dopo la vecchia, quale sia stata la mezzana commedia,
ed ultimamente poi la nuova, e quale scopo abbia questa, che a
poco^a poco si è ridotta ad, essere puro artificio di imitazione, lascio
a te il considerare. Che anche da costoro si dicano alcune cose
utili, non è da negare : ma l’ inten- zione generale di un tal genere
di poesia e di composizioni drammati- che, qual è ella mai? Come
vedi tu chiaro nissun’ al- tra setta' essere così acconcia al
1 Setta, intendo della setta illosodca in che Marco vivea, e non
dello stato o- condizione sociale. Ho qualche dubbio, e parrai che il
3iou filosofare, come quella in che sei ora? Un ramo
spiccato da un altro ramo non può non essere separato dalla pianta
intera. Parimente un uomo diviso da un altro uomo è sca- duto dalla
società intera degli uo- mini. Il ramo vien divelto per mano d’altri.
L’uomo si separa egli stesso dal suo vicino, quando egli l’ odia,
quando lo ha in dispetto; e non s’ avvede eh’ egli si distacca ad un
, tempo dalla intera comunità. Se non che, per dono di Giove autore
dplla comunità, può ciascuno di noi che siasi distaccato dal
prossimo, riap- ÙTTóOeo'.y potrebbe anche voler dire qualche
cosa che non fosse nè la condizione sociale-y nè la setta filosofica^ ma
bensi il modo e r ordine ili vita adottato da Antonino nella condizione
sociale in cui vivea: e cosi l’in- tesero anche il Gatakero e lo Schultz,
i quali_ tradussero vitee genus. Ma siccome rOrriato pare che fosse
ben fermo in quella sua opinione, ho conservato la sua parola
fetta. P, piccarvisi e farsi di nuovo parte in- tegrante del tutto.
Vero è che quando ciò accade più volte, più diffìcile diviene la riunione
o il ristabili- mento a suo luogo della parte stac- cata. E ad ogni
modo egli è diverso il ramo che crebbe da principio in- sieme cogli
altri e sempre rimase unito con essi, dal ramo che vi fu innestato
dopo esserne stato divelto: checche ne dicano i giardinieri, fa un
albero solo cogli altri rami, ma non un solo disegno. La vegetazione è
una, ma la forma non è una. Questo potrebbe dirsi di un ramo di pe-
sco, p. es,, che fosse innestato in quello di un noce ; ma quando un ramo
del uoco che ne fosse stato spiccato fosse innestato in un altro
ramo del noce medesimo, sarebbe una la vegetazione cd una ancora la
forma. Mi è anco sospetto quello ófJioJoyjjiaTetv parlandosi di
piante. Io propendo a credere, coi migliori critici, questo luogo
corrotto o manchevole nel testo. Alcuni di quest' ulti- ma frase
fanno un paragrafo separato: e remato stesso non era ben risoluto. Chiunque
voglia avversarti in cosa che tu faccia secondo la retta ragione,
siccome non avrà forza dà distoglierti dall’ azione incominciata,
cosi ancora non ti riinova dal sen- timento di benevolenza che devi
avere per lui : ma fa’ che tu ti serbi co- stante nel giudicare e
nell’ operar rettamente, e ad un tempo amore- vole verso chi cerca
di impedirti o in qualsivoglia modo ripugni a ciò che tu fai.
Perchè non sarebbe mi- nore fiacchezza lo adirarti contro questi
tali, che il ritrarti dall’ im- presa e dar luogo per paura;
essendo egualmente disertore chi teine e fugge dall’ ordinanza, e
chi s’ allon- tana dal congiunto e dall’ amico suo naturale.
IO. Non è natura alcuna la quale sia da meno dell’ arte che ne è
imi- tatrice ; nè la più perfetta fra le na- ture, quella che
comprende in sè tutte le nature, può essere da meno di un’ arte
qualsivoglia. Ora le arti tutte fanno le parti inen nobili di
ciascuna delle opere loro per amore delle più nobili;' adunque anche
la natura comune. Quindi ha origine la giustizia, e da questa procedono
tutte le altre virtù. Perchè mal potrà conservarsi giusto colui, il
quale o non sarà indiflerente verso le cose medie, o si lascierà
facilmente in- gannare dalle apparenze, o sarà pre- Come, per
esempio, un pittore farà ciò che pone nel fondo di un suo quadro
per dare maggior risalto a ciò che ne è il sog- getto principale. E
(la questa procedono tutte le altre virtù. Intendo che dallo aver la
natura voluto che si osservasse la giustizia, procedette che essa
natura istituisse le altre virtù; quelle cioè di cui parla poco dopò ; le
quali sono necessarie alla pratica della giustizia e fu- rono dalla
natura istituite per amore di essa giustizia, còme un artefice fa le
parti men nobili di una sua opera per amore delle più nobili.
Ricordi il lettore che appo gli stoici posteriori parte sovrana della
filosofia • era la morale : la logica, anche per gli stoici
antichi, era subordinata alla morale. cipitoso
nel giudicare, o mal fermo nel giudizio fatto. Non le cose, il cui
desiderio o timore ti turba, vengono alla volta tua; ma tu in certo
modo vai alla volta loro.' Ora fa’ che il tuo giudi- zio intorno a
quelle stia cheto, e quelle rimarransi quete del pari, e tu non
sarai veduto desiderar nulla nè temere. La sfera dell’anima ha la forma
che è propria di lei, quando ella nè si estende al di fuori verso checchessia,
nè si ritrae al di dentro, nè si dissipa, nè si accascia,* ma
splende di una luce per la quale ella vede la verità che è nell’
universo e quella che è in lei. Un tale mi disprezza? Tal sia di lui. A me basta parlare e
operare Inteudi che l' anima è nello stato con- forme a natura,
quando ella non ha nè de- siderio, nè timore, nè piacere, nè dolore. in
modo che nissun mio detto o fatto meriti disprezzo. Mi odierà? Tal
sia di lui. Quanto si è a me, io mi ser- berò mansueto e benevolo
verso ognu- no, pronto a chiarire dell’ error suo anche colui che
mi odia, non con parole di rimprovero nè ostentando pazienza, ma
cortesemente e con sin- cera amorevólezza, come Focione so- lea
fare (31), supposto che non s’infin- gesse. Perchè la mansuetudine
vuol essere interna, sì che gli Dei veggano in te un uomo disposto a
non ricevere nulla con isdegno nè a ma- lincuore. Qual malej in
fatti, per te, se tu fai ora quel che s’ addice alla tua natura e
ricevi ciòcche ora è giu- dicato opportuno dalla natura uni-
versale, tu uomo ordinato a questo fine che sempre si faccia il
comun bene, sia qualsivoglia lo strumento per cui si faccia? Si
disprezzano l’un l’altro, e si vanno piaggiando l’un 1’altro. L'uno vuol
essere da pii» che l’altro, e s’ inchinano 1’uno all’ altro scawi-
bievolmente. Che fradiciume e che doppiez- za non è il dir di taluno
: a Io ho deliberato di trattar teco schietta- mente. » 0 uomo che fai?
Non è bisogno' di questo preambolo. Alla prova si vedrà. Sulla
fronte conviene ti si legga immantinente ciò che tu di’, perchè è
cosa di tal natura che tosto si manifesta negli occhi, come nello
sguardo dell’ amante ogni cosa conosce immantinente l’ amato. L’uo-
mo schietto e buono dev’ essere come chi sa di caprino, sì che al solo
ac- costarsegli altri il senta, voglia o non voglia. La schiettezza
simulata è un’ arme da traditore. Non è cosa più turpe che
l’amicizia del lupo. L’ amicizia del lupo espressione proverbiale presso i
romani, ed era allusione a quella favola di Esopo, nella quale i
lupi persuadono le pecore a dar loro i cani come ostaggi, e ad
accettare alcuni giovani lupi A tutto potere fuggi cotesto.
Alfuom dabbene, all’ uomo schietto, all’ uom benevolo sono
appariscenti negli oc- chi tjuelle qìialità loro, e non è bisogno di
parole a manifestarle. Vivere beatamente è cosa che sta in potere
dell’anima, solo ch’ella voglia essere indifferente verso le cose
indifferenti. E questo le succederà se ella considererà ciascheduna di esse
nelle sue parti e nelle sue relazioni col tutto, non dimen- ticando
che nissuna di esse viene alla volta nostra nè ci sforza a fare di
lei tale o tal altro concetto ; ma • anzi elle si stanno tutte
immobili dove sono, e noi siamo quelli che facciamo i. giudizi
intorno ad esse, e li scriviamo, per così dire, dentro di noi,
potendo non farlo; e ancora. come gaardiatii in luogo di quelli; e
divo- rano poi le infelici che lascìaronsi gabbare dalle belle parole
e dalle belle promesse. Cioè le cose fuori di noi. quando ciò ne venga fatto
inavver- titamente e senza avvedercene, po- tendoli cancellare
immediatamente e rammentando inoltre che pocd^ha a durare questa fatica
di considerare le cose in tal modo, e saremo poi fuori della vita
per sempre. E che v’ha poi di tanto arduo in esse? Se sono secondo
natura, pigliane piacere, e ti diverranno facili ; se sono contro natura,
vedi tu che cosa è secondo la tua natura, e a quello attendi,
ancora che sia senza gloria. È sempre degno di scusa chi va in traccia
del proprio bene. Donde sia venuta ciascuna cosa, di che elementi
sia composta, ed in che si trasformi, e qual divenga trasformata, e
siccome non è per soffrire alcun male per la trasformazione. E in
primo luogo,* quale rela- [Sottintendi: Considera] [Sottintendido
considerare, o altra zione io abbiaceli essi e come siam nati gli
uni per gli altri, ed io, per altri rispetti sono nato per essere
loro guida, come l’ariete della greggia e il toro deir armento. Risali
più in alto: se gli atomi non sono, la natura è quella che governa
l’uni- verso ; e se questo è, gli esseri meno perfetti sono nati
pei più perfetti, e questi gli uni per gli altri. Quali essi sono a
mensa, a letto, negli altri momenti della vita. E massimamente a che
sorta di azioni siano necessitati per le credenze che essi hanno, e con
quanta presun- zione di sapere fanno essi ciò che fanno. Che
se essi fanno ciò a buon diritto, e’ non ti bisogna avertelo a male
; se a torto, essi il fanno indubitatamente malgrado loro, non sa- pendo
quel che si fanno. Perciocché frase cotale ; e cosi al principio di
ciascuno degli otto capi seguenti. siccome è involontaria negli
uomini la privazione del vero, così involon- tario è ancora il non
portarsi verso altrui secondo le norme del giusto: il che provano
collo adirarsi quando sono chiamati ingiusti, ingrati, cu- pidi
dello altrui, o rei di qualsivoglia colpa verso il vicino. Che tu ancora
pecchi non di rado, e sei pur uno del numero loro; e se da certi
peccati ti astieni, hai nondimeno la disposizione a com- metterli,
benché, sia per difetto di audacia, sia per vanità o per altro cotal
vizio, tu noi faccia. Ancora, che tu non sai di certa scienza che
essi pecchino: perchè molte azioni, che paiono malvage si fanno
talora a fin di bene o per meno male: e ad ogni modo è me- stieri
sapere di molte cose a poter sentenziare convenientemente sulle
azioni altrui. 6® Quando senti che sìa per occuparti r ira od anche
solo l’ impazienza ; che la vita umana dura un mo- mento, e poi saremo
tutti sotterra. Che non sono le azioni loro quelle che ti turbano,
standosi quelle nei loro autori, ma bensì le nostre opinioni.
Adunque togli via, sappi rimovere da te il concetto che tu fai di
quelle, e l’ ira se ne andrà parimente. E come rimovere quel
concetto ? Col considerare che le azioni altrui non hanno nulla di
dis- onesto per te. Che se il male tutto non consistesse nella sola
disonestà dell’agente, di necessità peccheresti tu ancora, e
saresti tu pure assas- sino, e macchiato di ribalderie d’ogni
forma. Siccome le ire, i rammarichi intorno a siffatte cose
arrecano seco troppo più gravi danni che non siano quelli di che ci
adiriamo e ramma- richiamo. Che r amorevolezza è
sempre vittoriosa, quando sia schietta, e non sia una affettazione o
una parte che tu reciti. E in vero che ti può egli fare 1’ uomo il
più iracondo e inso- lente, se tu ti mostri a lui tuttavia amorevole
e se, venendo il caso, tu lo ammonisci cortesemente e cerchi di
farlo ricredere in quel tempo me- desimo che egli intende ad offen-
derti? No, figliuol mio; noi siamo nati ad altro. A me tu non
nuoci; a te bensì, figliuol mio. E gli dimostri e fai toccar con mano che
la cosa sta COSI universalmente; e come nè le pecchie si comportano
in quella guisa, nè alcun altro ani- male che sia nato a vivere in
co- munanza. Le quali cose vogliono es- ser dette senza ombra
alcuna di ironia nè di rimprovero, ma bensì con amorevolezza, e
senza amaritu- dine alcuna nell’animo; nè ancora come si direbbero
da un maestro in iscuola, nè per farsi ammirare dai circostanti; ma
da solo a solo, e se v’ha altri presente, * Di questi nove
capi fa’ che tu ti ricordi come se tu li avessi ricevuti in dono
dalle muse; e incomincia pure una volta ad esser uomo men- tre hai
vita.* E’ ti conviene ad un tempo guardarti dallo adulare gli
uomini non mejio che dallo adirarti contro di essi: perchè le sono
cose egualmente antisociali e nocive. Quando ti sentirai provocato
all’ira, ti occorra alla mente questo pen- siero: non esser punto
cosa virile lo adirarsi ; ma anzi la pacatezza, la mansuetudine,
siccome sono cose più umane, così sono anche più vi- rili ; e che
la costanza, il vigore, la fortezza sono nel mansueto, non in [Ornato
collo Schultz, anzi più riso- Intamento che lo Schultz, stimò che qui
il testo fosse manchevole. Seneca,
De ira, 111,43, disse. Humanitatem colamns, dnm inter homines
snmus. » chi si adira o s’impazientisce.
Per- chè più quegli si avvicina alla im- passibilità, tanto più
partecipa della forza; laddove l’ ira, siccome il do- lore, è
propria del debole : lo adirato e lo addolorato furono egualmente
piagati e ambidue cedettero egual- mente. E un decimo ricordo
ancora ricevi, se vuoi, dal Musagete: * essere da pazzo il volere che i
malvagi non pecchino, perch’ egli è un voler l’im- possibile. Il
voler poi che essi por- tinsi da pari loro verso tutti gli altri e
noi facciano con te, è da stolto e da tiranno. Contro quattro specie di
de- terminazioni* della parte tua prin- cipale ti bisogna sopra
tutto stare in guardia, e tosto che una ti venga [Conduttor
delle muse, o Apollo, o se vuoi. Ercole. Piuttosto quello che questo. Vedi
il Gatakero] nsieri, moti, determinazioni, volon- avvertita,
cancellarla, ragionando teco medesimo intorno a ciascuna di esse in
questa guisa : Intorno a quelle della prima specie : questo
pensiero non è necessario. Intorno a quelle -della seconda : questo
pen- siero tende a sciogliere la società. Intorno a quelle della
terza: tu stai ora per dire cose che intimamente non credi: e il
dir cose che inti- mamente non credonsi è da essere annoverato fra
le massime assurdi- tà. Intorno a quelle finalmente del- la quarta
specie, rampognerai te medesimo dicendo: tu lasciasti che fosse
vinta la parte più divina di te, e sottoposta a quella che è men
nobile e mortale, cioè a di- re al corpo e ai grossi piaceri di
quello. Quattro cose da prevenire od allontanare. Pensieri inutili oziosi. Volontà
od azioni ingiuste, dove sono anche compresi i moti di
irascibilità; Quanto è in te di aereo e di igneo, benché abbia
naturale ten- denza ad innalzarsi, acconciandosi nondimeno
all’ordinamento del tutto si rimane quaggiù nel tuo corpo. E similmente
le parti terree é le acquo- | se, benché tendano naturalmente allo
' ingiù, tengonsi non pertanto solle- vate ed erette in una forma
che non é loro naturale : tanto anche gli ele- menti sono obbedienti
alla legge dell’ universo, e facendo forza a sé medesimi serbano
costantemente il posto in che furono collocati, finché da quella
medesima legge sia dato il segno dello scioglimento. Ora non é egli
singolarmente strano che sola la parte intelligente dell’ esser tuo
non voglia obbedire e si rammarichi del posto che le fu assegnato?
e pure nulla di violento le è comandato [Disaccordo della mente e
delle parole; cioè falsità voluta, o non avvertita. Moti di
concupiscenza], ma cose soltanto che sono secondo la natura di lei. Con tutto
ciò non vi si vuole acconciare, e vuole andare a ritroso. Perchè le
ingiu- stizie, le dissolutezze, l’ira, la tristezza, il timore, sonò
tutti moti a ritroso della natura. E ancora allor- quando r anima
non s’ acconcia di buon grado agli avvenimenti, ella abbandona il
suo posto, essendo ella stata instituita alla santità, alla pietà, non
meno che alla giustizia, poiché quelle non meno di questa fanno
parte della sociabilità : chè anzi gli atti di giustizia succedono
piuttosto (-he non precedano a quelli della pietà e della santità. Intendi
la pietà religiosa, o la pietà verso Dio o la natura, che è tutt’uno
presso gli stoici, e non dimenticare che il rasse- gnarsi
volentieri a tutti i casi esteriori, è atto religioso appo gli stoici. Cioè
Tnomo ha relazioni con Dio prima che con gli nomini, e le sue relazioni
con questi hanno per fondamento le sue relazioni con quello. Chi non ha
sempre il medesimo proposito, il medesimo istituto di vita, non può
essere in tutta la vita il medesimo uomo. Ma ciò non basta se non
aggiungi ancora quale esser debba questo proposito o isti- tuto di
vita. Perchè siccome non di tutti quelli che al volgo paiono beni è
invariabile negli uomini il giudizio, ma di quelli soltanto che sono
univer- sali e comuni; ' così lo scopo comune e civile dell’ umana
famiglia, è quello che l’uomo dee proporre a sè stesso. Colui
adunque il quale indirizzerà a questo scopo comune l’esercizio di
tutte le sue facoltà, quegli farà che tutte le sue azioni sieno fra
loro somiglianti, e per tal guisa sarà egli costantemente il
medesimo uomo. Intendi che T idea del bene privato varia nella
stessa persona, secondo che varia la sensibilità; laddove l'idea del bene
pubblico è costante e invariabile, siccome quella che dipende solo
dalla ragione, la quale non varia. Rammenta il topo di monta- gna e
il topo di casa, e lo spavento - di questo e il correre
precipitoso.' Socrate chiamava befane le credenze del volgo, spauracchi
di fanciulli. I Lacedemoni nella loro solen- nità ponevano pei
forestieri i sedili all’ ombra, ed essi sedevano dovunque. A
Perdicca, che gii chiedea perchè non andasse a lui, Socrate
rispondea, Per non morire di pes- sima morte » cioè a dire, « per
non ridurmi alla condizione di non poter ricambiare beneficii eh’
io avessi ricevuti. Nelle lettere degli
Epicurei era una esortazione all’ aver sempre pre- sente al
pensiero alcuno di quelli antichi che praticarono la virtù. I Pitagorici
prescriveano che [Gli interpreti allegano Orazio, sat. VI, lib. II.
Ma riscontra in Esopo, fav. 301. Ogni
giorno di buon mattino si do- vesse volgere gli sguardi al Cielo,
affinchè per la contemplazione di quelli esseri che sempre
percorrono le medesime vie e sempre compiono a un modo il loro
ufficio, l’ uomo avesse ad ìfver sempre vivo in sè il pensiero
dell’ordine, della purità e della nudità.' Perchè le stelle non hanno
velo che le ricovera. Qual fu a vedere Socrate cinto di una pelliccia,
allorché uscì fuori Santippe colla veste di lui ; e le cose che
egli disse agli amici i quali arrossivano e si ritraevano indietro,
vedendolo assettato in quel modo. Nell’arte dello scrivere nè in quella
del leggere non puoi essere maestro se prima non fosti discepo-
[Il diligentissimo ed ernditissimo Gatalcer non seppe egli pnre
trovare qual fosse il caso particolare della vita di Socrate, e il
detto di Ini, ai quali fa qui allusione Antonino. Meno amcora lo potrai nell’arte
(Iella vita. Sei servo, a te concesso favellar non è. Ed il mio
cor ne rise. E la virtute Àccuseran con rigido parole. Pazzo
chi vuole aver fìchf di verno; pazzo ancora chi desidera aver
iigliolanza quando non è più tempo da ciò. Quando tu baci un tuo
figliuolo, esortava Epitteto, fa' che tu dica teco medesimo : domani sarà
forse morto. Cattivi augurii, cotesti. Nulla è cattivo augurio di
ciò che accenna ad un effetto naturale. Agresto, uva, zibibbo,
tutte [Nei testo è un verso iambico di autore incognito a noi. È la
fine del verso 413, lib. I
dell'Odissea. Nel testo è un
verso esametro che ha qualche somiglianza con un verso di Esiodo mutazioni
; non dall’ essere al non essere, ma dall’ essere ciò che è all’ essere
ciò che ora non è. Assassini della volontà non ci sono ; sentenza
di Epitteto. Diceva ancora (Epitteto) dovensi procacciare V arte dello
assen- tire ; stare all’ erta coi moti della volontà, affinchè
tutti sieno condi- zionali, sempre indirizzati ad un fine, al bene
universale, sempre propor- zionati in intensità al valore intrinseco
delle cose; astenerci in tutto dalla appetizione, e non dare luogo
mai all’ avversione per cose che non sieno in nostra potestà. Piccolo
adunque, diceva egli, non è il frutto della vittoria o il danno
della sconfìtta ; ma l’ esser savio, o r esser pazzo. 39. Socrate
dicea: che volete voi! Vuol dire Antonino che il libero eser- cizio
della volontà non può esserci tolto da nìssuna forza esteriore. avere
anime di animali ragionevoli, 0 di irragionevoli? Di ragionevoli. Di
quali ragionevoli? di sani o di corrotti? Di sani. Perchè dunque non le
cercate? Perchè già le abbiamo. Perchè dunque batta- gliate fra voi
e siete discordi? Anche il Gataker non potè trovare da quale opera
socratica abbia tratto Antonino questa argomentazione: ma moltissimi
scritti della scuola socratica non abbiamo più noi, i quali
esistevano ai tempi di Marco nostro. Tutte quelle cose, alle quali tu . studi
di pervenire per mille andiri- vieni, tu puoi avere immediatamente,
se tu non vuoi male a te stesso. E ciò sarà, se tu metti da banda il
pas- sato e lasci alla Provvidenza la cura del futuro, e attendi
solo ad usare il presente, secondo le norme della santità e della
giustizia: della san- tità, coir accettare volonterosamente i casi
tutti che ti intervengono, es- sendo essi dalla natura prodotti per
te, e tu per essi; della giustìzia, col dire liberamente e senza ambagi
la verità e far ciò che è con- forme alla legge e alla dignità
delle l'ose,’ non lasciandoti frastornare mai nè da malizia
altrui, nè da opinione, nè da discorso di chi che sia, nè da
affezione veruna di quel corpicciuolo che ti è venuto crescendo all’
intor- no : sta a lui che è il paziente a pen- sarci. Or dunque,
prossimo o lontano sia per essere il termine della tua vita, se tu,
deposto ogni altro pen- siero, non attenderai che ad onorare la
parte principale e divina dell’ os- sei’ tuo, e tuo solo timore sarà,
non già di dover cessare quando che sia di vivere, ma di non aver
per anco incominciato a vivere secondo natu- ra; tu sarai uomo
degno del mondo che ti ha generato, non sarai più [Le prescrizioni
della l^igge sono gene- rali ; la dignità delle cose esteriori
serve di guida nell' applicazione della legge. Ta altro modo si
potea dire : « ciò che è confor- me alla legge nelle circostanze
particolari in che ti’ trovi.» Ma quello è più stoica- mente detto.
Per dignità delle cose intendi il loro va- lore ret»tivo.
straniero nella tua patria, non ti maraviglierai più di ciò che
accade tutto dì come di cosa insolita; non sarai più dipendente da
chi nè da che che sia. Iddio vede tutte le menti de- nudate di
questi vasi materiali e involucri e sudiciumi. Quelle solo egli attinge
colla pura sua intelligenza, le quali da lui scaturite sono deri-^
vate in essi. Se ti avvezzi a far tu pure il medesimo, tu avrai meno
di molte distrazioni e perturbazioni. Perchè chi non guarda all’
involucro della carne, si lascierà egli turbare o distrarre alla
vista dell’abito, o delle case, o della riputazione, o di altri
cosi fatti involucri e addobbi? Di tre cose sei composto: il
corpicciuolo, il soffio vitale e la mente. Delle quali le due prime
non sono tue se non in quanto tu hai a prenderne cura; la terza,
questa sola è tua veramente. Laonde se tu rimovi da te, o per dir
più proprio dal tuo pensiero, tutte le cose che altri fa e dice in
presente, e le pas- sate che tu facesti e dicesti, e le future
delle quali 1’ aspqttamento ti turba, e quelle che riferendosi al
corpo onde sei circondato e al soffio vitale congenito con esso, sono
in te involontarie, e quelle che il vor- tice di fuori va agitando
intorno a te, si che pura e sciolta da ogni esterna fatalità la
potenza intellet- tiva se ne viva libera da sè, ope- rando il
giusto, avendo caro ogni evento qualsiasi, e dicendo il vero; se,
dico, tu rimovi da codesta parte dell’ esser tuo tutto ciò che
presen- temente le sta come a dire appiccato per mezzo dello
appetito sensitivo, e tutto r avvenire e tutto il passa- to, e ti
fai siccome quella di Empedocle da GIRGENTU ri tonda Sfera che
posa e in suo posar s’ appaga, e attendi solo a vivere quel tempo che
vivi, cioè il presente; ti verrà fatto di passare tranquillamente, nobilmente
e in pace col genio tuo, quello che ti rimane ancora insino al
morire. Soventi volte mi sono maravi- gliato che ciascuno arai sè
stesso più che non arai qualunque altro uomo, e faccia poi minor
conto dei propri giudizi intorno a sè medesimo, che di quelli degli
altri.' Per- chè se a taluno fosse da un Dio che gli apparisse, o
da qualche savio maestro comandato che non pen- sasse e non
volgesse nulla in mente che tosto, appena ne fosse conscio '
Anche i Pitagorici, benché non ne fa- cessero nn precetto assoluto,
raccomanda- vano che ciascuno avesse massimamente rispetto a sè medesimo,
cioè ai propri giudizi intorno a sè stesso. Tra i versi dorati at-
tribuiti a Pitagora, ecco la traduzione di quello che compendiosamente
esprime la detta raccomandazione. Più che di chiunque altro abbi vergogna
di te ste.««so. » a sè stesso, noi
manifestasse; noi sosterrebbe pure un solo giorno. Tanto abbiamo
noi maggiore rispetto a ciò che di noi potrà pensare il vicino, che a ciò
che ne pensiamo noi stessi. Come mai avendo gli Dei propizi all’uomo
ottimamente ordinato ogni cosa, questo solo lasciarono passare
inavvertito, che anco i migliori fra gli uomini, quelli i quali
entrarono, sto per dire, in più stretta alleanza colla divinità, e per la
pietà e santità loro vissero in più intimo commercio con essa,
quando una volta sian morti, non abbiano più mai a rivivere, ma
sieno spenti per sempre? Se tale è veramente la condizione di tutti
gli uomini indi- stintamente, abbi per indubitato, che ove avesse
dovuto essere altrimenti, avrebbero gli Dei altrimenti ordinato : perchè
se un ordine diverso fosse stato giusto, sarebbe anche Stato
possibile ; e se fosse stato secondo natura, la natura lo avrebbe recato
ad effetto. Ora dal non essere le cose in questi termini, supposto
che veramente non sieno, tu hai a trarre argomento che non dovea essere
altrimenti da quello che è. Per- chè tu vedi pure che mentre tu vai
facendo queste investigazioni, tu . disputi del diritto con Dio; la
qual cosa non faremmo con gli Dei, se essi non fossero ottimi e
giustissimi ; e tali essendo, non possono aver mai tollerato nè
lasciato correre inavvertitamente nell’ ordinamento del tutto,
nulla che fosse ingiusto 0 irragionevole. Vienti esercitando anche
in ciò a che tu credi aver poca attitudine. La mano sinistra, la
quale per difetto di esercizio è disadatta ad altri uffici, tiene il
freno più saldamente che noi faccia la destra, perchè a ciò fu
esercitata. In che stato debba essere l’uo- mo, e rispetto al corpo
e rispetto all’ anima, al sopraggiungere della morte ; ' la brevità
della vita, l’abisso del tempo passato e del tempo avvenire, la debolezza
di tutta la materia. Osservare le cause denudate della loro
corteccia; il fine delle azioni; che sia il dolore, che il pia-
cere, che la morte, che la gloria; chi sia quegli che è cagione di
tra- vagli a sè stesso; siccome nissuno è mai impedito da altrui; che
tutto è opinione. Nel far uso dei precetti della filosofia, fa’ di
rassomigliare piutto- sto al pugillatore che al gladiatore; perchè
questi, lasciata cadere la spada, vien morto ; ma quegli ha la
destra sempre, e non gli è mestieri d’altro che di chiudere e
scagliare il pugno. Sottintendi: contidera. Vedere quali sono le
cose in sè stesse, risolvendole nei loro elementi, la materia, la
causa, il fine. Che potere ha l’uomo ! di non fare se non ciò
solamente che Iddio sia per approvare, e di accettare tutto che
Iddio sia per inviargli. Ciò che è conforme alla natura. Non ti dolere
degli Dei, perchè gli Dei non peccano nè volon- tariamente nè
involontariamente; nè degli uomini, perchè gli uomini non peccano
mai se non malgrado loro. Di nessuno dunque ti devi doere. Quanto è
mai ridicoloso e nuovo colui che si maraviglia di al- cuna delle -cose
che accadono nella vita! In tutte le edizioni che io conosco
si incomincia con questa frase il paragrafo se- guente; ma non si
fa alt^o che guastarvi il senso. O necessità fatale e ordine di
cose impreteribile, o‘ provvidenza esorabile, o confusione a caso e
senza governo. Se necessità inflessibile *, a che resisti? Se
provvidenza esora- bile ; fa’ che tu sia degno dell’ aiuto divino.
Se confusione senza governo; pur beato che in tanta tempesta tu hai
dentro di te una mente governatrice. Che se la bufera ti rapisce seco, rapisca
a sua posta il corpicciuolo e la parte animale di te e cotali altre cose;
non potrà rapir seco la mente. Che ? il lume della lampada,
fmch’ ella non si estingue, risplende e non perde della sua luce; e in
te, prima che la vita si spegneranno la verità, la giustizia, la
temperanza? Quando altri ti dà materia a supporre che egli abbia
permeato, di’ teco stesso : come so io che ciò sia un peccato? E se
è peccato, ch’egli non siasi già condannato da per sè? il che h come
nn graffìarsi il pro- prio volto. ' Pensa ancora che il non volere
che il dappoco erri, è un non volere che il fico acerbo abbia lattifìcìo,
che i bambini vagiscano, che il cavallo annitrisca, ed altri simili
effetti naturali e necessari. E che può egli fare in cotale disposizione?
Se tu sei da tanto, incomincia a curar quella. Se non è giusto, noi fare;
se non è vero, noi dire : perchè la tua volontà è libera. Esaminare
in ogni incontro che è la cosa che fa impressione in te, ed
esplicarla distinguendovi la causa, la materia, il tempo entro il
quale avrà a cessare. Seneca, De ira. Nulla maior pccna neqnìtiie est-,
quiim quod sibi displicet. Con questo paragrafo finisco Pinterpro'
taziono lasciata dalPOrnato, la quale, tran- ne i luoghi indicati, io ho
fodcljnonto .seguita noi mio volgarizzamento dal § 42 del lib. VI,
Accorgiti finalmente che tu hai in te stesso alcun che di più
potente, di più divino che non sia ciò da cui si generano gli
affetti e che al tutto ti trac qua e là come per ima fu- nicella.
Che è ora la mia mente? Non è ella timore? Sospetto? Cupidità, 0 altra
cosa cotale? Primieramente nulla si faccia a caso, nè senza uno
scopo. Poi, nulla sia riferito ad altro fine che a quello universale
e civile di tutta l’umanità. Che in breve tu non sarai più, nè
alcuna delle cose che vedi, nè alcuno di quelli che ora vivono.
Per- chè ogni cosa nacque per alterarsi, mutarsi o morire, affinchè
altre possano nascere secondo l’ordine di successione. fin
qni. Quanto all' interpretazione dei pa- ragrafi che seguono, l'Ornato
lasciò sola- mente due otre note delle quali sarà parlato al loro
luogo. Che tutto è opinione, e questa è in poter tuo. Adunque togli
via, quando ti piaccia, l’opinione, e come navigante che appena
superato il passo di un promontorio, trovasi in acque tranquille;
così tu ti troverai in perfetta calma e, come a dire, entrato in un
seno non agitati) da .alcun flutto. 23. Una azione
qualsivoglia, quando cessa a suo tempo, non patisce al- cun male
per la cessazione. Ancora r autore dell’ azione, per la medesi- ma
cessazione, non patisce alcun male. Medesimamente il complesso, 0
vogliasi dire la serie di tutte le azioni, che è quanto dire la
vita, quando cessa a suo tempo, non pa- tisce alcun male per la
cessazione, , nè ancora chi cessa da questa serie di azioni,
soffre per ciò alcun male. Il tempo proprio poi è determinato dalla
natura: talvolta dalla natura .particolare, quando avviene
nella vecchiezza, ma ad ogni modo dalla natura dell’ universo: le
cui parti trasformandosi e rinnovandosi del continuo, ne segue che
sempre nuovo e sempre giovane si conserva nella sua totalità il
mondo. E bello sem- pre e tempestivo è ciò che profitta al tutto.
Adunque la cessazione della vita non è un male all’ uomo individuo,
poiché non è cosa disonesta, come quella che non dipende dal- r
arbitrio di lui, nè ripugna al fine universale e sociale della
umanità; ed è in sé stessa un bene, perchè è tempestiva e
profittevole al tutto e armonizzante con esso. E similmente è
divino r uomo che è mosso nella medesima direzione e verso i mede-
simi fini che Iddio, ed ha caro di essere mosso verso questi fini e
in questa medesima direzione. Tutto questo periodo è nel testo gre-
co oscurissimo e diversamente inteso dai comontatori. Chi è grecista
vegga nella Queste tre cose non dimenticare. In primo luogo, per rispetto
a ciò che tu fai, che nulla sia fatto a caso nè altrimenti che si
farebbe dalla giustizia in persona; e per rispetto agli avvenimenti
esteriori, sieno essi effetti del caso o della Provvidenza, che non
vuoisi mai nè incolpare il caso, nè mormorare con- tro la
Provvidenza. In secondo luo- go, qual sia ciascun vivente dal mo-
mento della fecondazione sino a quello della animazione, e da
quello della animazione fino a quello in cui cessa la vita,' e di
che elementi sia nota a questo paragrafo nell' edizione di
To- rino le ragioni della nostra interpretazione diversa da tntte
le precedenti. Bene ricorda qui Gatakero com'egli era opinione degli
stoici il feto non essere animato fino al momento in cui ^sce dal
seno materno. Fino a quel momento essi consideravanlo come parte del
corpo della iinadre, come un ramo vegetante sul tronco dell'albero
a cui appartiene. Abbiamo ve- duto (vedi la nota (26) in fine del
volnme) composto e in quali sia per risol- versi. In terzo luogo,
che se tu levato in altissima parte vedessi di là tutte le cose umane e
la grande varietà loro, e vedessi ad un’ ora quanta sia la
moltitudine degli es- seri aerei ed eterei che popolano gli spazi
all’ intorno; per quante volte che tu venissi cosi levato in alto,
vedresti pur sempre le medesime cose, la somiglianza ^ che sempre hanno
fra loro e la breve durata di tutte. Di cotali cose insu-
perbisci? 25. Espelli da te T opinione, e sei salvo. Chi
dunque ti impedisce que- sta espulsione ? 26. Quando stai di
mala voglia per cagione di qualsisia cosa o persona, tu dimentichi
che tutto succede se- come gli stoici fossero ignoranti di
anato- mia: lo erano ancora più di fisiologia. Intendi le succedenti rispetto
allo antecedenti. condo la natura dell’ imiverso ; che l’altrui colpa è
male altrui; e inol- tre che le cose che avvengono sono sempre.
avvenute e sempre avver- ranno, e avvengono ora in ogni luogo al modo
stesso; e ancora tu di- mentichi quanto intima sia la pa- rentela
che ha ciascun uomo con tutta la famiglia umana : perocché non di
sangue o di seme, ma è co-^ munanza di mente. Tu dimentichi ancora
che la mente di ciascun uomo è divina e da Dio scaturita; che nulla
è proprio di nissuno, ma e il figlio- lino, e il corpicciuolo e
Tanimuccia stessa, tutto venne da quello. Tu di- mentichi
finalmente che tutto è opi- nione ; che ciascuno vive solo il mo-
mento presente, e perde solo il momento presente. Recati spesso al
pensiero co- loro i quali di alcun che fieramente adiraronsi,
coloro che per grandis- simi onori, o sventure, o inimicizie, o
altre fortune quali si fossero, di- vennero illustri ; poi- chiedi a
te stesso; ora dove sono? Fumo, ce- nere, languido romore di” fama,
o neppur questo. Poi ti occorrano alla mente tutti questi cotali ;
Fabio Ca- tullinOjin villa, Lucio Lupo negli .orti, Stertinio a
Baia, Tiberio nel- r isola di Capri, Rufo a Velia, e, per dire in
somma, tutte queste diverse inclinazioni verso checchessia gene-
rate dall’ opinione; e quanto sieno di poco pregio in sè medesime
tutte queste cose che con tanto studio si ricercano; e quanto sia
più da filo- sofo il saper far buon uso delle cir- costanze
qualunque esse sieno, o per dir più proprio, della materia quale ci è
data, serbandoci sempre giusti, temperanti e con semplicità obbedienti a
Dio. Perchè 1’orgoglio dell’umiltà è di tutti il più abbomi-
nevple. A colóro che ti chiedono dove tu iibbia veduto gli Dei e
donde avuto certa otizia dell’ esser loro, perchè tu abbia a venerarli
- rispondi primieramente. Anche alla vista sono percettibili. E
poi. Nè ancora la mia mente veggo io, e nondimeno io l’ho in onore: e così
da quelli effetti che mi rivelano la loro potenza argomentando che
essi sono, venero io gli Dei. Salvezza di tutta la vita è il vedere
ciascuna cosa quale sia in sè stessa, quale la materia di essa,
quale la ' causa ; e attendere con tutta r anima a operare il
giusto e a dire il vero. Poi, che ti rimane a faie, se non se godere
della vita, facendo senza ristare che un bene succeda Opportunamente
avverto qui il Gatakero come Antonino potesse, stoicamente, dire
benissimo, gli Dei essere visibili anche al- r occhio, poiché il mondo
primieramente era per essi il Dio supremo; e poi fra gli Dei
generati essi veneravano il sole, gli astri, gli elementi eo.
immediatamente ad un altro, non lasciando fra due neppure un menomo
intervallo? Una è la luco del sole, ancora che divisa all’ infinito da
pareti, da •monti, da altri obbietti innumerevoli. Una è la materia
comune, ancora che divisa in una moltitudine innu- merevole di
corpi, ciascuno dei quali ha le proprie qualità. Una è la vita,
ancora che distribuita in una molti- tudine innumerevole di nature particolari.
Una è r anima intelligente, ' ancora che sembri divisa in tante
unità. Ora tutte le altre cose sopra- scritte, esseri organici viventi ed
es- seri privi di vita; non hanno comunanza. [Intendi: Quando tu sia ben
risolato di non attendere ad altro chò ad operare il giusto e a
dire il vero, non avrai più briga alcuna, e non avrai che a godere della
vita; il qual godimento consiste appunto nel dire il vero e
praticare la giustizia; e il godi- mento .sarà continuo, se tu non cessi
un momento dalle azioni virtuose che sono il vero bene. nanzà fra
loro nè corrispondenza alcuna di sensibilità, sebbene anche ad esse
il respirare e il gravitare verso un centro sia a tutte comune.’ Ma
alla mente è proprio il tendere verso ciò che le è congenere, e con
• esso ella si unisce, nè può essere esclusa da lei questa
corrispondenza di affetti e di sensi. Che brami? Campare? Non
questo. Che dunque? Aver sensazioni, moto, incremento, appetiti? Far uso
della facoltà della parola, di quella del raziocinio? E che di tutto
ciò ti sembra degno da desiderare ? Se ciascuna di queste cose ti sembra
dunque in sè poco prege- vole, volgiti à quella che sola rima- ne,
al seguire la ragione e Dio. Ma a questo culto ripugna eh’ e’ ti
gravi [Il testo in questo luogo è certamente corrotto. Chi '
vuol vedere come sia stato emendato e quindi interpretato dair
Ornato in una lunga sua nota, ricorra all' Adizione di Torino] il
dover essere per la morte escluso dalle cose dette dianzi. Qual
particella del tempo infinito fu assegnata a ciascuno? Tosto perderassi
nell’eternità. Qual particella di tutfii la materia? Qual particella di tutta
l’anima? Sopra qual particella di tutta la .terra ti vai strascicando?
Questi pensieri ti ricordino che non hai a fare gran caso di nulla, fuori
l’operare se- condo che la natura ti guida, e tol- lerare tuttociò
che la natura comune ti arreca. Che uso fa di sè stessa la
mente? Questo è il tutto per te. Tutto il rimanente, sia o non sia
sottoposto alla tua volontà, è per te cadavere e fumo. 34. A
farti disprezzare la morte gioverà il pensare come anche coloro che
ebbero il piacere per un bene e il dolore per un male, non di meno
la disprezzarono. A colui al quale ciò solo che è tempestivo è un
bene, poco importandogli il maggiore o minor numero di azioni virtuose
che saràgli concesso di compiere, a colui, dico, la morte non ha nulla di
pauroso. L’ uomo, facesti le tue parti di cittadino in questa grande
città. Che rileva a te se per cinque o solo tre anni ? Ciò che è
secondo la legge, è giusto ed equo per tutti. Come puoi dunque
rammaricarti se sei rimandato, non da un tiranno, non da un giudice
iniquo, ma dalla natura che ti avea introdotto, non altrimenti che un
attore è rimandato dalla scena dal direttore della commedia che ve
lo avea chiamato? Ma io non ho recitato i cinque atti. Bene dicesti. Ma
nella vita anche tre atti bastano a compiere il dramma. Perciocché chi ne
determina il fine, è quel medesimo che allora fu autore della
plasmazione, cd ora ò della dissoluzione. Tu non fosti autore
nè dell’ una nè dell’altra. Vattene dunque in pace e contento, chè
quegli ancóra che ti accommiata è contento e propizio. Aurelio.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice,
Marc'Aurelio e Frontino,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714145775/in/photolist-2mMNvR2-2mLPZbv-2mLR5nr-2mLR5nB-2mLMYBx-2mLR5mK-2mLPZaZ-2mLMYBc-2mLGr84-2mLPZcC-2mLGr8Q-2mLLwjC-2mLMYBn-2mLLwk9-2mLGr7C-2mKy2vb-2mLNi1Z-2mLEyw7-2mLExs3-2mLMXqw-2mKCQBD-2mPtp3t-2mKxrDy-2mKj2vX-2mKgT2F-2mJWMoD-2mHu2M2-2mHu2Ss-2mHxRXN-2mHpTXJ-2mHxRTu-2mHvdKe-2mHxxcr-2mHywQJ-2mHxRZw-2mHyRnJ-2mHpTYv-2mHxx6E-2mHywQP-2mKBnC7-2mKbWTh-2mKbiYk-2mHu2Qt-2mHywLv-2mHumtF-2mHu2TK-2mHvxyw-2mHvdDs-2mHvdD7-2mHumtL
Grice ed Aosta – dio in gioco – logica e
sovversione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Aosta).
Grice: “I like Aosta; my favuorite piece of his philosophising is strangely
nott he one on paronymy – or the worn-off paralogism on God’s existence;
rather, the more obscure “De casu primi angeli,’ on the fall of the most
beautiful angels of all! And more seriously – the previous ‘de casu diaboli’ –
his rambles on ‘Dialectica’ – or dialettica, as the Italians prefer; you see
axioma was Elio Gelliio thinks in “Notti attiche’ – and Varrone – the
‘proloquium,’ from ‘proloquor’ of course – the ‘pro’ suggests something like a
‘prae-miss’ – This is all very stoic, but we are not sure if Aosta knew
this!” Grice: “Aosta would of course be
familiar with Augustin’s De Dialectica, where ‘proloquium’ means ‘pro-positio,’
something Quine abhorred!” -- Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di
Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile
1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato
tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è
noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio;
specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza
su gran parte della filosofia successiva. Nato da una nobile famiglia di
Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione
religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue
qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi
abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune
relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante
carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il
regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella
lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il
papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma
riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal
potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto
vantaggioso per i religiosi. La riflessione filosofica e teologica di
Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione
nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su
diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio,
indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica
sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come
quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato
originale, alla grazia e in generale al male. Anselmo venne canonizzato
nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI
(1649–1721). Sant'Anselmo d'Aosta
AnselmstatuecanterburycathedraloutsideUna statua di Anselmo d'Aosta collocata
all'esterno della cattedrale di Canterbury. Arcivescovo di Canterbury,
santo e dottore della Chiesa NascitaAosta, 1033 o 1034
MorteCanterbury, 21 aprile 1109 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana
CanonizzazioneAutorizzazione all'elevazione del corpo concessa da Papa
Alessandro III nel 1163[1] Ricorrenza21 aprile[1] Attributibastone pastorale[1]
e nave. Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo
di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un
teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi
esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto
per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il
cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte
della filosofia successiva. Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne
allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne
monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di
fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò
un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno
d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo
di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II,
quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture
che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo
lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista
gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere
politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto
vantaggioso per i religiosi. La riflessione filosofica e teologica di
Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento
e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi:
dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi
attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla
conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la
Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e
in generale al male. Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e proclamato
dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Una targa a
memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta casa natale ad Aosta, via
Sant'Anselmo.Anselmo nacque nel 1033[3][4] (o all'inizio del 1034)[5] a[6] (o
nei pressi di)[7] Aosta, allora parte del regno di Arles[6] al confine con la
Lombardia.[8] La sua era una famiglia nobile, anche se in declino,[9]
imparentata con la casa Savoia[10] e con ampi possedimenti terrieri. Suo padre,
Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un longobardo, apparentemente molto dedito agli
affari e non particolarmente affettuoso verso il figlio; sua madre, Ermemberga
(o Eremberga),[11] apparteneva a un'antica famiglia nobile burgunda ed era
legata da rapporti di parentela a Oddone di Savoia; risulta che fosse una madre
di famiglia pia e virtuosa.[1][12] Fin da bambino Anselmo espresse un
forte sentimento religioso e un'altrettanta forte sete di conoscenza; il suo
biografo Eadmero di Canterbury riferisce che, vivendo in una zona montuosa, il
giovinetto si formò l'ingenua convinzione che il paradiso, in cui Dio stesso
doveva risiedere, si trovasse in cima alle montagne.[12] Anselmo venne
affidato a un istitutore, suo parente, che però si rivelò tanto severo da
produrre in lui uno stato di infermità, dal quale guarì lentamente grazie alle
cure materne. La sua educazione successiva venne affidata ai benedettini di
Aosta.[1] All'età di quindici anni Anselmo espresse il desiderio di diventare
monaco; il padre tuttavia, fermamente intenzionato a fare del ragazzo il
proprio erede, si oppose a questa decisione e i monaci del convento locale, non
volendo contrariare Gandolfo, respinsero la domanda di Anselmo.[1][12] La
delusione e la frustrazione per il rifiuto causarono una forte reazione nel
giovane, che, sempre secondo il biografo, pregò Dio di ammalarsi in modo tale
da impietosire i monaci e convincerli così ad accoglierlo; una crisi
psicosomatica effettivamente si verificò, ma questo non bastò a far sì che
Anselmo venisse accettato nel monastero.[12] In seguito l'ardore religioso del
giovane si raffreddò e, benché egli rimanesse intenzionato a ottenere il suo
scopo in un futuro più o meno lontano, poco alla volta le passioni mondane lo
coinvolsero e, soprattutto dopo la morte della madre (che avvenne nel 1050),[5]
si dedicò sempre più spesso a interessi di carattere materiale.[12] Nel
frattempo i suoi rapporti con il padre si facevano sempre più tesi, e infine,
all'età di ventitré anni,[8] Anselmo partì, accompagnato da un servo, con
l'intenzione di oltrepassare il colle del Moncenisio alla volta della
Francia.[1][12] Superate le Alpi, Anselmo e il suo compagno girovagarono
per tre anni tra la Burgundia e la Francia prima di giungere ad Avranches, in
Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo venne a sapere dell'abbazia benedettina che
era stata fondata a Bec nel 1034, dove insegnava il famoso dialettico Lanfranco
di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco vi si recò, riuscendo nel 1060 ad
esservi ammesso come novizio.[8][12] Il ventisettenne Anselmo si sottometteva
così alla regola benedettina, che nel corso del decennio successivo ne avrebbe
influenzato significativamente il pensiero.[13] L'abbazia di
Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I progressi di Anselmo negli studi
furono rapidi e brillanti e il giovane entrò presto nelle grazie del maestro,
tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne nominato abate dell'abbazia di
Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo intrapreso la vita monastica da
appena tre anni) venne eletto a succedergli quale priore dell'abbazia di
Bec.[12][14] Alcuni dei monaci più anziani, ritenendosi maggiormente in diritto
di ricoprire la carica di priore, si considerarono offesi dalla sua promozione;
tuttavia ben presto le sue doti di cortesia, il suo senso della misura nel
gestire la carica e le sue competenze di insegnante gli valsero l'affetto di
tutta la comunità monastica.[12] Nei quindici anni in cui fu priore a
Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla sua carica e l'aspirazione
all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era solito rimanere desto durante
la notte, impegnato nella preghiera o nella scrittura. Risale infatti a quegli
anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua attività di scrittore, che aveva
principalmente il fine di munire i suoi allievi all'interno del monastero (ma
anche alcune nobildonne laiche al di fuori di esso) di testi su cui meditare e
pregare.[15] La composizione di due delle sue opere teologiche più rilevanti,
il Monologion (Soliloquio) del 1076 e il Proslogion (Colloquio) del 1078,
avvenne proprio in quel periodo.[1][12] Nel 1078, alla morte del
fondatore dell'abbazia di Bec, Erluino, Anselmo gli succedette come abate
venendo consacrato il 22 febbraio 1079 dal vescovo di Évreux.[16] Fu con
riluttanza che Anselmo accettò la carica, che avrebbe comportato ulteriori
responsabilità e doveri sottraendogli tempo alla riflessione e alla
preghiera;[12] la resistenza di Anselmo fu vinta dalle insistenze unanimi dei
confratelli.[1] Anselmo fu molto apprezzato come abate per via del suo
acume, della virtuosità con cui conduceva la sua vita e della sua capacità di
rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e fuori il monastero;[1] la nuova
carica lo portò a stringere rapporti con l'Inghilterra, dove l'abbazia normanna
aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino a Canterbury, di cui Lanfranco era
diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare
dalla nobiltà e dalla corte inglesi,[1][12] oltre che dallo stesso re Guglielmo
il Conquistatore;[11] divenne così il candidato naturale a succedere a
Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17] Anselmo fu anche costretto a
battersi per conservare l'indipendenza dell'abbazia di Bec dalle autorità
civili ed ecclesiastiche.[18] Nonostante la rilevanza dei suoi impegni di
amministratore e di guida, e la puntualità con cui li assolveva, Anselmo rimase
per tutta la vita innanzitutto un intellettuale:[3] nel periodo in cui fu abate
di Bec portò avanti una significativa attività pedagogica e didattica e, tra il
1080 e il 1085, compose il De grammatico (Sul significato della parola
"grammatico") e i tre dialoghi sulla libertà, il De veritate (Sulla
verità), il De libertate arbitrii (Sulla libertà della volontà) e il De casu
diaboli (La caduta del diavolo).[19] Sotto Anselmo, Bec divenne uno dei centri
di studio e insegnamento più importanti d'Europa, attirando studenti da tutta
la Francia, dall'Italia e da altri Paesi.[20] La cattedrale di
Canterbury, sede dell'arcivescovato di Canterbury, in un'incisione del 1821.
Quando, nel 1089, morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II d'Inghilterra confiscò
i possedimenti e le rendite della sede arcivescovile di Canterbury e si astenne
dal nominare un successore di Lanfranco.[12] Anselmo, che pure desiderava
tenersi lontano dall'Inghilterra per non far pensare che aspirasse al ruolo
vacante di arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di Ugo d'Avranches a
recarsi oltremanica nel 1092.[12] Fu costretto a trattenervisi per quasi
quattro mesi, e in un'occasione, giungendo in Canterbury alla vigilia della
Natività della Beata Vergine Maria, venne salutato entusiasticamente dalla
folla come prossimo arcivescovo; quando ebbe esaurito i suoi impegni, il re gli
negò il permesso di rientrare in Francia.[12] Nel 1093, però, Guglielmo cadde
gravemente malato ad Alveston e, desideroso di fare ammenda per la condotta
peccaminosa alla quale attribuiva la causa del suo male,[21] ordinò che Anselmo
venisse nominato arcivescovo di Canterbury all'inizio di marzo.[11][22]
Nei mesi successivi, tuttavia, Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo
di non essere adatto, in quanto monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e
adducendo come scuse anche l'età e alcuni problemi di salute.[6] Il 24 agosto
Anselmo sottopose a Guglielmo le condizioni alle quali avrebbe accettato
l'arcivescovato (condizioni peraltro in linea con il programma della riforma
gregoriana): che Guglielmo restituisse le terre confiscate; che accettasse la
preminenza di Anselmo sul piano spirituale; che riconoscesse Urbano II come
Papa, in opposizione all'antipapa Clemente III.[23] Guglielmo era estremamente
riluttante ad accettare tali richieste e, benché la situazione favorisse
Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere solo alla prima.[24] Arrivò al
punto di sospendere i preparativi per l'investitura di Anselmo, ma infine,
sotto la pressione della volontà pubblica, fu costretto a portare a termine
l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia ad accordarsi con Anselmo
raggiungendo un compromesso vantaggioso per la monarchia: la restituzione delle
terre rimase l'unica concessione fatta dal re all'arcivescovato.[25] Anselmo
ottenne dunque il consenso dei suoi ex confratelli ad essere dispensato dai
doveri che lo legavano all'abbazia di Bec, rese l'omaggio feudale a Guglielmo,
e il 25 settembre 1093 si insediò a Canterbury,[11] ricevendo le terre
precedentemente confiscate all'arcivescovato;[24] il 4 dicembre dello stesso
anno venne consacrato arcivescovo di Canterbury.[24] È stato messo in
dubbio che la riluttanza di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera:
mentre studiosi come R. W. Southern sostengono che avrebbe davvero preferito
rimanere a Bec, altri, come Sally Vaughn, sottolineano che una certa
recalcitranza nell'accettare importanti posizioni di potere ecclesiastiche era
d'uso nel Medioevo, dal momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il
desiderio di succedere a Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato
un ambizioso carrierista; inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva
gli obiettivi di Guglielmo e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il
suo eventuale arcivescovato oltre che per il movimento riformista
gregoriano.[26] Arcivescovo di Canterbury sotto Guglielmo II
Scena raffigurante Anselmo costretto quasi a forza ad accettare il bastone
pastorale, simbolo della carica di vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra
gravemente malato. Prima ancora della fine di quello stesso anno 1093 ebbe
luogo uno dei primi conflitti tra Anselmo e Guglielmo: il re era in procinto di
avviare una spedizione militare contro suo fratello maggiore, Roberto II di
Normandia, e avendo bisogno di fondi aspettava una donazione dall'arcivescovo
di Canterbury;[27] Anselmo mise a disposizione 500 sterline, che il re rifiutò
chiedendo una somma due volte maggiore.[12] Più tardi, un gruppo di vescovi
convinse Guglielmo ad accettare la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere
di aver già donato il denaro ai poveri.[11] Quando si recò ad Hastings
per benedire la spedizione che si accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo
rinnovò le pressioni volte a tutelare gli interessi di Canterbury e della
Chiesa inglese, oltre che, più in generale, a riformare il rapporto tra Stato e
Chiesa[11] secondo la visione della «teocrazia pontificia» espressa da papa
Gregorio VII:[28] Anselmo concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la
sua autonomia e autorità, dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua
missione e per la sua investitura;[29] questo andava in direzione opposta
rispetto alla visione di Guglielmo la quale, in continuità con quanto già
sostenuto dal suo predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato
che sulla Chiesa.[11][30] La figura di Anselmo, in effetti, è vista dagli
storici tanto come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come
quella di un politico intelligente e capace, determinato a conservare i
privilegi della sede episcopale di Canterbury.[31] Nuovi attriti sorsero
subito dopo, quando, come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il
pallio dalle mani del Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel
periodo, infatti, la legittimità di papa Urbano II era messa in discussione
dall'antipapa Clemente III. Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato
esplicitamente l'autorità di papa Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV
di Franconia, si era fatto eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da
coloro che rimasero fedeli a Gregorio e ai suoi successori come
"Antipapa".[32] Guglielmo vietò ad Anselmo di partire per Roma, dove
si trovava la sede di Urbano II, riconosciuto dal regno di Francia così come da
Anselmo stesso; non sembra che il re d'Inghilterra fosse incline a riconoscere
l'autorità di Clemente III, ma insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo
di Canterbury di partire per Roma fosse subordinata al suo riconoscimento
ufficiale di Urbano II, riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la
questione venne convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno
in cui Anselmo, tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile
della dottrina della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come
unico vero successore di Pietro.[12] Il concilio nazionale di Rockingham, che
fu un momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia
dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la
questione dell'investitura rimase insoluta.[11] Anselmo, allora, inviò in
segreto a Roma alcuni messaggeri.[33] Urbano II, in risposta, mandò a
Canterbury un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad
Anselmo in sua vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la
questione, e infine il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in
cambio del diritto di autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di
ricevere lettere del papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più
alcun legato se non su esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che
Anselmo venisse deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II
senza che ci fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di
Canterbury. Il re tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del
pallio, ma senza esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare
personalmente il pallio all'arcivescovo, ma anche questo gli venne negato: si
raggiunse un compromesso facendo in modo che Gualtiero, in rappresentanza del
Papa, deponesse l'oggetto sacro sull'altare della cattedrale anziché
consegnarlo ad Anselmo con le sue mani; Anselmo indossò quindi da solo il
pallio nel corso di una cerimonia solenne che si tenne nella cattedrale di
Canterbury nel giugno 1095.[35] Nei due anni successivi non ci furono
aperte dispute tra Anselmo e il re, anche se questi fece del suo meglio per
impedire che Anselmo portasse avanti una riforma della Chiesa in senso
gregoriano. Nel frattempo, nel 1094, Anselmo aveva ultimato la composizione
dell'Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull'incarnazione del Verbo), il
cui dedicatario era proprio Urbano II.[11] Nel 1097, dopo l'insuccesso di
una campagna militare diretta a sedare una rivolta in Galles, Guglielmo accusò
Anselmo di avergli fornito una quantità insufficiente di truppe e gli ordinò di
comparire presso il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò e chiese al re di
potersi recare a Roma per chiedere consiglio al Papa, ma ciò gli venne
negato.[36] Nel corso di un negoziato che si tenne a Winchester, Anselmo venne
messo di fronte a due possibilità: partire, ma in questo caso non avrebbe più
potuto fare ritorno al suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma avrebbe
dovuto pagare un risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore appello
a Roma.[36] Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non sottomessa
ad alcuna autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097 lasciò
l'Inghilterra diretto a Roma.[12] Guglielmo si impossessò immediatamente delle
rendite della sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente Anselmo
conservò la carica di arcivescovo.[37] Primo esilio Ritratto di
Anselmo nel Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in
dicembre, e passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di
Romans; nella primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio
in compagnia di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal
Papa con grandi manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva
essere coinvolto più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a
Guglielmo II, non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una
lettera di rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica.[12]
Anselmo passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora
abate del monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur
Deus homo (Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in
Inghilterra.[11] Incisione della prima metà del XVI secolo
raffigurante Anselmo d'Aosta. Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua,
dove fu raggiunto da papa Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari
un concilio destinato a risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa
greca a proposito della processione dello Spirito Santo; più in generale, tra
gli obiettivi del sinodo era quello di ricondurre a una comune posizione
teologica i due grandi ceppi ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del
1054.[1] Ad Anselmo, che già si era espresso sull'argomento nell'Epistola de
incarnatione Verbi,[11] fu chiesto di partecipare alla discussione e il Papa
gli assegnò un ruolo importante nella disputa: espose infatti la posizione
della Chiesa latina, secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre
quanto dal Figlio, in modo così convincente da risolvere la disputa e
persuadere i rappresentanti della Chiesa greca[1] (i suoi argomenti in seguito
sarebbero stati raccolti nel testo De processione Spiritus Sancti, Sulla
processione dello Spirito Santo). Anche il caso individuale di Anselmo venne
sottoposto all'attenzione dell'assemblea, la quale avrebbe scomunicato
Guglielmo se non fosse stato per l'intercessione di Anselmo stesso.[12]
Anselmo e i suoi compagni, a questo punto, sarebbero volentieri rientrati a Lione,
ma venne loro ordinato di trattenersi in Italia per partecipare a un altro
concilio, che doveva tenersi a Roma verso il periodo di Pasqua del 1099.
Durante questo sinodo venne nuovamente ed energicamente sottolineata la
posizione della Chiesa contro l'investitura del potere spirituale da parte dei
laici,[30] contro la simonia e contro il concubinato dei religiosi.[1] A Roma
si verificarono ulteriori attriti tra Urbano II e Guglielmo di Warelwast,
rappresentante di Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove minacce di scomunica al
re se Anselmo non avesse riottenuto la sua carica; tuttavia, ancora una volta,
la questione venne rimandata e, a causa della morte di Urbano in luglio, rimase
di fatto insoluta.[11] Infine, nel corso dello stesso anno 1099, Anselmo
poté tornare a Lione; durante il soggiorno in questa città portò a compimento
il trattato De conceptu virginali et originali peccato (Sull'Immacolata
Concezione e sul peccato originale) e la Meditatio de humana redemptione
(Meditazione sulla redenzione dell'uomo).[11] Ritorno in Inghilterra
sotto Enrico I Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di caccia il 2
agosto dell'anno 1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I, il quale
invitò Anselmo a tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo consigliere.[38]
Enrico cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria rivendicazione
del trono, a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore Roberto. Di
ritorno, in settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il problema delle
investiture si pose subito e in modo grave: il re, che pure inizialmente era
stato del tutto conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse l'omaggio
feudale[39] e che si assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad
arcivescovo di Canterbury.[40] Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a
queste richieste, dal momento che il papato (proprio con il recente concilio di
Roma) aveva vietato agli ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di
ricevere da questi l'investitura a cariche religiose.[12] Enrico e Anselmo
inviarono messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse al re di
investire personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio.[12] Nel
frattempo i due riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli
ostacoli al matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di
Sassonia, ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per
qualche tempo pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione
a tale matrimonio[12] e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova
regina.[11] Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte
delle truppe di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a
favore di Enrico e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica,
contribuì a volgere la situazione in favore del sovrano inglese, causando la
ritirata del rivale.[12][41] Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non
era intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo
all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale.[41] Un nuovo
gruppo di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra
diretto verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno
del re nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati
di Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni
iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a
un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto
questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò
fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di
consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di
recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un
nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12]
Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, Anselmo lasciò
l'Inghilterra il 27 aprile 1103.[11][42] Secondo esilio Anselmo si trattenne
a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma nel
periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse con
Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale,
ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli
ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re
d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del
ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, Anselmo ricevette
un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in
Inghilterra se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le
pratiche dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e
dell'omaggio. Anselmo dunque rimase a Lione, dove stese il De processione
spiritus sancti.[11] Anselmo si trattenne a Lione fino al marzo 1105,
quando il Papa scomunicò Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che
aveva insistito affinché il re continuasse a praticare l'investitura da parte
di laici,[43] insieme ad altri prelati investiti da Enrico o da altri
rappresentanti del potere temporale,[44] mentre si limitò, per il sovrano, a
minacciare la scomunica.[11] Anselmo, che non sperava più in un aiuto concreto
del Papa, si recò in Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo
personalmente di scomunica,[11][45] con lo scopo di costringerlo una volta per
tutte a raggiungere un accordo sulla questione delle investiture.[46]
Anche grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che
Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono
a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la
scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne
revocata (cosa che Anselmo fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette
poi rendere conto a papa Pasquale II)[43][47] a patto che essi tenessero sempre
conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe
rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto
dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici;
le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa
e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di
tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato
dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso:
nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse
un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale
consideravano il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di
ulteriori azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana,
avrebbero dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai
laici.[48] La lettera del Papa autorizzava Anselmo anche a revocare la
scomunica di coloro che erano stati investiti da laici o che a laici avevano
reso l'omaggio feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina
d'Inghilterra da tutti i loro peccati.[11] Il ritorno di Anselmo a
Canterbury comunque fu rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute
dell'anziano arcivescovo; il 15 agosto Anselmo incontrò Enrico a Bec; il re
aggiunse alle concessioni fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a
suo tempo da Guglielmo II e promise di risarcire il clero inglese dei danni
economici patiti a causa della lotta per le investiture. Così, i due si
riappacificarono.[11] Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece
trionfale ritorno in Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei
principi inglesi tenuta il 1º agosto risultò il "concordato di
Londra", che formalizzava e annunciava pubblicamente il compromesso tra
Enrico e Anselmo:[49] nessun vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da
un laico, ma il fatto di aver reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a
nessuno di ricoprire la carica di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali
vacanti (alcune delle quali erano vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II)
vennero assegnate, e Anselmo, riprese le funzioni di arcivescovo di Canterbury,
consacrò tutti i nuovi vescovi.[11] Anche nella fase finale della sua
vita Anselmo continuò ad occuparsi dei doveri di arcivescovo e,
contemporaneamente, a meditare e a scrivere testi di teologia, come il De
concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio
(Sulla compatibilità della prescienza, della predestinazione e della grazia di
Dio con il libero arbitrio). Anselmo lavorò per innalzare il livello spirituale
del regno e, in particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu
inoltre coinvolto in una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di
Canterbury su quella di York, disputa che non sarebbe stata superata (con la
riaffermazione della supremazia di Canterbury) se non dopo la sua
morte.[11] Anselmo morì il 21 aprile 1109, mercoledì santo, e venne
sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue spoglie vennero però esumate
durante i disordini a sfondo religioso che ebbero luogo durante il regno di
Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le tracce.[11] La tomba
di Anselmo all'interno della cattedrale di Canterbury. Il processo di
canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso Becket (uno di coloro che ne
continuarono l'opera volta a garantire l'indipendenza della Chiesa inglese dal
potere politico) e venne portato a termine da papa Alessandro III nel 1163.
Anselmo fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio
1720[50]. Pensiero Oltre ad aver svolto un importante ruolo politico
nella disputa sulle investiture in Inghilterra, Anselmo d'Aosta fu anche un
pensatore di grande spessore nell'ambito della filosofia cristiana medievale,
considerato uno dei principali esponenti della riflessione di area europea[3],
il principale filosofo dell'XI secolo[8][51] e il primo grande pensatore del
Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena[4]. Influenze Il lavoro di Anselmo
è caratterizzato da una grande originalità e sono rari, nella sua opera, i
riferimenti a pensatori del passato: ciò rende difficile identificare le
influenze che hanno contribuito a dar forma al suo pensiero[15]. Posto che la
fonte principale della riflessione di Anselmo è l'autorità della Bibbia, è
tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel neoplatonismo cristiano di
Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento; l'importanza
dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo Pseudo-Dionigi
l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi giudicata tutto
sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare l'importanza rivestita da
Aristotele e dal suo traduttore e commentatore Severino Boezio nel determinare
certi aspetti dialettici della filosofia di Anselmo, oltre che, tra le altre
cose, la sua concezione del male come privo di positività ontologica e la
teoria dei futuri contingenti che garantiscono la compatibilità della
prescienza di Dio con la libertà umana[52]. L'influenza del maestro Lanfranco
probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla dialettica,
determinante[15]. Rapporto tra ragione e fede Nella riflessione di
Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la ragione svolge
un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana del rapporto
che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la ragione e la
fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la dimensione
della ricerca razionale ha infatti un posto molto rilevante[3]. Anselmo
riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse essere necessariamente la
fede nella rivelazione delle sacre scritture, e che, quindi, si dovesse credere
per comprendere piuttosto che comprendere per credere ("credo ut
intelligam")[53]; in altre parole sosteneva, ispirandosi alle parole di
Isaia (7, 9) «se non hai fede, non capirai» ("nisi credideritis, non
intelligetis")[54], che il fondamento di ogni conoscenza dovesse provenire
dalla fede, e che solo su di essa potesse innestarsi il lavoro della ragione,
volto all'approfondimento e alla comprensione dei dogmi[53]. Anselmo
tuttavia riponeva grande fiducia nella capacità della ragione di portare avanti
con successo questo suo ruolo di chiarificazione e comprensione dei dati di
fede: come disse il medievista francese Étienne Gilson, egli giudicava
«presunzione non mettere per prima cosa la fede, [...] negligenza non fare
successivamente appello alla ragione»[53]. Dunque, benché fosse per lui
impensabile sottomettere o subordinare i misteri della fede alla dialettica,
cioè alla logica, Anselmo riteneva che fondandosi saldamente sulla rivelazione
fosse possibile usare la ragione per approfondire la comprensione di tali
misteri o, anche, per dimostrare inconfutabilmente la necessità di accettarli
come tali[55]. In effetti per lui esistevano dogmi non suscettibili di esatta
comprensione razionale, come ad esempio quello della Trinità, ma riteneva che
fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite ragionamenti per analogia, una
parziale comprensione di tali dogmi e che, inoltre, fosse possibile provare
razionalmente la necessità di abbracciarli[56]. Una significativa espressione
anselmiana, che può essere considerata il suo motto filosofico, è «la fede in
cerca della comprensione»[8]. Con ciò Anselmo intendeva riaffermare la priorità
della fede e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i
contenuti della rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la
ragione prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la
ragione[8]. Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza
la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio
che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza
di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione,
in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori
evidenziano come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e
legati all'ambito morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici
e legati all'ambito della ricerca razionale[57]. Esistenza di Dio e
attributi divini dimostrati a posteriori: il Monologion Magnifying glass icon
mgx2.svgMonologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni
conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere
anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il
Monologion, Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione
cristiana o non vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare
l'esistenza di Dio e dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di
procedimenti razionali a posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo
sensibile e sviluppate con procedimenti razionali).[3][53] La
dimostrazione dell'esistenza di Dio proposta da Anselmo nel Monologion è di
ascendenza platonica,[58] ed è ispirata almeno in parte al neoplatonismo di
Agostino d'Ippona.[59] Il fondamentale presupposto di tale prova infatti, a
parte la constatazione che le cose del mondo sono caratterizzate da gradi
diversi di perfezione, è la convinzione che se le cose sono più o meno perfette
(o comunque presentano una certa caratteristica positiva con grado maggiore o
minore di intensità), ciò dipende dal fatto che tali cose partecipano in
maniera più o meno diretta di un ente assolutamente perfetto (o che comunque
possiede quella certa caratteristica positiva al massimo grado).[59]
Iniziale miniata da un manoscritto del Monologion risalente al XII
secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a proposito del bene: dal
momento che possiamo constatare che esistono nella realtà molti beni, diversi
tra loro e buoni in grado maggiore o minore, dobbiamo secondo Anselmo dedurne
con certezza che essi sono buoni in virtù di un solo principio del bene
assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in diverso modo e in diverso
grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé e per sé, mentre ogni
altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca a un livello
gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58] Dopodiché, avendo
dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene, Anselmo
applica il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la stessa
esistenza, così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da
assoluta perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature
finite ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza).[58] Secondo
Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo
grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio
della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da
dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il
processo di causazione degli enti da un essere primo.[60] La seconda
parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi
degli attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio.[61] Alcuni di questi
attributi divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di
tutti gli esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena
esposto. Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli
attributi di Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio,
anche le caratteristiche di eternità e intelligenza.[58] Alla luce del
carattere creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone
poi una rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo),[15] tradizionalmente
inteso come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e
come intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica
era intermediario tra l'Uno e il Mondo.[62] Anselmo giunge alla conclusione che
ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di
Dio.[15] Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli
ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla
creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e
sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature.[58] Anselmo,
discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o
Logos) umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini
delle cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più
aderiscono alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce
l'essenza delle cose, e le cose sono modellate su di esso.[15] La terza persona
della Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana
dell'amore. In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che
formano una sola essenza e una sola divinità;[15] questo può essere reso più
comprensibile alla ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana:
come l'anima umana, pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre facoltà
(memoria, intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente
unitario, si compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo).[63]
L'autore analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone
di considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di
tutte le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le
caratteristiche che è meglio avere piuttosto che non avere.[15] Con ciò, Dio
comunque possiede tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri
principi; inoltre la molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio
sia composito, dal momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con
tutti gli altri e con la stessa essenza divina in una suprema unità e
semplicità.[15] Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori:
il Proslogion Magnifying glass icon mgx2.svgProslogion e Argomento
ontologico. Statua di Anselmo ad Aosta, in via Xavier de Maistre. Sullo
sfondo, i campanili della cattedrale di Aosta; a destra si intravede il
seminario maggiore. (la) «Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed
es quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque valet cogitari esse
aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te;
quod fieri nequit.» «O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può
pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto quanto si possa
pensare; poiché infatti è lecito pensare che esista qualcosa di simile. Se tu
non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è
impossibile.» (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 15,
235C) Anselmo rimase parzialmente insoddisfatto della dimostrazione
dell'esistenza di Dio e dell'indagine sulle sue caratteristiche per come esse
erano state condotte nel Monologion: egli aspirava infatti a costruire un
argomento più semplice e interamente autosufficiente in grado di portare alle
stesse conclusioni. Un simile argomento, ricercato affannosamente e infine
trovato[64], venne esposto nel Proslogion (il cui titolo, originariamente, era
stato Fides quaerens intellectum, cioè «la fede in cerca della
comprensione»)[65][66]. L'argomento del Proslogion (noto anche, secondo
una denominazione attribuitagli da Immanuel Kant, come argomento ontologico)[8]
è del tipo a priori: è cioè basato su una definizione di Dio ricavata dalla
fede e sviluppata secondo un procedimento razionale che aspira ad essere valido
in sé, anteriormente a ogni dato di esperienza[66]. Schema logico
dell'argomento ontologico Chi nega l'esistenza di Dio (come lo stolto del
Salmo: «che disse in cuor suo: Dio non esiste».) deve avere il concetto di Dio
non si può infatti negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure, per
negarla devo pensarla avere il concetto di Dio significa: pensare un essere di
cui non si può pensare nulla di maggiore ("aliquid quo nihil maius
cogitari possit") ma poiché «si potrebbe pensare un ente che, oltre agli
attributi riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello dell'esistenza, e
quindi fosse maggiore di lui.»[67] questa, allora, sarebbe un'idea maggiore di
quella di Dio quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla di maggiore,
essendo il maggiore di tutti gli enti, non può non avere la caratteristica
dell'esistenza: esistere senza dubbio sia nell'intelletto sia nella realtà
("existit ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari non valet, et in
intellectu et in re")[68] L'argomentazione di Anselmo prende dunque le
mosse dalla definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato niente
di maggiore». Egli sostiene che chiunque, incluso lo «stolto» che, secondo i
Salmi (14, 1 e 53, 1) «disse in cuor suo: Dio non esiste»[65], comprende tale
definizione, anche se non comprende che l'oggetto di tale definizione esiste;
comunque, nel comprenderla, si forma mentalmente il concetto di un ente
sommamente grande, del quale sia impossibile pensare qualcosa di
maggiore. Ora, sostiene Anselmo, il concetto di «ciò di cui non può
essere pensato niente di maggiore» esiste nella mente dello «stolto» (o di chiunque
altro) come nella mente del pittore esiste l'immagine di qualcosa che egli è in
procinto di disegnare, ma che ancora non esiste al di fuori del suo
pensiero. Tuttavia, qualcosa che esiste solamente nella mente di qualcuno
non è tanto grande quanto qualcosa che esiste anche nella realtà esterna, nel
mondo effettivo delle cose: pertanto ciò di cui non può essere pensato nulla di
maggiore non sarebbe tale se non fosse dotato di un'esistenza effettiva anche
fuori dalla mente di chi si forma quel concetto. Il che conduce alla
conclusione per cui esiste necessariamente qualcosa di cui non può essere
pensato niente di maggiore[65][66], e che non può essere pensato se non come
esistente[15]. Si tratta in fondo di una dimostrazione per assurdo[69], basata
in gran parte sull'approccio apofatico della teologia negativa[70], in base al
quale è doveroso per la mente umana riconoscere l'esistenza di Dio come suo
limite[71]. (LA) «Sic ergo vere es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari
possis non esse; et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius
te, ascenderet creatura super Creatorem.» «Dunque esisti in modo così
vero, o Signore, mio Dio, che non si può neppure pensare che non esisti. E
giustamente. Se infatti una mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la
creatura si eleverebbe sopra il Creatore.» (Anselmo, Proslogion seu
alloquium de Dei existentia, 3, 228B-228C) Come il Monologion, il Proslogion
contiene numerosi capitoli nei quali l'autore indaga gli attributi di Dio:
partendo dalla definizione della divinità come ciò di cui non può essere
pensato il maggiore, Anselmo conclude che Dio deve essere necessariamente
l'essere supremo, e quindi supremamente buono, giusto e felice[72]. Sempre in
relazione al Monologion, risulta ora tanto più giustificata l'idea che Dio
debba essere caratterizzato da tutte le peculiarità che è preferibile avere
piuttosto che non avere.[72] In effetti risulta che un Dio come questo,
che (in accordo anche con gli insegnamenti della Bibbia) è necessariamente onnipotente,
deve essere impossibilitato a fare il male perché è anche assolutamente
benevolo; questo non è però contraddittorio dal momento che, per Anselmo, la
capacità di fare il male non è in realtà una vera potenza, quanto piuttosto
un'impotenza (il che è coerente con la sua interpretazione del male come
privazione, cioè come pura negazione dell'essere e del bene, non dotata di
un'autonoma positività ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che
Dio non possa fare il male o contraddirsi[72]. Nei capitoli conclusivi
del testo, Anselmo ribadisce e approfondisce l'analisi degli attributi divini
iniziata nel Monologion, aggiungendo inoltre un accenno all'identità di
esistenza ed essenza in Dio il quale prefigurava, anche se da lontano, i
risultati che avrebbe raggiunto più tardi Tommaso d'Aquino[73]. Le
critiche di Gaunilone all'argomento ontologico e la risposta di Anselmo (LA)
«Gratias ago benignitati tuae et in reprehensione et in laude mei opusculi. Cum
enim ea, quae tibi digna susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis
apparet, quia, quae tibi infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia
reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia
per le lodi del mio opuscolo.[74] Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti
che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato
per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»
(Anselmo, Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro
insipiente, 10, 260B) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta
di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone
obietta: in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di
Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza
sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa
che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse
basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste
esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo
per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire,
ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto
«ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari
nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit
quam cogitari):[75] l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano
a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta.[76] Per spiegare come sia
possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo
afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni
completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni
senza cogliere i significati[77]. Gaunilone, un monaco benedettino
contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la
prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente
(Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber
apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la
risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo,
il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia appendice[79].
L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su diversi punti e
accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare nell'osservazione di
Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un concetto come quello
di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di pensarlo come
esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non può essere
pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che non si può
passare direttamente dal piano del pensiero al piano dell'esistenza[80].
Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore»
è un concetto inaccessibile a un intelletto umano, sostanzialmente superiore
alle sue forze: chi ascolta e comprende tale concetto, afferma Gaunilone, non
lo comprende in realtà più di quanto secondo Anselmo lo «stolto» comprende
l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi pensare Dio come ciò di cui non può
essere pensato il maggiore è possibile solamente a posteriori, e cioè questa
concezione di Dio (di per sé giudicata legittima) deve essere sviluppata a
partire da argomenti simili, per esempio, a quelli platonizzanti del
Monologion[80]. Nella sua risposta alle obiezioni di Gaunilone (il quale
peraltro loda il Monologion e tutte le parti del Proslogion diverse dall'argomento
ontologico) Anselmo si stupisce di ricevere critiche da qualcuno che è uno
stolto ma un cattolico. Rispondendo quindi «al cattolico», Anselmo ravvisa
nelle parole di Gaunilone una certa confusione tra «ciò di cui non può essere
pensato il maggiore», limite innegabile del pensiero, e «la cosa più grande di
tutte», che essendo un concetto impreciso può ancora essere negato senza cadere
in contraddizione. Nella parte principale della sua replica alla replica
Anselmo aggiunge che «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» non è un
concetto incomprensibile per l'intelletto umano,[81] a meno di fingere di non
capire il concetto stesso che si vuole negare, «perché se anche ci fosse
qualcuno abbastanza sciocco da dire che ciò di cui non si può pensare il
maggiore non è niente, non sarà così impudente da dire di non riuscire a capire
o pensare quel che sta dicendo. O se invece si trovasse qualcuno di questo
genere, non solo il discorso è da respingere (respuendus), ma lui stesso da
coprire di sputi (conspuendus)»[82]. L'esperienza delle cose del mondo, del
resto, rende evidente che gli enti posseggono le diverse perfezioni in diversi
gradi e che, dunque, è possibile stabilire una gerarchia di grandezza in cui di
ogni cosa è possibile pensare qualcosa di maggiore finché si giunge a qualcosa
di cui, appunto, non si può pensare niente di maggiore[83]. È stato fatto
notare che con questa operazione, però, Anselmo dà parzialmente ragione a
Gaunilone e riconduce la prova a priori del Proslogion alla prova a posteriori
del Monologion, ammettendo che il concetto di «ciò di cui non può essere
pensato il maggiore» si origina dall'esperienza[84][85]. In tal modo
l'autosufficienza della prova del Proslogion può risultare compromessa, ma
viene stabilita tra esso e il Monologion una continuità che fa delle due opere
altrettanti momenti di un unico argomento per l'esistenza di Dio, in cui tale
esistenza viene dimostrata inizialmente a partire da osservazioni empiriche,
assicurando nel contempo la legittimità della definizione di Dio come «ciò di
cui non può essere pensato il maggiore», e quindi viene dimostrato che a
partire da tale definizione risulta che Dio non è concepibile se non come
dotato dell'esistenza[72][84]. Anselmo dialettico: il De grammatico e gli
altri scritti logici L'aspetto del pensiero di Anselmo legato alla logica (la
quale nel Medioevo era indicata indifferentemente come dialettica o anche come
grammatica, in una prospettiva paragonabile a quella della moderna filosofia
del linguaggio) ha un'importanza non trascurabile, anche se tale importanza è
stata rivalutata solo dalla critica della seconda metà del XX secolo[84].
Anselmo ritratto in una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica
uno strumento utile per il teologo: già nel Monologion il suo approccio si era
caratterizzato per l'attenta disamina delle possibili ambiguità legate a
espressioni come «[esistenza] per sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel
Proslogion Anselmo aveva compiuto operazioni simili; ora, nel De grammatico,
egli analizza nello specifico il problema della paronimia, ossia dello scambio
di due parole dal suono simile ma prive di attinenza nel significato: si
trattava di capire se la parola "grammatico" (così come tutti gli
altri «denominativi», cioè quelle parole che derivano da una radice da cui
differiscono solo per la desinenza, in questo caso "grammatica"),
corrispondano a sostanze o qualità[86]. In effetti, sostiene Anselmo,
pare ugualmente possibile sostenere che "grammatico" sia sostanza
(essenza) o che sia qualità (accidente):[87] nel primo caso perché
"grammatico" indica un uomo, e a ogni uomo corrisponde una sostanza;
nel secondo perché "grammatico" indica una particolare caratteristica
dell'uomo in questione. Anselmo afferma però che non ci troviamo di fronte a
una contraddizione, dal momento che i due modi di intendere la parola si
riferiscono a due punti di vista ben diversi: è infatti necessario, prosegue,
distinguere la significatio di un termine, cioè il piano del suo significato,
dalla sua appellatio, cioè il piano del suo riferimento. Pertanto
"grammatico" è una significazione della grammatica, ma il suo
riferimento è all'uomo[88]. Inoltre, aggiunge Anselmo, per se (cioè in modo
diretto, cioè sul piano della significazione) la parola "grammatico"
significa una qualità, ma può anche fare riferimento per aliud (cioè in modo
indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una sostanza[15][88]. Alcuni
commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo prefigurava la teoria
della suppositio che sarebbe stata approfondita dai dialettici del XIII secolo
e successivi[88]. In altre opere di carattere logico, abbozzate da
Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava altre possibili
ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in filosofia e teologia:
considerò con particolare attenzione i concetti e i termini necessitas
("necessità"), potestas ("potenza", "capacità"),
voluntas ("volontà"), facere ("fare", ma anche "far
fare", "patire") e aliquid ("qualcosa")[89]. Il
problema del male, dell'onnipotenza divina e del libero arbitrio nella trilogia
sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia della libertà», composta dai dialoghi
De veritate, De libertate arbitrii e De casu diaboli, Anselmo analizza le
questioni etiche legate alla rettitudine[19] da un punto di vista
teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato anche nelle opere
successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era stato invece quello
adottato nei testi precedenti)[90]. La scelta della forma dialogica,
debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non priva di una sua
originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di rendere più vivace la
discussione dei problemi teologici e al vantaggio di poter risolvere
dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa inoltre
corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali
consistevano sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti
legati da rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di idee[91].
Il De veritate Magnifying glass icon mgx2.svgDe veritate (Anselmo d'Aosta). Il
De veritate (primo in ordine logico, anche se non è chiaro in che ordine
cronologico furono composte le tre opere) analizza in particolare il rapporto
sussistente tra la virtù morale, la verità e la giustizia.[19] Anselmo
propone una teoria della verità in cui sono compresenti una matrice platonica
(per cui la verità delle cose e delle affermazioni particolari risiede nella
loro partecipazione alla verità in sé) e la tesi della verità come
corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la verità sta nell'aderenza delle
asserzioni allo stato delle cose); la nozione di verità per come la intende
Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio perché per l'appunto essa è ricondotta
sia alla corrispondenza di linguaggio e realtà sia all'aderenza di un'azione al
suo fine teleologicamente proprio (che nel caso del linguaggio è esattamente
quello di significare la realtà);[8] traducendosi in un più ampio concetto di
rettitudine, la verità può quindi essere propria anche della volontà (la
volontà vera è volontà retta) e delle azioni (le azioni vere sono azioni
buone), oltre che dei sensi, delle essenze stesse delle cose
eccetera.[8][15] Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal momento che tutte le
cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità suprema che,
evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è ugualmente
fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste deve
esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza
comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua
importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del
male.[15] La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada
a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando
che, se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi,
l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è
realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il
male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non
è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è
possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo
altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che
essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto
attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza
del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il
male vengono considerati da due differenti punti di vista.[15] In
conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è
percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità,
giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere
proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente
alla rettitudine della volontà.[15] La rettitudine della volontà è poi
direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e
la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità
suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e
indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le
altre nella partecipazione a Dio.[15] Il De libertate arbitrii Magnifying
glass icon mgx2.svgDe libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo
della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in
relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al
problema della grazia e del male.[92] Fin dalle prime pagine dell'opera
Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere
senza condizionamenti se peccare o non peccare:[93] se, infatti, la facoltà di
peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente
compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere
possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne
risulterebbe inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male
(cioè non potendo peccare), non sarebbe libero.[72][92] Anselmo sostiene
al contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una
degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni,
che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è
«potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine
stessa».[94] La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non
di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra
volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole,
sarebbe nostro dovere volere).[94] La libertà dunque è tanto più libera (tanto
più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta.[96] Questo
comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo
caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per
costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo;[96]
tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio
di libertà ma un esempio di corruzione della libertà. Infine Anselmo
spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente
di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù
del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento
divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di
agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un
peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto)[97] ed è dunque solo con
l'intercessione della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo
delle sue potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio.[95] In
conclusione l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e
interamente autonoma che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e
gli uomini ricevono da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta
dell'uomo, aiutata dalla grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio.[98] Il De
casu diaboli Magnifying glass icon mgx2.svgDe casu diaboli. Il De casu diaboli
tratta dei problemi legati alla rettitudine e alla libertà con particolare
riferimento, come da titolo, alla caduta del diavolo[19] – cioè al momento
della narrazione biblica in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una
certa misura di esistenza (e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella
facoltà che gli avrebbe consentito di raggiungere la sua piena realizzazione
adeguando la sua volontà a quella di Dio) scelse di non perseverare nel
conservare la sua volontà aderente a quella divina, lasciò che la sua libertà
si corrompesse e abbandonò quindi la rettitudine per tentare di assomigliare a
Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo dunque prende tale esempio come
questione paradigmatica per un'analisi dell'origine e della natura del
male.[100][101] La sua ricerca prende le mosse ancora una volta da un'attenta
analisi logico-linguistica, volta in questo caso a chiarire il significato del
termine nihil ("nulla"): afferma Anselmo che tale termine non indica,
per il semplice fatto di esistere, una realtà positiva, e che anzi esso
significa per negazione (sottraendo una proprietà e non aggiungendola). Il
nulla dunque è un ente puramente razionale, perché "nulla" indica non
tanto una realtà quanto la negazione di una realtà; ciò avviene, secondo un esempio
riportato da Anselmo stesso, analogamente al modo un cui si dice di qualcuno
che è cieco anche se la cecità non è tanto una facoltà quanto la negazione
della facoltà della vista.[101] Anselmo fa così propria la concezione,
già espressa da un Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo
di Ambrogio,[102] del male come privazione, ovvero nega la positività
ontologica del male stesso: come bisogna parlare del nulla come negazione
dell'esistente e della cecità come negazione della vista, bisogna parlare del male
come mancanza di bene. Dunque Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di
scegliere se perseguire la giustizia (adeguandosi alla volontà divina) o se
perseguire la felicità (ribellandosi e tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò
la rettitudine e compì un moto di allontanamento da Dio; compì cioè
un'ingiustizia che, però, non era nient'altro che una negazione della
giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo, Anselmo dunque sviluppa
la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere umano è creato da Dio ed è
dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui piena realizzazione si ha
nella conservazione della rettitudine – cioè nell'adesione alla legge che Dio,
con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia al momento del peccato originale
anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la sua libertà; e non gli è
possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a un nuovo dono di grazia
da parte di Dio.[105] Come Anselmo avrebbe approfondito nel De concordia la
volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di perseguire la
rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale rettitudine se non in
virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della grazia concessa da Dio
è fondante. Un capolettera decorato da un manoscritto del Cur Deus homo
del XII secolo. La necessità di un Dio-uomo redentore: il Cur Deus homo
Magnifying glass icon mgx2.svg Cur Deus homo. Nel dialogo in due libri Cur Deus
homo Anselmo spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al
peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità
facendosi uomo.[106] Il testo contiene anche, come è reso inevitabile dal suo
soggetto, un'apologia del dogma cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per
l'appunto, si è fatto uomo in Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani;
tuttavia non è questo il suo tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è
un testo di ampio respiro che di fatto conclude, insieme al successivo De
concordia, l'esposizione della visione teologica di Anselmo.Il testo si apre
con una chiarificazione metodologica, in cui Anselmo ribadisce la sua posizione
sul rapporto tra ragione e fede: come già si era riscontrato nel Monologion, e
in accordo con la consueta dinamica dell'intellectus fidei (comprensione della
fede), egli tratta sempre la fede come il necessario punto di partenza di ogni
riflessione teologica ma giudica «negligenza» astenersi poi dal portare a
compimento razionalmente tale riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a
spiegare il carattere necessario della volontà divina: Dio, sostiene l'autore,
è dotato di una volontà spontanea e autonoma (non è cioè soggetto né a
costrizioni né a impedimenti) ma tale volontà è talmente rigida nella sua
assoluta immutabilità da far sì che essa possa essere considerata necessaria;
si può dire, ad esempio, che è necessario che Dio non menta perché la volontà
di Dio, tesa per sua stessa natura verso la verità (e da cui anzi la verità
stessa trae la sua natura) è invariabile e incorruttibile nella sua costanza, e
non può in alcun modo rivolgersi verso la menzogna.[109] Si è già visto che
questa non può secondo Anselmo essere considerata una limitazione della potenza
divina. È proprio per via della necessità e assoluta immodificabilità del
piano che Dio aveva predisposto per l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito
alla perdita dell'immortalità dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso
necessario un intervento di Dio per redimere l'uomo dal peccato originale e
ripristinare tale immortalità (sotto forma della possibilità di vivere in
eterno nell'altra vita).[110] Dopodiché, risulta necessario che la
remissione da parte di Dio dei peccati dell'uomo passi attraverso un'effettiva
espiazione: se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia,
senza che il peccato ricevesse una giusta e proporzionata punizione, il
disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine e, in
generale, la legalità dell'universo morale umano e divino risulterebbe
compromessa.[111] Bisogna dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che
peccando gli ha negato – anche se resta inteso che le azioni dell'uomo non
aggiungono né tolgono nulla a Dio, dato che è impossibile privare dell'onore un
Dio che coincide con lo stesso onore e con tutte le altre qualità positive:
restituire a Dio l'onore che gli è dovuto significa semplicemente ripristinare
la sottomissione, venuta meno con il peccato originale, della volontà umana a
quella divina. Tuttavia l'uomo, che anche prima della caduta in quanto creatura
era incapace di compiere il bene se non in virtù della partecipazione al bene
supremo di Dio, non può espiare la sua colpa da solo: gli è impossibile rendere
a Dio la giusta soddisfazione, perché la bontà di ogni azione di riparazione
sarebbe comunque dovuta a Dio. È così che Anselmo dimostra che il salvatore
dell'uomo deve necessariamente essere di natura divina; quindi egli procede ad
argomentare che, per la precisione, egli deve essere un Dio-uomo.[112]
Risulta infatti che a rendere soddisfazione a Dio non può essere qualcuno che
sia inferiore a Dio, e d'altra parte è necessario che ad espiare il peccato
dell'uomo sia un uomo: pertanto le caratteristiche che le scritture
attribuiscono a Gesù, vero uomo e vero Dio, partecipe in ugual modo e nello
stesso tempo di entrambe le nature, sono esattamente quelle necessarie a
spiegare razionalmente la redenzione dell'umanità[15] dal momento che, come
scrive il filosofo Giuseppe Colombo, «Dio (per sé preso) non deve nulla a
nessuno e l'uomo (per sé preso) non può nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal
peccato in virtù della sua natura divina e perciò privo di doveri e di debiti
nei confronti di Dio, offrì volontariamente e liberamente la sua vita innocente
a Dio stesso e così facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale
dell'umanità. La compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De
concordia Il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum
libero arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la
compatibilità della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della
grazia, con il libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia
del De concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema
dell'apparente inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina
con la libertà umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a
maggior ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere
libero e non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In
primo luogo, egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da
quella logica, dal momento che quella ontologica ha una priorità su quella
logica: se infatti qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del
sole) allora lo è anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge
necessariamente); tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in
cui avviene, avviene necessariamente) può anche non essere necessario
ontologicamente (è il caso, ad esempio, di una rivolta popolare).[115] In
secondo luogo Anselmo propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la
nostra concezione di predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra
coscienza temporale delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in un'eternità
al di fuori e al di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o futuro, ma
tutto è simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e determina
gli eventi che per noi sono passati, presenti e futuri da una prospettiva
sovratemporale in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando così le cose,
non c'è contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini un evento
libero in quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina eventi
necessari in quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di Dio con
il libero arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da un
lato, «superbi», considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di
essere raggiunte dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che, dall'altro
lato, attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella redenzione
dell'uomo da negare addirittura la sua libertà.[117] Anselmo assume nella
controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà vengono
armonizzate: egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De casu
diaboli, per agire rettamente è necessario volere rettamente, e per volere
rettamente è necessaria una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da
solo tale rettitudine della volontà, poiché (mentre si può autonomamente
conservare la rettitudine della volontà quando la si ha) non si può volere la
rettitudine con il solo libero arbitrio quando non si ha una volontà
retta;[118] e dunque se è vero che è Dio, per grazia, a dare all'uomo questa
facoltà, è vero anche che sta alla libertà dell'uomo conservarla – i due
aspetti non sono quindi contraddittori, bensì complementari.[117] Il
testo prosegue con un'analisi dei significati della parola "volontà"
e delle sue interazioni con il concetto di giustizia, e si conclude con una
ricapitolazione dei punti già trattati: l'autore ribadisce che la volontà,
creata come ente positivo e quindi di per sé orientata a Dio e alla
conservazione della sua originaria bontà, è stata corrotta dalla deviazione del
volere dell'uomo per un cattivo uso della libertà; pertanto la volontà umana ha
perso la rettitudine necessaria a volere rettamente, e ha bisogno che tale
rettitudine sia ripristinata dalla grazia divina prima di poter ricominciare ad
agire con giustizia, preservando grazie alla libertà la rettitudine della sua
volontà.[118] Altri scritti Miniatura inglese del XII secolo di un
capolettera delle Orationes sive meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di
diversi altri scritti di carattere teologico, ma pur sempre animati da uno
spirito filosofico: l'Epistola de incarnatione Verbi e il successivo De
processione Spiritus Sancti trattavano del problema della processione dello
Spirito Santo e delle modalità della sua incarnazione; il De conceptu virginali
et de peccato originali analizzava le questioni dottrinali dell'Immacolata
Concezione e del peccato originale, e inoltre ripercorreva ragionamenti già
portati avanti nelle opere precedenti; a ciò si aggiungono meditazioni,
preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie di frammenti provenienti da
un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui costumi [morali]) in parte spurio
che tratta delle affezioni dell'anima.[15] Le preghiere scritte da
Anselmo sono raccolte in un'opera nota come Orationes sive meditationes
(Preghiere ovvero meditazioni); esse, scritte lungo tutta la vita dell'autore
dal periodo di Bec all'episcopato inglese, costituiscono un ulteriore esempio
dell'ideale anselmiano di comprensione della fede: benché orientate più alla
contemplazione e al raccoglimento spirituale che alla vera e propria filosofia
o teologia, il loro scopo è infatti quello di suscitare nel lettore quel
sentimento rivolto verso la verità e la rettitudine che è necessario
presupposto tanto della teoresi quanto della stessa vita buona.[119] Di Anselmo
si è poi conservato un epistolario particolarmente significativo, che
testimonia in modo efficace sia della sua personalità che della sua figura
pubblica: risulta infatti chiaramente, da una parte, l'affetto, la carità, la
sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo infondeva nelle lettere ai monaci
suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la sua determinazione nelle faticose
e a volte frustranti questioni politiche legate alla sua posizione di arcivescovo.
Esercita un'influenza estremamente significativa sulla storia della filosofia
sia. La sua riflessione giunse a livelli di estrema profondità in tutti i campi
in cui si espresse, anche se è forse vero che tali campi furono relativamente
pochi. Infatti alla sua filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista
dialettico, fa difetto un'approfondita analisi del campo della filosofia della
natura – la quale sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di
Anselmo formano un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di
certi problemi come quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza
nella filosofia, venendo ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione
di Anselmo per la dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui,
secondo alcuni critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte
le pagine più famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion”
egli espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di
Dio. Esse, considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la
storia della filosofia, genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A
proposito della rilevanza dell'argomento
di Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle
ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia
appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione
dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è
comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un
problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo
Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto
argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo
d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri pensatori nel XIII secolo,
tra cui i più degni di nota sono Aquino e Fidanza. Aquino contesta la validità
di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della
Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova
anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero
sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la
formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio Anselmo
fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento,
considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di
carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova
anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento
del suo argomentare.[129] Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile
alla prova a priori di Anselmo entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica
di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata
con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della
sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in
sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte di
Anselmo. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti
dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile,
allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se
non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di
Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della
ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato
(non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della
scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato
positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non
avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione di Anselmo affermando che in
Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica
esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla
base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di
Bradley. Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce
inoltre a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica
si è rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli
scritti di Anselmo e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere
dovrebbero essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore
della logica costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni
esistenziali, con particolare riferimento al problema del peccato e della
salvezza e al concetto di rettitudine. Barth vede Anselmo tra i suoi principali
punti di riferimento, ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono
altresì degne di nota le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di
emendarla da aporie ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di
diverso tenore l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il
profilo linguistico, alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da
Anselmo. In occasione dell'ottavo centenario della morte di Anselmo, il 21
aprile 1909, papa Pio X promulgò l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra
la figura e ne promuoveva il culto. Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica
Fides et ratio guardava alla prova ontologica di Anselmo come a un modello di
quella complementarità imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia
fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora
una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con
l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come
necessario ciò che la fede presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”;
“De grammatico”; De veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola
de incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato
originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus
Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis
Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum
libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et
impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes
Epistolae. Fabio Arduino, Sant'Anselmo d'Aosta, in Santi, beati e testimoni -
Enciclopedia dei santi, santiebeati. Probabilmente ad opera dell'arcivescovo
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Gilson,291. Karen Armstrong, Storia di
Dio. 4000 anni di religioni monoteiste, Milano, CDE, 1997,217,non esistente. Gilson,292-293. Giuseppe Colombo, Invito al pensiero di
Sant'Anselmo, Milano, Mursia, 1990,106,88-425-0707-5. Colombo,56. Simonetta,476.
Gilson,293. Gilson,294-296. Thomas
Williams, Introduction to the Monologion and Proslogion (PDF), su University of
South Florida. URL consultato il 9 settembre 2012. Tale interpretazione nacque dalla sintesi
neoplatonico-cristiana operata da Agostino. Si veda Simonetta,440. Simonetta,442 e 476. Colombo,44. Gilson,296.
Simonetta,477. G. C., Enciclopedia
Italiana (1935), alla voce "argomento ontologico" Proslogion, cap. II. Che l'argomento di Anselmo consista
principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da
Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The
nature of necessity, cap. X,196-221, Oxford University Press, 1974. Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo
non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più
che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo
inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione [1931], trad. di V. Vinay,123 e
segg., Silva, Milano 1965). Coloman
Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso
della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000. Simonetta,479. Colombo,53.
A proposito della disputa sull'esistenza di Dio, avuta col benedettino
Gaunilone. Proslogion, cap. 15, Opera
Omnia, I, 112. Cfr. Coloman Étienne
Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della
formula dialettica del Proslogion , Jaka Book, 2000. Colombo,52. Simonetta,478. Colombo,56-57. Colombo,57-58. Per Anselmo, infatti, anche il sole non è
fissabile direttamente dallo sguardo, eppure attraverso la luce del giorno
riusciamo benissimo a vedere la sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a
cura di Italo Sciuto,296, Bompiani, 2002).
«Nam etsi quisquam est tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo
maius non possit cogitari, non tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse
intelligere aut cogitare, quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo
sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra
Gaunilonem respondentem pro insipiente, 9, 258C). Colombo,59-60. Colombo,61. Simonetta,478-479. Colombo,61-62. Colombo,62-63. Colombo,63. Colombo,64-67. Colombo,67.
Giacobbe, Marchetti,7-8. Colombo,73. Tale definizione era stata proposta da
Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, 479. Colombo, 74.
Simonetta, 490. Colombo,75.
Colombo, 75-76. Colombo,73,
76. Colombo,76-77. Giacobbe, Marchetti,10.
Colombo,77. Il quale l'aveva a sua volta
ricavata da Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta,440. Colombo,78. Su questi argomenti Anselmo si esprimeva
anche nel De concordia. Si veda Colombo,79. Colombo,79. Colombo,80.
Colombo,81-82. Colombo,82. Colombo,82-23. Colombo,82, 84. Colombo,85.
Colombo,86. Colombo,86-87. Colombo,87. Colombo,88. Simonetta,480. Colombo,89.
Colombo,91. Colombo ,95. Colombo,91-95. Gilson,303. Gilson,302-303. Colombo,135. Colombo,132. Gilson,298.
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Colombo,132-133. Francesco
Tomatis, L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a
Schelling,56-57, Città Nuova, 2010: mentre Anselmo intendeva mostrare la
contraddizione logica di chi rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di
Cartesio è garantire l'autonomia interna del pensiero privandolo di sbocchi al
trascendente. È stato rilevato come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso
errore di Gaunilone, concependo Dio soltanto in termini positivi come «il più
grande di tutti» (maius omnibus), anziché in maniera negativa (nihil maius,
«niente di più grande»): cfr. Virgilio Melchiorre, La via analogica,10-11, nota
18, Vita e Pensiero, 1996. Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A.
Molinaro, Anselmo, Hegel e l'argomento ontologico, in AA.VV., L'argomento
ontologico, «Archivio di filosofia»,353-370, 1-3, 1990). Emanuela Scribano, Guida alla lettura
dell'"Etica" di Spinoza, Roma-Bari, Laterza,
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Wikisource, 1913. URL consultato il 12 novembre 2017. (LA) 1033-1109 – Anselmus
Cantuariensis – Operum Omnium Conspectus seu 'Index of available writings', su
Documenta Catholica Omnia. URL consultato il 12 novembre 2017.
PredecessoreArcivescovo di CanterburySuccessoreArchbishcantarms.png Lanfranco
di Pavia (1070-1089)1093-1109 Ralph d'Escures V · D · M Anselmo d'Aosta V · D ·
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CanterburyArcivescovi di CanterburyDottori della Chiesa cattolicaMonaci
cristiani franchiPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi
benedettiniSanti del XII secoloSanti franchiSanti per nomeAbati
benedettiniScrittori medievali in lingua latina. anselmo
“I would call him ‘Canterbury,’ only he was an
Italian!”H. P. Grice. Saint, called Anselm of Canterbury, philosopher
theologian. A Benedictine monk and the second Norman archbishop of Canterbury,
he is best known for his distinctive method
fides quaerens intellectum; his “ontological” argument for the existence
of God in his treatise Proslogion; and his classic formulation of the
satisfaction theory of the Atonement in the Cur Deus homo. Like Augustine
before him, Anselm is a Christian Platonist in metaphysics. He argues that the
most accessible proofs of the existence of God are through value theory: in his
treatise Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence
of a source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good;
that same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion,
Anselm begins with his conception of a being a greater than which cannot be
conceived, and mounts his ontological argument that a being a greater than
which cannot be conceived exists in the intellect, because even the fool
understands the phrase when he hears it; but if it existed in the intellect
alone, a greater could be conceived that existed in reality. This supremely
valuable object is essentially whatever it is
other things being equal that is
better to be than not to be, and hence living, wise, powerful, true, just,
blessed, immaterial, immutable, and eternal per se; even the paradigm of
sensory goods Beauty, Harmony,
Sweetness, and Pleasant Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God
is supremely simple, not compounded of a plurality of excellences, but “omne et
unum, totum et solum bonum,” a being a more delectable than which cannot be
conceived. Everything other than God has its being and its well-being through
God as efficient cause. Moreover, God is the paradigm of all created natures,
the latter ranking as better to the extent that they more perfectly resemble
God. Thus, it is better to be human than to be horse, to be horse than to be
wood, even though in comparison with God everything else is “almost nothing.”
For every created nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum
est. On the one hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal
structure of the natures themselves: a creature of type F is a true F only
insofar as it is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F,
to the extent that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a
created nature is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts
through reason and will, Anselm infers that prior in the order of explanation
to creation, there was, in the reason of the maker, an exemplar, form,
likeness, or rule of what he was going to make. In De veritate Anselm maintains
that such teleology gives rise to obligation: since creatures owe their being
and well-being to God as their cause, so they owe their being and well-being to
God in the sense of having an obligation to praise him by being the best beings
they can. Since every creature is of some nature or other, each can be its best
by being that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational
natures fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity;
rational creatures, when they exercise their powers of reason and will to
fulfill God’s purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how
good a being it is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what
sort of imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising
its natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely
independent owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De
casu diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that
since the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good
and every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a
privation of being, the absence of good in something that properly ought to
have it e.g., blindness in normally sighted animals, injustice in humans or
angels. Second, since all genuine powers are given to enable a being to fulfill
its natural telos and so to be the best being it can, all genuine
metaphysically basic powers are optimific and essentially aim at goods, so that
evils are merely incidental side effects of their operation, involving some
lack of coordination among powers or between their exercise and the surrounding
context. Thus, divine omnipotence does not, properly speaking, include corruptibility,
passibility, or the ability to lie, because the latter are defects and/or
powers in other things whose exercise obstructs the flourishing of the
corruptible, passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action theory
begins teleologically with the observation that humans and angels were made for
a happy immortality enjoying God, and to that end were given the powers of
reason to make accurate value assessments and will to love accordingly. Anselm
regards freedom and imputability of choice as essential and permanent features
of all rational beings. But freedom cannot be defined as a power for opposites
the power to sin and the power not to sin, both because neither God nor the
good angels have any power to sin, and because sin is an evil at which no
metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the power to preserve
justice for its own sake. Choices and actions are imputable to an agent only if
they are spontaneous, from the agent itself. Creatures cannot act spontaneously
by the necessity of their natures, because they do not have their natures from
themselves but receive them from God. To give them the opportunity to become
just of themselves, God furnishes them with two motivaAnselm Anselm 31 31 tional drives toward the good: an affection
for the advantageous affectio commodi or a tendency to will things for the sake
of their benefit to the agent itself; and an affection for justice affectio
justitiae or a tendency to will things because of their own intrinsic value.
Creatures are able to align these drives by letting the latter temper the
former or not. The good angels, who preserved justice by not willing some
advantage possible for them but forbidden by God for that time, can no longer
will more advantage than God wills for them, because he wills their maximum as
a reward. By contrast, creatures, who sin by refusing to delay gratification in
accordance with God’s will, lose both uprightness of will and their affection
for justice, and hence the ability to temper their pursuit of advantage or to
will the best goods. Justice will never be restored to angels who desert it.
But if animality makes human nature weaker, it also opens the possibility of
redemption. Anselm’s argument for the necessity of the Incarnation plays out
the dialectic of justice and mercy so characteristic of his prayers. He begins
with the demands of justice: humans owe it to God to make all of their choices
and actions conform to his will; failure to render what was owed insults God’s
honor and makes the offender liable to make satisfaction; because it is worse
to dishonor God than for countless worlds to be destroyed, the satisfaction
owed for any small sin is incommensurate with any created good; it would be
maximally indecent for God to overlook such a great offense. Such calculations
threaten certain ruin for the sinner, because God alone can do/be immeasurably
deserving, and depriving the creature of its honor through the eternal
frustration of its telos seems the only way to balance the scales. Yet, justice
also forbids that God’s purposes be thwarted through created resistance, and it
was divine mercy that made humans for a beatific immortality with him.
Likewise, humans come in families by virtue of their biological nature which
angels do not share, and justice allows an offense by one family member to be
compensated by another. Assuming that all actual humans are descended from
common first parents, Anselm claims that the human race can make satisfaction
for sin, if God becomes human and renders to God what Adam’s family owes. When
Anselm insists that humans were made for beatific intimacy with God and
therefore are obliged to strive into God with all of their powers, he
emphatically includes reason or intellect along with emotion and will. God, the
controlling subject matter, is in part permanently inaccessible to us because
of the ontological incommensuration between God and creatures and our progress
is further hampered by the consequences of sin. Our powers will function best,
and hence we have a duty to follow right order in their use: by submitting
first to the holistic discipline of faith, which will focus our souls and point
us in the right direction. Yet it is also a duty not to remain passive in our
appreciation of authority, but rather for faith to seek to understand what it
has believed. Anselm’s works display a dialectical structure, full of
questions, objections, and contrasting opinions, designed to stir up the mind.
His quartet of teaching dialogues De grammatico,
De veritate, De libertate arbitrii, and De casu diaboli as well as his last
philosophical treatise, De concordia, anticipate the genre of the Scholastic
question quaestio so dominant in the thirteenth and fourteenth centuries. His
discussions are likewise remarkable for their attention to modalities and
proper-versus-improper linguistic usage. Fin dagli
esordi della filosofia medievale, la dottrina dei segni riguarda la questione
dell’interpretazione, o addirittura dell'intero mondo reale, inteso come
insieme di segni attraverso i quali l’assoluto di Bradley si fa manifesto, e
attraverso i quali ci indirizza alla verità. Siamo agli albori di una logica
del segno, con Alenino, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Beda il
Venerabile. Al principio dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la
semantica medievali. Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità
finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che
la fede possa essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima
della ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate)
vengo- no articolate così le prove dell'esistenza dell’Assoluto, che
costituiscono un momento di notevole interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo
d’Aosta sostiene la differenza fra linguaggio (o segno, segnante) e realtà
(segnato). Se, secondo il linguaggio si può dire che l’Assoluto non esiste, non
lo si può però pensare secondo il reale. Si tratta della cosiddetta "prova
ontologica", importante perché distingue fra una verità referenziale e una
verità *proposizionale*. La verita proposizionale è limitata a una pura asserzione
di *esistenza*, che ha valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel
dialogo “De veritate”, la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente
(relatum, segnatum) è maggiormente sviluppata, su base aristotelica,
distinguendo fra verità di un segno (del segnato) -- la significazione -- e verità
stretta della proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta --
determina la verità o falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha
e beta’ Fido is shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita
IN-tensionale della proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da
una propria legge logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’,
‘comunicato’ o impiegato o impicato (la significazione) non è mai certa o
provata. Questa dipende dalla realtà -- o livello ontologico -- con la quale
non può essere coerente. Dunque, la verità della significazione, che può essere
detta "semantica" o del segno, non si applica che al comunicato o
impiegato della conversazione o discorso umano, che riflette piti o meno la
cosa, evvento, o situazione (l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto è con-sustanziale alla natura, ed è, alla
Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”,
è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo
(il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio
dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia*
*anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa,
“l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx
e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della
proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf.
Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea
della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta
nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la
*causa* (ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il
tuo *discorso* (il segnante) stesso o il segnato (la significazione del
segnante) o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò
che tu cerchi. DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se
fosse così, *ogni* discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o
vera, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione – l’alpha
e beta -- restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il
discorso, la è lo stesso; la signi-ficazione
(lo segnato) anche e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra
essere dunque il vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa
signi-fica esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova
dell'esistenza dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul
linguaggio che Aosta considera un vero e proprio rispecchiamento della natura,
un po' come il logos platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il
segno da natura (dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il
segno dalla natura è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per
questo è perfetto (“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il
segno dall’arte permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto
necessariamente imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate, 11. 51
Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo cominciato
a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un
segno dall’arte è applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare
qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con
l'aiuto del quale noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le
cose, e una rassomiglianze o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che
il segno de-nota. Ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda
della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o
dialettica è, di norma, considerata come la solida roccia cui ancorare la
filosofia. Infatti nella dialettica riteniamo di trovare garanzia di chiarezza,
verità, comprensibilità. Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non
molto, stando a quel che argomenta in modo provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla
sua dialettica e sovversione – dialettica sovversiva – Aosta rivela l’altra
faccia della dialettica, quella perturbatrice, una dialettica che non è stabile
e chiara, bensì ingannevole e torbida. Aosta propone, come caso di studio di
una dialettica sovversiva che svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a
sostegno della prova ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e
quello di stilare una ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione,
dialettica, e fede – per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da
servire al posto di quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è
da presumere che Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo.
Quindi cercava solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad
alcuna sua demonstratio. In soldoni, Aosta, con il suo argomento
ontologico forne all’insipiente -- che
nel Salmo 13 sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova
cogente dell’esistenza di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e
convincere gl’altri credente, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma
da un attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della
scolastica, con un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel
destinatario il memento che, sicuramente l’uso della ragione può combattere
l’eresia. Ma, al contempo, un *abuso* dell’argomentare può sottilmente minare
la stessa ortodossia. Infatti, nel progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge
ruoli differenti a livelli differenti. La ragione dialettica, da un lato, per
la sua natura normativa, impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la
ragione dialettica apre un vasto spazio di sperimentazione in cui non si
raggiunge mai un limite. Il programma di natura tipicamente dialettica
impostato d’Aosta perché possa farci pensare più correttamente al signore ineffabile
di tutte le cose anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative.
Nell’arco di un dialogo, Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per
ben 19 volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale
e logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il
problema dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto
alla Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire l’incoraggiamento
d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come possiamo
tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo in
realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la
necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il
loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se
nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per
mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a
filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento.
La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla
cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti,
usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che
bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale.
Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente,
per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o
premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento
dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco”
d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di
lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di
quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello
stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena
lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere
cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata
sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale*
che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un
tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel
caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che
il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La
ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il
destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere
di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se
notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma
lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma
logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma
“il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a
negazione ‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf.
‘il re di Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una
descrizione vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente
usa correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste
-- il ‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza
non e un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato
l’essenza di Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti,
per Aosta la prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di
Velia e di Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come
preferisce Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari
possit”. Tanto è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo
“non esiste alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che
niente maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne*
la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo
essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini
– il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che
niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse,
tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione,
quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve
essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto,
misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di
queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df –
quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è
impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante.
L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo dell’argomento
ontologico comporta un problema che innesca una reazione a catena. Si deve
dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori l’uno con l’altro
– in altri termini, dimostrare la possibilità della loro compresenza in un solo
identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua ratio argomentativa può
rintracciare tutte le possibili relazioni intercorrenti, per esempio, fra
bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado anche di dimostrare che Dio non
solo *può* -- il diamante dellla logica modale -- ma anche *deve* -- il
quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre questi attributi, pur
tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa dar conto del perché
l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel modo in cui lo fa. L’algoritmo
nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque, Signore, tu non sei solo colui
di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei anche qualcosa di maggiore di tutto
ciò che può essere pensato. Questa proposizione molecolare richiamano tutte le
argomentazioni circa gli esiti di impossibilità della logica contemporanea. Tu
possi pensare che esista qualcosa di maggiore di qualsiasi cosa io possa
pensare, quindi ciò di cui non posso pensare il maggiore deve essere tale che
non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo ben sapeva di iniziare una partita
impossibile – la razionalizzazione della fede – nella quale un ruolo chiave era
svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur tuttavia impostando come limite ultimo
il concetto di quello di cui non puo pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una
giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa
azzardata che dava in questo *gioco* la possibilità all’antagonista
(l’infedele, la stessa ragione che è negativa per vocazione) di contrattaccare
arrecando danno con una manciata di domande ben azzeccate, che possono trovarci
pronti a fornire comunque una risposta o in subordine occuparci la coscienza
con la loro presenza importuna. Possiamo, dunque, senz’altro dire che Aosta ha
svolto egregiamente una ricognizione dell’aporia della ragiona trovando anche
addentellati significativi circa l’esercizio della libertà intellettuale con un
efficace richiamo a Bruno e Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti
approntati dall’autore sull’argomento ontologico. Per esempio, vengono riportate
queste parole d’Aosta. Così quando si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il
maggiore’, senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se
la cosa stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere
pensata o compresa. Subito si attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via
negativa per giungere alla comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un
gran che di qualcosa se si sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna
farsi confondere da questa limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione
dell’assoluto, ma di fornire un fondamento razionale per la verità di una
proposizione. E tale operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per
via puramente negativa – prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio
ad absurdum. Sull’argomento della reductio, si cita un passo tratto dalla
Responsio d’Aosta. Si può pensare a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi,
c’è un mondo m (pensabile) dove cio di cui non si puo pensare il maggiore
esiste. Ora supponiamo che cio di cui non si puo pensare il maggiore non esista
nel mondo reale. Allora *è* possibile pensare, in m, qualcosa di maggiore di
cio di cui non si puo pensare il maggiore. Ma questa è una falsità
logica. L’argomentazione è una reductio ad absurdum e la terza premessa è
la premessa da dimostrare *assurda*, il che la rende indisputabile.
Riterra che l’argomentazione funziona se
almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza renderlo molto incomprensibile o
inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione. Dalla combinazione di
questi due passi si ricava che si ritenga che la reductio sia particolarmente
adatta per rendere accetta l’esistenza di cose inconcepibili. Rivisitando
l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga che Socrate non è mortale;
che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono mortali; sicché Socrate è sia mortale
che non mortale. Ma la terza premessa è necessariamente falsa e la seconda
premessa è vera. Perciò la prima premessa è falsa. La seconda premessa non
assume riguardo a Socrate una forma puramente negative. Pertanto in questo caso
la reductio ad absurdum non può essere addotta in difesa dell’uso della via
negativa. Perciò, anche se vi sono reductiones ad absurdum che possono essere
formulate con premesse del tipo via negativa, non si spiega cosa di speciale vi
sia nell’argomentazione per reductio ad absurdum da renderla adatta per
esprimersi per via puramente negativa, e quindi la legittimità della reduction
ad absurdum non suffraga l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è positivo (o φ ∈ P) ASSIOMA 1. P(φ) . P(ψ) ⊃ P(φ . ψ) ASSIOMA 2. P(φ) ∨ P(∼φ) (Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1. G(x) ≡ (φ) [ P(φ) ⊃ φ(x) ] (Dio) DEFINIZIONE 2. φ Ess.x ≡ (ψ)
[ ψ(x) ⊃ N(y) [
φ(y) ⊃ ψ(y)
]] (Essenza di x) p ⊃ Nq =
N(p ⊃ q)
(Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) ⊃ NP(φ) ∼P(φ) ⊃ N ∼P(φ)
Poiché ciò segue dalla natura della proprietà. TEOREMA. G(x) ⊃ G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess.
x ⊃ N (∃x) φ(x) ] (Esistenza necessaria)
ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) ⊃ N(∃y) G(y) quindi (∃x) G(x) ⊃ N(∃y) G(y)
quindi M(∃x) G(x)
⊃ MN(∃y) G(y) sibilità) (M = pos- M(∃x) G(x) significa che il sistema di tutte
le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a: ASSIOMA 5. P(φ) . φ ⊃ Nψ : ⊃ P(ψ) x = x è positivo x ≠ x è negative. Anselmo d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva. : Grice, “Anselmo’s
“De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on paronymy: a
‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si puo pensare
il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del
programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di
un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo,
eresia. Keywords. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688013479/in/photolist-2mKbroA-2mKjo1z-2mKgT2F-2mKuQW3-2mKsLhm-2mKuQFo-2mKsKNW-2mKn6oD-2mKuzxc-2mKuzCc-2mKvKrp-2mHU3AF-2mHSNmD-2mHSNRB-2mHSNQV-2mHU3Aq-2mHWjZV-2mHU3B2-2mHU3AA-2mHNHW5-2mHWk2i-2mHSNRw-2mHNHTE-2mHSNRS-2mHWk23-2mHNHUM-2mHNHUX-2mHSNPs-2mHWjZp-2mHWjZe-2mHWk1b-2mHSNQz-2mHSNPx-2mHSNQE-2mKn3Nt-2mKvGG6-2mHXj2G-2mHU3zd-2mHSNRX-2mGnP2f-BK5mza-o7oCuH-nfSxVn-nmwSQx-nmx6TM-njtwYW-nfSnG6-nfSuMP-nhV75D-njuvW2
Grice ed Aquino – teoria dell’intenzione –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roccasecca). Filosofo. Grice: “Srawson
used to joke and call me St. Thomas, as I rushed to tutor on ‘De
interpretatione’ ‘That’s precisely what Aquino did at Bologna! Can’t the tutee
not interpret it by himself?!’” Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 – Abbazia di
Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un religioso, teologo, filosofo e accademico
italiano. Frate domenicano esponente della Scolastica, era definito Doctor
Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica
che dal 1567 lo considera anche dottore della Chiesa. Tommaso rappresenta
uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica: egli
è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica, che ha
i suoi fondamenti e maestri in Socrate, Platone e Aristotele, e poi passati
attraverso il periodo ellenistico, specialmente in autori come Plotino. Fu
allievo di sant'Alberto Magno, che lo difese quando i compagni lo chiamavano
"il bue muto" dicendo: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico,
quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un'estremità all'altra
della terra!». San Tommaso d'Aquino San Tommaso d'Aquino e gli angeliSan
Tommaso sorretto dagli angeli, del Guercino Sacerdote e Dottore
della Chiesa Nascita1225 Morte7 marzo 1274 Venerato daChiesa
cattolica e Chiesa anglicana Canonizzazione18 luglio 1323 da Papa Giovanni XXII
Santuario principaleChiesa dei Giacobini Tolosa Ricorrenza28 gennaio; 7 marzo
(forma straordinaria) AttributiAbito domenicano, libro, penna e calamaio,
modellino di chiesa, sole raggiato sul petto, colomba. Patrono diTeologi,
accademici, librai, scolari, studenti, fabbricanti di matite; regione Campania;
comune di Aquino, Grottaminarda, Monte San Giovanni Campano e Priverno; diocesi
di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo; Belcastro; Falerna; San Mango
d'Aquino. San Tommaso in una vetrata della Cattedrale di Saint-Rombouts,
Mechelen (Belgio). Tommaso dei conti d'Aquino nacque, forse, nel 1225
nella contea di Aquino, territorio dell'odierna Roccasecca, nel Regno di Sicilia
(Sgarbossa). Secondo altre tesi, San Tommaso sarebbe nato a Belcastro; a
sostegno di esse si segnalano quelle di fra' Giovanni Fiore da Cropani, storico
calabrese del XVII secolo, che lo scriveva nella sua opera Della Calabria
illustrata, di Gabriele Barrio nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae
e di padre Girolamo Marafioti, teologo dell'ordine dei Minori Osservanti, nella
sua opera Croniche ed antichità di Calabria. Il castello paterno di Roccasecca
rimane comunque ancora oggi il luogo più accreditato della sua nascita, da
Landolfo d'Aquino e da Donna Teodora Galluccio, nobildonna teanese appartenente
al ramo Rossi della famiglia napoletana dei Caracciolo. La sua data di nascita
non è certa, ma è calcolata in maniera approssimativa a partire da quella della
sua morte. Bernardo Gui, ad esempio, afferma che Tommaso è morto quando aveva
compiuto i suoi quarantanove anni e iniziato il suo cinquantesimo anno. Oppure,
in un testo un po' anteriore, Tolomeo da Lucca fa eco ad un'incertezza: «Egli è
morto all'età di 50 anni, ma alcuni dicono 48». Tuttavia, oggi, sembra che ci
sia accordo nel fissare la sua data di nascita tra il 1224 e il 1226. Da
Montecassino a Napoli Secondo le usanze del tempo Tommaso, essendo il figlio
più piccolo, era destinato alla vita ecclesiastica e proprio per questo a soli
cinque anni fu inviato dal padre Landolfo come oblato nella vicina Abbazia di
Montecassino, di cui era abate Landolfo Sinibaldo, figlio di Rinaldo d'Aquino, per
ricevere l'educazione religiosa e succedere a Sinibaldo in qualità di abate. In
ossequio alla regola benedettina, Landolfo versò un'oblazione di venti once
d'oro al monastero cassinese perchè accettasero il figlio di una nobile
famiglia e in tenera età.In quegli anni l'abbazia si trovava in un periodo di
decadenza e costituiva una preda contesa dal Papa e dall'imperatore. Ma il
trattato di San Germano, concluso tra il Papa Gregorio IX e l'imperatore
Federico II il 23 luglio 1230, inaugurava un periodo di relativa pace ed è
proprio allora che si può collocare l'ingresso di Tommaso nel monastero. In
quel luogo Tommaso ricevette i primi rudimenti delle lettere e fu iniziato alla
vita religiosa benedettina. Ma a partire dal 1236 la calma di cui godeva
il monastero fu nuovamente turbata e Landolfo, consigliato dal nuovo abate,
Stefano di Corbario, volle mettere al riparo il figlio dai disordini e inviò
Tommaso, oramai adolescente, a Napoli, perché potesse seguire degli studi più
approfonditi. Così nell'autunno del 1239, a quattordici o quindici anni,
Tommaso si iscrisse al nuovo Studium generale, l'Università degli studi fondata
nel 1224 da Federico II per formare la classe dirigente del suo Impero.
Fu proprio a Napoli, dove era stato fondato un convento, che Tommaso conobbe i
Domenicani, ordine in cui entrò a far parte e in cui fece la sua vestizione
nell'aprile del 1244. Ma l'ingresso di Tommaso presso i Frati predicatori
comprometteva definitivamente i piani dei suoi genitori riguardo al suo futuro
incarico di abate di Montecassino. Così la madre inviò un corriere ai suoi
figli, che in quel periodo stavano guerreggiando nella regione di
Acquapendente, perché intercettassero il loro fratello e glielo conducessero.
Essi, accompagnati da un piccolo drappello, catturarono facilmente il giovane
religioso, lo fecero salire su di un cavallo e lo condussero al Castello di
Monte San Giovanni Campano, un castello di famiglia ove fu tenuto prigioniero
per due anni. Qui tutta la famiglia tentò di far cambiare idea a Tommaso, ma
inutilmente. Tuttavia bisogna precisare che egli non fu né maltrattato né
rinchiuso in qualche prigione, si trattava piuttosto di un soggiorno obbligato,
in cui Tommaso poteva entrare e uscire a piacimento e anche ricevere visite. Ma
prendendo atto che Tommaso era ben saldo nella sua risoluzione, la sua famiglia
lo restituì al convento di Napoli nell'estate del 1245. Ciò avvenne in
occasione del Concilio di Lione del 17 luglio 1245, allorché papa Innocenzo IV
ufficializzò la deposizione dell'imperatore Federico II di Svevia. Gli studi a Parigi
e a Colonia Beato Angelico: San Tommaso d'Aquino Dipinto del Velazquez I
Domenicani di Napoli ritennero che non fosse sicuro trattenere presso di loro
il novizio e lo inviarono a Roma dove si trovava il maestro dell'Ordine,
Giovanni Teutonico, il quale stava per partire alla volta di Parigi, dove si
sarebbe celebrato il Capitolo generale del 1246. Egli accolse Tommaso
inviandolo prima a Parigi e poi a Colonia, dove c'era un fiorente Studium
generale sotto la direzione di fra Alberto (il futuro sant'Alberto Magno),
maestro in teologia, il quale era ritenuto sapiente in tutti i campi del
sapere. Al seguito di Giovanni Teutonico, si sarebbe dunque messo in
viaggio per Parigi e vi avrebbe trascorso tre anni scolastici. Qui potrebbe
aver studiato le arti, sia in facoltà che in convento. Partì per Colonia con
fra' Alberto, presso il quale continuò il suo studio della teologia e il suo
lavoro di assistente. Il soggiorno di Tommaso a Colonia, al contrario di quello
a Parigi, non è mai stato messo in dubbio, poiché è ben testimoniato dalle
fonti. Il capitolo generale dei Domenicani riunito a Parigi decise la creazione
di uno studium generale a Colonia, città nella quale esisteva già un convento domenicano
fondato da fra' Enrico, compagno di Giordano di Sassonia. L'incarico di
insegnare venne affidato a fra Alberto, la cui reputazione in quel periodo era
già notevole. Questo soggiorno a Colonia costituì una tappa decisiva nella vita
di Tommaso. Per quattro anni, dai 23 ai 27 anni, Tommaso poté assimilare
profondamente il pensiero di Alberto. Un esempio di questa influenza lo
troviamo nell'opera nota con il nome di Tabula libri Ethicorum, la quale si
presenta come un lessico le cui definizioni sono molto spesso delle citazioni
quasi letterali di Alberto. Il primo periodo di insegnamento a Parigi. Chiesa
dei domenicani di Friesach: San Tommaso e papa Urbano V e il dogma della
transustanziazione Quando il Maestro Generale dei Domenicani domandò ad Alberto
di indicargli un giovane teologo che potesse essere nominato baccelliere per
insegnare a Parigi, Alberto gli propose Tommaso che stimava sufficientemente
preparato in scientia et vita. Sembra che Giovanni Teutonico abbia esitato per
via della giovane età del prescelto, 27 anni, perché secondo gli statuti
dell'Università egli avrebbe dovuto averne 29 per poter assumere canonicamente
quest'impegno. Fu grazie alla mediazione del cardinale Ugo di Saint-Cher che la
richiesta di Alberto fu esaudita e Tommaso ricevette quindi l'ordine di recarsi
subito a Parigi e di prepararsi a insegnare. Egli iniziò il suo insegnamento
come baccelliere nel settembre di quello stesso anno, cioè del 1252, sotto la
responsabilità del maestro Elia Brunet de Bergerac che occupava il posto
lasciato vacante a causa della partenza di Alberto. A Parigi Tommaso
trovò un clima intellettuale meno tranquillo di quello di Colonia. Ancora era
vietato commentare i libri di Aristotele, ma durante la prima parte del
soggiorno di Tommaso, la Facoltà delle Arti avrebbe finalmente ottenuto il
permesso di insegnare pubblicamente tutti i libri del grande filosofo
greco. Fu nuovamente in Italia, impegnato nell'insegnamento e negli
scritti teologici: fu prima assegnato a Orvieto, come lettore, vale a dire
responsabile per la formazione continua della comunità. Qui ebbe il tempo per
completare la stesura della Summa contra Gentiles e della Expositio super Iob
ad litteram. Inoltre qui Tommaso, che non conosceva direttamente il greco in
maniera sufficiente a leggere i testi di Aristotele in originale, si poté
avvalere dell'opera di traduzione di un confratello, Guglielmo di Moerbeke,
eccellente grecista. Guglielmo rifece o rivide le traduzioni delle opere di
Aristotele e pure dei principali commentatori greci (Temistio, Ammonio,
Proclo). Alcune fonti riportano addirittura che Guglielmo avrebbe tradotto
Aristotele dietro richiesta (ad istantiam) di Tommaso stesso. Il contributo di
Guglielmo, anche lui in Italia come Tommaso dopo il 1260, fornì a Tommaso un
prezioso apporto che gli permise di redigere le prime parti dei Commenti alle
opere di Aristotele, spesso validi ancora oggi per la comprensione e
discussione del testo aristotelico. Soggiornò a Roma come maestro reggente. Nel
febbraio 1265 il neoeletto papa Clemente IV lo convocò a Roma come teologo
pontificio. Nello stesso anno gli fu ordinato dal Capitolo domenicano di Agnani
di insegnare allo studium conventuale del convento romano della Basilica di
Santa Sabina, fondato alcuni anni prima. Lo studium di Santa Sabina diviene un
esperimento per i domenicani, il primo studium provinciale dell'Ordine, una
scuola intermedia tra lo studium conventuale e lo studium generale. Prima di
allora la Provincia romana non offriva una formazione specializzata di alcun
tipo, solo semplici scuole conventuali, con i loro corsi di base di teologia
per i frati residenti. Il nuovo studium provinciale di Santa Sabina divenne la
scuola più avanzata per la provincia. Durante il suo soggiorno romano, Tommaso
cominciò a scrivere la Summa Theologiae e compilò numerosi altri scritti su
varie questioni economiche, canoniche e morali. Durante questo periodo, ebbe
l'opportunità di lavorare con la corte papale (che non era residente a Roma). Nel
secondo periodo di insegnamento a Parigi, la sua occupazione principale fu
l'insegnamento della Sacra Pagina e proprio a questo periodo risalgono alcune
delle sue opere più celebri, come i commenti alla Scrittura e le Questioni
Disputate. Anche se i commenti al Nuovo Testamento restano il cuore della sua
attività, egli si segnala anche per la varietà della sua produzione, come ad
esempio la scrittura di diversi brevi scritti (come ad esempio il De Mixtione
elementorum, il De motu cordis, il De operationibus occultis naturae...) e per
la partecipazione alle problematiche del suo tempo: che si tratti di secolari o
dell'averroismo vediamo Tommaso impegnato su tutti i fronti. A questa
multiforme attività bisogna aggiungere un ultimo tratto: Tommaso è anche il
commentatore di Aristotele. Tra queste opere ricordiamo: l' Expositio libri
Peri ermenias, l' Expositio libri Posteriorum, la Sententia libri Ethicorum, la
Tabula libri Ethicorum, il Commento alla Fisica e alla Metafisica. Vi sono poi
anche delle opere incompiute, come la Sententia libri Politicorum, il De Caelo
et Mundo, il De Generatione et corruptione, il Super Meteora. Gli ultimi
anni e la morte Ritratto di Tommaso ad opera di Fra Bartolomeo Fu quindi
richiamato in Italia a Firenze per il Capitolo generale dell'Ordine dei
Domenicani[8], secondo dopo quello del 1251[9]. Lascia definitivamente Parigi e
poco dopo la Pentecoste di quello stesso anno il capitolo della provincia
domenicana di Roma gli affidò il compito di organizzare uno Studium generale di
teologia, lasciandolo libero di scegliere il luogo, le persone e il numero
degli studenti. Ma la scelta di Napoli era già stata designata da un precedente
capitolo provinciale ed è anche verosimile che Carlo I d'Angiò abbia fatto
pressione perché venisse scelta la sua capitale come sede e che a capo di
questo nuovo centro di teologia venisse insediato un maestro di fama. Tommaso
D'Aquino abitò per oltre un anno San Domenico Maggiore nell'ultimo periodo
della sua vita, lasciandovi scritti e reliquie[10]. Gli fu offerto
l'arcivescovado di Napoli, che non volle mai accettare, continuando a vivere in
povertà, dedito allo studio e alla preghiera. Durante gli ultimi anni del
periodo napoletano, continuò a procurarsi testi filosofici che leggeva e
commentava con cura, disputandone i contenuti con i suoi confratelli e
studenti. Si dedicò anche alle opere scientifiche di Aristotele relative ai
fenomeni atmosferici e ai terremoti, cercando di procurarsi testi sulla
costruzione degli acquedotti e la possibilità di applicazione della geometria
alle costruzioni, commentando le traduzioni di testi greci e arabi in
latino. La famiglia D'aquino era in rapporti con Federico II di Svevia
che aveva istituzionalizzato la Scuola Medica Salernitana, primo centro di
fruizione culturale degli scritti medici e filosofici di Avicenna e Averroè, noti
al Dottore Angelico. Stabilendosi presso la sorella Teodora al Castello dei
Sanseverino[13], tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre Scuola
Medica che aveva sollecitato l'onore ed il decoro della parola
dell'Aquinate[8]. A memoria del suo soggiorno, nella Chiesa di San Domenico si
conservano la reliquia del suo braccio e le spoglie delle sorelle. Partecipò al
capitolo della sua provincia a Roma in qualità di definitore. Ma alcune
settimane più tardi, mentre celebrava la Messa nella cappella di San Nicola,
Tommaso ebbe una sorprendente visione tanto che dopo la messa non scrisse, non
dettò più nulla e anzi si sbarazzò persino degli strumenti per scrivere. A
Reginaldo da Piperno, che non comprendeva ciò che accadeva, Tommaso rispose
dicendo: «Non posso più. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto
con quanto ho visto». «San Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso
mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato
il trattato sull'Eucaristia, lo depose sull'altare davanti al crocifisso per
ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole:
Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam
nisi te, Domine. Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta
una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la
vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e
Elia.» (Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri in
L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2010. Tommaso e il socius si misero in viaggio
per partecipare al Concilio che Gregorio X aveva convocato per il 1º maggio
1274 a Lione. Dopo qualche giorno di viaggio arrivarono al castello di Maenza,
dove abitava sua nipote Francesca. È qui che si ammalò e perse del tutto
l'appetito. Dopo qualche giorno, sentendosi un po' meglio, tentò di riprendere
il cammino verso Roma, ma dovette fermarsi all'abbazia di Fossanova per
riprendere le forze. Tommaso rimase a Fossanova per qualche tempo e tra il 4 e
il 5 marzo, dopo essersi confessato da Reginaldo, ricevette l'eucaristia e
pronunciò, com'era consuetudine, la professione di fede eucaristica. Il giorno
successivo ricevette l'unzione dei malati, rispondendo alle preghiere del rito.
Morì di lì a tre giorni, mercoledì 7 marzo 1274, alle prime ore del mattino
dopo aver ricevuto l'Eucaristia. Le spoglie di Tommaso d'Aquino sono conservate
nella chiesa domenicana detta Les Jacobins a Tolosa. La reliquia della mano
destra, invece, si trova a Salerno, nella chiesa di San Domenico; il suo cranio
si trova invece nella concattedrale di Priverno, mentre la costola del cuore
nella Basilica concattedrale di Aquino. Il pensiero di Tommaso San
Tommaso d'Aquino, ritratto di Carlo Crivelli Per Tommaso l'anima è creata
"a immagine e somiglianza di Dio" (come dice la Genesi), unica,
immateriale (priva di volume, peso ed estensione), forma del corpo e non
localizzata in un punto particolare di esso, trascendente come Dio e come lui
in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo in cui sono il corpo e
gli altri enti. L'anima è tota in toto corpore, contenuta interamente in ogni
parte del corpo, e in questo senso legata ad esso indissolubilmente: si veda,
sul tema, la questione 76 della Prima Parte della Summa theologiae, questione
dedicata appunto al rapporto tra anima e corpo. Secondo Tommaso: «Ciò che
si accetta per fede sulla base della rivelazione divina non può essere
contrario alla conoscenza naturale... Dio non può indurre nell'uomo un'opinione
o una fede contro la conoscenza naturale... tutti gli argomenti contro la fede
non procedono rettamente dai primi principii per sé noti.» (Tommaso
d'Aquino, Summa contra Gentiles, I, 7.) Nella filosofia tomista Dio è descritto
con le seguenti proprietà:[senza fonte] massimo grado possibile di ogni
qualità (che è, è stata o possa essere fra gli enti), fra queste: sommo amore e
sommo bene immutabile, semplice e indivisibile: è da sempre e per sempre uguale
a sé stesso, a lui nulla manca e in lui nulla cambia. eterno: non nasce e non
muore, vive da sempre e per sempre infinito in atto (non infinito potenziale):
non ha limite-confine di tempo o di spazio onnisciente unico: nessuno, nemmeno
Dio può creare un altro Dio onnipotente: ma non può perpetrare il male e non
può creare un altro Dio per sé: non riceve la vita o altre proprietà da alcuno,
poteva esistere senza gli enti da lui creati, che perciò non nascono come parte
di lui e non sono Dio. trascendente: Dio non è un ente qualunque tra gli altri
enti, la differenza tra Dio e gli altri enti è una differenza quantitativa,
vale a dire stesse qualità ma in un minore grado di completezza e perfezione.
Gli enti creati, fra cui gli angeli e l'uomo, in infiniti gradi a lui
somigliano, sono come Dio, ma non sono Dio: non hanno una parte fisica
dell'essere per essenza, poiché l'essere è semplice, senza parti e
indivisibile. Questo essere (inteso da S.Tommaso come "Ipsum esse
subsistens") ha molte proprietà in comune con l'essere della filosofia
greca, così come lo definì Parmenide: uno e unico, semplice e indivisibile,
infinito ed eterno, onnisciente. La differenza sostanziale però consiste nel
fatto che crea gli enti, è più grande della somma di essi, e può esistere
senza. Anche nell'ultima forma del pensiero greco, quello di Plotino, troviamo
che l'emanazione dall'essere agli enti è un fatto eterno, ma anche necessario e
reversibile, non una libera scelta dell'assoluto, che avrebbe potuto non
manifestarsi. Il concetto di creazione ("produzione dal nulla") è
peraltro estraneo alla filosofia greca ed è proprio del pensiero
giudaico-cristiano. Se la trascendenza nega il panteismo, la personalità
di Dio nega a sua volta il deismo (che sarà proprio degli Illuministi):
trascendenza ed essere per sé non significano lontananza inarrivabile. Gli uomini
non nascono, ma hanno la possibilità di diventare parte integrante di Dio e,
già in questa esistenza terrena, di identificare la propria vita con la vita
del creatore. In modo identico, si può dire che l'essere per san Tommaso
non è solo l'essere comune o la piattaforma di tutto ciò che esiste, ma è
l’esse ut actus inteso come atto puro che perfeziona ogni altra perfezione
(essenza, sostanza, forma). Dio è atto puro, puro da ogni potenza, limite e
imperfezione. Quando l'essere è mischiato o ricevuto in una potenza, allora è
atto misto ed è ente finito. Tommaso fonda la sua concezione metafisica sul
concetto di Analogia, rielaborando in maniera molto originale il pensiero
aristotelico. Le cinque vie per dimostrare l'esistenza di Dio San Tommaso
distinse tre forme di conoscenza umana in relazione all'ente e al suo Creatore:
an sit ("se sia"), quomodo sit ("in che modo sia"), quid
sit ("che cosa sia"). La conoscenza umana di Dio è possibile soltanto
in merito alla Sua esistenza e ad un quomodo sit negativo, nel quale la mente
umana procede ad analizzare il creato sensibile, e, per analogia e differenza,
identifica tutte le qualità dell'ente che non possono essere proprie di Dio
Creatore, pur essendone l'opera. Tale percorso fu chiamato via negationis (o
anche ' via remotionis) ordinata al fine di descrivere il quomodo non
sit("in che modo non sia") di Dio. Esso è effetto della grazia divina
ed è possibile soltanto perché il Creatore decide liberamente di rivelarSi
all'uomo, conducendolo per mano da una serie di negazioni delle qualità
dell'ente colte con i cinque sensi fino a pervenire ad un'affermazione
intelligibile e positiva di Lui. L'autore delle Cinque Vie, infine,
escluse che la dimostrazione razionale dell'esistenza e unicità di Dio potesse
rivelare all'uomo anche la Sua vera essenza, quel qui sit che rimane un mistero
accessibile soltanto alla virtù ed è ritenuto un limite esterno per il dominio
possibile della ragione. La conoscenza teologica può essere soltanto indiretta,
relativa agli effetti della causa prima e del fine ultimo sulla Sua creazione. Molti
pensatori cristiani hanno elaborato diversi percorsi razionali per cercare di
dimostrare l'esistenza di Dio: mentre Anselmo d'Aosta, sulla scia neoplatonica
di Agostino d'Ippona procedeva sia a simultaneo, cioè dal concetto stesso di
Dio, da lui ritenuto id quo maius cogitari nequit (nel Proslogion, cap.2.3),
sia a posteriori (nel Monologion) per dimostrare l'esistenza di Dio, l'unico
modo per arrivarci, secondo Tommaso, consiste nel procedere a posteriori:
partendo cioè dagli effetti, dall'esperienza sensibile, che è la prima a cadere
sotto i nostri sensi, per dedurne razionalmente la sua Causa prima. Si tratta
di quella che chiama demonstratio quia, cioè, appunto dagli effetti, il cui
risultato è ammettere necessariamente che esista il punto d'arrivo della
dimostrazione, anche se non è pienamente intelligibile, come in questo caso, ed
in altri, il perché (demonstratio quid, es. i sillogismi: le premesse esprimono
proprietà che sono cause della conclusione: «Ogni uomo è mortale; ogni ateniese
è uomo; ogni ateniese è mortale": essere uomo e mortale è necessaria causa
della mortalità di ogni ateniese)» Sulla base di questo sfondo di
pensiero Tommaso espone le sue prove dell'esistenza di Dio, Tutte e cinque, con
alcune variazioni, seguono questa struttura. Constatazione di un fatto in rerum
natura, nell'esperienza sensibile ordinaria (movimento inteso come
trasformazione; causalità efficiente subordinata; inizio e fine dell'esistenza
degli esseri generabili e corruttibili, perciò materiali, contingenti nel suo
vocabolario, che quindi possono essere e non essere; gradualità degli esseri
nelle perfezioni trascendentali, come bontà, verità, nobiltà ed essere stesso;
finalità nei processi degli esseri non intelligenti); 2) analisi
metafisica di quel dato iniziale esperenziale alla luce del principio
metafisico di causalità, enunciato in varie formulazioni ("Tutto ciò che
si muove è mosso da un altro"; "È impossibile che una cosa sia causa
efficiente di sé stessa"; "Ora, è impossibile che tutte di tal natura
siano state sempre, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva";
"Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo
che si accostano di più o di meno a qualcosa di sommo o di assoluto";
"Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è
diretto da un essere conoscitivo e intelligente"); 3) impossibilità
di un regressus in infinitum inteso in senso metafisico, non quantitativo,
perché ciò renderebbe inintelligibile, inspiegabile pienamente il dato di fatto
di partenza esistente ("Ora, non si può in tal modo procedere
all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di
conseguenza nessun altro motore..."; "Ma procedere all'infinito nelle
cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non
avremmo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie..."; "Dunque
non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà ci sia
qualcosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della
sua necessità in un altro essere oppure no. D'altra parte [in questo genere di
esseri] non si può procedere all'infinito..."; questo passaggio manca, per
la sua evidenza agli occhi dell'Aquinate manca nella quarta via e nella quinta
via, si passa direttamente alla conclusione; 4) conclusione deduttiva
strettamente razionale (senza nessuna cogenza di fede) che identifica il
'conosciuto' sotto quel determinato aspetto con quello "che tutti chiamano
Dio", o espressioni simili ("Dunque è necessario arrivare ad un primo
motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio";
"Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano
Dio"; "Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia
di per sé necessario e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa
di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio"; "Ora ciò che è
massimo in un dato genere è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come
il fuoco, caldo al massimo, è causa di ogni calore, come dice lo stesso
Aristotele. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere,
della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio"; "Vi è
dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono
ordinate ad un fine: e quest'essere chiamiamo Dio". I cinque
percorsi indicati da San Tommaso sono: Ex motu et mutatione rerum (tutto ciò
che si muove esige un movente primo perché, come insegna Aristotele nella
Metafisica: "Non si può andare all'infinito nella ricerca di un primo
motore"); Ex ordine causarum efficientium (cioè "dalla causa
efficiente", intesa in senso subordinato, non in senso coordinato nel
tempo. Tommaso non è, per sola ragione, in grado di escludere la durata
indefinita nel tempo di un mondo creato da Dio, la cosiddetta creatio ab
aeterno: ogni essere finito, partecipato, dipende nell'essere da un altro detto
causa; necessità di una causa prima incausata); Ex rerum contingentia (cioè
"dalla contingenza". Nella terminologia di Tommaso la generabilità e
corruttibilità sono prese come segno evidente della possibilità di essere e non
essere legata alla materialità, sinonimo, nel suo vocabolario di
"contingenza", ben diverso dall'uso più comune, legato ad una terminologia
avicenniana, dove "contingente" è qualsiasi realtà che non sia Dio.
Tommaso, in questa argomentazione della Summa Theologiae distingue attentamente
il necessario dipendente da altro (anima umana e angeli) e necessario assoluto
(Dio). L'esistenza di esseri generabili e corruttibili è in sé insufficiente
metafisicamente, rimanda ad esseri necessari, dapprima dipendenti da altro,
quindi ad un essere assolutamente necessario); Ex variis gradibus perfectionis
(le cose hanno diversi gradi di perfezioni, intese in senso trascendentale,
come verità, bontà, nobiltà ed essere, sebbene sia usato un 'banale' esempio
fisico legato al fuoco e al calore; ma solo un grado massimo di perfezione
rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi); Ex rerum gubernatione
(cioè "dal governo delle cose": le azioni di realtà non intelligenti
nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non essendo in loro
quest'intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le ordina così).
Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato della ragion pratica,
ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile da un punto di vista
teoretico-speculativo: nella Dialettica trascendentale della Critica della
ragion pura, Kant ha contestato tali dimostrazioni, pur non prendendo in realtà
in considerazione direttamente le cinque "vie" di San Tommaso, ma le
prove dell'esistenza di Dio nella filosofia leibniziano-wollfiana. La critica
kantiana si rivolge infatti alla: 1) prova ontologica; 2) prova cosmologica e
3) prova fisico-teologica. Se per quanto riguarda almeno nelle conclusioni sia
S.Tommaso, sia Kant sono concordi nel rifiutare la prova ontologica, per quanto
riguarda la prova cosmologica e quella fisico- teologica, Kant critica queste
due prove (a cui si possono ridurre le cinque "vie tomistiche), in quanto
sarebbero legate ad un'estensione indebita dell'uso della ragione (nel suo uso
teoretico-speculativo), i cui concetti razionali, cioè le idee, sono vuote.
Solo l'intuizione empirica infatti potrebbe ovviare a ciò: per questo motivo
l'idea di Dio è assolutamente non verificabile tramite la ragione, superando i
limiti dell'esperienza possibile. Processo conoscitivo. Tommaso, affermava
che la conoscenza dell'essere umano, in quanto dotato di un corpo creato da
Dio, muove sempre dall'universo immanente, sensibile e corporeo nella direzione
dell'universo trascendente, intellegibile (invisibile) e incorporeo. In tale
aspetto, si differenziò da sant'Agostino, che pensava che questa avvenisse
tramite l'illuminazione divina.[senza fonte] Agostino sostenne che la
sorgente del sapere e dell'essere è la stessa, Dio Creatore dell'universo, e
che quindi i due piani dell'essere e del sapere non possono cadere in
contraddizione l'uno con l'altro. Senza negare Agostino[senza fonte], San
Tommaso aggiunse che il corpo umano deve poter essere capace di conoscere il
creato mediante la sua mente e i suoi sensi, poiché l'uomo non soltanto è una
creatura di Dio, ma più di ogni altro vivente è l'unico creato a immagine e
somiglianza della mente e del Suo corpo umano-divino di Dio Padre e di Gesù,
Suo Figlio. Tommaso aggiunse che i due piani dell'essere e del sapere sono tra
loro comunicanti: infatti, le Cinque Vie dimostrarono che dall'essere della
natura corporea è possibile giungere a conoscere e dimostrare la possibilità,
la realtà e la necessità dell'esistenza e dell'unicità di Dio. Prima
ancora di questo, mediante ogni conoscenza (anche scientifica[senza fonte]) del
creato, Tommaso riuscì a raggiungere il dono e il raro privilegio della visione
del Corpo del Cristo risorto e del dialogo personale con Lui, il giorno della
ricorrenza di San Nicola, poco tempo prima di completare la Summa theologica e
di morire. Ciò non significa che Tommaso disconoscesse il pensiero di
sant'Agostino, che è invece citato a più riprese nella Summa Theologica', e che
fu dichiarato Dottore della Chiesa nel 1298, dopo la morte dell'Aquinate.
La conoscenza degli universali però appartiene solo alle intelligenze
angeliche; noi, invece, conosciamo gli universali post-rem, ossia li ricaviamo
dalla realtà sensibile. Soltanto Dio conosce ante rem. La conoscenza è,
quindi, un processo di adeguamento dell'anima o dell'intelletto e della cosa,
secondo una formula che dà ragione del sofisticato aristotelismo di Tommaso. Veritas:
Adaequatio intellectus ad rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio
intellectus et rei.» «Verità: Adeguamento dell'intelletto alla cosa.
Adeguamento della cosa all'intelletto. Adeguamento dell'intelletto e della
cosa.» (Tommaso d'Aquino) La creazione secondo Tommaso Tommaso spiega che
l'uomo può stabilire a partire dalla ragione il rapporto creaturale di
dipendenza dell'universo da Dio ovvero la creatio ex nihilo intesa come totale
dipendenza dell'essere creato, anche quello sostanziale, dall'Essere divino[26].
Ciò che la sola ragione non può stabilire è se il mondo è eterno o se è stato
creato nel tempo ovvero se ha un cominciamento. La verità della seconda
alternativa (la creazione con un inizio temporale) può essere conosciuta,
secondo Tommaso, solamente per fede a partire dalla rivelazione divina. Dio,
creando l'uomo, fornisce l'esistenza all'uomo secondo una dinamica simile a
quella di atto e potenza, e lo rende quindi ente reale, fornito di esistenza
(che è propriamente definita da Tommaso actus essendi oltre che di essenza.
Soltanto in Dio, atto puro, essenza ed esistenza coincidono. Il rapporto tra
Dio (necessario) e la creatura (contingente) è analogico in un solo senso: le
creature sono simili a Dio. Il rapporto è di somiglianza non univoca né equivoca.
Secondo Tommaso tutti gli enti sono buoni, poiché somigliano a Dio:
"bonum" è uno dei tre trascendenti (o trascendentali), ovvero di
caratteri applicabili a ogni ente e perciò trascendenti le categorie di
Aristotele. Gli altri due sono "unum" e "verum".
Nelle opere di Tommaso l'universo (o cosmo) ha una struttura rigorosamente
gerarchica[senza fonte]: posto al vertice da Dio che viene posto come al di là
della fisicità, governa da solo il mondo al di sopra di tutte le cose e gli
enti; al di sotto di Dio troviamo gli angeli (forme pure e immateriali), ai
quali Tommaso attribuisce la definizione di intelligenze motrici dei cieli
anch'esse ordinate gerarchicamente tra di loro; poi un gradino più in basso
troviamo l'uomo, posto al confine tra il mondo delle sostanze spirituali e il
regno della corporeità, in ogni uomo infatti si ha l'unione del corpo (elemento
materiale) con l'anima intellettiva (ovvero la forma, che secondo Tommaso
costituisce l'ultimo grado delle intelligenze angeliche): l'uomo è l'unico ente
che fa parte sia del mondo fisico, sia del mondo spirituale. Tommaso crede che
la conoscenza umana cominci con i sensi: l'uomo, non avendo il grado di
intelligenza degli angeli, non è in grado di apprendere direttamente gli
intelligibili, ma può apprendere solamente attribuendo alle cose una forma e
quindi solamente grazie all'esperienza sensibile. Un'altra facoltà
necessaria che caratterizza l'uomo è la sua tendenza a realizzare pienamente la
propria natura ovvero compiere ciò per cui è stato creato[senza fonte]. Ciascun
uomo infatti corrisponde all'idea divina su cui è modellato, di cui l'uomo è
consapevole e razionale, conscio delle proprie finalità, alle quali si dirige
volontariamente avvalendosi dell'uso dell'intelletto: l'uomo prende le proprie decisioni
sulla base di un ragionamento pratico, attraverso il quale tra due beni sceglie
sempre quello più consono al raggiungimento del suo fine. Nel fare ciò segue la
Legge naturale, che è scritta nel cuore dell'uomo. La legge naturale, che è un
riflesso della Legge eterna, deve essere il fondamento della Legge positiva,
cioè l'insieme delle norme che gli uomini stabiliscono storicamente in un dato
tempo ed in un dato luogo. Al di sotto dell'uomo troviamo le piante e le
varie molteplicità degli elementi. Concezione della donna Sacra
conversazione di Monticelli (Ghirlandaio, XV secolo) Tommaso riprende e cita,
nella prima parte della Summa theologiae, alle questioni 92 e 99,
l'affermazione di Aristotele (De generatione et corruptione 2,3) per cui la
donna sarebbe un uomo mancato (mas occasionatus). L'aquinate afferma che
"rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e
manchevole" (I, 92, 1). «Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme
del maschio tende a produrre un essere perfetto simile a sé, di sesso maschile,
e il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù
attiva, o da un'indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata
dal di fuori, per esempio dai venti australi, che sono umidi, come dice il
filosofo.» Ma aggiunge: «Rispetto invece alla natura nella sua
universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in
ordine alla generazione. Ora, l'ordinamento della natura nella sua universalità
dipende da Dio, il quale è l'autore universale della natura. Quindi, nel creare
la natura, egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina 2. Ci sono
due specie di sudditanza. La prima, servile, è quella per cui chi è a capo si
serve dei sottoposti per il proprio interesse: e tale dipendenza sopravvenne
dopo il peccato. Ma vi è una seconda sudditanza, economica o politica, in forza
della quale chi è a capo si serve dei sottoposti per il loro interesse e per il
loro bene. E tale sudditanza ci sarebbe stata anche prima del peccato, poiché
senza il governo dei più saggi sarebbe mancato il bene dell'ordine nella
società umana. E in questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta
all'uomo: poiché l'uomo ha per natura un più vigoroso discernimento
razionale.» (Somma teologica, I, 92, 1, ad 1) «la diversità dei sessi
rientra nella perfezione della natura umana» (Somma teologica, I, 99, 2,
ad 1.) Importanza ed eredità Magnifying glass icon mgx2.svgTomismo.
Tommaso disputa con Averroè Trionfo di san Tommaso, di Lippo Memmi
Trionfo di san Tommaso, di Benozzo Gozzoli San Tommaso fu uno dei pensatori più
eminenti della filosofia Scolastica, che verso la metà del XIII secolo aveva
raggiunto il suo apice. Egli indirizzò diversi aspetti della filosofia del
tempo: la questione del rapporto tra fede e ragione, le tesi sull'anima (in
contrapposizione ad Averroè), le questioni sull'autorità della religione e
della teologia, che subordina ogni campo della conoscenza. Tali punti
fermi del suo pensiero furono difesi da diversi suoi seguaci successivi, tra i
quali Reginaldo da Piperno, Tolomeo da Lucca, Giovanni di Napoli, il domenicano
francese Giovanni Capreolus e Antonino di Firenze. Infine però, con la lenta
dissoluzione della Scolastica, si ebbe parallelamente anche la dissoluzione del
Tomismo, col conseguente prevalere di un indirizzo di pensiero nominalista nel
successivo sviluppo della filosofia, e una progressiva sfiducia nelle
possibilità metafisiche della ragione, che indurrà Lutero a giudicare
quest'ultima «cieca, sorda, stolta, empia e sacrilega».[30] Oggigiorno il
pensiero di Tommaso d'Aquino trova ampio consenso anche in ambienti non
cattolici (studiosi protestanti statunitensi, ad esempio) e perfino non
cristiani, grazie al suo metodo di lavoro, fortemente razionale e aperto a fonti
e contributi di ogni genere: la sua indagine intellettuale procede dalla Bibbia
agli autori pagani, dagli ebrei ai musulmani, senza alcun pregiudizio, ma
tenendo sempre il suo centro nella Rivelazione cristiana, alla quale ogni
cultura, dottrina o autore antico faceva capo.[senza fonte] Il suo operato
culmina nella Summa Theologiae (cioè "Il complesso di teologia"), in
cui tratta in maniera sistematica il rapporto fede-ragione e altre grandi
questioni teologiche. Agostino vedeva il rapporto fede-ragione come un
circolo ermeneutico (dal greco ermeneuo, cioè "interpreto") in cui
credo ut intelligam et intelligo ut credam (ossia "credo per comprendere e
comprendo per credere"). Tommaso porta la fede su un piano superiore alla
ragione, affermando che dove la ragione e la filosofia non possono proseguire
inizia il campo della fede e il lavoro della teologia.[senza fonte] Dunque,
fede e ragione sono certamente in circolo ermeneutico e crescono insieme sia in
filosofia che in teologia. Mentre però la filosofia parte da dati
dell'esperienza sensibile o razionale, la teologia inizia il circolo con i dati
della fede, su cui ragiona per credere con maggiore consapevolezza ai misteri
rivelati. La ragione, ammettendo di non poterli dimostrare, riconosce che essi,
pur essendo al di sopra di sé, non sono mai assurdi o contro la ragione stessa:
fede e ragione, sono entrambe dono di Dio e non possono contraddirsi. Questa
posizione esalta ovviamente la ricerca umana: ogni verità che io posso scoprire
non minaccerà mai la Rivelazione anzi, rafforzerà la mia conoscenza complessiva
dell'opera di Dio e della Parola di Cristo. Si vede qui un esempio tipico della
fiducia che nel Medioevo si riponeva nella ragione umana. Nel XIV secolo queste
certezze andranno in crisi, coinvolgendo l'intero impianto culturale del
periodo precedente. La teologia, in ambito puramente speculativo,
rispetto alla tradizione classica, era considerata una forma inferiore di
sapere, poiché usava in prestito gli strumenti della filosofia, ma Tommaso fa
notare, citando Aristotele, che anche la filosofia non può dimostrare tutto,
perché sarebbe un processo all'infinito. Egli distingue due tipi di scienze:
quelle che esaminano i propri principi e quelle che ricevono i principi da
altre scienze. L'ideale, per uno spirito concreto come Tommaso, sarebbe
superare la fede e raggiungere la conoscenza ma, sui misteri fondamentali della
Rivelazione, questo non è possibile nella vita terrena del corpo. Avverrà nella
vita eterna dello spirito. La filosofia è dunque ancilla theologiae e
regina scientiarum, prima fra i saperi delle scienze. Il primato del sapere
teologico non è nel metodo, ma nei contenuti divini che affronta, per i quali è
sacrificabile anche la necessità filosofica. Il punto di discrimine fra
filosofia e teologia è la dimostrazione dell'esistenza di Dio; dei due misteri
fondamentali della Fede (Trinitario e Cristologico), la ragione può dimostrare
solamente il primo, l'esistenza di Dio, mentre non può dimostrare che questo
Dio è necessariamente Trinitario. Ciò non è un paradosso razionale, perché da
una premessa falsa non possono che derivare nel sillogismo conseguenze false, è
più semplicemente qualcosa che la ragione non può spiegare: un Dio Uno e Trino.
Il maggior servizio che la ragione può fare alla fede è che non è possibile
nemmeno dimostrare il contrario, che Dio non è Trinitario, che la negazione non
dimostrabile della Trinità a sua volta porta conseguenze paradossali e
contraddittorie, laddove invece la Sua affermazione per fede è feconda di verità
e conseguenze non contraddittorie. La ragione non può entrare nella parte
storica dei misteri religiosi, può mostrare solo prove storiche che tal
"profeta" è esistito, ma non che era Dio, e il senso della Sua
missione, che è appunto un dato, un fatto a cui si può credere o meno. Il
primato della teologia verrà fortemente discusso nei secoli successivi, ma sarà
anche lo studio praticato da tutti i filosofi cristiani nel Medioevo e oltre,
tant'è che Pascal fece la sua famosa "scommessa" ancora nel XVII secolo.
La teologia era questione sentita dal popolo nelle sacre rappresentazioni, era
il mondo dei medioevali e degli zelanti studenti che attraversavano a piedi le
paludi di Francia per ascoltare le lectiones dell'Aquinate nella prestigiosa
Università della Sorbonne di Parigi, incontrandosi da tutta Europa . Gli
storici della filosofia richiamano l'attenzione anche sulla prevalenza
dell'intelletto rispetto ad una prevalenza della volontà nella vita
intellettuale/spirituale dell'uomo. La prima è seguita da San Tommaso e dalla
sua scuola, mentre l'altra è propria di San Bonaventura e della scuola
francescana. Per Tommaso il fine supremo è "vedere Dio", mentre per
Bonaventura fine ultimo dell'uomo è "amare Dio". Quindi per Tommaso
la categoria più alta è "il vero", mentre per Bonaventura è "il
bene". Per ambedue però, "il vero" è anche "il bene",
e "il bene" è anche "il vero". Il pensiero di Tommaso
ebbe influenza anche su autori non cristiani, a cominciare dal famoso pensatore
ebreo Hillel da Verona. A partire dal secondo Novecento poi il suo
pensiero viene ripreso nel dibattito etico da autori cattolici e non, quali
Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, Alasdair MacIntyre, Philippa Ruth Foot e
Jacques Maritain. Culto Fu canonizzato nel 1323 da papa Giovanni XXII. La
sua memoria viene celebrata dalla Chiesa cattolica il 28 gennaio; la stessa,
nella Forma straordinaria, lo ricorda il 7 marzo. La Chiesa luterana lo ricorda
l'8 marzo. San Tommaso d'Aquino è patrono dei teologi, degli accademici,
dei librai e degli studenti. È patrono della città e della diocesi privernate e
della Città e della diocesi aquinate. L'11 aprile 1567 papa Pio V lo
dichiarò dottore della Chiesa con la bolla Mirabilis Deus. Il 29 giugno
1923, nel VI centenario della canonizzazione, papa Pio XI gli dedicò
l'enciclica Studiorum Ducem. L'enciclica Aeterni Patris di papa Leone
XIII ricorda san Tommaso come il più illustre esponente della Scolastica. Gli
statuti dei Benedettini, degli Carmelitani, degli Agostiniani, della Compagnia
di Gesù dispongono l'obbligatorietà dello studio e della messa in pratica delle
dottrine di Tommaso, del quale l'enciclica afferma: «Per la verità, sopra
tutti i Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il
quale, come avverte il cardinale Gaetano, “perché tenne in somma venerazione
gli antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo,
l’intelligenza di tutti” . Le loro dottrine, come membra dello stesso corpo
sparse qua e là, raccolse Tommaso e ne compose un tutto; le dispose con ordine
meraviglioso, e le accrebbe con grandi aggiunte, così da meritare di essere
stimato singolare presidio ed onore della Chiesa Cattolica. Clemente VI, Nicolò
V, Benedetto XIII ed altri attestano che tutta la Chiesa viene illustrata dalle
sue meravigliose dottrine; San Pio V poi confessa che mercé la stessa dottrina
le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia, e che tutto il mondo si
salva ogni giorno per merito suo dalla peste degli errori. Altri, con Clemente
XII, affermano che dagli scritti di lui sono pervenuti a tutta la Chiesa
copiosissimi beni, e che a lui è dovuto quello stesso onore che si rende ai
sommi Dottori della Chiesa Gregorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo. Altri,
infine, non dubitarono di proporlo alle Accademie e ai grandi Licei quale
esempio e maestro da seguire a piè sicuro. A conferma di questo Ci sembrano
degnissime di essere ricordate le seguenti parole del Beato Urbano V
all’Accademia di Tolosa: “Vogliamo, e in forza delle presenti vi imponiamo, che
seguiate la dottrina del Beato Tommaso come veridica e cattolica, e che vi
studiate con tutte le forze di ampliarla” . Successivamente innocenzo XII,
nella Università di Lovanio, e Benedetto XIV , nel Collegio Dionisiano presso
Granata, rinnovarono l’esempio di Urbano.» (Enciclica Aeterni Patris[31])
Opere di San Tommaso Sintesi teologiche Scriptum super libros Sententiarum
Summa contra Gentiles Summa Theologiae Questioni disputate Quaestiones
disputatae de Veritate Quaestiones disputatae De potentia Quaestio disputata De
anima Quaestio disputata De spiritualibus creaturis Quaestiones disputatae De
malo Quaestiones disputatae De uirtutibus Quaestio disputata De unione uerbi
incarnati Quaestiones de Quodlibet I-XII Commenti biblici Expositio super
Isaiam ad litteram Super Ieremiam et Threnos Principium “Rigans montes de
superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei” Expositio super Iob ad litteram
Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea) Lectura super Mattheum Lectura
super Ioannem Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli Postilla
super Psalmos Commenti ad Aristotele Sententia Libri De anima Sententia
Libri De sensu et sensato Sententia super Physicam Sententia super Meteora
Expositio Libri Peryermenias Expositio Libri Posteriorum Sententia Libri Ethicorum
Tabula Libri Ethicorum Sententia Libri Politicorum Sententia super Metaphysicam
Sententia super Librum De caelo et mundo Sententia super Libros De generatione
et corruptione Super libros de generatione et corruptione Altri commenti
Super Boetium De Trinitate Expositio Libri Boetii De ebdomadibus Super Librum
Dionysii De divinis nomibus Super Librum De Causis Scritti polemici
Contra impugnantes Dei cultum et religionem De perfectione spiritualis vitae
Contra doctrinam retrahentium a religione De unitate intellectus contra
Avveroistas De aeternitate mundi Trattati De ente et essentia De
principiis naturae Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae ad
fratrem Raynaldum De regno ad regem Cypri De substantiis separatis
Lettere e pareri De emptione et venditione ad tempus Contra errores Graecorum
De rationibus fidei ad Cantorem Antiochenum Expositio super primam et secundam
Decretalem ad Archidiaconum Tudertinum De articulis fidei et ecclesiae
sacramentis ad archiepiscopum Panormitanum Responsio ad magistrum Ioannem de
Vercellis de 108 articulis De forma absolutionis De secreto Liber De sortibus
ad dominum Iacobum de Tonengo Responsiones ad lectorem Venetum de 30 et 36
articulis Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 43 articulis Responsio
ad lectorem Bisuntinum de 6 articulis Epistola ad ducissam Brabantiae De
mixtione elementorum ad magistrum Philippum de Castro Caeli De motu cordis ad
magistrum Philippum de Castro Caeli De operationibus occultis naturae ad
quendam militem ultramontanum De iudiciis astrorum Epistola ad Bernardum
abbatem casinensem Opere liturgiche, prediche, preghiere Officium de
festo Corporis Christi ad mandatum Urbani Papae Inno Adoro te devote
Collationes in decem precepta Collationes in orationem dominicam in Symbolum
Apostolorum in salutationem angelicam. Traduzioni italiane Lo specchio
dell'anima, La sentenza di Tommaso d'Aquino sul "De anima" di
Aristotele, Traduzione e testo latino a fronte, Ed. San Paolo, Milano 2012. (È
tradotto anche il testo dell'Aristotele latino). Catena aurea, Glossa continua
super Evangelia vol. 1, Matteo, Bologna, Matteo, Bologna, Marco, Bologna 2007
Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii
De Ebdomadibus, Bologna, Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum
Dionysii de Divinis Nominibus vol. 1, Bologna 2004 vol. 2, (comprende anche De
ente et essentia), Bologna, 2004 Commento al Corpus Paulinum, Expositio et
lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. 1, Romani, Bologna 2004 vol. 2, 1 Corinzi,
Bologna 2004 vol. 3, 2 Corinzi, Galati, Bologna, 2004 vol. 4, Efesini,
Filippesi, Colossesi, Bologna, 2004 vol. 5, Tessalonicesi, Timoteo, Tito,
Filemone, Bologna, Ebrei, Bologna, Commento al Libro di Giobbe, Bologna, 1995
Commento all'Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum, in 2
volumi, Bologna, 1998 Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super
Physicorum vol. 1, Bologna, 2004 vol. 2, Bologna, 2004 vol. 3, Bologna, 2005
Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. 1,
Bologna, Bologna, 2005 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Politica di
Aristotele, Sententia Libri Politicorum, Bologna, Commento alle Sentenze di
Pietro Lombardo, Scriptum super Libros Sententiarum in 10 volumi, Bologna, Ed.
ESD, 2002 Compendio di teologia, Compendium theologiae, Bologna, I Sermoni e le
due Lezioni inaugurali, Bologna, 2003 La conoscenza sensibile, Commenti ai
libri di Aristotele: Il senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza,
Bologna, La perfezione cristiana nella vita consacrata, Bologna, 1995 De
venerabili sacramentu altaris, Bologna, 1996 La Somma contro i Gentili, Summa
contra Gentiles vol. 1, (traduzione Tito Centi), Bologna (traduzione Tito
Centi), Bologna, 2001 vol. 3, (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 La Somma
Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi La Somma Teologica, Summa Theologiae,
in 6 volumi, Bologna, Ed. ESD Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae
vol. 1, La Verità, Bologna, 1992 vol. 2, La Verità, Bologna, 1992 vol. 3, La
Verità, Bologna, 1993 vol. 4, L'anima umana, Bologna, 2001 vol. 5, Le virtù,
Bologna, 2002 vol. 6, Il male, Bologna, Il male, Bologna, La potenza divina, Bologna, La potenza divina,
Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna,
Logica dell'enunciazione, Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias,
Expositio Libri Peryermenias, Bologna, Opuscoli politici: Il governo dei
principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella compravendita,
Bologna, Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro, Ave Maria, Dieci
Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini, Le preghiere di
san Tommaso, Lettera a uno studente, Bologna, Pagine di Filosofia: I principi
della natura, De principiis naturae ad fratrem Silvestrum, sola trad. it., e
antologia ragionata e commentata di altri brani filosofici di antropologia,
gnoseologia, teologia naturale, etica, politica e pedagogia. Inni eucaristici A
Tommaso d'Aquino sono classicamente attribuiti gli inni eucaristici per la
solennità del Corpus Domini, usati per secoli in occasione dell'adorazione
eucaristica. Gli inni sono stati confermati nella liturgia solenne dal Concilio
Vaticano II: Adoro te devote Pange lingua, che contiene al termine il
Tantum ergo sacramentum Sacris sollemniis Verbum supernum prodiens Note Napoli A.N. Rossi, Delle dissertazioni di
Alessio Niccolo Rossi intorno ad alcune materie alla citta di Napoli appartenenti,
Pasquale Cayro, Storia sacra e profana d'Aquino e sua diocesi del signor D. Pasquale
Cayro, patrizio anagnino, Vincenzo Orsino, 1808,348. Ferante della Marra, Discorsi delle famiglie
estinte, forastiere o non comprese ne' seggi di Napoli imparentate colla casa
della Marra. Composti dal signor Ferrante della Marra duca della Guardia, dati
in luce da Camillo Tutini, Ottavio Beltrano, Jean-Pierre Torrell, O. P., Amico
della verità: vita e opere di Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Fino
a pochi anni fa gli storici avevano dei dubbi sulla veridicità del soggiorno di
Tommaso a Parigi nel periodo immediatamente successivo a quello in cui la sua
famiglia lo restituì all'Ordine. Dallo studio delle fonti, Walz-Novarina concludono
che il viaggio di Tommaso in compagnia di Giovanni Teutonico «... senza essere
certo, può considerarsi probabile... », ma erano più riservati circa la
questione degli studi a Parigi. Grandi eruditi come Denifle e De Groot si
associano a questa opinione, ma altri come Mandonnet, Chenu e Glorieux,
osservano che il viaggio a Parigi non avrebbe avuto alcun senso se Tommaso non
avesse dovuto svolgervi i suoi studi, questo perché lo studium generale di
Colonia non era funzionante prima del 1248, data della sua apertura dovuta a
fra Alberto al momento del suo ritorno in questa città. Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso
d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Marcello
Zanatta, traduzione di Marcello Zanatta, vol. 1, 8. ed, Milano, Rizzoli, Astrid
Filangieri, La vita e le Opere di San Tommaso d'Aquino. Storia dell'Ordine
Domenicano a Firenze, su fiorentininelmondo.La cella di San Tommaso a San
Domenico Maggiore (Napoli). G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della
gioventù utile ad ogni grado di persone, Torino, Libreria Salesiana Editore, con
l'approvazione del card. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino Filmato audio Luca Bianchi, Onorato Grassi e
Costantino Esposito, Tommaso e la sua eredità - il pensiero che nasce
dall'esperienza, Centro Culturale di Milano,
«Non è vero che alcuni traduttori
lavorassero al suo servizio, come Guglielmo di Moerbeke». (v. 1h 14'). Premio letterario internazionale San Tommaso
d’Aquino, sabato 4 a Mercato San Severino., su gazzettadisalerno, Mercato San
Severino (SA), Convento di San Domenico a Salerno, oggi caserma, su salernodavedere.
Sandra Isetta, Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri, in
L'Osservatore Romano. Jean-Pierre Torrell, Amico della verità,392 Quaestio 76 della Parte I della Summa
Theologiae di San Tommaso d'Aquino. A cura di Marcello Landi Massimo
Adinolfi, Francesco Paolo Adorno, Francesco Berto, Massimo Cacciari, Piero
Coda, Carmela Covino, Adriano Fabris, Franco Ferrari, Ernesto Forcellino, Carlo
Sini, Luigi Vero Tarca, Vincenzo Vitiello, La conoscenza di Dio tra remotio e
revelatio nella "Summa theologiae" di San Tommaso D'Aquino, in Il
Pensiero. Rivista di filosifia, XLVI, Inschibboleth Edizioni, S. Th. I, q.2, a.2, c. e luoghi paralleli nei
commenti aristotelici Cf. Summa
Theologiae, Iª q. 2 a. 3 Cf. Summa
Theologiae, pars I, quaestio 2 articolo 3.
Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Leo Elders, The
Philosophical Theology of St. Thomas Aquinas, E.J. Brill, When St. Thomas
Aquinas had a foretaste of heaven on St. Nicholas’ feast day, su
lifesitenews.com, Cf. Quaestio disputata de anima, a. 3 ad 1; Summa Theologiae,
Iª q. 16 aa. 1-2. Sofia Vanni Rovighi,
Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Summa contra gentiles, libro II, 31-37 e Summa
theologiae, pars I quaestio 46 La Somma
Teologica. Sola trad. italiana: Volume 1 - Prima Parte, Edizioni Studio Domenicano,
«Né prima né dopo, si è pensato con tanta precisione, con tanta intima
sicurezza logica, quanto nell'epoca dell'alta Scolastica. L'essenziale è che
allora il puro pensiero si svolgeva con matematica sicurezza di idea in idea,
di giudizio in giudizio, di conclusione in conclusione» (Rudolf Steiner, La
filosofia di Tommaso d'Aquino, II, Opera Omnia, 74). Steiner aggiungeva che «il
nominalismo è il padre di tutto lo scetticismo moderno» (conferenza del marzo
1908, cit. in Posizione dell'antroposofia nei confronti della filosofia, O.O.,
108). Martin Lutero, Servo arbitrio, WA
51, 126. Encilica Aeterni Patris, su
vatican.va. (o la traduzione similare qui riportata. Heinrich Fries, Georg Kretschmar (a cura di),
I classici della teologia, Jaca Book, 2005,978-88-16-30402-4. Annotazioni Nella Sala del Tesoro di San Domenico
Maggiore è conservato un arazzo raffigurante il Carro del Sole, parte delle
Storie ed alle Virtù di san Tommaso d’Aquino, donato ai domenicani da Vincenza
Maria d’Aquino Pico Bibliografia Tommaso d'Aquino, Super libros de generatione
et corruptione, Jacques Myt, Jacques Giunta. Thomas Aquinas; Richard J. Regan,
Compendium of theology Oxford University Press. Aimé Forest, Saint Thomas d'Aquin,Mellottée,
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Patris" , Ares, Milano, Maria Cristina Bartolomei, Tomismo e Principio di
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in formato epub, su ledizioni. Traduzione parziale della Lettera alla Duchessa
di Brabante, sui rapporti con gli Ebrei (PDF), su digilander.libero. Diego
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catechismo di san Tommaso d'Aquino, su lettereadioealluomo.com (archiviato il
17 aprile 2015). (summa di 5 opere, con l'imprimatur di Mons. Giovanni
Canestri)The Catechetical Instructions of Saint Thomas Aquinas (PDF), su
documentacatholicaomnia.eu. URL consultato il 18 novembre 2018 (archiviato il
18 novembre 2018). Summa Theologiae Testo integrale della Somma Teologica. La
Somma Teologica (ZIP), su digilander.libero.La Summa theologiae di Tommaso, su
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Philosophy. (PT) Instituto Teológico São Tomás de Aquino - Brasile, su
ittanoticias.arautos.org. URL consultato il 22 marzo 2011 (archiviato dall'url
originale il 20 marzo 2011). Presentazione globale del pensiero filosofico di
Tommaso, su mondodomani.org. Scheda su san Tommaso a cura di Marcello Landi, su
lgxserver.uniba (archiviato dall'url originale il 25 novembre 2005). Le cinque
vie di Tommaso, su ariannascuola.eu. V · D · M Padri e dottori della Chiesa
cattolica V · D · M Famiglia domenicana. ·Biografie Portale Biografie
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Portale Medioevo Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani
del XIII secoloNati nel 1225Morti nel 1274Morti il 7 marzoNati a
RoccaseccaTommaso d'AquinoAccademici italianiProfessori dell'Università di
ParigiDottori della Chiesa cattolicaFilosofi cattoliciFilosofi della
politicaDomenicani italianiScolasticiSanti italiani del XIII secoloSanti
canonizzati da Giovanni XXIISanti domenicaniSanti per nomePersonaggi citati
nella Divina Commedia (Paradiso)Studenti dell'Università degli Studi di Napoli
Federico IIScrittori medievali in lingua latinaTomismoSanti incorrotti[altre] “Perhaps the Italian most studied at
Oxford!”Grice. Aquino and intentionalityClarkArmini -- aquinokeyword: “medieval pragmatics”! -- thomism, the theology
and philosophy of Thomas Aquinas. The term is applied broadly to various
thinkers from different periods who were heavily influenced by Aquinas’s
thought in their own philosophizing and theologizing. Here three different eras
and three different groups of thinkers will be distinguished: those who
supported Aquinas’s thought in the fifty years or so following his death in
1274; certain highly skilled interpreters and commentators who flourished
during the period of “Second Thomism” sixteenthseventeenth centuries; and
various late nineteenth- and twentieth-century thinkers who have been deeply
influenced in their own work by Aquinas. Thirteenth- and fourteenth-century
Thomism. Although Aquinas’s genius was recognized by many during his own
lifetime, a number of his views were immediately contested by other Scholastic
thinkers. Controversies ranged, e.g., over his defense of only one substantial
form in human beings; his claim that prime matter is purely potential and
cannot, therefore, be kept in existence without some substantial form, even by
divine power; his emphasis on the role of the human intellect in the act of
choice; his espousal of a real distinction betweeen the soul and its powers;
and his defense of some kind of objective or “real” rather than a merely
mind-dependent composition of essence and act of existing esse in creatures.
Some of Aquinas’s positions were included directly or indirectly in the 219
propositions condemned by Bishop Stephen Tempier of Paris in 1277, and his
defense of one single substantial form in man was condemned by Archbishop
Robert Kilwardby at Oxford in 1277, with renewed prohibitions by his successor
as archbishop of Canterbury, John Peckham, in 1284 and 1286. Only after
Aquinas’s canonization in 1323 were the Paris prohibitions revoked insofar as
they touched on his teaching in 1325. Even within his own Dominican order,
disagreement about some of his views developed within the first decades after
his death, notwithstanding the order’s highly sympathetic espousal of his
cause. Early English Dominican defenders of his general views included William
Hothum d.1298, Richard Knapwell d.c.1288, Robert Orford b. after 1250, fl.129095,
Thomas Sutton d. c. and William Macclesfield, Dominican Thomists included
Bernard of Trilia d.1292, Giles of Lessines in present-day Belgium d.c.1304?,
John Quidort of Paris d. 1306, Bernard of Auvergne d. after 1307, Hervé Nédélec
d.1323, Armand of Bellevue fl. 131634, and William Peter Godin d.1336. The
secular master at Paris, Peter of Auvergne d. 1304, while remaining very
independent in his own views, knew Aquinas’s thought well and completed some of
his commentaries on Aristotle. Sixteenth- and seventeenth-century Thomism.
Sometimes known as the period of Second Thomism, this revival gained impetus
from the early fifteenth-century writer John Capreolus 13801444 in his Defenses
of Thomas’s Theology Defensiones theologiae Divi Thomae, a commentary on the
Sentences. A number of fifteenth-century Dominican and secular teachers in G.
universities also contributed: Kaspar Grunwald Freiburg; Cornelius Sneek and
John Stoppe in Rostock; Leonard of Brixental Vienna; Gerard of Heerenberg,
Lambert of Heerenberg, and John Versor all at Cologne; Gerhard of Elten; and in
Belgium Denis the Carthusian. Outstanding among various sixteenth-century
commentators on Thomas were Tommaso de Vio Cardinal Cajetan, Francis Sylvester
of Ferrara, Francisco de Vitoria Salamanca, and Francisco’s disciples Domingo
de Soto and Melchior Cano. Most important among early seventeenth-century
Thomists was John of St. Thomas, who lectured at Piacenza, Madrid, and Alcalá,
and is best known for his Cursus philosophicus and his Cursus theologicus.
Theravada Buddhism Thomism 916 916 The
nineteenth- and twentieth-century revival. By the early to mid-nineteenth
century the study of Aquinas had been largely abandoned outside Dominican
circles, and in most Roman Catholic s and seminaries a kind of Cartesian and
Suarezian Scholasticism was taught. Long before he became Pope Leo XIII,
Joachim Pecci and his brother Joseph had taken steps to introduce the teaching
of Thomistic philosophy at the diocesan seminary at Perugia in 1846. Earlier
efforts in this direction had been made by Vincenzo Buzzetti, by Buzzetti’s
students Serafino and Domenico Sordi, and by Taparelli d’Aglezio, who became director
of the Collegio Romano Gregorian in
1824. Leo’s encyclical Aeterni Patris1879 marked an official effort on the part
of the Roman Catholic church to foster the study of the philosophy and theology
of Thomas Aquinas. The intent was to draw upon Aquinas’s original writings in
order to prepare students of philosophy and theology to deal with problems
raised by contemporary thought. The Leonine Commission was established to
publish a critical edition of all of Aquinas’s writings; this effort continues today.
Important centers of Thomistic studies developed, such as the Higher Institute
of Philosophy at Louvain founded by Cardinal Mercier, the Dominican School of
Saulchoir in France, and the Pontifical Institute of Mediaeval Studies in
Toronto. Different groups of Roman, Belgian, and Jesuits acknowledged a deep indebtedness to
Aquinas for their personal philosophical reflections. There was also a
concentration of effort in the United States at universities such as The
Catholic of America, St. Louis , Notre
Dame, Fordham, Marquette, and Boston , to mention but a few, and by the
Dominicans at River Forest. A great weakness of many of the nineteenthand
twentieth-century Latin manuals produced during this effort was a lack of
historical sensitivity and expertise, which resulted in an unreal and highly
abstract presentation of an “Aristotelian-Thomistic” philosophy. This weakness
was largely offset by the development of solid historical research both in the
thought of Aquinas and in medieval philosophy and theology in general,
championed by scholars such as H. Denifle, M. De Wulf, M. GrabmannMandonnet, F.
Van Steenberghen, E. Gilson and many of his students at Toronto, and by a host
of more recent and contemporary scholars. Much of this historical work continues
today both within and without Catholic scholarly circles. At the same time,
remarkable diversity in interpreting Aquinas’s thought has emerged on the part
of many twentieth-century scholars. Witness, e.g., the heavy influence of
Cajetan and John of St. Thomas on the Thomism of Maritain; the much more
historically grounded approaches developed in quite different ways by Gilson
and F. Van Steenberghen; the emphasis on the metaphysics of participation in
Aquinas in the very different presentations by L. Geiger and C. Fabro; the
emphasis on existence esse promoted by Gilson and many others but resisted by
still other interpreters; the movement known as Transcendental Thomism,
originally inspired byRousselot and by J. Marechal in dialogue with Kant; and
the long controversy about the appropriateness of describing Thomas’s
philosophy and that of other medievals as a Christian philosophy. An increasing
number of non-Catholic thinkers are currently directing considerable attention
to Aquinas, and the varying backgrounds they bring to his texts will
undoubtedly result in still other interesting interpretations and applications
of his thought to contemporary concerns.
: --a strange genitive for “Aquino,” the
little village where the saint was born. while Grice, being C. of E., would
avoid Aquinas like the rats, he was aware of Aquinas’s clever ‘intention-based
semantics’ in his commentary of Aristotle’s De Interpretatione. Saint Thomas
122574, philosopher-theologian, the most
influential thinker of the medieval period. He produced a powerful
philosophical synthesis that combined Aristotelian and Neoplatonic elements
within a Christian context in an original and ingenious way. Life and works.
Thomas was born at Aquino castle in Roccasecca, Italy, and took early schooling
at the Benedictine Abbey of Monte Cassino. He then studied liberal arts and
philosophy at the of Naples 123944 and
joined the Dominican order. While going to Paris for further studies as a Dominican,
he was detained by his family for about a year. Upon being released, he studied
with the Dominicans at Paris, perhaps privately, until 1248, when he journeyed
to a priori argument Aquinas, Saint Thomas 36
36 Cologne to work under Albertus Magnus. Thomas’s own report reportatio
of Albertus’s lectures on the Divine Names of Dionysius and his notes on
Albertus’s lectures on Aristotle’s Ethics date from this period. In 1252 Thomas
returned to Paris to lecture there as a bachelor in theology. His resulting
commentary on the Sentences of Peter Lombard dates from this period, as do two
philosophical treatises, On Being and Essence De ente et essentia and On the
Principles of Nature De principiis naturae. In 1256 he began lecturing as
master of theology at Paris. From this period 125659 date a series of
scriptural commentaries, the disputations On Truth De veritate, Quodlibetal
Questions VIIXI, and earlier parts of the Summa against the Gentiles Summa
contra gentiles; hereafter SCG. At different locations in Italy from 1259 to
1269, Thomas continued to write prodigiously, including, among other works, the
completion of the SCG; a commentary on the Divine Names; disputations On the
Power of God De potentia Dei and On Evil De malo; and Summa of Theology Summa
theologiae; hereafter ST, Part I. In January 1269, he resumed teaching in Paris
as regent master and wrote extensively until returning to Italy in 1272. From
this second Parisian regency date the disputations On the Soul De anima and On
Virtues De virtutibus; continuation of ST; Quodlibets IVI and XII; On the Unity
of the Intellect against the Averroists De unitate intellectus contra
Averroistas; most if not all of his commentaries on Aristotle; a commentary on
the Book of Causes Liber de causis; and On the Eternity of the World De
aeternitate mundi. In 1272 Thomas returned to Italy where he lectured on
theology at Naples and continued to write until December 6, 1273, when his
scholarly work ceased. He died three months later en route to the Second
Council of Lyons. Doctrine. Aquinas was both a philosopher and a theologian.
The greater part of his writings are theological, but there are many strictly
philosophical works within his corpus, such as On Being and Essence, On the
Principles of Nature, On the Eternity of the World, and the commentaries on Aristotle
and on the Book of Causes. Also important are large sections of strictly
philosophical writing incorporated into theological works such as the SCG, ST,
and various disputations. Aquinas clearly distinguishes between strictly
philosophical investigation and theological investigation. If philosophy is
based on the light of natural reason, theology sacra doctrina presupposes faith
in divine revelation. While the natural light of reason is insufficient to
discover things that can be made known to human beings only through revelation,
e.g., belief in the Trinity, Thomas holds that it is impossible for those
things revealed to us by God through faith to be opposed to those we can
discover by using human reason. For then one or the other would have to be false;
and since both come to us from God, God himself would be the author of falsity,
something Thomas rejects as abhorrent. Hence it is appropriate for the
theologian to use philosophical reasoning in theologizing. Aquinas also
distinguishes between the orders to be followed by the theologian and by the
philosopher. In theology one reasons from belief in God and his revelation to
the implications of this for created reality. In philosophy one begins with an
investigation of created reality insofar as this can be understood by human
reason and then seeks to arrive at some knowledge of divine reality viewed as
the cause of created reality and the end or goal of one’s philosophical inquiry
SCG II, c. 4. This means that the order Aquinas follows in his theological
Summae SCG and ST is not the same as that which he prescribes for the
philosopher cf. Prooemium to Commentary on the Metaphysics. Also underlying
much of Aquinas’s thought is his acceptance of the difference between
theoretical or speculative philosophy including natural philosophy,
mathematics, and metaphysics and practical philosophy. Being and analogy. For
Aquinas the highest part of philosophy is metaphysics, the science of being as
being. The subject of this science is not God, but being, viewed without
restriction to any given kind of being, or simply as being Prooemium to
Commentary on Metaphysics; In de trinitate, qu. 5, a. 4. The metaphysician does
not enjoy a direct vision of God in this life, but can reason to knowledge of
him by moving from created effects to awareness of him as their uncreated
cause. God is therefore not the subject of metaphysics, nor is he included in
its subject. God can be studied by the metaphysician only indirectly, as the
cause of the finite beings that fall under being as being, the subject of the
science. In order to account for the human intellect’s discovery of being as
being, in contrast with being as mobile studied by natural philosophy or being
as quantified studied by mathematics, Thomas appeals to a special kind of
intellectual operation, a negative judgment, technically named by him
“separation.” Through this operation one discovers that being, in order to be
realized as such, need not be material and changAquinas, Saint Thomas Aquinas,
Saint Thomas 37 37 ing. Only as a
result of this judgment is one justified in studying being as being. Following
Aristotle and Averroes, Thomas is convinced that the term ‘being’ is used in
various ways and with different meanings. Yet these different usages are not
unrelated and do enjoy an underlying unity sufficient for being as being to be
the subject of a single science. On the level of finite being Thomas adopts and
adapts Aristotle’s theory of unity by reference to a first order of being. For
Thomas as for Aristotle this unity is guaranteed by the primary referent in our
predication of being substance. Other
things are named being only because they are in some way ordered to and
dependent on substance, the primary instance of being. Hence being is
analogous. Since Thomas’s application of analogy to the divine names
presupposes the existence of God, we shall first examine his discussion of that
issue. The existence of God and the “five ways.” Thomas holds that unaided
human reason, i.e., philosophical reason, can demonstrate that God exists, that
he is one, etc., by reasoning from effect to cause De trinitate, qu. 2, a. 3;
SCG I, c. 4. Best-known among his many presentations of argumentation for God’s
existence are the “five ways.” Perhaps even more interesting for today’s student
of his metaphysics is a brief argument developed in one of his first writings,
On Being and Essence c.4. There he wishes to determine how essence is realized
in what he terms “separate substances,” i.e., the soul, intelligences angels of
the Christian tradition, and the first cause God. After criticizing the view
that created separate substances are composed of matter and form, Aquinas
counters that they are not entirely free from composition. They are composed of
a form or essence and an act of existing esse. He immediately develops a
complex argument: 1 We can think of an essence or quiddity without knowing
whether or not it actually exists. Therefore in such entities essence and act
of existing differ unless 2 there is a thing whose quiddity and act of existing
are identical. At best there can be only one such being, he continues, by
eliminating multiplication of such an entity either through the addition of
some difference or through the reception of its form in different instances of
matter. Hence, any such being can only be separate and unreceived esse, whereas
esse in all else is received in something else, i.e., essence. 3 Since esse in
all other entities is therefore distinct from essence or quiddity, existence is
communicated to such beings by something else, i.e., they are caused. Since
that which exists through something else must be traced back to that which
exists of itself, there must be some thing that causes the existence of
everything else and that is identical with its act of existing. Otherwise one
would regress to infinity in caused causes of existence, which Thomas here
dismisses as unacceptable. In qu. 2, a. 1 of ST I Thomas rejects the claim that
God’s existence is self-evident to us in this life, and in a. 2 maintains that
God’s existence can be demonstrated by reasoning from knowledge of an existing
effect to knowledge of God as the cause required for that effect to exist. The
first way or argument art. 3 rests upon the fact that various things in our
world of sense experience are moved. But whatever is moved is moved by
something else. To justify this, Thomas reasons that to be moved is to be
reduced from potentiality to actuality, and that nothing can reduce itself from
potency to act; for it would then have to be in potency if it is to be moved
and in act at the same time and in the same respect. This does not mean that a
mover must formally possess the act it is to communicate to something else if
it is to move the latter; it must at least possess it virtually, i.e., have the
power to communicate it. Whatever is moved, therefore, must be moved by
something else. One cannot regress to infinity with moved movers, for then
there would be no first mover and, consequently, no other mover; for second
movers do not move unless they are moved by a first mover. One must, therefore,
conclude to the existence of a first mover which is moved by nothing else, and
this “everyone understands to be God.” The second way takes as its point of
departure an ordering of efficient causes as indicated to us by our
investigation of sensible things. By this Thomas means that we perceive in the
world of sensible things that certain efficient causes cannot exercise their
causal activity unless they are also caused by something else. But nothing can
be the efficient cause of itself, since it would then have to be prior to
itself. One cannot regress to infinity in ordered efficient causes. In ordered
efficient causes, the first is the cause of the intermediary, and the
intermediary is the cause of the last whether the intermediary is one or many.
Hence if there were no first efficient cause, there would be no intermediary
and no last cause. Thomas concludes from this that one must acknowledge the
existence of a first efficient cause, “which everyone names God.” The third way
consists of two major parts. Some Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas
38 38 textual variants have complicated
the proper interpretation of the first part. In brief, Aquinas appeals to the
fact that certain things are subject to generation and corruption to show that
they are “possible,” i.e., capable of existing and not existing. Not all things
can be of this kind revised text, for that which has the possibility of not
existing at some time does not exist. If, therefore, all things are capable of
not existing, at some time there was nothing whatsoever. If that were so, even
now there would be nothing, since what does not exist can only begin to exist
through something else that exists. Therefore not all beings are capable of
existing and not existing. There must be some necessary being. Since such a
necessary, i.e., incorruptible, being might still be caused by something else,
Thomas adds a second part to the argument. Every necessary being either depends
on something else for its necessity or it does not. One cannot regress to
infinity in necessary beings that depend on something else for their necessity.
Therefore there must be some being that is necessary of itself and that does
not depend on another cause for its necessity, i.e., God. The statement in the
first part to the effect that what has the possibility of not existing at some
point does not exist has been subject to considerable dispute among
commentators. Moreover, even if one grants this and supposes that every
individual being is a “possible” and therefore has not existed at some point in
the past, it does not easily follow from this that the totality of existing
things will also have been nonexistent at some point in the past. Given this,
some interpreters prefer to substitute for the third way the more satisfactory
versions found in SCG I ch. 15 and SCG II ch. 15. Thomas’s fourth way is based
on the varying degrees of perfection we discover among the beings we
experience. Some are more or less good, more or less true, more or less noble,
etc., than others. But the more and less are said of different things insofar
as they approach in varying degrees something that is such to a maximum degree.
Therefore there is something that is truest and best and noblest and hence that
is also being to the maximum degree. To support this Thomas comments that those
things that are true to the maximum degree also enjoy being to the maximum
degree; in other words he appeals to the convertibility between being and truth
of being. In the second part of this argument Thomas argues that what is
supremely such in a given genus is the cause of all other things in that genus.
Therefore there is something that is the cause of being, goodness, etc., for
all other beings, and this we call God. Much discussion has centered on
Thomas’s claim that the more and less are said of different things insofar as
they approach something that is such to the maximum degree. Some find this
insufficient to justify the conclusion that a maximum must exist, and would here
insert an appeal to efficient causality and his theory of participation. If
certan entities share or participate in such a perfection only to a limited
degree, they must receive that perfection from something else. While more
satisfactory from a philosophical perspective, such an insertion seems to
change the argument of the fourth way significantly. The fifth way is based on
the way things in the universe are governed. Thomas observes that certain
things that lack the ability to know, i.e., natural bodies, act for an end.
This follows from the fact that they always or at least usually act in the same
way to attain that which is best. For Thomas this indicates that they reach
their ends by “intention” and not merely from chance. And this in turn implies
that they are directed to their ends by some knowing and intelligent being.
Hence some intelligent being exists that orders natural things to their ends.
This argument rests on final causality and should not be confused with any
based on order and design. Aquinas’s frequently repeated denial that in this
life we can know what God is should here be recalled. If we can know that God
exists and what he is not, we cannot know what he is see, e.g., SCG I, c. 30.
Even when we apply the names of pure perfections to God, we first discover such
perfections in limited fashion in creatures. What the names of such perfections
are intended to signify may indeed be free from all imperfection, but every
such name carries with it some deficiency in the way in which it signifies.
When a name such as ‘goodness’, for instance, is signified abstractly e.g.,
‘God is goodness’, this abstract way of signifying suggests that goodness does
not subsist in itself. When such a name is signified concretely e.g., ‘God is
good’, this concrete way of signifying implies some kind of composition between
God and his goodness. Hence while such names are to be affirmed of God as
regards that which they signify, the way in which they signify is to be denied
of him. This final point sets the stage for Thomas to apply his theory of
analogy to the divine names. Names of pure perfections such as ‘good’, ‘true’,
‘being’, etc., cannot be applied to God with Aquinas, Saint Thomas Aquinas,
Saint Thomas 39 39 exactly the same
meaning they have when affirmed of creatures univocally, nor with entirely
different meanings equivocally. Hence they are affirmed of God and of creatures
by an analogy based on the relationship that obtains between a creature viewed
as an effect and God its uncaused cause. Because some minimum degree of
similarity must obtain between any effect and its cause, Thomas is convinced
that in some way a caused perfection imitates and participates in God, its
uncaused and unparticipated source. Because no caused effect can ever be equal
to its uncreated cause, every perfection that we affirm of God is realized in
him in a way different from the way we discover it in creatures. This
dissimilarity is so great that we can never have quidditative knowledge of God
in this life know what God is. But the similarity is sufficient for us to
conclude that what we understand by a perfection such as goodness in creatures
is present in God in unrestricted fashion. Even though Thomas’s identification
of the kind of analogy to be used in predicating divine names underwent some
development, in mature works such as On the Power of God qu. 7, a. 7, SCG I
c.34, and ST I qu. 13, a. 5, he identifies this as the analogy of “one to
another,” rather than as the analogy of “many to one.” In none of these works
does he propose using the analogy of “proportionality” that he had previously
defended in On Truth qu. 2, a. 11. Theological virtues. While Aquinas is
convinced that human reason can arrive at knowledge that God exists and at
meaningful predication of the divine names, he does not think the majority of
human beings will actually succeed in such an effort SCG I, c. 4; ST IIIIae,
qu. 2, a. 4. Hence he concludes that it was fitting for God to reveal such
truths to mankind along with others that purely philosophical inquiry could
never discover even in principle. Acceptance of the truth of divine revelation
presupposes the gift of the theological virtue of faith in the believer. Faith
is an infused virtue by reason of which we accept on God’s authority what he
has revealed to us. To believe is an act of the intellect that assents to
divine truth as a result of a command on the part of the human will, a will
that itself is moved by God through grace ST II IIae, qu. 2, a. 9. For Thomas
the theological virtues, having God the ultimate end as their object, are prior
to all other virtues whether natural or infused. Because the ultimate end must
be present in the intellect before it is present to the will, and because the
ultimate end is present in the will by reason of hope and charity the other two
theological virtues, in this respect faith is prior to hope and charity. Hope
is the theological virtue through which we trust that with divine assistance we
will attain the infinite good eternal
enjoyment of God ST IIIIae, qu. 17, aa. 12. In the order of generation, hope is
prior to charity; but in the order of perfection charity is prior both to hope
and faith. While neither faith nor hope will remain in those who reach the
eternal vision of God in the life to come, charity will endure in the blessed.
It is a virtue or habitual form that is infused into the soul by God and that
inclines us to love him for his own sake. If charity is more excellent than
faith or hope ST II IIae, qu. 23, a. 6, through charity the acts of all other
virtues are ordered to God, their ultimate end qu. 23, a. 8. Aquino -- Aquinismo“If followers of William
are called Occamists, followers of a Saint should surely call themselves
“Aquinistae”! -- neo-Thomismas opposed to palaeo-Thomism --, a
philosophical-theological movement in the nineteenth and twentieth centuries
manifesting a revival of interest in Aquinas. It was stimulated by Pope Leo
XIII’s encyclical Aeterni Patris 1879 calling for a renewed emphasis on the
teaching of Thomistic principles to meet the intellectual and social challenges
of modernity. The movement reached its peak in the 0s, though its influence
continues to be seen in organizations such as the Catholic Philosophical Association. Among its
major figures are Joseph Kleutgen, Désiré Mercier, Joseph Maréchal, Pierre
Rousselot, Réginald Garrigou-LaGrange, Martin Grabmann, M.-D. Chenu, Jacques
Maritain, Étienne Gilson, Yves R. Simon, Josef Pieper, Karl Rahner, Cornelio
Fabro, Emerich Coreth, Bernard Lonergan, and W. Norris Clarke. Few, if any, of
these figures have described themselves as NeoThomists; some explicitly
rejected the designation. Neo-Thomists have little in common except their
commitment to Aquinas and his relevance to the contemporary world. Their
interest produced a more historically accurate understanding of Aquinas and his
contribution to medieval thought Grabmann, Gilson, Chenu, including a
previously ignored use of the Platonic metaphysics of participation Fabro. This
richer understanding of Aquinas, as forging a creative synthesis in the midst
of competing traditions, has made arguing for his relevance easier. Those
Neo-Thomists who were suspicious of modernity produced fresh readings of
Aquinas’s texts applied to contemporary problems Pieper, Gilson. Their
influence can be seen in the revival of virtue theory and the work of Alasdair
MacIntyre. Others sought to develop Aquinas’s thought with the aid of later
Thomists Maritain, Simon and incorporated the interpretations of
Counter-Reformation Thomists, such as Cajetan and Jean Poinsot, to produce more
sophisticated, and controversial, accounts of the intelligence, intentionality,
semiotics, and practical knowledge. Those Neo-Thomists willing to engage modern
thought on its own terms interpreted modern philosophy sympathetically using
the principles of Aquinas Maréchal, Lonergan, Clarke, seeking dialogue rather
than confrontation. However, some readings of Aquinas are so thoroughly
integrated into modern philosophy that they can seem assimilated Rahner,
Coreth; their highly individualized metaphysics inspired as much by other
philosophical influences, especially Heidegger, as Aquinas. Some of the labels
currently used among Neo-Thomists suggest a division in the movement over
critical, postKantian methodology. ‘Existential Thomism’ is used for those who
emphasize both the real distinction between essence and existence and the role
of the sensible in the mind’s first grasp of being. ‘Transcendental Thomism’
applies to figures like Maréchal, Rousselot, Rahner, and Coreth who rely upon the
inherent dynamism of the mind toward the real, rooted in Aquinas’s theory of
the active intellect, from which to deduce their metaphysics of being.
Dedicatio. Dilecto sibi praeposito Lovaniensi frater Thomas de Aquino
salutem et verae sapientiae incrementa. Diligentiae tuae, qua in iuvenili
aetate non vanitati sed sapientiae intendis, studio provocatus, et desiderio
satisfacere cupiens, libro Aristotelis, qui peri hermeneias dicitur, multis
obscuritatibus involuto, inter multiplices occupationum mearum sollicitudines,
expositionem adhibere curavi, hoc gerens in animo sic altiora pro posse
perfectioribus exhibere, ut tamen iunioribus proficiendi auxilia tradere non
recusem. Suscipiat ergo studiositas tua praesentis expositionis munus exiguum,
ex quo si profeceris, provocare me poteris ad maiora. 1 Sicut dicit philosophus
in III de anima, duplex est operatio intellectus: una quidem, quae dicitur
indivisibilium intelligentia, per quam scilicet intellectus apprehendit
essentiam uniuscuiusque rei in seipsa; alia est operatio intellectus scilicet
componentis et dividentis. Additur autem et tertia operatio, scilicet
ratiocinandi, secundum quod ratio procedit a notis ad inquisitionem ignotorum.
Harum autem operationum prima ordinatur ad secundam: quia non potest esse
compositio et divisio, nisi simplicium apprehensorum. Secunda vero ordinatur ad
tertiam: quia videlicet oportet quod ex aliquo vero cognito, cui intellectus
assentiat, procedatur ad certitudinem accipiendam de aliquibus ignotis. There
is a twofold operation of the intellect, as the Philosopher says in III De
anima [6: 430a 26]. One is the understanding of simple objects, that is, the
operation by which the intellect apprebends just the essence of a thing alone;
the other is the operation of composing and dividing. There is also a third
operation, that of reasoning, by which reason proceeds from what is known to
the investigation of things that are unknown. The first of these operations is
ordered to the second, for there cannot be composition and division unless
things have already been apprehended simply. The second, in turn, is ordered to
the third, for clearly we must proceed from some known truth to which the
intellect assents in order to have certitude about something not yet known.
Aquinas pr. 2 Cum autem logica dicatur rationalis scientia, necesse est quod
eius consideratio versetur circa ea quae pertinent ad tres praedictas
operationes rationis. De his igitur quae pertinent ad primam operationem
intellectus, idest de his quae simplici intellectu concipiuntur, determinat
Aristoteles in libro praedicamentorum. De his vero, quae pertinent ad secundam
operationem, scilicet de enunciatione affirmativa et negativa, determinat
philosophus in libro perihermeneias. De his vero quae pertinent ad tertiam operationem
determinat in libro priorum et in consequentibus, in quibus agitur de
syllogismo simpliciter et de diversis syllogismorum et argumentationum
speciebus, quibus ratio de uno procedit ad aliud. Et ideo secundum praedictum
ordinem trium operationum, liber praedicamentorum ordinatur ad librum
perihermeneias, qui ordinatur ad librum priorum et sequentes. 2. Since logic is
called rational science it must direct its consideration to the things that
belong to the three operations of reason we have mentioned. Accordingly,
Aristotle treats those belonging to the first operation of the intellect, i.e.,
those conceived by simple understanding, in the book Praedicamentorum; those
belonging to the second operation, i.e., affirmative and negative enunciation,
in the book Perihermeneias; those belonging to the third operation in the book
Priorum and the books following it in which he treats the syllogism absolutely,
the different kinds of syllogism, and the species of argumentation by which
reason proceeds from one thing to another. And since the three operations of
reason are ordered to each other so are the books: the Praedicamenta to the
Perihermeneias and the Perihermeneias to the Priora and the books following it.
Aquinas pr. 3. Dicitur ergo liber iste, qui prae manibus habetur,
perihermeneias, quasi de interpretatione. Dicitur autem interpretatio, secundum
Boethium, vox significativa, quae per se aliquid significat, sive sit complexa
sive incomplexa. Unde coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non dicuntur
interpretationes, quia non per se aliquid significant. Similiter etiam voces
signi-ficantes naturaliter, non ex proposito aut cum imaginatione aliquid
significandi, sicut sunt voces brutorum animalium, interpretationes dici non
possunt. Qui enim interpretatur aliquid exponere intendit. Et ideo sola nomina
et verba et orationes dicuntur interpretationes, de quibus in hoc libro
determinatur. Sed tamen nomen et verbum magis interpretationis principia esse
videntur, quam interpretationes. Ille enim interpretari videtur, qui exponit
aliquid esse verum vel falsum. Et ideo sola oratio enunciativa, in qua verum
vel falsum invenitur, interpretatio vocatur. Caeterae vero orationes, ut
optativa et imperativa, magis ordinantur ad exprimendum affectum, quam ad interpretandum
id quod in intellectu habetur. Intitulatur ergo liber iste de interpretatione,
ac si dicetur de enunciativa oratione: in qua verum vel falsum invenitur. Non
autem hic agitur de nomine et verbo, nisi in quantum sunt partes enunciationis.
Est enim proprium uniuscuiusque scientiae partes subiecti tradere, sicut et
passiones. Patet igitur ad quam partem philosophiae pertineat liber iste, et
quae sit necessitas istius, et quem ordinem teneat inter logicae libros.3. The
one we are now examining is named Perihermeneias, that is, On Interpretation.
Interpretation, according to Boethius, is "significant vocal sound —whether
complex or incomplex — which signifies something by itself.” Conjunctions,
then, and prepositions and other words of this kind are not called
interpretations since they do not signify anything by themselves. Nor can
sounds signifying naturally but not from purpose or in connection with a mental
image of signifying something—such as the sounds of brute animals—be called
interpretations, for one who in terprets intends to explain something.
Therefore only names and verbs and speech are called interpretations and these
Aristotle treats in this book. The name and verb, however, seem to be
principles of interpretation rather than interpretations, for one who
interprets seems to explain something as either true or false. Therefore, only
enunciative speech in which truth or falsity is found is called interpretation.
Other kinds of speech, such as optatives and imperatives, are ordered rather to
expressing volition than to interpreting what is in the intellect. This book,
then, is entitled On Interpretation, that is to say, On Enunciative Speech in
which truth or falsity is found. The name and verb are treated only insofar as
they are parts of the enunciation; for it is proper to a science to treat the
parts of its subject as well as its properties. It is clear, then, to which
part of philosophy this book belongs, what its necessity is, and what its place
is among the books on logic. I. 1. Praemittit autem huic operi philosophus
prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et
quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem
compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione
praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest
definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet
poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt,
ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic
solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia
cognoscuntur. The Philosopher begins this work with an introduction in which he
points out one by one the things that are to be treated. For, since every
science begins with a treatment of the principles, and the principles of
composite things are their parts, one who intends to treat enunciation must
begin with its parts, Therefore Aristotle begins by saying: First we must
determine, i.e., define, what a name is and what a verb is. In the Greek text
it is First we must posit, which signifies the same thing, for demonstrations
presuppose definitions, from which they conclude, and hence definitions are
rightly called "positions.” This is the reason he only points out here the
definitions of the things to be treated; for from definitions other things are
known. 2. Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus
dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo
determinaretur. Ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse
consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices
intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum.
Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis. Et sic
determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et
verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine
tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod
constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis
constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum
in libro priorum. It might be asked why it is necessary to treat simple things
again, i.e., the name and the verb, for they were treated in the book
Praedicamentorum. In answer to this we should say that simple words can be
considered in three ways: first, as they signify simple intellection
absolutely, which is the consideration proper to the book Praedicamentorum;
secondly, according to their function as parts of the enunciation, which is the
way they are considered in this book. Hence, they are treated here under the
formality of the name and the verb, and under this formality they signify
something with time or without time and other things of the kind that belong to
the formality of words as they are components of an enunciation. Finally,
simple words may be considered as they are components of a syllogistic ordering.
They are treated then under the formality of terms and this Aristotle does in
the book Priorum. 3 Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis
partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia
de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes
enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat.
Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex
aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus
determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales
orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non
nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur:
sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones. It might
be asked why he treats only the name and verb and omits the other parts of
speech. The reason could be that Aristotle intends to establish rules about the
simple enunciation and for this it is sufficient to consider only the parts of
the enunciation that are necessary for simple speech. A simple enunciation can
be formed from just a name and a verb, but it cannot be formed from other parts
of speech without these. Therefore, it is sufficient to treat these two.On the
other hand, the reason could be that names and verbs are the principal parts of
speech. Pronouns, which do not name a nature but determine a person-and
therefore are put in place of names-are comprehended under names. The
participle-althougb it has similarities with the name-signifies with time and
is therefore comprehended under the verb. The others are things that unite the
parts of speech. They signify relations of one part to another rather than as
parts of speech; as nails and other parts of this kind are not parts of a ship,
but connect the parts of a ship. 4 His igitur praemissis quasi principiis,
subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea
quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem
integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex
affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest
species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur. After he
has proposed these parts [the name and the verb] as principles, Aristotle
states what he principally intends to establish:... then what negation is and
affirmation. These, too, are parts of the enunciation, not integral parts
however, as are the name and the verb—otherwise every enunciation would have to
be formed from an affirmation and negation—but subjective parts, i.e., species.
This is supposed here but will be proved later. 5 Sed potest dubitari: cum
enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit
mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica
enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum
differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio
non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione,
ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse
ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi
confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo
Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et
syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et
affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Since enunciation is
divided into categorical and hypothetical, it might be asked why he does not
list these as well as affirmation and negation. In reply to this we could say
that Aristotle has not added these because the hypothetical enunciation is
composed of many categorical propositions and hence categorical and
hypothetical only differ according to the difference of one and many.Or we
could say—and this would be a better reason—that the hypothetical enunciation
does not contain absolute truth, the knowledge of which is required in
demonstration, to which this book is principally ordered; rather, it signifies
something as true by supposition, which does not suffice for demonstrative
sciences unless it is confirmed by the absolute truth of the simple
enunciation. This is the reason Aristotle does not treat either hypothetical
enunciations or syllogisms. He adds, and the enunciation, which is the genus of
negation and affirmation; and speech, which is the genus of enunciation. 6 Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius
mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad
considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in
ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus,
sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad
constitutionem artificialium. If it should be asked why, besides these, he does
not mention vocal sound, it is because vocal sound is something natural and
therefore belongs to the consideration of natural philosophy, as is evident in
II De Anima [8: 420b 5-421a 6] and at the end of De generatione animalium [ch.
8]. Also, since it is something natural, vocal sound is not properly the genus
of speech but is presupposed for the forming of speech, as natural things are
presupposed for the formation of artificial things. 7 Videtur autem ordo enunciationis
esse praeposterus. Nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior
est enunciatio, sicut genus. Et per consequens oratio enunciatione. Sed
dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad
totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. In this introduction, however,
Aristotle seems to have inverted the order of the enunciation, for affirmation
is naturally prior to negation and enunciation prior to these as a genus; and
consequently, speech to enunciation. We could say in reply to this that he
began to enumerate from the parts and consequently he proceeds from the parts
to the whole. He puts negation, which contains division, before affirmation,
which consists of composition, for the same reason: division is closer to the
parts, composition closer to the whole. Or we could say, as some do, that he
puts negation first because in those things that can be and not be, non-being,
which negation signifies, is prior to being, which affirmation signifies.
Aristotle, however, does not refer to the fact that one of them is placed
before the other, for they are species equally dividing a genus and are
therefore simultaneous according to nature. II. 1. Praemisso prooemio, philosophus accedit
ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt
voces signi-ficativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de
sign-ificatione vocum. Et deinde de vocibus signi-ficativis determinat de quibus
in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi:. Nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit. Pprimo, determinat qualis sit
sign-ificatio vocum. Scundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum. Ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit. Primo quidem, praemittit ordinem signi-ficationis vocum. Secundo,
ostendit qualis sit vocum signi-ficatio, utrum sit ex natura vel *ex
impositione* [ex positione, ex arte non ex natura – signo ex natura – signo ex
arte, segno da natura, segno d’arte --. Ibi: et quemadmodum nec litterae et
cetera. After his introduction the Philosopher begins to investigate the things
he has proposed. Since the things he promised to speak of are either complex or
incomplex significant vocal sounds, he prefaces this with a treatment of the
signification of vocal sounds; then he takes up the significant vocal sounds he
proposed in the introduction where he says, A name, then, is a vocal sound
significant by convention, without time, etc. In regard to the signification of
vocal sounds he first determines what kind of signification vocal sound has and
then shows the difference between the signification of complex and incomplex
vocal sounds where he says, As sometimes there is thought in the soul, etc.
With respect to the first point, he presents the order of the signification of
vocal sounds and then shows what kind of signification vocal sound has, i.e.,
whether it is from nature or by imposition. This he does where he says, And
just as letters are not the same for all men, etc. 2 Est ergo considerandum
quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum.
Aristoteles proponit enim scripturam, voces et animae passiones, ex quibus
intelliguntur res. Nam passio est ex im-pressione alicuius agentis. Et sic
passiones animae originem habent ab ipsis rebus [teoria causale della
percezione]. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent
sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum *notitiam*
[nota, notitia – notizia – notatura --]
in se haberet. Sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale
[chi ama la comunicazione!], necesse fuit quod conceptiones unius hominis *innotescerent*
[co-gnoscere] [informare, notificare, essibire, per influire] aliis, quod fit
per vocem. Et ideo necesse fuit esse voces signi-ficativas, ad hoc quod homines
ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt
bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva,
quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox
signi-ficativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas
conceptiones invicem sibi manifestant. Sed quia homo utitur etiam intellectuali
cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc. Consequitur ipsum sollicitudo non
solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant
loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui
distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet,
necessarius fuit usus scripturae. Apropos of the order of signification of
vocal sounds he proposes three things, from one of which a fourth is
understood. He proposes writing, vocal sounds, and passions of the soul; things
is understood from the latter, for passion is from the impression of something
acting, and hence passions of the soul have their origin from things. Now if
man were by nature a solitary animal the passions of the soul by which he was
conformed to things so as to have knowledge of them would be sufficient for
him; but since he is by nature a political and social animal it was necessary
that his conceptions be made known to others. This he does through vocal sound.
Therefore there had to be significant vocal sounds in order that men might live
together. Whence those who speak different languages find it difficult to live
together in social unity. Again, if man had only sensitive cognition, which is
of the here and now, such significant vocal sounds as the other animals use to
manifest their conceptions to each other would be sufficient for him to live
with others. But man also has the advantage of intellectual cognition, which
abstracts from the here and now, and as a consequence, is concerned with things
distant in place and future in time as well as things present according to time
and place. Hence the use of writing was necessary so that he might manifest his
conceptions to those who are distant according to place and to those who will
come in future time. 3. Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus
sumendam, signi-ficatio vocum, quae est *immediate* [senza medio, non-mediata]
ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem
ipsius. Signi-ficatio autem litterarum, tanquam magis remota [mediate], non
pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici e non
filosofi. Et ideo exponens ordinem signi-ficationum non incipit a litteris, sed
a vocibus. Quarum primo signi-ficationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae
sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit
autem ergo, quasi ex praemissis concludens. Qquia supra dixerat determinandum
esse de nomine et verbo et aliis praedictis. Haec autem sunt voces signi-ficativae.
Ergo oportet vocum significationem exponere. However, since logic is ordered to
obtaining knowledge about things, the signification of vocal sounds, which is
immediate to the conceptions of the intellect, is its principal consideration.
The signification of written signs, being more remote, belongs to the
consideration of the grammarian rather than the logician. Aristotle therefore
begins his explanation of the order of signification from vocal sounds, not
written signs. First he explains the signification of vocal sounds: Therefore
those that are in vocal sound are signs of passions in the soul. He says
"therefore” as if concluding from premises, because he has already said
that we must establish what a name is, and a verb and the other things he
mentioned; but these are significant vocal sounds; therefore, signification of
vocal sounds must be explained. 4. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea
quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis.
Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem
tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus. Alio
modo, in prolatione vocis. Tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo,
ea quae sunt in voce etc. Ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia,
quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt signi-ficativae,
et earum quaedam sunt signi-ficativae *naturaliter*, quae longe sunt a ratione
nominis et verbi et aliorum consequentium. Ut appropriet suum dictum ad ea de
quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub
voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et
verbum signi-ficant *ex institutione humana*, quae advenit rei naturali sicut materiae,
ut forma lecti ligno. Ideo ad *de-signandum* [DE-SIGNARE, desegno] nomina et
verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur,
ea quae sunt in ligno. When he says "Those that are in vocal sound,” and
not "vocal sounds,” his mode of speaking implies a continuity with what he
has just been saying, namely, we must define the name and the verb, etc. Now
these have being in three ways: in the conception of the intellect, in the
utterance of the voice, and in the writing of letters. He could therefore mean
when he says "Those that are in vocal sound,” etc., names and verbs and
the other things we are going to define, insofar as they are in vocal sound,
are signs. On the other hand, he may be speaking in this way because not all
vocal sounds are significant, and of those that are, some are significant
naturally and hence are different in nature from the name and the verb and the
other things to be defined. Therefore, to adapt what he has said to the things
of which he intends to speak he says, "Those that are in vocal sound,”
i.e., that are contained under vocal sound as parts under a whole. There could
be still another reason for his mode of speaking. Vocal sound is something
natural. The name and verb, on the other hand, signify by human institution,
that is, the signification is added to the natural thing as a form to matter,
as the form of a bed is added to wood. Therefore, to designate names and verbs
and the other things he is going to define he says, "Those that are in
vocal sound,” in the same way he would say of a bed, "that which is in
wood.” 5. Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum,
considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus *sensibilis*
affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum.
Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces
hominum, ut gemitus infirmorum [infirmi], et aliorum animalium, ut dicitur in I
politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis *ex institutione*
humana. Et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus
conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum
sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas
res, ut ex ipso modo significandi apparet. Significat enim hoc nomen ‘homo’ naturam
humanam [homo] in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod
significet immediate hominem singularem. Unde Platonici posuerunt quod
significaret ipsam *ideam* [hominis] separatam. Sed quia hoc secundum suam
abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est
in solo intellectu. Ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant
intellectus conceptiones immediate [IN-MEDIATA, NON-MEDIATA – senza medio] et
eis mediantibus [MEDIATA -- medio] res. U segna [mediatamente] che piove non
che CREDE che piove. When he speaks of
passions in the soul we are apt to think of the affections of the sensitive
appetite, such as anger, joy, and the other passions that are customarily and
commonly called passions of the soul, as is the case in II Ethicorum [5: 1105b
21]. It is true that some of the vocal sounds man makes signify passions of
this kind naturally, such as the groans of the sick and the sounds of other
animals, as is said in I Politicae [2: 1253a 10-14]. But here Aristotle is
speaking of vocal sounds that are significant by human institution. Therefore "passions
in the soul” must be understood here as conceptions of the intellect, and
names, verbs, and speech, signify these conceptions of the intellect
immediately according to the teaching of Aristotle. They cannot immediately
signify things, as is clear from the mode of signifying, for the name
"man” signifies human nature in abstraction from singulars; hence it is
impossible that it immediately signify a singular man. The Platonists for this
reason held that it signified the separated idea of man. But because in
Aristotle’s teaching man in the abstract does not really subsist, but is only
in the mind, it was necessary for Aristotle to say that vocal sounds signify
the conceptions of the intellect immediately and things by means of them. 6. Sed
quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet
passiones. Ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed
manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae *operations*
[judicate/volere – accetare]. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici
potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine “phantasmate” [sing. fantasma
– etym. – fendere, offendere, manifestare, diafano]. Quod non est sine
corporali [del corpo] passione. Unde et *imaginativam* philosophus in III de
anima vocat passivum [non activum] intellectum. Vel quia extenso nomine
passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis [passibilis]
quoddam *pati* est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum,
quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta *ex amore*
vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit. Tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam *impressionis* [im-primere – ex-primere]
vel passionis. Since Aristotle did not customarily speak of conceptions of the
intellect as passions, Andronicus took the position that this book was not
Aristotle’s. In I De anima, however, it is obvious that he calls all of the
operations of the soul "passions” of the soul. Whence even the conception
of the intellect can be called a passion and this either because we do not
understand without a phantasm, which requires corporeal passion (for which
reason the Philosopher calls the imaginative power the passive intellect) [De
Anima III, 5: 430a 25]; or because by extending the name "passion” to
every reception, the understanding of the possible intellect is also a kind of
undergoing, as is said in III De anima [4: 429b 29]. Aristotle uses the name
"passion,” rather than "understanding,” however, for two reasons:
first, because man wills to signify an interior conception to another through
vocal sound as a result of some passion of the soul, such as love or hate;
secondly, because the signification of vocal sound is referred to the
conception of the intellect inasmuch as the conception arises from things by
way of a kind of impression or passion. 7. Secundo, cum dicit: et ea quae
scribuntur etc., agit de signi-ficatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc
inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut
sit sensus. Ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et
litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et
quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod
enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt
diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc
expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae
scribuntur. Quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis
magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum
autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles
non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius
est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius
ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod *nomina*
[Fido -- denotatum] et verba [-- is shaggy -- attributum], quae sunt in voce,
sunt *signa* eorum quae sunt *in* *anima*, continuatim subdit quod nomina et
verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. When
he says, and those that are written are signs of those in vocal sound, he
treats of the signification of writing. According to Alexander he introduces
this to make the preceding clause evident by means of a similitude; and the
meaning is: those that are in vocal sound are signs of the passions of the soul
in the way in which letters are of vocal sound; then he goes On to manifest
this point where he says, And just as letters are not the same for all men so
neither are vocal sounds the same—by introducing this as a sign of the
preceding. For when he says in effect, just as there are diverse vocal sounds
among diverse peoples so there are diverse letters, he is signifying that
letters signify vocal. sounds. And according to this exposition Aristotle said
those that are written are signs... and not, letters are signs of those that
are in vocal sound, because they are called letters in both speech and writing,
alt bough they are more properly called letters in writing; in speech they are
called elements of vocal sound. Aristotle, however, does not say, just as those
that are written, but continues with his account. Therefore it is better to say
as Porphyry does, that Aristotle adds this to complete the order of
signification. For after he says that names and verbs in vocal sound are signs
of those [names and verbs – ‘Fido is shaggy’ denotative – attributive – the S
is P -- in the soul, he adds—in continuity with this—that names and verbs that
are written are signs of the names and verbs that are in vocal sound. 8. Deinde
cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
signi-ficantium et signi-ficatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras. Quarum non solum *ratio
significandi est ex impositione* [positione], sed etiam ipsarum formatio fit *per
artem* [per arte ma non ‘artificiale’ – signo di natura, signo di arte, signum
naturae, signum artis, signum naturalis – signum artis – segno artato -- --.
[non per naturam]. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam
dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat
ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec
voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces
naturaliter significant, sed *ex institutione* humana. Voces autem illae, quae
naturaliter signi-FICANT, sicut gemitus infirmorum [infirmi] et alia huiusmodi,
sunt *eadem* apud omnes. Then where he says, And just as letters are not the
same for all men so neither are vocal sounds the same, he shows that the
foresaid things differ as signified and signifying inasmuch as they are either
according to nature or not. He makes three points here. He first posits a sign
to show that neither vocal sounds nor letters signify naturally; things that
signify naturally are the same among all men; but the signification of letters
and vocal sounds, which is the point at issue here, is not the same among all
men. There has never been any question about this in regard to letters, for
their character of signifying is from imposition and their very formation is
through art. Vocal sounds, however, are formed naturally and hence there is a
question as to whether they signify naturally. Aristotle determines this by
comparison with letters: these are not the same among all men, and so neither
are vocal sounds the same. Consequently, like letters, vocal sounds do not
signify naturally but by human institution. The vocal sounds that do signify
naturally, such as groans of the sick and others of this kind, are the same
among all men. 9. Secundo, ibi. Quorum
autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc
quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit. Quorum autem. Idest sicut passiones
animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum,
hae, scilicet voces, sunt *notae*, idest *signa*; comparantur enim passiones
animae ad voces, sicut primum ad secundum. Voces enim non proferuntur, nisi ad
ex-primendum [exprimere] in-teriores [interior/exterior] animae passiones), et
res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae,
scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras
dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter. Passiones
autem animae dicit esse similitudines rerum. Et hoc ideo, quia res non
cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu
vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum,
quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio *institutionis*,
sicut et in multis aliis signis. Ut *tuba* est signum [sola ratio institutionis]
belli [notifica la partenza dalla battaglia]. In passionibus autem animae
oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas
designant, non ex institutione. Secondly, when he says, but the passions of the
soul, of which vocal sounds are the first signs, are the same for all, he shows
that passions of the soul exist naturally, just as things exist naturally, for
they are the same among all men. For, he says, but the passions of the soul,
i.e., just as the passions of the soul are the same for all men; of which
first, i.e., of which passions, being first, these, namely, vocal sounds, are
tokens [cf. teach] -- ,” i.e., signs” (for passions of the soul are compared to
vocal sounds as first to second since vocal sounds are produced *only* to
express interior passions of the soul), so also the things... are the same,
i.e., are the same among all, of which, i.e., of which things, passions of the
soul are likenesses. Notice he says here that letters are signs, i.e., signs of
vocal sounds, and similarly vocal sounds are signs of passions of the soul, but
that passions of the soul are likenesses of things. This is because a thing is
not known by the soul unless there is some likeness of the thing existing
either in the sense or in the intellect. Now letters are signs of vocal sounds
and vocal sounds of passions in such a way that we do not attend to any idea of
likeness in regard to them but *only one [idea] of institution, as is the case
in regard to many other signs, for example, the trumpet as a sign of war. But
in the passions of the soul we have to take into account the idea of a likeness
to the things represented, since passions of the soul designate things
naturally, not by institution. 10 Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes
contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus
easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita
non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet
Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones
intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud
omnes easdem. Quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia
etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non
autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in
III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas
significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere
intelligit quid est [homo] [viz. animale razionale], quodcunque aliud aliquid,
quam [hominem] apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices
conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV
metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo *signanter*
dicit. Quorum primorum hae *notae* sunt, ut scilicet referatur ad primas
conceptiones a vocibus primo signi-ficatas. There are some who object to
Aristotle’s position that passions of the soul, which vocal sounds signify, are
the same for all men. Their argument against it is as follows. Different men
have different opinions about things. Therefore, passions of the soul do not
seem to be the same among all men. Boethius in reply to this objection says
that here Aristotle is using ‘passions of the soul’ to denote conceptions of
the intellect, and since the intellect is never deceived, conceptions of the
intellect must be the same among all men. For if someone is at variance with
what is true, in this instance he does not understand. However, since what is
false can also be in the intellect, not as it *knows* what a thing is, i.e.,
the essence of a thing, but as it composes and divides, as is said in III De
anima [6: 430a 26]. Aristotle’s statement should be referred to the simple
conceptions of the intellect — that are signified by the incomplex vocal sounds
— which are the same among all men. For if someone truly understands what man [homo[
is [viz. animale razionale], whatever else than man he apprehends he does not
understand *as* man. Simple conceptions of the intellect, which vocal sounds
first signify, are of this kind. This is why Aristotle says in IV Metaphysicae
[IV, 4: 1006b 4] that the notion which the name signifies is the definition.”
And this is the reason Aristotle expressly says, ‘of which first [passions]
these are signs [notae]’, I .e., so that this will be referred to the first
conceptions [conceptiones] first signified by vocal sounds. 11. Sed adhuc
obiiciunt aliqui de nominibus aequi-vocis, in quibus eiusdem vocis non est
eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod
unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem signi-ficandam
eam refert. Et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille
qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius
dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere *identitatem*
conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit
conception. Quia voces sunt diversae apud diversos. Sed intendit asserere
identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit
esse easdem. The equivocal name is given as another objection to this position,
for in the case of an equivocal name the same vocal sound does *not* signify
the same passion among all men. Porphyry answers this by pointing out that a
man who utters a vocal sound *intends* it to signify one conception of the
intellect. If the person to whom he is speaking understands something else by
it, the one who is speaking, by explaining himself, will make the one to whom
he is speaking refer his understanding to the same thing. However it is better
to say that it is not Aristotle’s intention to maintain an identity of the
conception of the soul in relation to a vocal sound such that there is one
conception in relation to one vocal sound, for vocal sounds are different among
different peoples. Rather, he intends to maintain an identity of the conceptions
of the soul in relation to things, which things he also says are the same. 12 Tertio,
ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia
quales sint *animae passiones*, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est
in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Thirdly
when he says, This has been discussed, however, in our study of the soul, etc.,
he excuses himself from a further consideration of these things, for the nature
of the passions of the soul and the way in which they are likenesses of things
does not pertain to logic but to philosophy of nature and has already been
treated in the book De anima [III, 4-8]. III. 1. Postquam philosophus tradidit
ordinem signi-ficationis vocum, hic agit de diversa vocum signi-ficatione. Quarum
quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam. Secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus prae-ambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae *ad eas exprimendas* [exprimere] proferuntur [pro-ferere], ideo
ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat
differentiam, quae est circa signi-ficationes vocum. Ut scilicet haec manifestatio
non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. After the
Philosopher has treated the order of the signification of vocal sounds, he goes
on to discuss a diversity in the signification of vocal sounds, i.e., some of
them signify the true or the false, others do not. He first states the
difference and then manifests it where he says, for in composition and division
there is truth and falsity. Now because in the order of nature conceptions of
the intellect precede vocal sounds, which are uttered to express them, he
assigns the difference in respect to the significations of vocal sounds from a
likeness to the difference in intellection. Thus the manifestation is from a
likeness and at the same time from the cause which the effects imitate. 2. Est
ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio
intellectus, ut traditur in III de anima. In quarum una non invenitur verum et
falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima
aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate
habet alterum horum. Et quia voces significativae [notae, signa, vestigial]
formantur ad exprimendas – exprimere -- conceptiones – conceptus -- intellectus,
ideo ad hoc quod *signum* [signans – segno -- segnante] conformetur [conformatur]
signato [segnato], necesse est quod etiam vocum significativarum similiter
quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso. The
operation of the intellect is twofold, as was said in the beginning, and as is
explained in III De anima [6: 430a 26]. Now truth and falsity is found in one
of these operations but not in the other. This is what Aristotle says at the
beginning of this portion of the text, i.e., that in the soul sometimes there
is thought without truth and falsity, but sometimes of necessity it has one or
the other of these. And since significant vocal sounds are formed to express
these conceptions of the intellect, it is necessary that some significant vocal
sounds signify without truth and falsity, others with truth and falsity—in
order that the sign be conformed to what is signified. 3 Deinde cum dicit:
circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod
dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione
vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad
ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque
autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem
et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus
est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit
absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est
homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus
est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit.
Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et
dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione
non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Then when he says, for in
composition and division there is truth and falsity, he manifests what he has
just said: first with respect to what he has said about thought; secondly, with
respect to what he has said about the likeness of vocal sounds to thought,
where he says Names and verbs, then are like understanding without composition
or division, etc. To show that sometimes there is thought without truth or
falsity and sometimes it is accompanied by one of these, he says first that
truth and falsity concern composition and division. To understand this we must
note again that one of the two operations of the intellect is the understanding
of what is indivisible. This the intellect does when it understands the
quiddity or essence of a thing absolutely, for instance, what man is or what
white is or what something else of this kind is. The other operation is the one
in which it composes and divides simple concepts of this kind. He says that in
this second operation of the intellect, i.e., composing and dividing, truth and
falsity is found; the conclusion being that it is not found in the first, as he
also says in III De anima [6: 430a 26]. 4 Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. There seems to be a difficulty about this point,
for division is made by resolution to what is indivisible, or simple, and
therefore it seems that just as truth and falsity is not in simple things, so
neither is it in division. To answer this it should be pointed out that the
conceptions of the intellect are likenesses of things and therefore the things
that are in the intellect can be considered and named in two ways: according to
themselves, and according to the nature of the things of which they are the
likenesses. For just as a statue—say of Hercules—in itself is called and is
bronze but as it is a likeness of Hercules is named man, so if we consider the
things that are in the intellect in themselves, there is always composition
where there is truth and falsity, for they are never found in the intellect
except as it compares one simple concept with another. But if the composition
is referred to reality, it is sometimes called composition, sometimes division:
composition when the intellect compares one concept to another as though
apprehending a conjunction or identity of the things of which they are
conceptions; division, when it so compares one concept with another that it
apprehends the things to be diverse. In vocal sound, therefore, affirmation is
called composition inasmuch as it signifies a conjunction on the part of the
thing and negation is called division inasmuch as it signifies the separation
of things. 5 Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione
veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut
dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur.
Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei,
non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima
quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componit
vel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in
intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et
tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem
et divisionem. There is still another objection in relation to this point. It
seems that truth is not in composition and division alone, for a thing is also
said to be true or false. For instance, gold is said to be true gold or false
gold. Furthermore, being and true are said to be convertible. It seems,
therefore, that the simple conception of the intellect, which is a likeness of
the thing, also has truth and falsity. Again, the Philosopher says in his book
De anima [II, 6: 418a 15], that the sensation of proper sensibles is always
true. But the sense does not compose or divide. Therefore, truth is not in
composition and division exclusively. Moreover, in the divine intellect there
is no composition, as is proved in XII Metaphysicae [9: 1074b 15–1075a 11]. But
the first and highest truth is in the divine intellect. Therefore, truth is not
in composition and division exclusively. 6 Ad huiusmodi igitur evidentiam
considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut
in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum.
Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in
compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi
secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet. To answer these
difficulties the following considerations are necessary. Truth is found in
something in two ways: as it is in that which is true, and as it is in the one
speaking or knowing truth. Truth as it is in that which is true is found in
both simple things and composite things, but truth in the one speaking or
knowing truth is found only according to composition and division. This will
become clear in what follows. 7 Verum enim, ut philosophus dicit in VI
Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod
hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces
quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines.
Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno
quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad
intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum
quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem
naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut
posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in
hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent
simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur
tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum,
non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Truth, as the Philosopher says
in VI Ethicorum [2: 1139a 28-30], is the good of the intellect. Hence, anything
that is said to be true is such by reference to intellect. Now vocal sounds are
related to thought as signs, but things are related to thought as that of which
thoughts are likenesses. It must be noted, however, that a thing is related to
thought in two ways: in one way as the measure to the measured, and this is the
way natural things are related to the human speculative intellect. Whence
thought is said to be true insofar as it is conformed to the thing, but false
insofar as it is not in conformity with the thing. However, a natural thing is
not said to be true in relation to our thought in the way it was taught by
certain ancient natural philosophers who supposed the truth of things to be
only in what they seemed to be. According to this view it would follow that
contradictories could be at once true, since the opinions of different men can
be contradictory. Nevertheless, some things are said to be true or false in
relation to our thought—not essentially or formally, but effectively—insofar as
they are so constituted naturally as to cause a true or false estimation of
themselves. It is in this way that gold is said to be true or false. In another
way, things are compared to thought as measured to the measure, as is evident
in the practical intellect, which is a cause of things. In this way, the work
of an artisan is said to be true insofar as it achieves the conception in the
mind of the artist, and false insofar as it falls short of that conception. 8
Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut
artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera
secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam
falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia
quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde
philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum. Now all natural
things are related to the divine intellect as artifacts to art and therefore a
thing is said to be true insofar as it has its own form, according to which it
represents divine art; false gold, for example, is true copper. It is in terms
of this that being and true are converted, since any natural thing is conformed
to divine art through its form. For this reason the Philosopher in I Physicae
[9: 192a 17] says that form is something divine. 9. Et sicut res dicitur vera
per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non
tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem
conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest
huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus
potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod
veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere
autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita
esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus
non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa. And
just as a thing is said to be true by comparison to its measure, so also is
sensation or thought, whose measure is the thing outside of the soul.
Accordingly, sensation is said to be true when the sense through its form is in
conformity with the thing existing outside of the a soul. It is in this way
that the sensation of proper sensibles is true, and the intellect apprehending
what a thing is apart from composition and division is always true, as is said
in III De anima [3: 427b 12; 428a 11; 6: 43a 26]. It should be noted, however,
that although the sensation of the proper object is true the sense does not
perceive the sensation to be true, for it cannot know its relationship of
conformity with the thing but only apprehends the thing. The intellect, on the
other hand, can know its relationship of conformity and therefore only the
intellect can know truth. This is the reason the Philosopher says in VI
Metaphysicae [4: 1027b 26] that truth is only in the mind, that is to say, in
one knowing truth. To know this relationship of conformity is to judge that a
thing is such or is not, which is to compose and divide; therefore, the
intellect does not know truth except by composing and dividing through its
judgment. If the judgment is in accordance with things it will be true, i.e.,
when the intellect judges a thing to be what it is or not to be what it is not.
The judgment will be false when it is not in accordance with the thing, i.e.,
when it judges that what is, is not, or that what is not, is. It is evident
from this that truth and falsity as it is in the one knowing and speaking is
had only in composition and division. This is what the Philosopher is speaking
of here. And since vocal sounds are signs of thought, that vocal sound will be
true which signifies true thought, false which signifies false thought,
although vocal sound insofar as it is a real thing is said to be true in the
same way other things are. Thus the vocal sound "Man is an ass” is truly
vocal sound and truly a sign, but because it is a sign of something false it is
said to be false. 10 Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic
loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate
rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini
de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus
noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus
cognoscit compositionem et divisionem simpliciter. It should be noted that the
Philosopher is speaking of truth here as it relates to the human intellect,
which judges of the conformity of things and thought by composing and dividing.
However, the judgment of the divine intellect concerning this is without
composition and division, for just as our intellect understands material things
immaterially, so the divine intellect knows composition and division simply.” Deinde
cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de
similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum. Secundo,
probat per signum. Ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex
praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et
falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim
accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut
cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel
falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. When
he says, Names and verbs, then, are like thought without composition or
division, he manifests what he has said about the likeness of vocal sounds to
thought. Next he proves it by a sign when he says, A sign of this is that
"goatstag” signifies something but is neither true nor false, etc. Here he
concludes from what has been said that since there is truth and falsity in the
intellect only when there is composition or division, it follows that names and
verbs, taken separately, are like thought which is without composition and
division; as when we say "man” or "white,” and nothing else is added.
For these are neither true nor false at this point, but when "to be” or
"not to be” is added they be come true or false. Nec est instantia de eo,
qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum
quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur
verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non
significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de
verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his
intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est *implicita* --
im-plicata – implicatura – implicitura -- compositio, licet non explicita –
ex-plicata – explicatura – explicitura --.
Although one might think so, the case of someone giving a,, single name
as a true response to a question is not an instance that can be raised against
this position; for example, suppose someone asks, "What swims in the sea?”
and the answer is "Fish”; this is not opposed to the position Aristotle is
taking here, for the verb that was posited in the question is understood. And
just as the name said by itself does not signify truth or falsity, so neither
does the verb said by itself. The verbs of the first and second person and the
intransitive verb” are not instances opposed to this position either, for in
these a particular and determined nominative is understood. Consequently there
is implicit composition, though not explicit. 13. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet “hirco-cervus”, quod componitur ex
“hirco” et “cervus” et quod in graeco dicitur “tragelaphos” -- nam “tragos” est
‘hircus’, et “elaphos” ‘cervus’. [Benedetto Croce – Calogero – antifascism –
liberaldemocrazia – Berlusconi – ‘che diavolo e un icocerco? Una chimera, ma
anche un obggetivo possibile”] Huiusmodi enim nomina significant aliquid,
scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est
verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur
iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum
praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse
simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse
simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse.
Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum
natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione
non possit verum vel falsum esse. Then
he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is
neither true nor false unless "to be or "not to be” is added either
absolutely or according to time. Here he introduces as a sign the composite
name "goatstag,” from "goat” and "stag.” In Greek the word is
"tragelaphos,” from "tragos” meaning goat and "elaphos” meaning
stag. Now names of this kind signify something, namely, certain simple concepts
(although the things they signify are composite), and therefore are not true or
false unless "to be” or "not to be” is added, by which a judgment of
the intellect is expressed. The "to be” or "not to be” can be added
either according to present time, which is to be or not to be in act and for
this reason is to be simply; or according to past or future time, which is to
be relatively, not simply; as when we say that something has been or will be.
Notice that Aristotle expressly uses as an example here a name signifying
something that does not exist in reality, in which fictiveness is immediately
evident, and which cannot be true or false without composition and
division. IV. 1. Postquam [Aristoteles] philosophus determinavit
de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
signi-ficativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est
subiectum huius libri. In qualibet autem scientia oportet praenoscere principia
subiecti. Ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione. Ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo
facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet
partes integrales ipsius. Secundo, determinat principium formale, scilicet
orationem, quae est enunciationis genus. Ibi: oratio autem est vox signi-ficativa
et cetera. Circa primum duo facit. Primo, determinat de nomine, quod signi-ficat
rei substantiam. Secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel
passionem procedentem a re. Ibi: verbum autem est quod con-significat tempus et
cetera. Circa primum tria facit. Primo, definit nomen; secundo, definitionem
exponit. Ibi: in nomine enim quod est equiferus etc. Tertio, excludit quaedam,
quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen. [“Having
determined the order of the signification of vocal sounds, the Philosopher
begins here to establish the definitions of the significant vocal sounds. His
principal intention is to establish what an enunciation is—which is the subject
of this book—but since in any science the principles of the subject must be
known first, he begins with the principles of the enunciation and then
establishes what an enunciation is where he says, All speech is not
enunciative, etc.” With respect to the principles of the enunciation he first
determines the nature of the quasi material principles, i.e., its integral
parts, and secondly the formal principle, i.e., speech, which is the genus of the
enunciation, where he says, Speech is significant vocal sound, etc.” Apropos of
the quasi material principles of the enunciation he first establishes that a
name signifies the substance of a thing and then that the verb signifies action
or passion proceeding from a thing, where he says The verb is that which
signifies with time, etc.” In relation to this first point, he first defines
the name, and then explains the definition where he says, for in the name
"Campbell” the part "bell,” as such, signifies nothing, etc., and
finally excludes certain things—those that do not have the definition of the
name perfectly—where he says, "Non-man,” however, is not a name, etc.”] 2.
Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia
includit totaliter rem. Ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem,
cui scilicet definitio non conveniat. Nec aliquid aliud est infra definitionem,
cui scilicet definitio conveniat. [“It should be noted in relation to defining
the name, that a definition is said to be a limit because it includes a thing
totally, i.e., such that nothing of the thing is outside of the definition,
that is, there is nothing of the thing to which the definition does not belong;
nor is any other thing under the definition, that is, the definition belongs to
no other thing.”] 3 Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo,
ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis,
qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum
imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima
differentia, scilicet *signi-ficativa*, ad differentiam quarumcumque vocum non
significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut “biltris”, sive non
litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de signi-ficatione
vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est
vox signi-ficativa. Aristotle posits five parts in the definition of the name.
Vocal sound is given first, as the genus. This distinguishes the name from all
sounds that are not vocal; for vocal sound is sound produced from the mouth of
an animal and involves a certain kind of mental image, as is said in II De
anima [8: 420b 30-34]. The second part is the first difference, i.e.,
significant, which differentiates the name from any non-significant vocal
sound, whether lettered and articulated, such as "biltris,” or
non-lettered and non-articulated, as a hissing for no reason. Now since he has
already determined the signification of vocal sounds, he concludes from what
has been established that a name is a significant vocal sound. 4 Sed cum vox sit quaedam res *naturalis*,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est *ex natura*, sed magis *signum*,
quod est *ex institutione*. Ut diceretur: nomen est *signum* vocale. Sicut
etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum,
quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas. But vocal sound is a natural thing, whereas a
name is not natural but instituted by men; it seems, therefore, that Aristotle
should have taken sign, which is from institution, as the genus of the name,
rather than vocal sound, which is from nature. Then the definition would be: a
name is a vocal sign, etc., just as a salver would be more suitably defined as
a wooden dish than as wood formed into a dish. 5. Sed dicendum quod *arti-ficialia*
sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem
accidentium ex parte formae. Nam formae *arti-ficialium* accidentia sunt. Nomen
ergo signi-ficat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto signi-ficant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum *arti-ficialium* significant formas
accidentales, ut concretas subiectis *naturalibus*, convenientius est, ut in
eorum definitione ponatur res *naturalis* quasi genus, ut dicamus quod scutella
est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox signi-ficativa. Secus
autem esset, si nomina *arti-ficialium* acciperentur, quasi signi-ficantia
ipsas formas arti-ficiales in abstracto. [5. “It should be noted, however, that
while it is true that artificial things are in the genus of substance on the
part of matter, they are in the genus of accident on the part of form, since
the forms of artificial things are accidents. A name, therefore, signifies an
accidental form made concrete in a subject. Now the subject must be posited in
the definition of every accident; hence, when names signify an accident in the
abstract the accident has to be posited directly (i.e., in the nominative case)
as a quasi-genus in their definition and the subject posited obliquely (i.e.,
in an oblique case such as the genitive, dative, or accusative) as a
quasi-difference; as for example, when we define snubness as curvedness of the
nose. But when names signify an accident ill the concrete, the matter or
subject has to be posited in their definition as a quasi-genus and the accident
as a quasi-difference, as when we say that a snub nose is a curved nose.
Accordingly, if the names of artificial things signify accidental forms as made
concrete in *natural* subjects, then it is more appropriate to posit the
natural thing in their definition as a quasi-genus. We would say, therefore,
that a salver is shaped wood, and likewise, that a name is a significant vocal
sound. It would be another matter if names of *artificial* things were taken as
signifying artificial forms in the abstract”]. 6. Tertio, Aristotele ponit
secundam differentiam cum dicit: ‘secundum placitum’, idest *secundum
institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem*. Et per hoc differt
nomen a vocibus signi-FICANTIBUS *naturaliter*, sicut sunt *gemitus infirmorum*
[gemitus infirmi] et voces brutorum animalium. 7. Quarto, ponit tertiam
differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur
hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum
quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus,
secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut
quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur,
in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur
est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat
actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se
considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum
huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui,
prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant
cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa
habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut
cras, heri et huiusmodi. The fourth part is the third difference, i.e., without
time, which differentiates the name from the verb. This, however, seems to be
false, for the name "day” or "year” signifies time. But there are
three things that can be considered with respect to time; first, time itself,
as it is a certain kind of thing or reality, and then it can be signified by a
name just like any other thing; secondly, that which is measured by time,
insofar as it is measured by time. Motion, which consists of action and
passion, is what is measured first and principally by time, and therefore the
verb, which signifies action and passion, signifies with time. Substance
considered in itself, which a name or a pronoun signify, is not as such
measured by time, but only insofar as it is subjected to motion, and this the
participle signifies. The verb and the participle, therefore, signify with
time, but not the name and pronoun. The third thing that can be considered is
the very relationship of time as it measures. This is signified by adverbs of
time such as "tomorrow,” "yesterday,” and others of this kind. 8 Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa
separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis
secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma
nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab
homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione,
cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. The fifth part is
the fourth difference, no part of which is significant separately, that is,
separated from the whole name; but it is related to the signification of the
name according as it is in the whole. The reason for this is that signification
is a quasi-form of the name. But no separated part has the form of the whole;
just as the hand separated from the man does not have the human form. This
difference distinguishes the name from speech, some parts of which signify
separately, as for example in "just man.” 9 Deinde cum dicit: in nomine
enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad
ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et
cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem
particula, scilicet sine tempore, manifestabitur in sequentibus in tractatu de
verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina
composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et
composita; ibi: at vero nonquemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod
pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc
magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se
nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius
ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem
intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo
quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam
non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei.
Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum
conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua
imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem
compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae. When
he says, for in the name "Campbell” the part "bell” as such signifies
nothing, etc., he explains the definition. First he explains the last part of
the definition; secondly, the third part, by convention. The first two parts
were explained in what preceded, and the fourth part, without time, will be
explained later in the section on the verb. And first he explains the last part
by means of a composite name; then he shows what the difference is between
simple and composite names where he says, However the case is not exactly the
same in simple names and composite names, etc. First, then, he shows that a
part separated from a name signifies nothing. To do this he uses a composite
name because the point is more striking there. For in the name "Campbell”
the part "bell” per se signifies nothing, although it does signify
something in the phrase "camp bell.” The reason for this is that one name
is imposed to signify one simple conception; but that from which a name is
imposed to signify is different from that which a name signifies. For example,
the name "pedigree”, The Latin here is lapis, from laesione pedis. To
bring out the point St. Thomas is making herean equivalent English word of
Latin derivation, i.e., "pedigree,” has been used. Close is imposed from
pedis and grus [crane’s foot] which it does not signify, to signify the concept
of a certain thing. Hence, a part of the composite name—which composite name is
imposed to signify a simple concept—does not signify a part of the composite
conception from which the name is imposed to signify. Speech, on the other
hand, does signify a composite conception. Hence, a part of speech signifies a
part of the composite conception. 10. Deinde cum dicit: at vero non etc.,
ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et
dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis:
quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem,
neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam
habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine
equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut
imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad
significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a
composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. When
he says, However, the case is not exactly the same in simple names and
composite names, etc., he shows that there is a difference between simple and
composite names in regard to their parts not signifying separately. Simple
names are not the same as composite names in this respect because in simple names
a part is in no way significant, either according to truth or according to
appearance, but in composite names the part has meaning, i.e., has the
appearance of signifying; yet a part of it signifies nothing, as is said of the
name "breakfast.” The reason for this difference is that the simple name
is imposed to signify a simple concept and is also imposed from a simple
concept; but the composite name is imposed from a composite conception, and
hence has the appearance that a part of it signifies. 11. Deinde cum dicit: “secundum
placitum”, etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit
quod ideo dictum est quod nomen “significat secundum placitum”, quia nullum
nomen est “naturaliter”. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat
*naturaliter*, sed *ex institutione*. Et hoc est quod subdit: sed quando fit
nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter
significat *non fit* [cfr. signi-FICARE], sed naturaliter est signum. Et hoc *signi-ficat*
cum dicit. Illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris *signi-FICARI*
non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent
vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias *passiones* *naturaliter*
*signi-FICANT*. Nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur
intelligi quod nomen non significat naturaliter. --- 12. Sciendum tamen est
quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina
nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine
significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant,
quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod
nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non
est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter
significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec
obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse
multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei
multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum
nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim
quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia
nullus talis sonus est nomen, ut dictum est. However, there were diverse
opinions about this. Some men said that names in no way signify naturally and
that it makes no difference which things are signified by which names. Others
said that names signify naturally in every way, as if names were natural
likenesses of things. Still others said names do not signify naturally, i.e.,
insofar as their signification is not from nature, as Aristotle maintains here,
but that names do signify naturally in the sense that their signification
corresponds to the natures of things, as Plato held. The fact that one thing is
signified by many names is not in opposition to Aristotle’s position here, for
there can be many likenesses of one thing; and similarly, from diverse
properties many diverse names can be imposed on one thing. When Aristotle says,
but none of them is a name, he does not mean that the sounds of animals are not
named, for we do have names for them; "roaring,” for example, is said of
the sound made by a lion, and "lowing” of that of a cow. What he means is
that no such sound is a name. 13 Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit
quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum;
ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est
nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut
personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed
hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam
significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de
ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non
est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in
rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a
privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a
negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt.
Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari,
requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum
tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est
oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus
compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia
huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et
ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter
indeterminationem significationis, ut dictum est. When he says, "Non-man,”
however, is not a name, etc., he points out that certain things do not have the
nature of a name. First he excludes the infinite name; then the cases of the
name where he says, "Of Philo” and "to Philo,” etc. He says that
"non-man” is not a name because every name signifies some determinate
nature, for example, "man,” or a determinate person in the case of the
pronoun, or both determinately, as in "Socrates.” But when we say
"non-man” it signifies neither a determinate nature nor a determinate
person, because it is imposed from the negation of man, which negation is
predicated equally of being and non-being. Consequently, "non-man” can be said
indifferently both of that which does not exist in reality, as in "A
chimera is non-man,” and of that which does exist in reality, as in "A
horse is non-man.” Now if the infinite name were imposed from a privation it
would require at least an existing subject, but since it is imposed from a
negation, it can be predicated of being and nonbeing, as Boethius and Ammonius
say. However, since it signifies in the mode of a name, and can therefore be
subjected and predicated, a suppositum is required at least in apprehension. In
the time of Aristotle there was no name for words of this kind. They are not
speech since a part of such a word does not signify something separately, just
as a part of a composite name does not signify separately; and they are not
negations, i.e., negative speech, for speech of this kind adds negation to
affirmation, which is not the case here. Therefore he imposes a new name for
words of this kind, the "infinite name,” because of the indetermination of
signification, as has been said. 14 Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni
etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia
huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen,
per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem
obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis
originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem
dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod
cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo
quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui
cadens ligno infigitur. When he says, "Of Philo” and "to Philo” and
all such expressions are not names but modes of names, he excludes the cases of
names from the nature of the name. The nominative is the one that is said to be
a name principally, for the imposition of the name to signify something was
made through it. Oblique expressions of the kind cited are called cases of the
name because they fall away from the nominative as a kind of source of their
declension. On the other hand, the nominative, because it does not fall away,
is said to be erect. The Stoics held that even the nominatives were cases (with
which the grammarians agree), because they fall, i.e., proceed from the
interior conception of the mind; and they said they were also called erect
because nothing prevents a thing from falling in such a way that it stands
erect, as when a pen falls and is fixed in wood. Aquinas lib. 1 l. 4 n.
15Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se
habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est
eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen
adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel
falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de
verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae
cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem,
quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia
habet Socratem. Then he says, The definition of these is the same in all other
respects as that of the name itself, etc. Here Aristotle shows how oblique
cases are related to the name. The definition, as it signifies the name, is the
same in the others, namely, in the cases of the name. But they differ in this
respect: the name joined to the verb "is” or "will be” or "has
been” always signifies the true or false; in oblique cases this is not so. It
is significant that the substantive verb is the one he uses as an example, for
there are other verbs, i.e., impersonal verbs, that do signify the true or
false when joined with a name in an oblique case, as in "It grieves
Socrates,” because the act of the verb is understood to be carried over to the
oblique cases, as though what were said were, "Grief possesses Socrates.”
Aquinas lib. 1 l. 4 n. 16Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt
nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis
convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen,
postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel
dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim
infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat
secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. However, an objection
could be made against Aristotle’s position in this portion of his text. If the
infinite name and the cases of the name are not names, then the definition of
the name (which belongs to these) is not consistently presented. There are two
ways of answering this objection. We could say, as Ammonius does, that
Aristotle defines the name broadly, and afterward limits the signification of
the name by subtracting these from it. Or, we could say that the definition
Aristotle has given does not belong to these absolutely, since the infinite
name signifies nothing determinate, and the cases of the name do not signify
according to the first intent of the one instituting the name, as has been
said. V. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de
verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit
quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio,
ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta
verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi;
secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera. After
determining the nature of the name the Philosopher now determines the nature of
the verb. First he defines the verb; secondly, he excludes certain forms of
verbs from the definition, where he says, "Non-matures” and
"non-declines” I do not call verbs, etc.; finally, he shows in what the
verb and name agree where he says, Verbs in themselves, said alone, are names,
etc. First, then, he defines the verb and immediately begins to explain the definition
where he says, I mean by "signifies with time,” etc. 2 Est autem
considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione
verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis
ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in
definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet
quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis
quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam
distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. In order to be brief, Aristotle does not give what is common to the
name and the verb in the definition of the verb, but leaves this for the reader
to understand from the definition of the name. He posits three elements in the
definition of the verb. The first of these distinguishes the verb from the
name, for the verb signifies with time, the name without time, as was stated in
its definition. The second element, no part of which signifies separately,
distinguishes the verb from speech. 3 Sed cum hoc etiam positum sit in
definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum
est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in
definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae
componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam
quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri,
ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari.
Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua
perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur
verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen,
quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. This second element was also given in the definition of the name and
therefore it seems that this second element along with vocal sound significant
by convention, should have been omitted. Ammonius says in reply to this that
Aristotle posited this in the definition of the name to distinguish it from
speech which is composed of names, as in "Man is an animal”; but speech
may also be composed of verbs, as in "To walk is to move”; therefore, this
also bad to be repeated in the definition of the verb to distinguish it from
speech. We might also say that since the verb introduces the composition which
brings about speech signifying truth or falsity, the verb seems to be more like
speech (being a certain formal part of it) than the name which is a material
and subjective part of it; therefore this had to be repeated. 4 Tertia vero
particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a
participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae
de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia
possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte
praedicati. The third element distinguishes the verb not only from the name,
but also from the participle, which also signifies with time. He makes this
distinction when he says, and it is a sign of something said of something else,
i.e., names and participles can be posited on the part of the subject and the
predicate, but the verb is always posited on the part of the predicate. 5 Sed
hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur
ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod
verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et
in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum
sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem
aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet
actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo,
per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum
dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum
actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto,
et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis.
Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab
intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi
modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi
ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res
quasdam. But it seems that verbs are used as subjects. The verb in the
infinitive mode is an instance of this, as in the example, "To walk is to
be moving.” Verbs of the infinitive mode, however, have the force of names when
they are used as subjects. (Hence in both Greek and ordinary Latin usage
articles are added to them as in the case of names.) The reason for this is
that it is proper to the name to signify something as existing per se, but
proper to the verb to signify action or passion. Now there are three ways of
signifying action or passion. It can be signified per se, as a certain thing in
the abstract and is thus signified by a name such as "action,”
"passion,” "walking,” "running,” and so on. It can also be signified
in the mode of an action, i.e., as proceeding from a substance and inhering in
it as in a subject; in this way action or passion is signified by the verbs of
the different modes attributed to predicates. Finally—and this is the third way
in which action or passion can be signified—the very process or inherence of
action can be apprehended by the intellect and signified as a thing. Verbs of
the infinitive mode signify such inherence of action in a subject and hence can
be taken as verbs by reason of concretion, and as names inasmuch as they
signify as things. 6 Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum
modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum.
Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur
formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod
materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam
verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in
vi nominum. On this point the objection may also be raised that verbs of other
modes sometimes seem to be posited as subjects; for example when we say,
"‘Matures’is a verb.” In such a statement, however, the verb
"matures” is not taken formally according as its signification is referred
to a thing, but as it signifies the vocal sound itself materially, which vocal
sound is taken as a thing. When posited in this way, i.e., materially, verbs
and all parts of speech are taken with the force of names. 7 Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat
etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod
consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum
quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem
particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia
supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum
consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat
actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non
consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans
actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari;
actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod
consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud
est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini
convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini,
sed verbo. Then he says, I mean by "signifies with time” that
"maturity,” for example, is a name, but "matures” is a verb, etc.”’
With this he begins to explain the definition of the verb: first in regard to
signifies with time; secondly, in regard to the verb being a sign of something
said of something else. He does not explain the second part, no part of which
signifies separately, because an explanation of it has already been made in
connection with the name. First, he shows by an example that the verb signifies
with time. "Maturity,” for example, because it signifies action, not in
the mode of action but. in the mode of a thing existing per se, does not
signify with time, for it is a name. But "matures,” since it is a verb
signifying action, signifies with time, because to be measured by time is
proper to motion; moreover, actions are known by us in time. We have already
mentioned that to signify with time is to signify something measured in time.
Hence it is one thing to signify time principally, as a thing, which is appropriate
to the name; however, it is another thing to signify with time, which is not
proper to the name but to the verb. 8 Deinde cum dicit: et est semper etc.,
exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Then he says, Moreover, a verb is always a sign
of something that belongs to something, i.e., of something present in a
subject. Here he explains the last part of the definition of the verb. It
should be noted first that the subject of an enunciation signifies as that in
which something inheres. Hence, when the verb signifies action through the mode
of action (the nature of which is to inhere) it is always posited on the part
of the predicate and never on the part of the subject—unless it is taken with
the force of a name, as was said. The verb, therefore, is always said to be a
sign of something said of another, and this not only because the verb always
signifies that which is predicated but also because there must be a verb in
every predication, for the verb introduces the composition by which the predicate
is united with the subject. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 9Sed dubium videtur quod
subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid
dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in
subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si
ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens
est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur
dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad
idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est.
Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque
significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper
est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi
significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur
magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur,
magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper
est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum
ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. The last phrase of this portion of the text presents a
difficulty, namely, "of something belonging to [i.e., of] a subject or in
a subject.” For it seems that something is said of a subject when it is
predicated essentially, as in "Man is an animal”; but in a subject, when
it is an accident that is predicated of a subject, as in "Man is white.”
But if verbs signify action or passion (which are accidents), it follows that
they always signify what is in a subject. It is useless, therefore, to say
"belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” In answer to this
Boethius says that both pertain to the same thing, for an accident is
predicated of a subject and is also in a subject. Aristotle, however, uses a
disjunction, which seems to indicate that he means something different by each.
Therefore it could be said in reply to this that when Aristotle says the verb
is always a sign of those things that are predicated of another” it is not to
be understood as though the things signified by verbs are predicated. For
predication seems to pertain more properly to composition; therefore, the verbs
themselves are what are predicated, rather than signify predicates.” The verb,
then, is always a sign that something is being predicated because all
predication is made through the verb by reason of the composition introduced,
whether what is being predicated is predicated essentially or accidentally.
Aquinas lib. 1 l. 5 n. 10Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: et hoc ideo, quia negatio
reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem
vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. When he says,
"Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc., he
excludes certain forms of verbs from the definition of the verb. And first he
excludes the infinite verb, then the verbs of past and future time.
"Non-matures” and "non-declines” cannot strictly speaking be called
verbs for it is proper to the verb to signify something in the mode of action
or passion. But these words remove action or passion rather than signify a
determinate action or passion. Now while they cannot properly be called verbs,
all the parts of the definition of the verb apply to them. First of all the
verb signifies time, because it signifies to act or to be acted upon; and since
these are in time so are their privations; whence rest, too, is measured by
time, as is said in VI Physicorum [3:234a 24–234b 9; & 8: 238a 23–239b 41].
Again, the infinite verb is always posited on the part of the predicate just as
the verb is; the reason is that negation is reduced to the genus of
affirmation. Hence, just as the verb, which signifies action or passion, signifies
something as existing in another, so the foresaid words signify the remotion of
action or passion. 11 Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus
convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi
supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones
negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante
Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed
quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a
determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis
assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel
de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in
vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum.
Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita
sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum. Now
someone might object that if the definition of the verb applies to the above
words, then they are verbs. In answer to this it should be pointed out that the
definition which has been given of the verb is the definition of it taken
commonly. Insofar as these words fall short of the perfect notion of the verb,
they are not called verbs. Before Aristotle’s time a name bad not been imposed
for a word that differs from verbs as these do. He calls them infinite verbs
because such words agree in some things with verbs and yet fall short of the determinate
notion of the verb. The reason for the name, he says, is that an infinite verb
can be said indifferently of what is or what is not; for the adjoined negation
is taken, not with the force of privation, but with the force of simple
negation since privation supposes a determinate subject. Infinite verbs do
differ from negative verbs, however, for infinite verbs are taken with the
force of one word, negative verbs with the force of two. 12 Deinde cum dicit:
similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri
temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita
etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti
temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo,
quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et
inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter
praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in
instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens
tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per
actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non
sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel
pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est
agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est
secundum quid. When he says, Likewise, "has matured” and "will mature”
are not verbs, but modes of verbs, etc., he excludes verbs of past and future
time from the definition. For just as infinite verbs are not verbs absolutely,
so "will mature,” which is of future time, and "has matured,” of past
time, are not verbs. They are cases of the verb and differ from the verb—which
signifies with present time—by signifying time before and after the present.
Aristotle expressly says "present time” and not just "present”
because he does not mean here the indivisible present which is the instant; for
in the instant there is neither movement, nor action, nor passion. Present time
is to be taken as the time that measures action which has begun and has not yet
been terminated in act. Accordingly, verbs that signify with past or future time
are not verbs in the proper sense of the term, for the verb is that which
signifies to act or to be acted upon and therefore strictly speaking signifies
to act or to be acted upon in act, which is to act or to be acted upon simply,
whereas to act or to be acted upon in past or future time is relative. 13 Dicuntur
etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod
consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per
respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem
quod erit praesens. It is with reason that verbs of past or future time are
called cases of the verb signifying with present time, for past or future are
said with respect to the present, the past being that which was present, the
future, that which will be present. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 14Cum autem
declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio
quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis
variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae
est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit
casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et
verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis
temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Although the
inflection of the verb is varied by mode, time, number, and person, the
variations that are made in number and person do not constitute cases of the
verb, the reason being that such variation is on the part of the subject, not
on the part of the action. But variation in mode and time refers to the action
itself and hence both of these constitute cases of the verb. For verbs of the
imperative or optative modes are called cases as well as verbs of past or
future time. Verbs of the indicative mode in present time, however, are not
called cases, whatever their person and number. 15 Deinde cum dicit: ipsa
itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit:
primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et
significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se
dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi
nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est
moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non
videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent
sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter
significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia
etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in
quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus
comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur,
significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se
existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari. He points out the
conformity between verbs and names where he says, Verbs in themselves, said
alone, are names. He proposes this first and then manifests it. He says then,
first, that verbs said by themselves are names. Some have taken this to mean
the verbs that are taken with the force of names, either verbs of the
infinitive mode, as in "To run is to be moving,” or verbs of another mode,
as in "‘Matures’ is a verb.” But this does not seem to be what Aristotle
means, for it does not correspond to what he says next. Therefore "name”
must be taken in another way here, i.e., as it commonly signifies any word
whatever that is imposed to signify a thing. Now, since to act or to be acted
upon is also a certain thing, verbs themselves as they name, i.e., as they
signify to act or to be acted upon, are comprehended under names taken
commonly. The name as distinguished from the verb signifies the thing under a
determinate mode, i.e., according as the thing can be understood as existing
per se. This is the reason names can be subjected and predicated. 6 Deinde cum
dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod
verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non
significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et
cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in
quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. He proves the point he has just made when he says,
and signify something, etc., first by showing that verbs, like names, signify
something; then by showing that, like names, they do not signify truth or
falsity when he says, for the verb is not a sign of the being or nonbeing of a
thing. He says first that verbs have been said to be names only insofar as they
signify a thing. Then he proves this: it has already been said that significant
vocal sound signifies thought; hence it is proper to significant vocal sound to
produce something understood in the mind of the one who hears it. To show,
then, that a verb is significant vocal sound he assumes that the one who utters
a verb brings about understanding in the mind of the one who bears it. The
evidence he introduces for this is that the mind of the one who bears it is set
at rest. 17 Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit
quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim
dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem
dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum
duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel
verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae
est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in
suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio
terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem,
quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se
dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. But what Aristotle says
here seems to be false, for it is only perfect speech that makes the intellect
rest. The name or the verb, if said by themselves, do not do this. For example,
if I say "man,” the mind of the hearer is left in suspense as to what I
wish to say about mail; and if I say "runs,” the bearer’s mind is left in
suspense as to whom I am speaking of. It should be said in answer to this
objection that the operation of the intellect is twofold, as was said above,
and therefore the one who utters a name or a verb by itself, determines the
intellect with respect to the first operation, which is the simple conception
of something. It is in relation to this that the one hearing, whose mind was
undetermined before the name or the verb was being uttered and its utterance
terminated, is set at rest. Neither the name nor the verb said by itself,
however, determines the intellect in respect to the second operation, which is
the operation of the intellect composing and dividing; nor do the verb or the
name said alone set the hearer’s mind at rest in respect to this operation. 18
Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum
significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi.
Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa
verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet
ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum
neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde
multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis.
Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter
manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest
quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia
currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia
non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum,
scilicet rem esse vel non esse. Aristotle therefore immediately adds, but they
do not yet signify whether a thing is or is not, i.e., they do not yet signify
something by way of composition and division, or by way of truth or falsity.
This is the second thing he intends to prove, and he proves it by the verbs
that especially seem to signify truth or falsity, namely the verb to be and the
infinite verb to non-be, neither of which, said by itself, signifies real truth
or falsity; much less so any other verbs. This could also be understood in a
more general way, i.e., that here he is speaking of all verbs; for he says that
the verb does not signify whether a thing is or is not; he manifests this
further, therefore, by saying that no verb is significative of a thing’s being
or non-being, i.e., that a thing is or is not. For although every finite verb
implies being, for "to run” is "to be running,” and every infinite
verb implies nonbeing, for "to non-run” is "to be non-running,”
nevertheless no verb signifies the whole, i.e., a thing is or a thing is not. 19
Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc
ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in
Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad
probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id
quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil
est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis;
omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur
quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum
significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum
quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde
simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia
dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc,
quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum
facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum
ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed
solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam
compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc
convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum
coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones
aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod
ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius
assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur
hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum
consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet
alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine
extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis,
non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit
ipsum ens quasi quoddam speciale. He proves this point from something in which
it will be clearer when he adds, Nor would it be a sign of the being or
nonbeing of a thing if you were to say "is” alone, for it is nothing. It
should be noted that the Greek text has the word "being” in place of
"is” here. In order to prove that verbs do not signify that a thing is or
is not, he takes the source and origin of to be [esse], i.e., being [ens]
itself, of which he says, it is nothing. Alexander explains this passage in the
following way: Aristotle says being itself is nothing because "being”
[ens] is said equivocally of the ten predicaments; now an equivocal name used
by itself signifies nothing unless something is added to determine its
signification; hence, "is” [est] said by itself does not signify what is
or is not. But this explanation is not appropriate for this text. In the first
place "being” is not, strictly speaking, said equivocally but according to
the prior and posterior. Consequently, said absolutely, it is understood of
that of which it is said primarily. Secondly, an equivocal word does not
signify nothing, but many things, sometimes being taken for one, sometimes for
another. Thirdly, such an explanation does not have much application here.
Porphyry explains this passage in another way. He says that "being” [ens]
itself does not signify the nature of a thing as the name "man” or
"wise” do, but only designates a certain conjunction and this is why
Aristotle adds, it signifies with a composition, which cannot be conceived
apart from the things composing it. This explanation does not seem to be consistent
with the text either, for if "being” itself does not signify a thing, but
only a conjunction, it, like prepositions and conjunctions, is neither a name
nor a verb. Therefore Ammonius thought this should be explained in another way.
He says "being itself is nothing” means that it does not signify truth or
falsity. And the reason for this is given when Aristotle says, it signifies
with a composition. The "signifies with,” according to Ammonius, does not
mean what it does when it is said that the verb signifies with time;
"signifies with,” means here signifies with something, i.e., joined to
another it signifies composition, which cannot be understood without the
extremes of the composition. But this explanation does not seem to be in
accordance with the intention of Aristotle, for it is common to all names and
verbs not to signify truth or falsity, whereas Aristotle takes "being”
here as though it were something special. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 20 Et ideo ut
magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod
verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem
esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat
aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil
est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico
quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret
esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio
significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod
dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum
significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non
sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas
et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Therefore in order to understand what Aristotle is saying we
should note that he has just said that the verb does not signify that a thing
exists or does not exist [rem esse vel non esse]; nor does "being” [ens]
signify that a thing exists or does not exist. This is what he means when he
says, it is nothing, i.e., it does not signify that a thing exists. This is
indeed most clearly seen in saying "being” [ens], because being is nothing
other than that which is. And thus we see that it signifies both a thing, when
I say "that which,” and existence [esse] when I say "is” [est]. If
the word "being” [ens] as signifying a thing having existence were to
signify existence [esse] principally, without a doubt it would signify that a
thing exists. But the word "being” [ens] does not principally signify the
composition that is implied in saying "is” [est]; rather, it signifies
with composition inasmuch as it signifies the thing having existence. Such
signifying with composition is not sufficient for truth or falsity; for the
composition in which truth and falsity consists cannot be understood unless it
connects the extremes of a composition. 21 Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut
libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem
esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non
significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur
compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri
significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum
subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest
intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae
si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea
esse verum, vel falsum. If in place of what Aristotle says we say nor would
"to be” itself [nec ipsum esse], as it is in our texts, the meaning is
clearer. For Aristotle proves through the verb "is” [est] that no verb
signifies that a thing exists or does not exist, since "is” said by itself
does not signify that a thing exists, although it signifies existence. And
because to be itself seems to be a kind of composition, so also the verb
"is” [est], which signifies to be, can seem to signify the composition in
which there is truth or falsity. To exclude this Aristotle adds that the
composition which the verb "is” signifies cannot be understood without the
composing things. The reason for this is that an understanding of the
composition which "is” signifies depends on the extremes, and unless they
are added, understanding of the composition is not complete and hence cannot be
true or false. 22 Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo
significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat
hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis
vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel
actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est,
vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est
significat compositionem. Therefore he says that the verb "is” signifies
with composition; for it does not signify composition principally but
consequently. it primarily signifies that which is perceived in the mode of
actuality absolutely; for "is” said simply, signifies to be in act, and
therefore signifies in the mode of a verb. However, the actuality which the
verb "is” principally signifies is the actuality of every form commonly,
whether substantial or accidental. Hence, when we wish to signify that any form
or act is actually in some subject we signify it through the verb "is,”
either absolutely or relatively; absolutely, according to present time,
relatively, according to other times; and for this reason the verb "is”
signifies composition, not principally, but consequently. VI. 1. Postquam
philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia
enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae
est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc
tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam;
ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio
omnis et cetera. Having established and explained the definition of the name
and the verb, which are the material principles of the enunciation inasmuch as
they are its parts, the Philosopher now determines and explains what speech is,
which is the formal principle of the enunciation inasmuch as it is its genus.
First he proposes the definition of speech; then he explains it where he says,
Let me explain. The word "animal” signifies something, etc.; finally, he
excludes an error where he says, But all speech is significant—not just as an
instrument, however, etc. 2 Circa primum
considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud
in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox
significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo
quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat
ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem
frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen
vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. In defining speech the Philosopher first states what it has in
common with the name and verb where he says, Speech is significant vocal sound.
This was posited in the definition of the name but not repeated in the case of
the verb, because it was supposed from the definition of the name. This was
done for the sake of brevity and to avoid repetition; but subsequently he did
prove that the verb signifies something. He repeats this, however, in the
definition of speech because the signification of speech differs from that of
the name and the verb; for the name and the verb signify simple thought,
whereas speech signifies composite thought. 3 Secundo autem ponit id, in quo
oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid
significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non
significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus
partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid
separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et
alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed
solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una
quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum
simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi,
sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat:
pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et
verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem
mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum
vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem
non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Secondly, he
posits what differentiates speech from the name and verb when he says, of which
some of the parts are significant separately; for a part of a name taken
separately does not signify anything per se, except in the case of a name
composed of two parts, as he said above. Note that he says, of which some of
the parts are significant, and not, a part of which is significant separately;
this is to exclude negations and the other words used to unite categorical
words, which do not in themselves signify something absolutely, but only the
relationship of one thing to another. Then because the signification of vocal
sound is twofold, one being referred to composite thought, the other to simple
thought (the first belonging to speech, the second, not to speech but to a part
of speech), he adds, as words but not as an affirmation. What he means is that
a part of speech signifies in the way a word signifies, a name or a verb, for
instance; it does not signify in the way an affirmation signifies, which is
composed of a name and a verb. He only mentions affirmation because negation
adds something to affirmation as far as vocal sound is concerned for if a part
of speech, since it is simple, does not signify as an affirmation, it will not
signify as a negation. 4 Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod
videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes,
quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super
terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in
quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius
est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur
definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia
in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius
definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium,
quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id
quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes
significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed
habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum
affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit
poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de
ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione
orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis,
et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad
sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles
frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur,
subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio:
quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum
quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes
grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione
perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes
partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta
habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes
partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes
referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra
organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt
partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa
ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi.
Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem
perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes
significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam
imperfectae. Aspasius objects to this definition because it does not seem to
belong to all parts of speech. There is a kind of speech he says, in which some
of the parts signify as an affirmation; for instance, "If the sun shines
over the earth, it is day,” and so in many other examples. Porphyry says in
reply to this objection that in whatever genus there is something prior and
posterior, it is the prior thing that has to be defined. For example, when we
give the definition of a species—say, of man—the definition is understood of
that which is in act, not of that which is in potency. Since, then, in the
genus of speech, simple speech is prior, Aristotle defines it first. Or, we can
answer the objection in the way Alexander and Ammonious do. They say that
speech is defined here commonly. Hence what is common to simple and composite
speech ought to be stated in the definition. Now to have parts signifying
something as an affirmation belongs only to composite speech, but to have parts
signifying something in the mode of a word and not in the mode of an
affirmation is common to simple and composite speech. Therefore this had to be
posited in the definition of speech. We should not conclude, however, that it
is of the nature of speech that its part not be an affirmation, but rather that
it is of the nature of speech that its parts be something that signify in the
manner of words and not in the manner of an affirmation. Porphyry’s solution
reduces to the same thing as far as meaning is concerned, although it is a
little different verbally. Aristotle frequently uses "to say” for "to
affirm,” and hence to prevent "word” from being taken as
"affirmation” when he says that a part of speech signifies as a word, he
immediately adds, not as an affirmation, meaning—according to Porphyry’s
view—"word” is not taken here in the sense in which it is the same as
"affirmation.” A philosopher called John the Grammarian thought that this
definition could only apply to perfect speech because there only seem to be
parts in the case of something perfect, or complete; for example, a house to
which all of the parts are referred. Therefore only perfect speech has
significant parts. He was in error on this point, however, for while it is true
that all the parts are referred principally to the perfect, or complete whole,
some parts are referred to it immediately, for example, the walls and roof to a
house and organic members to an animal; others, however, are referred to it
through the principal parts of which they are parts; stones, for example, to
the house by the mediate wall, and nerves and bones to the animal by the mediate
organic members like the hand and the foot, etc. In the case of speech,
therefore, all of the parts are principally referred to perfect speech, a part
of which is imperfect speech, which also has significant parts. Hence this
definition belongs both to perfect and to imperfect speech. Aquinas lib. 1 l. 6
n. 5Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem.
Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum
intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod
dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo,
quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio
aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu,
sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit
affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. When he says, Let me
explain. The word "animal” signifies something, etc., he elucidates the
definition. First he shows that what he says is true; secondly, he excludes a
false understanding of it where he says, But one syllable of "animal” does
not signify anything, etc. He explains that when he says some parts of speech
are significant, he means that some of the parts signify something in the way
the name "animal,” which is a part of speech, signifies something and yet
does not signify as an affirmation or negation, because it does not signify to
be or not to be. By this I mean it does not signify affirmation or negation in
act, but only in potency; for it is possible to add something that will make it
an affirmation or negation, i.e., a verb. 6 Deinde cum dicit: sed non una
hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate
dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei
addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non
conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est
in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum
separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate
venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum
est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et
verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel
litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non
tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis,
quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico
rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut
una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per
se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus,
tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat
simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere
partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest
habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt
voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae
imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito,
partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem.
Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae
possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid,
scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem
significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo,
sicut supra dictum est. He excludes a false understanding of what has been said
by his next statement. But one syllable of "animal” does not signify
anything. This could be referred to what has just been said and the meaning
would be that the name will be an affirmation or negation if something is added
to it, but not if what is added is one syllable of a name. However, what he
says next is not compatible with this meaning and therefore these words should
be referred to what was stated earlier in defining speech, namely, to some
parts of which are significant separately. Now, since what is properly called a
part of a whole is that which contributes immediately to the formation of the
whole, and not that which is a part of a part, "some parts” should be
understood as the parts from which speech is immediately formed, i.e., the name
and verb, and not as parts of the name or verb, which are syllables or letters.
Hence, what is being said here is that a part of speech is significant
separately but not such a part as the syllable of a name. He manifests this by
means of syllables that sometimes can be words signifying per se. "Owl,”
for example, is sometimes one word signifying per se. When taken as a syllable
of the name "fowl,” however, it does not signify something per se but is
only a vocal sound. For a word is composed of many vocal sounds, but it has
simplicity in signifying insofar as it signifies simple thought. Hence, a word
inasmuch as it is a composite vocal sound can have a part which is a vocal
sound, but inasmuch as it is simple in signifying it cannot have a signifying
part. Whence syllables are indeed vocal sounds, but they are not vocal sounds
signifying per se. In contrast to this it should be noted that in composite
names, which are imposed to signify a simple thing from some composite
understanding, the parts appear to signify something, although according to
truth they do not. For this reason he adds that in compound words, i.e.,
composite names, the syllables may be words contributing to the composition of
a name, and therefore signify something, namely, in the composite, and
according as they are words; but as parts of this kind of name they do not
signify something per se, but in the way that has already been explained. 7 Deinde
cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui
dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum.
Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans,
sed naturaliter. Then he says, But all speech is significant—not just as an
instrument, however, etc. Here he excludes the error of those who said that
speech and its parts signify naturally rather than by convention. To prove
their point they used the following argument. The instruments of a natural
power must themselves be natural, for nature does not fail in regard to what is
necessary; but the interpretive power is natural to man; therefore, its
instruments are natural. Now the instrument of the interpretive power is speech
since it is through speech that expression is given to the conception of the
mind; for we mean by an instrument that by which an agent operates. Therefore,
speech is something natural, signifying, not from human institution, but
naturally. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 8Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo,
quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius
corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet
virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis
utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc
modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis:
quamvis non naturaliter significent. Aristotle refutes this argument, which is
said to be that of Plato in the Cratylus, when he says that all speech is
significant, but not as an instrument of a power, that is, of a natural power;
for the natural instruments of the interpretive power are the throat and lungs,
by which vocal sound is formed, and the tongue, teeth and lips by which letters
and articulate sounds are formulated. Rather, speech and its parts are effects
of the interpretative power through the aforesaid instruments. For just as the
motive power uses natural instruments such as arms and hands to make an
artificial work, so the interpretative power uses the throat and other natural
instruments to make speech. Hence, speech and its parts are not natural things,
but certain artificial effects. This is the reason Aristotle adds here that
speech signifies by convention, i.e., according to the ordinance of human will
and reason. It should be noted, however, that if we do not attribute the
interpretative power to a motive power, but to reason, then it is not a natural
power but is beyond every corporeal nature, since thought is not an act of the
body, as is proved in III De anima [4: 429a 10]. Moreover, it is reason itself
that moves the corporeal motive power to make artificial works, which reason
then uses as instruments; and thus artificial works are not instruments of a
corporeal power. Reason can also use speech and its parts in this way, i.e., as
instruments, although they do not signify naturally. VII. 1. Postquam
philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare
de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de
enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit
secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi:
quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in
partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est
autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad
invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit:
primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc
definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in
omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi:
et caeterae quidemrelinquantur. Having defined the principles of the
enunciation, the Philosopher now begins to treat the enunciation itself. This
is divided into two parts. In the first he examines the enunciation absolutely;
in the second the diversity of enunciations resulting from an addition to the
simple enunciation. The latter is treated in the second book, where he says,
Since an affirmation signifies something about a subject, etc.”’ The first
part, on the enunciation absolutely, is divided into three parts. In the first
he defines enunciation; in the second he divides it where he says, First
affirmation, then negation, is enunciative speech that is one, etc.;” in the
third he treats of the opposition of its parts to each other, where he says,
Since it is possible to enunciate that what belongs to a subject does not
belong to it, etc. In the portion of the text treated in this lesson, which is
concerned with the definition of enunciation, he first states the definition,
then shows that this definition differentiates the enunciation from other
species of speech, where he says, Truth and falsity is not present in all
speech however, etc., and finally indicates that only the enunciation is to be
treated in this book where he says, Let us therefore consider enunciative
speech, etc. 2 Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit
instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum
rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo
fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis
significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est:
duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et
falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem
enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis
oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est
quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc
quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in
hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit
definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est. The
point has just been made that speech, although it is not an instrument of a
power operating naturally, is nevertheless an instrument of reason. Now every
instrument is defined by its end, which is the use of the instrument. The use
of speech, as of every significant vocal sound, is to signify a conception of
the intellect. But there are two operations of the intellect. In one truth and
falsity is found, in the other not. Aristotle therefore defines enunciative speech
by the signification of the true and false: Yet not all speech is enunciative;
but only speech in which there is truth or falsity. Note with what remarkable
brevity he signifies the division of speech by Yet not all speech is
enunciative, and the definition by, but only speech in which there is truth or
falsity. This, then, is to be understood as the definition of the enunciation:
speech in which there is truth and falsity. 3 Dicitur autem in enunciatione
esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in
subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re
autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res
est vel non est, oratio vera vel falsa est. True or false is said to be in the
enunciation as in a sign of true or false thought; but true or false is in the
mind as in a subject (as is said in VI Metaphysicae [1027b 17–1028a 5]), and in
the thing as in a cause (as is said in the book Predicamentorum [5: 4a 35–4b
9])—for it is from the facts of the case, i.e., from a thing’s being so or not
being so, that speech is true or false. 4 Deinde cum dicit: non autem in
omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis
orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non
significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo
audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo
consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod
perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet
enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen
intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia
oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra
dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad
attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum
dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua
invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum
intellectus, in quo est verum vel falsum. Next he shows that this definition
differentiates the enunciation from other speech, when he says, Truth or falsity
is not present in all speech however, etc. In the case of imperfect or
incomplete speech it is clear that it does not signify the true or false, since
it does not make complete sense to the mind of the hearer and therefore does
not completely express a judgment of reason in which the true or false
consists. Having made this point, however, it must be noted that there are five
species of perfect speech that are complete in meaning: enunciative,
deprecative, imperative, interrogative, and vocative. (Apropos of the latter it
should be noted that a name alone in the vocative case is not vocative speech,
for some of the parts must signify something separately, as was said above. So,
although the mind of the hearer is provoked or aroused to attention by a name
in the vocative case, there is not vocative speech, unless many words are
joined together, as in "O good Peter!”) Of these species of speech the
enunciative is the only one in which there is truth or falsity, for it alone
signifies the conception of the intellect absolutely and it is in this that
there is truth or falsity. 5 Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit
in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum
suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. But the intellect, or reason, does not just conceive
the truth of a thing. It also belongs to its office to direct and order others
in accordance with what it conceives. Therefore, besides enunciative speech,
which signifies the concept of the mind, there had to be other kinds of speech
to signify the order of reason by which others are directed. Now, one man is
directed by the reason of another in regard to three things: first, to attend
with his mind, and vocative speech relates to this; second, to respond with his
voice, and interrogative speech relates to this; third, to execute a work, and
in relation to this, imperative speech is used with regard to inferiors,
deprecative with regard to superiors. Optative speech is reduced to the latter,
for a man does not have the power to move a superior except by the expression
of his desire. These four species of speech do not signify the conception of
the intellect in which there is truth or falsity, but a certain order following
upon this. Consequently truth or falsity is not found in any of them, but only
in enunciative speech, which signifies what the mind conceives from things. It
follows that all the modes of speech in which the true or false is found are
contained under the enunciation, which some call indicative or suppositive. The
dubitative, it should be noted, is reduced to the interrogative, as the optative
is to the deprecative. 6 Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc.,
ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor
orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Then Aristotle says, Let us
therefore consider enunciative speech, etc. Here he points out that only
enunciative speech is to be treated; the other four species must be omitted as
far as the present intention is concerned, because their investigation belongs
rather to the sciences of rhetoric or poetics. Enunciative speech belongs to
the present consideration and for the following reason: this book is ordered
directly to demonstrative science, in which the mind of man is led by an act of
reasoning to assent to truth from those things that are proper to the thing; to
this end the demonstrator uses only enunciative speech, which signifies things
according as truth about them is in the mind. The rhetorician and the poet, on
the other hand, induce assent to what they intend not only through what is
proper to the thing but also through the dispositions of the hearer. Hence,
rhetoricians and poets for the most part strive to move their auditors by
arousing certain passions in them, as the Philosopher says in his Rhetorica [I,
2: 1356a 2, 1356a 14; III, 1: 1403b 12]. This kind of speech, therefore, which
is concerned with the ordination of the hearer toward something, belongs to the
consideration of rhetoric or poetics by reason of its intent, but to the
consideration of the grammarian as regards a suitable construction of the vocal
sounds. VIII. 1. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam.
Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in
secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Having defined the
enunciation the Philosopher now divides it. First he gives the division, and
then manifests it where he says, Every enunciative speech however, must contain
a verb, etc. 2 Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. It should be noted that Aristotle in his concise way
gives two divisions of the enunciation. The first is the division into one
simply and one by conjunction. This parallels things outside of the soul where
there is also something one simply, for instance the indivisible or the
continuum, and something one either by aggregation or composition or order. In
fact, since being and one are convertible, every enunciation must in some way
be one, just as every thing is. 3 Alia vero subdivisio enunciationis est quod
si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. The other is a subdivision of the enunciation: the division of it
as it is one into affirmative and negative. The affirmative enunciation is
prior to the negative for three reasons, which are related to three things
already stated. It was said that vocal sound is a sign of thought and thought a
sign of the thing. Accordingly, with respect to vocal sound, affirmative
enunciation is prior to negative because it is simpler, for the negative
enunciation adds a negative particle to the affirmative. With respect to
thought, the affirmative enunciation, which signifies composition by the
intellect, is prior to the negative, which signifies division, for division is
posterior by nature to composition since division is only of composite
things—just as corruption is only of generated things. With respect to the
thing, the affirmative enunciation, which signifies to be is prior to the
negative, which signifies not to be, as the having of something is naturally
prior to the privation of it. 4 Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima
est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima,
subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa,
ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit
quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. What he
says, then, is this: Affirmation, i.e., affirmative enunciation, is one and the
first enunciative speech. And in opposition to first he adds, then negation,
i.e., negative speech, for it is posterior to affirmative, as we have said. In
Opposition to one, i.e., one simply, he adds, certain others are one, not
simply, but one by conjunction. 5 Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur
Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est
divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata.
Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et
posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia
per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium. From
what Aristotle says here Alexander argues that the division of enunciation into
affirmation and negation is Dot a division of a genus into species, but a
division of a multiple name into its meanings; for a genus is not predicated
according to the prior and posterior, but is predicated univocally of its
species; this is the reason Aristotle would not grant that being is a common
genus of all things, for it is predicated first of substance, and then of the
nine genera of accidents. 6 Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune
potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut
naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius
communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis,
ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem
naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem
generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per
unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter
hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione
entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis,
quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam
rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. However, in the division of that which is common, one of
the dividing members can be prior to another in two ways: according to the
proper notions” or natures of the dividing members, or according to the
participation of that common notion that is divided in them. The first of these
does not destroy the univocity of a genus, as is evident in numbers. Twoness,
according to its proper notion, is naturally prior to threeness, yet they
equally participate in the notion of their genus, i.e., number; for both a
multitude consisting of three and a multitude consisting of two is measured by
one. The second, however, does impede the univocity of a genus. This is why
being cannot be the genus of substance and accident, for in the very notion of
being, substance, which is being per se, has priority in respect to accident,
which is being through another and in another. Applying this distinction to the
matter at hand, we see that affirmation is prior to negation in the first way,
i.e., according to its notion, yet they equally participate in the definition
Aristotle has given of the enunciation, i.e., speech in which there is truth or
falsity. 7 Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas
divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una
simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod
enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem
simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit
quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat
propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Where he says, Every
enunciative speech, however, must contain a verb or a mode of the verb, etc.,
he explains the divisions. He gives two explanations, one of the division of
enunciation into one simply and one by conjunction, the second of the division
of the enunciation which is one simply into affirmative or negative. The latter
explanation begins where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying
that something belongs or does not belong to a subject, etc. Before he explains
the first division, i.e., into one simply and one by conjunction, he states
certain things that are necessary for the evidence of the explanation, and then
explains the division where he says, Enunciative speech is one when it
signifies one thing, etc. 8 Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem
orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis,
vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo
infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum.
Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non
facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta.
Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest
definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae
sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus
verbi, nondum est oratio enunciativa. He states the first thing that is
necessary for his explanation when he says that every enunciative speech must
contain a verb in present time, or a case of the verb, i.e., in past or future
time. (The infinite verb is not mentioned because it has the same function in
the enunciation as the negative verb.) To manifest this he shows that one name,
without a verb, does not even constitute imperfect enunciative speech, let
alone perfect speech. Definition, he points out, is a certain kind of speech,
and yet if the verb "is” or modes of the verb such as "was” or
"has been” or something of the kind, is not added to the notion of man,
i.e., to the definition, it is not enunciative speech. 9 Potest autem esse
dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem
de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem,
quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur
autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum
loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia,
sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur.
Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis
et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest
praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo
potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori.
Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa
solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis
dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a
qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio
Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem
complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia
dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione
una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni
compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet
esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine
compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et
ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de
verbo. But, one might ask, why mention the verb and not the name, for the
enunciation consists of a name and a verb? This can be answered in three ways.
First of all because enunciative speech is not attained without a verb or a
mode of the verb, but it is without a name, for instance, when infinitive forms
of the verb are used in place of names, as in "To run is to be moving.” A
second and better reason for speaking only of the verb is that the verb is a
sign of what is predicated of another. Now the predicate is the principal part
of the enunciation because it is the formal part and completes it. This is the
reason the Greeks called the enunciation a categorical, i.e., predicative,
proposition. It should also be noted that denomination is made from the form
which gives species to the thing. He speaks of the verb, then, but not the
name, because it is the more principal and formal part of the enunciation. A
sign of this is that the categorical enunciation is said to be affirmative or
negative solely by reason of the verb being affirmed or denied, and the
conditional enunciation is said to be affirmative or negative by reason of the
conjunction by which it is denominated being affirmed or denied. A third and
even better reason is that Aristotle did not intend to show that the name or
verb is not sufficient for a complete enunciation, for he explained this
earlier. Rather, he is excluding a misunderstanding that might arise from his
saying that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by
conjunction. Some might think this means that the kind that is one simply,
lacks all composition. But he excludes this by saying that there must be a verb
in every enunciation; for the verb implies composition and composition cannot
be understood apart from the things composed, as he said earlier.” The name, on
the other hand, does not imply composition and therefore did not have to be mentioned.
10 Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad
manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile
bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de
omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse
alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII
metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi
non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo
materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem
differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex
genere et differentia. The other, point necessary for the evidence of the first
division is made where he says, but then the question arises as to why the
definition "terrestrial biped animal” is something one, etc. He indicates
by this that "terrestrial biped animal,” which is a definition of man, is
one and not many. The reason it is one is the same as in the case of all
definitions but, he says, to assign the reason belongs to another subject of
inquiry. It belongs, in fact, to metaphysics and he assigns the reason in VII
and VIII Metaphysicae [VII, 12: 1037b 7; VIII, 6: 1045a 6] which is this: the
difference does not accrue to the genus accidentally but per se and is
determinative of it in the way in which form determines matter; for the genus
is taken from matter, the difference from form. Whence, just as one thing—not
many—comes to be from form and matter, so one thing comes to be from the genus
and difference. 11 Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis
posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes
eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae.
Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis,
quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non
determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem
operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad
unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione
et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit
medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam
importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et
est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. The reason for the unity of this definition might be supposed by
some to be only that of juxtaposition of the parts, i.e., that
"terrestrial biped animal” is said to be one only because the parts are
side by side without conjunction or pause. But he excludes such a notion of its
unity. Now it is true that non-interruption of locution is necessary for the
unity of a definition, for if a conjunction were put between the parts the
second part would not determine the first immediately and the many in locution
would consequently signify many in act. The pause used by rhetoricians in place
of a conjunction would do the same thing. Whence it is a requirement for the
unity of a definition that its parts be uttered without conjunction and
interpolation, the reason being that in the natural thing, whose definition it
is, nothing mediates between matter and form. However, non-interruption of
locution is not the only thing that is needed for unity of the definition, for
there can be continuity of utterance in regard to things that are not one
simply, but are accidentally, as in white musical man.” Aristotle has therefore
manifested very subtly that absolute unity of the enunciation is not impeded
either by the composition which the verb implies or by the multitude of names
from which a definition is established. And the reason is the same in both
cases, i.e., the predicate is related to the subject as form to matter, as is
the difference to a genus; but from form and matter a thing that is one simply
comes into existence. 12 Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit
ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. He begins to explain the division
when he says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. First
he makes the common thing that is divided evident, i.e., the enunciation as it
is one; secondly, he makes the parts of the division evident according to their
own proper notions, where he says, Of enunciations that are one, simple
enunciation is one kind, etc. After he has made the division of the common
thing evident, i.e., enunciation, he then concludes that the name and the verb
are excluded from each member of the division where he says, Let us call the
name or the verb a word only, etc. Now plurality is opposed to unity. Therefore
he is going to manifest the unity of the enunciation through the modes of
plurality. 13 Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute,
scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est
coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes
plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo
modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur
secundo modo unitatis. He begins his explanation by saying that enunciation is
either one absolutely, i.e., it signifies one thing said of one thing, or one
relatively, i.e., it is one by conjunction. In opposition to these are the
enunciations that are many, either because they signify not one but many
things, which is opposed to the first mode of unity or because they are uttered
without a connecting particle, which is opposed to the second mode of unity. 14
Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas
orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur
secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum
solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est
albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem
significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam,
animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in
conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem
quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione
ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio
plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in
enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto
vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive
non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si
coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine
coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc
sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non
solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter
enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum
quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam
inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua
interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum,
multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex
quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus
currit. Boethius interprets this passage in the following way. "Unity” and
"plurality” of speech refers to what is signified, whereas "simple”
and "composite” is related to the vocal sounds. Accordingly, an
enunciation is sometimes one and simple, namely, when one thing is signified by
the composition of name and verb, as in "Man is white.” Sometimes it is
one and composite. In this case it signifies one thing, but is composed either
from many terms, as in "A mortal rational animal is running,” or from many
enunciations, as in conditionals that signify one thing and not many. On the
other hand, sometimes there is plurality along with simplicity, namely, when a
name signifying many things is used, as in "The dog barks,” in which case
the enunciation is many because it signifies many things [i.e., it signifies
equivocally], but it is simple as far as vocal sound is concerned. But
sometimes there is plurality and composition, namely, when many things are
posited on the part of the subject or predicate from which one thing does not
result, whether a conjunction intervenes or not, as in "The musical white
man is arguing.” This is also the case if there are many enunciations joined
together, with or without connecting particles as in "Socrates runs, Plato
discusses. According to this exposition the meaning of the passage in question
is this: an enunciation is one when it signifies one thing said of one thing,
and this is the case whether the enunciation is one simply or is one by
conjunction; an enunciation is many when it signifies not one but many things,
and this not only when a conjunction is inserted between either the names or
verbs or between the enunciations themselves, but even if there are many things
that are not conjoined. In the latter case they signify many things either
because an equivocal name is used or because many names signifying many things
from which one thing does not result are used without conjunctions, as in
"The white grammatical logical man is running.” 15 Sed haec expositio non
videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per
disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum
significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et
ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. However, this exposition does not seem to be what Aristotle had in
mind. First of all the disjunction he inserts seems to indicate that he is
distinguishing between speech signifying one thing and speech which is one by
conjunction. In the second place, he has just said that terrestrial biped
animal is something one and not many. Moreover, what is one by conjunction is
not one, and not many, but one from many. Hence it seems better to say that
since he has already said that one kind of enunciation is one simply and
another kind is one by conjunction be is showing here what one enunciation is.
Having said, then, that many names joined together are something one as in the
example "terrestrial biped animal,” he goes on to say that an enunciation
is to be judged as one, not from the unity of the name but from the unity of
what is signified, even if there are many names signifying the one thing; and
if an enunciation which signifies many things is one, it will not be one
simply, but one by conjunction. Hence, the enunciation "A terrestrial
biped animal is risible,” is not one in the sense of one by conjunction as the
first exposition would have it, but because it signifies one thing. 16 Et quia
oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures
enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures
dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura
significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub
hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio
est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc
esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic
modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis
est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura
nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo
unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur
primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse.
Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam
plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo
possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in
quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura
significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam
sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Then — because
an opposite is manifested through an opposite — he goes on to show which
enunciations are many, and he posits two modes of plurality. Enunciations are
said to be many which signify many things. Many things may be signified in some
one common thing however; when I say, for example, "An animal is a
sentient being,” many things are contained under the one common thing, animal,
but such an enunciation is still one, not many. Therefore Aristotle adds, and
not one. It would be better to say, however, that the and not one is added
because of definition, which signifies many things that are one. The mode of
plurality he has spoken of thus far is opposed to the first mode of unity. The
second mode of plurality covers enunciations that not only signify many things
but many that are in no way joined together. This mode is opposed to the second
mode of unity. Thus it is evident that the second mode of unity is not opposed
to the first mode of plurality. Now those things that are not opposed can be
together. Therefore, the enunciation that is one by conjunction is also many
many insofar as it signifies many and not one. According to this understanding
of the text there are three modes of the enunciation: the enunciation that is
one simply inasmuch as it signifies one thing; the enunciation that is many
simply inasmuch as it signifies many things, but is one relatively inasmuch as
it is one by conjunction; finally, the enunciations that are many simply—those
that do not signify one thing and are not united by any conjunction. Aristotle
posits four kinds of enunciation rather than three, for an enunciation is
sometimes many because it signifies many things, and yet is not one by
conjunction; a case in point would be an enunciation in which a name signifying
many things is used. 17 Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit
ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est,
quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum
significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum
subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non
enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad
significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola
manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid
significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum
innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad
interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus,
magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut
cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo
interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante,
sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel
verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum
significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel
verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in
interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister,
subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo
non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut
nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit:
necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Where
he says, Let us call the name or the verb a word only, etc., he excludes the
name and the verb from the unity of speech. His reason for making this point is
that his statement, "an enunciation is one inasmuch as it signifies one
thing,” might be taken to mean that an enunciation signifies one thing in the
same way the name or verb signify one thing. To prevent such a misunderstanding
he says, Let us call the name or the verb a word only, i.e., a locution which
is not an enunciation. From his mode of speaking it would seem that Aristotle
himself imposed the name "phasis” [word] to signify such parts of the
enunciation. Then he shows that a name or verb is only a word by pointing out
that we do not say that a person is enunciating when be signifies something in
vocal sound in the way in which a name or verb signifies. To manifest this he
suggests two ways of using the enunciation. Sometimes we use it to reply to
questions; for example if someone asks "Who is it who discusses,” we
answer "The teacher.” At other times we use the enunciation, not in reply
to a question, but of our own accord, as when we say "Peter is running.”
What Aristotle is saying, then, is that the person who signifies something one
by a name or a verb is not enunciating in the way in which either the person
who replies to a question or who utters an enunciation of his own accord is
enunciating. He introduces this point because the simple name or verb, when used
in reply to a question seems to signify truth or falsity and truth or falsity
is what is proper to the enunciation. Truth and falsity is not proper, however,
to the name or verb unless it is understood as joined to another part proposed
in a question; if someone should ask, for example, "Who reads in the
schools,” we would answer, "The teacher,” understanding also, "reads
there.” If, then, something expressed by a name or verb is not an enunciation,
it is evident that the enunciation does not signify one thing in the same way
as the name or verb signify one thing. Aristotle draws this by way of a
conclusion from, Every enunciative speech must contain a verb or a mode of the
verb, which was stated earlier. 18 Deinde cum dicit: harum autem haec simplex
etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim
quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est
coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est
dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet
enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat
unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio
est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet
unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo,
idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum
divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione
una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas
dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et
compositum. Then when he says, Of enunciations that are one, simple enunciation
is one kind, etc., he manifests the division of enunciation by the natures of
the parts. He has said that the enunciation is one when it signifies one thing
or is one by conjunction. The basis of this division is the nature of one,
which is such that it can be divided into simple and composite. Hence,
Aristotle says, Of these, i.e., enunciations into which one is divided, which
are said to be one either because the enunciation signifies one thing simply or
because it is one by conjunction, simple enunciation is one kind, i.e., the
enunciation that signifies one thing. And to exclude the understanding of this
as signifying one thing in the same way as the name or the verb signifies one
thing he adds, something affirmed of something, i.e., by way of composition, or
something denied of something, i.e., by way of division. The other kind—the
enunciation that is said to be one by conjunction—is composite, i.e., speech
composed of these simple enunciations. In other words, he is saying that the
unity of the enunciation is divided into simple and composite, just as one is
divided into simple and composite. 19 Deinde cum dicit: est autem simplex etc.,
manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod
enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo
quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae
enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod
simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet
ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in
praesenti. He manifests the second division of the enunciation where he says, A
simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs or does not
belong to a subject, i.e., the division of enunciation into affirmation and
negation. This is a division that belongs primarily to the simple enunciation
and consequently to the composite enunciation; therefore, in order to suggest
the basis of the division he says that a simple enunciation is vocal sound
signifying that something belongs to a subject, which pertains to affirmation,
or does not belong to a subject, which pertains to negation. And to make it
clear that this is not to be understood only of present time he adds, according
to the divisions of time, i.e., this holds for other times as well as the present.
20 Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et
quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem,
volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et
negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod
non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum,
quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae
significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et
composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad
notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti
affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander
accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut
genus de suis speciebus. Alexander thought that Aristotle was defining the
enunciation here and because he seems to put affirmation and negation in the
"definition” he took this to mean that enunciation is not the genus of
affirmation and negation, for the species is never posited in the definition of
the genus. Now what is not predicated univocally of many (namely, because it
does not signify something one that is common to many) cannot be made known except
through the many that are signified. "One” is not said equivocally of the
simple and composite, but primarily and consequently, and hence Aristotle
always used both "simple” and "composite” in the preceding reasoning
to make the unity of the enunciation known. Now, here he seems to use
affirmation and negation to make the enunciation known; therefore, Alexander
took this to mean that enunciation is not said of affirmation and negation
univocally as a genus of its species. 21 Sed contrarium apparet ex hoc, quod
philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in
definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est
enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem
aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo
Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et
definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non
est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed
quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc
solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis;
melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox
significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem
alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species,
ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit
proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius
videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed
solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod
enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione
nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem
considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. But the contrary appears to be the
case, for the Philosopher subsequently uses the name "enunciation” as a
genus when in defining affirmation and negation he says, Affirmation is the
enunciation of something about something, i.e., by way of composition; negation
is the enunciation of something separated from something, i.e., by way of
division. Moreover, it is not customary to use an equivocal name to make known
the things it signifies. Boethius for this reason says that Aristotle with his
customary brevity is using both the definition and its division at once.
Therefore when he says that something belongs or does not belong to a subject
he is not referring to the definition of enunciation but to its division.
However, since the differences dividing a genus do not fall in its definition
and since vocal sound signifying is not a sufficient definition of the
enunciation, Porphyry thought it would be better to say that the whole
expression, vocal sound signifying that something belongs or does not belong to
a subject, is the definition of the enunciation. According to his exposition
this is not affirmation and negation that is posited in the definition, but
capacity for affirmation and negation, i.e., what the enunciation is a sign of,
which is to be or not to be, which is prior in nature to the enunciation. Then
immediately following this he defines affirmation and negation in terms of
themselves when he says, Affirmation is the enunciation of something about
something; negation the enunciation of something separated from something. But
just as the species should not be stated in the definition of the genus, so
neither should the properties of the species. Now to signify to be is the
property of the affirmation, and to signify not to be the property of the
negation. Therefore Ammonius thought it would be better to say that the
enunciation was not defined here, but only divided. For the definition was
posited above when it was said that the enunciation is speech in which there is
truth or falsity—in which definition no mention is made of either affirmation
or negation. It should be noticed, however, that Aristotle proceeds very
skillfully here, for he divides the genus, not into species, but into specific
differences. He does not say that the enunciation is an affirmation or
negation, but vocal sound signifying that something belongs to a subject, which
is the specific difference of affirmation, or does not belong to a subject,
which is the specific difference of negation. Then when he adds, Affirmation is
the enunciation of something about something which signifies to be, and
negation is the enunciation of something separated from something, which
signifies not to be, he establishes the definition of the species by joining
the differences to the genus. IX. 1. Posita divisione enunciationis, hic agit
de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et
quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo,
ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam
dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et
quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una
enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni;
ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in
prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in
secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti;
ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod
omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat
oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoccontradictio
et cetera.Having mad e the division of the enunciation, Aristotle now deals
with the opposition of the parts of the enunciation, i.e., the opposition of
affirmation and negation. He has already said that the enunciation is speech in
which there is truth or falsity; therefore, he first shows how enunciations are
opposed to each other; secondly, he raises a doubt about some things previously
determined and then resolves it where he says, In enunciations about that which
is or has taken place, etc. He not only shows how one enunciation is opposed to
another, but that only one is opposed to one, where he says, It is evident also
that there is one negation of one affirmation. In showing how one enunciation
is opposed to another, he first treats of the opposition of affirmation and
negation absolutely, and then shows in what way opposition of this kind is
diversified on the part of the subject where he says, Since some of the things
we are concerned with are universal and others singular, etc. With respect to
the opposition of affirmation and negation absolutely, he first shows that
there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, and then where
he says, We will call this opposed affirmation and negation "contradiction,”
he explains the opposition of affirmation and negation absolutely. 2 Circa
primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus
assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel
modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa,
per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam
significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem,
ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim
enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera;
alioquin est oratio falsa. In relation to the first point, that there is a
negation opposed to every affirmation and vice versa, the Philosopher assumes a
twofold diversity of enunciation. The first arises from the very form or mode
of enunciating. According to this diversity, enunciation is either
affirmative—in which it is enunciated that something is — or negative — in
which it is signified that something is not. The second is the diversity that
arises by comparison to reality. Truth and falsity of thought and of the
enunciation depend upon this comparison, for when it is enunciated that
something is or is not, if there is agreement with reality, there is true
speech; otherwise there is false speech. 3 Sic igitur quatuor modis potest
variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo,
quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad
affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio
modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad
negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum
enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem
falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid
non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur,
nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas
veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod
contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo
autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum
natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae
falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura,
esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae,
cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. The enunciation
can therefore be varied in four ways according to a combination of these two
divisions: in the first way, what is in reality is enunciated to be as it is in
reality. This is characteristic of true affirmation. For example, when Socrates
runs, we say, "Socrates is running.” In the second way, it is enunciated
that something is not what in reality it is not. This is characteristic of true
negation, as when we say, "An Ethiopian is not white.” In the third way,
it is enunciated that something is what in reality it is not. This is
characteristic of a false affirmation, as in "The raven is white.” In the
fourth way, it is enunciated that something is not what it is in reality. This
is characteristic of a false negation, as in "Snow is not white.” In order
to proceed from the weaker to the stronger the Philosopher puts the false
before the true, and among these he states the negative before the affirmative.
He begins, then, with the false negative; it is possible to enunciate, that
what is, namely, in reality, is not. Secondly, he posits the false affirmative,
and that what is not, namely, in reality, is. Thirdly, he posits the true
affirmative—which is opposed to the false negative he gave first—and that what
is, namely, in reality, is. Fourthly, he posits the true negative—which is
opposed to the false affirmative—and that what is not, namely, in reality, is
not. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 4Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit:
quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non
existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel
non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus,
significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. In
saying what is and what is not, Aristotle is not referring only to the
existence or nonexistence of a subject. What he is saying is that the reality
signified by the predicate is in or is not in the reality signified by the
subject. For what is signified in saying, "The raven is white,” is that
what is not, is, although the raven itself is an existing thing. 5 Et sicut
istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in
quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in
enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra
enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi.
Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode
enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita
vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens
est medium praeteriti et futuri. These four differences of enunciations are
found in propositions in which there is a verb of present time and also in
enunciations in which there are verbs of past or future time. He said earlier
that every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb. Here
he makes this point in relation to the four differences of enunciations:
similarly it is possible to enunciate these, i.e., that the enunciation be
varied in diverse ways in regard to those times outside of the present, i.e.,
with respect to the past or future, which are in a certain way extrinsic in
respect to the present, since the present is between the past and the future. 6
Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod
quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim
potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium
temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est
quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et
negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae,
consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e
converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua
affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Since there are
these four differences of enunciation in past and future time as well as in
present time, it is possible to deny everything that is affirmed and to affirm
everything that is denied. This is evident from the premises, for it is only
possible to affirm either that which is in reality according to past, present,
or future time, or that which is not; and it is possible to deny all of this.
It is clear, then, that everything that is affirmed can be denied or vice
versa. Now, since affirmation and negation are per se opposed, i.e., in an
opposition of contradiction, it follows that any affirmation would have a
negation opposed to it, and conversely. The contrary of this could happen only
if an affirmation could affirm something that the negation could not deny. 7 Deinde
cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio
affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per
definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet
affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur
nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc
contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit
oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. When he says, We
will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he
explains what absolute opposition of affirmation and negation is. He does this
first through the name; secondly, through the definition where he says, I mean
by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc.
"Contradiction,” he says, is the name imposed for the kind of opposition
in which a negation is opposed to an affirmation and conversely. By saying We
will call this "contradiction,” we are given to understand—as Ammonius
points out—that he has himself imposed the name "contradiction” for the
opposition of affirmation and negation. 8 Deinde cum dicit: dico autem opponi
etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est
oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem,
quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem
opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et
praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et
negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non
disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem
subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est
contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non
solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit
idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter
autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim
supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non
autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae
facit aequivocationem. Then he defines contradiction when he says, I mean by
"opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc.
Since contradiction is the opposition of affirmation and negation, as he has
said, whatever is required for the opposition of affirmation and negation is
required for contradiction. Now, opposites must be about the same thing and
since the enunciation is made up of a subject and predicate the first
requirement for contradiction is affirmation and negation of the same
predicate, for if we say "Plato runs” and "Plato does not discuss,”
there is no contradiction. The second is that the affirmation and negation be
of the same subject, for if we say "Socrates runs” and "Plato does
not run,” there is no contradiction. The third requirement is identity of subject
and predicate not only according to name but according to the thing and the
name at once; for clearly, if the same name is not used there is not one and
the same enunciation; similarly there must be identity of the thing, for as was
said above, the enunciation is one when it signifies one thing said of one
thing.”’ This is why he adds, not equivocally however, for identity of name
with diversity of the thing—which is equivocation—is not sufficient for
contradiction. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 9Sunt autem et quaedam alia in
contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam
quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino
idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest
secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes
subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non
est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim
est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter;
vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio,
si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est
contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit
heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid
extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem
quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium
determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra
sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones
sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. There are also
certain other things that must be observed with respect to contradiction in
order that all diversity be destroyed except the diversity of affirmation and
negation, for if the negation does not deny in every way the same thing that
the affirmation affirms there will not be opposition. Inquiry can be made about
this diversity in respect to four things: first, are there diverse parts of the
subject, for if we say "An Ethiopian is white as to teeth” and "An
Ethiopian is not white as to foot,” there is no contradiction; secondly, is
there a diverse mode on the part of the predicate, for there is no
contradiction if we say "Socrates runs slowly” and "Socrates is not
moving swiftly,” or "An egg is an animal in potency” and "An egg is
not an animal in act”; thirdly, is there diversity on the part of measure, for
instance, of place or time, for there is no contradiction if we say "It is
raining in Gaul” and "It is not raining in Italy,” or "It rained
yesterday” and "It did not rain today”; fourthly, is there diversity from
a relationship to something extrinsic, as when we say "Ten men are many in
respect to a house, but not in respect to a court house.” Aristotle designates
all of these when he adds, nor in any of the other ways that we have
distinguished, i.e., that it is usual to determine in disputations against the
specious difficulties of the sophists, i.e., against the fallacious and
quarrelsome objections of the sophists, which he mentions more fully in I
Elenchorum [5: 166b 28–167a 36]. X. 1 Quia philosophus dixerat oppositionem
affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem,
consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et
negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit:
primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam
differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si
ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae
sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo,
dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum,
ibi: necesse est enunciare et cetera. The Philosopher has just said that
contradiction is the opposition of the affirmation and negation of the same
thing of the same subject. Following upon this he distinguishes the diverse
oppositions of affirmation and negation, the purpose being to know what true
contradiction is. He first states a division of enunciation which is necessary
in order to assign the difference of these oppositions; then he begins to
manifest the different oppositions where he says, If, then, it is universally
enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc.
The division he gives is taken from the difference of the subject and therefore
he divides the subject of enunciations first; then he concludes with the
division of enunciation, where he says, we have to enunciate either of a
universal or of a singular, etc. 2 Subiectum autem enunciationis est nomen vel
aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum
simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia,
quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo
quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale,
Plato autem singulare. Now the subject of an enunciation is a name or something
taken in place of a name. A name is a vocal sound significant by convention of
simple thought, which, in turn, is a likeness of the thing. Hence, Aristotle
distinguishes the subject of enunciation by a division of things; and he says
that of things, some are universals, others singulars. He then explains the
members of this division in two ways. First he defines them. Then he manifests
them by example when he says, "man” is universal, "Plato” singular. 3
Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus
in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in
praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae
sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia
et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt
singulares. There is a difficulty about this division, for the Philosopher
proves in VII Metaphysicae [14: 1039a 23] that the universal is not something
existing outside of the thing; and in the Predicamenta [5: 2a 11] he says that
second substances are only in first substances, i.e., singulars. Therefore, the
division of things into universals and singulars does not seem to be
consistent, since according to him there are no things that are universal; on
the contrary, all things are singular. 4 Dicendum est autem quod hic dividuntur
res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in
quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum
aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut
rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod
convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare
aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et
multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet
nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis.
Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt
extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit
universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret
quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per
actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. The
things divided here, however, are things as signified by names—which names are
subjects of enunciations. Now, Aristotle has already said that names signify
things only through the mediation of the intellect; therefore, this division
must be taken as a division of things as apprehended by the intellect. Now in
fact, whatever is joined together in things can be distinguished by the
intellect when one of them does not belong to the notion of the other. In any
singular thing, we can consider what is proper to the thing insofar as it is
this thing, for instance, what is proper to Socrates or to Plato insofar as he
is this man. We can also consider that in which it agrees with certain other
things, as, that Socrates is an animal, or man, or rational, or risible, or
white. Accordingly, when a thing is denominated from what belongs only to this
thing insofar as it is this thing, the name is said to signify a singular. When
a thing is denominated from what is common to it and to many others, the name
is said to signify a universal since it signifies a nature or some disposition
which is common to many. Immediately after giving this division of things,
then—not of things absolutely as they are outside of the soul, but as they are
referred to the intellect—Aristotle defines the universal and the singular
through the act of the intellective soul, as that which is such as to be
predicated of many or of only one, and not according to anything that pertains
to the thing, that is, as if he were affirming such a universal outside of the
soul, an opinion relating to Plato’s teaching. 5 Est autem considerandum quod
intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu
definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium
intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio
alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc
impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si
omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter
conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi
solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est
alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est
quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. There
is a further point we should consider in relation to this portion of the text.
The intellect apprehends the thing—understood according to the thing’s essence
or definition. This is the reason Aristotle says in III De anima [4:429b 10]
that the proper object of the intellect is what the thing essentially is. Now,
sometimes the proper nature of some understood form is not repugnant to being
in many but is impeded by something else, either by something occurring
accidentally (for instance if all men but one were to die) or because of the
condition of matter; the sun, for instance, is only one, not because it is
repugnant to the notion of the sun to be in many according to the condition of
its form, but because there is no other matter capable of receiving such a
form. This is the reason Aristotle did not say that the universal is that which
is predicated of many, but that which is of such a nature as to be predicated
of many. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 6Cum autem omnis forma, quae nata est recipi
in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter
potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum
praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod
terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod
significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod
nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod
per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in
materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus
dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit
Plato, essent individua. Now, since every form which is so constituted as to be
received in matter is communicable to many matters, there are two ways in which
what is signified by a name may not be of such a nature as to be predicated of
many: in one way, because a name signifies a form as terminated in this matter,
as in the case of the name "Socrates” or "Plato,” which signifies
human nature as it is in this matter; in another way, because a name signifies
a form which is not constituted to be received in matter and consequently must
remain per se one and singular. Whiteness, for example, would be only one if it
were a form not a existing in matter, and consequently singular. This is the
reason the Philosopher says in VII Metaphysicae [6: 1045a 36–1045b 7] that if
there were separated species of things, as Plato held, they would be individuals.
7 Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus
praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad
hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit
nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod
universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed
id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non
contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat
naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur
alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit
alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. It could be
objected that the name "Socrates” or "Plato” is of such a kind as to be
predicated of many, since there is nothing to prevent their being applied to
many. The response to this objection is evident if we consider Aristotle’s
words. Notice that he divides things into universal and particular, not names.
It should be understood from this that what is said to be universal not only
has a name that can be predicated of many but what is signified by the name is
of such a nature as to be found in many. Now this is not the case in the
above-mentioned names, for the name "Socrates” or "Plato” signifies
human nature as it is in this matter. If one of these names is imposed on
another man it will signify human nature in other matter and thus another
signification of it. Consequently, it will be equivocal, not universal. 8 Deinde
cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem
enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem
quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque
enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero
alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus:
quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. When
he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular that
something belongs or does not belong to it, he infers the division of the
enunciation. Since something is always enunciated of some thing, and of things
some are universals and some singulars, it follows that sometimes it will be
enunciated that something belongs or does not belong to something universal,
sometimes to something singular. The construction of the sentence was
interrupted by the explanation of universal and singular but now we can see the
meaning: Since some of the things we are concerned with are universal and
others singular... we have to enunciate either of a universal or of a singular
that something belongs or does not belong to it. 9 Est autem considerandum quod
de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo
considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato
posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in
intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim
attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem
intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive
universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus
attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae
sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic
considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod
attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet
natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo
est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum
quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus
creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo
extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum
attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur
universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione
ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam
eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo
est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid
ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod
pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem
attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare,
contingit negare, ut supra dictum est. 9.
In relation to the point being made here we have to consider the four ways in
which something is enunciated of the universal. On the one band, the universal
can be considered as though separated from singulars, whether subsisting per se
as Plato held or according to the being it has in the intellect as Aristotle
held; considered thus, something can be attributed to it in two ways. Sometimes
we attribute something to it which pertains only to the operation of the
intellect; for example when we say, "Man,” whether the universal or the
species, "is predicable” of many. For the intellect forms intentions of
this kind, attributing them to the nature understood according as it compares
the nature to the things outside of the mind. But sometimes we attribute
something to the universal thus considered (i.e., as it is apprehended by the
intellect as one) which does not belong to the act of the intellect but to the
being that the nature apprehended has in things outside of the soul; for
example, when we say "Man is the noblest of creatures.” For this truly
belongs to human nature as it is in singulars, since any single man is more
noble than all irrational creatures; yet all singular men are not one man
outside of the mind, but only in the apprehension of the intellect; and the
predicate is attributed to it in this way, i.e., as to one thing. On the other
hand, we attribute something to the universal as in singulars in another way,
and this is twofold: sometimes it is in view of the universal nature itself;
for instance, when we attribute something to it that belongs to its essence, or
follows upon the essential principles, as in "Man is an animal,” or
"Man is risible.” Sometimes it is in view of the singular in which the universal
is found; for instance, when we attribute something to the universal that
pertains to the action of the individual, as in "Man walks. Moreover,
something is attributed to the singular in three ways: in one way, as it is
subject to the intellect, as when we say "Socrates is a singular,” or
"predicable of only one”; in another way, by reason of the common nature,
as when we say "Socrates is an animal”; in the third way, by reason of
itself, as when we say "Socrates is walking.” The negations are varied in
the same number of ways, since everything that can be affirmed can also be
denied, as was said above. 10 Est autem haec tertia divisio enunciationis quam
ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una
simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in
ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur
secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit
divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio
generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod
fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo
huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam,
essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est
huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod
praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad
quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. This is the
third division the Philosopher has given of the enunciation. The first was the
division of the enunciation into one simply and one by conjunction. This is an
analogous division into those things of which one is predicated primarily and
consequently, for one is divided according to the prior and posterior into
simple and composite. The second was the division of enunciation into
affirmation and negation. This is a division of genus into species, for it is
taken from the difference of the predicate to which a negation is added. The
predicate is the formal part of the enunciation and hence such a division is
said to pertain to the quality of the enunciation. By "quality” I mean
essential quality, for in this case the difference signifies the quality of the
essence. The third division is based upon the difference of the subject as
predicated of many or of only one, and is therefore a division that pertains to
the quantity of the enunciation, for quantity follows upon matter. 11 Deinde
cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes
diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit:
primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus;
secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum
et falsum; ibi: quocirca hasquidem impossibile est et cetera.Aristotle shows
next how enunciations are opposed in diverse ways according to the diversity of
the subject when he says, If, then, it is universally enunciated of a universal
that something belongs or does not belong to it, etc. He first distinguishes
the diverse modes of opposition in enunciations; secondly, he shows how these
diverse oppositions are related in different ways to truth and falsity where he
says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once
true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 12Circa primum considerandum est quod cum
universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod
est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut
supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae
sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus
designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia
non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia
subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad
designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a
singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere,
adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid
attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale
separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se
hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale
secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et
ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid
universali sic accepto. First, then, he distinguishes the diverse modes of
opposition and since these depend upon a diversity in the subject we must first
consider the latter diversity. Now the universal can be considered either in
abstraction from singulars or as it is in singulars, and by reason of this
something is attributed in diverse modes to the universal, as we have already
said. To designate diverse modes of attribution certain words have been
conceived which may be called determinations or signs and which designate that
something is predicated in this or that mode. But first we should note that
since it is not commonly apprehended by all men that universals subsist outside
of singulars there is no word in common speech to designate the mode of
predicating in which something is said of a universal thus in abstraction from
singulars. Plato, who held that universals subsist outside of singulars, did,
however, invent certain determinations to designate the way in which something
is attributed to the universal as it is outside of singulars. With respect to
the species man he called the separated universal subsisting outside of
singulars "man per se”’or "man itself,” and he designated other such
universals in like manner. The universal as it is in singulars, however, does
fall within the common apprehension of men and accordingly certain words have
been conceived to signify the mode of attributing something to the universal
taken in this way. 13 Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid
attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur
praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam
multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus
adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur
subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In
negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam
significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id
quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco
dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto
universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur
universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc
designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel
quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali
ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam
alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et
dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed
possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod
significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non
omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem. As
was said above, sometimes something is attributed to the universal in view of
the universal nature itself; for this reason it is said to be predicated of the
universal universally, i.e., that it belongs to the universal according to the
whole multitude in which it is found. The word "every” has been devised to
designate this in affirmative predications. It designates that the predicate is
attributed to the universal subject with respect to the whole of what is
contained under the subject. In negative predications the word "no” has
been devised to signify that the predicate is removed from the universal
subject according to the whole of what is contained under it. Hence, saying
nullus in Latin is like saying non ullus [not any] and in Greek ??de?? [none]
is like ??de e?? [not one], for not a single one is understood under the
universal subject from which the predicate is not removed. Sometimes something
is either attributed to or removed from the universal in view of the
particular. To designate this in affirmative enunciations, the word
"some,” or "a certain one,” has been devised. We designate by this
that the predicate is attributed to the universal subject by reason of the
particular. "Some,” or "a certain one,” however, does not signify the
form of any singular determinately, rather, it designates the singular under a
certain indetermination. The singular so designated is therefore called the
vague individual. In negative enunciations there is no designated word, but
"not all” can be used. just as "no,” then, removes universally, for
it signifies the same thing as if we were to say "not any,” (i.e.,
"not some”) so also "not all” removes particularly inasmuch as it
excludes universal affirmation. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 14Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. There are, therefore, three kinds of
affirmations in which something is predicated of a universal: in one, something
is predicated of the universal universally, as in "Every man is an
animal”; in another, something is predicated of the universal particularly, as
in "Some man is white.” The third is the affirmation in which something is
predicated of the universal without a determination of universality or
particularity. Enunciations of this kind are customarily called indefinite.
There are the same number of opposed negations. 15 De singulari autem quamvis
aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur
ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari
individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum
aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates
est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. In the case of the singular,
although something is predicated of it in a different respect, as was said
above, nevertheless the whole is referred to its singularity because the
universal nature is individuated in the singular; therefore it makes no
difference as far as the nature of singularity is concerned whether something
is predicated of the singular by reason of the universal nature, as in
"Socrates is a man,” or belongs to it by reason of its singularity.
Aquinas lib. 1 l. 10 n. 16Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur
singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes,
scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis. If we add the
singular to the three already mentioned there will be four modes of enunciation
pertaining to quantity: universal singular, indefinite, and particular. 17 Sic
igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones
enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad
indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi:
opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de
oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione
indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit
dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Aristotle assigns the diverse
oppositions of enunciations according to these differences. The first
opposition is based on the difference of universals and indefinites; the second
bn the difference of universals and particulars, the latter being treated where
he says, Affirmation is opposed to negation in the way I call contradictory,
etc. With respect to the first opposition, the one between universals and
indefinites, the opposition of universal propositions to each other is treated
first, and then the opposition of indefinite enunciations where he says, On the
other hand, when the enunciations are of a universal but not universally
enunciated, etc. Finally he precludes a possible question where he says, In the
predicate, however, the universal universally predicated is not true, etc.
Aquinas lib. 1 l. 10 n. 18Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum
dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc
remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem,
quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis.
Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. He says first,
then, that if someone enunciates universally of a universal subject, i.e.,
according to the content of its universality, that it is, i.e., affirmatively,
or is not, i.e., negatively, these enunciations will be contrary; as when we
say, "Every man is white,” "No man is white.” And the reason is that
the things that are most distant from each other are said to be contraries. For
a thing is not said to be black only because it is not white but because over
and beyond not being white—which signifies the remotion of white commonly—it
is, in addition, black, the extreme in distance from white. What is affirmed by
the enunciation "Every man is white” then, is removed by the negation
"Not every man is white”; the negation, therefore, removes the mode in
which the predicate is said of the subject which the word "every”
designates. But over and beyond this remotion, the enunciation "No man is
white” which is most distant from "Every man is white,” adds total
remotion, and this belongs to the notion of contrariety. He therefore
appropriately calls this opposition contrariety. Aquinas lib. 1 l. 10 n.
19Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio
affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit;
secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter
etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit
homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis
affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae
enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum
dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi
considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed
non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de
solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in
universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus
homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo,
qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo
praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum
universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur
universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper
significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio
refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur,
non sunt contrariae. When he says, On the other hand, when the enunciations are
of a universal but not universally enunciated, etc., he shows what kind of
opposition there is between affirmation and negation in indefinite
enunciations. First he states the point; he then manifests it by an example
when he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,”
etc. Finally he gives the reason for this when he says, For while "man” is
a universal, it is not used as universal, etc. He says first, then, that when
something is affirmed or denied of a universal subject, but not universally,
the enunciations are not contrary but the things that are signified may be
contraries. He clarifies this with examples where he says, I mean by
"enunciated of a universal but not universally,” etc. Note in relation to
this that what he said just before this was "when... of universals but not
universally enunciated” and not, "when... of universals particularly,” the
reason being that he only intends to speak of indefinite enunciations, not of
particulars. This he manifests by the examples he gives. When we say "Man
is white” and "Man is not white,” the universal subjects do not make them
universal enunciations. He gives as the reason for this, that although man,
which stands as the subject, is universal, the predicate is not predicated of
it universally because the word "every” is not added, which does not
itself signify the universal, but the mode of universality, i.e., that the
predicate is said universally of the subject. Therefore when "every” is
added to the universal subject it always signifies that something is said of it
universally. This whole exposition relates to his saying, On the other hand,
when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, they
are not contraries. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 20Sed hoc quod additur: quae autem
significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem
contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre
voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Immediately after this he adds, although it is possible
for the things signified to be contraries, and in spite of the fact that this
is obscure he does not explain it. It has therefore been interpreted in
different ways. Some related it to the contrariety of truth and falsity proper
to enunciations of this kind, For such enunciations may be simultaneously true,
as in "Man is white” and "Man is not white,” and thus not be
contraries, for contraries mutually destroy each other. On the other hand, one
may be true and the other false, as in "Man is an animal” and "Man is
not an animal,” and thus by reason of what is signified seem to have a certain
kind of contrariety. But this does not seem to be related to what Aristotle has
said: first, because the Philosopher has not yet taken up the point of truth
and falsity of enunciations; secondly, because this very thing can also be said
of particular enunciations. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes
non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae
opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa
quae est, quod aliquid non est bonum. Others, following Porphyry, relate this
to the contrariety of the predicate. For sometimes the predicate may be denied
of the subject because of the presence of the contrary in it, as when we say,
"Man is not white” because he is black; thus it could be the contrary that
is signified by "is not white.” This is not always the case, however, for
we remove something from a subject even when it is not a contrary that is
present in it but some mean between contraries, as in saying, "So-and-so
is not white” because he is pale; or when there is a privation of act or habit
or potency, as in saying, "So-and-so is non-seeing” because he lacks the
power of sight or has an impediment so that he cannot see, or even because
something is not of such a nature as to see, as in saying, "A stone does
not see.” It is therefore possible for the things signified to be contraries,
but the enunciations themselves not to be; for as is said near the end of this
book, opinions that are about contraries are not contrary,”’ for example, an
opinion that something is good and an opinion that something is evil. Aquinas
lib. 1 l. 10 n. 22Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia
non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate
enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum
quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum
praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem
enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem
enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae
secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati
eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione
naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur,
homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim
ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est
animal. This does not seem to relate to what Aristotle has proposed either, for
he is not treating here of contrariety of things or opinions, but of
contrariety of enunciations. For this reason it seems better here to follow the
exposition of Alexander. According to his exposition, in indefinite
enunciations it is not determined whether the predicate is attributed to the
subject universally (which would constitute contrariety of enunciations), or
particularly (which would not constitute contrariety of enunciations).
Accordingly, enunciations of this kind are not contrary in mode of expression.
However, sometimes they have contrariety by reason of what is signified, i.e.,
when something is attributed to a universal in virtue of the universal nature
although the universal sign is not added, as in "Man is an animal” and "Man
is not an animal,” for in virtue of what is signified these enunciations have
the same force as "Every man is an animal” and "No man is an animal.”
Aquinas lib. 1 l. 10 n. 23Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet
quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in
oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti
universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis
diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale
praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc
excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum
quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest
ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato
secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra
quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est
pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter,
ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae
sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur
secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque
pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum
universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis
subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo
est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus,
quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum
particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus
quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias
completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam.
Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista
specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. When he says, But as regards the predicate the
universal universally predicated is not true, etc., he precludes a certain
difficulty. He has already stated that there is a diversity in the opposition
of enunciations because of the universal being taken either universally or not
universally on the part of the subject. Someone might think, as a consequence,
that a similar diversity would arise on the part of the predicate, i.e., that
the universal could be predicated both universally and not universally. To
exclude this he says that in the case in which a universal is predicated it is
not true that the universal is predicated universally. There are two reasons
for this. The first is that such a mode of predicating seems to be repugnant to
the predicate in relation to its status in the enunciation; for, as has been
said, the predicate is a quasi-formal part of the enunciation, while the
subject is a material part of it. Now when a universal is asserted universally
the universal itself is taken according to the relationship it has to the
singulars contained under it, and when it is asserted particularly the
universal is taken according to the relationship it has to some one of what is
contained under it. Thus both pertain to the material determination of the
universal. This is why it is not appropriate to add either the universal or
particular sign to the predicate, but rather to the subject; for it is more
appropriate to say, "No man is an ass” than "Every man is no ass”;
andlikewise, to say, "Some man is white” than, "Man is some white.”
However, sometimes philosophers put the particular sign next to the predicate
to indicate that the predicate is in more than the subject, and this especially
when they have a genus in mind and are investigating the differences which
complete the species. There is an instance of this in II De anima [1:412a 22]
where Aristotle says that the soul is a certain act.”’ The other reason is
related to the truth of enunciations. This has a special place in affirmations,
which would be false if the predicate were predicated universally. Hence to
manifest what he has stated, he adds, for there is no affirmation in which,
i.e., truly, a universal predicate will be predicated universally, i.e., in
which a universal predicate is used to predicate universally, for example,
"Every man is every animal.” If this could be done, the predicate
"animal” according to the singulars contained under it would have to be
predicated of the singulars contained under "man”; but such predication
could not be true, whether the predicate is in more than the subject or is
convertible with the subject; for then any one man would have to be all animals
or all risible beings, which is repugnant to the notion of the singular, which
is taken tinder the universal. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 24Nec est instantia si dicatur
quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina
enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem
veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. The truth
of the enunciation "Every man is susceptible of every discipline” is not
an instance that can be used as an objection to this position, for it is not
"discipline” that is predicated of man but "susceptible of
discipline.” It would be repugnant to truth if it were said that "Every
man is everything susceptible of discipline.” 25 Signum autem universale
negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte
subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati.
Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim
est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo
aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia
proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper
falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam
falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt
semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod
philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere
omnes consimiles esse improbandas. On the other hand, although the negative
universal sign or the particular affirmative sign are more appropriately
posited on the part of the subject, it is not repugnant to truth if they are
posited on the part of the predicate, for such enunciations may be true in some
matter. The enunciation "Every man is no stone,” for example, is true, and
so is "Every man is some animal.” But the enunciation "Every man is
every animal,” in whatever matter it occurs, is false. There are other
enunciations of this kind that are always false, such as, "Some man is
every animal” (which is false for the same reason as "Every man is every
animal” is false). And if there are any others like these, they are always
false; and the reason is the same in every case. And, therefore, in rejecting
the enunciation "Every man is every animal,” the Philosopher meant it to
be understood that all similar enunciations are to be rejected. XI. 1. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales
enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum
comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest
duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc
primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi:
contrariae vero et cetera. Now that he has determined the opposition of
enunciations by comparing universal enunciations with indefinite enunciations,
Aristotle determines the opposition of enunciations by comparing universals to
particulars. It should be noted that there is a twofold opposition in these
enunciations, one of universal to particular, and he touches upon this first;
the other is the opposition of universal to universal, and this he takes up
next, where he says, They are opposed contrarily when the universal affirmation
is opposed to the universal negation, etc. 2 Particularis vero affirmativa et
particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio
attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est
universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. The particular affirmative and particular
negative do not have opposition properly speaking, because opposition is
concerned with the same subject. But the subject of a particular enunciation is
the universal taken particularly, not for a determinate singular but
indeterminately for any singular. For this reason, when something is affirmed
or denied of the universal particularly taken, the mode of enunciating is not
such that the affirmation and negation are of the same thing; hence what is
required for the opposition of affirmation and negation is lacking. 3 Dicit
ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter,
opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed
particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive
universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum
dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico,
non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae
est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si
diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae
duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo
est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae. First he says
that the enunciation that signifies the universal, i.e., universally, is
opposed contradictorily to the one that does not signify universally but
particularly, if one of them is affirmative and the other negative (whether the
universal is affirmative and the particular negative or conversely), as in
"Every man is white,” "Not every man is white.” For, the "not
every” is used in place of the particular negative sign; consequently,
"Not every man is white” is equivalent to "Some man is not white.” In
a parallel way "no,” which signifies the same thing as "not any” or
"not some,” is the universal negative sign; consequently, the two
enunciations, "Some man is white,” which is the particular affirmative,
and "No man is white,” which is the universal negative, are contradictories.
4 Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis
per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis,
nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem
affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum
est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae.
Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur
particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. The
reason for this is that contradiction consists in the mere removal of the
affirmation by a negation. Now the universal affirmative is removed by merely
the negation of the particular and nothing else is required of necessity; but
the particular affirmative can only be removed by the universal negative
because, as has already been said, the particular negative is not properly opposed
to the particular affirmative. Consequently, the particular negative is opposed
contradictorily to the universal affirmative and the universal negative to the
particular affirmative. 5 Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit
oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus
homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet
universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum
negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis;
et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter
contraria. When he says, They are opposed contrarily when the universal
affirmation is opposed to the universal negation, etc., he touches on the
opposition of universal enunciations. The universal affirmative and universal
negative, he says, are contraries, as in "Every man is just... No man is
just”; for the universal negative not only removes the universal affirmative
but also designates an extreme of distance between them inasmuch as it denies
the whole that the affirmation posits; and this belongs to the notion of
contrariety. The particular affirmative and particular negative, for this
reason, are related as a mean between contraries. 6 Deinde cum dicit: quocirca
has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad
verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad
contradictorias; ibi: quaecumque igiturcontradictiones etc.; tertio, quantum ad
ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in
universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et
universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. He shows how the opposed affirmation and negation are
related to truth and falsity when he says, Hence in the case of the latter it
is impossible that both be at once true, etc. He shows this first in regard to
contraries; secondly, in regard to contradictories, where he says, Whenever
there are contradictions with respect to universal signifying universally,
etc.; thirdly, in regard to those that seem contradictory but are not, where he
says, But when the contradictions are of universals not signifying universally,
etc. First, he says that because the universal affirmative and universal
negative are contraries, it is impossible for them to be simultaneously true,
for contraries mutually remove each other. However, the particular enunciations
that are contradictorily opposed to the universal contraries, can be verified
at the same time in the same thing, for example, "Not every man is white”
(which is opposed contradictorily to "Every man is white”) and "Some
man is white” (which is opposed contradictorily to "No man is white”) . A
parallel to this is found in the contrariety of things, for white and black can
never be in the same thing at the same time; but the remotion of white and
black can be in the same thing at the same time, for a thing may be neither
white nor black, as is evident in something yellow. In a similar way, contrary
enunciations cannot be at once true, but their contradictories, by which they
are removed, can be true simultaneously. 7 Deinde cum dicit: quaecumque igitur
contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in
contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in
contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod
contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera
particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis:
quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in
particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut
removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit
singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit
quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet
quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod
una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul
falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non
esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse
quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Then he says, Whenever there are
contradictions with respect to universals signifying universally, one must be
true and the other false, etc. Here he shows how truth and falsity are related
in contradictories. As was said above, in contradictories the negation does no
more than remove the affirmation, and this in two ways: in one way when one of
them is universal, the other particular; in another way when each is singular.
In the case of the singular, the negation is necessarily referred to the same
thing—which is not the case in particulars and indefinites—and cannot extend to
more than removing the affirmation. Accordingly, the singular affirmative is
always contradictory to the singular negative, the identity of subject and
predicate being supposed. Aristotle says, therefore, that whether we take the
contradiction of universals universally (i.e., one of the universals being
taken universally) or the contradiction of singular enunciations, one of them
must always be true and the other false. It is not possible for them to be at
once true or at once false because to be true is nothing other than to say of
what is, that it is, or of what is not that it is not; to be false, to say of
what is not, that it is, or of what is, that it is not, as is evident in IV
Metaphysicorum [7: 1011b 25]. 8 Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium
etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur
esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de
universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit
verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum
dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus,
et, homo non est probus. When he says, But when the contradictions are of
universals not signifying universally, etc., he shows how truth and falsity are
related to enunciations that seem to be contradictory, but are not. First he proposes
how they are related; then he proves it where he says, For if he is ugly, he is
not beautiful, etc.; finally, he excludes a possible difficulty where he says,
At first sight this might seem paradoxical, etc. With respect to the first
point we should note that affirmation and negation in indefinite propositions
seem to be opposed contradictorily because there is one subject in both of them
and it is not determined by a particular sign. Hence, the affirmation and
negation seem to be about the same thing. To exclude this, the Philosopher says
that in the case of affirmative and negative enunciations of universals not
taken universally, one need not always be true and the other false, but they
can be at once true. For it is true to say both that "Man is white” and
that "Man is not white,” and that "Man is honorable” and "Man is
not honorable. 9 In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli
contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro
universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia
indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem
secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem
est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam
affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam
universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa,
quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et
ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad
quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur
indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod
non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter
quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod
materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam
Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum
secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia
huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et
ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod
indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali
negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est
potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in
genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque
genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est
potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset
potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et
simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae
negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab
universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in
his, quae per se de universalibus praedicantur. On this point, as Ammonius
reports, some men, maintaining that the indefinite negative is always to be
taken for the universal negative, have taken a position contradictory to
Aristotle’s. They argued their position in the following way. The indefinite,
since it is indeterminate, partakes of the nature of matter; but matter
considered in itself is regarded as what is less worthy. Now the universal
affirmative is more worthy than the particular affirmative and therefore they
said that the indefinite affirmative was to be taken for the particular
affirmative. But, they said, the universal negative, which destroys the whole,
is less worthy than the particular negative, which destroys the part (just as
universal corruption is worse than particular corruption); therefore, they said
that the indefinite negative was to be taken for the universal negative. They
went on to say in support of their position that philosophers, and even
Aristotle himself, used indefinite negatives as universals. Thus, in the book
Physicorum [III, 1: 200b 32] Aristotle says that there is not movement apart
from the thing; and in the book De anima [III, 1: 424b 20], that there are not
more than five senses. However, these reasons are not cogent. What they say
about matter—that considered in itself it is taken for what is less worthy—is
true according to the opinion of Plato, who did not distinguish privation from
matter; however, it is not true according to Aristotle, who says in I Physicae
[9: 192a 3 & 192a 22], that the evil and ugly and other things of this kind
pertaining to defect, are said of matter only accidentally. Therefore the
indefinite need not stand always for the more ignoble. Even supposing it is
necessary that the indefinite be taken for the less worthy, it ought not to be
taken for the universal negative; for just as the universal affirmative is more
powerful than the particular in the genus of affirmation, as containing the
particular affirmative, so also the universal negative is more powerful in the
genus of negations. Now in each genus one must consider what is more powerful
in that genus, not what is more powerful simply. Further, if we took the
position that the particular negative is more powerful than all other modes, the
reasoning still would not follow, for the indefinite affirmative is not taken
for the particular affirmative because it is less worthy, but because something
can be affirmed of the universal by reason of itself, or by reason of the part
contained under it; whence it suffices for the truth of the particular
affirmative that the predicate belongs to one part (which is designated by the
particular sign); for this reason the truth of the particular affirmative
suffices for the truth of the indefinite affirmative. For a similar reason the
truth of the particular negative suffices for the truth of the indefinite
negative, because in like manner, something can be denied of a universal either
by reason of itself, or by reason of its part. Apropos of the examples cited
for their argument, it should be noted that philosophers sometimes use
indefinite negatives for universals in the case of things that are per se
removed from universals; and they use indefinite affirmatives for universals in
the case of things that are per se predicated of universals. 10 Deinde cum
dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus
concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si
particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas
indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita
praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo,
secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo,
idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro.
Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine
existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam
homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo
est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus;
ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et
eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem
oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur
ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius
quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in
successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est
albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit
albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus.
Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. When he
says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc., he proves what he has
proposed by something conceded by everyone, namely, that the indefinite
affirmative is verified if the particular affirmative is true. We may take two
indefinite affirmatives, one of which includes the negation of the other, as
for example when they have opposed predicates. Now this opposition can happen
in two ways. It can be according to perfect contrariety, as shameful (i.e., dishonorable)
is opposed to worthy (i.e., honorable) and ugly (i.e., deformed in body) is
opposed to beautiful. But the reasoning by which the affirmative enunciation,
"Man is worthy,” is true, i.e., by some worthy man existing, is the same
as the reasoning by which "Man is shameful” is true, i.e., by a shameful
man existing. Therefore these two enunciations are at once true, "Man is
worthy” and "Man is shameful.” But the enunciation, "Man is not
worthy,” follows upon "Man is shameful.” Therefore the two enunciations,
" Man is worthy,” and "Man is not worthy,” are at once true; and by
the same reasoning these two, "Man is beautiful” and "Man is not
beautiful.” The other opposition is according to the complete and incomplete,
as to be in movement is opposed to to have been moved, and becoming to to have
become. Whence the non-being of that which is coming to be in permanent things,
whose being is complete, follows upon the becoming but this is not so in
successive things, whose being is incomplete. Thus, "Man is white” is true
by the fact that a white man exists; by the same reasoning, because a man is
becoming white, the enunciation "Man is becoming white” is true, upon
which follows, "Man is not white.” Therefore, the two enunciations,
"Man is white” and "Man is not white” are at once true. 11 Deinde cum
dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa
praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse
inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur
idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet
dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut
ex praedictis manifestum est. Then when he says, At first sight this might seem
paradoxical, etc., he excludes what might present a difficulty in relation to
what has been said. At first sight, he says, what has been stated seems to be
inconsistent; for "Man is not white” seems to signify the same thing as
"No man is white.” But he rejects this when he says that they neither
signify the same thing, nor are they at once true necessarily, as is evident
from what has been said. XII. 1. Postquam philosophus distinxit diversos modos
oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi
una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni
affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio
vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit:
primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim
idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et
cetera. Having distinguished the diverse modes of opposition in enunciations,
the Philosopher now proposes to show that there is one negation opposed to one
affirmation. First he shows that there is one negation opposed to one
affirmation; then he manifests what one affirmation and negation are, where he
says, Affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing,
etc. With respect to what he intends to do he first proposes the point; then he
manifests it where he says, for the negation must deny the same thing that the
affirmation affirms, etc. Finally, he gives a summary of what has been said,
where he says, We have said that there is one negation opposed contradictorily
to one affirmation, etc. 2 Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera,
videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic
affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa
opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis
recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola
ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua
aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa
includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in
quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. He says, then, that it is evident that
there is only one negation of one affirmation. It is necessary to make this
point here because he has posited many kinds of opposition and it might appear
that two negations are opposed to one affirmation. Thus it might seem that the
negative enunciations, "No man is white” and "Some man is not white”
are both opposed to the affirmative enunciation, "Every man is white.” But
if one carefully examines what has been said it will be evident that the only
negative opposed to "Every man is white” is "Some man is not white,”
which merely removes it, as is clear from its equivalent, "Not every man
is white.” It is true that the negation of the universal affirmative is included
in the understanding of the universal negative inasmuch as the universal
negative includes the particular negative, but the universal negative adds
something over and beyond this inasmuch as it not only brings about the removal
of universality but removes every part of it. Thus it is evident that there is
only one negation of a universal affirmation, and the same thing is evident in
the others. 3 Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo,
per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus.
Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur
affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet
negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de
eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid
universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non
contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio
posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. When
he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation
affirms, etc., he manifests what he has said: first, from reason; secondly, by
example. The reasoning is taken from what has already been said, namely, that
negation is opposed to affirmation when the enunciations are of the same thing
of the same subject. Here he says that the negation must deny the same
predicate the affirmation affirms, and of the same subject, whether that
subject he something singular or something universal, either taken universally
or not taken universally. But this can only be done in one way, i.e., when the
negation denies what the affirmation posits, and nothing else. Therefore there
is only one negation opposed to one affirmation. 4 Deinde cum dicit: dico
autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in
singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur,
Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum
vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut
ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus;
neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est
albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale
universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur
sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet
particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum
est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis
homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus.
Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum
quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod
isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa
quae est, non est homo albus. In manifesting this by example, where he says,
For example, the negation of "Socrates is white,” etc., he first takes
examples of singulars. Thus, "Socrates is not white” is the proper
negation opposed to "Socrates is white.” If there were another predicate
or another subject, it would not be the opposed negation, but wholly different.
For example, "Socrates is not musical” is not opposed to "Socrates is
white,” nor is "Plato is white” opposed to "Socrates is not white.”
Then he manifests the same thing in an affirmation with a universal universally
taken as the subject. Thus, "Not every man is white,” which is equivalent
to the particular negative, is the proper negation opposed to the affirmation,
"Every man is white.” Thirdly, he gives an example in which the subject of
the affirmation is a universal taken particularly. The proper negation opposed
to the affirmation "Some man is white” is "No man is white,” for to
say "no” is to say "not any,” i.e., "not some.” Finally, he
gives as an example enunciations in which the subject of the affirmation is the
universal taken indefinitely; "Man is not white” is the proper negation
opposed to the affirmation "Man is white.” 5 Sed videtur hoc esse contra
id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum
indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua
opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad
hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. The
last example used to manifest his point seems to be contrary to what he has
already said, namely, that the indefinite negative and the indefinite
affirmative can be simultaneously verified; but a negation and its opposite
affirmation cannot be simultaneously verified, since it is not possible to
affirm and deny of the same subject. But what Aristotle is saying here must be
understood of the negation when it is referred to the same thing the
affirmation contained, and this is possible in two ways: in one way, when something
is affirmed to belong to man by reason of what he is (which is per se to be
predicated of the same thing), and this very thing the negation denies;
secondly, when something is affirmed of the universal by reason of its
singular, and the same thing is denied of it. 6 Deinde cum dicit: quod igitur
una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex
praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum
affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et
dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt
recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis
contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro
qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere
contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam
oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt
contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit
etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas
esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem
falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria. He concludes by
summarizing what has been said: We have said that there is one negation opposed
contradictorily to one affirmation, etc. He considers it evident from what has
been said that one negation is opposed to one affirmation; and that of opposite
affirmations and negations, one kind are contraries, the other contradictories;
and that what each kind is has been stated. He does not speak of subcontraries
because it is not accurate to say that they are opposites, as was said above.
He also says here that it has been shown that not every contradiction is true
or false, "contradiction” being taken here broadly for any kind of
opposition of affirmation and negation; for in enunciations that are truly
contradictory one is always true and the other false. The reason why this may
not be verified in some kinds of opposites has already been stated, namely,
because some are not contradictories but contraries, and these can be false at
the same time. It is also possible for affirmation and negation not to be
properly opposed and consequently to be true at the same time. It has been
stated, however, when one is always true and the other false, namely, in those
that are truly contradictories. 7 Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc.,
ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat,
ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia
enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel
non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non
impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod
unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub
universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas
enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi:
si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio
cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. The Philosopher explains
what one affirmation or negation is where he says, Affirmation or negation is
one when one thing is signified of one thing, etc. He did in fact state this
earlier when he said that an enunciation is one when it signifies one thing,
but because the enunciation in which something is predicated of a universal,
either universally or not universally, contains under it many things, he is
going to show here that unity of enunciation is not impeded by this. First he
shows that unity of enunciation is not impeded by the multitude contained under
the universal, whose notion is one. Then he shows that unity of enunciation is
impeded by the multitude contained under the unity of a name only, where he
says, But if one name is imposed for two things, etc. He says, then, that an
affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing,
whether the one thing that is subjected be a universal taken universally, or
not, i.e., it may be a universal taken particularly or indefinitely, or even a
singular. He gives examples of the differ6nt kinds: such as, the universal
affirmative "Every man is white” and the particular negative, which is its
negation, "Not every man is white,” each of which is one. There are other
examples which are evident. At the end he states a condition that is required
for any of them to be one, i.e., provided the "white,” which is the
predicate, signifies one thing; for a multiple predicate with a subject
signifying one thing would also impede the unity of an enunciation. The
universal proposition is therefore one, even though it comprehends a multitude
of singulars under it, for the predicate is not attributed to many singulars
according as each is divided from the other, but according as they are united
in one common thing. 8 Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod
sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc
quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si
quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert
corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod
si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est
affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi
dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno
universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat
utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum
quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod
ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et
differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales
alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale
praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod
illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum
modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum
quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen. When
he says, But if one name is imposed for two things, he shows that unity of name
alone does not suffice for unity of an enunciation. He first makes the point;
secondly, he gives an example, where he says, if someone were to impose the
name "cloak” on horse and man, etc.; thirdly, he proves it where he says,
For this is no different from saying "Horse and man is white,” etc.;
finally, he infers a corollary from what has been said, where he says,
Consequently, in such enunciations, it is not necessary, etc. If one name is
imposed for two things, he says, from which one thing is not formed, there is
not one affirmation. The from which one thing is not formed can be understood
in two ways. It can be understood as excluding the many that are contained
under one universal, as man and horse under animal, for the name "animal”
signifies both,.not as they are many and different from each other but as they
are united in the nature of the genus. It can also be understood—and this would
be more accurate—as excluding the many parts from which something one is
formed, whether the parts of the notion as known, as the genus and the
difference, which are parts of the definition, or the integral parts of some
composite, as the stones and wood from which a house is made. If, then, there
is such a predicate which is attributed to a thing, the many that are signified
must concur in one thing according to some of the modes mentioned in order that
there be one enunciation; unity of vocal sound alone would not suffice.
However, if there is such a predicate which is referred to vocal sound, unity
of vocal sound would suffice, as in "‘Dog’is a name.” 9 Deinde cum dicit:
ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica
imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba,
non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt
etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum,
nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et,
equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant
multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa
significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero
significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non
est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt
dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est
intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est
albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed
haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera
existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones
ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad
unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est
albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec
cum dicitur, tunica est alba. He gives an example of what he means where he
says, For example, if someone were to impose the name "cloak,” etc. That
is, if someone were to impose the name "cloak” to signify man and horse
and then said, "Cloak is white,” there would not be one affirmation, nor
would there be one negation. He proves this where he says, For this is no
different from saying, etc. His argument is as follows. If "cloak”
signifies man and horse there is no difference between saying "Cloak is
white” and saying, "Man is white, and, Horse is white.” But "Man is
white, and, horse is white” signify many and are many enunciations. Therefore,
the enunciation, "Cloak is white,” signifies many things. This is the case
if "cloak” signifies man and horse as diverse things; but if it signifies
man and horse as one thing, it signifies nothing, for there is not any thing
composed of man and horse. When Aristotle says that there is no difference
between saying "Cloak is white” and, "Man is white, and, horse is
white,” it is not to be understood with respect to truth and falsity. For the
copulative enunciation "Man is white and horse is white” cannot be true
unless each part is true; but the enunciation "Cloak is white,” under the
condition given, can be true even when one is false; otherwise it would not be
necessary to distinguish multiple propositions to solve sophistic arguments.
Rather, it is to be understood with respect to unity and multiplicity, for just
as in "Man is white and horse is white” there is not some one thing to
which the predicate is attributed, so also in "Cloak is white.” 10 Deinde
cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his
affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper
oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud
negare quam affirmatio affirmet. When he says, Consequently, it is not
necessary in such enunciations, etc., he concludes from what has been said that
in affirmations and negations that use an equivocal subject, one need not
always be true and the other false since the negation may deny something other
than the affirmation affirms. XIII. 1. Postquam philosophus determinavit de
oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum
oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum
scilicet id quod dictum est similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel
non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat
eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera. Now that he, has treated
opposition of enunciations and has shown the way in which opposed enunciations
divide truth and falsity, the Philosopher inquires about a question that might
arise, namely, whether what has been said is found to be so in all enunciations
or not. And first he proposes a dissimilarity in enunciations with regard to
dividing truth and falsity, then proves it where he says, For if every
affirmation or negation is true or false, etc. 2 Circa primum considerandum est
quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit,
quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio
est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem,
prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum
quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam
particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. In relation to the
dissimilarity which he intends to prove we should recall that the Philosopher
has given three divisions of the enunciation. The first was in relation to the
unity of enunciation, and according to this it is divided into one simply and
one by conjunction; the second was in relation to quality, and according to
this it is divided into affirmative and negative; the third was in relation to
quantity, and according to this it is either universal, particular, indefinite,
or singular. 3 Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus.
Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec
etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra
quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum
autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui
consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta
divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. Here he treats of a fourth division of enunciation, a division
according to time. Some enunciations are about the present, some about the
past, some about the future. This division could be seen in what Aristotle has
already said, namely, that every enunciation must have a verb or a mode of a
verb, the verb being that which signifies the present time, the modes with past
or future time. In addition, a fifth division of the enunciation can be made, a
division in regard to matter. It is taken from the relationship of the
predicate to the subject. If the predicate is per se in the subject, it will be
said to be an enunciation in necessary or natural matter. Examples of this are "Man
is an animal” and "Man is risible.” If the predicate is per se repugnant
to the subject, as excluding the notion of it, it is said to be an enunciation
in impossible or remote matter; for example, the enunciation "Man is an
ass.” If the predicate is related to the subject in a way midway between these
two, being neither per se repugnant to the subject nor per se in it, the
enunciation is said to be in possible or contingent matter. 4 His igitur
enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de
veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis
concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in
his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod
affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen
hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in
quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse
est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera
falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio
enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est
negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa
non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic
oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in
quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae
etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus,
in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse
quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae,
ut supra ostensum est. Given these differences of enunciations, the judgment of
truth and falsity is not alike in all. Accordingly, the Philosopher says, as a
conclusion from what has been established: In enunciations about that which is,
i.e., in propositions about the present, or has taken place, i.e., in
enunciations about the past, the affirmation or the negation must be
determinately true or false. However, this differs according to the different
quantity of the enunciations. In enunciations in which something is universally
predicated of universal subjects, one must always be true, either the
affirmative or negative, and the other false, i.e., the one opposed to it. For
as was said above, the negation of a universal enunciation in which something
is predicated universally, is not the universal negative, but the particular
negative, and conversely, the universal negative is not directly the negation
of the universal affirmative, but the particular negative. According to the
foregoing, then, one of these must always be true and the other false in any
matter whatever. And the same is the case in singular enunciations, which are
also opposed contradictorily. However, in enunciations in which something is
predicated of a universal but not universally, it is not necessary that one
always be true and the other false, for both could be at once true. 5 Et hoc
quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de
praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam
similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel
universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes
affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et
praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario.
In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in
futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque
simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. The case as it
was just stated has to do with propositions about the past or the present.
Enunciations about the future that are of universals taken either universally
or not universally are also related in the same way in regard to oppositions.
In necessary matter all affirmative enunciations are determinately true; this
holds for enunciations in future time as well as in past and present time; and
negative enunciations are determinately false. In impossible matter the
contrary is the case. In contingent matter, however, universal enunciations are
false and particular enunciations true. This is the case in enunciations about
the future as well as those of the past and present. In indefinite
enunciations, both are at once true in future enunciations as well as in those
of the present or the past. 6 Sed in singularibus et futuris est quaedam
dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera
oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in
singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit
vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem:
nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in
futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles
mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia
pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant,
attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur
versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de
futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit
vera et altera falsa. In singular future enunciations, however, there is a
difference. In past and present singular enunciations, one of the opposites
must be determinately true and the other false in any matter whatsoever, but in
singulars that are about the future, it is not necessary that one be
determinately true and the other false. This holds with respect to contingent
matter; with respect to necessary and impossible matter the rule is the same as
in enunciations about the present and the past. Aristotle has not mentioned
contingent matter until now because those things that take place contingently
pertain exclusively to singulars, whereas those that per se belong or are
repugnant are attributed to singulars according to the notions of their
universals. Aristotle is therefore wholly concerned here with this question:
whether in singular enunciations about the future in contingent matter it is
necessary that one of the opposites be determinately true and the other
determinately false. 7 Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat
praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum
ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae
sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum
duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest
determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non
potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero nequequoniam et cetera.
Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam,
scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa
ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia
necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic
quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat
consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat
aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem
ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in
singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam
vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non
autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus
futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet
locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum
dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc
probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet
quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod
manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de
necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate
sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex
necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam
convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex
necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et
e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod
affirmans vel negans mentiatur. He proves that there is a difference between
these opposites and the others where he says, For if every affirmation or
negation is true or false, etc. First he proves it by showing that the opposite
position leads to what is unlikely; secondly, he shows that what follows from
this position is impossible, where he says, These absurd consequences and
others like them, etc. In his proof he first shows that in enunciations about
future singulars, truth cannot always be determinately attributed to one of the
opposites, and then he shows that both cannot lack truth, where he says, But
still it is not possible to say that neither is true, etc. He gives two arguments
with respect to the first point. In the first of these he states a certain
consequence, namely, that if every affirmation or negation is determinately
true or false, in future singulars as in the others, it follows that all things
must determinately be or not be. He proves this consequence where he says,
wherefore, if one person says, etc.,or as it is in the Greek, for if one person
says something will be, etc.”’ Let us suppose, he argues, that there are two
men, one of whom says something will take place in the future, for instance,
that Socrates will run, and the other says this same thing will not take place.
If the foregoing position is supposed—that in singular future enunciations one
of them will be true, either the affirmative or the negative it would follow
that only one of them is saying what is true, because in singular future
propositions both cannot be at once true, that is, both the affirmative and the
negative. This occurs only in indefinite propositions. Moreover, from the fact
that one of them must be speaking the truth, it follows that it must
determinately be or not be. Then he proves this from the fact that these two
follow upon each other convertibly, namely, truth is that which is said and
which is so in reality. And this is what he manifests when he says that, if it
is true to say that a thing is white, it necessarily follows that it is so in
reality; and if it is true to deny it, it necessarily follows that it is not
so. And conversely, for if it is so in reality, or is not, it necessarily
follows that it is true to affirm or deny it. The same convertibility is also
evident in what is false, for if someone lies, saying what is false, it
necessarily follows that in reality it is not as he affirms or denies it to be;
and conversely, if it is not in reality as he affirms or denies it to be, it
follows that in affirming or denying it he lies. 8. Est ergo processus huius
rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in
singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans
vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne
necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio
determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc
concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus
contingentium excluditur. The process of Aristotle’s reasoning is as follows.
If it is necessary that every affirmation or negation about future singulars is
true or false, it is necessary that everyone who affirms or denies,
determinately says what is true or false. From this it follows that it is
necessary that everything be or not be. Therefore, if every affirmation or
negation is determinately true, it is necessary that everything determinately
be or not be. From this he concludes further that all things are of necessity.
This would exclude the three kinds of contingent things. 9 Quaedam enim
contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se
habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad
aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus;
sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia
ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil
est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit
quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad
ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea
quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad
neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non
erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus
determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de
convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius
sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus
quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad
incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens
impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod,
quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo
determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur
quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod,
si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui
affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad
utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc
quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem
considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut
in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit
quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut
dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a
casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus:
nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi
quod deficit in minori parte. The three kinds of contingent things are these:
some, the ones that happen by chance or fortune, happen infrequently; others
are in determinate to either of two alternatives because they are not inclined
more to one part than to another, and these proceed from choice; still others
occur for the most part, for example, men becoming gray in old age, which is
caused by nature. If, however, everything took place of necessity, there would
be none of these kinds of contingent things. Therefore, Aristotle says, nothing
is with respect to the very permanence of those things that are contingently
permanent; or takes place with respect to those that are caused contingently;
by chance with respect to those that take place for the least part, or
infrequently; or is indeterminate to either of two alternatives with respect to
those that are related equally to either of two, i.e., to being or to nonbeing,
and are determined to neither of these, which he signifies when he adds, or
will be, or will not be. For of that which is more determined to one part we
can truly and determinately say that it will be or will not be, as for example,
the physician truly says of the convalescent, "He will be restored to
health,” although perchance by some accident his cure may be impeded. The
Philosopher makes this same point when he says in II De generatione [11: 337b
7], "A man about to walk might not walk.” For it can be truly said of
someone who has the determined intention to walk that he will walk, although by
some accident his walking might be impeded. But in the case of that which is
indeterminate to either of two, it cannot determinately be said of it either
that it will be or that it will not be, for it is proper to it not to be
determined more to one than to another. Then he manifests how it follows from
the foregoing hypothesis that nothing is indeterminate to either of two when he
adds that if every affirmation or negation is determinately true, then either
the one who affirms or the one who denies must be speaking the truth. That
which is indeterminate to either of two is therefore destroyed, for if there is
something indeterminate to either of two, it would be related alike to taking
place or not taking place, and no more to one than to the other. It should be,
noted that the Philosopher is not expressly excluding the contingent that is
for the most part. There are two reasons for this. In the first place, this
kind of contingency still excludes the determinate truth of one of the opposite
enunciations and the falsity of the other, as has been said. Secondly, when the
contingent that is infrequent, i.e., that which takes place by chance, is
removed, the contingent that is for the most part is removed as a consequence,
for there is no difference between that which is for the most part and that
which is infrequent except that the former fails for the least part. 10 Deinde
cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum
praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet
veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est
de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti.
Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo
primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit
album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante
unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit
verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est
verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest
hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista
duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam
hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur
verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin
illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat
cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem
significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur.
Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex
quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia
illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc
autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod
omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. When he
says, Furthermore, on such a supposition, if something is now white, it was
true to say formerly that it will be white, etc., he gives a second argument to
show the dissimilarity of enunciations about future singulars. This argument is
by reduction to the impossible. If truth and falsity. are related in like manner
in present and in future enunciations, it follows that whatever is true of the
present was also true of the future, in the way in which it is true of the
present. But it is now determinately true to say of some singular that it is
white; therefore formerly, i.e., before it became white, it was true to say
that this will be white. Now the same reasoning seems to hold for the proximate
and the remote. Therefore, if yesterday it was true to say that this will be
white, it follows that it was always true to say of anything that has taken
place that it will be. And if it is always true to say of the present that it
is, or of the future that it will be, it is not possible that this not be, or,
that it will not be. The reason for this consequence is evident, for these two
cannot stand together, that something truly be said to be, and that it not be;
for this is included in the signification of the true, that that which is said,
is. If therefore that which is said concerning the present or the future is
posited to be true, it is not possible that this not be in the present or
future. But that which cannot not take place signifies the same thing as that
which is impossible not to take place. And that which is impossible not to take
place signifies the same thing as that which necessarily takes place, as will
be explained more fully in the second book. It follows, therefore, that all
things that are future must necessarily take place. From this it follows
further, that there is nothing that is indeterminate to either of two or that
takes place by chance, for what happens by chance does not take place of
necessity but happens infrequently. But this is unlikely. Therefore the first
proposition is false, i.e., that of everything of which it is true that it is,
it was determinately true to say that it would be. 11 Ad cuius evidentiam
considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod
est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in
praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed
quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua
causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut
ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa;
unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua
causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri
potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de
hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio,
aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata
ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum
determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. For clarification
of this point, we must consider the following. Since "true” signifies that
something is said to be what it is, something is true in the manner in which it
has being. Now, when something is in the present it exists in itself, and hence
it can be truly said of it that it is. But as long as something is future, it
does not yet exist in itself, but it is in a certain way in its cause, and this
in a threefold way. It may be in its cause in such a way that it comes from it
necessarily. In this case it has being determinately in its cause, and
therefore it can be determinately said of it that it will be. In another way,
something is in its cause as it has an inclination to its effect but can be
impeded. This, then, is determined in its cause, but changeably, and hence it
can be truly a said of it that it will be but not with complete certainty.
Thirdly, something is in its cause purely in potency. This is the case in which
the cause is as yet not determined more to one thing than to another, and
consequently it cannot in any way be said determinately of these that it is
going to be, but that it is or is not going to be. 12 Deinde cum dicit: at vero
neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus
futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut
non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate,
sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque
erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Then Aristotle says, But still it is not possible to say that
neither is true, etc. Here he shows that truth is not altogether lacking to
both of the opposites in singular future enunciations. First he says that just
as it is not true to say that in such enunciations one of the opposites is
determinately true, so it is not true to say that neither is true; as if we
could say that a thing neither will take place nor will not take place. Then when
he says, In the first place, though the affirmation be false, etc., he gives
two arguments to prove his point. The first is as follows. Affirmation and
negation divide the true and the false. This is evident from the definition of
true and false, for to be true is to be what in fact is, or not to be what in
fact is not; and to be false is to be what in fact is not, or not to be what in
fact is. Consequently, if the affirmation is false, the negation must be true,
and conversely. But if the position is taken that neither is true, the
affirmation, "This will be” is false, yet the negation is not true;
likewise the negation will be false and the affirmation not be true. Therefore,
the aforesaid position is impossible, i.e., that truth is lacking to both of
the opposites. The second argument begins where he says, Secondly, if it is
true to say that a thing is white and large, etc. The argument is as follows.
If it is true to say something, it follows that it is. For example, if it is
true to say that something is large and white, it follows that it is both. And
this is so of the future as of the present, for if it is true to say that it
will be tomorrow, it follows that it will be tomorrow. Therefore, if the
position that it neither will be or not be tomorrow is true, it will be
necessary that it neither happen nor not happen, which is contrary to the
nature of that which is indeterminate to either of two, for that which is
indeterminate to either of two is related to either; for example, a naval
battle will take place tomorrow, or will not. The same unlikely things follow,
then, from this as from the first argument. XIV. 1. Ostenderat superius
philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum
determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de
aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae
adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit
impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se
veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera. The Philosopher has
shown—by leading the opposite position to what is unlikely—that in singular
future enunciations truth or falsity is not determinately in one of the
opposites, as it is in other enunciations. Now he is going to show that the
unlikely things to which it has led are impossibilities. First he shows that
the things that followed are impossibilities; then he concludes what the truth
is, where he says, Now that which is, when it is, necessarily is, etc. 2 Circa
primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo,
ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim
prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi:
quod si haecpossibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis
rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod
necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram
esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet
nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex
necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum
est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum
quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de
contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod
omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae
est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex
necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed
hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et
negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid
aliud, erit alius finis. With respect to the impossibilities that follow he
first states the unlikely things that follow from the opposite position, then
shows that these follow from the aforesaid position, where he says, For nothing
prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years,
etc. Finally he shows that these are impossibilities where he says, But these
things appear to be impossible, etc. He says, then, concluding from the
preceding reasoning, that these unlikely things follow—if the position is taken
that of opposed enunciations one of the two must be determinately true and the
other false in the same way in singular as in universal enunciations—namely,
that in things that come about nothing is indeterminate to either of two, but
all things are and take place of necessity. From this he infers two other
unlikely things that follow. First, it will not be necessary to deliberate
about anything; whereas he proved in III Ethicorum [3: 1112a 19] that counsel
is not concerned with things that take place necessarily but only with
contingent things, i.e., things which can be or not be. Secondly, all human
actions that are for the sake of some end (for example, a business transaction
to acquire riches) will be superfluous, because what we intend will take place
whether we take pains to bring it about or not—if all things come about of
necessity. This, however, is in opposition to the intention of men, for they
seem to deliberate and to transact business with the intention that if they do
this there will be such a result, but if they do something else, there will be
another result. 3 Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta
inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo,
ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo,
ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi:
at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante
mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de
his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis
subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio
vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate
verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem
ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Where he says,
For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten
thousand years, etc., he proves that the said unlikely things follow from the
said position. First he shows that the unlikely things follow from the positing
of a certain possibility; then he shows that the same unlikely things follow
even if that possibility is not posited, where he says, Moreover, it makes no
difference whether people have actually made the contradictory statements or
not, etc. He says, then, that it is not impossible that a thousand years
before, when men neither knew nor ordained any of the things that are taking
place now, a man said, "This will be,” for example, that such a state
would be overthrown, and another man said, "This will not be.” But if
every affirmation or negation is determinately true, one of them must have spoken
the truth. Therefore one of them had to take place of necessity; and this same
reasoning holds for all other things. Therefore everything takes place of
necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 4Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt
etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim
differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse
futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc
factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum
affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia
veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e
converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur,
utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque
tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas
enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad
hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel
fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt,
quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel
praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident,
quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens,
semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.Then he shows that the same
thing follows if this possibility is not posited where he says, Moreover, it
makes no difference whether people have actually made the contradictory
statements or not, etc. It makes no difference in relation to the existence or
outcome of things whether a person denies that this is going to take place when
it is affirmed, or not; for as was previously said, the event will either take
place or not whether the affirmation and denial have been made or not. That
something is or is not does not result from a change in the course of things to
correspond to our affirmation or denial, for the truth of our enunciation is
not the cause of the existence of things, but rather the converse. Nor does it
make any difference to the outcome of what is now being done whether it was
affirmed or denied a thousand years before, or at any other time before.
Therefore, if in all past time, the truth of enunciations was such that one of
the opposites had to have been truly said and if upon the necessity of
something being truly said it follows that this must be or take place, it will
follow that everything that takes place is such that it takes place of
necessity. The reason he assigns for this consequence is the following. If it
is posited that someone truly says this will be, it is not possible that it
will not be, just as having supposed that man is, he cannot not be a rational
mortal animal. For to be truly said means that it is such as is said. Moreover,
the relationship of what is said. now to what will be is the same as the
relationship of what was said previously to what is in the present or the past.
Therefore, all things have necessarily happened, and they are necessarily
happening, and they will necessarily happen, for of what is accomplished now,
as existing in the present or in the past, it was always true to say that it would
be. 5 Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit
praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla
sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus;
ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit
esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse
principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et
in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si
removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia
philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis,
nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines
alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis
scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit
principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod
consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent
dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam
naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde
impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel
consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod
omnia ex necessitate eveniant. When he says, But these things appear to be
impossible, etc., he shows that what has been said is impossible. He shows this
first by reason, secondly by sensible examples, where he says, We can point to
many clear instances of this, etc. First he argues that the position taken is
impossible in relation to human affairs, for clearly man seems to be the
principle of the future things that he does insofar as he is the master of his
own actions and has the power to act or not to act. Indeed, to reject this
principle would be to do away with the whole order of human association and all
the principles of moral philosophy. For men are attracted to good and withdrawn
from evil by persuasion and threat, and by punishment and reward; but rejection
of this principle would make these useless and thus nullify the whole of civil
science. Here the Philosopher accepts it as an evident principle that man is
the principle of future things. However, he is not the principle of future
things unless he deliberates about a thing and then does it. In those things
that men do without deliberation they do not have dominion over their acts,
i.e., they do not judge freely about things to be done, but are moved to act by
a kind of natural instinct such as is evident in the case of brute animals.
Hence, the conclusion that it is not necessary for us to take pains about
something or to deliberate is impossible; likewise what it followed from is
impossible, i.e., that all things take place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14
n. 6Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis
rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non
semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper
essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per
hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc
quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus
contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia
ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam
se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse. Then he shows that this is
also the case in other things where he says, and that universally in the things
not always in act, there is a potentiality to be and not to be, etc. In natural
things, too, it is evident that there are some things not always in act; it is
therefore possible for them to be or not be, otherwise they would either always
be or always not be. Now that which is not begins to be something by becoming
it; as for example, that which is not white begins to be white by becoming
white. But if it does not become white it continues not to be white. Therefore,
in things that have the possibility of being and not being, there is also the
possibility of becoming and not becoming. Such things neither are nor come to
be of necessity but there is in them the kind of possibility which disposes
them to becoming and not becoming, to being and not being. 7 Deinde cum dicit:
ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit
enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia
nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat
autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam
non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul
veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam
vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si
exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et
non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non
sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex
necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se
habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus
alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in
paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut
in pluribus. Next he shows the impossibility of what was said by examples
perceptible to the senses, where he says, We can point to many clear instances
of this, etc. Take a new garment for example. It is evident that it is possible
to cut it, for nothing stands in the way of cutting it either on the part of
the agent or the patient. He proves it is at once possible that it be cut and that
it not be cut in the same way he has already proved that two opposed indefinite
enunciations are at once true, i.e., by the assumption of contraries. just as
it is possible that the garment be cut, so it is possible that it wear out,
i.e., be corrupted in the course of time. But if it wears out it is not cut.
Therefore both are possible, i.e., that it be cut and that it not be cut. From
this he concludes universally in regard to other future things which are not
always in act, but are in potency, that not all are or take place of necessity;
some are indeterminate to either of two, and therefore are not related any more
to affirmation than to negation; there are others in which one possibility
happens for the most part, although it is possible, but for the least part,
that the other part be true, and not the part which happens for the most part. 8
Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa
possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim
distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse
impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile
vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec
secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non
potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a
veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem
distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non
enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper
erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio
est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium,
quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere
non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut
scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum
ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile
autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum
quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens
ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec
est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum. With
regard to this question about the possible and the necessary, there have been
different opinions, as Boethius says in his Commentary, and these will have to
be considered. Some who distinguished them according to result—for example,
Diodorus—said that the impossible is that which never will be, the necessary,
that which always will be, and the possible, that which sometimes will be,
sometimes not. The Stoics distinguished them according to exterior restraints.
They said the necessary was that which could not be prevented from being true,
the impossible, that which is always prevented from being true, and the
possible, that which can be prevented or not be prevented. However, the
distinctions in both of those cases seem to be inadequate. The first distinctions
are a posteriori, for something is not necessary because it always will be, but
rather, it always will be because it is necessary; this holds for the possible
as well as the impossible. The second designation is taken from what is
external and accidental, for something is not necessary because it does not
have an impediment, but it does not have an impediment because it is necessary.
Others distinguished these better by basing their distinction on the nature of
things. They said that the necessary is that which in its nature is determined
only to being, the impossible, that which is determined only to nonbeing, and
the possible, that which is not altogether determined to either, whether
related more to one than to another or related equally to both. The latter is
known as that which is indeterminate to either of two. Boethius attributes
these distinctions to Philo. However, this is clearly the opinion of Aristotle
here, for he gives as the reason for the possibility and contingency in the
things we do the fact that we deliberate, and in other things the fact that
matter is in potency to either it of two opposites. 9 Sed videtur haec ratio
non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur
in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus
invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter,
sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad
utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi
etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad
unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest,
consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem
modo. But this reasoning does not seem to be adequate either. While it is true
that in corruptible bodies matter is in potency to being and nonbeing, and in
celestial bodies there is potency to diverse location; nevertheless nothing
happens contingently in celestial bodies, but only of necessity. Consequently,
we have to say that the potentiality of matter to either of two, if we are
speaking generally, does not suffice as a reason for contingency unless we add
on the part of the active potency that it is not wholly determined to one; for
if it is so determined to one that it cannot be impeded, it follows that it
necessarily reduces into act the passive potency in the same mode. 10 Hoc
igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus
naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam
dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione
causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa
autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit,
multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis;
et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Considering this, some
maintained that the very potency which is in natural things receives necessity
from some cause determined to one. This cause they called fate. The Stoics, for
example, held that fate was to be found in a series or interconnection of
causes on the assumption that everything that happens has a cause; but when a
cause has been posited the effect is posited of necessity, and if one per se
cause does not suffice, many causes concurring for this take on the nature of
one sufficient cause; so, they concluded, everything happens of necessity. 11 Sed
hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque
propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed
solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam;
quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato
dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod
est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis
huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti,
necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens
sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa
combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Aristotle
refutes this reasoning in VI Metaphysicae [2: 1026a 33] by destroying each of
the assumed propositions. He says there that not everything that takes place
has a cause, but only what is per se has a cause. What is accidental does not
have a cause, for it is not properly being but is more like nonbeing, as Plato
also held. Whence, to be musical has a cause and likewise to be white, but to
be musical white does not have a cause; and the same is the case with all
others of this kind. It is also false that when a cause has been posited—even a
sufficient one—the effect must be posited, for not every cause (even if it is
sufficient) is such that its effect cannot be impeded. For example, fire is a
sufficient cause of the combustion of wood, but if water is poured on it the
combustion is impeded. 12 Si autem utraque propositionum praedictarum esset
vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si
quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque
dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic
quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in
praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem
causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit
salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur
a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo
Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum
esse falsam, ut dictum est. However, if both of the aforesaid propositions were
true, it would follow infallibly that everything happens necessarily. For if
every effect has a cause, then it would be possible to reduce an effect (which
is going to take place in five days or whatever time) to some prior cause, and
so on until it reaches a cause which is now in the present or already has been
in the past. Moreover, if when the cause is posited it is necessary that the
effect be posited, the necessity would reach through an order of causes all the
way to the ultimate effect. For instance, if someone eats salty food, he will
be thirsty; if he is thirsty, he will go outside to drink; if he goes outside
to drink, he will be killed by robbers. Therefore, once he has eaten salty
food, it is necessary that he be killed. To exclude this position, Aristotle
shows that both of these propositions are false. 13 Obiiciunt autem quidam
contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita
oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non
attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit
ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui
subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per
accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per
se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non
habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter
referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur. However,
some persons object to this on the grounds that everything accidental is
reduced to something per se and therefore an effect that is accidental must be
reduced to a per se cause. Those who argue in this way fail to take into
account that the accidental is reduced to the per se inasmuch as it is
accidental to that which is per se; for example, musical is accidental to
Socrates, and every accident to some subject existing per se. Similarly,
everything accidental in some effect is considered in relation to some per se
effect, which effect, in relation to that which is per se, has a per se cause,
but in relation to what is in it accidentally does not have a per se cause but
an accidental one. The reason for this is that the effect must be
proportionately referred to its cause, as is said in II Physicorum [3: 195b
25-28] and in V Metaphysicae [2: 1013b 28]. 14 Quidam vero non attendentes
differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes
effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse
virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse
fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire
necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et
voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum:
cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus
organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe
subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla
enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem
sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur
actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem
ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non
ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum
redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et
voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium
sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens
habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in
VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit
necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis
corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens
eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se
in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem
est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio
non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo
philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa
praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non
eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam
impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem;
tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam
naturaliter agentem. Some, however, not considering the difference between
accidental and per se effects, tried to reduce all the effects that come about
in this world to some per se cause. They posited as this cause the power of the
heavenly bodies and assumed fate to be dependent on this power—fate being,
according to them, nothing else but the power of the position of the
constellations. But such a cause cannot bring about necessity in all the things
accomplished in this world, since many things come about from intellect and
will, which are not subject per se and directly to the power of the heavenly
bodies. For the intellect, or reason, and the will which is in reason, are not
acts of a corporeal organ (as is proved in the treatise De anima [III, 4: 429a
18]) and consequently cannot be directly subject to the power of the heavenly
bodies, since a corporeal force, of itself, can only act on a corporeal thing.
The sensitive powers, on the other hand, inasmuch as they are acts of corporeal
organs, are accidentally subject to the action of the heavenly bodies. Hence,
the Philosopher in his book De anima [III, 3: 427a 21] ascribes the opinion
that the will of man is subject to the movement of the heavens to those who
hold the position that the intellect does not differ from sense. The power of the
heavenly bodies, however, does indirectly redound to the intellect and will
inasmuch as the aq intellect and will use the sensitive powers. But clearly the
passions of the sensitive powers do not induce necessity of reason and will,
for the continent man has wrong desires but is not seduced by them, as is shown
in VII Ethicorum [3: 1146a 5]. Therefore, we may conclude that the power of the
heavenly bodies does not bring about necessity in the things done through
reason and will. This is also the case in other corporeal effects of
corruptible things, in which many things happen accidentally. What is
accidental cannot be reduced to a per se cause in a natural power because the
power of nature is directed to some one thing; but what is accidental is not
one; whence it was said above that the enunciation "Socrates is a white
musical being” is not one because it does not signify one thing. This is the
reason the Philosopher says in the book De somno et vigilia [object] Close that
many things of which the signs pre-exist in the heavenly bodies—for example in
storm clouds and tempests—do not take place because they are accidentally
impeded. And although this impediment considered as such is reduced to some
celestial cause, the concurrence of these, since it is accidental, cannot be
reduced to a cause acting naturally. 15 Sed considerandum est quod id quod est
per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum,
quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in
quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc
contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in
aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum
locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de
alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc
quod in certo loco sibi occurrant. However, what is accidental can be taken as
one by the intellect. For example, "the white is musical,” which as such
is not one, the intellect takes as one, i.e., insofar as it forms one
enunciation by composing. And in accordance with this it is possible to reduce
what in itself happens accidentally and fortuitously to a preordaining
intellect For example, the meeting of two servants at a certain place may be accidental
and fortuitous with respect to them, since neither knew the other would be
there, but be per se intended by their master who sent each of them to
encounter the other in a certain place. 16 Et secundum hoc aliqui posuerunt
omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel
casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere
fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino
ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est
falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut
esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in
quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et
suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum
velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est
bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius
cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex
hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse
perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens. Accordingly, some have
maintained that everything whatever that is effected in this world—even the
things that seem fortuitous and casual—is reduced to the order of divine
providence on which they said fate depends. Other foolish men have denied this,
judging of the Divine Intellect in the mode of our intellect which does not
know singulars. But the position of the latter is false, for His divine
thinking and willing is His very being. Hence, just as His being by its power
comprehends all that is in any way (i.e., inasmuch as it is through
participation of Him) so also His thinking and what He thinks comprehend all
knowing and everything knowable, and His willing and what He wills comprehend
all desiring and every desirable good; in other words, whatever is knowable
falls under His knowledge and whatever is good falls under His will, just as
whatever is falls under His active power, which He comprehends perfectly, since
He acts by His intellect. 17 Sed si providentia divina sit per se causa omnium
quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate
accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia
falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex
parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo
quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant. It may be objected, however,
that if Divine Providence is the per se cause of everything that happens in
this world, at least of good things, it would look as though everything takes
place of necessity: first on the part of His knowledge, for His knowledge
cannot be fallible, and so it would seem that what He knows happens
necessarily; secondly, on the part of the will, for the will of God cannot be
inefficacious; it would seem, therefore, that everything He wills happens of
necessity. 18 Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini
intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in
nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. These objections arise
from judging of the cognition of the divine intellect and the operation of the
divine will in the way in which these are in us, when in fact they are very
dissimilar. 19 Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae
considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis
eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis
aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis.
Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum
philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est
prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi
homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine
transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus,
in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et
ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos
praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset
aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri
constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via
existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter
perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non
cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. On the part of cognition or knowledge it
should be noted that in knowing things that take place according to the order
of time, the cognitive power that is contained in any way under the order of
time is related to them in another way than the cognitive power that is totally
outside of the order of time. The order of place provides a suitable example of
this. According to the Philosopher in IV Physicorum [11:219a 14], before and
after in movement, and consequently in time, corresponds to before and after in
magnitude. Therefore, if there arc many men passing along some road, any one of
those in the ranks has knowledge of those preceding and following as preceding
and following, which pertains to the order of place. Hence any one of them sees
those who are next to him and some of those who precede him; but he cannot see
those who follow behind him. If, however, there were someone outside of the
whole order of those passing along the road, for instance, stationed in some
high tower where he could see the whole road, he would at once see all those
who were on the road—not under the formality of preceding and subsequent (i.e.,
in relation to his view) but all at the same time and how one precedes another.
Now, our cognition falls under the order of time, either per se or
accidentally; whence the soul in composing and dividing necessarily includes
time, as is said in III De anima [6: 430a 32]. Consequently, things are subject
to our cognition under the aspect of present, past, and future. Hence the soul
knows present things as existing in act and perceptible by sense in some way;
past things it knows as remembered; future things are not known in themselves
because they do not yet exist, but can be known in their causes—with certitude
if they are totally determined in their causes so that they will take place of
necessity; by conjecture if they are not so determined that they cannot be
impeded, as in the case of those things that are for the most part; in no way
if in their causes they are wholly in potency, i.e., not more determined to one
than to another, as in the case of those that are indeterminate to either of
two. The reason for this is that a thing is not knowable according as it is in
potency, but only according as it is in act, as the Philosopher shows in IX
Metaphysicae [9: 1051a 22]. 20 Sed Deus est omnino extra ordinem temporis,
quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus
temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu
videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum
quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum
prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum
videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in
quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in
causa sua. God, however, is wholly outside the order of time, stationed as it
were at the summit of eternity, which is wholly simultaneous, and to Him the
whole course of time is subjected in one simple intuition. For this reason, He
sees in one glance everything that is effected in the evolution of time, and
each thing as it is in itself, and it is not future to Him in relation to His
view as it is in the order of its causes alone (although He also sees the very
order of the causes), but each of the things that are in whatever time is seen
wholly eternally as the human eye sees Socrates sitting, not in its causes but
in itself. 21 Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius
contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et
infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque
prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus
certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea
quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter. Now
from the fact that man sees Socrates sitting, the contingency of his sitting
which concerns the order of cause to effect, is not destroyed; yet the eye of
man most certainly and infallibly sees Socrates sitting while he is sitting,
since each thing as it is in itself is already determined. Hence it follows
that God knows all things that take place in time most certainly and
infallibly, and yet the things that happen in time neither are nor take place
of necessity, but contingently. 22 Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio
utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit
necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit
esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes
deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel
necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut
a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc
autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis
alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet
quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed
necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus
eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. There is likewise a difference
to be noted on the part of the divine Will, for the divine will must be
understood as existing outside of the order of beings, as a cause producing the
whole of being and all its differences. Now the possible and the necessary are
differences of being, an(] therefore necessity and contingency in things and
the distinction of each according to the nature of their proximate causes
originate from the divine will itself, for He disposes necessary causes for the
effects that He wills to be necessary, and He ordains causes acting
contingently (i.e., able to fail) for the effects that He wills to be
contingent. And according to the condition of these causes, effects are called
either necessary or contingent, although all depend on the divine will as on a
first cause, which transcends the order of necessity and contingency. This,
however, cannot be said of the human will, nor of any other cause, for every
other cause already falls under the order of necessity or contingency; hence,
either the cause itself must be able to fail or, if not, its effect is not
contingent, but necessary. The divine will, on the other hand, is unfailing;
yet not all its effects are necessary, but some are contingent. 23 Similiter
autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Some men, in their desire
to show that the will in choosing is necessarily moved by the desirable, argued
in such a way as to destroy the other root of contingency the Philosopher
posits here, based on our deliberation. Since the good is the object of the
will, they argue, it cannot (as is evident) be diverted so as not to seek that
which seems good to it; as also it is not possible to divert reason so that it
does not assent to that which seems true to it. So it seems that choice, which
follows upon deliberation, always takes place of necessity; thus all things of
which we are the principle through deliberation and choice, will take place of
necessity. 24 Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa
bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut
prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit;
sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est
conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet
quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes
conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit
intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius.
Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita
scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia,
quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis
inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est
propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et
huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam
necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt
appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad
principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua
bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent
ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et
forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed
particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub
ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta,
comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde
moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas
non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus
signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte
consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In
his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in
III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae,
quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. In
regard to this point there is a similar diversity with respect to the good and
with respect to the true that must be noted. There are some truths that are
known per se, such as the first indemonstrable principles; these the intellect assents
to of necessity. There are others, however, which are not known per se, but
through other truths. The condition of these is twofold. Some follow
necessarily from the principles, i.e., so that they cannot be false when the
principles are true. This is the case with all the conclusions of
demonstrations, and the intellect assents necessarily to truths of this kind
after it has perceived their order to the principles, but not before. There are
others that do not follow necessarily from the principles, and these can be
false even though the principles be true. This is the case with things about
which there can be opinion. To these the intellect does not assent necessarily,
although it may be inclined by some motive more to one side than another.
Similarly, there is a good that is desirable for its own sake, such as
happiness, which has the nature of an ultimate end. The will necessarily
adheres to a good of this kind, for all men seek to be happy by a certain kind
of natural necessity. There are other good things that are desirable for the
sake of the end. These are related to the end as conclusions are to principles.
The Philosopher makes this point clear in II Physicorum [7: 198a 35]. If, then,
there were some good things without the existence of which one could not be
happy, these would be desirable of necessity, and especially by the person who
perceives such an order. Perhaps to be, to live, and to think, and other
similar things, if there are any, are of this kind. However, particular good
things with which human acts are concerned are not of this kind nor are they
apprehended as bein,r such that without tbeni happiness is impossible, for
instance, to eat this food or that, or abstain from it. Such things,
nevertheless, do have in them that whereby they move the appetite according to
some good considered in them. The will, therefore, is not induced to choose
these of necessity. And on this account the Philosopher expressly designates
the root of the contingency of things effected by us on the part of deliberation—which
is concerned with those things that are for the end and yet are not determined.
In those things in which the means are determined there is no need for
deliberation, as is said in III Ethicorum [3: 1112a 30–1113a 14]. These things
have been stated to save the roots of contingency that Aristotle posits here,
although they may seem to exceed the mode of logical matter. XV. 1 Postquam
philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus
sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo
facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad
res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine
converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo,
qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes
verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se
habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo,
qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in
contradictione eadem ratio est et cetera. Now that the Philosopher has shown
the impossibilities that follow from the foresaid arguments, he concludes what
the truth is on this point. In arguing to the impossibility of the position, he
proceeded from enunciations to things, and has already rejected the unlikely
consequences in respect to things. Now, in the converse order, he first shows
the way in which there is truth about things; secondly, the way in which there
is truth in enunciations, where he says, And so, since speech is true as it
corresponds to things, etc. With respect to truth about things be first shows
the way in which there is truth and necessity about things absolutely
considered; secondly, the way in which there is truth and necessity about
things through a comparing of their opposites, where he says, And this is also
the case with respect to contradiction, etc. 2 Dicit ergo primo, quasi ex
praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia
ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod
omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non
esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et
similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse
est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod
omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non
esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed
ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod
est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non
idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne
ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex
suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de
esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex
necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et
per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his,
quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum
determinate esset futurum. 2. He begins, then, as though concluding from
premises: if the foresaid things are unlikely (namely, that all things take
place of necessity), then the case with respect to things must be this:
everything that is must be when it is, and everything that is not, necessarily
not be when it is not. This necessity is founded on the principle that it is
impossible at once to be and not be; for if something is, it is impossible that
it at the same time not be; therefore it is necessary that it be at that time.
For "impossible not to be” signifies the same thing as "necessary to
be,” as Aristotle says in the second book. Similarly, if something is not, it
is impossible that it at the same time be. Therefore it is necessary that it
not be, for they also signify the same thing. Clearly it is true, then, that
everything that is must be when it is, and everything that is not must not be
when it is not. This is not absolute necessity, but necessity by supposition.
Consequently, it cannot be said absolutely and simply that everything that is
must be, and that everything that is not must not be. For "every being,
when it is, necessarily is” does not signify the same thing as "every
being necessarily is, simply. The first signifies necessity by supposition, the
second, absolute necessity. What has been said about to be must be understood
to apply also to not to be, for "necessarily not to be simply” and
"necessarily not to be when it is not” are also different. By this
Aristotle seems to exclude what was said above, namely, that if in those things
that are, one of the two is determinately true, then even before it takes place
one of the two would determinately be going to be. 3 Deinde cum dicit: et in
contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa
res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in
contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est
absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est
esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit
necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit
vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec
necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria
simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo
necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur,
necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia
necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est
necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium
non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est
quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad
necessitatem quae est sub disiunctione. 3. He shows how truth and necessity is
had about things through the comparing of their opposites where he says, This
is also the case with respect to contradiction, etc. The reasoning is the same,
he says, in respect to contradiction and in respect to supposition. For just as
that which is not absolutely necessary becomes necessary by supposition of the
same (for it must be when it is), so also what in itself is not necessary
absolutely, becomes necessary through the disjunction of the opposite, for of
each thing it is necessary that it is or is not, and that it will or will not
be in the future, and this under disjunction. This necessity is founded upon
the principle that it is impossible for contradictories to be at once true and
false. Accordingly, it is impossible that a thing neither be nor not be;
therefore it is necessary that it either be or not be. However if one of these
is taken separately [i.e., divisively], it is not necessary that that one be
absolutely. This he manifests by example: it is necessary that there will be or
will not be a naval battle tomorrow; but it is not necessary that a naval
battle will take place tomorrow, nor is it necessary that it will not take
place, for this pertains to absolute necessity. It is necessary, however, that
it will take place or will not take place tomorrow. This pertains to the
necessity which is under disjunction. 4 Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex
eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et
primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa
esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius
dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc
modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non
esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa),
consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet,
et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere
possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur
quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit
consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et
dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non
sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius
manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et
dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod
sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec
vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera
pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt
ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum
determinate sit vera vel falsa. Then when he says, And so, since speech is true
as it corresponds to things, etc., he shows how truth in speech corresponds to
the way things are. First he shows in what way truth of speech conforms to the
being and nonbeing of things; secondly, and finally, he arrives at the truth of
the whole question, where he says, Therefore it is clear that it is not
necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and
one false, etc. He says, then, that enunciative speech is related to truth in
the way the thing is to being or nonbeing (for from the fact that a thing is or
is not, speech is true or false). It follows, therefore, that when things are
such as to be indeterminate to either of two, and when they are such that their
contradictories could happen in whichever way, whether equally or one for the
most part, the contradiction of enunciations must also be such. He explains
next what the things are in which contradictories can happen. They are those
that neither always are (i.e., the necessary), nor always are not (i.e., the
impossible), but sometimes are and some times are not. He shows further how
this is maintained in contradictory enunciations. In those enunciations that
are about contingent things, one part of the contradiction must be true or
false tinder disjunction; but it is related to either, not to this or that
determinately. If it should turn out that one part of the contradiction is more
true, as happens in contingents that are for the most part, it is nevertheless
not necessary on this account that one of them is determinately true or false. 5
Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et
dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere
affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et
alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his
quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non
esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in
his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum:
quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur
primus liber. 5. Then he says, Therefore, it is clear that it is not necessary
that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one, false,
etc. This is the conclusion he principally intended. It is evident from what
has been said that it is not necessary in every genus of affirmation and
negation of opposites that one is determinately true and the other false, for
truth and falsity is not had in the same way in regard to things that are
already in the present and those that are not but which could be or not be. The
position in regard to each has been explained. In those that are, it is
necessary that one of them be determinately true and the other false; in things
that are future, which could be or not be, the case is not the same. The first
book ends with this. lib. 2 l. 1 n. 1Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione,
secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in
enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel
subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba;
secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione
affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam.
Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat
enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel
praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid
additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero
determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones
enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi;
ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum
quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem
enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis
dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat
enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo,
ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi:
at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat
de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed
etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera.
Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima
est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes
distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest
esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. 1. In the
first book, the Philosopher has dealt with the enunciation considered simply.
Now he is going to treat of the enunciation as it is diversified by the
addition of something to it. There are three things that can be considered in
the enunciation: first, the words that are predicated or subjected, which he
has already distinguished into names and verbs; secondly, the composition,
according to which there is truth or falsity in the affirmative or negative
enunciation; finally, the opposition of one enunciation to another. This book
is divided into three parts which are related to these three things in the
enunciation. In the first, he shows what happens to the enunciation when
something is added to the words posited as the subject or predicate; in the
second, what happens when something is added to determine the truth or falsity
of the composition. He begins this where he says, Having determined these
things, we must consider in what way negations and affirmations of the possible
and not possible, etc. In the third part he solves a question that arises about
the oppositions of enunciations in which something is added to the simple
enunciation. This he takes up where he says, There is a question as to whether
the contrary of an affirmation is a negation, or whether the contrary of an
affirmation is another affirmation, etc. With respect to additions made to the
words used in the enunciation, it should be noted that an addition made to the
predicate or the subject sometimes destroys the unity of the enunciation, and
sometimes not, the latter being the case in which the addition is a negative
making a word infinite. Consequently, he first shows what happens to the
enunciation when the added negation makes a word infinite. Secondly, he shows
what happens when an addition destroys the unity of the enunciation where he
says, Neither the affirmation nor the negation which affirms or denies one
predicate of many subjects or many predicates of one subject is one, unless
something one is constituted from the many, etc. In relation to the first point
he first investigates the simplest of enunciations, in which a finite or
infinite name is posited only on the part of the subject. Then he considers the
enunciation in which a finite or infinite name is posited not only on the part
of the subject, but also on the part of the predicate, where he says, But when
"is” is predicated as a third element in the enunciation, etc. Apropos of
these simple enunciations, he proposes certain grounds for distinguishing such
enunciations and then gives their distinction and order where he says,
Therefore the primary affirmation and negation is "Man is,” "Man is
not,” etc. And first he gives the grounds for distinguishing enunciations on
the part of the name; secondly, he shows that there are not the same grounds for
a distinction on the part of the verb, where he says, There can be no
affirmation or negation without a verb, etc. First, then, he proposes the
grounds for distinguishing these enunciations; secondly, he explains this where
he says, we have already stated what a name is, etc.; finally, he arrives at
the conclusion he intended where he says, every affirmation will be made up of
a name and a verb, or an infinite name and a verb. 2 Resumit ergo illud, quod
supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est
enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota
eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid
dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et
ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit
quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua
nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. First of all,
he goes back to what was said above in defining affirmation, namely, that
affirmation is an enunciation signifying something about something; and, since
it is peculiar to the verb to be a sign of what is predicated of another, it
follows that that about which something is said pertains to the name; but the
name is either finite or infinite; therefore, as if drawing a conclusion, he
says that since affirmation signifies something about something it follows that
that about which something is signified, i.e., the subject of an affirmation,
is either a finite name (which is properly called a name), or unnamed, i.e., an
infinite name. It is called "unnamed” because it does not name something
with a determinate form but removes the determination of form. And lest anyone
think that what is subjected in an affirmation is at once a name and unnamed,
he adds, and one thing must be signified about one thing in an affirmation,
i.e., in the enunciation, of which we are speaking now; and hence the subject
of such an affirmation must be either the name or the infinite name. 3 Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat
unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod
significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum
significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut
in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et
ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum
quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio
est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. When he
says, we have already stated what a name is, etc., he relates what he has
previously said. We have already stated, he says, what a name is and what that
which is unnamed is, i.e., the infinite name. "Non-man” is not a name but
an infinite name, and "non-runs” is not a verb but an infinite verb. Then
he interposes a point that is useful for the preclusion of a difficulty, i.e.,
that an infinite name in a certain way does signify one thing. It does not
signify one thing simply as the finite name does, which signifies one form of a
genus or species, or even of an individual; rather it signifies one thing
insofar as it signifies the negation of a form, in which negation many things
are united, as in something one according to reason. For something is said to
be one in the same way it is said to be a being. Hence, just as nonbeing is
said to be being, not simply, but according to something, i.e., according to
reason, as is evident in IV Metaphysicae [21: 1003b 6], so also a negation is
one according to something, i.e., according to reason. Aristotle introduces
this point so that no one will say that an affirmation in which an infinite
name is the subject does not signify one thing about one subject on the grounds
that an infinite name does not signify something one. 4 Deinde cum dicit: erit
omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus
affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo;
quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex
hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel
est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte
negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in
primo habitum est. When he says, every affirmation will be made up of a name
and a verb or an infinite name and a verb, he concludes that the mode of
affirmation is twofold. One consists of a name and a verb, the other of an
infinite name and a verb. This follows from what has been said, namely, that
that about which an affirmation signifies something is either a name or
unnamed. The same difference can be taken on the part of negation, for of
whatever something can be affirmed it can be denied, as was said in the first
book. 5 Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia
enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod,
praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse
aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum
nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum,
duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per
additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest
extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini,
removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi
verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed
quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet
verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex
parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur
compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione
positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas
enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut
faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo
habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus
verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum,
quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si
dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est
praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo
subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. When he says, There can be no affirmation or
negation without a verb, etc., he intends to show that enunciations cannot be
differentiated on the part of the verb. He made the point earlier that there is
no affirmation or negation without a verb. However there can be an affirmation
or negation without a name, i.e., when an infinite name is posited in place of
a name.” An infinite verb, on the other hand, cannot be posited in an
enunciation in place of a verb, and this for two reasons. First of all, the
infinite verb is constituted by the addition of an infinite particle which,
when added to a verb said by itself (i.e., posited outside of the enunciation),
removes it absolutely, just as it removes the form of the name absolutely when
added to it. Therefore, outside of the enunciation, the infinite verb, as well
as the infinite name, can be taken in the mode of one word. But when a negation
is added to the verb in an enunciation it removes the verb from something and
thus makes the enunciation negative, which is not the case with respect to the
name. For an enunciation is made negative by denying the composition which the
verb introduces; hence, an infinite verb posited in the enunciation becomes a
negative verb. Secondly, whichever way we use the negative particle, whether as
making the verb infinite or as making a negative enunciation, the truth of the
enunciation is not changed. The negative particle, therefore, is always taken
in the more absolute sense, as being clearer. This, then, is why Aristotle does
not diversify the affirmation as made up of a verb or infinite verb, but as
made up of a name or an infinite name. It should also be noted that besides the
difference of finite and infinite there is the difference of nominative and
oblique cases. The cases of names even with a verb added do not constitute an
enunciation signifying truth or falsity, as was said in the first book, for the
nominative is not included in an oblique name. The verb of present time,
however, is included in the cases of the verb, for the past and future, which
the cases of the verb signify, are said with respect to the present. Whence,
‘if we say, "This will be,” it is the same as if we were to say,
"This is future”; and "This has been” the same as "This is
past.” A name, then, and a case of the verb do constitute an enunciation.
Therefore Aristotle adds that "is,” or "will be,” or "was,” or
any other verb of this kind that we use are of the number of the foresaid verbs
without which an enunciation cannot be made, since they all signify with time
and past and future time are said with respect to the present. 6 Deinde cum
dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem
enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte
subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum
affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum;
tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen
autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione;
unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde
ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo
non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum
universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est
subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de
enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non
est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. When he
says, Therefore the primary affirmation and negation is, etc., he infers from
the premises the distinction of enunciations in which the finite and infinite
name is posited only on the part of the subject. Among these there is a
threefold difference to be noted: the first, according to affirmation and
negation; the second, according to finite and infinite subject; the third,
according as the subject is posited universally or not universally. Now the
finite name is prior in notion to the infinite name just as affirmation is
prior to negation. Accordingly, he posits "Man is” as the first
affirmation and "Man is not” as the first negation. Then he posits the
second affirmation, "Non-man is,” and the second negation, "Non-man
is not.” Finally he posits the enunciations in which the subject is universally
posited. These are four, as are those in which the subject is not universally
posited. The reason he does not give examples of the enunciation with a
singular subject, such as "Socrates is” and "Socrates is not,” is
that no sign is added to singular names, and hence not every difference can be
found in them. Nor does he give examples of the enunciation in which the
subject is taken particularly, for such a subject in a certain way has the same
force as a universal subject not universally taken. He does not posit any
difference on the part of the verb according to its cases because, as he
himself says, affirmations and negations in regard to extrinsic times, i.e.,
past and future time which surround the prcsent, are similar to these, as has
already been said. II. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit
ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit;
primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae
circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contrariaest et cetera. Circa
primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur
cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur;
ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes
sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti
consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen
finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen
finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de
illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod
est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem
oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit
earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi:
intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. 1. After
distinguishing enunciations in which either a finite or an infinite name is
posited only on the part of the subject, the Philosopher begins here to
distinguish enunciations in which either a finite or an infinite name is
posited as the subject and as the predicate. First he distinguishes these
enunciations, and then he manifests certain things that might be doubtful in
relation to them where he says, Since the negation contrary to "Every
animal is just,” is the one signifying "No animal is just,” etc. With
respect to their distinction he first deals with enunciations in which the name
is predicated with the verb "is”; secondly, with those in which other
verbs are used, where he says, In enunciations in which "is” does not join
the predicate to the subject, for example, when the verb "matures” or
"walks” is used, etc.” He distinguishes these enunciations as he did the
primary enunciations, according to a threefold difference on the part of the
subject, first treating those in which the subject is a finite name not taken
universally, secondly, those in which the subject is a finite name taken universally
where he says, The same is the case when the affirmation is of a name taken
universally, etc.” Thirdly, he treats those in which an infinite name is the
subject, where he says, and there are two other pairs, if something is added to
non-man” as a subject, etc. With respect to the first enunciations [in which
the subject is a finite name not taken universally] he proposes a diversity of
oppositions and then concludes as to their number and states their
relationship, where he says, In this case, therefore, there will be four
enunciations, etc. Finally, he exemplifies this with a table. Aquinas lib. 2 l.
2 n. 2Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod
dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum
dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod
Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi
principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad
connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est
intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat
ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut
adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium
praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum
nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas
partes et non in tres. In relation to the first point two things have to be
understood. First, what is meant by "is” is predicated as a third element
in the enunciation. To clarify this we must note that the verb "is” itself
is sometimes predicated in an enunciation, as in "Socrates is.” By this we
intend to signify that Socrates really is. Sometimes, however, "is” is not
predicated as the principal predicate, but is joined to the principal predicate
to connect it to the subject, as in "Socrates is white.” Here the
intention is not to assert that Socrates really is, but to attribute whiteness
to him by means of the verb "is.” Hence, in such enunciations "is” is
predicated as added to the principal predicate. It is said to be third, not because
it is a third predicate, but because it is a third word posited in the
enunciation, which together with the name predicated makes one predicate. The
enunciation is thus divided into two parts and not three. Aquinas lib. 2 l. 2
n. 3Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo
modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus,
in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum
erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter
sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando
est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto
existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum
vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est
iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus.
Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum
est, quod est nota praedicationis. Secondly, we must consider what he means by
when "is” is predicated as a third element in the enunciation, in the mode
in which we have explained, there are two oppositions. In the enunciations
already treated, in which the name is posited only on the part of the subject,
there was one opposition in relation to any subject. For example, if the
subject was a finite name not taken universally there was only one opposition,
"Man is,” "Man is not.” But when "is” is predicated in addition
there are two oppositions with regard to the same subject corresponding to the
difference of the predicate name, which can be finite or infinite. There is the
opposition of "Man is just,” "Man is not just,” and the opposition,
"Man is non-just,” "Man is not non-just.” For the negation is
effected by applying the negative particle to the verb "is,” which is a
sign of a predication. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc.,
exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est
iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel
verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet
dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia
secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum
quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit
tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.When he says, I mean by this
that in an enunciation such as"Man is just,” etc., he explains what he
means by when "is” is predicated as a third element in the enunciation.
When we say "Man is just,” the verb "is” is added to the predicate as
a third name or verb in the affirmation. Now "is,” like any other word,
may be called a name, and thus it is a third name, i.e., word. But because,
according to common usage, a word signifying time is called a verb rather than
a name Aristotle adds here, or verb, as if to say that with respect to the fact
that it is a third thing, it does not matter whether it is called a name or a
verb. 5 Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum
enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum
habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat;
ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt
oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit
inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae
in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter
sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem
praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum
enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam,
sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut
privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est,
diversimode a diversis expositum est. He goes on to say, In this case,
therefore, there will be four enunciations, etc. Here he concludes to the
number of the enunciations, first giving the number, and then their
relationship where he says, two of which will correspond in their sequence, in
respect of affirmation and negation, with the privations but two will not.
Finally, he explains the reason for the number where he says, I mean that the
"is” will be added either to "just” or to "non-just,” etc. He
says first, then, that since there are two oppositions when "is” is
predicated as a third element in the enunciation, and since every opposition is
between two enunciations, it follows that there are four enunciations in which
"is” is predicated as a third element when the subject is finite and is
not taken universally. When he says, two of which will correspond in their
sequence, etc., he shows their relationship. Two of these enunciations are
related to affirmation and negation according to consequence (or according to
correlation or proportion, as it is in the Greek) like privations; the other
two are not. Because this is said so briefly and obscurely, it has been
explained in diverse ways. 6 Ad cuius evidentiam considerandum est quod
tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque
enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes,
una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est
iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum,
secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo
non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen
privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est
iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Before we take up
the various explanations of this passage there is a general point in relation
to it that needs to be clarified. In this kind of enunciation a name can be
predicated in three ways. We can predicate a finite name and by this we obtain
two enunciations, one affirmative and one negative, "Man is just” and
"Man is not just.” These are called simple enunciations. Or, we can
predicate an infinite name and by this we obtain two other enunciations,
"Man is non-just” and "Man is not non-just,” These are called
infinite enunciations. Finally, we can predicate a privative name and again we
will have two, "Man is unjust” and "Man is not unjust.” These are called
privative. 7 Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas
praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad
affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura. (Figura). Sic ergo duae, scilicet quae sunt de
infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito
praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo
praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo
est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem
consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero,
minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste
est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet
de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens,
quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod
utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito
subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde
manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Now the passage in question has
been explained by some in the following way. Two of the enunciations he has
given, those with an infinite predicate, are related to the affirmation and
negation of the finite predicate according to consequence or analogy, as are
privations, i.e., as those with a privative predicate. For the two with an
infinite predicate are related according to consequence to those with a finite
predicate but in a transposed way, namely, affirmation to negation and negation
to affirmation. That is, "Man is non-just,” the affirmation of the infinite
predicate, corresponds according to consequence to the negative of the finite
predicate, i.e., to "Man is not just”; the negative of the infinite
predicate, "Man is not non-just,” corresponds to the affirmative of the
finite predicate, i.e., to "Man is just.” Theophrastus for this reason
called those with the infinite predicate, "transposed.” The affirmative
with a privative predicate also corresponds according to consequence to the
negative with a finite predicate, i.e., "Man is unjust” to "Man is
not just”; and the negative of the privative predicate to the affirmative of
the finite predicate, "Man is not unjust” to "Man is just.” These
enunciations can therefore be placed in a table in the following way: Man is
just Man is not non-just Man is not unjust Man is not just Man is non-just Man
is unjust This makes it clear that two, those with the infinite predicate, are
related to the affirmation and negation of the finite predicate in the way
privations are, i.e., as those that have a privative predicate. It is also
evident that there are two others that do not have a similar consequence, i.e.,
those with an infinite subject, "Non-man is just” and "Non-man is not
just.” This is the way Herminus explained the words but two will not, i.e., by
referring it to enunciations with an infinite subject. This, however, is
clearly contrary to the words of Aristotle, for after giving the four
enunciations, two with a finite predicate and two with an infinite predicate,
he adds two of which... but two will not, as though he were subdividing them,
which can only mean that both pairs are comprised in what he is saying. He does
not include among these the ones with an infinite subject but will mention them
later. It is clear, then, that he is not speaking of these here. 8 Et ideo, ut
Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor
propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad
affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et
negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes.
Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed
secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non
est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de
negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito
praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum
privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter
affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec
hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur
quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur
ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum
dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo
praedicato, alium sensum accipit. Since this exposition is not consonant with
Aristotle’s words, others, Ammonius says, have explained this in another way.
According to them, two of the four propositions, those of the infinite
predicate, are related to affirmation and negation, i.e., to the species itself
of affirmation and negation, as privations, that is, as privative affirmations
and negations. For the affirmation, "Man is non-just,” is not an
affirmation simply, but relatively, as though according to privation; as a dead
man is not a man simply, but according to privation. The same thing applies to
the negative enunciation with an infinite predicate. However, the two
enunciations having finite predicates are not related to the species of
affirmation and negation according to privation, but simply, for the
enunciation "Man is just” is simply affirmative and "Man is not just”
is simply negative. But this meaning does not correspond to the words of
Aristotle either, for he says further on: This, then, is the way these are
arranged, as we have said in the Analytics, but there is nothing in that text
pertaining to this meaning. Ammonius, therefore, interprets this differently
and in accordance with what is said at the end of I Priorum [46: 51b 5] about
propositions having a finite or infinite or privative predicate. Aquinas lib. 2
l. 2 n. 9 Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit,
enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in
enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo
est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod
est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad
omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus.
Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus
est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non
iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae;
sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente
habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera,
lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus.
Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam
animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam
ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo
quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa
infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et
de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non
iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus.
Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit
homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus
non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa
infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine
habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum
quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de
omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum
iniustitiae. To make Ammonius’ explanation clear, it must be noted that, as
Aristotle himself says, the enunciation, by some power, is related to that of
which the whole of what is signified in the enunciation can be truly
predicated. The enunciation, "Man is just,” for example, is related to all
those of which in any way "is a just man” can be truly said. So, too, the
enunciation "Man is not just” is related to all those of which in any way
"is not a just man” can be truly said. According to this mode of speaking
it is evident, then, that the simple negative is wider than the infinite
affirmative which corresponds to it. Thus, "is a non-just man” can truly
be said of any man who does not have the habit of justice; but "is not a
just man” can be said not only of a man not having the habit of justice, but
also of what is not a man at all. For example, it is true to say "Wood is
not a just man,” but false to say, "Wood is a non-just man.” The simple
negative, then, is wider than the infinite affirmative-just as animal is wider
than man, since it is verified of more. For a similar reason the simple
negative is wider than the privative affirmative, for "is an unjust man”
cannot be said of what is not man. But the infinite affirmative is wider than
the private affirmative, for "is a non-just man” can be truly said of a
boy or of any man not yet having a habit of virtue or vice, but "is an unjust
man” cannot. And the simple affirmative is narrower than the infinite negative,
for "is not a non-just man” can be said not only of a just man, but also
of what is not man at all. Similarly, the privative negative is wider than the
infinite negative. For "is not an unjust man” can be said not only of a
man having the habit of justice and of what is not man at all—of which "is
not a non-just man” can be said—but over and beyond this can be said about all
men who neither have the habit of justice nor the habit of injustice. 10 His
igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum,
scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae,
se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una
est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo
consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet,
sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur
(eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam
sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut
simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non
convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam,
quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in
consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. With these
points in mind it is easy to explain the present sentence in Aristotle. Two of
which, i.e., the infinites, will be related to the simple affirmation and
negation according to consequence, i.e., in their mode of following upon the
two simple enunciations, the infinitives will be related as are privations,
i.e., as the two privative enunciations. For just as the infinite negative
follows upon the simple affirmative, and.is not convertible with it (because
the infinite negative is wider), so also the privative negative which is wider
follows upon the simple affirmative and is not convertible. But just as the
simple negative follows upon the infinite affirmative, which is narrower and is
not convertible with it, so also the simple negative follows upon the privative
affirmative, which is narrower and is not convertible. From this it is clear
that there is the same relationship, with respect to consequence, of infinites
to simple enunciations as there is of privatives. 11 Sequitur, duae autem,
scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a
quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in
consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas. He goes on
to say, but two, i.e., the simple entinciations that are left after the two
infinite enunciations have been taken care of, will not, i.e., are not related
to infinites according to consequence as privatives are related to them,
because, on the one hand, the simple affirmative is narrower than the infinite
negative, and the privative negative wider than the infinite negative; and on
the other hand, the simple negative is wider than the infinite affirmative, and
the privative affirmative narrower than the infinite affirmative. Thus it is
clear that simple entinciations are riot related to infinites in respect to
consequence as privatives are related to infinites. 12 Quamvis autem secundum
hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum
expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines
non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo
accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo
habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens
litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam
expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam
affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum,
duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se
habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad
unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem
sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa
simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad
affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex
affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae
sicut infinitae. But although this explains the words of the Philosopher in a
subtle manner the explanation appears a bit forced. For the words of the
Philosopher seem to say that diverse relationships will not apply in respect to
diverse things; however, in the exposition we have just seen, first there is an
explanation of a similitude of relationship to simple enunciations and then an
explanation of a dissimilitude of relationship in respect to infinites. The
simpler exposition of this passage of Aristotle by Porphyry, which Boethius
gives, is therefore more apposite. According to Porphyry’s explanation there is
similitude and dissimilitude according to consequence of affirmatives and
negatives. Thus Aristotle is saying: Of which, i.e., the four enunciations we
are discussing, two, i.e., affirmatives, one simple and the other infinite,
will be related according to consequence in regard to affirmation and negation,
i.e., so that upon one affirmative follows the other negative, for the infinite
negative follows upon the simple affirmative and the simple negative upon the
infinite affirmative. But two, i.e., the negatives, will not, i.e., are not so
related to affirmatives, i.e., so that affirmatives follow from negatives. And
with respect to both, privatives are related in the same way as the infinites.
Aquinas lib. 2 l. 2 n. 13Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat
quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae
enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est
solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito:
puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum
quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra
harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa.
Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Then Aristotle says, I mean that the "is” will be added
either to "just” or to "non-just,” etc. Here he shows how, under these
circumstances, we get four enunciations. We are speaking now of enunciations in
which the verb "is” is predicated as added to some finite or infinite
name, for instance as it adjoins "just” in "Man is just,” or
"non-just” in "Man is non-just.” Now since the negation is not
applied to the verb in either of these, each is affirmative. However, there is
a negation opposed to every affirmation as was shown in the first book.
Therefore, two negatives correspond to the two foresaid affirmative
enunciations, making four simple enunciations. 14 Deinde cum dicit:
intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem
descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi
potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius
uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito
describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur
duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus.
(Figura). In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Then he says, The following diagram will make this clear. Here
he manifests what he has said by a diagrammatic description; for, as he says,
what has been stated can be understood from the following diagram. Take a
four-sided figure and in one corner write the enunciation "Man is just.”
Opposite it write its negation "Man is not just,” and under these the two
infinite enunciations, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” Man
is just Man is not non-just Man is not just Man is non-just It is evident from
this table that the verb "is” whether affirmative or negative is adjoined
to "just” and "non-just.” It is according to this that the four
enunciations are diversified. 15 Ultimo autem concludit quod praedictae
enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in
resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est
aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non
homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo
accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt
de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex
parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod
praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri
et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod
non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Finally, he concludes
that these enunciations are disposed aaccording to an order of consequence that
he has stated in the Analytics, i.e., in I Priorum [46: 51b 5]. There is a
variant reading of a previous portion of this text, namely, I mean that
"is” will be added either to "man” or to non-man,” and in the diagram
"is” is added to "man” and "non-man. This cannot be understood
to mean that "man” and "non-man” are taken on the part of the
subject; for Aristotle is not treating here of enunciations with an infinite
subject and hence "man” and "non-man” must be taken on the part of
the predicate. This variant text seemed to Alexander to be corrupt, for the
Philosopher has been explicating enunciations in which "just” and
"non-just” are posited on the part of the predicate. Others think it can
be sustained and that Aristotle has intentionally varied the names to show that
it makes no difference what names are used in the examples. III. 1 Postquam
philosophus distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non
universaliter sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus
subiicitur nomen finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo,
ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo,
ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio, concludit
numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hae duae igitur et
cetera. Dicit ergo primo quod similes sunt enunciationes, in quibus est nominis
universaliter sumpti affirmatio. Having distinguished enunciations in which the
subject is an infinite name not taken universally, Aristotle now distinguishes
enunciations in which the subject is a finite name taken universally. He first
proposes a similarity between these enunciations and the infinite enunciations
already discussed, and then shows their difference where he says, But it is not
possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal
both be true, etc. Finally, he concludes with the number of oppositions there
are between these enunciations where he says, These two pairs, then, are
opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which the affirmation
is of a name taken universally are similar to those already discussed. 2 Quoad
primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis erant
duae oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativae inferebant
negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii,
quam Porphyrii. Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum
universaliter sumptum inveniuntur duae oppositiones et quatuor enunciationes:
et affirmativae inferunt negativas et non e contra. Unde similiter se habent
enunciationes supradictae, si nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio
universaliter. Fient enim tunc quatuor enunciationes: duae de praedicato finito,
scilicet omnis homo est iustus, et eius negatio quae est non omnis homo est
iustus; et duae de praedicato infinito, scilicet omnis homo est non iustus, et
eius negatio quae est, non omnis homo est non iustus. Et quia quaelibet
affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duae efficiuntur
oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod de
enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut
supra de indefinitis et suis negationibus sermonem fecit, ita nunc de
affirmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est
coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativae non est universalis
negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It is to be
noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite enunciations
there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives inferring
the negatives and not being inferred by them, as is clear in the exposition of
Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the finite name
universally taken is the subject there are also two oppositions and four
eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the contrary.
Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation is made
universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations will
be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its
negation, "Not every man is just”-and two with an infinite
predicate-"Every man is non-just” and its negation, "Not every man is
non-just.” And since any affirmation together with its negation makes one whole
opposition, two oppositions are made, as was also said of indefinite
enunciations. There might seem to be an objection to his use of particulars
when speaking of universal enunciations, but this cannot be objected to, for
just as in dealing with indefinite enunciations he spoke of their negations, so
now in dealing with universal affirmatives be is forced to speak of their
negations. The negation of the universal affirmative, however, is not the do
universal but the particular negative as was stated in the first book.
Cajetanus lib. 2 l. 3 n. 3Quod autem similis sit consequentia in istis et
supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo res clara
prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quae supra
posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa
finita, et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera
parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea
affirmativa privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi
universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de
praedicato finito, et sub ea particularis negativa de praedicato infinito, et
ad complementum similitudinis sub ista particularis negativa de praedicato
privativo; ex altera vero parte ponatur primo particularis negativa de
praedicato infinito, et sub ea universalis affirmativa de praedicato finito, et
sub ista universalis affirmativa de praedicato privativo, hoc modo: (Figura).
Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura,
sicut supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut
infinitae se habeant ad finitas, sicut privativae se habent ad ipsas finitas;
finitae autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativae se habent ad
ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativae inferant
negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptae deserviunt
figurae, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes
istae universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum,
et numero oppositionum, et modo consequentiae. A table will make it evident
that the consequence is similar in these and in indefinite eminciations. And
lest what is clear be made obscure by prolixity let us first make a diagram of
the indefinites posited in the last lesson, based upon the exposition of
Porphyry. Place the finite affirmative on one side and under it the infinite
negative, and under this the privative negative. On the other side put the
finite negative first, under it the infinite affirmative, and under this the
privative affirmative. Then under this diagram make another similar to it but
of universals. On one side put the universal affirmative of the finite
predicate, under it the particular negative of the infinite predicate, and to
complete the parallel put the particular negative of the privative predicate
under this. On the other side, first put the particular negative of the
infinite predicate, under it the universal affirmative of the finite
predicate,” and under this the universal affirmative of the privative
predicate. Thus: DIAGRAM OF THE INDEFINITES Man is just Man is not just Man is
not non-just Man is non-just Man is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE
UNIVERSALS Every man is just Not every man is just. Not every man is non-just
Every man is non-just Not every man is unjust Every man is unjust In this
disposition of enunciations, the consequence always follows in the second
diagram just as it followed in regard to indefinites in the first diagram. This
is true if we follow the exposition of Ammonius in which infinites are related
to finites as privatives are related to the same finites, and the finites not
related to the infinite middle enunciatious as privatives are related to those
infinites. It is equally true if we follow the exposition of Porphyry, in which
affirmatives infer negatives and not vice versa. That the tables serve both
expositions will be clear to one studying them. These universal enunciations,
therefore, are related in like manner to indefinite entinciations in three
things: the number of propositions, the number of oppositions, and the mode of
consequence. 4 Deinde cum dicit: sed non similiter angulares etc., ponit
dissimilitudinem inter istas universales et supradictas indefinitas, in hoc
quod angulares non similiter contingit veras esse. Quae verba primo exponenda
sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem;
deinde secundum alios. Angulares enunciationes in utraque figura suprascripta
vocat eas quae sunt diametraliter oppositae, scilicet affirmativam finitam ex
uno angulo, et affirmativam infinitam sive privativam ex alio angulo: et
similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel
privativam ex alio angulo. When he says, But it is not possible, in the same
way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc., he
proposes a difference between the universals and the indefinites, i.e., that it
is not possible for the diagonals to be true in the case of universals. First
we will explain these words according to the exposition we believe Aristotle
had in mind, then according to the opinion of others. Aristotle means by
diagonal eminciations those that are diametrically opposed in the diagram
above, i.e., the finite affirmative in one corner and the infinite affirmative
or the privative in the other; and the finite negative in one corner and the,
infinite negative or privative in the other. 5 Enunciationes ergo in qualitate
similes angulares vocatae, eo quod angulares, idest diametraliter distant,
dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et universales. Angulares enim
indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum possunt
esse simul verae, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et hoc
intellige in materia contingenti. Angulares vero in figura universalium non sic
se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est
esse simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum
negationum quandoque possunt esse simul verae, quando scilicet fiunt in materia
contingenti: in materia enim necessaria et remota impossibile est esse ambas
veras. Haec est Boethii, quam veram credimus, expositio. Enunciations that are
similar in quality, and called diagonal because diametrically distant, are
dissimilar in truth, tben, in the case of indefinites and universals. The
indefinites on the corners, both oil the diagonal of affirmations and the
diagonal of negations can be simultaneously true, as is evident in the table of
the indefinite entinciations. This is to be understood in regard to contingent
matter. But diagonals of universals are not so related, for angtilars on the
diagonal of affirmations cannot be simultaneously true in any matter. Those on
the diagonal of negations, however, can sometimes be true simultaneously, i.e.,
when they are in contingerlt matter. In necessary and rernote matter it is
impossible for both of these to be true. This is the exposition of Boethitis,
which we believe to be the true one. 6 Herminus autem, Boethio referente,
aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales et indefinitas
quoad numerum enunciationum et oppositionum, oppositiones tamen aliter accipit
in universalibus et aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem indefinitarum
numerat sicut et nos numeravimus, alteram scilicet inter finitas affirmativam et
negativam, et alteram inter infinitas affirmativam et negativam, quemadmodum
nos fecimus. Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit
inter universalem affirmativam finitam et particularem negativam finitam,
scilicet omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, et alteram inter
eamdem universalem affirmativam finitam et universalem affirmativam infinitam,
scilicet omnis homo est iustus, omnis homo est non iustus. Inter has enim est
contrarietas, inter illas vero contradictio. Dissimilitudinem etiam
universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat
dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum supra
differentiam quae est inter angulares universalium affirmativas et negativas,
sed supra differentiam quae est inter ipsas universalium angulares inter se ex
utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali
affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub
particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque
angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format
hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem,
quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam,
ita quod unius angularis veritas suae angularis veritatem infert undecumque
incipias. Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed
ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo
universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest
esse simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si
universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt
esse simul verae. Et si ista universalis contraria est falsa, sua
contradictoria particularis, quae est angularis primae universalis assumptae,
erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas.
Si autem incipias e converso ab aliqua particularium et ad suam angularem
procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suae angularis,
quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur:
particularis est vera; ergo sua universalis contradictoria est falsa; non tamen
sequitur ultra: ista universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis
contraria, quae est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim
contrariae esse simul falsae. Herminus, however, according to Boethius,
explains this in another way. He takes the oppositions in one way in universals
and in another in indefinites, although he holds that there is a likeness
between universals and indefinites with respect to the n timber of enunciations
and of oppositions. He arrives at the oppositions of indefinites we have, i.e.,
one between the affirmative and negative finites, and the other between the
affirmative and negative infinites. But he disposes the oppositions of
universals in another way, taking one between the finite universal affirmative
and finite particular negative, "Every man is just” and "Not every
man is just,” and the other between the same finite universal affirmative and
the infinite universal affirmative, "Every man is just” and "Every
man is non-just.” Between the latter there is contrariety, between the former
contradiction. He also proposes the dissimilarity between universals and
indefinites in another way. He does not base the dissimilarity between
diagonals of universals and indefinites on the difference between affirinative
and negative diagonals of universals, as we do, but on the difference between
the diagonals of universals on both sides among themselves. Hence he forms his
diagram in this way: under the finite universal affirmative be places the
infinite universal affirmative, and on the other side, under the finite
particular negative the infinite particular negative. Thus the diagonals are of
different quality. He also diagrams the indefinites in this way. Every man is
just ? contradictories ? Not every man is just contraries subcontraries Every
man is non-just ? contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is
non-just Man is not just Man is not non-just With enunciations disposed in this
way he says their difference is this: that in indefinite enunciations, one on
the diagonal is true as a necessary consequence of the truth of the other, so
that the truth of one enunciation infers the truth of its diagonal from
wherever you begin * But there is no such mutual necessary consequence in
universals—from the truth of one on a diagonal to the other—since the necessity
of inference fails in part. If you begin from any of the universals and proceed
to its diagonal, the truth of the universal cannot be simultaneous with the
truth of its diagonal so as to compel it to truth. For if the universal is true
its universal contrary will be false, since they cannot be at once true; and if
this universal contrary is false, its particular contradictory, which is the
diagonal of the first universal assumed, will necessarily be true, since it is
impossible for contradictories to be at once false; but if, conversely, you
begin with a particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of
the particular can so stand with the truth of its diagonal that it does not
infer its truth necessarily. For this follows: the particular is true,
therefore its universal contradictory is false. But this does not follow: this
universal contradictory is false, therefore its universal contrary, which is
the diagonal of the particular assumed, is true. For contraries can be at once false.
7 Sed videtur expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi
oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quae est inter finitas
et infinitas, sed de ea quae est inter finitas inter se, et infinitas inter se.
Si enim de utroque modo oppositionis exponere volumus, iam non duas, sed tres
oppositiones inveniemus: primam inter finitas, secundam inter infinitas,
tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam
formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I priorum formavit, ad
quam nos remisit, cum dixit: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum
est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura, angulares sunt
affirmativae affirmativis, et negativae negativis. But the way in which
oppositions are taken in this exposition does not seem to be what Aristotle had
in mind. He did not intend to speak here of the opposition between finites and
infinites, but of the opposition between finites themselves and infinites
themselves. For if we meant to explain each mode of opposition, there would not
be two but three oppositions: first, between finites; second, between
infinites; and third, the one Herminus states between finite and infinite. Even
the diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes at the end of I
Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last lesson when he
said, This, then, is the way these are arranged, as we have said in the
Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to affirmatives
and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hae igitur duae etc., concludit
numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hae demonstret
universales, et sic est sensus, quod hae universales finitae et infinitae
habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly
hae demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum sive
universales sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hae enunciationes
supradictae habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et
eius negationem, alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem.
Placet autem mihi magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles
studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et
infinitas quoad praedicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas
oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle
says, These two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number
of propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first
way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the
finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained
above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and
infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and
then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between
the finite affirmation and its negation and the other between the infinite
affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to
me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition;
hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those
with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant
to reduce all the oppositions to two. 9 Deinde
cum dicit: aliae autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem
enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et
circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo, ostendit quod
non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio, ostendit
habitudinem istarum ad alias; ibi: hae autem extra et cetera. Ad evidentiam
primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus
explicite ponitur hoc verbum est. Quaedam sunt, quae subiecto sive finito sive
infinito nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est. Quaedam
vero sunt quae subiecto finito habent, praeter verbum, aliquid additum sive
finitum sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quaedam autem
sunt quae subiecto infinito, praeter verbum, habent aliquid additum sive
finitum sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et
quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait:
aliae autem sunt, quae habent aliquid, scilicet praedicatum, additum supra
verbum est, ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum
infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione
nominis, ita deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti
non proprie substernitur compositioni cum praedicato quam importat, est,
tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas oppositiones in
hoc ordine, sicut in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex finitate vel
infinitate praedicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et
negativam habentes subiectum infinitum et praedicatum finitum, dicens: ut, non
homo est iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram
inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et praedicatum
infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non iustus. When
he says, and there, are two other pairs if something is added to "non-man”
as a subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is
added as a third element and the subject is an infinite name. First, he
proposes and distinguishes them; secondly, he shows that there are no more
opposites than these where he says, There will be no more opposites than these;
thirdly, he shows the relationship of these to the others where he says, The
latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc. With
respect to the first point, it should be noted that there are three species of
absolute [de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited
explicitly. Some have nothing added to the subject—which can be either finite
or infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to a finite
subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have,
besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite
subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has
already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And
there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate.
added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to
an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short
of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name.
Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to composition
with the predicate, which "is,” the third element added, introduces.
Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this order as he
did in the former. In addition he distinguishes these from the former
finiteness and infinity. First, he posits the opposition between affirmative
and negative enunciations with an infinite subject and a finite predicate,
"Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits another
opposition between those with an infinite subject and an infinite predicate,
"Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde cum dicit:
magis autem plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones
enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in
quibus explicite ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium adiacens,
de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra positae; et
consequenter oppositiones earum secundum affirmationem et negationem non sunt
nisi sex. Cum enim in tres ordines divisae sint enunciationes, scilicet in
illas de secundo adiacente, in illas de tertio subiecti finiti, et in illas de
tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine sint quatuor enunciationes;
fiunt omnes enunciationes duodecim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum
earum in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet
universalitate, particularitate, et singularitate et indefinitione; ideo istae
duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta
octo faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet Aristoteles
nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et
quatuor in tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic
enumerandae et ordinandae secundum singulos ordines, ut affirmationi negatio
prima ex opposito situetur, ut oppositionis intentum clarius videatur. Et sic
contra universalem affirmativam non est ordinanda universalis negativa, sed
particularis negativa, quae est illius negatio; et e converso, contra
particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed
universalis negativa quae est eius negatio. Ad clarius autem intuendum numerum,
coordinandae sunt omnes, quae sunt similis quantitatis, simul in recta linea,
distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut clarius elucescat, in
hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem plures his non sint, ex eo
patet quod non contingit pluribus modis variari subiectum et praedicatum penes
finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum
subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes
praedicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod sufficienter
factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente quadrupliciter variari
possunt, quia aut sunt subiecti et praedicati finiti, aut utriusque infiniti,
aut subiecti finiti et praedicati infiniti, aut subiecti infiniti et praedicati
finiti. Quarum nullam praetermissam esse superior docet figura. Then he says,
There will be no more opposites than these. Here he points out that there are
no more oppositions of enunciations than the ones be has already given. We
should note, then, that simple [or absolute] enunciations—of which we have been
speaking—in which the verb "is” is explicitly posited whether it is the
second or third element added, cannot be more than the twelve posited.
Consequently, their oppositions according to affirmation and negation are only
six. For enunciations are divided into three orders: those with the second
element added, those with the third element added to a finite subject, and
those with the third element added to an infinite subject; and in any order
there are four enunciations. And since their subject in any order can be
quantified in four ways, i.e., by universality, particularity, singularity, and
indefiniteness, these twelve will be increased to fortyeight (four twelves
being forty-eight). Nor is it possible to imagine more than these. Aristotle
has only expressed twenty of these, eight in the first order, eight in the
second, and four in the third, but through them be intended the rest to be
understood. They are to be enumerated and disposed according to each order so
that the primary negation is placed opposite an affirmation in order to make
the relation of opposition more evident. Thus, the universal negative should
not be ordered as opposite to the universal affirmative, but the particular
negative, which is its negation. Conversely, the particular negative should not
be ordered as opposite to the particular affirmative, but the universal
negative, which is its negation. For a clearer look at their number all those
of similar quantity should be co-ordered in a straight line and in the three
distinct orders given above. The following diagram will make this clear. FIRST
ORDER Socrates is Socrates is not Non-Socrates is Non-Socrates is not Some man
is Some man is not Some non-man is Some non-man is not Man is Man is not
Non-man is Non-man is not Every man is No man is Every non-man is No non-man is
SECOND ORDER Socrates is just Socrates is not just Socrates is non-just
Socrates is not non-just Some man is just Some man is not just Some man is
non-just Some man is not non-just Man is just Man is not just Man is non-just
Man is not non-just Every man is just No man is just Every man is non-just No
man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just Non-Socrates is not just
Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just Some non-man is just Some
non-man is not just Some non-man is non-just Some non-man is not non-just Non-man
is just Non-man is not just Non-man is non-just Non-man is not non-just Every
non-man is just No non-man is just Every non-man is non-just No non-man is
non-just It is evident that there are no more than these, for the subject and
the predicate cannot be varied in any other way with respect to finite and
infinite. Nor can the finite and infinite subject be varied in any other way,
for the enunciation with a second adjoining element cannot be varied with a
finite and infinite predicate but only in respect to the subject. This is clear
enough. But enunciations with a third adjoining element can be varied in four
ways: they may have either a finite subject and predicate, or an infinite
subject and predicate, or a finite subject and infinite predicate, or an
infinite subject and finite predicate. These variations are all evident in the
above table. 11 Deinde cum dicit: hae autem extra illas etc., ostendit
habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quae in secundo
sitae sunt ordine, et dicit quod istae sunt extra illas, quia non sequuntur ad
illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut nomine utentes eo quod
est non homo, idest ideo istae sunt extra illas, quia istae utuntur nomine
infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem
dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum
subiici in enunciatione proprium sit nominis, praedicari autem commune nomini
et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. Then when he says,
The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc.,
he shows the relationship of those we have put in the third order to those in
the second order. The former, he says, are distinct from the latter because
they do not follow upon the latter, nor conversely. He assigns the reason when
he adds: because of the use of "non-man” as a name, i.e., the former are
separate from the latter because the former use an infinite name in place of a
name, since they all have an infinite subject. It should be noted that he says
enunciations of an infinite subject use an infinite name as a name; for to be
subjected in an enunciation is proper to a name, to be predicated common to a
name and a verb, and therefore every subject of an enunciation is subjected as
a name. 12 Deinde cum dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de
enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit:
primo, distinguit eas; secundo, respondet cuidam tacitae quaestioni; ibi: non
enim dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et
caetera eadem et cetera. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter
enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens, et eas in quibus ponitur
est tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quae sunt de secundo
adiacente, simpliciter fiunt oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum
variati per finitum et infinitum; in his vero, quae habent est tertium adiacens
dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte praedicati et ex parte
subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum
ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor
enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes
autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis
quatuor oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum
quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad
significatum aequivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo
adiectivo in proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni
verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista,
omnis homo currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius
vocat enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de
tertio autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui
aequivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes
verbi adiectivi formaliter sumptae non aequivalent illis de tertio adiacente,
sed aequivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non
possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis,
scilicet ex parte subiecti et praedicati, sicut fiebant in substantivis de
tertio adiacente, quia verbum, quod praedicatur in adiectivis, infinitari non
potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte
subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati,
sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente, eadem ducti ratione, quia praeter verbum nulla est affirmatio vel
negatio, sicut praeter nomen esse potest. Quia autem in praesenti tractatu non
de significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo
intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes
adiectivas secundum modum, quo distinctae sunt enunciationes in quibus ponitur
est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non
contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel,
ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum
oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est
secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istae adiectivae,
sicut illae, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter
finitas, ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas
quoad subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he
takes up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject,
etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an
implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.;
thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the
enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will
be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference
between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining
element and those in which it is posited as a third element. In those with
"is” as a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the
part of the subject by finite and infinite. In those having "is” as a
third element oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and
on the part of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence
we made only one order of enunciations with "is” as the second element. It
had four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But
enunciations with "is” as a third element must be divided into two orders,
because in them there are four oppositions and eight enunciations, as we said
above. Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification
to enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective
verb into its proper participle and "is,” which may always be done because
a substantive verb is contained in every adjective verb. For example,
"Every man runs” signifies the same thing as "Every man is running.”
Because of this Boethius calls enunciations having an adjective verb
"eminciations of the second adjoining element according to vocal sound,
but of the third adjoining element according to power.” He designates them in
this manner because they can be resolved into enunciations with a third
adjoining element to which they are equivalent. With respect to the number and
oppositions of enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are
not equivalent to those with a third adjoining element but to those in which
"is” is posited as the second element. For oppositions cannot be made in
two ways in adjectival enunciations as they are in the case of substantival
enunciations with a third adjoining element, namely, on the part of the subject
and predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations
cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made
simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by
finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a
second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no
affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since
the present treatment is not of significations but of the number of
enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations
are to be diversified according to the mode in which enunciations with
"is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that
in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some
other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival
enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number
of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is
added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the
ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the
finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other
between the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,”
"Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc.,
respondet tacitae quaestioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem
quaestionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo
quaestio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo
universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo
currit, cur non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non
homo currit? Huic namque quaestioni respondet, dicens quod quia nomen
infinitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem
et similia signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam
universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si
infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis
quaerimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid
universale, addenda est, et dicendum, omnis non homo. Then he answers an
implied question when he says, We, must not say "non-every man” but must
add the negation to man, etc. First he states the solution of the question,
then he proves it where he says, This is evident from the following, etc. The
question is this: Why is the negation that makes a word infinite never added to
the universal or particular sign? For example, when we wish to make "Every
man runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man runs,” and
not in this, "Non-every man runs.” He answers the question by saying that
to be capable of being made infinite a name has to signify something universal
or singular. "Every” and similar signs, however, do not signify something
universal or singular, but that something is taken universally or particularly.
Therefore, we should not say "non-every man” if we wish to infinitize
(although it may be used if we wish to deny the quantity of an enunciation),
but must add the infinitizing negation to "man,” which signifies something
universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum est
autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis et
similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali
ratione. Illud, in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere
et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter;
sed illud in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non
habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis
est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis,
tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, caeteris paribus, habentia a
non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini.
Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illae enunciationes homo
currit, et omnis homo currit, praecise differunt ex hoc, quod in una est ly
omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit
universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum universale,
scilicet ly homo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur
de subiecto universaliter, in altera autem non universaliter. Cum enim dico,
homo currit, cursum attribuo homini universali, sive communi, sed non pro tota
humana universitate; cum autem dico, omnis homo currit, cursum inesse homini
pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de tribus
aliis, quae in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suae
universalis universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur
ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed
tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where
he says, This is evident from the following, etc., he proves that "every”
and similar words do not signify a universal but that a universal is taken
universally. His argument is the following: That by which enunciations having
or not having the "every” differ is not the universal; rather, they differ
in that the universal is taken universally. But that by which enunciations
having and not having the "every” differ is signified by the "every.”
Therefore, that which is signified by the "every” is not a universal but
that the universal is taken universally. The minor of the argument is evident,
though not explicitly given in the text: that in which the having of some term
differs from the not having of it, other things being equal, is the
signification of that term. The major is made evident by examples. The
enunciations "Man matures” and "Every man matures” differ precisely
by the fact that in one there is an "every,” in the other not. However,
they do not differ in such a way by this that one is universal, the other not
universal, for both have the universal subject, "man”; they differ because
in the one in which "every” is posited, the enunciation is of the subject
universally, but in the other not universally. For when I say, "Man
matures,” I attribute maturing to "man” as universal or common but not to
man as to the whole human race; when I say, "Every man matures,” however,
I signify maturing to be present to man according to all the inferiors. This is
evident, too, in the three other examples of enunciations in Aristotle’s text.
For example, "Non-man matures” when its universal is taken universally
becomes "Every non-man matures,” and so of the others. It follows,
therefore, that "every” and "no” and similar signs do not signify a
universal but only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato
hic duo: primum est quod non dixit omnis et nullus significat universaliter,
sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel
negant. Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum
universalitatis aut particularitatis absolute, sed applicatum termino
distributo. Cum enim dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari
illi termino homo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam
universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis
importatam in ly omnis in actu exercito, sicut et in I posteriorum, in
definitione scire applicationem causae notavit per illud verbum quoniam,
dicens: scire est rem per causam cognoscere, et quoniam illius est causa. Ratio
autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et
syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute;
isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad praedicata. Cum
enim dicitur, homo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu
ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem
distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod
praedicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo
currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute,
sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus
hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et
nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi
quia determinant subiectum in ordine ad praedicatum, et hoc sine affirmatione
et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam
universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest
affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea
separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa
signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum
removendo. Two things should be noted here: first, that Aristotle does not say
"every” and "no” signify universally, but that the universal is taken
universally; secondly, that he adds, they affirm or deny of man. The reason for
the first is that the distributive sign does not signify the mode of
universality or of particularity absolutely, but the mode applied to a
distributed term. When I say, "every man” the "every” denotes that
universality is applied to the term "man.” Hence, when Aristotle says
"every” signifies that a universal is taken universally, by the "that”
he conveys the application in actual exercise of the universality denoted by
the "every,” just as in I Posteriorum [2: 71b 10] in the definition of
"to know,” namely, To know scientifically is to know a thing through its
cause and that this is its cause, he signifies by the word "that” the
application of the cause. The reason for the second is to imply the difference
between categorematic and syneategorematic terms. The former apply what is
signified to the terms absolutely; the latter apply what they signify to the
terms in relation to the predicates. For example, in "white man” the
"white” denominates man in himself apart from any regard to something to
be added; but in "every man,” although the "every” distributes man,”
the distribution does not confirm the intellect unless it is under stood in
relation to some predicate. A sign of this is that when we say "Every man
runs” we do not intend to distribute "man” in its whole universality
absolutely, but only in relation to "running.” When we say "White man
runs,” on the other hand, we designate man in himself as "white” and not
in relation to "running.” Therefore, since "every” and "no” and
the other syncategorematic terms do nothing except determine the subject in
relation to the predicate in the enunciation, and this cannot be done without
affirmation and negation, Aristotle says that they only signify that the
affirmation or negation is of a name, i.e., of a subject, universally, i.e.,
they prescribe the affirmation or negation that is being formed, and by this he
separates them from categorematic terms. They affirm, or deny can also be
referred to the signs themselves i.e., "every” and "no,” one of which
distributes positively, the other distributes by removing. 16 Deinde cum dicit:
ergo et caetera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones.
Dixerat enim quod adiectivae enunciationes idem faciunt quoad oppositionum
numerum, quod substantivae de secundo adiacente; et hoc declaraverat,
oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur
convenientia quoad finitationem praedicatorum, et quoad diversam subiectorum
quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si
qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et caetera, quae in illis
servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When he says All
else in enunciations in which "is”does not join the predicate to the
subject, etc., he concludes the treatment of the conditions of adjectival
enunciations. He has already stated that adjectival enunciations are the same
with respect to the number of oppositions as substantival enunciations with
"is” as the second element, and has clarified this by a table showing the
number of oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity both
with respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse
quantity of subjects, and also-if any enunciations of this kind are
enumerated—their multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also
the other things, which are to be observed in them, are to be considered the
same, i.e., similar to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate
enunciationum, hic intendit removere quaedam dubia circa praedicta. Et circa
hoc facit sex secundum numerum dubiorum, quae suis patebunt locis. Quia ergo
supra dixerat quod in universalibus non similiter contingit angulares esse
simul veras, quia affirmativae angulares non possunt esse simul verae,
negativae autem sic; poterat quispiam dubitare, quae est causa huius
diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia,
scilicet, angulares affirmativae sunt contrariae inter se; contrarias autem in
nulla materia contingit esse simul veras. Angulares autem negativae sunt
subcontrariae illis oppositae; subcontrarias autem contingit esse simul veras.
Et circa haec duo facit: primo, declarat conditiones contrariarum et
subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativae sint contrariae et quod
angulares negativae sint subcontrariae; ibi: sequuntur vero et cetera. Dicit
ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod enunciatio negativa contraria
illi affirmativae universali, scilicet, omne animal est iustum, est ista,
nullum animal est iustum; manifestum est quod istae non possunt simul, idest in
eodem tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem subiecto esse verae. His
vero oppositae, idest subcontrariae inter se, possunt esse simul verae
aliquando, scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non
omne animal est iustum. Having treated the diversity of enunciations Aristotle
now answers certain questions about them. He takes up six points related to the
number of difficulties. These will become evident as we come to them. Since he
has said that in universal enunciations the diagonals in one case cannot be at
once true but can be in another, for the diagonal affirmatives cannot be at
once true but the negatives can,” someone might raise a question as to the
cause of this diversity. Therefore, it is his intention now to assign the cause
of this: namely, that the diagonal affirmatives are contrary to each other, and
contraries cannot be at once true in any matter; but the diagonal negatives are
subcontraries opposed to these and can be at once true. In relation to this he
first states the conditions for contraries and subcontraries. Then he shows
that diagonal affirmatives are contraries and that diagonal negatives are
subcontraries where he says, Now the enunciation "No man is just” follows
upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc. By way of resumé,
therefore, he says that in the first book it was said that the negative
enunciation contrary to the universal affirmative "Every animal is just”
is "No animal is just.” It is evident that these cannot be at once true,
i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same subject. But
the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be at once true,
i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and "Not
every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc., declarat quod
angulares affirmativae supra positae sint contrariae, negativae vero
subcontrariae. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et
universalis negativa simplex aequipollent; et consequenter utraque earum est
contraria universali affirmativae simplici, quae est altera angularis. Unde
dicit quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur
aequipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non
iustus. Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et
particularis negativa infinita aequipollent. Et consequenter utraque earum est
subcontraria particulari negativae simplici, quae est altera angularis, ut in
figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem
affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur aequipollenter
(opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis
affirmativae infinitae), non omnis homo est non iustus. Haec enim est
contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictae enunciationes
sint aequipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur
universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa
finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea
contradictoria particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter
angulares et collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic
dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et
falsitate, quia si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est
falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria, quae est altera
universalis, erit vera, et similiter procedit quoad falsitatem particularium.
Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera,
sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente falsa, sua
contradictoria collateralis, quae est altera particularis erit vera; simili
quoque modo procedendum est quoad falsitatem. When he says, Now the enunciation,
"No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,”
etc., he shows that the diagonal affirmatives previously posited are
contraries, the negatives subcontraries. First he manifests this from the fact
that the infinite universal affirmative and the simple universal negative are
equal in meaning, and consequently each of them is contrary to the simple
universal affirmative, which is the other diagonal. Hence, he says that the
infinite universal affirmative "Every man is non-just” follows upon the
finite universal negative "No man is just,” equivalently. Secondly he
shows this from the fact that the finite particular affirmative and the
infinite particular negative are equal in meaning, and consequently each of
these is subcontrary to the simple particular negative, which is the other
diagonal. This you can see in the previous diagram. He says, then, that the
opposite "Not every man is non-just” follows upon the finite particular
"Some man is just” equivalently (understand "the opposite” not of
this particular but of the infinite universal affirmative, for this is its
contradictory). In order to see clearly how these enunciations are equivalent,
make a four-sided figure, putting the finite universal negative in one corner
and under it the contradictory, the finite particular affirmative. On the other
side, put the infinite universal affirmative and under it the contradictory,
the infinite particular negative. Now indicate the contradiction between
diagonals and the contradiction between collaterals. No man is just equivalents
Every man is non-just contradictories contradictories Some man is just
equivalents Not every man is non-just This arrangement makes the mutual
consequence of the universals in truth and falsity evident, for if one of them
is true, its diagonal contradictory is false; and if this is false, its
collateral contradictory, which is the other universal, will be true. With
respect to the falsity of the particulars the procedure is the same. Their
mutual consequence is made evident in the same way, for if one of them is true,
its diagonal contradictory is false, and if this is false, its contradictory
collateral, which is the other particular, will be true; the procedure is the
same with respect to falsity. 3 Sed est hic unum dubium. In I enim priorum, in
fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem iudicium de universali
negativa et universali affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super
illo verbo: quarum duae se habent secundum consequentiam, duae vero minime,
Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex
sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est,
secundum Albertum, quod negativam finitam sequitur affirmativa infinita
subiecto constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde
utrumque dictum verificatur, et quod inter eas est mutua consequentia cum
subiecti constantia, et quod inter eas non est mutua consequentia absolute.
Potest dici secundo, quod supra locuti sumus de infinita enunciatione quoad
suum totalem significatum ad formam praedicati reductum; et secundum hoc, quia
negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua
consequentia: hic autem loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas
tunc adducendo Ammonii expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi:
negativa simplex, in plus est quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum
ultra praedicta loquitur de finita et infinita in ordine ad syllogismum.
Manifestum est autem quod universalis affirmativa sive finita sive infinita non
concluditur nisi in primo primae. Universalis autem negativa quaecumque
concluditur et in secundo primae, et primo et secundo secundae. However, a
question arises with respect to this. At the end of I Priorum [46: 51b 5],
Aristotle determines from what he has proposed that the judgment of the
universal negative and the infinite universal affirmative is not the same.
Furthermore, in the second book of the present work, in relation to the phrase
Of which two are related according to consequence, two are not. Ammonius,
Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that the simple negative follows upon
the infinite affirmative and not conversely.” Albert answers this latter
difficulty by pointing out that the infinite affirmative follows upon the
finite negative when the subject is constant, but the simple negative follows
upon the affirmative absolutely. Hence both positions are verified, for with a
constant subject there is a mutual consequence between them, but there is not a
mutual consequence between them absolutely. We could also answer this
difficulty in this way. In Book II, Lesson 2 we were speaking of the infinite
enunciation with the whole of what it signified reduced to the form of the
predicate, and according to this there was not a mutual consequence, since the
finite negative is superior to the infinite affirmative. But here we are
speaking of the infinite itself formally taken. Hence St. Thomas, when he
introduced the exposition of Ammonius in his commentary on the above passage,
said that according to this mode of speaking the simple negative is wider than
the infinite affirmative. In the above mentioned text in I Priorum [46: 52a
36], Aristotle is speaking of finite and infinite enunciations in relation to
the syllogism. It is evident, however, that the universal affirmative, whether
finite or infinite is only inferred in the first mode of the first figure,
while any universal negative whatever is inferred in the second mode of the
first figure and in the first and second modes of the second figure. 4 Deinde
cum dicit: manifestum est autem etc., movet secundum dubium de vario situ
negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem differat praeponere et
postponere negationem. Oritur autem haec dubitatio, quia dictum est nunc quod
non refert quoad veritatem si dicatur, omnis homo est non iustus, aut si
dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in
altera praeponitur, licet multum referat quoad affirmationem et negationem.
Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens cum distinctione, respondet quod
in singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et
infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic. Si enim est
vera negatio ipsius universalis non oportet quod sit vera infinita affirmatio
universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria, qua
existente vera, non est necesse suam subalternam, quae est contraria suae
contradictoriae esse veram. Possunt enim duae contrariae esse simul falsae.
Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est
verum negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis,
de qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest, vera erit affirmatio
infinita eiusdem singularis. Verbi gratia: putasne Socrates est sapiens? Si
vera est ista responsio, non; Socrates igitur non sapiens est, idest, vera erit
ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens. In universalibus vero non
est vera, quae similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis
affirmativae interrogatae non sequitur vera universalis affirmativa infinita,
quae similis est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi quaesitae; vera
autem est eius negatio, idest, sed ex veritate responsionis negativae sequitur
veram esse eius, scilicet universalis quaesitae negationem, idest, particularem
negativam. Verbi gratia: putasne omnis homo est sapiens? Si vera est ista
responsio, non; affirmativa similis interrogatae quam quis ex hac responsione
inferre intentaret est illa: igitur omnis homo est non sapiens. Haec autem non
sequitur ex illa negatione. Falsum est enim hoc, scilicet quod sequitur ex illa
responsione; sed inferendum est, igitur non omnis homo sapiens est. Et ratio utriusque
est, quia haec particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria
illi universali interrogatae quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod
sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa vero,
scilicet universalis affirmativa infinita primo illata, est contraria illi
eidem universali interrogatae. Non est autem opus quod si universalium altera
sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis
inter singulares et universales. In singularibus enim varius negationis situs
non variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet.
Ideo fit ut non sit eadem veritas negantium universalem in quarum altera
praeponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se patet. When he says,
And it is also clear with respect to the singular that if a question is asked
and a negative answer is the true one, there is also a true affirmation, etc.,
he presents a difficulty relating to the varying position of the negation, i.e.,
whether there is a difference as to truth and falsity when the negation is a
part of the predicate or a part of the verb. This difficulty arises from what
he has just said, namely, that it is of no consequence as to truth or falsity
whether you say, "Every man is non-just” or "Every man is not just”;
yet in one case the negation is a part of the predicate, in the other part of
the copula, and this makes a great deal of difference with respect to
affirmation and negation. To solve this problem Aristotle makes a distinction:
in singular enunciations, the singular negation and infinite affirmation of the
same subject are of the same truth, but in universals this is not so. For if
the negation of the universal is true it is not necessary that the infinite affirmation
of the universal is true. The negation of the universal is the contradictory
particular, but if it is true [i.e., the contradictory particular] it is not
necessary that the subaltern, which is the contrary of the contradictory, be
true, for two contraries can be at once false. Hence he says that in singular
enunciations it is evident that if it is true to deny the thing asked, i.e., if
the negation of a singular enunciation, which has been made into an
interrogation, is true, there will also be a true affirmation, i.e., the
infinite affirmation of the same singular will be true. For example, if the
question "Do you think Socrates is wise?” has "No” as a true
response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the infinite affirmation "Socrates
is non-wise” will be true. But in the case of universals the affirmative
inference is not true, i.e., from the truth of a negation to a universal
affirmative question, the truth of the infinite universal affirmative (which is
similar in quantity and quality to the enunciation asked) does not follow. But
the negation is true, i.e., from the truth of the negative response it follows
that its negation is true, i.e., the negation of the universal asked, which is
the particular negative. Consider, for example, the question "Do you think
every man is wise?” If the response "No” is true, one would be tempted to
infer the affirmative similar to the question asked, i.e., then "Every man
is non-wise.” This, however, does not follow from the negation, for this is false
as it follows from that response. Rather, what must be inferred is "Then
not every man is wise.” And the reason for both is that the particular
enunciation inferred last is the opposite, i.e., the contradictory of the
universal question, which, being falsified by the negative response, makes the
contradictory of the universal affirmative true, for of contradictories, if one
is false the other is true. The infinite universal affirmative first inferred,
however, is contrary to the same universal question. Should it not also be
true? No, because it is not necessary in the case of universals that if one is
false the other is true. The cause of the diversity between singulars and
universals is now clear. In singulars the varying position of the negation does
not vary the quantity of the enunciation ‘ but in universals it does. Therefore
there is not the same truth in enunciations denying a universal when in one the
negation is a part of the predicate and in the other a part of the verb.
Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 5Deinde cum dicit: illae vero secundum infinitaetc.,
solvit tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes.
Insurgit autem hoc dubium, quia dictum est quod aequipollent negativa et
infinita. Et rursus dictum est nunc quod non refert in singularibus praeponere
et postponere negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio,
habens subiectum infinitum vel praedicatum, erit negativa et non affirmativa.
Hanc dubitationem solvit per interpretationem, probando quod nec nomina nec
verba infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit:
primo, proponit solutionem dicens: illae vero, scilicet dictiones,
contraiacentes: verbi gratia: non homo, et, homo non iustus et iustus. Vel sic:
illae vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum
naturam, iacentes contra nomina et verba (utpote quae removentes quidem nomina
et verba significant, ut non homo et non iustus et non currit, quae opponuntur
contra ly homo ly iustus et ly currit), illae, inquam, dictiones infinitae
videbuntur prima facie esse quasi negationes sine nomine et verbo ex eo quod
comparatae nominibus et verbis contra quae iacent, ea removent, sed non sunt
secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis
natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit quasi, quia
nec nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate
omnino semota sunt. Unde, si negationes apparent, videbuntur sine nomine et
verbo non omnino sed quasi. Deinde probat distinctiones infinitas non esse
negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam,
quia negatio est enunciatio alicuius ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit
verum vel falsum; igitur dictio infinita non est negatio. Minorem declarat,
quia qui dixit, non homo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, homo. Et
quoad significatum quidem clarissimum est: non homo, namque, nihil addit supra
hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil
magis profuit qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud non
addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et
falsitate, qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam
falsitas in compositione consistit; compositioni autem vicinior est dictio
finita, quae aliquid ponit, quam dictio infinita, quae nec ponit, nec componit,
idest nec positionem nec compositionem importat. Then he says, The antitheses
in infinite names and verbs, as in " non-man” and "nonjust,” might
seem to be negations without a name or a verb, etc. Here he raises the third
difficulty, i.e., whether infinite names or verbs are negations. This question
arises from his having said that the negative and infinite are equivalent and
from having just said that in singular enunciations it makes no difference
whether the negative is a part of the predicate or a part of the verb. For if
the infinite name is a negation, then the enunciation having an infinite
subject or predicate will be negative and not affirmative. He resolves this
question by an interpretation which proves that neither infinite names nor
verbs are negations although they seem to be. First he proposes the solution
saying, The antitheses in infinite names and verbs, i.e., words contraposed,
e.g., "non-man,” and "non-just man” and "just man”; or this may
be read as, Those (namely, words) corresponding to infinites, i.e.,
corresponding to the nature of infinites, placed in opposition to names or
verbs (namely, removing what the names and verbs signify, as in "non-man,”
"non-just,” and "non-runs,” which are opposed to "man,”
"just” and "runs”), would seem at first sight to be quasi-negations
without Dame and verb, because, as related to the names and verbs before which
they are placed, they remove them; they are not truly negations however. He
says without a name or a verb because the infinite name lacks the nature of a
name and the infinite verb does not have the nature of a verb. He says quasi
because the infinite name does not fall short of the notion of the name in
every way, nor the infinite verb of the nature of the verb. Hence, if it is
thought that they are negations, they will be regarded as without a name or a
verb, not in every way but as though they were without a name or a verb. He
proves that infinitizing signs of separation are not negations by pointing out
that it is always necessary for the negation to be true or false since a
negation is an enunciation of something separated from something. The infinite
name, however, does not assert what is true or false. Therefore the infinite
word is not a negation. He manifests the minor when he says that the one who
says "non-man” says nothing more of man than the one who says "man.”
Clearly this is so with respect to what is signified, for "non-man” adds
nothing beyond "man”; rather, it removes "man.” Moreover, with
respect to a conception of truth or falsity, it is of no more use to say
"non-man” than to say "man” if something else is not added; rather,
it is less true or false, i.e., one who says non-man is more removed from truth
and falsity than one who says man,” for both truth and falsity depend on
composition, and the finite word which posits something is closer to
composition than the infinite word, which neither posits nor composes, i.e., it
implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum dicit: significat autem
etc., respondet quartae dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum
supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: hae autem extra
illas, ipsae secundum se erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati
consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde
duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et
universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui
illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Haec enim universalis
affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli habenti subiectum finitum
significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis homo est iustus;
neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter opposita negatio et
universalis negativa habens subiectum infinitum, quae est contrarie opposita
supradictae, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli illarum de subiecto
finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et
in illis. When he says, Moreover, "Every non-man is just does not signify
the same thing as any of the other enunciations, etc., he answers a fourth
difficulty, i.e., how the earlier statement concerning enunciations having an
infinite subject is to be understood. The statement was that these stand by
themselves and are distinct from the former [in consequence of using the name
"non-man”]. This is to be understood not just with respect to the
enunciations themselves formally, but with respect to the consequence of what
is signified. Hence, giving two examples of enunciations with an infinite
subject, the universal affirmative and universal negative,” he says that
neither of these signifies the same thing as any of those, namely of those
having a finite subject. The universal affirmative "Every non-man is just”
does not signify the same thing as any of the enunciations with a finite
subject; for it does not signify "Every man is just” nor "Every man
is non-just.” Nor do the opposite negation, or the universal negative having an
infinite subject which is contrarily opposed to the universal affirmative,
signify the same thing as enunciations with a finite subject; i.e., "Not
every non-man is just” and "No non-man is just,” do not signify the same
thing as any of those with a finite subject. This is evident from the diversity
of subject in the latter and the former. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum
dicit: illa vero quae est etc., respondet quintae quaestioni, an scilicet inter
enunciationes de subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem
dubitatio haec ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata
consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis
affirmativa de subiecto, et praedicato infinitis et universalis negativa de
subiecto infinito, praedicato vero finito, aequipollent. Ista namque, omnis non
homo est non iustus, idem significat illi, nullus non homo est iustus. Idem
autem est iudicium de particularibus indefinitis et singularibus similibus
supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque
extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti, praedicati autem finiti,
aequipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales
exprimens, caeteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every
non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he
answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations
with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences
were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a
consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite
subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a
finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just”
signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in
particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no
matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the
negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent,
as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals intends
the others to be understood from these. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 8Deinde cum
dicit: transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an propter
nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio.
Oritur autem haec quaestio ex eo, quod docuit transpositionem negationis
variare enunciationis significationem. Aliud enim dixit significare, omnis homo
non est iustus, et aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur,
an similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita
enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit:
primo, ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem
significant: verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus,
ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut,
est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names and verbs are
transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he resolves a sixth
difficulty: whether the signification of the enunciation is varied because of
the transposition of names or verbs. This question arises from his having shown
that the transposition of the negation varies the signification of the
enunciation. "Every man is non-just,” he said, does not signify the same
thing as "Not every man is just.” This raises the question as to whether a
similar thing happens when we transpose names. Would this vary the enunciation
as the transposed negation does? First he states the solution, saying that transposed
names and verbs signify the same thing, e.g., "Man is white” signifies the
same thing as "White is man.” Transposed verbs also signify the same
thing, as in "Man is white” and "Man white is.” Cajetanus lib. 2 l. 4
n. 9Deinde cum dicit: nam si hoc non est etc., probat praedictam solutionem ex
numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si
hoc non est, idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem
affirmationis erunt duae negationes; sed ostensum est in I libro, quod una
tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis ad
destructionem antecedentis transposita nomina non variant enunciationem. Ad
probationis autem consequentiae claritatem formetur figura, ubi ex uno latere
locentur ambae suprapositae affirmationes, transpositis nominibus; et ex altero
contraponantur duae negativae, similes illis quoad terminos et eorum
positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub affirmativis ponatur
affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur
contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter
secundam affirmationem et omnes tres negationes, ita tamen quod inter ipsam et
infimam negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur
quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se.
Hoc modo: (Figura). His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic.
Illius affirmationis, est albus homo, negatio est, non est albus homo; illius
autem secundae affirmationis, quae est, est homo albus, si ista affirmatio non
est eadem illi supradictae affirmationi, scilicet, est albus homo, propter
nominum transpositionem, negatio erit altera istarum, scilicet aut, non est non
homo albus, aut, non est homo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam
alia ab illa assignatam, scilicet, est homo albus. Nam altera quidem dictarum
negationum, scilicet, non est non homo albus, negatio est illius quae dicit,
est non homo albus; alia vero, scilicet, non est homo albus, negatio est eius
affirmationis, quae dicit, est albus homo, quae fuit prima affirmatio. Ergo
quaecunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediae, sequitur
quod sint duae unius, idest quod unius negationis sint duae affirmationes, et
quod unius affirmationis sint duae negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut
dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illae affirmationes sint
propter nominum transpositionem diversae. Then he proves the solution from the
number of contradictory negations when he says, For if this is not the case
there will be more than one negation of the same enunciation, etc. He does this
by a reduction to the impossible and his reasoning is as follows. If this is
not so, i.e., if transposed names diversify enunciations, there will be two
negations of the same affirmation. But in the first book it was shown that
there is only one negation of one affirmation. Going, then, from the
destruction of the consequent to the destruction of the antecedent, transposed
names do not vary the enunciation. To clarify the proof of the consequent, make
a figure in which both of the affirmations posited above, with the names
transposed are located on one side. Put the two negatives similar to them in
respect to terms and position on the opposite side. Then leaving a little
space, under the affirmatives put the affirmation with an infinite subject and
under the negatives the negation of it. Mark the contradiction between the
first affirmation and the first two negations and between the second
affirmation and all three negations, but in the latter case mark the
contradiction between it and the lowest negation as not true but imaginary.
Mark, also, the contradiction between the third affirmation and negation. (1)
Man is white - contradictories - Man is not white (2) White is man –
contradictories - White is not man (3) Non-man is white - contradictories - Non-man
is not white Now we can see how Aristotle proves the consequent. The negation
of the affirmation "Man is white” is "Man is not white.” But if the
second affirmation, "White is man,” is not the same as "Man is
white,” because of the transposition of the names, its negation, [i.e., of
"White is man”] will be either of these two: "Non-man is not white,”
or "White is not man.” But each of these has another opposed affirmation
than that assigned, namely, than "White is man.” For one of the negations,
namely, "Non-man is not white,” is the negation of "Non-man is
white”; the other, "White is not man” is the negation of the affirmation
"Man is white,” which was the first affirmation. Therefore whatever
negation is given as contradictory to the middle enunciation, it follows that
there are two of one, i.e., two affirmations of one negation, and two negations
of one affirmation, which is impossible. And this, as has been said, follows
upon an erroneously set up hypothesis, i.e., that these affirmations are
diverse because of the transposition of names. 10 Adverte hic primo quod
Aristoteles per illas duas negationes, non est non homo albus, et, non est homo
albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis,
est homo albus, caeteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis
affirmationis acceptabitur illa quae est vere eius negatio, aut quaecunque
extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi,
sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam veram quae est
contradictoria suae comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut
distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum
esse unicam negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum
quatuor incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit
indeterminate: quare erunt duae unius. Notice first that Aristotle through
these two negations, "Non-man is not white” and "White is not man,”
taken under disjunction to find the negation of the affirmation "Man is
white,” has comprehended other things. It is as though he said: The negation
which will be taken will either be the true negation of such an affirmation or
some extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the
hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the
contradictory of it, having equal truth with the one having its name
transposed, and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely.
And conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in
the diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed
to it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately:
Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo
quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primae affirmationis
sit contradictoria secundae, et similiter quod contradictoria secundae
affirmationis sit contradictoria primae. Hoc enim accepit tamquam per se notum,
ex eo quod non possunt simul esse verae neque simul falsae, ut manifeste patet
praeposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istae duae,
Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis quod eas non
singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quae affirmatio
et negatio sint contradictoriae et quae non, et ideo non fuit sollicitus de
exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de
nominibus transpositis non sunt diversae quod nec ipsae affirmationes sunt
diversae et sic nomina et verba transposita idem significant. Note secondly
that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory
of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that
the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first.
This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time
nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is
placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a
white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be
disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was
undoubtedly aware that he had already stated in the first book which
affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason
felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is
therefore evident that since negations of affirmations with transposed names
are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence
transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium
circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit
affirmatio. Non enim valet: omnis homo est animal; ergo omne animal est homo.
Similiter, transposito verbo, non valet: homo est animal rationale; ergo homo
animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur,
tamen non sequitur primam. Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus
est duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et
formalis de forma ad formam; ita in enunciationibus est duplex transmutatio,
situalis scilicet, quando terminus praepositus postponitur, et e converso, et
formalis, quando terminus, qui erat praedicatum efficitur subiectum, et e
converso vel quomodolibet, simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in
naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de loco ad
locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit transmutatio secundum
locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit de loco frigido
ad locum calidum: ita in enunciationibus quandoque fit transmutatio pure
situalis, quando scilicet nomen vel verbum solo situ vocali variatur; quandoque
autem fit transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit cum
praedicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et
quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure
situali, ut transpositionis vocabulum praesefert, ideo dixit quod transposita
nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud praeter
transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio.
Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non
sola transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in praedicatum, vel de
tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia. A doubt
does arise, however, about the point Aristotle is making here, for it does not
seem true that with transposed names the affirmation is the same. This, for
example, is not valid: "Every man is an animal”; therefore, "Every
animal is a man.” Nor is the following example with a transposed verb valid:
"Man is a rational animal and (taking "is” as the second element),
therefore "Man animal rational is”; for although it is nugatory as a whole
combination, nevertheless it does not follow upon the first. The answer to this
is as follows. just as there is a twofold transmutation in natural things,
i.e., local, from place to place, and formal, from form to form, so in
enunciations there is a twofold transmutation: a positional transmutation when
a term placed before is placed after, and conversely, and a formal
transmutation when a term that was a predicate is made a subject, and
conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in natural things
sometimes a purely local transmutation is made (for instance, when a thing is
transferred from place to place, with no other variation made) and sometimes a
transmutation is made according to place—not simply but with a formal variation
(as when a thing passes from a cold place to a hot place), so in enunciations a
transmutation is sometimes made which is purely positional, i.e., when the name
and verb are varied only in vocal position, and sometimes a transmutation is
made which is at once formal and positional, as when the predicate becomes the
subject, or the verb which is the third element added becomes the second.
Aristotle’s purpose here was to treat of the purely positional transmutation of
names and verbs, as the vocabulary of the transposition indicates; when he
says, then, that transposed names and verbs signify the same thing, he intends
to imply that if nothing other than the transposition of name and verb takes
place in the enunciation, what is said remains the same. Hence, the response to
the present objection is clear, for in both examples there is not only a
transposition but a transmutation of subject to predicate in one case, and from
an enunciation with a third element to one with a second element in the other.
The response to similar questions is evident from this. V. 1. Postquam
Aristoteles determinavit diversitatem enunciationis unius provenientem ex
additione negationis infinitatis, hic intendit determinare quid accidat
enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel praedicato tollens eius
unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo, determinat diversitatem earum;
secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero haec quidem et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes enunciationes
esse plures; ibi: si ergo dialectica et cetera. Dicit ergo quoad primum,
resumendo quod in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum de
pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est
enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur
unum debere esse subiectum aut praedicatum, subdit quod unum dico non si nomen
unum impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum
enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius
nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen
pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem
significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis
unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an
enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains
what happens to an enunciation when something is added to the subject or
predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and
then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if
dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he
determines their consequences, where he says, Some things predicated separately
are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up
something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation
nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or
many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains
what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do
not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do
not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the
unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many
things are brought together under one name in such a way that what is signified
by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when
one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral
parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity
both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the
enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse
animal et mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut
sit exemplum ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis
impositi pluribus ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum
quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suae definitionis. Et ne
quis crederet quod hae essent verae definitionis nominis partes, interposuit,
fortasse. Porphyrius autem, Boethio referente et approbante, separat has textus
particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam
esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno praedicarentur plura,
ex quibus non fit unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc.,
intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus
fit unum subiiciuntur vel praedicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et
mansuetum et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo
autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc contingere posse,
necessarium autem non esse. Then he adds, For example, man probably is an
animal and biped and civilized. This, however, is obscure, for it can be
understood as all example of the opposite, as if he were saying, "I do not
mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon many from
which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from the parts
of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent anyone from
thinking these are true parts of the definition of the name he interposes
perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius, separates
these parts of the text. He says Aristotle first states that that enunciation
is many in which many are subjected to one, or many are predicated of one, when
one thing is not constituted from these. And when he says, For example, man
perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many when many from
which one thing is constituted are subjected or predicated, as in the example
"Man is an animal and civilized and biped,” with copulas interjected or a
pause such as orators make. He added perhaps, they say, to imply that this
could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et
Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut quatuor hic
faciat. Et primo quidem, resumit quae sit enunciatio in communi dicens:
enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno enunciantur.
Si tamen ex illis pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit.
Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum,
idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut
supra dictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot
modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex hoc
diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum
prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non tamen
in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens
loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per
se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia
imponitur eis non in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo,
impositum ad significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suae
definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus
et potentiae, sed ut distinctae sint inter se actualitates. Et insinuavit quod
accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud
quoque adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc
tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo,
non est impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctae sunt.
Sed si impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex
quibus non fit unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis
pluribus; ideo similiter illae plures partes definitivae possunt dupliciter
accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic
formaliter loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandae sunt
continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale
mortale currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo,
accipiuntur praedictae definitionis partes ut distinctae sunt inter se
actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit
unum, ut dicitur VII metaphysicae; et sic faciunt enunciationes plures et
pronunciandae sunt vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo
est animal et mansuetum et bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes,
rhetorico more. Quaelibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et similiter
ista, Socrates est homo, si homo est impositum ad illa, ut distinctae
actualitates sunt, significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen
impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: ex albo
autem et homine et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit, quando unum nomen
imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: homo, album,
et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut
poterat fieri ex partibus definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis
imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in primo dictum fuit de hoc
nomine, tunica, imposito homini et equo. While agreeing with the opinion of
Porphyry, Boethius, and Albert, we think a more subtle construction can be made
of the text. According to it Aristotle makes four points here. First, he
reviews what an enunciation is in general when he says, The enunciation is many
in which one is enunciated of many or many of one, unless from the many something
one is constituted... as he stated and explained in the first book. Secondly,
he clarifies the term "one,” when he says, I do not use "one” of
those things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the unity of
vocal sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he manifests (by
dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in which one name may
be imposed on many things from which one thing is not constituted. From this he
implies the diversity of the multiple enunciation. And he posits two ways in
which one name may be imposed on many things from which one thing is not
constituted: first, when one name is imposed upon many things from which one
thing is constituted but not as one thing is constituted from them. In this case,
materially and accidentally speaking, the name is imposed on many from which
one thing is constituted, but it is formally and per se imposed on many from
which one thing is not constituted; for it is not imposed upon them in the
respect in which they constitute one thing; as perhaps the name "man” is
imposed to signify animal and civilized and biped (i.e., parts of its
definition) not as they are united in the one nature of man in the mode of act
and potency, but as they are themselves distinct actualities. Aristotle implies
that he is taking these parts of the definition as distinct by the conjunctions
and by also adding adversatively, but if there is something one formed from
these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has the "if” that
Cajetan puts into this phrase.The correct reading is "...but there is
something one formed from these.” Close as if to say, "when however it
holds that one thing is constituted from these.” He adds perhaps because the
name "man” is not imposed to signify its definitive parts as they are
distinct. But if it had been so imposed or were imposed, it would be one name
imposed on many things from which no one thing is constituted. And since the
judgment with respect to such a name and those many things is the same, the
many definitive parts can also be taken in two ways: first, in the mode of the
actual and possible, and thus they constitute one thing, and formally speaking
are called many from which one thing is constituted, and they are to be
pronounced in continuous speech and they make one enunciation, for example,
"A mortal rational animal is running.” For this is one enunciation, just
as is "Man is running.” In the second way, the foresaid parts of the
definition are taken as they are distinct actualities, and thus they do not
constitute one thing, for one thing is not constituted from two acts as such,
as Aristotle says in VII Metaphysicae [13: 1039a 5]. In this case they
constitute many enunciations and are pronounced either with conjunctions
interposed or with a pause in the rhetorical manner, for example, "Man is
an animal and civilized and biped” or "Man is an animal–civilized–biped.”
Each of these is a multiple enunciation. And so is the enunciation,
"Socrates is a man” if "man” is imposed to signify animal, civilized,
and biped as they are distinct actualities. Aristotle takes up the second way
in which one name is imposed on many from which one thing is not constituted
where he says, whereas from "white” and "man” and "walking”
there is not [something one formed]. Since in no way can any one nature be
constituted from "man,” white,” and "walking” (as there can be from
the definitive parts), it is evident that if a name were imposed on these it
would be a name that does not signify one thing, as was said in the first book
of the name "cloak” imposed for man and horse. 4 Habemus ergo
enunciationis pluris seu multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit
dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel
praedicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum
sunt unum; secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt
distinctae actualitates, subiiciuntur vel praedicantur; tertius est, quando ibi
est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando
ista plura ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel praedicantur. Et notato
quod cum enunciatio secundum membra divisionis illius, qua divisa est, in unam
et plures, quadrupliciter variari possit, scilicet cum unum de uno praedicatur,
vel unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub
silentio praeterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut
inquit Albertus, non intendebat nisi de enunciatione, quae aliquo modo una est,
tractare. Demum concludit totam sententiam, dicens: quare nec si aliquis
affirmet unum de his pluribus, erit affirmatio una secundum rem: sed vocaliter
quidem erit una, significative autem non una, sed multae fient affirmationes.
Nec si e converso de uno ista plura affirmabuntur, fiet affirmatio una. Ista
namque, homo est albus, ambulans et musicus, importat tres affirmationes,
scilicet, homo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius
contradictione. Triplex enim negatio illi opponitur correspondens triplici
affirmationi positae. We have, therefore, two modes of the many (i.e., the
multiple enunciation) and since both are constituted in two ways, there will be
four modes: first, when one name imposed on many from which one thing is
constituted is subjected or predicated as though the name stands for many; the
second, when the many from one which one thing is constituted are subjected or
predicated as distinct actualities; the third, when one name is imposed for a
many from which nothing one is constituted; the fourth, when many which do not
constitute one thing are subjected or predicated. Note that the enunciation,
according to the members of the division by which it has been divided into one
and many, can be varied in four ways, i.e., one is predicated of one, one of
many, many of one, and many of many. Aristotle has not spoken of the last one,
either because its plurality is clear enough or because, as Albert says, he
only intends to treat of the enunciation which is one in some way. Finally
[fourthly], he concludes with this summary: Consequently, if someone affirms
something one of these latter there will not be one affirmation according to
the thing: vocally it will be one; significatively, it will not be one, but
many. And conversely, if the many are affirmed of one subject, there will not
be one affirmation. For example, "Man is white, walking, and musical”
implies three affirmations, i.e., "Man is white” and "is walking” and
"is musical,” as is clear from its contradiction, for a threefold negation
is opposed to it, corresponding to the threefold affirmation. 5 Deinde cum
dicit: si ergo dialectica etc., probat a posteriori supradictas enunciationes
esse plures. Circa quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum
per modum consequentiae; deinde probat antecedens dictae consequentiae; ibi:
dictum est autem de his et cetera. Quoad primum talem rationem inducit. Si
interrogatio dialectica est petitio responsionis, quae sit propositio vel
altera pars contradictionis, nulli enunciationum supradictarum interrogative
formatae erit responsio una; ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures.
Cuius rationis primo ponit antecedens: si ergo et cetera. Ad huius
intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et
responsio. Cum enim dicitur, caelum est animatum, in quantum enunciat
praedicatum de subiecto, enunciatio vocatur; in quantum autem quaerendo
proponitur, interrogatio; ut vero quaesito redditur, responsio appellatur. Idem
ergo erit probare non esse responsionem unam, et interrogationem non esse unam,
et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem esse duplicem.
Quaedam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et haec
vocatur dialectica, quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque contradictionis
partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et
haec est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum determinate
tendit. Considera ulterius quod interrogationi dialecticae dupliciter
responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive
negative; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur, est; vel,
Deus non movetur? Et respondeatur, non: talis responsio vocatur propositio.
Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, caelum est
animatum? Et respondeatur, non; vel Deus non movetur? Et respondeatur, movetur:
talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo quod affirmationi
negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est
petitio annuentis responsionis, quae est propositio, vel contradicentis, quae
est altera pars contradictionis secundum supradictam Boethii expositionem. Then
when he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer,
etc., he proves a posteriori that the foresaid enunciations are many. First he
states an argument to prove this by way of the consequent; then he proves the
antecedent of the given consequent where he says, But we have spoken about
these things in the Topics, etc. Now if dialectical questioning is a request
for an answer, either a proposition or one part of a contradiction, none of the
foresaid enunciations, put in the form of a question, will have one answer.
Therefore, the question is not one, but many. Aristotle first states the
antecedent of the argument, if dialectical interrogation is a request for an
answer, etc. To understand this it should be noted that an enunciation, a
question, and an answer sound the same. For when we say, "The region of
heaven is animated,” we call it an enunciation inasmuch as it enunciates a
predicate of a subject, but when it is proposed to obtain an answer we call it
an interrogation, and as applied to what was asked we call it a response.
Therefore, to prove that there is not one response or one question or one
enunciation will be the same thing. It should also be noted that interrogation
is twofold. One proposes either of the two parts of a contradiction to choose
from. This is called dialectical interrogation because the dialectician knows
the way to prove either part of a contradiction from probable positions. The
other kind of interrogation seeks one determinate response. This is the
demonstrative interrogation, for the demonstrator proceeds determinately toward
a single alternative. Note, finally, that it is possible to reply to a
dialectical question in two ways. We may consent to the question, either
affirmatively or negatively; for example, when someone asks, "Is the
region of heaven animated,” we may respond, "It is,” or to the question
"Is not God moved,” we may say, "No.” Such a response is called a
proposition. The second way of replying is by destroying; for example, when
someone asks "Is the region of heaven animated?” and we respond,
"No,” or to the question, "Is not God moved?” we respond, "He is
moved.” Such a response is called the other part of a contradiction, because a
negation is given to an affirmation and an affirmation to a negation.
Dialectical interrogation, then, according to the exposition just given, which is
that of Boethius, is a request for the admission of a response which is a
proposition, or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit
probationem consequentiae, cum ait: propositio vero unius contradictionis est
et cetera. Ubi notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures,
non sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse
dialectica; sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio,
tunc recte sequitur quod responsio enunciationis pluris, non est responsio
dialectica, quae una est. Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium
contradictionum pars est, una non esse comprobatur: una enim uni tantum
contradicit. Si autem unius solum contradictionis pars est, una est eadem
ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est negatio, et e converso.
Probat ergo Aristoteles consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio
dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel
negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum est, sequitur quod nullius enunciationis
multiplicis sit responsio dialectica, et consequenter nec una responsio sit.
Nec praetereas quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis,
responsionemque praeposuerit dialecticae interrogationis, de sola propositione
subiunxit, quod est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum
unitatem praeferebat. Cum enim alteram contradictionis partem audis, unam
affirmationem vel negationem statim intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly
ergo, vel insinuans hoc esse aliunde sumptum, ut postmodum in speciali
explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiae huius inter antecedens et
consequens locandam, antecedenti praeposuit; sicut si diceretur, si ergo
Socrates currit, movetur; pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo
movetur. Sequitur deinde consequens: non erit una responsio ad hoc; et infert
principalem conclusionem subdens, quod neque una erit interrogatio et cetera.
Si enim responsio non potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit. He adds the
proof of the consequent when he says, and a proposition is a part of one
contradiction. In relation to this it should be noted that if a dialectical
response could be many, it would not follow that a response to a multiple
enunciation would not be dialectical. However, if the dialectical response can
only be one enunciation then it follows that a response to a plural enunciation
is not a dialectical response, for it is one [i.e., it inclines to one part of
a contradiction at a time]. It should also be noted that if an enunciation is a
part of many contradictions, it is thereby proven not to be one, for one
contradicts only one. But if an enunciation is a part of only one
contradiction, it is one by the same reasoning, i.e., because there is only one
negation of one affirmation, and conversely. Hence Aristotle proves the
consequent from the fact that the proposition, i.e., the dialectical response,
is a part of one contradiction, i.e., it is one affirmative or one negative
enunciation. It follows from this, as has been said, that there is no
dialectical response of a multiple enunciation, and consequently not one
response. It should not be overlooked that when he designates a proposition or
one part of a contradiction as the response to a dialectical interrogation, it
is only of the proposition that he adds that it is one, because the very
wording shows the unity of the other. For when you hear one part of a
contradiction, you immediately understand one affirmation or negation. He puts
the "therefore” with the antecedent, either implying that this is taken
from another place and he will explain in particular afterward, or having
changed the structure, he places the sign of the consequent, which should be
between the antecedent and consequent before the antecedent, as when one says,
"Therefore if Socrates runs, he is moved,” for "If Socrates runs,
therefore he is moved.” Then the consequent follows: there will not be one
answer to this, etc.; and the inference of the principal conclusion, for there would
not be a single question. For if the response cannot be one, the question will
not be one. 7 Quod autem addidit: nec si sit vera, eiusmodi est. Posset aliquis
credere, quod licet interrogationi pluri non possit dari responsio una, quando
id de quo quaestio fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel
negari (ut cum quaeritur, canis est animal? Quia non potest vere de omnibus
responderi, est, propter caeleste sidus, nec vere de omnibus responderi, non
est, propter canem latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando
id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus affirmari aut negari,
tunc potest dari responsio una; ut si quaeratur, canis est substantia? Quia
potest vere de omnibus responderi, est, quia esse substantiam omnibus canibus
convenit, unica responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet
dicens: nec si sit vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi
multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia unum non
significat, nec unius contradictionis est pars, sed plures responsio illa habet
contradictorias, ut de se patet. He adds, even if there is a true answer,
because someone might think that although one response cannot be given to a
plural interrogation when the question concerns something that cannot be
affirmed or denied of all of the many (for example, when someone asks, "Is
a dog an animal?” no one response can be given, for we cannot truly say of
every dog that it is an animal because of the star by that name; nor can we
truly say of every dog that it is not an animal, because of the barking dog),
nevertheless one response could be given when that which falls tinder the
interrogation can be truly said of all. For example, when someone asks,
"Is a dog a substance?” a single response can be given because it can
truly he said of every dog that it is a substance, for to be a substance
belongs to all dogs. Aristotle adds the phrase, even if there is a true answer,
to remove such an erroneous judgment. For even if the response to the multiple
enunciation is verified of all, it is nonetheless not one, since it does not
signify one thing, nor is it a part of one contradiction. Rather, as is
evident, this response has many contradictories. 8 Deinde cum dicit: dictum est
autem de his in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate
eorum quae dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit.
Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod similiter etc., cum auctoritate topicorum,
manifestum est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica
interrogatio est petitio responsionis affirmativae vel negativae. Quoniam nec
ipsum quid est, idest ex eo quod nec ipsa quaestio quid est, est interrogatio
dialectica: verbi gratia; si quis quaerat, quid est animal? Talis non quaerit
dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid
est, non est quaestio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica
optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis partem, et ipsa
quaestio quid est talem libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est
animal? Respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quae non solum
ad unum determinata est, sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec
esse, nec non esse dicat); ideo ipsa quaestio quid est, non est dialectica
interrogatio. Unde dicit: oportet enim ex data, idest ex proposita
interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse utram velit
contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem
oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: utrum hoc animal
sit homo an non: ubi evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo
pro signo cum quaestio dialectica petat responsionem propositionis, vel
alterius contradictionis partem, elongationem quaestionis quid est a
quaestionibus dialecticis. Where he says, But we have spoken about these things
in the Topics, etc., he proves the antecedent in two ways. First, he proves it
on the basis of what was said in the Topics; secondly, by a sign. The sign is
given first where he says, Similarly it is clear that the question "What
is it?” is not a dialectical one, etc. That is, given the doctrine in the
Topics, it is clear (i.e., assuming the antecedent that the dialectical
interrogation is a request for an affirmative or negative response) that the
question "What is it?” is not a dialectical interrogation, e.g., when
someone asks, "What is an animal?” he does not interrogate dialectically. Secondly,
he gives the proof of what was assumed, namely, that the question "What is
it?” is not a dialectical question. He states that a dialectical interrogation
must offer to the one responding the option of whichever part of the
contradiction he wishes. The question "What is it?” does not offer such
liberty, for in saying "What is an animal?” the one responding is forced
to assign a definition, and a definition is not only determined to one but is
also entirely devoid of contradiction, since it affirms neither being nor
non-being. Therefore, the question "What is it?” is not a dialectical
interrogation. Whence he says, For the dialectical interrogation must provide,
i.e., from the proposed dialectical interrogation the one responding must be
able to choose whichever part of the contradiction he wishes, which parts of
the contradiction the interrogator must specify, i.e., he must propose the
question in this way: "Is this animal man or not?” wherein the wording of
the question clearly offers an option to the one answering. Therefore, you have
as a sign that a dialectical question is seeking a response of a proposition or
of one part of a contradiction, the setting apart of the question "What is
it?” from dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem
multiplicis enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et
circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit;
ibi: verum autem est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit
quaestionem; secundo, ostendit rationabilitatem quaestionis; ibi: si enim
quoniam etc.; tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo
dubitatio prima: quare ex aliquibus divisim praedicatis de uno sequitur
enunciatio, in qua illamet unita praedicantur de eodem, et ex aliquibus non.
Unde haec diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est
bipes; sequitur, ergo Socrates est animal bipes; et similiter ex istis,
Socrates est homo et est albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex illis
vero, Socrates est bonus, et est citharoedus; non sequitur, ergo est bonus
citharoedus. Unde proponens quaestionem inquit: quoniam vero haec, scilicet
praedicta, ita praedicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit
praedicamentum quae extra praedicantur, idest, ut ex eis extra praedicatis
unite fiat praedicatio, alia vero praedicata non sunt talia, quae est inter
differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta,
et ad propositum applicata: quorum primum continet praedicata ex quibus fit
unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum autem
praedicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, homo albus; tertium vero
praedicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter se fieri
sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut declarabitur. Having explained the
diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine the
consequences of this. He treats this in relation to two questions which he
solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to
say predicates of something singly, etc. With respect to the other question,
first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where
he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both
together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he
solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to
that to which they are joined in predication, etc. The first question is this:
Why is it that from some things predicated divisively of a subject an
enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly,
and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from
"Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates
is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is
white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from
"Socrates is good and he is a lute player,” the enunciation, "Therefore,
he is a good lute player” does not follow. Hence in proposing the question
Aristotle says, Some things, i.e., predicates, are so predicated when combined,
that there is one predicate from what is predicated separately, i.e., from some
things that are predicated separately, a united predication is made but from
others this is riot so. What is the difference between these; whence does such
a diversity arise? He adds the examples which we have already cited and applied
to the question. Of these examples, the first contains predicates from which
something one per se is formed, i.e., "animal” and "biped,” a genus
and difference; the second contains predicates from which something
accidentally one is formed, namely, "white man”; the third contains
predicates from which neither one per se nor one accidentally is formed,
"lute player” and "good,” as will be explained. Cajetanus lib. 2 l. 6
n. 2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem diversitatis
positae, ex qua rationabilis redditur quaestio: si namque inter praedicata non
esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc
ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio duobus
modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit ad
nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset
cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quaecumque praedicata differentia, sed
de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod
utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim
homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est;
quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et
de eodem Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est
albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus
albus: ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas
separatim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et
secundum hoc, si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes,
et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in
infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat
quod, est musicus, albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est
musicus, et quod, est albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est
musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et quia pluries separatim,
in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde
deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de Socrate vere dici possit
separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet,
sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim
circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis
ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet
Aristoteles II topicorum), apparebit manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates
est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia
sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes praedicatorum fieri
simpliciter, idest, absque diversitate aliqua, manifestum est ex dictis;
quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod
iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia
non discrepat, legat quicunque ut vult. When he says, For if we hold that
whenever each is truly said of a subject, both together must also be true,
etc., he shows that there truly is such a diversity among predicates and in so
doing renders the question reasonable, for if there were not such a diversity
among predicates the question would be pointless. He shows this by reasoning
lead-ing to an absurdity, i.e., to something nugatory. Now, something nugatory
is effected in two ways, explicitly and implicitly. Therefore, he first makes a
deduction to the explicitly nugatory, secondly to the implicitly, where he
says, Furthermore, if Socrates is Socrates and a man, Socrates is a Socrates
man, etc. If, he says, there is no difference between predicates, and it is
supposed of any of them indifferently that because both are said separately
both may he said conjointly, many absurdities will follow. For of some man, say
Socrates, it is true to say separately that he is a man and he is white;
therefore both -together, i.e., we may also say conjointly, "Socrates is a
white man.” Again, of the same Socrates we can say separately that he is a
white man and that he is white, and both together, i.e., therefore conjointly,
"Socrates is a white white man.” Here the nugatory expression is evident.
Further, if of the same Socrates that you again say separately is a white white
man it will be true and consistent to say that he is white, and according to
this, if again repeating this separately, you will not deviate from a similar
truth, and this will follow to infinity, then Socrates is a white white white
man to infinity. The same thing can be shown by another example, If someone
says of Socrates that he is musical, white, and walking, since it is also
possible to say separately that he is musical, and that he is white, and that
he is walking, it will follow that Socrates is musical, white, walking,
musical, white, walking. And since these can be enunciated many times
separately, yet at the same time, the nugatory statement proceeds without end.
Then he makes a deduction to the implicitly nugatory. Since it can be truly
said of Socrates separately that he is man and that he is biped, it will follow
that Socrates is a biped man, if it is licit to infer conjointly. This is
implicitly nugatory because the "biped,” which indirectly expresses the
difference of man in act and in understanding, is included in the notion of
man. Hence, if we posit the definition of man in place of "man” (which it
is licit to do, as Aristotle teaches in II Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory
character of the enunciation will be evident, for when we say "Socrates is
a biped man,” we are saying "Socrates is a biped biped animal.” From what
has been said it is evident that many absurdities follow if anyone proposes
that combinations, i.e., unions of predicates, be made simply, i.e., without
any distinction. Now, i.e., in what follows, we will state how this must be
settled. This particular text is not uniformly worded in the manuscripts, but
since no discrepancy of thought is involved one may read it as he wishes. 3 Deinde
cum dicit: eorum igitur etc., solvit propositam quaestionem. Et circa hoc duo
facit: primo, respondet instantiis in ipsa propositione quaestionis adductis;
secundo, satisfacit instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec
quaecumqueet cetera. Circa primum duo facit: primo namque, declarat veritatem;
secundo, applicat ad propositas instantias; ibi: quocirca et cetera. Determinat
ergo dubitationem tali distinctione. Praedicatorum sive subiectorum plurium duo
sunt genera: quaedam sunt per accidens, quaedam per se. Si per accidens, hoc
dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel quia
alterum de altero mutuo per accidens praedicatur. Quando illa plura divisim
praedicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim
praedicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte
praedicatum. Unde continuando se ad praecedentia ait: eorum igitur quae
praedicantur, et de quibus praedicantur, idest subiectorum, quaecumque dicuntur
secundum accidens (et per hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel
de eodem, idest accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel
alterutrum de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc
ponit membra duplicis divisionis), haec, scilicet plura per accidens, non erunt
unum, idest non inferent praedicationem coniunctam. When he says, Those things
that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in
predication, etc., he solves the proposed question. First he makes an answer
with respect to the instances cited in proposing the question; secondly, he
solves the problem as related to the instances posited in his proof where he
says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be
combined simply. In relation to the first answer, he states the true position
first and then applies it to the instances where he says, This is the reason
"good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the
question with this distinction: there are two kinds of multiple predicates and
subjects. Some are accidental, some per se. If they are accidental this occurs
in two ways, either because both are said accidentally of a third thing or
because they are predicated of each other accidentally. Now when the many
predicated divisively are in any way accidental, a conjoined predicate does not
follow from them; but when they are per se, a conjoined predicate does follow
from them. In answering the question, therefore, Aristotle connects what he is
saying with what has gone before: Of those things that are predicated and those
of which they are predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally
(by which he intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same
subject, i.e., they unite accidentally for the denomination of one third thing,
or of one another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this he
posits the members of a two-fold division), these (i.e., these many
accidentally) will not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et
explanat utrumque horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa
plura per accidens dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus
divisim. Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus
albus. Utraque enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum,
quando solum illa plura per accidens de se mutuo praedicantur, subdens: nec si
album musicum verum est dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista
praedicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo
est albus, et est musicus, et album est musicum, non tamen sequitur quod album
musicum unite praedicetur, dicendo, ergo homo est albus musicus. Et causam
assignat, quia album dicitur de musico per accidens, et e converso. He explains
both of these by examples. First, the many said accidentally of a third; for
example, man is white and musical divisively. But they are not the same, i.e.,
it does not follow unitedly that "Man is musical white” for both are
accidental to the same third thing. Then he explains the second member by an
example. In it the many are predicated only of one another. Even if it were
true to say white is musical, i.e., even if these are predicated accidentally
of each other by reason of the subject in which they are united, so that we may
say "Man is white and he is musical, and white is musical,” it still does
not follow that "musical white” is predicated as a unity when we say,
"Therefore, man is musical white.” He gives as the cause of this that
"white” is said of "musical” accidentally and conversely. 5 Notandum
est hic quod cum duo membra per accidens enumerasset, unico tamen exemplo
utrumque membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa non erat in
diversa praedicata per accidens, sed in eadem diversimode comparata; album enim
et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comparata autem inter
se, sub secundo. Diversitatem ergo comparationis pluralitate membrorum,
identitatem autem praedicatorum unitate exempli astruxit. It must be noted here
that although he has enumerated two accidental members, he explains both
members by this single example so as to imply that the distinction is not one
of different accidental predicates, but of the same predicates compared in
different ways. "White” and "musical” compared to "man” fall
under the first member, but compared with each other, under the second. Hence
he has provided diversity of comparison by the plurality of the members, but
identity of predicates by the unity of the example. 6 Advertendum est ulterius,
ad evidentiam divisionis factae in littera, quod, secundum accidens, potest
dupliciter accipi. Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem
posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura praedicata
secundum accidens, aut ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter
se, et sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter prima praedicata, animal
bipes, seu, animal rationale, est praedicatio secundum accidens hoc modo
(differentia enim in nullo modo perseitatis praedicatur de genere, et tamen
Aristoteles in textu dicit ea non esse praedicata per accidens, et asserit quod
est optima illatio, est animal et bipes, ergo est animal bipes); aut
determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur
falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est
visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. Alio modo,
accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione
sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo
accipitur hic. Quaecunque enim sunt talis naturae quod non ratione sui
iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere necesse est, ex
eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata
denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus divisionis, quod praedicatorum
plurium, quaedam sunt per accidens, quaedam per se, idest, quaedam adunantur
inter se ratione sui, quaedam propter aliud. Ea quae per se uniuntur inferunt
coniunctum, ea autem quae propter aliud, nequaquam. To make this division
evident it must also be noted that accidentally can be taken in two ways. It
may be taken as it is distinguished from "posterioristic perseity.” This
is not the way it is taken here, for "many predicates accidentally” would
then mean that the "accidentally” determines a conjunction between
predicates, and thus the rule would clearly be false, for the first predicates
he gave as examples are predicated accidentally in this way, namely,
"biped animal,” or "rational animal” (for a difference is not
predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in the
text that these are not predicated accidentally, and has asserted that "He
is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good inference).
Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction of the
predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for it is
valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible colored
is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is
distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of
something else; "accidentally” then means "through another.” This is
the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are
joined because of something else, and not on their own account, do not admit of
conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other,
and denotes the things united on their own account as potency and act.
Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are
accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own
account, some on account of another. Those that are per se united infer
conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly
in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat
declaratam veritatem ad partes quaestionis. Et primo, ad secundam partem, quia
scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus
citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam
partem quaestionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal
bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti
causam, quia, animal bipes, non sunt praedicata secundum accidens coniuncta
inter se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum
primae divisionis, quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod
Aristoteles, eamdem tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo,
conclusit quod album et musicum non inferunt coniunctum praedicatum; ideo nec
citharoedus et bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte.
Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et
arti citharisticae in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum
tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas
manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus
citharoedus), musica vero et albedo subiectum tertium natae sunt denominare
tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur: est
albus et est musicus; ergo est musicus albus), licet, inquam, in hoc sint
dissimiles, et propter istam dissimilitudinem processus Aristotelis minus
sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur identitas
omnimoda praedicatorum quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri
coniunctim, sicut musica non denominat albedinem, neque contra, ita nec
bonitas, de qua fit sermo, cum dicitur, homo est bonus, denominat artem
citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit aequivocum, licet a
consilio, alia ratione dicitur de perfectione citharoedi, et alia de
perfectione hominis. Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus
bonitatem moralem, quae est hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem
simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus
bonus, non bonitatem moris sed artis praedicas: unde terminorum identitas non
salvatur; sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque
protulit sententiam, quia eadem est haec, et ibi ratio et cetera. When he says,
This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply,
etc., he applies the truth he has stated to the parts of the question. He
applies it first to the second part, i.e., why this does not follow: "He is
good and he is a shoemaker, therefore he is a good shoemaker.” Then he applies
it to the other part of the question, i.e., why this follows: "He is an
animal and he is biped, therefore he is a biped animal.” He adds the reason in
the case of the latter: "biped” and "animal” are not predicates
accidentally conjoined among themselves, nor in a third thing, but per se. This
also explains the other member of the first division which has not yet been
explicitly posited. Notice that he maintains the same judgment is to be made
about lute player and good, and musical and white. He has concluded that
"white” and "musical” do not infer a conjoined predicate; hence
neither do "lute player” and "good” infer "good lute player”
simply, i.e., conjointly. There is a reason for saying this. For although there
is a difference between musical and white, and goodness and the art of
luteplaying, they are also similar. Let us consider their difference first.
Goodness is of such a nature that it denominates both a third subject, namely,
man, and the art of lute-playing. This is the reason the falsity is clearly
discernible when we say "He is good and a lute player, therefore he is a
good lute player.” Musical and whiteness, on the other band, are of such a
nature that they denominate only a third subject, and not each other, and
hence, the error is less obvious in "He is white and be is musical,
therefore he is musical white.” Now it is this difference that makes
Aristotle’s process of reasoning appear somewhat inconclusive. However, they
are similar. For if identity of predicates is kept in every way that is
required for the same things divided to be inferred conjointly, then, just as
"musical” does not denominate "whiteness,” nor the contrary, so
neither does "goodness,” of which we are speaking when we say "Man is
good,” denominate the art of lute-playing,,nor conversely. For "good” is
equivocal—by choice though—and therefore is said of the perfection of the lute
player by means of one notion and of the perfection of man by means of another.
For example, when we say, "Socrates is good” we understand moral goodness,
which is the goodness of man absolutely (for the analogous term posited simply,
stands for what is mainly so); but when good lute player is inferred, it is not
the goodness of morality that is predicated but the goodness of art; whence
identity of the terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and
subtly expressed the same judgment about both, i.e., "white” and
"musical,” and "good” and "lute player,” for the reason here is
the same as there. Nec praetereundum est quod, cum tres consequentias adduxit
quaestionem proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes:
et, est homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo
est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et
duas primas posuerat esse bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam
inquirere volens, cur solvendo quaestionem nullo modo meminerit secundae
consequentiae, sed tantum primae et tertiae. Indiscussum namque reliquit an
illa consequentia sit bona an mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his
paucis verbis etiam illius consequentiae naturam insinuavit. Profundioris enim
sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et musicum
etc., ut scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam eius causam,
ex qua natura secundae consequentiae elucescit. Causa namque quare album et
musicum non inferunt coniunctam praedicationem est, quia in praedicatione coniuncta
oportet alteram partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut ex eis
fiat aliquo modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis coniunctae
praedicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis); album
autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per
accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum subiecto per
accidens, tamen ipsamet quae adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt
inter se unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod requiritur
ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non
considerata subiecti unitate, quae est extra eorum rationes, nulla remanet
inter ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt unum,
scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non infertur
ex eis praedicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit per
illamet verba bonitatem illius consequentiae. Ex eo enim quod homo et albus se
habent sicut potentia et actus (et ita albedo informet, denominet atque unum
faciat cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri
coniuncta praedicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est homo albus.
Sicut per oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt
coniunctum praedicatum quia neutrum alterum informabat. There is another point
that must be mentioned. Aristotle in proposing the question draws three
consequences: "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal”
and "He is a man and white, therefore he is a white man” and "He is a
lute player and good, therefore he is a good lute player.” Then he states that
the first two consequences are good, the third not. His intention was to
inquire into the cause of this diversity, but in solving the question he
mentions only the first and third consequences, leaving the goodness or badness
of the second consequence undiscussed. Why is this? I would say in answer to
this that in these few words he has also implied the nature of the second
consequence, for there is a more profound meaning to the statement in the text
that whiteness and being musical is not one. It is a meaning that not only
indicates what has already been explained but also its cause, and from this the
nature of the second consequence is apparent. For the reason "white” and
"musical” do not infer a conjoined predication is that in conjoined
predication one part must be subjected to the other as potency to act such that
in some way one thing is formed from them and one is denominated from the other
(for the force of the conjoined predication requires this, as we have said
above concerning the parts of the definition). "White” and "musical,”
however, do not in themselves form one thing per se, as is evident, nor do they
form one thing accidentally. For while it is true that as united in a subject
they are one in subject accidentally, nevertheless things that are united in
one third subject do not form one thing accidentally among themselves: first,
because neither informs the other (which is required for accidental unity of
things among themselves, although not in a third thing); secondly, because,
considered apart from the unity of a subject, which is outside of their
notions, there is no cause of unity between them. Therefore, when Aristotle
says that whiteness and being musical are not one, i.e., among themselves, in
some measure he expresses the reason why a predicate is not conjointly inferred
from them. And since the same discipline extends to opposites, the goodness of
the second consequence is implied by these words. That is, man and white are
related as potency and act (and so, on its own account whiteness informs,
denominates, and forms one thing with ‘man’); therefore from these taken
divisively a conjoined predication can be inferred, i.e., "He is man and
white, therefore be is a white man”; just as, in the opposite case, it was said
that "musical” and "white” do not infer a conjoined predicate because
neither informs the other. 9 Nec obstat quod album faciat unum per accidens cum
homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex
diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per accidens aliquorum ratione
tertii tantum est illa quae impedit. Talia enim quae non sunt unum per accidens
nisi ratione tertii, inter se nullam habent unitatem; et propterea non potest
inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero quae sunt
unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, homo albus, cum coniuncta
accipiuntur, unitate necessaria non carent, quia inter se unitatem habent.
Notanter autem apposui ly tantum: quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens,
ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed
etiam ratione sui, ex hoc quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non
prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est
coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. There
is no opposition between the position just stated and the fact that white forms
an accidental unity with man. For we did not say that accidental unity of
certain things impedes inferring a conjunction from divided things,” but that
accidental unity of certain things only by reason of a third thing is the one
that impedes. Things that are one accidentally only by reason of a third thing
have no unity among them selves; and for this reason a conjunction, which
implies unity, cannot be inferred, as we have said. But things that are one
accidentally on their own account, i.e., among themselves, as for example,
"white man,” when taken conjointly, have the necessary unity because they
have unity among themselves. Notice that I have added "only.” The reason
is that if any two C are one accidentally, namely, by reason of a third
subject, and they not only have unity from this but also on their own account
(because one informs the other), then from these taken divisively a conjoined
inference can be made. For example, we can infer, "It is a quantity and it
is colored, therefore it is a colored quantity,” because color informs
quantity. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 10Potes autem credere quod secunda illa
consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona
et ex eo quod ipse proponendo quaestionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla
instantia reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas
impedit illationem coniunctam, quando dixit quaecumque secundum accidens
dicuntur vel de eodem vel alterutrum de altero. Cum enim dixit, secundum
accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit (sola
enim haec per accidens praedicantur de eodem, ut dictum est); cum autem
addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla
parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta praedicata,
in tertio scilicet vel alterutrum, quae impediant illationem coniunctam,
nonnisi in tertio unitatem habent. You can hold as true that this second
consequence is good even though Aristotle has not explicitly confirmed it by
returning to it, both from the fact that in proposing the question he has
claimed it as good and also because there is no instance opposed to it.
Moreover, Aristotle has implied that it is only such unity that impedes the
conjoined inference where he says: which are said accidentally, either of the
same subject or of one another. By accidentally of the same subject, he posits
their unity to be only from union in a third thing (for only these are
predicated accidentally of the same subject, as was said). When he adds, or of
one another—positing mutual accidentality—no unity at all is left between them.
Therefore, both kinds of accidental predicates, namely, in a third thing or in
one another, that impede a conjoined inference have unity only in a third thing.
11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione
adductis, et in illis in quibus explicita committebatur nugatio, et in illis in
quibus implicita; et ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non licet
quando praedicata illa sunt per accidens, sed nec etiam quaecunque insunt in
alio: idest, sed nec hoc licet quando praedicata includunt se, ita quod unum
includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite, ut album
in albo, sive implicite, ut animal et bipes in homine. Quare neque album
frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque homo divisim ab animali vel
bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo
Socrates est homo bipes, vel animal homo. Insunt enim in hominis ratione,
animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio
quaestionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et
nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum; et consequenter, ubi neutrum
horum invenitur, ex divisis licebit inferre coniunctum. Et hoc intellige quando
divisae sunt simul verae de eodem et cetera. Then when he says, Furthermore,
predicates that are present in one another cannot be combined simply, etc., he
gives the solution for the instances (both the explicitly nugatory and the
implicitly nugatory) cited in the proof. It is not only not licit, he says, to
infer a union from divided predicates when these are accidental, but it is not
licit when the predicates are present in one another. That is, it is not licit
to infer a conjoined predicate from divided predicates when the predicates
include one another in such a way that one is included in the formal
signification of another intrinsically, or explicitly, as "white” in
white,” or implicitly, as "animal” and "biped” in "man.”
Therefore, white” said repeatedly and divisively does not infer a conjoined
predication, nor does "man” divisively enunciated from "animal” or
"biped” infer "biped” or "animal” conjoined with man, such that
we could say, "Therefore, Socrates is a biped-man” or "animal-man.”
For animal and biped are included in the notion of man in act and in
understanding, although implicitly. The solution of the question, then, is
this: the inferring of a conjunction from divided predicates is impeded when
there is unity of the many accidentally only in a third thing and when there is
a nugatory result. Consequently, where neither of these is found it will be
licit to infer a conjunction from divided predicates. It is to be understood
that this applies when the divided predicates are at once true of the same
subject. VII. 1. Postquam expedita est prima dubitatio, tractat secundam
dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo, movet ipsam quaestionem; secundo,
solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc., tertio, ex hoc excludit quemdam
errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est ergo quaestio: an ex
enunciatione habente praedicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes
dividentes illud coniunctum; et est quaestio contraria superiori. Ibi enim
quaesitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quaeritur an ex
coniuncto sequantur divisa. Unde movendo quaestionem dicit: verum
autemaliquando est dicere de aliquo et simpliciter, idest divisim, quod
scilicet prius dicebatur coniunctim, ut quemdam hominem album esse hominem, aut
quoddam album hominem album esse, idest ut ex ista, Socrates est homo albus,
sequitur divisim, ergo Socrates est homo, ergo Socrates est albus. Non autem
semper, idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim; non enim
sequitur, Socrates est bonus citharoedus, ergo est bonus. Unde haec est
differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod notanter
adduxit exemplum de homine albo, inferendo utramque partem divisim, ut
insinuaret quod intentio quaestionis est investigare quando ex coniuncto potest
utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum. Aristotle now takes
up the second question in relation to multiple enunciations. He first presents
it, and then solves it where he says, When something opposed is present in the
adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true to predicate
them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where he says, In
the case of non-being, however, it is not true to say that because it is a
matter of opinion, it is something, etc. The second question is this: Is it
licit to infer from an enunciation having a conjoined predication, enunciations
dividing that conjunction? This question is the contrary of the first question.
The first asked whether a conjoined predicate could be inferred from divided
predicates; the present one asks whether divided predicates follow from
conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other hand,
it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was
previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white
man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is
a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,”
"There fore Socrates is white.” However, this is not always the case,
i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined
predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player,
therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that
in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.”
This is significant, for by it he means to imply that his intention is to
investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined predicate,
and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum dicit: sed
quando in adiecto etc., solvit quaestionem. Et duo facit: primo, respondet
parti negativae quaestionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi: quare in
quantiscumque etc., respondet parti affirmativae, quando scilicet licet. Circa
primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri praedicatum
coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo facit:
primo, ostendit quod numquam ex praedicato coniuncto ex oppositis possunt
inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter in
praedicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait
ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de numero oppositorum, ad
quae sequitur contradictio inter ipsos terminos, non verum est, scilicet
inferre divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Caesar est homo mortuus,
non sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem
habet ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem et mortuum: si enim
est homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum; et si est mortuus,
non est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest,
scilicet talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem
quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia
alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione
coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio
divisa sonaret. When he says, When something opposed is present in the adjunct,
etc., he solves the question, first by responding to the negative part of the
question, i.e., when it is not licit; secondly, to the affirmative part, i.e.,
when it is licit, where he says, Therefore, in whatever predications no
contrariety is present when definitions are put in place of the names, and
wherein predicates are predicated per se and not accidentally, etc. It should
be noted, in relation to the negative part of the question, that a conjoined
predicate may be formed in two ways: from opposites and from non-opposites.
Therefore, he shows first that the parts in a conjoined predicate of opposites
can never be inferred divisively. Secondly, he shows that this is not licit
universally in a conjoined predicate of non-opposites, where he says, Or,
rather, when something opposed is present in it, it is never true; but when
something opposed is not present, it is not always true. Aristotle says, then,
that when something that is an opposite is contained in the adjacent term,
which results in a contradiction between the terms themselves, it is not true,
namely, to infer divisively, but false. For example, when we say, "Caesar
is a dead man,” it does not follow, "Therefore he is a man,” because the
contradiction between 11 man” and "dead” which results from adding the
"dead” to "man” is opposed to man, for if he is a man he is not dead,
because he is not an inanimate body; and if he is dead he is not a man, because
as dead he is an inanimate body. When something opposed is not present, i.e.,
there is no such opposition, it is true, i.e., it is true to infer divisively.
The reason a divided inference does not follow when there is opposition in the
added term is that in a conjoined enunciation the other term is destroyed by
the opposition of the added term. But that which has been destroyed is not
inferred apart from the destruction, which is what the divided inference would
signify. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod supponitur,
quomodo possit vere dici, Caesar est homo mortuus, cum enunciatio non possit
esse vera, in qua duo contradictoria simul de aliquo praedicantur. Hoc enim est
primum principium. Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur,
contradictoriam oppositionem includunt, quia in homine includitur vita, in
mortuo non vita. Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat
Aristoteles: videtur enim optima. Cum enim ex enunciatione praedicante duo
contradictoria possit utrumque inferri (quia aequivalet copulativae), aut
neutrum (quia destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos
contradictorie praedicet, videtur sequi utraque pars, quia falsum est neutram
sequi. Two questions arise at this point. The first concerns something assumed
here: how can it ever be true to make such a statement as "Caesar is a
dead man,” since an enunciation cannot be true in which two contradictories are
predicated at the same time of something (for this is a first principle). But
"man” and "dead,” as is said in the text, include contradictory
opposition, for in man is included life, and in dead, non-life. The second
question concerns the consequent that Aristotle rejects, which appears to be
good. The enunciation given as an example predicates terms that are opposed contradictorily.
But from an enunciation predicating two contradictory terms, either both can be
inferred (because it is equivalent to a copulative enunciation), or neither
(because it destroys itself); therefore both parts seem to follow, since it is
false that neither follows. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 4Ad hoc simul dicitur quod
aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat
sub determinatione alterius. Primo namque modo, homo et mortuus,
contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in eodem
inveniantur. Secundo autem modo, homo et mortuus, non opponuntur, quia homo
transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus, non
stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini additi, a
quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles
duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio, attendens
significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera
enunciatio cum dicitur, Socrates est homo mortuus, attendens coniunctionem
eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad
utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo contradictoria simul de
eodem, sed terminus ut stat sub distractione, seu transmutatione alterius, cui
secundum se esset contradictorius. These two questions can be answered
simultaneously. It is one thing to speak of two terms in themselves, and
another to speak of them as one stands under the determination of another. Taken
in the first way, "man” and "dead” have a contradiction between them
and it is impossible that they be found in the same thing at the same time. In
the second way, however, "man” and "dead” are not opposed, since
"man,” changed by the destructive element introduced by "dead,” no
longer stands for what it signifies as such, but as determined by the term
added, by which what is signified is removed. Aristotle, in order to imply
both, says two things: that they have the opposition upon which contradiction follows
if you regard what they signify in themselves; and, that one true enunciation
is formed from them as in "Socrates is a dead man,” if you regard their
conjunction as destructive of one of them. Accordingly, the answer to the two
questions is evident. In a case such as this two contradictories are not
enunciated of the same thing at the same time, but one term as it stands under
dissolution or transmutation from the other, to which by itself it would be
contradictory. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait:
inest aliquid oppositorum quae consequitur contradictio; superflue enim videtur
addi illa particula, quae consequitur contradictio. Omnia enim opposita
consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non
filius, et album non nigrum, et videns non caecum et cetera. Et ad hoc dicendum
est quod opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest
secundum sua significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia,
pater et filius possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi
pro eo qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat
oppositione aliqua, ut dicitur in X metaphysicae, supponatur omnino distincta
esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita seu distincta
contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita
sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et
filius mutuam sui negationem inferant inter se formaliter, quia paternitas est
non filiatio, et filiatio est non paternitas; in relatione tamen ad
denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non enim sequitur,
Socrates est pater; ergo non est filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur
Aristoteles quod non quaecunque opposita colligata impediunt divisam illationem
(quia non illa quae habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa
quae habent contradictionem et formaliter et secundum rem denominatam),
addidit: quae consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus
est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur: contradictio enim ista in
tertio est quodammodo extra ipsa opposita. There is also a question about
something else that Aristotle says, namely, something opposed is present... from
which a contradiction follows. The phrase from which a contradiction follows
seems to be superfluous, for contradiction follows upon all opposites, as is
evident in discoursing about singulars; for a father is not a son, and white is
not black, and one seeing is not blind, etc. Opposites, however, can be taken
in two ways: formally, i.e., according to what they signify, and
denominatively, or subjectively. For example, father and son can be taken for
paternity and filiation, or they can be taken for the one who is denominated a
father or a son. But, again, since every distinction is made by some
opposition, as is said in X Metaphysicae [3: 1054a 20], it could be supposed
that opposites are wholly distinct. It must be pointed out, therefore, that
although contradiction follows between all opposites or distinct things
formally taken, nevertheless, contradiction does not follow upon all opposites
denominatively taken. Father and son formally taken infer a mutual negation of
one another, for paternity is not filiation and filiation is not paternity, but
in respect to what is denominated they do not necessarily infer a
contradiction. It does not follow, for example, that "Socrates is a
father; therefore he is not a son,” nor conversely. Aristotle, therefore, in order
to establish that not all combined opposites prevent a divided inference (since
those having a contradiction applying only formally do not prevent a divided
inference, but those having a contradiction both formally and according to the
thing denominated do prevent a divided inference) adds, from which a
contradiction follows, namely, in the third thing denominated. And
appropriately enough he uses the word follows, for the contradiction in "
the third thing denominated is in a certain way outside of the opposites
themselves. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum dicit: vel etiam quando est
etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum
praedicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc
proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: vel etiam quando
est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper, scilicet
inferre divisim; quasi diceret: dixi quod quando inest oppositio, non verum sed
falsum est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum est
inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando est oppositio, falsum
est semper, quando autem non inest talis oppositio, non semper verum est. Et
sic modificavit supradicta addendo ly semper, et, non semper. Et subdens
exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: ut, Homerus
est aliquid ut poeta; ergo etiam est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de
Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum
est quod istae duae partes colligatae, est et poeta, non habent oppositionem,
ad quam sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis
illatio divisa tenet et cetera. When he says, Or, rather, when something
opposed is present in it, it is never true, etc., he explains that the parts
cannot universally be inferred divisively in the case of a conjoined predicate
in which there is a non-opposite as the third thing denominated. He proposes
this—Or, rather, when something opposed is contained in it, i.e., opposition
between the terms conjoined—as if amending what he has just said, namely, it is
always false, i.e., to infer divisively. What he is saying, then, is this: I
have said that when there is inherent opposition it is not true but false to
infer divisively; but when there is not such opposition it is true to infer
divisively; or, even better, when there is opposition it is always false but
when there is not such opposition it is not always true. That is, he modifies
what he first said by the addition of "always” and "not always.” Then
he adds an example to show that division does not always follow from
non-opposites: For example, Homer is something, say, a poet. Is it therefore
true to say also that Homer "is,” or not? From the conjoined predicate, is
a poet, enunciated of Homer, one part, Therefore Homer is, does not follow; yet
it is evident that these two conjoined parts, "is” and "poet,” do not
have the opposition upon which contradiction follows. Therefore, in the case of
conjoined non-opposites a divided inference does not always hold. Cajetanus
lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum accidens etc., probat hoc, quod modo
dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est, in
antecedente coniuncto praedicatur de Homero secundum accidens, idest ratione
alterius, quoniam, scilicet poeta, praedicatur de Homero, et non praedicatur
secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo
Homerus est. Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem negativam,
scilicet,- non semper ex non oppositis coniunctis infertur divisim,- sufficit
unam instantiam suae oppositae universali affirmativae afferre. Et hoc fecit
Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo altera pars coniuncti
est aliquid pertinens ad actum animae. Loquimur enim modo de Homero vivente in
poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus partes
coniunctae non sunt oppositae in tertio, et tamen non licet inferre utramque
partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non
enim valet, Caesar est laudatus, ergo est: et simile est de esse in effectu
dependente in conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta
ab Aristotele in sequenti particula dicetur. When he says, The "is” here
is predicated accidentally of Homer, he proves what he has said. One part of
this composite, namely, "is,” is predicated of Homer in the antecedent
conjunction accidentally, i.e., by reason of another, namely, with regard to
the "poet” which is predicated of Homer; it is not predicated as such of
Homer. Nevertheless, this is what is inferred when one concludes
"Therefore Homer is.” To validate his negative conclusion, namely, that it
is not always true to infer divisively from conjoined non-opposites, it was
sufficient to give one instance of the opposite of the universal affirmative.
To do this Aristotle introduces that genus of enunciation in which one part of
the conjunction is something pertaining to an act of the mind (for we are
speaking only of Homer living in his poems in the minds of men). In such
enunciations the parts conjoined are not opposed in the third thing
denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively, for
the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed. For
example, it is not valid to say, "Caesar is praiseworthy, therefore he
is,” which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires
maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how
the reasoning in the above text is to be understood. Cajetanus lib. 2 l. 7 n.
8Deinde cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativae
quaestionis, quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas
conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit
fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio
sit, et quod secundum se praedicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: quare in
quantiscunque praedicamentis, idest praedicatis ordine quodam adunatis, neque
contrarietas aliqua, in cuius ratione ponitur contradictio in tertio (contraria
enim sunt quae mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio
inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si definitiones pro
nominibus sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio,
solis nominibus positis, sicut, homo mortuus, et in quibusdam appareat, ut,
vivum mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus loco
nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gratia,
homo mortuus, licet oppositionem non praeseferat, tamen si loco hominis et
mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus
animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam,
coniunctis nulla est oppositio, et secundum se, et non secundum accidens
praedicantur, in his verum erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat
coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever predications no
contrariety is present when definitions are put in place of the names, etc., he
replies to the affirmative part of the question, i.e., when it is licit to
infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two
conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the
text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be
effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they
must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said:
Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain
order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third
thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same
thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which
a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are
taken in place of the names.... He says this because it may be the case that
the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and
again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will
be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions
of the names in place of the names. For example, in the case of "dead
man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the
contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate
body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there
is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not
accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say
divisively what had been enunciated conjointly. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 9Ad
evidentiam secundae conditionis hic positae, nota quod ly secundum se potest
dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi,
universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic idem sonat quod non per
aliud. Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de praedicato coniuncto
quod, secundum se praedicetur, ly secundum se potest ad tria referri, scilicet,
ad partes coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti, et ad
partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se positive,
licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad
quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo risibilis, ergo
est homo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est
rationale; tamen his oppositae inferunt similes consequentias. Dicimus enim,
est albus musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est perseitas, sed
est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter totum et
subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit
Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio,
quae ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim addidit, secundum
se, et non, secundum accidens, si tam illae quae sunt secundum se, modo
exposito, quam illae quae sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt
divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest, non per aliud, et
referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula. Nam non licet
dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et citharoedus; et tamen ars
citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et similiter contingit,
si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut in eodem exemplo
apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud convenit homini;
et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo ut ad partem
coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim
praedicata, secundum se, idest, non per aliud, praedicantur, idest, quod
utraque pars praedicatur de subiecto non propter alteram, sed propter seipsam
et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa praedicatio. In order to make
this second condition clear, it should be noted that "per se” can be taken
in two ways: positively, and thus it refers to "perseity” of the first, of
the second, and of the fourth mode universally; or negatively, and thus it
means the same as not through something else. It should also be noted that when
Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated "per se,” the
"per se” can be referred to three things: to the parts of the conjunction
among themselves, to the whole conjunction with respect to the subject, and to
the parts of the conjoined predicate with respect to the subject. Now if
"per se” is taken positively, although it will not be false, nevertheless
in reference to any of these three the meaning will be found to be foreign to
the mind of Aristotle. For, although these are valid: "He is a risible
man, therefore he is man and he is risible” and "He is a rational animal,
therefore he is animal and he is rational,” nevertheless the opposite kind of
predication infers consequences in a similar way. For example, there is no 11
perseity” in "He is a white musician, therefore he is white and he is a
musician”; rather, there is an accidental conjunction, not only between the
parts among themselves and between the whole and the subject, but even between
the parts and the subject. It is evident, therefore, that Aristotle is not
taking "per se” positively, for an addition that does not differentiate
this kind of predication from the opposed kind of predication would be useless.
Why add "per se and not accidentally,” if both those that are per se in
the way explained and those that are conjoined accidentally infer divisively?
If "per se” is taken negatively, i.e., as not through another, and is
referred to the parts of the conjoined predicate among themselves, the rule is
found to be false. It is not licit, for example, to say, "He is a good
lute player, therefore he is good and a lute player”; yet the art of
lute-playing and its goodness are conjoined without anything as a medium. And
the case is the same if it is referred to the whole conjoined predicate with
respect to the subject, as is clear in the same example, for the whole,
"good lute player,” does not belong to man on account of another, and yet
it does not infer the division, as has already been said. Therefore, "per
se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect to the
subject and the meaning is: when the predicates are conjointly predicated per
se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of the subject,
not on account of another but on account of itself and the subject, then a
divided predication is inferred from the conjoined predication. 10 Et hoc modo
exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile
manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti
praedicati ita inhaerent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum
separatio nihil habet quod veritatem impediat divisarum. Est et verbis
Aristotelis consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter
enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam praedicationem, et eas quibus
haec non inest consequentia. Istae siquidem ultra habentes oppositiones in
adiecto, sunt habentes praedicatum coniunctum, cuius una partium alterius est
ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in
exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit
Homerum ratione ipsius Homeri, sed praecise ratione poesis relictae; et ideo
non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile est in negativis. Si quis enim
dicat, Socrates non est paries, non licet inferre, ergo Socrates non est, eadem
ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in Socrate. This
is the way in which Averroes and Boethius explain this and, explained in this
way, a true rule is found, as can easily be manifested inductively; moreover,
the reasoning is compelling. For, if the parts of some conjoined predicate so
inhere in the subject that neither is in it on account of another, their
separation produces nothing that could impede the truth of the divided
predicates. And this meaning is consonant with the words of Aristotle, for by
this he also distinguishes between enunciations in which the conjoined
predicate infers a divided predicate, and those in which this consequence is
not inherent. For besides the predicates having opposition in the additional
determining element, there are those with a conjoined predicate wherein one
part is a determination of the other in such a way that only through it does it
regard the subject, as is evident in Aristotle’s example, "Homer is a
poet.” The "is” does not regard Homer by reason of Homer himself, but
precisely by reason of the poetry he left. Hence it is not licit to infer,
"Therefore Homer is.” The same is true with respect to negative
enunciations of this type, for it is not licit to infer from "Socrates is
not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason is the same:
"to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in Socrates. 11 Et
per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta.
Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito, et secundum
accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly
secundum accidens, solvendo hanc et praecedentem quaestionem: utrobique enim
intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa
retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem duorum
praedicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti praedicati in
ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quae secundum
accidens sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the
reasoning in the text above is to be understood. "Per se” is taken
negatively in the way explained here, and "accidentally” as "on
account of another.” The "accidentally” is used with the same signification
in solving this and the preceding question. In both he understands
"accidentally” to mean conjoined on account of another, but it is referred
to diverse things. In the preceding question "accidentally” determines the
way in which two predicates are conjoined among themselves; in the latter
question it determines the way in which the part of the conjoined predicate is
ordered to the subject. Hence, in the former, "white” and "musician”
are numbered among the things that are accidental, but in the latter they are
not. 12 Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non parva. Si enim ideo
non licet ex coniuncto inferre divisim, quia altera pars coniuncti non respicit
subiectum propter se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista
enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad
secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente,
est respicit subiectum propter praedicatum et non propter se et cetera. This
exposition seems a bit dubious, however. For if it is not licit to infer
divisively from a conjoined predicate because one part of the conjoined
predicate does not regard the subject on account of itself but on account of
another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer is a poet”), it
will follow that there will never be a good consequence from the third
determinant to the second, since in every enunciation with a third determinant,
"is” regards the subject on account of the predicate and not on account of
itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem.
Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum et
quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa
siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa compatitur varietatem
terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti,
secundum significationem seu suppositionem varietur in separatione, non
infertur ex coniuncto praedicato illudmet divisim, sed aliud. Nota secundo hanc
propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur
identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum siquidem
fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud
est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc
autem habitudinem inhaerentiae vel identitatis praedicati ad subiectum. Fit
ergo varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et
consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde praelucet responsio ad
obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum,
numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto
divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione
perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod,
optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quae
ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make
this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to
treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant,
and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a
conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the
latter is the question we have been inquiring about. The former is compatible
with variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one
part of a conjoined predicate will be varied according to signification, or
supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the
conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a
second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept.
This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said
above that "is” as the second determinant implies one thing and "is”
as the third determinant another. The former implies the act of being simply,
the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate
with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the
third, one term is varied and consequently an inference is not made of the
divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is
clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the
third, it is never licit for the second to be inferred from the third as
divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is
destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the
objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such
an inference is illicit under the limits of inferences which induce division
from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of
here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit
illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum,
ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit
pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit
hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod
pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud
simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius est, et non
ponit ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud
philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum
quid. But the objection is raised against this that in the case of
"Socrates is white, therefore be is,” a divided inference can be made as
from a conjoined predicate, in virtue of the argument that we can go from what
is in the mode of part to its whole as long as the terms remain the same. The
answer to this is as follows. It is true that white man is a part in the mode
of man (because white diminishes nothing of the notion of man but posits man
simply); is white, however, is not a part in the mode of is, because a part in
the mode of its whole is a universal, the condition not diminishing the
positing of it simply. But it is evident that white diminishes the notion of
is, and does not posit it simply, for it contracts it to relative being. Whence
when something becomes white, philosophers do not say that it is generated, but
generated relatively. 15 Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est
animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit
rationem ipsius est. Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem
propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si autem
dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de tertio, sed de secundo
adiacente. In accordance with this, the objection is raised that in saying
"It is an animal, therefore it is,” a divided inference is made in virtue
of the same argument; for animal does not diminish the notion of is itself. The
answer to this is that if the is asserts the truth of a proposition, the
fallacy is committed of going from the relative to the absolute; if the is
asserts the act of being, the inference is good, but it is of the second
determinant, not of the third. 16 Potest ulterius dubitari circa principale:
quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est coloratum; et
tamen coloratum respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur recta
expositio supra adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non ita
inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis
determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam
determinat; cum dicitur, est citharoedus bonus; sed potius subiectum ipsum
primo coloratum denominatur, quantum vero secundario coloratum dicitur, licet
color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera
pars coniuncti praedicatur per accidens, quando praecise denominat subiectum,
quia denominat alteram partem. Quod nec in similibus instantiis invenitur. There
is another doubt, this time about the principle in the exposition; for this
follows, "It is a colored quantity, therefore it is a quantity and it is
colored”; but "colored” regards the subject through the medium of
quantity; therefore the exposition given above does not seem to be correct. The
answer to this and to similar objections is that "colored” is not so
present in a subject by means of quantity that it is its determination, and by
reason of such a determination denominates the subject; as goodness,” for
instance, determines the art of lute-playing when we say "He is a good
lute player.” Rather, the subject itself is first denominated "colored”
and quantity is called "colored” secondarily, although color is received
through the medium of quantity. Hence, we made a point of saying earlier that
one part of a conjoined predicate is predicated accidentally when it
denominates the subject precisely because it denominates the other part.93 This
is not the case here nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem
non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali syllogismo
concludere satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est opinabile.
Ergo quod non est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles destruendo
primam propositionem, quae partem coniuncti in subiecto divisim praedicat, ac
si diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis
illorum ait: quod autem non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est;
et subdit maiorem extremitatem, non est verum dicere, esse aliquid. Et causam
assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius
quia non est. When he says, In the case of non-being, however, it is not true
to say that it is something, etc., he excludes the error of those who were
satisfied to conclude that what is not, is. This is the syllogism they use:
"That which is, is ‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’;
therefore what is not, is.” Aristotle destroys this process of reasoning by
destroying the first proposition, which predicates divisively a part of what is
conjoined in the subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it
is.” Hence, assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of
that which is not, however; and he adds their middle term, because it is a
matter of opinion; then he adds the major extreme, it is not true to say that
it is something. He then assigns the cause: it is not because it is but rather
because it is not, that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum
est de enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam
variata unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod
aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo
facit: primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi:
consequentiae vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod
iam perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes
enunciationum de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent
enim multas dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam
de enunciationibus, quae modales vocantur, sermo inchoatur, praelibandum est
esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes propositiones
modales; et quid earum sit subiectum et quid praedicatum; et quid sit ipsa
enunciatio modalis; quisque sit ordo earum ad praecedentes; et quae necessitas
sit specialem faciendi tractatum de his. Now that he has treated enunciations
in which something added to the parts leaves the unity intact on the one hand,
and varies it on the other, Aristotle begins to explain what happens to the
enunciation when something is added, not to its parts, but to its composition.
First, he explains their opposition; secondly, he treats of the consequences of
their opposition where he says, Logical sequences result from modals ordered
thus, etc. With respect to the first point, he proposes the question he intends
to consider and then begins his consideration where he says, Let us grant that
of mutually related enunciations, contradictories are those opposed to each
other, etc. He proposes that we must now investigate the way in which
affirmations and negations of the possible and not possible are related. He
gives the reason when he adds, for the question has many special difficulties.
However, before we proceed with the consideration of enunciations that are
called modal, we must first see that there are such things as modal
enunciations, and which and how many modes render propositions modal; we must
also know what their subject is and their predicate, what the modal enunciation
itself is, what the order is between modal enunciations and the enunciations
already treated, and finally, why a special treatment of them is necessary. 2 Quia
ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum
alia, alio modo, compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt duo
enunciationum genera; quaedam scilicet enunciantes aliquid inesse vel non
inesse alteri, et hae vocantur de inesse, de quibus superius habitus est sermo;
quaedam vero enunciantes modum compositionis praedicati cum subiecto, et hae
vocantur modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur,
Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis
sit compositio cursus cum Socrate, scilicet possibilis. Signanter autem dixi
modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam
enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit
velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie;
quidam autem determinat compositionem ipsam praedicati cum subiecto; sicut cum
dicitur, Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis
cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus
cum Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem
determinant, modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma
totius totam enunciationem continet. We can speak about things in two ways: in
one, composing one thing with another; in the other, declaring the kind of
composition that exists between the two things. To signify these two ways of
speaking about things we form two kinds of enunciations. One kind enunciates
that something belongs or does not belong to something. These are called
absolute [de inesse] enunciations; these we have already discussed. The other
enunciates the mode of composition of the predicate with the subject. These are
called modal, from their principal part, the mode. For when we say, "That
Socrates run is possible,” it is not the running of Socrates that is enunciated
but the kind of composition there is between running and Socrates-in this case,
possible. I have said "mode of composition” expressly, for there are two
kinds of mode posited in the enunciation. One modifies the verb, either with
respect to what it signifies, as in "Socrates runs swiftly,” or with
respect to the time signified along with the verb, as in "Socrates runs
today.” The other kind modifies the very composition of the predicate with the
subject, as in the example, "That Socrates run is possible.” The former
determines how or when running is in Socrates; the latter determines the kind
of conjunction there is between running and Socrates. The former, which affects
the actuality of the verb, does not make a modal enunciation. Only the modes
that affect the composition make a modal enunciation, the reason being that the
composition, as the form of the whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt
autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et
impossibile, necessarium et contingens. Verum namque et falsum, licet supra
compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est verum, vel hominem esse
quadrupedem est falsum, attamen modificare proprie non videntur compositionem
ipsam. Quia modificari proprie dicitur aliquid, quando redditur aliquale, non
quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non
aliqualis proponitur, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratem
currere est verum, quam quod compositio cursus cum Socrate est. Et similiter
quando est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est
dicere, Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate
non est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non
ipsam esse, sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem
currere est possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate,
sed qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos
proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum
inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking,
is fourfold: possible, impossible, necessary, and contingent. True and false
are not included because, strictly speaking, they do not seem to modify the
composition even though they fall upon the composition itself, as is evident in
"That Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.”
For something is said to be modified in the proper sense of the term when it is
caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its
substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that
it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is
true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is.
The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for
example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the
composition of running with Socrates is not. On the other hand, when the
composition is said to be possible or contingent, we are not saying that it is
but that it is in a certain way. For example, when we say, "That Socrates
run is possible,” we do not make the composition of running with Socrates
substantial, but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently,
Aristotle in proposing the modes, does not mention the true and false at all,
although later on he infers the true and the not true, and assigns the reason
for it where he does this. 4 Et quia enunciatio modalis duas in se continet
compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum,
intelligendum est eam compositionem modificari, idest, quae est inter partes
dicti, non eam quae est inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius
enunciationis modalis, Socratem esse album est possibile, duae sunt partes;
altera est, Socratem esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur,
eo quod est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est albus:
qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil aliud dicit nisi Socratem esse
album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est. Prima compositionem
quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda pars primae opposita
compositionem aliquam sonat ex dicti compositione et modo. Prima rursus pars,
licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et praedicatum, copulam et
compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem
est praedicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in
enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est possibile, non
significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socratem esse
album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se, scilicet albi
cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur
enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum
enunciat. Nec proprie componit secundum significatum, quia compositionis non
est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est
enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. Since the modal
enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said,
the other between what is said and the mode, it must be understood that it is
the former composition that is modified, i.e., the composition between the
parts of what is said, not the composition between what is said and the mode.
This can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates
be white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,”
the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is
that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for
in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be
white.” The second part is called the mode because it is the addition of a
restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain composition
of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4 indicates a
composition from the composition of dictum and mode. Again, the first part,
although it has all the properties of an enunciation—subject, predicate,
copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the modal
enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal
enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and
modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does
not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum
"That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is
of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates,
namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore,
does not say that something is present in or not present in a subject, but
rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it
compose according to what is signified, since it is not a composition of the
composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the
modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec
propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat:
quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis
plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti
plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod
enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba,
est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the
modal enunciation has everything duplicated, it must not on that account be
thought to be many. It enunciates one mode of only one composition, although
there are many parts of that composition. The many concurring for the
composition of the dictum are like the many that concur to make one subject, of
which it was said above that it does not impede the unity of the enunciation.”
The enunciation, "The house is white,” is also a case in point, for it is
not multiple, although a house is built of many parts. 6 Merito autem est, post
enunciationes de inesse, de modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt
toto priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis
sermo de his est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque
Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero
determinatis etc.; modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit;
variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: possibile
et non possibile, contingens et non contingens; necessitatem cum addidit:
habent enim multas dubitationes proprias et cetera. Modal enunciations are
rightly treated after the absolute enunciation, for parts are naturally prior
to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge of the parts.
Moreover, a special discussion of them was necessary because the modal
enunciation has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his text
many of the things we have taken up here: the order of modal enunciations, when
he says, Having determined these things, etc.; what and how many modes there
are when he expresses and lists them, the variation of the same mode by
affirmation and negation when he says, the possible and not possible,
contingent and not contingent; the necessity of treating them, when he adds,
for they have many difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum
etc., exequitur tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit:
primo, movendo quaestionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem;
ibi: contingit autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus
modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem;
an non, sed potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit
ad partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo,
ad partem negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur
autem et cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations,
where he says, Let us grant that of those things that are combined,
contradictories are those opposed to each other by being related in a certain
way according to "to be” and "not to be,” etc. First, he presents the
question and in so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines
the truth, where he says, For it follows from what we have said, either that
the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The
question with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction
made in modal enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which
expresses what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode
which qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the
negation must be added to the verb; then he argues for the negative part, that
the negation must not be added to the verb, where he says, However it seems that
the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit ergo
primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et
non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo
adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo
sumendae sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse,
et non illa, non possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo,
ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur,
possibile esse, et, possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit:
nam si eorum, quae complectuntur, idest complexorum, illae sibi invicem sunt
oppositae contradictiones, quae secundum esse vel non esse disponuntur, idest
in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is
this. If of combined things, contradictions are those related according to
"to be” and "not to be” (as is clear inductively in substantive
enunciations with a second determinant, in those with a third determinant, and
in adjectival enunciations) and all contradictions must be obtained in this
way, the contradictory of "possible to be” will be "possible not to
be,” and not, "not possible to be.” Consequently, the negation must be
added to the verb to get opposition in modal enunciations. The consequence is
clear, for when we say "possible to be” and possible not to be” the
negation falls on "to be.” Accordingly, he says, Let us grant that of
those things that are combined, i.e., of complex things, contradictions are
those opposed to each other which are disposed according to "to be” and
"not to be,” i.e., in one of which "to be” is affirmed and in the
other denied. 9 Et subdit inductionem, inchoans a secundo adiacente: ut, eius
enunciationis quae est, esse hominem, idest, homo est, negatio est, non esse
hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non est eius negatio ea
quae est, esse non hominem, idest, non homo est: haec enim non est negativa,
sed affirmativa de subiecto infinito, quae simul est vera cum illa prima,
scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with an
enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is,
"Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,”
is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of
the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation,
"Man is.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in
substantivis de tertio adiacente: ut, eius quae est, esse album hominem idest,
ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem,
ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea,
quae est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Haec enim non est
negativa, sed affirmativa de praedicato infinito. Et quia istae duae
affirmativae de praedicato finito et infinito non possunt de eodem verificari,
propterea quia sunt de praedicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint
contradictoriae; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem
probantem quod hae duae non sunt contradictoriae. Est autem ratio talis.
Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio
aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri
medium; sed hae duae enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est homo non
albus, sunt contradictoriae per se; ergo sunt talis naturae quod de omnibus
altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus,
erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest, lignum
est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo
albus, neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de
eodem, quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando negatio
apponitur verbo. He continues the induction with substantive enunciations
having a third determinant. The negation of the enunciation "Man is white”
is "Man is not white,” in which the verb is negated. The negation is not
"Man is nonwhite,” for this is not the negative, but the affirmative of
the infinite predicate. Now it might be thought that the affirmatives of the
finite and infinite predicates are contradictories since they cannot be
verified of the same thing because of their opposed predicates. To obviate this
error, Aristotle interposes an argument proving that these two are not
contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such that either
the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified of anything,
for between contradictories no middle is possible. Now the two enunciations,
that something "is white man” and "is nonwhite man” are per se
contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them is
verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of
wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood,
i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is neither
white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction in the
case in which each is at once false of the same subject. Therefore,
contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde
prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc
modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque
enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem
sumendam, id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius
esse tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulae officium
facit), ut eius enunciationis quae est, homo ambulat, negatio est, non ea quae
dicit, non homo ambulat (haec enim est affirmativa de subiecto infinito), sed
negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo,
negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo
ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with
enunciations having an adjective verb: Now if the case is as we have stated it,
i.e., contradiction is taken as said above, then in enunciations in which
"to be” is not the determining word added (explicitly), that which is said
in place of "to be” will effect the same thing with respect to the
opposition obtained (i.e., the adjective verb that occupies the place of
"to be,” inasmuch as the truth of "to be” is included in it, effects
the function of the copula). For example, the negation of the enunciation
"Man walks” is not, "Non-man walks” (for this is the affirmative of
the infinite subject) but "Man is not walking.” In this case, as in that
of the substantive verb, the negation must be added to the verb, for there is
no difference between using the adjective verb, as in "Man walks,” and
using the substantive verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit
secundam partem inductionis dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est
contradictio, scilicet, apponendo negationem ad esse, concluditur quod et eius
enunciationis, quae dicit, possibile esse, negatio est, possibile non esse, et
non illa quae dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in
illa, possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit
autem in principio huius rationis: eorum quae complectuntur, idest complexorum,
contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum
quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo
apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the
second part of the induction: And if this is always the case, i.e., that
contradiction must be gotten by adding the negation to "to be,” we must
conclude that the negation of the enunciation that asserts "Possible to
be” is "possible not to be,” and not, "not possible to be.” The
consequent of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the
negation is added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the
beginning of this argument, Aristotle said, Of those things that are combined,
i.e., complex things, the contradictions are effected according to "to be”
and "not to be.” He said this in reference to the difference between
complex and incomplex things, for opposition in the latter is not made by the
negation expressing "not to be,” but by adding the negative to the
incomplex thing itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and
"non-reads.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem
idem etc., arguit ad quaestionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam
contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione.
Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed
supradictae, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul
verificantur de eodem; ergo istae non sunt contradictoriae: igitur contradictio
modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in
littera minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem
cum dicit: videtur autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut
verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et
quod est possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius
minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est
possibile ambulare et dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter
ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest.
Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est
affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est
multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic,
assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni
possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet
quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia
tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod
non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere,
possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod
sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit
possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo
intulit Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non
solum affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non
videri, quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile
est de eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non
est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quae dicit,
possibile esse: quia sunt simul verae de eodem. Caveto autem ne ex isto textu
putes possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad
utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod
satis fuit intendenti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex
verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quae continetur sub
modalibus de possibili. When he says, However, it seems that the same thing is
possible to be and possible not to be, etc., he argues for the negative part of
the question, namely, to get a contradiction in modals the negation should not
be added to the verb. His reasoning is the following: It is impossible for two
contradictories to be true at once of the same subject; but "possible to
be” and "possible not to be” are verified at once of the same thing;
therefore, these are not contradictories. Consequently, contradiction of the
modals is not obtained by negation of the verb. In this reasoning, the minor is
posited first, with its proof; secondly, the major; finally, the conclusion.
The minor is: However, it seems that the same thing is possible to be and
possible not to be. For instance, everything that has the possibility of being
divided also has the possibility of not being divided, and that which has the
possibility of walking also has the possibility of not walking. The proof of
this minor is that everything that is possible in this way (as are possible to
walk and to be divided) is not always in act; for he who is able to walk is not
always actually walking, nor is that which can be divided always divided. And
so the negation of the possible will also be inherent in it, i.e., therefore
not only is the affirmation possible but also the negation. Notice that since
the possible is manifold, as will be said further on, Aristotle explicitly adds
"in this way” when he assumes here that that which is possible is not
always in act. For it is not true to say of every possible that it is not always
in act, but only of some, namely, those that are possible in the way in which
to walk and to be divided are possible. Note also that "possible in this
way” has two conditions: that it is able to be in act, and that it is not
always in act. It follows necessarily, then, that it is true to say of it
simultaneously that it is both possible to be and possible not to be. From the
fact that it can be in act it follows that it is possible to be; from the fact
that it is not always in act it follows that it is possible not to be, for that
which not always is, is able not to be. Aristotle, then, rightly infers from
these two: and so the negation of the possible will also be inherent in it; and
not just the affirmation, for that which could walk could also not walk and
that which could be seen not be seen. The major is: But it is impossible that
contradictions in respect to the same thing be true. The final conclusion
inferred is: Therefore, the negation of "possible to be” is not,
"possible not to be” because they are true at once of the same thing. In
relation to this part of the text, be careful not to suppose that possible as
it is a mode, is always to be taken for possible to either of two alternatives,
for this will be shown to be false later on. If you consider the matter
carefully you will see that it was enough for his intention to give as an
instance one modal contained under the modals of the possible in order to show
that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde
cum dicit: contingit autem unum ex his etc., determinat veritatem huius
dubitationis. Et quia duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex
negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo,
determinat veritatem primae petitionis, quod scilicet contradictio harum non
fit negatione verbi; secundo determinat veritatem secundae petitionis, quod
scilicet fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: est ergo negatioet
cetera. Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus,
quae conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest
affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul
verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel
negationes modalium, quae opponuntur contradictorie, fieri non secundum esse
vel non esse, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut
secunda ratio conclusit. Si ergo illud est impossibile, scilicet quod duo
contradictoria possunt simul esse vera de eodem, hoc, scilicet quod
contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis eligendum.
Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod
utrique earum aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quae
acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra
enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc
aliter fieri potest quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc
secundum, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum negationem
verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum. Aristotle establishes
the truth with respect to this difficulty where he says, For it follows from
what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of
the same subject, etc. Since he is investigating two things, i.e., whether
contradiction of modals is made by the negation of the verb or not; and,
whether it is not rather by negation of the mode, he first determines the truth
in relation to the first question, namely, that contradiction of modals is not
made by negation of the verb; then he determines the truth in relation to the
second, namely, that contradiction of modals is made by negation of the mode,
where he says, Therefore, the negation of "possible to be” is "not
possible to be,” etc. Hence he says that because of the foresaid reasoning one
of these two follows: first, that either the same thing, i.e., one and the same
thing is said, i.e., is asserted and denied at once of the same subject, i.e.,
either two contradictories are verified at once of the same thing, as the first
argument concluded; or secondly, that assertions and denials of modals, which
are opposed contradictorily are not made by the addition of "to be” or
"not to be,” i.e., contradiction of modals is not made by the negation of
the verb, as the second argument concluded. If the former alternative is
impossible, namely, that two contradictories can be true of the same thing at
once, the latter, that contradiction of modals is not made according to
negation of the verb, must obtain, for impossible things must always be
avoided. His mode of speaking here indicates that there is some obstacle to
each alternative. But since in the first the obstacle is an impossibility that
cannot be accepted, while in the second the only obstacle is that the negation
must fall upon the copula of the enunciation if a negative enunciation is to be
formed, and this can be done otherwise than by denying the verb of the dictum,
as will be shown later on, then the second alternative must be chosen, i.e.,
that the contradiction of modals is not made according to negation of the verb,
and the first alternative is to be rejected. IX. 1. Determinat ubi ponenda sit
negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et circa hoc quatuor facit:
primo, determinat veritatem summarie; secundo, assignat determinatae veritatis
rationem, quae dicitur rationi ad oppositum inductae; ibi: fiunt enim etc.;
tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: eius veroetc.;
quarto, universalem regulam concludit; ibi: universaliter vero et cetera. Quia
igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est,
declaratum est per locum a divisione; concludendo determinat: est ergo negatio
eius quae est possibile esse, ea quae est non possibile esse, in qua negatur
modus. Et eadem est ratio in enunciationibus de contingenti. Huius enim, quae
est, contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet
de necesse et impossibile idem est iudicium. Aristotle now determines where the
negation must be placed in order to obtain contradiction in modals. He first
determines the truth summarily; secondly, he presents the argument for the
truth of the position, which is also the answer to the reasoning induced for
the opposite position, where he says, For just as "to be” and "not to
be” are the determining additions in the former, and the things subjected are
"white” and "man,” etc.; thirdly, he makes this truth evident in all
the modals, where he says, The negation, then, of "possible not to be” is
"not possible not to be,” etc.; fourthly, he arrives at a universal rule
where he says, And universally, as has been said, "to be” and "not to
be must be posited as the subject, etc. Since the negation must be added either
to the verb or to the mode and it was shown above in virtue of an argument from
division that it is not to be added to the verb, he concludes: Therefore, the
negation of "possible to be” is "not possible to be”, that is, the
mode is negated. The reasoning is the same with respect to enunciations of the
contingent, for the negation of "contingent to be” is "not contingent
to be.” And the judgment is the same in the others, i.e., the necessary and the
impossible. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum dicit: fiunt enim in illis
appositiones etc., subdit huius veritatis rationem talem. Ad sumendam
contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere negationem super
appositione, idest coniunctione praedicati cum subiecto; sed in modalibus
appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat
contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in littera
per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in
illis enunciationibus de inesse appositiones, idest praedicationes, sunt esse
et non esse, idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim semper
est nota eorum quae de altero praedicantur), subiective vero appositionibus res
sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel
homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse
quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel non esse subiecti locum
tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest modi, praedicationes sunt.
Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non esse veritatem vel
falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes modos. Hoc est enim
quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in
illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as "to be”
and "not to be” are the determining additions in the former, and the
things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the argument
for the truth of his position. To obtain contradiction among any enunciations
the negation must be applied to the determining addition, i.e., to the word
that joins the predicate with the subject; but in modals the determining
additions are the modes; therefore, to get a contradiction in modals, the
negation must be added to the mode. The major of the argument is subsumed; the
minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to absolute
enunciations. In absolute enunciations the determining additions, i.e., the predications,
are "to be” and "not to be,” i.e., the verb signifying "to be”
or "not to be” (for the verb is always a sign of those things that are
predicated of another). The things subjected to the determining additions,
i.e., to which to be” and "not to be” are applied, are "white,” in
"White is, "or man,” in "Man is.” This happens in modals in the
same way but in a manner appropriate to them. "To be” is as the subject,
i.e., the dictum signifying "to be” or "not to be” holds the place of
the subject; "is possible” and "is contingent,” i.e., the modes, are
the predicates. And just as in absolute enunciations we determine truth or
falsity with "to be” and "not to be,” so in modals with the modes. He
makes this point when he says, determining additions, i.e., these modes effect
truth just as "to be” and "not to be” determine truth and falsity in
the others. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo
adductum, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut illis de inesse.
Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de
inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto, eumdem locum tenet
modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem proportionaliter cadit
negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi ad dictum,
quae est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et falsitas affirmationem et
negationem sequantur, penes idem attendenda est affirmatio vel negatio
enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem in enunciationibus
de inesse veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur, ita in modalibus
modum. Illa namque modalis est vera quae sic modificat dictum sicut dicti
compositio patitur, sicut illa de inesse est vera, quae sic significat esse
sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem
utriusque vis quoad veritatem et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos,
appositiones, idest, praedicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse,
intelligens per modum totum praedicatum enunciationis modalis, puta, est
possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: contingere
vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum praedicatum
modalis continent. Thus the response to the argument for the opposite position,
which he gave first, is evident. That argument concluded that the negation
should be added to the verb as it is in absolute enunciations. But since the
modal enunciates a mode of a dictum—as the absolute enunciation enunciates
"to be” or "not to be” such, for instance, "to be white” of a
subject—the mode holds the same place here that the verb does there.
Consequently, the negation falls upon the same thing proportionally here and
there, for the proportion of mode to dictum is the same as the proportion of
verb to subject. Again, since truth and falsity follow upon affirmation and
negation, the affirmation and negation of an enunciation and its truth and
falsity must be controlled by the same thing. In absolute enunciations truth
and falsity follow upon "to be” or "not to be,” hence in the modals
they follow upon the mode; for that modal is true which modifies the dictum as
the composition of the dictum permits, just as that absolute enunciation is
true which signifies that something is as it is. Therefore, negation is added
here to the mode just as it is added there to the verb, since the power of each
is the same with respect to the truth and falsity of an enunciation. Notice
that he calls the modes "determining additions,” i.e., predications—as "to
be” is in absolute enunciations—understanding by the mode the whole predicate
of the modal enunciation, for example, "is possible.” As a sign of this he
expresses the modes themselves verbally when he says, "is possible” and
"is contingent” are determining additions. For "is contingent” and
"is possible” comprise the whole predicate of the modal enunciation.
Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero quod est possibile est
non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus modalibus, scilicet
de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum
possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram
habentem dictum affirmatum, et alteram habentem dictum negatum; ideo explanat
in singulis modis quae cuiusque affirmationis negatio sit. Et primo in illis de
possibili. Et quia primae affirmativae de possibili (quae scilicet habet dictum
affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile
esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait: eius vero, quae
est possibile non esse (ubi dictum negatur) negatio est non possibile non esse.
Et hoc consequenter probat per hoc quod contradictoria huius, possibile non
esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile
non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius contradictoria. Non
enim sunt sibi invicem contradicentes, possibile esse, et, possibile non esse,
quia possunt simul esse verae. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam,
ut supra dictum fuit, idem est, possibile esse, et, non esse, et consequenter
sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse, ita e contra ad, posse non
esse, sequitur, posse esse; sed contradictoria illius, possibile esse, quae non
potest simul esse vera est, non possibile esse: hae enim, ut dictum est,
opponuntur. Remanet ergo quod huius negatio, possibile non esse, sit illa, non
possibile non esse: hae namque simul nunquam sunt verae vel falsae. Dixit quod
possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se
invicem consequuntur: quia secundum veritatem universaliter non sequuntur se,
sed particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod
simpliciter se invicem sequantur. Deinde declarat hoc idem in illis de
necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens:
similiter eius quae est, necessarium esse, negatio non est ea, quae dicit
necessarium non esse, ubi modus non negatur, sed ea quae est, non necessarium
esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente dictum negatum, et
ait: eius vero, quae est, necessarium non esse, negatio est ea, quae dicit, non
necessarium non esse. Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem
servans, et inquit: et eius, quae dicit, impossibile esse, negatio non est ea
quae dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi iam modus
negatur. Alterius vero affirmativae, quae est, impossibile non esse, negatio
est ea quae dicit non impossibile non esse. Et sic semper modo negatio addenda
est. When he says, The negation, then, of "possible not to be” is [not,
"not possible to be” but] "not possible not to be,” etc., he makes
this truth evident in all the modals, i.e., the possible, the necessary, and
the impossible (the contingent being convertible with the possible). And since
any mode makes two modal affirmatives, one having an affirmed dictum and the
other having a negated dictum, he shows what the negation of each affirmation
is in each mode. First he takes those of the possible. The negation of the
first affirmative of the possible (the one with an affirmed dictum), i.e.,
"possible to be,” was assigned as "not possible to be.” Hence, going
on to the remaining affirmative of the possible he says, The negation, then, of
"possible not to be” [wherein the dictum is negated] is, "not
possible not to be.” Then he a proves this. The contradictory of "possible
not to be” is either "Possible to be” or "not possible not to be.”
But the former, i.e., "possible to be,” is not the contradictory of
"possible not to be,” for they can be at once true. Hence they are also
thought to follow upon each other, for, as was said above, the same thing is
possible to be and not to be. Consequently, just as "possible not to be”
follows upon "possible to be,” so conversely "possible to be” follows
upon "possible not to be.” But the contradictory of "possible to be,”
which cannot be true at the same time, is "not possible to be,” for these,
as has been said, are opposed. Therefore, the negation of "possible not to
be” is, "not possible not to be,” for these are never at once true or
false. Note that he says, Wherefore "possible to be” and "possible
not to be” would appear to be consequent to each other, and not that they do
follow upon each other, for it is not true that they follow upon each other
universally, but only particularly (as will be said later); this is the reason
they appear to follow upon each other simply. Then he manifests the same thing
in the modals of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed
dictum: The case is the same with respect to the necessary. The negation of
"necessary to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is
not negated) but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of
the necessary with a negated dictum: and the negation of "necessary not to
be is "not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping
the same order. The negation of "impossible to be” is not,
"impossible not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode
is negated. The negation of the other affirmative, "impossible not to be”
is "not impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to
the mode. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc.,
concludit regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta
importantia esse et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta,
negationem vero et affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem,
facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos
modos. Debet namque illemet modus negari, qui prius affirmabatur, si
contradictio esse debet. Et exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et
oportet putare has esse oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes
in modalibus, possibile et non possibile, contingens et non contingens. Item
cum dixit negationem alio tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi
copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in modalibus quod eamdem
oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim
opponitur huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile est esse, sed
ista, possibile non est esse; meminit autem modi potius, et propter hoc quod
nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo
autem praeposita, idem facit ac si modali verbo praeponeretur, et quia, cum
modo numquam caret modalis enunciatio, semper negatio supra modum poni potest.
Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum
dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari
potest. Quod autem in fine addidit, verum et non verum, insinuat, praeter
quatuor praedictos modos, alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis
determinant, puta, verum et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter
modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then
he says, And universally, as has been said, "to be”and "not to be”
must be posited as the subject, and those that produce affirmation and negation
must be joined to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes
with the universal rule. As has been said, the dictums denoting "to be”
and "not to be” must be posited in the modals as subjects, and the one
making this an affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction,
must be added only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame
mode which was previously affirmed must be denied if there is to be a
contradiction. He gives examples of how this is to be done when he adds, And
these are the words that are to be considered opposed, i.e., affirmations and
negations in modals, possible–not possible, contingent–not contingent.
Moreover, when he said elsewhere but in another way that the negation must be
applied only to the mode, he did not exclude the copula of the mode, but the
copula of the dictum. For it is unique to modals that the same opposition is
made by adding a negation to the mode and to its verb. The contradictory of
"is possible to be,” for instance, is not only "is not possible to
be,” but also "not is possible to be.” There are two reasons, however, for
his mentioning the mode rather than the verb: first, for the reason we have
just given, namely, so as to imply that the negation placed after the verb of
the mode, the mode having been put first, accomplishes the same thing as if it
were placed before the modal verb; and secondly, because the modal enunciation
is never without a mode; hence the negation can always be put on the mode.
However, it cannot always be put on the verb of a mode, for the modal
enunciation may lack the verb of a mode as for example in "Socrates runs
necessarily,” in which case the negation can always be adapted to the verb. In
adding "true” and "not true” at the end he implies that besides the
four modes mentioned previously there are others that also determine the
composition of the enunciation, for example, "true” and "not true,”
"false” and "not false”; nevertheless he did not posit these among
the modes first given because, as was shown, they do not properly modify. X. 1.
Postquam determinavit de oppositione modalium, hic determinare intendit de
consequentiis earum. Et circa hoc duo facit: primo, tradit veritatem; secundo,
movet quandam dubitationem circa determinata; ibi: dubitabit autem et cetera.
Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum opinionem
aliorum; secundo, examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat
veritatem; ibi: ergo impossibile et cetera. Having established the opposition
of modals, Aristotle now intends to determine their consequents. He first
presents the true doctrine; then, he raises a difficulty where he says, But it
may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to
be,” etc. In presenting the true doctrine, he first posits the consequents of
the opposition of modals according to the opinion of others; secondly, he
determines the truth by examining and correcting their opinion, where he says,
Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the
contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but
inversely, etc. 2 Quoad primum considerandum est quod cum quilibet modus faciat
duas affirmationes, ut dictum fuit, et duabus affirmationibus opponantur duae
negationes, ut etiam dictum fuit in primo; secundum quemlibet modum fient
quatuor enunciationes, duae scilicet affirmativae et duae negativae. Cum autem
modi sint quatuor, efficientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum
ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quaelibet cuiusque modi,
undecumque incipias, habet unam tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad
assignandas consequentias modalium, singulas ex singulis modis accipere oportet
et ad consequentiae ordinem inter se adunare. Before we consider these
consequents according to the opinion of others, we must first note that since
any mode makes two affirmations and there are two negations opposed to these,
there will be four enunciations according to any one mode, two affirmatives and
two negatives. And since there are four modes, there will be sixteen modals.
Among these sixteen, anyone of each mode, from wherever you begin, has only one
of each mode following upon it. Hence, to assign the consequents of the modals,
we have to take one from each mode and arrange them among themselves to form an
order of consequents. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui,
de quibus inquit Aristoteles: consequentiae vero fiunt secundum infrascriptum
ordinem, antiquis ita ponentibus. Formaverunt enim quatuor ordines modalium, in
quorum quolibet omnes quae se consequuntur collocaverunt. Ut autem confusio
vitetur, vocetur, cum Averroe, de caetero, in quolibet modo, affirmativa de
dicto, et modo, affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de
dicto, affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa
simplex; negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi
affirmationem vel negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet.
Dixerunt ergo antiqui quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet,
possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet,
contingens est esse (contingens enim convertitur cum possibili); et negativa
simplex de impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa
simplex de necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo
modalium consequentium se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas
declinatas de possibili et contingenti, scilicet, possibile non esse, et,
contingens non esse, sequuntur negativae declinatae de necessario et
impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non impossibile non esse.
In tertio vero ordine dixerunt quod negativas simplices de possibili et
contingenti, scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur
affirmativa declinata de necessario, scilicet, necesse non esse, et affirmativa
simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse. In quarto demum ordine
dixerunt quod negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non
possibile non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex
de necessario, scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de impossibili,
scilicet, impossibile est non esse. The modals were ordered in this way by the
ancients. They disposed them in four orders placing together in each order
those that were a consequent to each other. Aristotle speaks of this order when
he says, Logical consequents follow according to the order in the table below,
which is the way in which the ancients posited them. Henceforth, however, to
avoid confusion let us call the affirmative of dictum and mode in any one mode,
the simple affirmative, as it is by Averroes, among others; affirmative of mode
and negative of dictum, the declined affirmative; negative of mode and not of
dictum, the simple negative; negative of both mode and dictum, the declined
negative. Hence, simplicity of mode designates affirmation or negation, and so,
too, does declination of dictum. The ancients said, then, that simple
affirmation of the contingent, i.e., "contingent to be” follows upon
simple affirmation of the possible, i.e., "Possible to be” (for the
contingent is converted with the possible); the simple negative of the
impossible also follows upon this, i.e., "not impossible to be”; and the
simple negative of the necessary, i.e., "not necessary to be.” This is the
first order of modal consequents. In the second order they said that the
declined negatives of the necessary and impossible, i.e., "not necessary
not to be” and "not impossible not to be,” follow upon the declined
affirmative of the possible and the contingent, i.e., "possible not to be”
and "contingent not to be.” In the third order, according to them, the
declined affirmative of the necessary, i.e., "necessary not to be,” and
the simple affirmative of of the impossible, i.e., "impossible to be,”
follow upon the simple negatives of the possible and the contingent, i.e.,
"not possible to be” and not contingent to be.” Finally, in the fourth
order, the simple affirmative of the necessary, i.e., "necessary to be,”
and the declined affirmative of the impossible, i.e., "impossible not to
be,” follow upon the declined negatives of the possible and the contingent,
i.e., "not possible not to be” and "not contingent not to be.” 4 Consideretur
autem ex subscriptione appositae figurae, quemadmodum dicimus, ut clarius
elucescat depictum. Consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor
ordines ab antiquis positae et ordinatae. (Figura). To make this ordering more
evident, let us consider it with the help of the following table. CONSEQUENTS
OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE ANCIENTS
FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to
be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is
contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to
be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be
It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not
contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Cajetanus
lib. 2 l. 10 n. 5Deinde cum dicit: ergo impossibile et non impossibile etc.,
examinando dictam opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia
primo examinat consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de
necessario; ibi: necessarium autem et cetera. Unde ex praemissa opinione
concludens et approbans, dicit: ergo istae, scilicet, impossibile, et, non
impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non contingens,
et, non possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut
contradictoriae de impossibili contradictorias de possibili et contingenti
consequantur, sed conversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem
et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem
negatio et negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est
possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis,
idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur
impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista,
impossibile est esse; haec autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est;
illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio est: hic siquidem modus
negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad
consequentias illarum de impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet,
semper ex affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione
possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When he says, Now the impossible
and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the
possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc., he
determines the truth by examining the foresaid opinion. First, he examines the
consequents of enunciations predicating impossibility; secondly, those
predicating necessity, where he says, Now we must consider how enunciations
predicating necessity are related to these, etc. From the opinion advanced,
then, he concludes with approval that the impossible and the not impossible
follow upon the contingent and the possible and the not contingent and the not
possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the impossible follow
upon the contradictories of the possible and the contingent, but inversely,
i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and negation upon
negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation and
affirmation upon negation. He explains this when he says, The negation of
"impossible to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation
of the impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the
affirmation of the possible, and the affirmation of the impossible follows upon
the negation of the possible. For the affirmation, "impossible to be”
follows upon the negation, "not possible to be.” In the latter the mode is
negated, in the former it is not. Therefore, the ancients were right in saying
that in any order, the consequences of enunciations predicating impossibility
are as follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is
inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is
inferred. This is apparent in the diagram. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 6Deinde
cum dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare
consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta
antiquorum; secundo, determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque
necessarium et cetera. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et
quid male dictum sit ab antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum
quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se
secundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis
iuxta morem illarum de inesse; duae earum sunt contrariae inter se, duae autem
illis contrariis contradictoriae, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo
antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem
earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum
restat de his, quae sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo
illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non
eodem modo istae de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem
sequuntur illae de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte
illatae sunt ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte
inferuntur: sed duae earum, quae sunt contrariae, scilicet, necesse est esse,
et, necesse est non esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab
antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine; reliquae autem duae de
necessario, scilicet, non necesse non esse, et, non necesse esse, quae sunt
contradictoriae supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo
scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte
fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad
enunciationes de necessario tantum. When he says, Now we must consider how
enunciations predicating necessity are related to these, etc., he proposes an
examination of the consequents of enunciations predicating necessity in order
to determine the truth about them. First he examines what was said by the
ancients; secondly, he determines the truth, where he says, But in fact neither
" necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon
"possible to be,” etc. In his examination of the ancients, Aristotle makes
four points. First, he shows what was well said by the ancients and what was
badly said. It must be noted in regard to this that, as we have said, there are
four enunciations predicating necessity, which differ among themselves in
quantity and quality, and hence they make up a diagram of opposition in the
manner of the absolute enunciations. Two of them are contrary to each other,
and two are contradictory to these contraries, as is clear in the diagram
below. necessary to be contraries necessary not to be not necessary not to be
subcontraries not necessary to be Now the ancients correctly inferred the
universal contraries from the possibles, contingents, and impossibles, but
incorrectly inferred their contradictories, namely, particulars. This is the
reason Aristotle says that it remains to be considered how enunciations
predicating necessity are related consequentially to the possible and not
possible. From what Aristotle says, it is clear that those predicating
necessity do not follow upon the possibles in the same way as those predicating
impossibility follow upon the possibles, for all of the enunciations
predicating impossibility were correctly inferred by the ancients, but those
predicating necessity were not. Two of them, the contraries, "necessary to
be” and "necessary not to be,” follow, i.e., correct consequents were
deduced by the ancients in the third and fourth orders; the remaining two,
"not necessary not to be” and "not necessary to be,” which are
contradictories of the contraries, are outside of the consequents of these,
i.e., in the second and first orders. Hence, the ancients represented
everything correctly in the third and fourth orders, but in the first and
second they erred, not with respect to all things, but only with respect to
enunciations predicating necessity. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 7Secundo cum
dicit: non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitae obiectioni, qua
defendi posset consequentia enunciationis de necessario in primo ordine ab
antiquis facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile esse, et,
necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio ordine iam approbato;
ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo
ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium
contradictoria mutuo se sequuntur; sed illae duae tertii ordinis
convertibiliter se sequuntur, et istae duae primi ordinis sunt earum
contradictoriae; ergo istae primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non
necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet
Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet
necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriae.
Unde dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quae erat in
tertio ordine), illa quae dicit, non necesse est esse, quae sita erat in primo
ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem;
quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse,
non est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse lignum et
non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istae
duae de necessario, quas posuerunt antiqui in primo et tertio ordine, sunt
subalternae (et ideo sunt simul verae), et deberent esse contradictoriae; et
ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the negation of "necessary
not to be” is not "not necessary to be,” since both may be true of the
same subject, etc. Here he replies to a tacit objection. This reply could be
used to defend the consequent of the enunciation of the necessary made by the
ancients in the first order. The tacit objection is this: "not possible to
be” and "necessary not to be” follow convertibly in the third order which
has already been shown to be correct; therefore, "possible to be” and
"not necessary to be” ought to follow upon each other in the first order.
The consequent holds; for the contradictories of two that convertibly follow
upon each other, mutually follow upon each other; but those two follow upon
each other convertibly in the third order and these two in the first order are
their contradictories; therefore, those of the first order, i.e.,
"possible to be” and "not necessary to be,” mutually follow upon each
other. Aristotle replies here to this objection by destroying what was assumed
in the minor, i.e., that the necessary of the first order and the necessary of
the third order are contradictories. He says, For the negation of
"necessary not to be” (which is in the third order) is not "not
necessary to be” (which has been placed in the first order). He also gives the
reason: it is possible for both to be true at once of the same subject, which
is repugnant to contradictories. For the same thing which is necessary not to
be, is not necessary to be; for example, it is necessary that man not be wood
and it is not necessary that man be wood. Notice, as will be clear later, that
these two which the ancients posited in the first and third orders, are
subalterns and therefore are at once true, whereas they should be
contradictories; hence the ancients were in error. Cajetanus lib. 2 l. 10 n.
8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam praecedentem
textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes. Narrare enim aiunt
Aristotelem qualitatem suprascriptae figurae quoad consequentiam illarum de
necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illae de impossibili, et
dicere quod secundum praescriptam figuram non eodem modo sequuntur illas de
possibili illae de necessario, quo sequuntur illae de impossibili. Nam
contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet
conversim; contradictoriae autem de necessario non dicuntur sequi illas
contradictorias de possibili, sed potius eas sequi dicuntur contrariae de
necessario: non inter se contrariae, sed hoc modo, quod affirmationem
possibilis negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non
affirmatio de necessario sequi ponitur, quae sit contradictoria illi negativae
quae ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario.
Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio
ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt,
non necesse esse, et, necesse non esse. Hae siquidem non sunt contradictoriae.
Non enim est negatio eius, quae est, necesse non esse, non necesse esse
(quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse
non esse, est contraria contradictoriae huius, scilicet, non necesse esse, quae
est, necesse est esse. Sed quia sequenti litterae magis consona est introductio
nostra, quae etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly
contrariae, ideo prima, iudicio meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum
reprehensionem referendus est textus. Boethius and Averroes read both this and
the preceding part of the text, not reprovingly, but as explanatorily joined
together. They say Aristotle explains the quality of the above table with
respect to the consequents of enunciations predicating necessity after he has
explained in what way those predicating impossibility are related. What
Aristotle is saying, then, is that those of the necessary do not follow those
of the possible in the same way as those of the impossible follow upon the
possible. For contradictories of the impossible follow upon contradictories of
the possible, although inversely; but contradictories of the necessary are not
said to follow the contradictories of the possible, but rather the contraries
of the necessary follow upon them. It is not the contraries among themselves
that follow, but contraries in this way: the negation of the necessary is said
to follow upon the affirmation of the possible; but what follows on the
negation of this possible is not the affirmation of the necessary contradictory
to that negative of the necessary following upon the possible, but the contrary
of such an affirmation of the necessary. That this is the case is evident in
the first and third orders. The sources are negation and affirmation of the
possible, and the extremes are "not necessary to be” and "necessary
not to be.” But these are not contradictories, for the negation of
"necessary not to be” is not "not necessary to be,” for it is
possible for them to be at once true of the same thing. "Necessary not to
be” is the contrary of the contradictory of "not necessary to be,” which
contradictory is "necessary to be.” In my judgment, however, the first
exposition should be accepted and this portion of the text taken as a reproof
of the ancients, because the contraries seem to be explained in a forced way by
others, whereas our introduction is more in accord with what follows in the
next part of the text; in addition, it agrees with Albert’s interpretation.
Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 9Tertio cum dicit: causa autem cur etc., manifestat
id quod praemiserat, scilicet, quod non simili modo ad illas de possibili
sequuntur illae de impossibili et illae de necessario. Antiquorum enim hoc
peccatum fuit tam in primo quam in secundo ordine, et quod simili modo
intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut
posuerunt negativam simplicem de impossibili, ita posuerunt negativam simplicem
de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam
locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit, et causa autem quare necessarium non
sequitur possibile, similiter, idest, eodem modo cum caeteris, scilicet, de
impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest,
aequivalet necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo.
Nam si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse,
sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se
sequuntur, quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta
eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se
habeant impossibile et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile
quod sequitur dictum affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de
necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt
igitur antiqui quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo
et in secundo ordine locaverunt. Thirdly, he says, Now the reason why
enunciations predicating necessity do not follow in the same way as the others,
etc. Here Aristotle shows why enunciations predicating impossibility and
necessity do not follow in a similar way upon those predicating possibility.
This was the error made by the ancients in both the first and second orders,
for in the first order they posited the simple negative of the impossible, and
in a similar way the simple negative of the necessary, and in the second order
their declined negatives, the reason being that they inferred those predicating
impossibility and necessity in a similar way. The cause of this error, then,
and the reason why enunciations predicating necessity do not follow the
possible in the same way, i.e., in a similar mode, as the others, i.e., as the
impossibles, is that the impossible expresses the same meaning as the necessary,
i.e., is equivalent to the necessary, contrarily, i.e., taken in a contrary
mode, and not in the same mode. For if something is impossible to be, we do not
infer, therefore it is necessary to be, but it is necessary not to be. Since,
therefore, the impossible and necessary mutually follow each other when their
dictums are taken in a contrary mode—and not when their dictums are taken in a
similar mode — it follows that the impossible and necessary are not related in
the same way to the possible, but in a contrary way. For the negated dictum of
the necessary follows upon that possible which follows the affirmed dictum of
the impossible, and contrarily. Why this is so will be explained later.
Therefore, the ancients erred when they located similar enunciations of the
impossible and necessary in the first and in the second orders. Cajetanus lib.
2 l. 10 n. 10 Hinc apparet quod supra posita nostra expositio conformior est
Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad manifestandum illa verba:
manifestum est autem quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu
illa verba, quo hic per causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur
causa dissimilitudinis verae inter necessarias et impossibiles in consequendo
possibiles, et non dissimilitudinis falso opinatae ab antiquis: quoniam ex vera
causa nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram
dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles,
quam non servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc eam
manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter
necessarias et impossibiles, sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur
enim quod contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur
conversim; et quod in hoc non differunt ab his quae sunt de impossibili, sed
differunt in hoc quod modo diximus, quod possibilium et impossibilium se
consequentium dictum est similiter, possibilium autem et necessariorum, se
invicem consequentium dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence
it appears that our exposition is more in conformity with Aristotle. For he
introduced this text to manifest these words: It is evident that the case here
is not the same, etc. By taking this meaning, then, these words are made clear
through the cause. Moreover, it is evident that here the cause is given of a
true dissimilitude between necessaries and impossibles in following the
possibles, and not of a dissimilitude falsely held by the ancients, for from a
true cause only the truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it
must be understood that a true dissimilitude between the necessary and
impossible in following the possible, which they did not beed, has been
proposed, and now has been made manifest. It will be clear from what will be
said later that the dissimilitude posited by the ancients between the necessary
and impossible is falsely posited, for it will be shown that contradictories of
the necessary follow contradictories of the possible inversely, and that in
this they do not differ from enunciations predicating impossibility. They do
differ, however, in the way we have indicated, i.e., the dictum of the
possibles and of the impossibles following on them is similar, but the dictum
of the possibles and of the necessaries following on them is contrary, as will
be seen clearly later. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe
impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod
contradictoriae de necessario male situatae sint secundum consequentiam ab
antiquis, qui contradictiones necessarii ita ordinaverunt. In primo ordine
posuerunt contradictoriam negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et
in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non
esse. Et probat hunc consequentiae modum esse malum in primo ordine. Cognita
enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem
hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile
esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad
possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile
esse, secundum antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de
primo ad ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est
inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo
quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine.
Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui
posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de
necessario, quae sunt negationes contradictoriae aliarum duarum de necessario.
Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non,
idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur
illam, scilicet, necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest
affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel
negatio vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile
esse, sed, non possibile est esse; cum haec aequivaleat illi quae dicit,
impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile
esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens.
Bona ergo erat prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est
esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile
esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse,
secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare
contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non
necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he
says, Or is it impossible to arrange the contradictions of enunciations
predicating necessity in this way? he manifests another point he had proposed,
namely, that contradictories of enunciations predicating necessity were badly
placed according to consequence by the ancients when they ordered them thus:
the contradictory negation to "necessary to be,” i.e., "not necessary
to be,” in the first order, and the contradictory negation to "necessary
not to be,” i.e., "not necessary not to be,” in the second. Aristotle only
proves that this mode of consequence is incorrect in the first order, for when
this is known the mistake in the second order is readily seen. He does this by
an argument leading to an impossibility. "Possible to be” follows upon
"necessary to be”; otherwise "not possible to be” would follow, which
it manifestly implies. "Not impossible to be” follows upon "possible
to be” as is evident, and, according to the ancients, in the first order,
"not necessary to be” follows upon "not impossible to be.” Therefore,
from first to last, "not necessary to be” follows upon "necessary to
be,” which is inadmissible because there is an obvious implication of
contradiction. Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to
be” follows in the first order. He says, then, that in fact it is impossible to
posit contradictions of the necessary according to consequence as the ancients
posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of
"necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the
contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary
not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if
not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows
upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the
necessary or denied, the reason being that of anything there is a true
affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to
be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be”
does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e.,
"not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be”
follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary
to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the
first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is
possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not impossible
to be,” as is evident in the first order, and according to the ancients,
"not necessary to be” follows upon "not impossible to be” in the same
first order. Therefore, from first to last we arrive at this: "not
necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is unlikely, not to
say impossible. 12 Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur quod ad possibile
sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc est dicendum quod
possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius
ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et
sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non sequitur non
homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte possibilis in communi, idest
pro possibili seu contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse
et non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium. Quod enim potest
esse et non esse, non necessarium est esse, et similiter non necessarium est
non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali. There
is a doubt about this, for in I Priorum [13: 32a 28 and 32b 15], it is said
that the not necessary follows upon the possible, while here the opposite is
said. The possible, however, is taken in two ways: commonly, and thus it is
superior to the necessary and the contingent to either of two alternatives, as
is the case with animal in relation to man and cow; taken in this way, the not
necessary does not follow upon the possible, just as not-man does not follow
upon animal. In another way the possible is taken for one part of the possible
commonly, i.e., for the possible or contingent to either of two alternatives,
namely, for what can be and not be. The not necessary follows upon the possible
taken in this way, for what can be and not be is not necessary to be, and
likewise is not necessary not to be. In the Prior Analytics, then, Aristotle is
speaking of the possible in particular; here of the possible commonly. 13
Deinde cum dicit: at vero neque necessarium etc., determinat veritatem
intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quae enunciatio de
necessario sequatur ad possibile; secundo, ordinat consequentias omnium
modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad primum, sicut duabus viis
reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit
quod, ad possibile esse, sequitur, non necesse non esse. Primum motivum est per
locum a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur (ut probatum est), non
necesse esse, at vero neque, necesse esse, neque, necesse non esse. Reliquum
est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non esse: non enim dantur plures
enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo proponit reliqua
duo membra excludenda, dicens: at vero neque necessarium esse, neque
necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse; secundo probat hoc sic.
Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum
consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum, scilicet, necesse
esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et cetera. Unde,
tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim, scilicet, possibile
esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit accidere; horum autem,
scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet verum fuerit, non erunt
illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in potentia. Et primum horum
explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile esse et non esse.
Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse esse vel necesse non esse,
non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse
est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si necesse est non esse,
possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum minuit illud antecedens,
possibile esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, et cetera. Tertio
subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est
ei quae dicit, possibile esse; et consequenter haec ponenda erit in primo
ordine. When he says, But in fact neither "necessary to be” nor "necessary
not to be” follow upon "possible to be,” etc., he determines the truth.
First he determines which enunciation of the necessary follows upon the
possible; secondly, he orders the consequents of all of the modals, where he
says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc.
Aristotle has reproved the ancients in two ways; on the basis of these two he
now proves which enunciation of the necessary follows upon the possible. What
he intends to show is that "not necessary not to be” follows upon
"possible to be.” The first argument is taken from a locus of division.
"Not necessary to be” does not follow upon possible to be” (as has been
proved), but neither does "necessary to be” nor "necessary not to
be.” Therefore, "not necessary not to be” follows upon "possible to
be,” since there are no more enunciations of the necessary. He first proposes
the remaining two members that are to be excluded from this common division:
But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow
upon "possible to be.” Then he proves this: no formal consequent
diminishes its antecedent, for if it did, the opposite of the consequent would
stand with the antecedent; but both of these, namely, "necessary to be”
and "necessary not to be,” diminish possible to be”; therefore, etc. The
major is therefore implied and he gives the proof of the minor when he says
that "possible to be” admits of two possibilities, namely, "to be”
and "not to be”; but of these, namely, "necessary to be” and
"necessary not to be” (whichever should be true), these two, "to be”
and "not to be,” will not be true at the same time in potency. He explains
the first point thus: when I say "possible to be” it is at once possible
to be and not to be. With respect to the second, he adds: if you should say,
"necessary to be” or "necessary not to be,” both do not remain, i.e.,
possible to be and not to be do not remain, for if a thing is necessary to be,
possibility not to be is excluded, and if it is necessary not to be, possibility
to be is removed. Both of these, then, diminish the antecedent, possible to be,
for it is extended to "to be” and "not to be,” etc. Thirdly, he
concludes: it remains, therefore, that "not necessary not to be”
accompanies "possible to be,” and consequently will have to be placed in
the first order. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 14 Occurrit in hac parte dubium
circa hoc quod dicit quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius
dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum enim necessarium et non
necessarium sint contradictoria opposita, et de quolibet sit affirmatio vel
negatio vera, non videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium,
vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium, sequetur non
necessarium, ut dicebant antiqui. Augetur et dubitatio ex eo quod Aristoteles
nunc usus est tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium
sequatur possibile. Dixit enim: nam si non negatio possibilis consequatur.
Necesse est enim aut dicere aut negare. A difficulty arises at this point with
respect to his saying that the necessary does not follow upon the possible,
since he has also said that the not necessary does not follow upon it. For the
necessary and the not necessary are opposed contradictorily, and since of
anything there is a true affirmation or negation, it seems impossible to avoid
the conclusion that either the necessary or the not necessary follows upon the
possible; and since the necessary does not follow, the not necessary must
follow, as the ancients said. Furthermore, the difficulty is augmented by the
fact that Aristotle just used such a mode of argumentation when, to prove that
the possible follows upon the necessary, he said, for if not, the negation will
follow; for it is necessary either to affirm or deny. 15. Pro solutione huius,
oportet reminisci habitudinis quae est inter possibile et necessarium, quod
scilicet possibile est superius ad necessarium, et attendere quod superius
potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter
sibi vindicat, sed utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest
accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est
proportio superioris ad habendum affirmationem et negationem unius inferioris,
quae est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri contingentis.
Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut
in futuris contingentibus nec affirmatio nec negatio est determinate vera, sed
sub disiunctione altera est necessario vera, ut in fine primi conclusum est;
ita nec affirmatio nec negatio inferioris sequitur determinate affirmationem
vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario.
Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo
est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium,
ideo optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis partem de
necessario determinate sequi ad possibile. Non tamen dixit quod sub
disiunctione neutra sequatur; hoc enim est contra illud primum principium: de
quolibet est affirmatio vera vel falsa. Ad id autem quod additur, ex eadem
trahitur radice responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et
inferius non in potentia sed in actu includit suum superius, necesse est ad
inferius determinate sequi suum superius: aliter determinate sequetur eius
contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quae est inter necessarium et
possibile et non possibile, ex una parte, et inter possibile et necessarium et
non necessarium, ex altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram
contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram determinate. In
order to resolve this, we must recall the relationship between the possible and
the necessary, namely, that the possible is superior to the necessary. Now the
superior potentially contains its own inferior and the opposite of it in such a
way that neither of them is actually appropriated by the superior, but each is
possible to it; as in the case of man and not-man in relation to animal. We
must also consider that the proportion of the superior as related to the
affirmation and negation of one inferior is the same (which is the proportion
of some subject to the affirmative and negative of a future contingent), for it
is had by neither of the two, and the potency to either is kept. Accordingly,
as in future contingents neither the affirmation nor the negation is
determinately true, but under disjunction one is necessarily true (as was
concluded at the end of the first book), so neither the affirmation nor
negation of the inferior follows upon the affirmation or negation of the
superior determinately, but under disjunction one follows necessarily. This,
for instance, is not valid: "It is animal, therefore it is man,” nor is
"therefore it is not man” valid, but, "therefore it is man or it is
not man.” Since, then, the possible is superior to the necessary, Aristotle has
correctly determined that neither part of the contradiction of the necessary
determinately follows upon the possible. However, he has not said that under
disjunction neither follows; for this would be opposed to the first principle,
that of anything there is a true or false affirmation. The response to what was
added, beginning with "Furthermore, the difficulty is augmented,” etc., is
based upon the same point. Since the necessary is inferior to the possible, and
the inferior does not include its superior in potency but in act, the superior
must follow determinately upon the inferior; otherwise the contradiction of it
would follow determinately. Hence, because of the dissimilar relationship
between the necessary and the possible and not possible on the one hand, and
between the possible and the necessary and not necessary on the other, the
movement of the earlier argument to one part of the contradiction determinately
was quite right, and the movement here to neither determinately was quite right.
16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim quod Aristoteles
difformiter accipiat ly possibile in praecedenti textu et in isto. Ibi enim
accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic videtur accipere
ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit quod possibile est
simul potens esse et non esse. Et ad hoc dicendum est quod uniformiter usus est
possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili in communi verum est
dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia
quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam de suo superiori,
licet non eodem modo; tum quia possibile in communi neutram contradictionis
partem sibi determinat, et consequenter utranque sibi advenire compatitur,
licet non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad
utrunque. There is another slight difficulty, for it seems that Aristotle takes
the possible in a different way in the preceding text and in this. There he
takes it commonly as it follows upon the necessary; here he seems to take it
specifically for the possible that is indifferent to alternatives, since he
says that the possible is at once possible to be and not to be. But in fact
Aristotle has used the possible uniformly. Nor are his words at variance, for
it is also true to say of the possible as common that it admits of both
possibilities, i.e., of "to be” and "not to be”; first, because
whatever is verified of its inferior is verified also of its superior, although
not in the same mode; secondly, because the possible as common determines
neither part of the contradiction to itself and consequently admits of either
happening, although it does not affirm a potency to each part, as does the
possible to either of two alternatives. 17. Secundum motivum ad idem,
correspondens tacitae obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum
subdit: hoc enim verum est et cetera. Ubi notandum quod Aristoteles sub illa
maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium
contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum
convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et
necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse non esse
(quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istae duae (scilicet, possibile
esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandae sunt ordine.
Unde motivum tangens ait: hoc enim, quod dictum est, verum est, idest verum
esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et ex illius, scilicet, non
necesse non esse, opposita, quae est, necesse non esse. Vel, hoc enim,
scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius de
necesse non esse. Et minorem subdens ait: haec enim, scilicet, non necesse non
esse, fit contradictio eius, quae convertibiliter sequitur, non possibile esse.
Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile esse, quod est
caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet, impossibile esse,
et haec de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu
contradictoria est, non necesse non esse. Et quia, caeteris paribus, modus
negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius,
scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se consequuntur, scilicet,
possibile esse, et, non necesse non esse, tamquam contradictoria duorum se
mutuo consequentium. The second grounds for proving the same thing corresponds
to the tacit objection of the ancients he excluded above: For this, he says, is
true also with respect to "necessary to be,” etc. It should be noted here
that Aristotle subsumes under the major cited as a proof for the position of
the ancients (namely, contradictories of consequences convertibly following
each other mutually follow upon each other) this minor: but the contradictories
of those following upon each other convertibly in the third order (i.e., of
"not possible to be” and "necessary not to be”) are "possible to
be” and "not necessary not to be” (for they are opposed to them by
negation of mode); therefore, these two (i.e., "possible to be” and
"not necessary not to be”) follow upon each other and are to be placed in
the first order. Hence, with respect to the basis of the above argument, he
says, For this, i.e., what has been said, is true, i.e., is shown to be true,
also with respect to "necessary not to be,” i.e., of the opposite of
"not necessary not to be,” i.e., "necessary not to be.” Or, For this,
namely, not necessary not to be,” is true, namely, is the true contradictory of
necessary not to be.” He gives the minor when he says, For "not necessary
not to be” is the contradictory of what follows upon "not possible to be.”
Then he states this explicitly: for "not possible to be,” which is the
source of the third order is followed by this impossible, namely,
"impossible to be,” and by this one of the necessary, namely,
"necessary not to be,” of which the negation or contradictory is "not
necessary not to be.” And since, other things being equal, the mode is negated,
and, "possible to be” is (it is understood) the contradictory of "not
possible to be,” therefore, these two mutually follow upon each other, namely,
"possible to be” and "not necessary not to be,” as contradictories of
the two mutually following upon each other. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 18 Deinde
cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias modalium secundum
opinionem propriam; et ait quod, hae contradictiones, scilicet, de necessario,
sequuntur illas de possibili, secundum modum praedictum et approbatum illarum
de impossibili. Sicut enim contradictorias de possibili contradictoriae de
impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de possibili
contradictoriae de necessario sequuntur conversim: licet in hoc, ut dictum est,
dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter
est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario contrarium est
dictum, ut in sequenti videtur figura: consequentiae enunciationum modalium
secundum quatuor ordines ab Aristotele positae et ordinatae. (Figura). Ubi
vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos differentia, nisi in duobus
primis ordinibus quoad illas de necessario. Praepostero namque situ usi sunt
antiqui, eam de necessario, quae locanda erat in primo ordine, in secundo
ponentes, et eam quae in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice
quoque quod convertibiliter se consequentium semper contradictoria se consequi
ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulae primi ordinis contradictoriae
sunt; et similiter singulae quarti ordinis singulis, quae in secundo sunt,
contradictoriae sunt. Quod antiqui non observarunt. When he says, Thus, these
contradictions also follow in the way indicated, etc., he orders all of the
consequents of modals according to his own opinion. He says, then, that these
contradictions, namely, of the necessary, follow those of the possible,
according to the foresaid and approved mode of those of the impossible. For
just as contradictories of the impossible follow upon contradictories of the
possible, although inversely, so contradictories of the necessary follow
contradictories of the possible inversely. In the latter, however, as has been
said, there is a dissimilarity in that the dictum of the contradictories of the
possible and impossible is similar, but the dictum of the contradictories of
the possible and necessary is contrary. This can be seen in the following
table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE
ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to
be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is
possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It
is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be
It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not
possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It
is necessary to be Here you see that there is no difference between Aristotle
and the ancients except in the first two orders with respect to those of the
necessary. The ancients inverted the position of these, placing the necessary
that should have been placed in the first order in the second order, and the
one that should have been in the second in the first. Notice, too, that he has
ordered them in such a way that the contradictories of those following upon
each other convertibly, always follow each other, for each one in the first
order is the contradictory of each one in the third order, and similarly, each
of the fourth order the contradictory of each in the second. This the ancients
did not observe. XI. 1. Postquam Aristoteles declaravit modalium consequentias,
hic movet quandam dubitationem circa unum eorum quae determinata sunt, scilicet
quod possibile sequitur ad necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem
absolvit; secundo, ex determinata quaestione alium ordinem earumdem
consequentiarum modalibus statuit; ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum
duo facit: primo, movet quaestionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum
est et cetera. Movet ergo quaestionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si
ad id quod est necesse esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad
partem affirmativam subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur,
scilicet non possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est
affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile
esse, non esse contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea
subterfugiendum velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad
necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse
erit ipsum dicere illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet
namque aut non possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam,
possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utraeque, scilicet,
non possibile esse et possibile non esse, falsae sunt de eo quod est, necesse
esse. Et consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio
sequitur ad illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse
esse sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents of
modals, Aristotle raises a question about one of the points that has already
been determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first
raises the question and then settles it where he says, It is evident by now
that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites,
etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the
determination of the present question, where he says Indeed the necessary and not
necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First, then,
he raises the question: But it may be questioned whether "Possible to be
follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the affirmative
part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,” would have to
follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the negation is
true of anything. And if someone should say "not possible to be” is not
the contradictory of "possible to be,” because he wants to avoid the
conclusion by saying that neither of these follows upon "necessary to be,”
this may be conceded, although what he says is false. But then he will have to
say that the contradictory of "possible to be” is "possible not to
be,” for the contradictory of "possible to be” has to be either "not
possible to be” or "possible not to be.” But if he says this, he will fall
into another error, for it is false to say it is not possible to be of that
which is necessary to be, and it is false to say it is possible not to be.
Consequently, neither follows upon it, for no enunciation follows upon an
enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible to be” follows
upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit:
at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse sequitur
possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non esse (per conversionem
in oppositam qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia idem est possibile esse
et non esse), sequetur de primo ad ultimum quod necesse est possibile non esse:
quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: at vero rursus
videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi et non
incidi, ut vestis. Quare de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non
esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur
ad necesse, est falsa. Thirdly, he argues to the negative part where he says,
On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be
cut, etc. His argument is as follows: If "possible to be” follows upon
"necessary to be,” then, since "possible not to be” follows upon the
possible (through conversion to the opposite quality, as is said in I Priorum
[13: 32a 31], for the same thing is possible to be and not to be), from first
to last it will follow that the necessary is possible not to be, which is
clearly false. In this argument, Aristotle supplies a hypothesis opposed to the
position that possible to be follows upon necessary to be: On the other hand,
it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, for instance
a garment, and to be and not to be, for instance a house. Therefore, from first
to last, necessary to be will be possible not to be. But this is false. Therefore,
the hypothesis that the possible follows upon the necessary is false. 3. Deinde
cum dicit: manifestum est autemetc., respondet dubitationi. Et primo, declarat
veritatem simpliciter; secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc igitur
possibile et cetera. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens:
manifestum est autem, ex dicendis, quod non omne possibile esse vel ambulare,
idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel secundum ad
opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire aliqua
possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita. Deinde,
quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia ipsa
ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se habeat ad opposita.
Et circa hoc duo facit: primo manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis;
secundo, in his quae aequivoce dicuntur potentiae; ibi: quaedam vero potentiae
et cetera. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter potentia
irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non
potest in opposita. When he says, It is evident by now that not every
possibility of being or walking, etc., he answers the question he proposed.
First, he manifests the truth simply, then applies it to the question where he
says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply,
etc. First, then, he proposes the truth he is going to explain: It is evident
by now that not every possibility of being or walking, i.e., of operating; that
is, not everything possible according to first or second act admits of
opposites, i.e., has access to opposites; there are some possibles of which it
is not true to say that they are capable of opposites. Then, since the possible
arises from potency, he manifests how potency is related to opposites; for it
will be clear from this bow the possible is related to opposites. First he
manifests this in potencies having the same notion; secondly, in those that are
called potencies equivocally where he says, But some are called potentialities
equivocally, etc. With respect to the way in which potencies of the same
specific notion are related to opposites, he does three things. First of all he
manifests how an irrational potency is related to opposites; an irrational
potency, he says, is not a potency that is capable of opposites. Cajetanus lib.
2 l. 11 n. 4Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa,
cum nihil aliud sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam
rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quae cum ratione et
electione operatur; sicut ars medicinae, qua medicus cognoscens quid sanando
expediat infirmo, et volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis
vocatur illa, quae non ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua
dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non
ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex
differentia proposito deserviens inter istas potentias. Prima est quod activa
potentia irrationalis non potest duo opposita, sed est determinata ad unum
oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi
gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quae sunt contradictorie
opposita, neque potest calefacere et frigefacere, quae sunt contraria, sed ad
calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens
calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet,
vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere per
accidens, scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest in
opposita et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinae potest medicus
adhibere remedia et non adhibere, quae sunt contradictoria; et adhibere remedia
sana et nociva, quae sunt contraria. Secunda differentia est quod potentia
activa irrationalis, praesente passo, necessario operatur, deductis
impedimentis: calor enim calefactibile sibi praesens calefacit necessario, si
nihil impediat; potentia autem rationalis, passo praesente, non necessario
operatur: praesente siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It
must be noted in this connection that active potency, since it is the principle
by which we act on something else, is divided into rational and irrational
potency, as is said in IX Metaphysicae [2: 1046a 36]. Rational potency operates
in connection with reason and choice; for example, the art of medicine by which
the physician, knowing and willing what is expedient in healing an illness,
applies a remedy. Irrational potency operates according to its own natural
disposition, not according to reason and liberty; for example, the heat of fire
is an irrational potency, because it heats, not as it knows and wills, but as
its nature requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these
potencies is assigned which is relevant here. The first is that an irrational
active potency is not capable of two opposites, but is determined to one
opposite, whether "opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g.,
heat cannot heat and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it
heat and cool, which are contraries, but is deter mined to heating. Understand
this per se, for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of
heat, namely, the humid, or through alternation of the contrary. It also has
the potentiality not to heat accidentally, if that which can be heated is
lacking. A rational potency, on the other hand, is capable of opposites, both
contradictorily and contrarily; for by the art of medicine the physician can
employ a remedy and not employ it, which are contradictories, and employ
healing and harmful remedies, which are contraries. The second difference is
that an irrational active potency necessarily operates when a subject is
present and impediments are with drawn; for heat necessarily heats when a
subject that can be heated is present, and nothing impedes it. A rational
potency, however, does not necessarily operate when a subject is present; e.g.,
when a sick man is present the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur
autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi
narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum
quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his
quae possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per
potentias irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et
habet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest
frigefacere; neque in eius potestate est calefacere et non calefacere. Quod
autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum,
in quo etiam non invenitur potentia ad opposita. The reasons for these
differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text.
Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of
all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to
opposites in those which are not according to reason, i.e., whose power is
through irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of
heating, has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not
able to cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he
speaks here of a first kind. This is in relation to a second genus of the
possible which he will speak of later, in which there is not a potency to
opposites either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se habeat
ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde
subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales, ipsae eaedem sunt
contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinae medicus
plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum operationum
contradictionibus abstinere potest. Praeposuit autem ly ergo, ut hoc consequi
ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositae sint proprietates, et
potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat;
oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly,
he shows how a rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of
opposites: Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e.,
rational potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of
many; for example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of
contraries and he can abstain from doing or not doing many things. He begins
with "therefore” so as to imply that this follows from what has been
said.”’ The argument would be: properties of opposites are opposites; an
irrational potency, because it is irrational, does not extend itself to
opposites; therefore a rational potency, because it is rational, has access to
opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 7Tertio, explanat id quod dixit de
potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit
quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non potest in opposita,
non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia
irrationalis dividitur in potentiam activam, quae est principium faciendi, et
potentiam passivam, quae est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad
calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis
activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, ut declaratum
est; in potentiis autem passivis non est verum. Illud enim quod potest
calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia
passiva contrariorum, ut dicitur in II de caelo et mundo, et potest non
calefieri, quia idem est subiectum privationis et formae, ut dicitur in I
Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero potentiae non
omnes a posse in opposita excludi intelligendae sunt, sed illae quae sunt
quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non calefacere
manifestum est), et universaliter, quaecunque alia sunt talis potentiae, quod
semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper
agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus,
omnes potentiae activae irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod
etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in
quaedam opposita, ut aer potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul,
cadit supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est sensus, quod simul
aliquid habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat
potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque
impossibile est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est
simultas potentiae, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non
secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem
eius, secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he has
said about irrational potencies. He will assign the reason for doing this
later. He makes the point that what he has said about irrational potentiality,
i.e., that it is not capable of opposites, is not true universally, but
particularly. It should be noted here that irrational potency is divided into
active potency, which is the principle of acting, and passive potency, which is
the principle of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into
potentiality to heat and potentiality to be heated. Now it is true that active
irrational potencies are not capable of opposites, as was explained. This is
not true, however, of passive potencies, for what can be heated can also be
cooled, because the mat ter is the same, i.e., the passive potency of
contraries, as is said in II De caelo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be
heated, since the subject of privation and of form is the same, as is said in I
Physic [7: 189b 32]. Therefore, in explaining about irrational potencies, he
says, But not all irrational potentialities should be understood to be excluded
from the capacity of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are
to be excluded (for it is evident that fire cannot not heat) I and universally,
whatever others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the
ones that of themselves cannot not act, but are necessitated by their form
always to act. All active irrational potencies are of this kind, as we have
explained. There are others, however, of such a condition that even though they
are irrational potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain
opposites; for example, air can be heated and cooled. "Simultaneously”
modifies "are capable” and not "opposites.” What he means is that the
thing simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it
has a passive potency to have both opposites simultaneously, for it is
impossible to have opposites at one and the same time. Hence it is customary
and correct to say that in these there is simultaneity of potency, not potency
of simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of
opposites, not completely, but according to its part, namely, according to
active potencies. 8. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias
inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod
non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut
notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de
potentia communissime, sed neque quaecunque potentiae dicuntur secundum eamdem
speciem ad opposita possunt. Potentiae siquidem irrationales omnes sub una
specie irrationalis potentiae concluduntur, et tamen non omnes in opposita
possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter
passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod non omnes
potentiae eiusdem speciei possunt in opposita. Potest et ly hoc demonstrare
utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales, et inter
irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo
fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quae scilicet secundum eamdem
rationem potentiae physicae dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut
rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quae sub eadem specie
continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad
opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the
differences between active and passive irrational potencies, since enough had
already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle
gives the reason for this. It was not only to make it known that not every
potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not
all that are called potencies according to the same species are capable of
opposites. For all irrational potencies are included under one species of
irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the
passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the
difference between passive and active irrational potencies, since this was
necessary in order to show that not all potencies of the same species are
capable of opposites. " This” in the phrase "this has been said”
could designate each difference, the one between rational and irrational
potencies, and the one between active and passive irrational potencies. The meaning
is, then, that we have said this to show that not every potentiality which is
said according to the same notion of physical power—namely, because it can be
in something as rational and irrational—not even every potentiality which is
contained under the same species, as active and passive under the species
irrational, is capable of opposites. XII. 1. Intendit declarare quomodo illae
quae aequivocae dicuntur potentiae, se habeant ad opposita. Et circa hoc duo
facit: primo, declarat naturam talis potentiae; secundo, ponit differentiam et
convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: et haec quidem et cetera. Ad
evidentiam primi advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles dividit
potentiam in potentias, quae eadem ratione potentiae dicuntur, et in potentias,
quae non ea ratione qua praedictae potentiae nomen habent, sed alia. Et has
appellat aequivoce potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiae
activae, et passivae, et rationales, et irrationales. Quaecunque enim posse
dicuntur per potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione
potentiae sunt, quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activae vel
passivae. Sub secundo autem membro comprehenduntur potentiae mathematicales et
logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et
eo quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo
termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica
quoque potentia continetur quae ea ratione potentia dicitur, quia est. Hae vero
merito aequivoce a primis potentiae dicuntur, eo quod istae nullam virtutem
activam vel passivam praedicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea
ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc agendum vel
patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiae habentes se ad opposita sint
activae vel passivae, istae quae aequivocae potestates dicuntur ad opposita non
se habent. De his ergo loquens ait: quaedam vero potestates aequivocae sunt, et
ideo ad opposita non se habent. Aristotle now proposes to show in what way
potencies that are called equivocal are related to opposites. He first explains
the nature of this kind of potency, and then gives the difference and agreement
all between these and the foresaid, where he says, This latter potentiality is
only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc. In
V and IX Metaphysicae [V, 12: 1019a 15; 12, 1: 1046a 4], Aristotle divides
potency into those that are called potencies for the same reason, and those
that have the name potency for another reason than the aforesaid potencies. The
latter are named "potencies” equivocally. Under the first member are
included all active and passive, rational and irrational potencies, for
whatever are said to be possible through the active or passive potency they
have, are potencies for the same reason, i.e., because there is in them the
originative force of something active or passive. Mathematical and logical
potencies are included under the second member of this division. That by which
a line can lead to a square we call a mathematical potency, for a line
constitutes a square when protracted back to itself. That by which two terms
can be joined in an enunciation without contradiction is a logical potency.
Logical potency also comprises that which is called "potency” because it
is. The latter [mathematical and logical potencies] are named from the former
equivocally because they predicate no active or passive capacity; and what is
said to be possible in these ways is not termed possible in virtue of having
the capacity to do or undergo as in the first case. Hence, since the potencies
related to opposites are active or passive, the ones that are called
potentialities equivocally are not related to opposites. These, then, are the potencies
he speaks of when he says But some are called potentialities equivocally, and
therefore they are not related to opposites. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 2Deinde
declarans qualis sit ista potestas aequivoce dicta, subdit divisionem usitatam
possibilis per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur,
sed duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod verum est ut in actu,
idest ut actualiter est; ut, possibile est ambulare, quando ambulat iam: et
omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod
possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur aliquid non ea ratione
quia est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia potest agere; ut
possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex
divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiae declaravit a
posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem membro
possibilis innuit potentias aequivoce; sub secundo autem potentias univoce,
activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile dupliciter
dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem potestates aequivocas
ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quae dicuntur possibilia quia sunt,
quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of potency that is called
equivocal, he gives the usual division of the possible through which this is
known. "Possible,” he says, is not said in one way, but in two. Something
is said to be possible because it is true as in act, i.e., inasmuch as it
actually is; for example, it is possible to walk when one is already walking,
and in gene eral, i.e., universally, that is said to be possible which is
possible to be because it is already in act. Something is said to be possible
in the second way, not because it actually is, but because it is about to act,
i.e., because it can act; for instance, it is possible for someone to walk
because be is about to walk. Notice here that by this two-membered division of
the possible he makes the division of potency posited above evident a
posteriori, for the possible is named from potency. Under the first member of
the possible he signifies potencies equivocally; under the second, potencies
univocally, i.e., active and passive potencies. He means to show, then, that
since possible is said in two ways, potentiality is also twofold. He explains
equivocal potentialities in terms of only one member, namely, those that are
called possible because they are, since this was sufficient for his purpose.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 3Deinde cum dicit: et haec quidem etc., assignat
differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia haec ultimo dicta
physica, est in solis illis rebus, quae sunt mobiles; illa autem est et in
rebus mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod
possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius,
quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet,
oportet quod mutetur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo
quod est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse
namque in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus
necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc,
quod logicum vocatur, communius est illo quod physicum appellari solet. When he
says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former
is also in the immovable, etc., he specifies the difference between each
potency. This last potency, he says, [possible because it can be] which is
called physical potency, is only in things that are movable; but the former is
in movable and immovable things. The possible that is named from the potency
which can act, but is not yet acting, cannot be found without the mutability of
that which is said to be possible in this way. For if that which can act now
and is not acting, should act, it is necessary that it be changed from rest to
operation. On the other hand, that which is called possible because it is,
requires no mutability in that which is said to be possible in this way, for to
be in act, which is the basis of such a possibility, is found in necessary
things, in immutable things, and in mobile things. Therefore, the possible
which is called logical, is more common than the one we customarily call
physical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 4Deinde subdit convenientiam inter utrunque
possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non
impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et
quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile
ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque verificatur non
impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non impossibile
sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu cuius
Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in quo non invenitur via ad
utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim
tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse
suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive
loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there is a
correspondence between these possibles when he adds that not impossible to be
is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not
impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is
not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not
impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the
fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it
could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible
follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second
genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which
Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the
potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said
to be possible because it is already in act is already determined, since it is
supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of
alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 5Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc.,
applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis,
declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo
possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere
et praedicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est,
non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut
dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex.
Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est
nostrum tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut praeservaret se ab illis
modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem,
apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non
verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus
invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et
per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quaestionis. Peccabat
siquidem in hoc, quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod
convertitur in oppositam qualitatem. When he says, So it is not true to say the
latter possible of what is necessary simply, etc., he applies the truth he has
determined to what has been proposed. First, by way of a conclusion from what
has been said, he shows the relationship of each possible to the necessary. So,
he says, it is not true to say and predicate this possible, namely physical,
which is only in mobile things, of the necessary simply, because what is
necessary simply cannot be otherwise. The physical possible, however, can be
thus and otherwise, as has been said. He adds "simply” because the
necessary is manifold. There is the necessary for well-being and there is also
the necessary from supposition, but it is not our business to treat these, only
to indicate them. In order, then, to avoid the modes of the necessary that do
not have the notion of the necessary perfectly and in every way, he adds "simply.”
Now the physical possible is not verified of this kind of necessary [i.e., of
the necessary simply], but it is true to enunciate the logical possible, the
one found in immovable things, of the necessary, since it takes away nothing of
the necessity. The argument introduced for the negative part of this question”’
is destroyed by this. The error in that argument was the inference—by way of
conversion into the opposite quality—of the possible to both alternatives from
the necessary. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 6Deinde respondet quaestioni
formaliter intendens quod affirmativa pars quaestionis tenenda sit, quod
scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem
subiectivam sequitur constructive suum totum universale; sed necessarium est
pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et physicum, et
sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad necessarium sequitur possibile.
Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale
sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem
subiectivam, consequitur posse esse, idest possibile, tamquam totum universale.
Sed non omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut
ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas
partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo est
animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem
affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad partem negativam, quae
peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile,
descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. Then he replies to the
question formally. He states that the affirmative part of the question must be
held, namely, that the possible follows upon the necessary. Next, he assigns
the cause. The whole universal follows constructively upon its subjective part;
but the necessary is a subjective part of the possible, because the possible is
divided into logical and physical and under the logical is comprehended the
necessary; therefore, the possible follows upon the necessary. Hence he says,
Therefore, since the universal follows upon the part, i.e., since the whole
universal follows upon its subjective part, to be possible to be, i.e.,
possible, as the whole universal, follows upon that which necessarily is, i.e.,
necessary, as a subjective part. He adds: though not every kind of possible
does, i.e., not every species of the possible follows; just as animal follows
upon man, but not in every way, i.e., it does not follow upon man according to
all its subjective parts, for it is not valid to say, "He is a man,
therefore he is an irrational animal.” By this proof of the validity of the
affirmative part, Aristotle has explicitly destroyed the reasoning adduced for
the negative part, which, as is evident, erred according to the fallacy of the
consequent in inferring the possible from the necessary by descending to one
species of the possible. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 7Deinde cum dicit: et est
fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium consequentias alio situ,
praeponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi: manifestum
est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium
enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel
negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia,
scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut horum, scilicet,
necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo: consequentiae
enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti situ ab
Aristotele positae et ordinatae: (Figura). Vides autem hic nihil immutatum,
nisi quod necessariae quae ultimum locum tenebant, primum sortitae sunt. Quod
vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem
proponentis est. When he says, Indeed the necessary and not necessary may well
be the principle of all that is or is not, etc., he disposes the same
consequences of modals in another arrangement, placing the necessary before all
the other modes. First he proposes the order of modals and then assigns the
cause of the order where he says, It is evident, then, from what has been said
that that which necessarily is, actually is, etc. Indeed, he says, the
necessary and not necessary may well be the principle of the "to be” or
"not to be” of all modal enunciations, i.e., the necessary and not
necessary is the principle of affirmatives or negatives. And the others, i.e.,
the possible, contingent, and impossible to be must be considered as consequent
to these, i.e., to the necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL
ENUNCIATIONS ACCORDING TO THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN
ANOTHER APPROPRIATE ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not
possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be
SECOND ORDER It is necessary not to be It is not possible to be It is not
contingent to be It is impossible to be It is not necessary to be It is
possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be
FOURTH ORDER It is not necessary not to be It is possible to be It is
contingent to be It is not impossible to be Nothing is changed here except the
enunciations predicating necessity. They have been allotted the first place,
whereas in the former table they were placed last. When he says "may well
be,” it is not because he is in any doubt, but because he is proposing this here
without a determinate proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc.,
intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat causam, quare
praeposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius
temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu,
excludendo omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem, quae sine motu
non est imaginabilis), possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit
quin possit esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam
possibile. Unde dicit, proponendo minorem: manifestum est autem ex his quae
dicta sunt etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex necessitate est,
secundum actum est totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et
potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non
esset necessarium. Deinde subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis:
quare si priora sunt sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit
conclusionem: et quae actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt
potestate, idest possibilibus, quae omnino actu esse non possunt, licet
compatiantur. When he says, It is evident, then, from what has been said that
that which necessarily is, actually is, etc., he gives the cause of this order.
First he gives the reason for placing the necessary before the possible: the
sempiternal is prior to the temporal; but "necessary” signifies
sempiternal (because it signifies "to be in act,” excluding all mutability
and consequently temporality, which is not imaginable without movement) and the
possible signifies temporality (since it does not exclude the possibility of
being and not being); therefore, the necessary is rightly placed before the
possible. He proposes the minor of this argument when he says, It is evident,
then, from what has been said in treating the necessary, that that which
necessarily is, is totally in act, since it excludes all mutability and potency
to the opposite—for if it could be changed into the opposite in any way, then it
would not be necessary. Next he gives the major, which is in the mode of an
antecedent conditional: and if eternal things are prior to temporal, etc.
Finally, he posits the conclusion: those that are wholly in act in every way,
namely necessary, are prior to the potential, i.e., to possibles, which do not
have being in act wholly although they are compatible with it. Cajetanus lib. 2
l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hae quidem etc., assignat causam totius ordinis
a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est gradus. Quaedam
sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primae substantiae,
non illae quas in praesenti diximus primas, eo quod principaliter et maxime
substent, sed illae quae sunt primae, quia omnium rerum sunt causae,
intelligentiae scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia,
quae secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id
quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt
enim secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id
quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse
philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo praecedit actum
secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturae, perfectionis et
dignitatis e converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior
et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum
philosophus esse poterat. Praeposterus est igitur ordo potentiae et actus in
unomet, utroque ordine, scilicet, naturae et temporis attento. Alia vero
nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio
magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Haec enim, ut IX Metaphys.
dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim
aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam
esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. Then he
says, Some things are actualities without potentiality, namely, the primary
substances, etc. Here he assigns the cause of the whole order established among
modals. The grades of the universe are threefold. Some things are in act
without potentiality, i.e., not combined with potency. These are the primary substances—not
those we have called "first” in the present work because they principally
and especially sustain—but those that are first because they are the causes of
all things, namely, the Intelligences. In others, act is accompanied with
possibility, as is the case with all mobile things, which, according to what
they have of act, are prior in nature to themselves according to what they have
of potency, although the contrary is the case in regard to the order of time.
According to what they have of potency they are prior in time to themselves
according to what they have of act. For example, according to time, Socrates
first was able to be a philosopher, then he actually was a philosopher. In
Socrates therefore, potency precedes act according to the order of time. The
converse is the case, however, in the order of nature, perfection, and dignity,
for when he actually was a philosopher, Socrates was regarded as prior
according to dignity, i.e., more worthy and more perfect than when he was
potentially a philosopher. Hence, when we consider each order, i.e., nature and
time, in one and the same thing, the order of potency and act is reversed.
Others never are in act but are only in potency, e.g., motion, time, the
infinite division of magnitude, and the infinite augmentation of number. These,
as is said in IX Metaphysicae [6: 1048b 9-17], never terminate in act, for it
is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is
not expected, and consequently they can only be in potency. These, however,
must be treated in another place. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 10 Nunc haec ideo
dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in
nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu esse sine
potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. Locavimus secundo
loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et
sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. Praeposuimus autem
possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem
secundum vim nominis respicit defectum causae, qui ad potentiam pertinet:
defectus enim potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundae parti
universi, in qua actus est prior potentia secundum naturam, licet non secundum
tempus. Ultimum autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam
fore, sicut et ultima universi pars dicta est illa, quae nunquam actu est.
Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus. This has
been said so that once the order of the universe has been seen it should appear
that we were imitating it in our present ordering. The necessary, which
signifies "to be in act” without potentiality or mutability, has been
placed first, in imitation of the first grade of the universe. We have put the
possible and contingent, both of which signify act with possibility, in second
place in conformity with the second grade of the universe. The possible has
been Placed before the contingent because the possible relates to act whereas
the contingent, as the force of the name suggests, relates to the defect of a
cause-which pertains to potency, for defect follows upon potency. The order of
these is similar to the order in the second part of the universe, where act is
prior to potency according to nature, though not according to time. We have
reserved the last place for the impossible because it signifies what never will
be, just as the last part of the universe is said to be that which is never in
act. Thus, a beautifully proportioned order is established when the divine is
observed. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 11 Quia autem suppositae modalium
consequentiae nil aliud sunt quam aequipollentiae earum, quae ob varium
negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt;
ideo ad completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et
quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius
ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis
et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum
dicti; praedicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale
praedicatum est (quia explicite vel implicite verbum continet, quod est semper
nota eorum quae de altero praedicantur: propter quod Aristoteles dixit quod
modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes
temporis. Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel
simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in
communi. Since the consequents of modals, i.e., those placed under each other,
are their equivalents in meaning, and these are produced by the varying
position of the negation changing the quality or quantity or both, a few things
must be said about their quality and quantity to complete our knowledge of
them. The nature of the whole arises from the parts, and therefore we should
note the following things about the parts of the modal enunciation. The subject
of the modal enunciation asserts to be or not to be, and is a singular dictum,
and contains in itself the subject of the dictum. The predicate of a modal
enunciation, namely, the mode, is the total predicate (since it explicitly or
implicitly contains the verb, which is always a sign of something predicated of
another, for which reason Aristotle says that the mode is a determining
addition) and contains in itself distributive force according to the parts of
time. The necessary and impossible distribute in all time either simply or in a
limited way; the possible and contingent distribute according to some time
commonly. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 12 Nascitur autem ex his quinque
conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo
enim quod tam subiectum quam praedicatum modalis verbum in se habet, duplex
qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde
et supra dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e
converso. Ex eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una
quantitas consurgit, quae vocatur quantitas subiecti dicti: et haec
distinguitur in universalem, particularem et singularem, sicut et quantitas
illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem
hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum
unius modalis dictum unum est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas
dicti; et haec unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque
modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet
quod cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc dictum,
hominem esse album, est possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et,
hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet
quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod
praedicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas
consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et haec distinguitur in universalem
et particularem. As a consequence of these five conditions there is a twofold
quality and a threefold quantity in any modal. The twofold quality results from
the fact that both the subject and the predicate of a modal have a verb in
them. One of these is called the quality of the dictum, the other the quality
of the mode. This is why it was said above that there is an enunciation which
is affirmative of mode and not of dictum, and conversely. Of the threefold
quantity of a modal enunciation, one arises from the fact that the subject of
the modal contains in it the subject of the dictum. This is called the quantity
of the subject of the dictum, and is distinguished into universal, particular,
and singular, as in the case of the quantity of an absolute enunciation. For we
can say: "That ‘Socrates,’ ‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’
run is possible’ " The second quantity is that of the dictum, which arises
from the fact that the subject of one modal is one dictum. This is a unique
singularity, for every dictum of a modal is the singular of that universal,
i.e.,dictum. "That man be white is possible” means "This dictum,
‘that man be white,’ is possible.” "This dictum” is singular in quantity,
just as "this man” is. Hence, every modal is singular with respect to
dictum, although with respect to the subject of the dictum it is universal or
particular. The third quantity is that of the mode, or modal quantity, which
arises from the fact that the predicate of the modal, i.e., the mode, has
distributive force. This is distinguished into universal and particular.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 13 Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est
quod hoc est singulare in modalibus, quod praedicatum simpliciter quantificat
propositionem modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est
simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua
modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius modus est
universalis, et illa particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia
modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius
primi) est, quod praedicatum modalis, scilicet modus, non habet solam
habitudinem praedicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed
habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium
subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis
eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria
quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen
quod significat per modum substantiae, cuius quantitas est per divisionem
continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes
subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est
tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria
quantitas est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum,
scilicet, esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter
inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis
quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est
simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni
tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel
impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est
necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni,
sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal,
est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui
passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiae), sed
derivatur a modo, non in quantum praedicatum est (quod, ut sic, tenetur
formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo
quod proprie modus est. Now, there are two things about modal enunciations that
must be carefully noted. The first—which is peculiar to modals—is that the
predicate quantifies the modal proposition simply, as it also qualifies it
simply. For just as the modal enunciation in which the mode is affirmed is
affirmative simply, and negative when the mode is negated, so the modal
enunciation in which the mode is universal is universal simply and particular
in which the mode is particular. The reason for this is that the modal follows
the nature of the mode. The second thing to be noted (which is the cause of the
first) is that the predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the
relationship of a predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not
to be”), but also has the relationship to the subject, of a distributive
syncategorematic term, which has the effect of distributing the subject, not
according to the quantity of its subjective parts, but according to the
quantity of the parts of its time. And rightly so, for just as the proper
quantity of the subject of an absolute enunciation varies according to the
division or lack of division of its subject (since the subject is a name which
signifies in the mode of substance, whose quantity is from the division of the
continuous, and therefore the quantifying sign distributes according to the
subjective parts), so, because the proper quantity of the subject of a modal
enunciation is time (since the subject is a verb, which signifies in the mode
of movement, whose proper quantity is time), the quantifying mode distributes
the subject, i.e., "to be” or "not to be” according to the parts of
time. Hence, we arrive at the subtle point that the quantity of the modal is
the quantity of the proper subject of the modal enunciation, namely, of
"to be” or "not to be.” Therefore, a modal enunciation is universal
simply when the proper subject is distributed throughout all time, either
simply, as in "That man is an animal is necessary or impossible,” or taken
in a limited way, as in "That man is running today,” or "while he is
running, is necessary or impossible.” A modal enunciation is particular in
which "to be” or "not to be” is distributed, not throughout all time,
but commonly throughout some time, as in "That man is an animal is
possible or contingent.” This modal quantity is therefore also a property of
its subject (in that, universally, quantity comes from the matter) but is
derived from the mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it
is understood formally), but insofar as it performs a syncategorematic
function, which it has in virtue of the fact that it is properly a mode.
Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 14 Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate
loquendo) aliae universales affirmativae, ut illae de necessario, quia
distribuunt ad semper esse; aliae universales negativae, ut illae de
impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliae particulares affirmativae,
ut illae de possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando
esse; aliae particulares negativae, ut illae de non necesse et non impossibili,
quia distribuunt ad aliquando non esse: sicut in illis de inesse, omnis,
nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia,
ut dictum est, haec quantitas modalium est inquantum modales sunt, et de his,
inquantum huiusmodi, praesens tractatus fit ab Aristotele; idcirco
aequipollentiae, seu consequentiae earum, ordinatae sunt negationis vario situ,
quemadmodum aequipollentiae illarum de inesse: ut scilicet, negatio praeposita
modo faciat aequipollere suae contradictoriae; negatio autem modo postposita,
posita autem dicti verbo, suae aequipollere contrariae facit; praeposita vero
et postposita suae subalternae, ut videre potes in consequentiarum figura
ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali praeformata oppositionum figura,
clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum
aequipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio
contradictorium, quarto vero subalternum. (Figura). Therefore, with respect to
their proper quantity, some modals are universal affirmatives, i.e., those of
the necessary because they distribute "to be” to all time. Others are
universal negatives, i.e., those of the impossible because they distribute "to
be” to no time. Still others are particular affirmatives, i.e., those
signifying the possible and contingent, for both of these distribute "to
be” to some time. Finally, there are particular negatives, i.e., those of the
not necessary and not impossible, for they distribute "not to be” to some
time. This is similar to the diversity in absolute enunciations from the use of
"every,” "no” "some,” not all,” and "not none.” Now, since
this quantity belongs to modals insofar as they are modals, as has been said,
and since Aristotle is now considering them in this particular respect, the
modal enunciations that are equivalent, i.e., their consequents, are ordered by
the different location of the negation, as is the case with absolute
enunciations that are equivalent. A negative placed before the mode makes an
enunciation equivalent to its contradictory; placed after the mode, i.e., with
the verb of the dictum, makes it equivalent to its contrary; placed before and
after the mode makes it equivalent to its subaltern, as you can see in the last
table of consequents given by Aristotle. In that table of oppositions, you see
all the mutual consequents, according to one of the three rules for making
enunciations equivalent. Consequently, the whole first order of equivalent
enunciations is contrary to the second, contradictory to the third, and the
fourth is subalternated to it. Necessary to be - contraries - Impossible to be
subalterns subalterns Possible to be - subcontraries - Contingent not to be
TABLE OF OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is not Cajetan’s but is a
full arrangement of the orders of modal enunciations asdeveloped in this
lesson. Close I Universal Affirmatives It is necessary to be It is not possible
not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be contraries
II Universal Negatives It is necessary not to be It is not possible to be It is
not contingent to be It is impossible to be subalterns subalterns IV Particular
Affirmatives It is not necessary not to be It is possible to be It is
contingent to be It is not impossible to be subcontraries III Particular
Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent
not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam determinatum est de
enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos,
quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in principio
huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quaestionem circa
oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici
enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet quaestionem secundo,
declarat quod haec quaestio dependet ab una alia quaestione praetractanda; ibi:
nam si ea, quae sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quaestionem;
ibi: nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quaestioni primo motae;
ibi: quare si in opinione et cetera. Quaestio quam movere intendit est: utrum
affirmativae enunciationi contraria sit negatio eiusdem praedicati, an
affirmatio de praedicato contrario seu privativo? Unde dicit: utrum contraria
est affirmatio negationi contradictoriae, scilicet, et universaliter oratio
affirmativa orationi negativae; ut, affirmativa oratio quae dicit, omnis homo
est iustus, illi contraria sit orationi negativae, nullus homo est iustus, aut
illi, omnis homo est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Et
similiter ista affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi
contradictoriae negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est
iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Now that he has treated
the enunciation as it is diversified by an addition made to the terms and by an
addition made to its composition (which is the division of the text made by St.
Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes up another
question about oppositions of enunciations. This question concerns the
oppositions that result from something added to the simple enunciation. First
he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon
another, which must be treated first, where he says, For if those things that
are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he
settles the latter question where he says, It is false, course, to suppose that
opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.;
finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is
the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound
are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is
the contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate
or the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There
is a question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory
negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative
speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is
just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the
affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And
similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the
contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to
"Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? Cajetanus
lib. 2 l. 13 n. 2Ad evidentiam tituli huius quaestionis, quia hactenus
indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione
sint duo, scilicet ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu
significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione
ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi
attendimus, duas species oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus,
contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisae enim superius sunt
enunciationes oppositae in contrarias et contradictorias. Contradictio inter
enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem
subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil
ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id
tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quae
contradictoriae vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est
iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc
provenit quod non possunt simul verae aut falsae esse, sicut nec duo
contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi
est quando idem praedicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut
sicut unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema
distantia sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit
subiectum commune sibi et suae oppositae in extrema distantia sub illo
praedicato. Huiusmodi quoque sunt omnes illae quae contrariae in figura
appellantur, scilicet, omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hae
enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa
enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista
autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter.
Maior enim distantia esse non potest quam ea, quae est inter totam
universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc
provenit quod non possunt esse simul verae, sicut nec contraria possunt eidem
simul inesse; et quod possunt esse simul falsae, sicut et contraria simul non
inesse eidem possunt. Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem attendamus
secundum unam tantum oppositionis speciem, in tota latitudine enunciationum
reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia
duarum enunciationum significationes entia positiva sunt, ac per hoc neque
contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque oppositionis
alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur, ut
clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since this question has
not been discussed by others, we must begin by noting that there are two things
in an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e., the signification, and
the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold opposition can be made
between enunciations, one by reason of the enunciation itself, the other by
reason of the mode of enunciating. If we consider the modes of enunciating, we
find two species of opposition among enunciations, namely, contrariety and
contradiction. This point was made earlier when opposed enunciations were
divided into contraries and contradictories. There is contradiction by reason
of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in
a contradictory mode; so that just as one of a pair of contradictories posits
nothing but only destroys the other, so one enunciation 4 asserts nothing, but
only destroys what the other was enunciating. All enunciations that are called
contradictories are of this kind; e.g., "Every man is just,” "Not
every man is just”; "Socrates is just,” "Socrates is not just.” It follows
from this that they cannot be at once true or false, just as two
contradictories cannot be at once. There is contrariety between enunciations by
reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same
subject in a contrary mode of enunciating; so that just as one of a pair of
contraries posits matter common to itself and to the other which is at the
extreme distance under that genus—as is evident for instance in white and
black—so one enunciation posits a subject common to itself and its opposite at
the extreme distance under that predicate. All the enunciations in the diagram
that are called contrary are of this kind, for example, "Every man is
just,” "No man is just.” These make the subject "man” distant to the greatest
degree possible under justice, one enunciating justice to be in man, not in any
way, but universally, the other enunciating justice to be absent from man, not
in any way, but universally. For no distance can be greater than the distance
between the total number of things having something and none of the total
number of things having that thing. It follows that contrary enunciations
cannot be at once true, just as contraries cannot be in the same thing at once.
They can, however, be false at the same time, just as it is possible that
contraries not be in the same thing at the same time. If we consider the
enunciation itself (viz., its signification) according to only one species of
opposition, we will find in the whole range of enunciations an opposition of
contrariety, i.e., an opposition according to truth and falsity. The reason for
this is that the significations of two enunciations are positive, and
accordingly cannot be opposed either contradictorily or privatively because the
other extreme of both of these oppositions is formally non-being. And since
significations are not opposed relatively, as is evident, the only way they can
be opposed is contrarily. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 3Consistit autem ista
contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel
in veritate vel in falsitate, praesuppositis semper conditionibus contrariorum,
scilicet quod fiant circa idem et in eodem tempore. Patere quoque potest talem
oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animae componentis et dividentis,
quarum singulae sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animae adaequatae
nullo alio modo opponuntur conceptionibus inadaequatis nisi contrarie, et ipsae
conceptiones inadaequatae, si se mutuo expellunt, contrariae quoque dicuntur.
Unde verum et falsum, contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17.
Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsae significationes adaequatae
contrarie opponuntur inadaequatis, idest verae falsis; et ipsae inadaequatae,
idest falsae, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non
compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in
enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione
significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio
vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas
formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem quia unica est, sed
ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest. Invenitur
autem contrarietas formalis enunciationum inter omnes contradictorias, quia
contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias
modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul verae, licet non
inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia possunt esse simul falsae. The
contrariety spoken of here consists in this: of two enunciations one is not
compatible with the other either in truth or falsity—presupposing always the
conditions for contraries, that they are about the same thing and at once. It
can be shown that such opposition is contrariety from the nature of the
conceptions of the soul when composing and dividing, each of which is an
enunciation. Adequate conceptions of the soul are opposed to inadequate
conceptions only contrarily, and inadequate conceptions, if each cancels the
other, are also called contraries. It is from this that St. Thomas proves, in
[Summa theologiae] part I, question 17, that the true and false are contrarily
opposed. Therefore, as in the conceptions of the soul, so in enunciations,
adequate significations are contrarily opposed to inadequate, i.e., true to
false; and the inadequate, i.e., the false, are also contrarily opposed among
themselves if it happens that they are not compatible, supposing always the
conditions for contraries. There is, therefore, in enunciations a twofold
contrariety, one by reason of mode, the other by reason of signification, and
only one contradiction, that by reason of mode. To avoid confusion, let us call
the first contrariety modal and the second formal. We may call contradiction
modal—not to avoid confusion since it is unique—but for propriety of
expression. Formal contrariety is found between all contradictory enunciations,
since one contradictory always excludes the other. It is also found between all
modally contrary enunciations in regard to truth, since they cannot be at once
true. However it is not found between the latter in regard to falsity, since
they can be at once false. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 4Quia igitur Aristoteles
in hac quaestione loquitur de contrarietate enunciationum quae se extendit ad
contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio et in fine
quaestionis (in principio quidem, quia proponit utrasque contradictorias
dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: et oratio
orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera.
In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativae
universali verae dividit, in contrariam modaliter universalem negativam,
scilicet, et contradictoriam: quae divisio falsitate non careret, nisi
conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic accipit
contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quaestio
intelligenda est. Et est quaestio valde subtilis, necessaria et adhuc nullo
modo superius tacta. Est igitur titulus quaestionis; utrum affirmativae verae
contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem praedicati, aut affirmativa
falsa de praedicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et
quare non movet quaestionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia
scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit
contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur
inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero fuit a s.
Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici
enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente
enunciationes attendantur, non habet haec quaestio radicem. Quia autem simplici
enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet
praedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in
contrariis debeat esse illudmet praedicatum, negatione apposita verbo, an debeat
esse praedicatum contrarium seu privativum, absque negatione praeposita verbo. Aristotle
in this question is speaking of the contrariety of enunciations that extends to
contraries modally and to contradictories. This is evident from what he says in
the beginning and at the end of the question. In the beginning, he proposes
both contradictories when he says, an affirmation... to a negation, etc.; and
contraries modally, when he says, and in the case of speech whether the one
saying... is opposed to the one saying... etc. It is evident, too, from the
examples immediately added. At the end, he explicitly divides what he has
concluded to be contrary to a true universal affirmative, into the modally
contrary universal negative and the contradictory. It is clear at once that
this division would be false unless it comprised the contrary formally. Since
he takes contrariety in this way the question must be understood with respect
to formal contrariety of enunciations. This is a very subtle question and one
that has to be treated and has not been thus far. The question, therefore, is
this: whether the formal contrary of the true affirmative is the false negative
of the same predicate or the false affirmative of the privative predicate,
i.e., of the contrary. The meaning of the question is now clear, and it is
evident why he does not ask about any other oppositions of enunciations-no
other opposition is found in them formally. It is also evident that he is
taking contrariety properly and strictly, notwithstanding the fact that such
contrariety is found among contradictories modally and contraries modally. St.
Thomas has already pointed out that this question arises from the fact that
something is added to the simple enunciation, for as it far as simple
enunciations are concerned, i.e., those with only a second determinant, there
is no occasion for the question. When, however, something is added, namely a
predicate, to the simple enunciation, i.e., to the subject and the substantive
verb, the question arises as to whether what ought to be added in contrary
enunciations is the selfsame predicate with a negation added to the verb or a
contrary, i.e., privative, predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde
cum dicit: nam siea etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quaestionis.
Et duo facit: quia primo declarat quod haec quaestio dependet ex una alia
quaestione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio animae, in secunda
operatione intellectus, vera, contraria sit opinioni falsae negativae eiusdem praedicati,
an falsae affirmativae contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa
quaestio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur
mentales, ut effectus adaequati causas proprias, et ut significata signa
adaequata, et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab
hac causa ait: nam si ea quae sunt in voce sequuntur ea, quae sunt in anima, ut
dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii
praedicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quae affirmat
reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istae mentales enunciationes,
omnis homo est iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in
his affirmationibus quae sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est
similiter se habere, ut scilicet sint contrariae duae affirmativae de eodem
subiecto et praedicatis contrariis. Quod si neque illic, idest in anima,
opinatio contrarii praedicati, contrarietatem inter mentales enunciationes
constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de
contrario praedicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem
praedicati. When Aristotle says, For if those things that are in vocal sound
are determined by those in the intellect, etc.; he shows where we have to begin
in order to settle this question. First he shows that the question depends on
another question, namely, whether a true opinion (i.e., a conception of the
soul in the second operation of the intellect) is contrary to a false negative
opinion of the same predicate, or to a false affirmative of the contrary, i.e.,
privative, predicate. Then he gives the reason why the former question depends
on this. Vocal enunciations follow upon mental as adequate effects upon proper
causes and as the signified upon adequate signs. So, in this the nature of each
is similar. He begins, then, with the reason for this dependence: For if those
things that are in vocal sound are determined by those in the intellect (as was
said in the beginning of the first book) and if in the soul, those opinions are
contrary which affirm contrary predicates about the same subject, (for example,
the mental enunciations, "Every man is just, "Every man is unjust”),
then in affirmations that are in vocal sound, the case must be the same. The
contraries will be two affirmatives about the same subject with contrary
predicates. But if in the soul this is not the case, i.e., that opinions with
contrary predicates constitute contrariety in mental enunciations, then the
contrary of a vocal affirmation will not be a vocal affirmation with a contrary
predicate. Rather, the contrary of an affirmation will be the negation of the
same predicate. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 6Dependet ergo mota quaestio ex ista
alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum, quod
scilicet de hac quaestione prius tractandum est, ut ex causa cognita effectus
innotescat dicens: quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsae
contraria est: utrum negationi falsae an certe ei affirmationi falsae, quae
contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico hoc modo: sunt
tres opiniones de bono, puta vita: quaedam enim est ipsius boni opinio vera,
quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa, scilicet,
quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit bona; alia item falsa
affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta, quod vita sit mala.
Quaeritur ergo quae harum falsarum contraria est verae? The first question,
then, depends on this question as an effect upon its cause. For this reason,
and by way of a conclusion to what he has just been saying, he adds the second
question, which must be treated first so that once the cause is known the
effect will be known: We must therefore consider to which false opinion the
true opinion is contrary, whether it is to the false negation or to the false
affirmation that it is to be judged contrary. Then in order to propose the
question by examples he says: what I mean is this; there are three opinions of
a good, for instance, of life. One is a true opinion, that it is good, for
instance, that life is good. The other is a false negative, that it is not
good, for instance, that life is not good. Still another, likewise false, is
the affirmative of the contrary, that it is evil, for instance, that life is
evil. The question is, then, which of these false opinions is contrary to the
true one. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 7Quod autem subdidit: et si est una,
secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut sit
pars quaestionis; et tunc est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria
est verae: et simul quaeritur, si est tantum una harum falsarum secundum quam
fiat contraria ipsi verae: quia cum unum uni sit contrarium, ut dicitur in X
metaphysicae, quaerendo quae harum sit contraria, quaeremus etiam an una earum
sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quaeritur
quae harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est
secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo hanc
particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est; et
tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus:
quaeritur quae harum falsarum contraria est verae, non solum si istae duae
falsae inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest
alteri indivisibiliter unita, quaeritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc
modo exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit haec verba propter
contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter
contraria enim mediata et immediata haec est differentia, quod in immediatis a
privativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile est non
album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis autem valet;
verbi gratia: animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non par, ergo
impar. Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quaerimus quae harum
falsarum, scilicet negativae et affirmativae contrarii, sit contraria
affirmativae verae, quaerimus universaliter sive illae duae falsae
indivisibiliter se sequantur, sive non. 7.
Then he adds, the question, and if there is one, is either one the contrary.
This passage can be read in three ways. It can be read inquiringly so that it
is a part of the question, and then the meaning is: which of these false
opinions is contrary to the true opinion, and, is there one of these by which
the contrary to the true one is effected? For since one is contrary to one
other, as is said in X Metaphysicae [1: 1055a 19], in asking which of these is
the contrary we are also asking whether one of them is the contrary. This can
also be read adversatively, and then the meaning is: which of these is the
contrary, given that we know it is not both but one by which the contrariety is
effected? This can be read in a third way by dividing the first clause,
"and if it is one” from the second clause, "is either one the
contrary.” The first part is then read assertively, the second inquiringly, and
the meaning is: which of these two false opinions is contrary to the true
opinion if the two false opinions differ as to consequence, and also if both
are one, i.e., united to each other indivisibly? Boethius explains this passage
in the last way. He says that Aristotle adds these words because of immediate
contraries in which the contrary does not differ from the privative. For the
difference between mediate and immediate contraries is that in the former the
contrary is not inferred from the privative. For example, this is not valid:
"A colored body is not white, therefore it is black”—for it could be red.
In immediate contraries, on the other hand, it is valid to infer the contrary
from the privative; e.g., "An animal is not healthy, therefore it is
number is not even, therefore it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show
here that when we ask which of these false opinions, i.e., negative and
affirmative contraries, is contrary to the true affirmative, we are asking
universally whether these two false opinions follow each other indivisibly or
not. 8. Deinde cum dicit: nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quaestionem.
Et circa hoc quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum non
attenditur penes contrarietatem materiae, circa quam versantur, sed potius
penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quaecunque
opposita secundum veritatem et falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si
ergo boni etc.; tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes
per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi:
sed in quibus primo fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem
inveniri in omnibus veram; ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo
proponens intentam conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri
seu determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et
adducit ad hoc duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariae non sunt
eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non
sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones
contrariae non sunt simul verae; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive
una, sunt simul verae quandoque; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod
contrariorum sunt. Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque
minoris declarationem simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali,
quoniam malum est, eadem fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse
vera, sive plures sive una sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo
adverbio et disiunctione, quia non est determinandi locus an contrariorum eadem
sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur
de habituali opinione, sic eadem est; si autem de actuali, sic non eadem est.
Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum,
et alia concipiendo malum esse malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus,
illud per se primo, et hoc secundario, ut dicitur IX metaphysicae. Deinde
subdit quod ista quae ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et
malum, contraria sunt etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per
hoc congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo
quod contrariorum opiniones sunt, contrariae sunt, sed magis in eo quod
contrariae, idest, sed potius censendae sunt opiniones contrariae ex eo quod
contrariae adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false
enunciant. Et sic patet primum. When he says, It is false, of course, to
suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about
contraries, etc., he proceeds with the second question. First he shows that
contrariety of opinions is not determined by the contrariety of the matter
involved, but rather by the opposition of true and false; secondly, he shows
that there is not contrariety of opinions in just any opposites according to
truth and falsity, where he says, Now if there is the opinion of that which is
good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc.; third, he
determines that contrariety of opinions is concerned with the per se first
opposites; according to truth and falsity, for three reasons, where he says,
Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to
true opinions, etc.; finally, he shows that this determination is true of all,
where he says, It is evident that it will make no difference if we posit the
affirmation universally, for the universal negation will be the contrary, etc.
Aristotle says, then, proposing the conclusion he intends to prove, that it is
false to suppose that opinions are to be defined or determined as contrary
because they are about contrary objects. He gives two arguments for this.
Contrary opinions are not the same opinion; but opinions about contraries are
probably the same opinion; therefore, opinions are not contrary from the fact
that they are about contraries. And, contrary opinions are not simultaneously
true; but opinions about contraries, whether many or one, are sometimes true
simultaneously; therefore, opinions are not contraries because they are about
contraries. Having supposed the majors of these arguments, he posits a
manifestation of each minor at the same time. In relation to the first
argument, he says, for the opinion of that which is good, that it is good, and
of that which is evil, that it is evil are probably the same. In relation to
the second argument he adds: and, whether many or one, are true. He uses
"probably,” an adverb expressing doubt and disjunction, because this is
not the place to determine whether the opinion of contraries is the same
opinion, and, because in some way the opinion is the same and in some way not.
In the case of habitual opinion, the opinion of contraries is the same, but in
the case of an actual opinion it is not. One mental composition is actually
made in conceiving that a good is good and another in conceiving that an evil
is evil, although we know both by the same habit, the former per se and first,
the latter secondarily, as is said in IX Metaphysicae [4: 1051a 4]. Then he
adds that good and evil—which are used for the manifestation of the minor—are
contraries even when the contrariety is taken strictly in moral matters; and so
in using this our exposition is apposite. Finally, he draws the conclusion:
however, opinions are not contraries because they are about contraries, but
rather because they are contraries, i.e., opinions are to be considered as
contrary from the fact that they enunciate contrarily, adverbially, i.e., in a
contrary mode, i.e., they enunciate truly and falsely. Thus the first argument
is clear. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 9Si ergo boni et cetera. Quia dixerat quod
contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis
earum, declarat modo quod non quaecunque secundum veritatem et falsitatem
oppositae opiniones sunt contrariae, tali ratione. De bono, puta, de iustitia,
quatuor possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non
est bona, et quod est fugibilis, et quod est non appetibilis. Quarum prima est
vera, reliquae sunt falsae. Inter quas haec est diversitas quod, prima negat
idem praedicatum quod vera affirmabat; secunda affirmat aliquid aliud quod bono
non inest; tertia negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera
affirmabat. Tunc sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt
contrariae, tunc uni, scilicet verae opinioni non solum multa sunt contraria,
sed etiam infinita: quod est impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet
consequentia, quia possunt infinitae imaginari opiniones falsae de una re
similes ultimis falsis opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quae non
insunt illi, et negantes ea quae illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque
namque indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod
iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter
opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus.
Unde ex supradictis in propositione quaestionis, inferens pluralitatem falsarum
contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiae, quoniam
est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non
est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud
inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit
fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quae
scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiae,
quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita
inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni verae. Et
exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quaecunque opinio
opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque
quaecunque opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones
significant. Et causam subdit: infinitae enim utraeque sunt, et quae esse
opinantur quod non est, et quae non esse quod est, ut supra declaratum fuit.
Non ergo quaecunque opiniones oppositae secundum veritatem et falsitatem
contrariae sunt. Et sic patet secundum.When he says, Now, if there is the
opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not
good, etc., he takes up the second point. Since he has just said that
contrariety of opinions is taken according to their opposition of truth and
falsity, he goes on to show that not just any opposites according to truth and
falsity are contraries. This is his argument. Four opinions can be held about a
good, for instance justice: that justice is good, that it is not good, that it
is avoidable, that it is not desirable. Of these, the first is true, the rest
false. The three false ones are diverse. The first denies the same predicate
the true one affirmed; the second affirms something which does not belong to
the good; the third denies what belongs to the good, but something other than
the true one affirmed. Now if all opinions opposed as to truth and falsity are
contraries, then not only are there many contraries to one true opinion, but an
infinite number. But this is impossible, for one is contrary to one other. The
consequence holds because infinite false opinions about one thing, similar to
those cited, can be imagined; such opinions would affirm of it what does not
belong to it and deny what is joined to it in some way. Both kinds are
indeterminate and without number. We can think, for instance, that justice is a
quantity, that it is a relation, that it is this and that; and likewise we can
think that it is not a quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from
what was said above in proposing the question, Aristotle infers a plurality of
false opinions opposed to one true opinion: Now if there is the opinion of that
which is good, for instance justice, that it is good, and there is a false
opinion denying the same thing, namely, that it is not good, and besides these
a third opinion, false also, affirming that some other thing belongs to justice
that does not belong and cannot belong to it (for instance, that justice is
avoidable, that it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies
something other than the true opinion affirms, something, however, which does
belong to justice (for instance, that it is not a quality, that it is not a
virtue), none of these other false enunciations are to be posited as the
contrary of the true opinion. To explain what he is designating by "of
these others,” he adds, neither those purporting that what is not, is, as
opinions of the third order do, nor those purporting that what is, is not, as
opinions of the fourth order signify. Then he adds the reason these cannot be
posited as the contrary of the true opinion: for both the opinions that that is
which is not, and that which is not, is, are infinite, as was shown above.
Therefore, not just any opinions opposed according to truth and falsity are
contraries. Thus the second argument is clear. XIV. Cajetanus lib. 2 l. 14 n.
1Quia subtili indagatione ostendit quod nec materiae contrarietas, nec veri
falsique qualiscunque oppositio contrarietatem opinionum constituit, sed quod
aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis
sit illa veri falsique oppositio, quae opinionum contrarietatem constituit. Ex
hoc enim directe quaestioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum
secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit
contrarietatem earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad
quaesitum respondet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem
eiusdem de eodem sunt contrariae; et consequenter illae, quae sunt oppositae
secundum affirmationem contrariorum praedicatorum de eodem, non sunt
contrariae, quia sic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est
impossibile. Unum enim uni est contrarium.Aristotle has just completed a subtle
investigation in which he has shown that contrariety of matter does not
constitute contrariety of opinion, nor does just any kind of opposition of true
and false, but some opposition of true and false does. Now he intends to
determine what kind of opposition of true and false it is that constitutes
contrariety of opinions, for this will answer the question directly. He
maintains that only opposition of opinions according to affirmation and negation
of the same thing of the same thing, etc., constitutes their contrariety.
Accordingly, as the response to the question, he intends to prove the following
conclusion: opinions opposed according to affirmation and negation of the same
thing of the same thing are contraries; and consequently, opinions opposed
according to affirmation of contrary predicates of the same subject are not
contraries, for if these were contraries, the true affirmative would have two
contraries, which is impossible, since one is contrary to one other. Cajetanus
lib. 2 l. 14 n. 2Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. Prima est:
opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariae; opiniones oppositae
secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est
fallacia; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem
de eodem sunt contrariae. Sensus maioris est: opiniones quae primo ordine
naturae sunt termini fallaciae, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariae:
sunt enim, cum quis fallitur seu errat, duo termini, scilicet a quo declinat,
et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur:
sed in quibus primo fallacia est; adversative enim continuans sermonem
supradictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas
in quibus primo fallacia est modo exposito. Deinde subdit probationem minoris
talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus
sunt fallaciae; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et
negationem; ergo et fallaciae sunt ex oppositis secundum affirmationem et
negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius
prosyllogismi, ait: haec autem, scilicet fallacia, est ex his, scilicet
terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit
minorem: ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et
generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia, scilicet, est ex
oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem. Aristotle uses
three arguments to prove this conclusion. The first one is as follows: Those
opinions in which there is fallacy first are contraries. Opinions opposed
according to affirmation and negation of the same predicate of the same subject
are those in which there is fallacy first. Therefore, these are contraries. The
sense of the major is this: Opinions which first in the order of nature are the
limits of fallacy, i.e., of deception or error, are contraries; for when
someone is deceived or errs, there are two limits, the one from which he turns
away and the one toward which he turns. In the text the major of the argument
is posited first: Rather, those opinions in which there is fallacy must be
posited as contrary to true opinions. By uniting this part of the text
adversatively with what was said previously, Aristotle implies that not just
any of the number of opinions enumerated are contraries, but those in which
there is fallacy first in the manner we have explained. Then he gives this
proof of the minor: those things from which generations are and from which
fallacies are, are the same proportionally; generations are from opposites
according to affirmation and negation; therefore fallacies, too, are from
opposites according to affirmation and negation (which was assumed in the
minor). Hence he posits the major of this prosyllogism: Now the things from
which fallacies arise, namely, limits, are the things from which generations
arise—proportionally however. Under it he posits the minor: but generations are
from opposites, i.e., according to affirmation and negation. Finally, he
concludes, therefore also fallacies, i.e., they are from opposites according to
affirmation and negation of the same thing of the same thing. Cajetanus lib. 2
l. 14 n. 3Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu
intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in processu naturae generatio
et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur,
corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales
acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam
generatio quam corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios
terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa
illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id
ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione intellectus est
veritatis affirmatio, et quod per se primo abiicitur est illius negatio. Et similiter
quod per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et quod primo
incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt termini inter
quos primo est generatio, et illi inter quos est primo fallacia, quia utrobique
termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more evident from the
following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the same thing in the
intellect’s progression as generation and corruption do in nature’s
progression. For just as natural perfections are acquired by generations and
perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired by knowledge
and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation and
corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said in
V Physicae [1:224b 35] so both to know something and to be deceived about it is
between affirmation and negation as proper terms. Consequently, what one who
knows attains first in the second operation of the intellect is affirmation of
the truth, and what he rejects per se and first is the negation of it. In like
manner, what he who is deceived loses per se and first is affirmation of the
truth, and acquires first is negation of the truth. Therefore Aristotle is
correct in maintaining that the terms between which there is generation first
and between which there is fallacy first are the same, because with respect to
both, the terms are affirmation and negation. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 4Deinde
cum dicit: si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis
rationis. Et quia iam declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt
affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandae, scilicet, opiniones
in quibus primo est fallacia, sunt contrariae, sua conclusione, scilicet,
opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt
contrariae. Aequivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc consuetae
brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet
directe quaestioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris
conclusionem principaliter intentam quaestionis, hanc, scilicet: opiniones
oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae; et non
illae, quae sunt oppositae secundum contrariorum affirmationem de eodem. Et
intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariae
opiniones; oppositae secundum affirmationem et negationem sunt vera et eius
magis falsa; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem sunt
contrariae. Maior probatur ex eo quod, quae plurimum distant circa idem sunt
contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut
patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de
eodem est per se falsa respectu suae affirmationis verae. Opinio autem per se
falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale,
magis tale est quolibet quod est per aliud tale. When he says, Now, if that
which is good is both good and not evil, the former per se, the latter accidentally,
etc., he intends to prove the major of the principal argument. He has already
shown that the opinions in which there is fallacy first are affirmation and
negation, and therefore in place of the major to be proved (i.e., opinions in
which it there is fallacy first are contraries) he uses his conclusion—which
has already been shown to be equivalent—that opinions opposed according to
affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus with his
customary brevity he at once proves the major, responds directly to the
question, and applies it to what he has proposed. In place of the major, then,
he proves the conclusion principally intended, i.e., that opinions opposed
according to affirmation and negation of the same thing are contraries, and not
those opposed according to affirmation of contraries about the same thing. His
argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more false in
respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to
affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more
false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation
and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are
most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the
more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The
proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing
of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it.
But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that
is per se such is more such than anything that is such by reason of something
else. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 5Unde ad suprapositas opiniones in propositione
quaestionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a
probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duae verae,
scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et duae falsae, scilicet, bonum
non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est
ratione sui, secunda autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius,
quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera,
bonum non est malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quae est
secundum se vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quae
secundum se est vera est magis vera. Illae autem duae falsae eodem modo
censendae sunt, quod scilicet magis falsa est, quae secundum se est falsa. Unde
quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum, quae est negativa, est per se
et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum;
et secunda, scilicet, bonum est malum, quae est affirmativa contrarii, ad
eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim,
scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet
bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum);
idcirco magis falsa respectu affirmationis verae est negatio eiusdem quam
affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore. Accordingly, returning to
the opinions already given in proposing the question so as to show his
intention more clearly by example, he begins with the proof of the minor. There
are four opinions, of which two are true, "A good is good,” "A good
is not evil”; two are false, "A good is not good” and "A good is
evil.” It is evident that the first is true by reason of itself, the second
accidentally, i.e., by reason of another, for not to be evil is added to that
which is good. Hence, "A good is not evil” is true because a good is good,
and not contrarily. Therefore, the first of these opinions, which is per se
true, is more true than the second, for in each genus that which per se is true
is more true. The two false opinions are to be judged in the same way. The more
false is the one that is per se false. The first of them, the negative, "A
good is not good,” in relation to the affirmative, "A good is good,” is
per se false, not false by reason of another. The second, the affirmative of
the contrary, "A good is evil,” in relation to the same opinion, is false
accidentally, i.e., by reason of another (for "A good is evil” is not
immediately falsified by the true opinion, "A good is good,” but mediately
through the other false opinion "A good is not good”). Therefore, the
negation of the same thing is more false in respect to a trite affirmation than
the affirmation of a contrary. This was assumed in the minor. Cajetanus lib. 2
l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert
primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et bonum est et non
est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum
se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit secunda opinio, est
verum secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum est ei, scilicet bono,
malum non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quae secundum se
est vera. Etiam igitur falsa magis est quae secundum se falsa est: siquidem et
vera huius est naturae, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quae
secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quaestione
propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quae est
dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa; scilicet, bonum
non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in
seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quae est dicens, quoniam
malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est malum, eius, quae
est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum, secundum accidens,
idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit
magis falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem
dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam
opinionem, ac si dixisset, verae opinioni magis falsa est contraria. Quod
assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de
numero eorum quae circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera
opinione quam magis falsa circa illam. As was pointed out above, Aristotle
returns to the opinions already posited, and infers the first two true
opinions: Now if that which is good is both good and not evil, and if what the
first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself, and what the
second opinion says is trite accidentally (since it is accidental to it, i.e.,
added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each order that
which is per se true is more true, then that which is per se false is more
false, since, as has been shown, the true also is of this nature, namely, that
the more true is that which per se is true. Therefore, of the two false
opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and
"A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely,
the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of
itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is
evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to
the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by
reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the negation
of the good will be more false than the opinion affirming a contrary. Next, he
posits the major, the one who holds the contrary judgment about each thing is
most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is more
false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for
contraries are those that differ most with respect to the same thing, for
nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect
to it. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quaestionem
dicens: quod si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et
affirmationis contrarii, altera est contraria verae affirmationi, opinio vero
contradictionis, idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria secundum
falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam haec, scilicet
opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi verae, et e contra. Illa
vero opinio quae est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest,
affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed implicans in
se verae contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse est ipsum
opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat
contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est mala,
quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et
non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem
eiusdem de eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally, he
directly approaches the question. If (for "since”), then, of two opinions
(namely, false opinions—the negation of the same thing and the affirmation of a
contrary), one is the contrary of the true affirmation, and, the contradictory
opinion, i.e., the negation of the same thing of the same thing, is more
contrary according to falsity, i.e., is more false, it is evident that the
false opinion of negation will be contrary to the true affirmation, and
conversely. The opinion saying that what is good is evil, i.e., the affirmation
of a contrary, is not the contrary but implies it, i.e., it implies in itself
the opinion contrary to the true opinion, i.e., "A good is not good.” The
reason for this is that the one conceiving the affirmation of a contrary must conceive
that the same thing of which he affirms the contrary, is not good. If, for
example, someone conceives that life is evil, he must conceive that life is not
good, for the former necessarily follows upon the latter and not conversely.
Hence, affirmation of a contrary is said to be implicative, but negation of the
same thing of the same thing is not implicative. This concludes the first
argument. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 8Notandum est hic primo quod ista regula
generalis tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod scilicet
contrariae opiniones sunt quae opponuntur secundum affirmationem et negationem
eiusdem de eodem, et in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus
scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio
secundum affirmationem et negationem non constituat contrarietatem sed
contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas
secundum affirmationem et negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et
dubitatio quia dixit quod ea in quibus primo est fallacia sunt contraria, et
tamen subdit quod sunt oppositae sicut termini generationis, quos constat
contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra
diximus ex intentione s. Thomae, quod nullae duae opiniones opponantur
contradictorie, cum hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmationem
et negationem. Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit, quod contraria
cuiusque verae est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam contraria
istius verae, Socrates est albus, est ista, Socrates non est albus, secundum
determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua opposita
affirmatio est per accidens vera, ita ista est per accidens falsa. Accidit enim
isti enunciationi falsitas. Potest enim mutari in veram, quia est in materia
contingenti. Dubium est tertio circa id quod dixit: magis vero contradictionis
est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod utraque, scilicet, opinio
negationis et contrarii, sit contraria verae affirmationi; et consequenter vel
uni duo ponit contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie sumpta:
cuius oppositum supra ostendimus. The general rule about the contrariety of
opinions that Aristotle has given here (namely, that contrary opinions are those
opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same
thing) is accurate both in itself and in the propositions assumed for its
proof. Many questions may arise, however, as a consequence of this doctrine and
its proof. First of all, all philosophers hold that opposition according to
affirmation and negation constitutes contradiction, not contrariety. How, then,
can Aristotle maintain that opinions opposed in this way are contraries? The
difficulty is augmented by the fact that he has said that those opinions in
which there is fallacy first are contraries, yet he adds that they are opposed
as the terms of generation are, which he establishes to be opposed
contradictorily. In addition, there is a difficulty as to the way in which the
assertion of St. Thomas, which we used above, is true, namely, that no two
opinions are opposed contradictorily, since here it is explicitly said that
some are opposed according to affirmation and negation. The second uestion
involves his assumption that the contrary of each true opinion is per se false.
This does not seem to be true, for according to what was determined previously,
the contrary of the true opinion "Socrates is white” is "Socrates is
not white.” But this is not per se false, for the opposed affirmation is true
accidentally, and hence its negation is false accidentally. Falsity is
accidental to such an enunciation because, being in contingent matter, it can
be changed into a true one. A third difficulty arises from the fact that
Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary. He seems to be
proposing, according to this, that both the opinion of the negation and of a
contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he is either
positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety strictly,
although we showed above that he was taking contrariety properly and strictly.
Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 9Ad evidentiam omnium, quae primo loco adducuntur,
sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione
de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt
absolute; alio modo, secundum ea quae repraesentant absolute; tertio, secundum
ea quae repraesentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia
non est praesentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo
secundum repraesentata, sic invenitur inter eas et contradictionis, et
privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio,
Socrates est videns, secundum id quod repraesentat opponitur illi, Socrates non
est videns, contradictorie; privative autem illi, Socrates est caecus;
contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur secundum
repraesentata. Ut enim dicitur in postpraedicamentis, non solum caecitas est privatio
visus, sed etiam caecum esse est privatio huius quod est esse videntem, et sic
de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout
repraesentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas invenitur
nisi contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive privative sive
contrarie repraesententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis
capaces sunt, quae inter duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque
realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum
esse quod habet in alio, secundum modum et naturam illius in quo est sibi
convenit, et non secundum quod exigeret natura propria. Inter entia autem
realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de oppositione
relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptae, si oppositae sunt, contrarietatem
sapiunt, sed non omnes proprie contrariae sunt, sed illae quae plurimum
differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse
opiniones affirmationis et negationis eiusdem de eodem. Istae igitur verae
contrariae sunt. Reliquae vero per reductionem ad has contrariae dicuntur. In
order to answer all of the difficulties in regard to the first argument it must
be noted that opinions, or intellectual conceptions in the second operation,
can be taken in three ways: (1) according to what they are absolutely; (2)
according to the things they represent absolutely, (3) according to the things
they represent, as they are in opinions. We will omit the first since it does
not belong to the present consideration. If they are taken in the second way,
i.e., according to the things represented, there can be opposition of
contradiction, of privation, and of contrariety among them. The mental
enunciation "Socrates sees,” according to what it represents, is opposed
contradictorily to. Socrates does not see”; privatively to "Socrates is
blind”; contrarily to "Socrates is purblind.” Aristotle points out the
reason for this in the Postpredicamenta [Categ. 10: 12a 35]: not only is
blindness privation of sight but to be blind is also a privation of to be
seeing, and so of others. Opinions taken in the third way, i.e., as the things
represented through opinions are in the opinions, have no opposition except
contrariety; for opposites as they are in opinions, whether represented
contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the opposition that
can be found between two real beings, for opinions are real beings. The rule is
that whatever belongs to something according to the being which it has in
another, belongs to it according to the mode and nature of that in which it is,
and not according to what its own nature would require. Now, between real
beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the
consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode,
if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries
properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the
same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are -
judgments affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore,
these are the true contraries. The rest are called contraries by reduction to
these. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 10 Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit.
Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt;
in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter
extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet veram
et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in quibus
primo est fallacia, sint opposita ut termini generationis, et tamen sint
contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie ut
termini generationis secundum repraesentata; sunt autem contraria, secundum
quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. Liquet
quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomae,
quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse
confitemur, si ad repraesentata nos convertimus, ut hic dicitur. From this the
answer to the objections is clear. We grant that affirmation and negation in
themselves constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and
negation cause contrariety between opinions because of the extreme distance
they posit between real beings, namely, true opinion and false opinion in
respect to the same thing. And these two stand at the same time: those in which
there is fallacy first are opposed as the terms of generation are and yet they
are contraries by the use of the foresaid distinction—for they are opposed
contradictorily as terms of generation according to the things represented, but
they are contraries insofar as they have in themselves those contradictories
and hence differ most. It is also evident that there is no disagreement between
Aristotle and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions
are opposed according to affirmation and negation if we consider the things
represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris
ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam
tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas
vero secundum repraesentata, similitudo quaedam generationis et corruptionis
invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et
fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa
respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis
mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet
absque praeopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque
vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in
falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis
fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus
primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted,
however, by those of you who are more penetrating and advanced in your
thinking, that between opposite opinions there is something of true motion when
a change is made from the affirmed to the affirmed; but according to the order
of representation there is a certain similitude to generation and corruption so
long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently,
fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect
of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion
from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change
alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart
from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every
respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the
false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first
root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle
is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as
are the terms of generation. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod
peccatur ibi secundum aequivocationem illius termini per se falsa, seu per se
vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera
seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes verae secundum illos modos
perseitatis qui enumerantur I posteriorum, et similiter falsae secundum
illosmet modos, ut, homo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac
regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera aut
falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem
opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones contrariae in materia
contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio
per se vera aut falsa respectu suae oppositae. Per se vera quidem respectu suae
falsae, et per se falsa respectu suae verae. Et tunc nihil aliud est dicere,
est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius
verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa
respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur ex
illius veritate. Verbi gratia; istius verae, Socrates currit, non est per se
falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed
mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quae est per se illius falsa,
quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut
patet. Et similiter istius falsae, Socrates est quadrupes, non est per se vera
ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat,
sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quae est per se vera respectu
illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc
secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum
et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia
regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se vera,
sunt contrariae. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit accipiendo
ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the second
question, I say that there is an equivocation of the term "per se false”
and "per se true” in the objection. Opinion, as well as enunciation, can
be called per se true or false in two ways. It can be called per se true in
itself. This is the case in respect to all opinions and enunciations that are
in accordance with the modes of perseity enumerated in I Posteriorum [4: 73a;
34–73b 15]. Similarly, they can be said to be per se false according to the
same modes. An example of this would be "Man is not an animal.” Per se
true or false is not taken in this mode in the rule about contrariety of
opinions and enunciations, as the objection concludes. For if this were needed
for contrariety of opinions there could not be contrary opinions in contingent
matter, which is false. Secondly, an opinion or enunciation can be said to be
per se true or false in respect to its opposite: per se true with respect to
its opposite false opinion, and per se false with respect to its opposite true
opinion. Accordingly, to say that an opinion is per se true in respect to its
opposite is to say that on its own account and not on account of another it is
verified by the falsity of its opposite. Similarly, to say that an opinion is
per se false in respect to its opposite means that on its own account and not
on account of another it is falsified by the truth of the opposite. For
example, the opinion that is per se false in respect to the true opinion
"Socrates is running "is not, "Socrates is sitting,” since the
falsity of the latter does not immediately follow from the former, but
mediately from the false opinion, "Socrates is not running.” It is the
latter opinion that is per se false in relation to "Socrates is running,”
since it is falsified on its own account by the truth of the opinion
"Socrates is running,” and not through an intermediary. Similarly, the per
se true opinion in respect to the false opinion "Socrates is four-footed”
is not, "Socrates is two-footed,” for the truth of the latter does not by
itself make the former false; rather, it is through "Socrates is not
four-footed” as a medium, which is per se true in respect to "Socrates is
four-footed”; for "Socrates is not four-footed” is verified on its own
account by the falsity of "Socrates is four-footed,” as is evident. We are
using "per se true” and "per se false” in this second mode in
propounding the rule concerning contrariety of opinions and enunciations. Thus
the rule that the true opinion and the per se false opinion in relation to it
and the false opinion and the per se true in relation to it are contraries, is
universally true in all matter. Consequently, the response to the objection is
clear, for it results from taking "per se true” and "per se false” in
the first mode. 13. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se
invicem pertinentes nulla alia est oppositio nisi contrarietas, coactus fuit
Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis
contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis
oppositionem habet respectu illius verae. Determinat tamen immediate quod
tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi verae.
Subdit enim: manifestum est quoniam haec contraria erit. Duo ergo dixit, et
quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio contrarii,
contrariatur affirmationi verae, et quod una tantum earum, negatio scilicet,
est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum est, ambae
contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter,
quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis vero
contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet
negativae opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus albo
contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur
scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum autem dictum
simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi extrema
unius latitudinis, quae maxime distant; extrema autem unius distantiae non sunt
nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum
teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsae dandum est, illi scilicet
quae maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse probatum est.
Haec igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo. Caeterae enim
oppositae ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo uni
plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo
dicebatur. The answer to the third difficulty is the following. Since there is
no other opposition but contrariety between opinions pertaining to each other,
Aristotle (since he chose to use limited terms) has been forced to say that one
is more contrary than another, which implies that both have opposition of
contrariety in respect to a true opinion. However, he determines immediately
that only one of them, the negative opinion, is contrary to a true affirmation,
when he adds, it is evident that it must be the contrary. What he says, then,
is that each, i.e., both negation of the same thing and affirmation of a
contrary, is contrary to a true affirmation, and that only one of them, i.e.,
the negation, is contrary. Both of these statements are true, for both
contrarieties are caused by an opposition contrary to the affirmation, as was
said, but not uniformly. The opinion of negation is contrary first and per se,
the opinion of affirmation of a contrary, secondarily and accidentally, i.e.,
through another, namely, by reason of the negative opinion, as has already been
shown. There is a parallel to this in natural things: both black and red are
contrary to white, the former first, the latter reductively, i.e., inasmuch as
red is reduced to black in a motion from white to red, as is said in V
Physicorum [5: 229b 15]. However, the second statement, i.e., that only one of
them, the negation, is contrary, is true simply, for the most distant extremes
of one extent are contraries absolutely. Nov,, there are only two extremes of
one distance and since between opinions pertaining to each other true
affirmation is at one extreme, the remaining extreme must be granted to only
one false opinion, i.e., to the one that is most distant from the true opinion.
This has been proved to be the negative opinion. Only this one, then, is
contrary to that absolutely speaking. Other opposites are contrary by reason of
this one, as was said of those in between. Therefore, Aristotle has not posited
many opinions contrary to one, nor used contrariety in a broad sense, both of
which were maintained by the objector. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 14 Deinde cum
dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod affirmationi contraria
est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: si in
aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita
quod contrariae in aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc,
scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum,
quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio
boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique, idest, in omni
materia, ea quae est contradictionis altera pars censenda est contraria suae
affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars
generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni
materia uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in
aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni
materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens
concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens
quod illae materiae quibus non inest contrarium, ut substantia et quantitas,
quibus, ut in praedicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est
per se falsa ea, quae est opinioni verae opposita contradictorie, ut qui putat
hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis,
Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe
concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens:
si ergo hae, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt
contrariae, et omnes aliae contradictiones contrariae censendae sunt. When
Aristotle says, Further, if this necessarily holds in a similar way in till
other cases it would seen that what we have said is correct, etc., he gives the
second argument to prove that the negation of the same thing is contrary to the
affirmation, and not the affirmation of a contrary. If opinions are necessarily
related in a similar way, i.e., in the same way, in other matter, that is, in
such a way that affirmation and negation of the same thing are contraries in
other matter, it would seem that what we have said about the opinions of that
which is good and that which is evil is correct, i.e., that the contrary of the
affirmation of that which is good is not the affirmation of evil but the
negation of good. He proves this consequence when he adds: for the opposition
of contradiction either holds everywhere or nowhere, i.e., in every matter one
part of a contradiction must be judged contrary to its affirmation—or never,
i.e., in no matter. For if there is a general art which deals with contrary
opinions, contrary Opinions must be taken everywhere and in every matter in one
and the same mode. Consequently, if in any matter, negation of the same thing
of the same thin- is the contrary of the affirmation, then in all matter
negation of the same thing of the same thing will be the contrary of the
affirmation. Since he intends in his proof to conclude from the position of the
antecedent, Aristotle affirms the antecedent through its cause: in matter in
which there is not a contrary, such as substance and quantity, which have no
contraries, as is said in the Predicamcnta [Categ. 5: 3b 24; 6: 5b 10], the one
contradictorily opposed to the true opinion is per se false. For example, he
who thinks that man, for instance Socrates, is not man, is per se mistaken with
regard to one who thinks that Socrates is man. Then he affirms the antecedent
formally and concludes directly from the position of the antecedent to the
position of the consequent. If then these, namely, affirmation and negation in
matter which lacks a contrary, are contraries, all other contradictions must be
judged to be contraries. 15. Deinde cum dicit: amplius similiter etc., probat
idem tertia ratione, quae talis est: sic se habent istae duae opiniones de
bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istae
duae de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum.
Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primae utriusque
combinationis sunt verae, secundae autem falsae. Unde proponens hanc maiorem
quoad primas veras utriusque combinationis ait: similiter se habet opinio boni,
quoniam bonum est, et non boni quoniam non est bonum. Et subdit quoad secundas
utriusque falsas: et super has opinio boni quoniam non est bonum, et non boni
quoniam est bonum. Haec est maior. Sed illi verae opinioni de non bono,
scilicet, non bonum non est bonum, contraria non est, non bonum est malum, nec
bonum non est malum, quae sunt de praedicato contrario, sed illa, non bonum est
bonum, quae est eius contradictoria; ergo et illi verae opinioni de bono,
scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum
non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde
subdit minorem supradictam dicens: illi ergo verae opinioni non boni, quae est
dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quae est contraria. Non enim
est sibi contraria ea opinio, quae dicit affirmativae praedicatum contrarium,
scilicet, quod non bonum est malum: quia istae duae aliquando erunt simul
verae. Nunquam autem vera opinio verae contraria est. Quod autem istae duae
aliquando simul sint verae, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est:
iniustitia enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias
esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictae verae opinioni
contraria est illa opinio, quae est dicens praedicatum contrarium negativae,
scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hae erunt
verae. Chimaera enim est quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod
non est bona, et quod non est mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod
ei opinioni verae quae, est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria
est ea opinio non boni, quae est dicens quod est bonum, quae est contradictoria
illius. Deinde subdit conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quae
dicit bonum est bonum, contraria est ea boni opinio, quae dicit quod bonum non
est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariae in omni
materia censendae sunt. Then he says, Again, the opinions of that which is
good, that it is good and of that which is not good, that it is not good, are
parallel. This begins the third argument to prove the same thing. The two
opinions of that which is good, that it is good, and that it is not good, are
related in the same way as the two opinions of that which is not good, that it
is not good and that it is good; i.e., the opposition of contradiction is kept
in both. The first opinion of each combination is true, the second false. Hence
with respect to the first true opinions of each combination he proposes this
major: Again, the opinions of that which is good, that it is good, and of that
which is not good, that it is not good, are parallel. With respect to the
second false judgment of each combination he adds: so also are the opinions of
that which is good, that it is not good, and of that which is not good, that it
is good. This is the major. But the contrary of the true opinion of that which
is not good, namely, the true opinion "That which is not good is not
good,” is not, "That which is not good is evil,” nor "That which is
not good is not evil,” which have a contrary predicate, but the opinion that
that which is not good is good, which is its contradictory. Therefore, the
contrary of the true opinion of that which is good, namely, the true opinion
"That which is good is good,” will also be its contradictory, "That
which is good is not good,” and not the affirmation of the contrary "That
which is good is evil.” Hence he adds the minor which we have already stated:
What, then, would be the contrary of the true opinion asserting that that which
is not good is not good? The contrary of it is not the opinion which asserts
the contrary predicate affirmatively, "That which is not good is evil,”
because these two are sometimes at once true. But a true opinion is never
contrary to a true opinion. That these two are sometimes at once true is
evident from the fact that some things that are not good are evil. Take
injustice; it is something not good, and it is evil. Therefore, contraries
would be true at one and the same time, which is impossible. But neither is the
contrary of the above true opinion the one asserting the contrary predicate
negatively, "That which is not good is not evil,” and for the same reason.
These will also be true at the same time. For example, a chimera is something
not good, and it is true to say of it simultaneously that it is not good and
that it is not evil. There remains the third part of the minor: the contrary of
the true opinion that that which is not good is not good is the opinion that it
is good, which is the contradictory of it. Then he concludes as he intended:
the opinion that a good is not good is contrary to the opinion that a good is
good, i.e., its contradictory. Therefore, it must be judged that contradictions
are contraries in every matter. 16. Deinde cum dicit: manifestum est igitur
etc., declarat determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis
opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus, et singularibus iam
dictum est, eo quod idem evidenter apparet de eis in hac re iudicium
(indefinitae enim et particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares,
per modum affirmationis et negationis non opponuntur, quia simul verae sunt);
ideo ad eas, quae universalis quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum
esse quod nihil interest quoad propositam quaestionem, si universaliter ponamus
affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est
universalis negatio, et non universalis affirmatio de contrario; ut opinioni
quae opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est, nihil horum, quae
bona sunt, idest, nullum bonum est bonum. Et declarat hoc ex quid nominis
universalis affirmativae, dicens: nam eius quae est boni, quoniam bonum est, si
universaliter sit bonum: idest, istius opinionis universalis, omne bonum est
bonum, eadem est, idest, aequivalens, illa quae opinatur, quidquid est bonum
est bonum; et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi, nihil
horum quae bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem
se habet in non bono: quia affirmationi universali de non bono reddenda est
negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est. He then says, It is
evident that it will make no difference if we posit the affirmation
universally, etc. Here he shows that the truth he has determined is extended to
opinions of every quantity. The case has already been stated in respect to
indefinites, particulars, and singulars. On this point their status is alike,
for indefinites and particulars, unless they stand for the same thing, as is
the case in singulars, are not opposed by way of affirmation and negation,
since they are at once true. Therefore he turns his attention to those of
universal quantity. It is evident, he says, that it will make no difference
with respect to the proposed question if we posit the affirmations universally,
for the contrary of the universal affirmative is the universal negative, and
not the universal affirmation of a contrary. For example, the contrary of the
opinion that everything that is good is good is the opinion that nothing that
is good (i.e., no good) is good. He manifests this by the nominal definition of
universal affirmative: for the opinion that that which is good is good, if the
good is universal, i.e., the universal opinion "Every good is good,” is
the same, i.e., is equivalent to the opinion that whatever is good is good.
Consequently, its negation is the contrary I have stated, "Nothing which
is good is good,” i.e., "No good is good.” The case is similar with
respect to the not good. The universal negation of the not good is opposed to
the universal affirmation of the not good, as we have stated with respect to
the good. 17. Deinde cum dicit: quare si in opinione sic se habet etc.,
revertitur ad respondendum quaestioni primo motae, terminata iam secunda, ex
qua illa dependet. Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quaestioni;
secundo, declarat quoddam dictum in praecedenti solutione; ibi: manifestum est
autem quoniam et cetera. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet
quaestioni, dicens: quare si in opinione sic se habet contrarietas, ut dictum
est; et affirmationes et negationes quae sunt in voce, notae sunt eorum, idest,
affirmationum et negationum quae sunt in anima; manifestum est quoniam
affirmationi, idest, enunciationi affirmativae, contraria erit negatio circa
idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio
affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quaestionem, qua
quaerebatur, an enunciationi affirmativae contraria sit sua negativa, an
affirmativa contraria. Responsum est enim quod negativa est contraria. Secundo,
dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem et
contradictoriam, dicens: universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria
est et cetera. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativae
quae est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est
universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est
bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi
universali affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum
est bonum, singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis
membrum, et declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with
respect to opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of
those in the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to
reply to it, for he has now completed the second on which the first depends. He
first replies to the question, then manifests a point in the solution of a
preceding difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be
contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he
replies directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the
case of opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of
affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the
affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same
subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the
same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a
contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the
affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear.
The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as
it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the
contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation,
etc. In order to state this division by way of example he relates one
enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative
enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the
universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again,
relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the
universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything
good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the
division evident. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 18 Sed est hic dubitatio non
dissimulanda. Si enim affirmationi universali contraria est duplex negatio,
universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel
contrarietate large utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus.
Augetur et dubitatio: quia in praecedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil
interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali
affirmationi, sicut singularem singulari. Et ita declinari non potest quin
affirmationi universali duae sint negationes contrariae, eo modo quo hic
loquitur de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which
we cannot disregard. If the contrary of the universal affirmative is a twofold
negation, namely, the universal and the contradictory, either there are two
contraries to one affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad
sense, although we showed that this was not the case apropos of an earlier
passage of the text. The difficulty is augmented by the fact that Aristotle
said in the passage immediately preceding that it makes no difference if we
take the universal negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as
one of its negations. Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode
in which Aristotle speaks of contrariety here, there are two contrary negations
to the universal affirmative. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 19 Ad huius evidentiam
notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quae est inter negationem
alicuius universalis affirmativae in ordine ad affirmationem contrarii de
eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad
negationem eiusdem affirmativae contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor
enunciationes, quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa,
contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic
dispositae in eadem linea recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est
iustus, omnis homo non est iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod
licet primae omnes reliquae aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia
est inter primae et cuiusque earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet
affirmatio contrarii, primae contrariatur ratione universalis negationis, quae
ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit
Aristoteles, quia implicita est. Tertia autem, idest universalis negatio, non
per se sed ratione secundae, scilicet negationis contradictoriae, contrariatur
primae eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa illius affirmationis
veritate, sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet,
non omnis homo est iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate,
quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriae falsitate
negationis universalis: totum namque compositius et posterius est partibus. Est
ergo inter has tres falsas ordo, ita quod affirmationi verae contradictoria
negatio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius
per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens contraria, quia est
per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque
extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est per se contraria et per
se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et
contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur
in V physicorum. Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad
affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si
enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se
falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria
affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is one thing to speak
of the contrariety there is between the negation of some universal affirmative
in relation to the affirmation of a contrary, and another to speak of that same
universal negative in relation to the negation contradictory to the same
affirmative. For example, the four enunciations of which we are now speaking
are the universal affirmative, the contradictory, the universal negative, and
the universal affirmation of a contrary: "Every man is just,” "Not
every man is just,” "No man is just,” "Every man is unjust.” Notice
that although all the rest are contrary to the first in some way, there is a
great difference between the contrariety of each to the first. The last one,
the affirmation of a contrary, is contrary to the first by reason of the
preceding universal negation, for it is false, not per se but by reason of that
negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already proved. The third,
the universal negation, is not per se contrary to the first either. It is
contrary by reason of the second, the contradictory negation, and for the same
reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of the affirmation
but is implicative, for it contains the contradictory negation "Not every
man is just,” by means of which it is made false in respect to the truth of the
affirmation. The reason for this is that the falsity of the contradictory
negation is prior absolutely to the falsity of the universal negation, for the
whole is more composite and posterior as compared to its parts. There is,
therefore, an order among these three false enunciations. Only the
contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it is
per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the
contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the
universal negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme,
is per se contrary and per se false as related to the affirmation of a
contrary, but is per accidens false and per accidens contrary as related to the
contradictory negation; just as red in a motion from red to black takes the
place of white, and in a motion from red to white takes the place of black, as
is said in V Physicorum [5: 229b 15]. Therefore, it is one thing to speak of
the universal negation in relation to affirmation of a contrary and another to
speak of it in relation to the contradictory negation. If we are speaking of it
in the first way, the universal negation is per se contrary and per se false;
if in the second, it is not per se false or contrary to the affirmation. 20. Quia
ergo agitur ab Aristotele nunc quaestio, inter affirmationem contrarii et
negationem quae earum contraria sit affirmationi verae, et non agitur quaestio
ipsarum negationum inter se, quae, scilicet, earum contraria sit illi
affirmationi, ut patet in toto processu quaestionis; ideo Aristoteles
indistincte dixit quod utraque negatio est contraria affirmationi verae, et non
affirmatio contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem quae est inter
affirmationem contrarii et negationem in hoc quod verae affirmationi
contrariantur, et non intendens dicere quod utraque negatio est simpliciter
contraria. Hoc enim in dubitatione non est quaesitum, sed illud tantum. Et
similiter dixit quod nihil interest si quis ponat negationem universalem: nihil
enim interest quoad hoc, quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria
affirmationi verae, quod inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes
ipsas inter se discutere vellemus quae earum esset affirmationi contraria. Sic ergo
patet quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate
enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni materia et quantitate, dum
simpliciter contrarias contradictiones asseruit. Since Aristotle is now
treating the question as to which is the contrary of a true affirmation,
affirmation of a contrary or the negation, and not the question as to which of
the negations is contrary to a true affirmation—as is clear in the whole
progression of the question—bis answer is that both negations are contrary to
the true affirmation without distinction, and that affirmation of a contrary is
not. His intention is to manifest the diversity between the negation, and the
affirmation of a contrary, inasmuch as they are contrary to a true affirmation.
He does not intend to say that both negations are contrary simply, for this is
not the difficulty in question here, but the former is. With respect to his
saying that it makes no difference if we posit the universal negation, the same
point applies, for in regard to showing that affirmation of a contrary is not
contrary to a true affirmation, which is the question at issue here, it makes
no difference which negation is posited. It would make a great deal of
difference, however, if we wished to discuss which negation was contrary to a
true affirmation. It is evident, then, that Aristotle’s discussion of the true
contrariety of enunciations is very subtle, for he has posited one to one
contraries in every matter and quantity, and affirmed that contradictions are
contraries simply. 21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit
quoddam dictum ut probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod
non contingit veram verae contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in
contradictione, idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria
sunt quae circa idem opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones
verae circa diversa contrariae esse non possunt. Circa idem autem contingit
simul omnes veras enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata
vel repraesentata earum simul illi insunt: aliter verae tunc non sunt. Et
consequenter omnes verae enunciationes et opiniones circa idem contrariae non
sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive
sit circa idem, sive sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic
finitur expositio huius libri perihermenias. When he says, It is evident, too,
that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction,
etc., he returns to a statement he has already made in order to prove it. It is
evident, too, from what has been said, that true cannot be contrary to true,
either in opinion or in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He gives as
the cause of this that contraries are opposites about the same thing;
consequently, true enunciations and opinions about diverse things cannot be
contraries. However, it is possible for all true enunciations and opinions
about the same thing to be verified at the same time, inasmuch as the things
signified or represented by them belong to the same thing at the same time;
otherwise they are not true. Consequently, not all true enunciations and
opinions about the same thing are contraries, for it is not possible for
contraries to be in the same thing at the same time. Therefore, no true opinion
or enunciation, whether it is about the same thing or is about another is
contrary to another. – [ XI. 6. The third part is the second difference, i.e.,
by convention, namely, according to human institution deriving from the will of
man. This differentiates names from vocal sounds signifying naturally, such as
the groans of the sick and the vocal sounds of brute animals] [?][11 Then
Aristotle says, ‘by convention’ is added because nothing is *by nature* a name,
etc. Here Aristotle explains the third part of the definition. The reason it is
said that the name signifies by convention [ad placitum ex institutione], he
says, is that no name exists naturally. For it is a name because it signifies;
it does not signify naturally however, but by institution [ex institutione].
This Aristotle adds when he says, but it is a name when it is *made* a sign,
i.e., when it is imposed to signify. For that which signifies naturally is not
made a sign, but is a sign naturally. he explains this when he says: for
unlettered sounds, such as those of the brutes designate, etc., i.e., since
they cannot be signified by letters. He says sounds rather than vocal sounds
because some animals—those without lungs—do not have vocal sounds. Such animals
signify proper passions by some kind of non-vocal sound which signifies
naturally. But none of these sounds of the brutes is a name. We are given to
understand from this that a name does not signify naturally.] Aquino. Keywords:
Peri hermeneias, de interpretation, Austin/Grice, “De interpretation” nota,
notare, notante, notato, denotato – denotare -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Aquino: grammatici speculative, per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Grice, “Intentionality in
Aquino,” Speranza, “Grice and Aquino on the taxonomy of intentions.” https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685535573/in/photolist-2mT23wq-2mTCgej-2mSMKfP-2mSQAsN-2mSnTuE-2mS3yF6-2mRV5s7-2mRFSx9-2mRrJCw-2mRh74B-2mQJrAD-2mPYm4t-2mPQGvz-2mPRKiW-2mPMBQM-2mPAuFE-2mPsU62-2mPtnaL-2mPmNVF-2mNaHiH-2mN36eA-2mN2zUd-2mMJokF-2mMNyYv-2mLP4Rj-2mLQc9e-2mLLy7L-2mLLy6U-2mLMaMX-2mLGwVU-2mPu6xB-2mPV6V9-2mKBHiL-2mKG3Hd-2mKT4G5-2mKFc73-2mKwv6q-2mKwnLL-2mKNzk6-2mKBEmt-2mKMAyJ-2mKAsyK-2mKEJsY-2mPvmTf-2mKbfaU-2mKbbNP-2mJLMNt-2mEy4wH-E4u3XA-2mKgT2F
Grice
ed Arangio – colloquio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Grice: “We have Flores, we have Ruiz, we have
Enriques – reminds me of Alan Montefiore! I like Vladimiro Arangio – my
favourite is by far his philosoophising on Socrates’s ‘Sofista’ – he
distinguishes between what he calls ‘Socratic dialogue’ (mine) and ‘dialogo
sofistico’!” -- Vladimiro Arangio-Ruiz (Napoli) filosofo, grecista e accademico
italiano. Fu il primo preside del Liceo scientifico Alessandro Tassoni di
Modena, istituito nel 1923, a seguito della riforma Gentile. Nacque a Napoli nel 1887 da Gaetano,
professore di diritto costituzionale, e da Clementina Cavicchia. Frequentò a
Firenze il corso di lettere nell'Istituto di studi superiori dal 1905 al 1910 e
si laureò con una tesi su Il coro nella tragedia greca in letteratura greca con
Girolamo Vitelli, filologo, grecista, papirologo e senatore del Regno
d'Italia. Vladimiro appartenne a una
illustre famiglia di giuristi: il fratello Vincenzo Arangio-Ruiz fu uno dei
maggiori studiosi di diritto romano, ordinario all'Napoli e alla Sapienza di
Roma. Contravvenendo alla tradizione di famiglia, Vladimiro preferì dedicarsi
agli studi filosofici e fu professore alla Scuola normale superiore di Pisa e
alla facoltà di Magistero di Firenze.
Insegnò nei ginnasi di Stato e fu ufficiale d'artiglieria nella Prima
guerra mondiale dove venne ferito. Nel 1921 si laureò per la seconda volta, in
filosofia con Piero Martinetti, discutendo la tesi Conoscenza e moralità
pubblicata nel 1922. In gioventù aveva
sentito fortemente l'influenza del giovane poeta e filosofo Carlo
Michelstaedter, esponente importante della filosofia europea del primo Novecento,
del quale pubblicherà gli scritti. Si
propose una funzione critica ricostruttiva
dell'idealismo storicistico e dell'attualismo di Giovanni Gentile da cui
trasse ispirazione per sviluppare il suo "moralismo assoluto".
Contrariamente alla dottrina gentiliana che dichiarava l'attualismo coincidente
con la "vita dello Stato", Arangio Ruiz credeva che invece fosse
identificabile con il comportamento morale individuale poiché la politica non è
che un aspetto particolare della legge morale per sua natura universale . Fra le sue opere si ricordano. “Prose morali”;
“Umanità dell'arte.” Il Liceo
"Tassoni" tra storia e innovazione.
Fonte: Dizionario di filosofia, riferimenti in . Fabrizio Meroi, «Carlo Michelstaedter» in Il
contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, . Ricostruzione filosofica, in
Arch. di filosofia, X[1940]20 Carlo
Michelstaedter Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una
pagina dedicata a Vladimiro Arangio-Ruiz
Vladimiro Arangio-Ruiz, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Vladimiro
Arangio-Ruiz, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Vladimiro
Arangio-Ruiz, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
2009. Filosofia Filosofo del XX secoloGrecisti italianiAccademici italiani Professore.
Vladimiro Arangio-Ruiz. Arangio. Keywords: colloqui. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Arrangio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790746021/in/dateposted-public/
Grice ed Arcais –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervignano del Freiuli). Filosofo. Grice:
“As Mikos says about the English, ‘de’ adds prestige as in ‘de Grys’ – same
with Italians and ‘d’Arcais,’ after four pescherie owned by one ancestor. –
d’Arcais has been described as a ‘quaresmalitsa,’ who had the unfortune of
being tutored by an atheist! Asa good
stoicp philosopher, he endured it!’ Direttore della rivista MicroMega. È stato
collaboratore de la Repubblica, il Fatto Quotidiano, El País, Frankfurter
Allgemeine Zeitung e Gazeta Wyborcza. Ha
sempre unito l’attività di studioso, il lavoro editoriale e l’impegno civile.
Educazione intensamente cattolica. Abbandona la fede nella primavera del 1961.
Maturità scientifica. Maturità classica. Si iscrive al partito comunista (e
federazione giovanile) entrando all’università. Nel 1964 è segretario del
Circolo universitario comunista e nell’estate frequenta la scuola centrale di
partito “Marabini” a Bologna. Si laurea con una tesi su “Marx interprete di
Adamo Smith” e ne sarà a lungo uno degli assistenti. Espulso dal Pci, è uno
degli animatori del movimento studentesco del Sessantotto. Pubblica la rivista
“Soviet”. Nel 1976/7 la rivista “Il Leviatano”. -- è l’organizzatore del
convegno internazionale di tre giorni che apre la “Biennale del dissenso” della
presidenza Ripa di Meana. Viene chiamato
a fondare e dirigere il “Centro culturale Mondoperaio” dal segretario del Psi
Bettino Craxi (alleato delle sinistre di Giolitti e Lombardi). Prima
iniziativa, il convegno internazionale “Marxismo, leninismo, socialismo”,
relatori Cornelius Castoriadis, Gilles Martinet e Rudi Dutschke. Rompe con
Craxi nel gennaio del 1980 quando questi cambia politica, spezza l’alleanza con
Giolitti e Lombardi, torna al governo con la Dc. Nel 1986 fonda insieme a Giorgio Ruffolo la
rivista “MicroMega” (Ruffolo ne uscirà nel 1992, per contrasti su “Mani
pulite”). Fonda la “sinistra dei club” per partecipare alla fondazione del Pds,
che dovrebbe aprirsi alla società civile sulle ceneri dell’ex Pci. Lo abbandona
un anno dopo, viste le promesse non mantenute. Nell’inverno 2000 è protagonista
di una controversia pubblica col cardinal Ratzinger al Teatro Quirino di Roma.
Nel 2002 organizza insieme a Nanni Moretti, Olivia Sleiter e Pancho Pardi la
grande manifestazione dei “girotondi” del 14 settembre a piazza san Giovanni a
Roma. Paolo Flores d'Arcais è "radicalmente ateo". Inizia presto ad occuparsi di politica nell'organizzazione
giovanile del Partito Comunista Italiano, ma presto viene espulso dalla FGCI
per la sua prolungata e grave attività frazionistica, cioè per la sua doppia
militanza nella FGCI e nella Quarta Internazionale trotskista. Allievo e amico
di Lucio Colletti, dopo esser stato uno dei protagonisti del
"Sessantotto" romano, approda a posizioni di riformismo radicale e
verso la fine degli anni settanta ha una breve ma vivida intesa con Bettino
Craxi e Claudio Martelli, dai quali, tuttavia, si distacca ben presto. Nel 1991 aderisce al Partito Democratico
della Sinistra di Achille Occhetto entrando nella Direzione del movimento, da
cui però fuoriesce due anni dopo poiché favorevole alla guerra del Golfo a
differenza della linea maggioritaria del partito. Tra i promotori della breve
stagione dei girotondi, tenta di proporre una lista di suoi candidati alle
primarie dell'Ulivo per le elezioni politiche del 2006 ma come lui stesso deve
ammettere "realizza un fallimento pieno e perfetto" raccogliendo
appena 130 adesioni alla sua idea. Il 25 marzo 2008 annuncia su MicroMega che
nelle elezioni politiche del 2008 avrebbe votato per il Partito Democratico in
funzione anti-berlusconiana. Il 29 gennaio 2009 decide di ritentare in politica
prospettando il "Partito dei Senza Partito" insieme ad Antonio Di
Pietro ed Andrea Camilleri per partecipare alle elezioni europee del 2009 ma,
il 12 marzo dello stesso anno, viene annunciato il mancato accordo fra i tre.
Per le elezioni politiche del ha
dichiarato di votare la lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia.
Successivamente non nasconde le sue simpatie per il Movimento 5 Stelle per il
quale dichiara di votare. Tuttavia in seguito all'alleanza tra il Movimento 5
Stelle e la Lega si dice deluso dal Movimento, accusando in particolare Luigi
Di Maio di avere tradito le promesse agli elettori. Altre opere: “Il maggio rosso di Parigi.
Cronologia e documenti delle lotte studentesche e operaie in Francia, a cura
di, Padova, Marsilio); “Il piccolo sinistrese illustrato, con Giampiero Mughini,
Milano, SugarCo); “Il dubbio e la certezza. Nei dintorni del marxismo e oltre
(Milano, SugarCo); “L'esistenzialismo libertario di Hannah Arendt, in Hannah
Arendt, Politica e menzogna, Milano, SugarCo); “Oltre il PCI. Per un partito
libertario e riformista, Genova, Marietti); “Esistenza e libertà. A partire da
Hannah Arendt, Genova, Marietti); “L'albero e la foresta. Il partito
democratico della sinistra nel sistema politico italiano, con Umberto Curi,
Milano, FrancoAngeli); “La rimozione permanente. Il futuro della sinistra e la
critica del comunismo. Scritti; Genova, Marietti, 1991. 88-211-6898-0. Etica senza fede, Torino,
Einaudi); “Il disincanto tradito, Torino, Bollati Boringhieri); “Hannah Arendt.
Esistenza e libertà, Roma, Donzelli); “Gobetti, liberale del futuro, in Piero
Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
Torino, Einaudi); “Il populismo italiano da Craxi a Berlusconi. Dieci anni di
regime nelle analisi di MicroMega, Roma, Donzelli); “L'individuo libertario.
Percorsi di filosofia morale e politica nell'orizzonte del finite” (Torino,
Einaudi); “ Il sovrano e il dissidente, ovvero La democrazia presa sul serio.
Saggio di filosofia politica per cittadini esigenti, Milano, Garzanti); “Dio
esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, moderato da Gad Lerner, con
Joseph Ratzinger, Roma, Somedia Gruppo editoriale L'Espresso); “Il ventennio
populista. Da Craxi a Berlusconi (passando per D'Alema?), Roma, Fazi); “Hannah
Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi); “Atei o
credenti? Filosofia, politica, etica, scienza”; “Roma, Fazi, Dio? Ateismo della ragione e ragioni della
fede, con Angelo Scola, Venezia, Marsilio); “Itinerario di un eretico” (Lugano,
ADV); “A chi appartiene la tua vita? Una riflessione filosofica su etica,
testamento biologico, eutanasia e diritti civili nell'epoca oscurantista di Ratzinger
e Berlusconi, Milano); “Ponte alle Grazie, 2009. 978-88-6220-068-4. Albert Camus filosofo del
futuro, Torino, Codice); “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger, Milano,
Ponte alle Grazie); “Gesù. L'invenzione del Dio cristiano, Torino, Add); “Macerie.
Ascesa e declino di un regime, Roma, Aliberti); “Perché oggi, in Ernesto Rossi,
Contro l'industria dei partiti, Milano, Chiarelettere); Democrazia! Libertà
privata e libertà in rivolta, Torino, Add); “Il caso o la speranza? Un
dibattito senza diplomazia” (Milano, Garzanti); “La Guerra del Sacro.
Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Milano, Raffaello Cortina Editore);
“Questione di vita e di morte, Einaudi, Vele. Note cfr., uno per tutti, il suo volume (a quattro
mani con il cardinale Angelo Scola) "Dio? Ateismo della ragione e ragioni
della fede"Marsilio editore, 2008
Dal sito di MicroMega Articolo de
El País, tradotto in italiano Archiviato il 30 giugno in .
Elezioni Per chi votano Travaglio, Guzzanti, Scanzi, ecc. Tra
Rivoluzione Civile e il Movimento 5 Stelle
La Repubblica del 19 novembre
Flores d'Arcais: “Il Movimento 5 Stelle non esiste più”, su
micromega-online. 24 aprile . MicroMega
(periodico). reccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Paolo Flores
d'Arcais, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Registrazioni di Paolo Flores d'Arcais, su RadioRadicale, Radio
Radicale. Sito ufficiale di MicroMega.
Undici riflessioni sui movimenti articolo pubblicato sul numero 2 del 2002 di
MicroMega. Intervista a D'Arcais sul ventennale della rivista. Il blog di Paolo
Flores d'Arcais, su ilfattoquotidiano. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloGiornalisti italiani del XX secoloGiornalisti italiani Professore1944Nati
l'11 luglio Cervignano del FriuliDirettori di periodici italianiFilosofi atei.
Arcais. Paolo Flores d’Arcais. Keywords: giudeo, portughese, Flores – arcais,
d’arcais, piamontese. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Arcais” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791090779/in/dateposted-public/
Grice ed Archibugi –
PAX ROMANA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Grice: “I would hardly call Archibugi a philosopher, but he did
compile a thing ‘filosofi per la pace’ none of them Italian! So much for ‘pax
romana’!” – Grice: “Strawson does call Archibugi a ‘filosofo,’ though!” -- DanieleArchibugi (Roma), filosofo. Nell'ambito
della teoria politica, ha sviluppato, insieme a David Held, l'idea di una
democrazia cosmopolita. Ha anche lavorato su diversi aspetti della
globalizzazione, ed in particolare sulla globalizzazione dell'innovazione e del
cambiamento tecnologico. Dopo una non assidua frequentazione del Liceo
Sperimentale della Bufalotta, si è laureato con lode alla Facoltà di Economia e
Commercio dell'Roma La Sapienza con Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato
di ricerca presso lo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex,
dove ha lavorato con Christopher Freeman e Keith Pavitt. Ha insegnato alle
Università del Sussex, Madrid, Napoli, Roma La Sapienza e Roma Luiss,
Cambridge, London School of Economics and Political Science e Harvard. Ha anche
tenuto corsi presso università asiatiche quali la Ritsumeikan University di
Kyoto e la SWEFE University di Chengdu. Nel 2006 è stato nominato
Professore Onorario presso l'Università del Sussex e nel Membro d'Onore del Réseaux de Recherche sur
l'Innovation. Dirigente presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche a
Roma, è Professore di Innovation, Governance and Public Policy presso l'Londra,
Birkbeck College. Dal 1997 al 2002 è stato Commissario dell'Autorità sui
servizi pubblici locali di Roma, eletto a larga maggioranza dal Consiglio
Comunale. La democrazia cosmopolita Il progetto della democrazia
cosmopolita o cosmopolitica si interroga sulla possibilità di applicare alcune
norme e valori della democrazia anche nelle relazioni internazionali. La
necessità deriva dal fatto che la globalizzazione economica e sociale ha reso
gli stati sempre più vulnerabili e che decisioni importanti per loro sono prese
al di fuori dal processo democratico. La soluzione proposta dalla democrazia
cosmopolita è sviluppare istituzioni sovra-statali che siano capaci di
affrontare democraticamente problemi comuni quali l'ambiente, la sicurezza, le
migrazioni, il commercio estero e i flussi finanziari. La democrazia
cosmopolita guarda con fiducia alle organizzazioni internazionali, e desidera
rafforzare al loro interno il controllo dei cittadini, cui va dato un peso
politico parallelo e autonomo rispetto a quello che già hanno i loro governi. A
livello politico, Archibugi ha sostenuto la limitazione del potere di veto nel
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la formazione di un'Assemblea
Parlamentare Mondiale. Ha invece ritenuto insoddisfacenti e anti-democratici i
vertici inter-governativi quali il G7, G8 and G20. Ha anche preso posizione
contro l'idea di una Lega delle democrazie sostenendo che una riforma
democratica delle Nazioni Unite riuscirebbe assai meglio a soddisfare le
medesime istanze. Giustizia globale Fautore della responsabilità
individuale dei governanti nel caso di crimini internazionali, Archibugi ha
anche attivamente sostenuto, sin dalla caduta del muro di Berlino, la creazione
di una Corte penale internazionale, collaborando sia con i giuristi della
Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite sia con il governo
italiano. Nel corso degli anni, la sua posizione è diventata sempre più
scettica per l'incapacità dei tribunali internazionali di incriminare i più
forti. Ha, quindi, preso posizione a favore di altri strumenti quasi-giudiziari
come le Commissioni per la verità e la riconciliazione e i Tribunali
d'opinione. Globalizzazione della tecnologia Archibugi ha proposto una
tassonomia della globalizzazione della tecnologia che distingue fra tre
meccanismi di trasmissione della conoscenza: sfruttamento internazionale delle
innovazioni, generazione globale delle innovazioni e collaborazioni globali
nella scienza e nella tecnologia.. Come Presidente di un Gruppo di
Esperti dello Spazio di Ricerca Europeo della Commissione europea dedicato alla
collaborazione internazionale nella scienza e nella tecnologia, Archibugi ha
indicato che il declino demografico dell'Europa, combinato con la scarsa
vocazione delle nuove generazioni per le scienze, genererà una drastica carenza
di lavoratori qualificati in meno di una generazione. Questo metterà in
pericolo il livello di benessere della popolazione europea in aree cruciali
come la ricerca medica, le tecnologie dell'informazione e le industrie ad alta
tecnologia. Ha così sostenuto di rivedere radicalmente la politica
dell'immigrazione europea in maniera di accogliere e formare in un decennio
almeno due milioni di studenti dai paesi emergenti e in via di sviluppo,
qualificandoli in discipline quali le scienze e l'ingegneria. Economia
della ricostruzione dopo le crisi economiche Da studioso dei cicli economici,
Archibugi ha combinato la prospettiva keynesiana derivata dai suoi mentori
Federico Caffè, Hyman Minsky e Nicholas Kaldor con quella schumpeteriana
derivata da Christopher Freeman e dallo Science Policy Research Unit
dell'Università del Sussex. Combinando le due prospettive, Archibugi ha
sostenuto che per uscire da una crisi, un paese deve investire nei settori
emergenti e che, in assenza di spirito imprenditoriale del settore privato, il
settore pubblico deve avere la capacità manageriale di sfruttare le opportunità
scientifiche e tecnologiche, anche a salvaguardia dei beni pubblici.
Relazioni familiari Figlio dell'urbanista Franco Archibugi e della poetessa
Muzi Epifani, ha numerosi fratelli e sorelle, tra cui la regista Francesca
Archibugi e il politologo Mathias Koenig-Archibugi, con il quale frequentemente
collabora nei suoi studi. I fratelli maggiori del nonno di suo nonno furono
Francesco e Alessandro Archibugi, volontari del Battaglione universitario della
Sapienza e la difesa della Repubblica Romana (1849). Note D.
Archibugi è stato uno degli ultimi e più vicini allievi di Federico Caffè.
Partecipò attivamente alle sue ricerche dopo la misteriosa scomparsa. Cfr. D.
Archibugi, I ragazzi che cercarono il Prof. Caffè, La Repubblica, 8 aprile . Si
veda anche Fabrizio Peronaci, La scomparsa di Federico Caffè. «Un genio anche
nell’addio. Come lui solo Majorana», intervista a Daniele Archibugi, Corriere,
10 novembre . Membres d'honneur du
Réseaux de Recherche sur l'Innovation
Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Ricerca sulla
Popolazione e le Politiche Sociali
Birkbeck College, Department of Management Tom Cassauwers, Interview with Daniele Archibugi,
E-INTERNATIONAL RELATIONS, 14 settembre .
Campaign for the Establishment of a United Nations Parliamentary
Assembly Copia archiviata, su en.unpacampaign.org. 10 ottobre 2009 22 agosto
2009). D. Archibugi, The G20 is a luxury
we can't afford, The Guardian, Saturday 28 March 2008. D. Archibugi, A League of Democracies or a
Democratic United Nations Archiviato il 24 luglio in ., Harvard International Review, Ottobre
2008. Intervista su Delitto e castigo
nella società globale. Crimini e processi internazionali, Letture.org. . Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e
castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi,
Roma, . Daniele Archibugi, La giustizia
penale internazionale tra passato e futuro, Questione Giustizia, 27 gennaio . Daniele Archibugi and Jonathan Michie, The
Globalization of Technology: A New Taxonomy, "Cambridge Journal of
Economics", 19, no. 1, 1995, 121-140,
Daniele Archibugi (Chair) Opening to the World. Opening to the World:
International Cooperation in Science and Technology Archiviato il 25
luglio in ., European Research Area,
2008, D. Archibugi e A. Filippetti,
Innovation and Economic Crisis. Innovation and Economic Crisis. Lessons and
Prospects from the Economic Downturn, Routledge, London, . D. Archibugi, A. Filippetti & M. Frenz,
Investment in innovation for European recovery: a public policy priority,
Science & Public Policy, November .
Daniele Archibugi, «Generare imprese europee per la ricostruzione: la
lezione Airbus», Il Sole 24 Ore, 5 Maggio .
Floriana Bulfon, «Nuovi imprenditori e lavoratori soddisfatti: solo così
dopo il virus l'Italia sarà migliore. Intervista a Daniele Archibugi»,
L'Espresso, 14 Aprile . Daniele
Archibugi, Mathias Koenig-Archibugi, Raffaele Marchetti, Global Democracy.
Normative and Empirical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge, . Nell'ambito
degli studi sull'organizzazione internazionale, ha pubblicato: “Filosofi per la
pace” (Editori Riuniti); “Cosmopolis. È possibile una democrazia sovra-nazionale?”
(Manifestolibri); “Il futuro delle Nazioni Unite” (Edizioni Lavoro); “Diritti
umani e democrazia cosmopolitica” (Feltrinelli); “Cittadini del mondo. Verso
una democrazia cosmopolitica” (Il Saggiatore); “Delitto e castigo nella società
globale. Crimini e processi internazionali, (Castelvecchi); “Cambiamento
tecnologico e sviluppo industriale, (Franco Angeli); “Economia globale e
innovazione” (Donzelli). “Il triangolo dei servizi pubblici, (Marsilio). “Relazione
sulla ricerca e l'innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della
scienza e della tecnologia, seconda edizione (CNR Edizioni, ). 978-88-8080-356-0 (IT, EN) Sito ufficiale, su
danielearchibugi.org. Opere di Daniele
Archibugi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Registrazioni di Daniele Archibugi, su RadioRadicale, Radio
Radicale. Sito CNR-IRPPS, Commessa
Globalizzazione. Determinanti e impatto economico, tecnologico e politico.
University of London, Birkbeck College, Home Page Daniele Archibugi. University
of London, Birkbeck College, Intervista su "The Global Commonwealth of
Citizens" Intervista della LA7 a Daniele Archibugi Sull'innovazione
tecnologica, (video). Intervista alla trasmissione Mapperò, SAT2000, sulla
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, (video), Parte prima; Parte
seconda; Parte terza. Dibattito presso la London School of Economics "È
possibile una democrazia globale?" (video in
inglese)://globaldemo.org/film/1255[collegamento interrotto] Intervista a LA7
su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica",.
Intervista a TG3 Linea Notte su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia
cosmopolitica" 25 febbraio 2009. Intervista a TG2 Punto IT su
"Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica", 15 giugno
2009. Discorso su Secrets, Lies and Power, Berlino, European Alternatives, 18
giugno . Intervista sul volume The Handbook of Global Science, Technology and
Innovation, Londra, Birkbeck College, 3 agosto . Lo Stato dell`ArteQuale futuro
per l’Europa?, Trasmissione Rai5, conduce Maurizio Ferraris, con Daniele
Archibugi e Alessandro Politi, 14 luglio . Quante storie Rai3I grandi crimini
contro l'umanità, intervista di Corrado Augias a Daniele Archibugi, 9 novembre
. Crime and Global Justice , Book Launch alla London School of Economics and
Political Science, 28 Febbraio , podcast con Gerry Simpson, Christine Chinkin, Richard
Falk e Mary Kaldor. Daniele Archibugi, Do we Need a Global Criminal Justice?,
Conferenza alla City University of New York, 9 Aprile . Daniele Archibugi,
"Cosmopolitan democracy as a method of addressing controversies",
IAJLJ CONFERENCE "CONTROVERSIAL MULTICULTURALISM", Roma, Novembre, .
Daniele Archibugi, "What is the difference between invention and
innovation?", Birkbeck College University of London, 28 Ottobre .
Presentazione della Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia, Roma,
Consiglio Nazionale delle Ricerche, 15 ottobre
Filosofi della politica, Filosofi italiani del XXI secolo. Daniele
Archibugi. Keywords: PAX ROMANA, due citadini del mondo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Archibugi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789749142/in/dateposted-public/
Grice ed Arcidiacono –
sintropia, entropia, ed informazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acireale). Filosofo. Grice:
“I like Arcidiacono, and Floridi should pay more attention to him; after all he
what Austin called an ‘Oxonian myopist’! I love him!” “It took me a while to digest Aricidiacono’s
non-intentional use of ‘inform,’ but I suppose he rather follows Shannon than
Plato!” “Arcidiacono pays due attention to Aristotle’s ‘finalismo,’ and as an
Italian, he gives proper due to Plionio – ‘il vecchio,’ as Arcidiacono
comically calls him – Strawson: “As if Pliny the Younger were not now part of
‘storia vecchia’!” – Grice: “In any case, give me Salvatore anyday – his
brother, Giuseppe, cannot qualify as a philosopher!” – Grice: “And another good
thing, too, Arcidiacono, the ‘filosofo’ brough Fantappie as a hashtag in
‘filosofia’!” Grice: “As Arcidiacono notes, Fantappie, not being a filosofo,
committed the usual mispellinggs – ‘syntropia,’ rightly corrected to
‘sintropia’ by the philosophy-educated philosopher Salvatore Arcidiacono!” Nato
e, per una sorprendente coincidenza, morto lo stesso anno del fratello gemello
Giuseppe, divise con quest'ultimo anche gli impegni di ricerca. Laureatosi a
Catania. Insegna a Catania. Perfeziona la Teoria unitaria del mondo fisico e
biologico, collegandola ai più moderni sviluppi della biologia teorica e
molecolare. Da supporto teorico speculativo nel campo della chimica e della
fisica teorica. Elabora una formulazione mediate della teoria sintropica nonché
della Teoria degli universi. Saggio “Visione unitaria dell'Universo”. “Spazio,
tempo, universe”. Altre opere: Visione
unitaria dell'Universo” (UCIIM, Roma); “Spazio, tempo, universe” (Edizioni del
fuoco, Roma); “Materia e Vita” (Massimo, Milano); “Ordine e Sintropia la vita e
il suo mistero” (ed. Studium Christi, Roma); “L'evoluzione sintropica” (Accademia
degli zelanti e dei dafnici, Acireale); “Creazione, evoluzione, principio
antropico” (ed. Il fuoco-Studium Christi); “Entropia, sintropia, informazione.
Una nuova teoria unitaria della fisica, chimica e biologia” (ed. Di Renzo,
Roma); “L'evoluzione dopo Darwin. La teoria sintropica dell'evoluzione, ed. Di
Renzo, Roma); “Problemi e dibattiti di biologia teorica, ed. Di Renzo, Roma
1993. 88-86044-16-X. Note Ignazio Licata, Teoria degli Universi e
Sintropia Archiviato il 17 settembre in . vedi pag 103 di L'accoglienza delle idee di
Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni 1955-1965 Scapini, 2005. Demetrio Sodi Pallares, Terapia metabolica
delle cardiopatie. Nuovo approccio terapeutico PICCIN, Padova 1989XVI. 88-299-0616-6
Vannini, 2005. L'accoglienza
delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni
1955-1965, pag 103 Salvatore
Arcidiacono, Nuevas ideas para la evolución biològica, articolo su Folia
humanistica, Barcellona, novembre 1982, n. 238.
Revue internationale Pierre Teilhard de Chardin, Edizioni 85-98,
Ministère de l'éducation nationale et de la culture Belgique, Editore Société
Pierre Teilhard de Chardin, 1981.
Antonella Vannini, From mechanical to life causation,, Syntropy 2005, n.
1, pag. 80-105. 1825-7968 (WC ACNP)
Felicita Scapini, La logica dell'evoluzione dei viventiSpunti di riflessione,
in Atti del XII Convegno del Gruppo italiano di biologia evoluzionistica
Firenze, 18-21 febbraio 2004, Firenze, University press, 2006, 88-8453-369-4.
Luigi Fantappié Giuseppe Arcidiacono Sintropia Biografia sul sito del suo editore, su
direnzo 9 luglio ). V D M Filosofia della scienza 266416940 Filosofi. Salvatore Arcidiacono. Keywords: sintropia,
entropia, ed informazione; sintropia, antropia, entropia.
arcidiacono — l’implicatura del principio antropico — biologia filosofica —
filosofia della vita — fissisismo — naturalismo — finalismo — vivere — vivente
— ominazione — animazione — definizione del vivente como movente autonomo — il
fine —Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Arcidiacono” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791005369/in/dateposted-public/
Grice ed Arco –
GRAVITAS – filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo. Grice:
“I should like Arco; but he is a priest and I’m C. of E.; on top, I love to say
that philosophy ought to be FUN, provided it’s MY FUN – not Arco’s – so I find
Arco’s ‘dictionary of philosophical ‘umorismo,’ or filosofia ‘umoristica’
frivolous, and unworthy of Roman gravitas!” Nato nella frazione Fontanelle
entra fra i Salesiani di Don Bosco e fu ordinato sacerdote a Roma. Consegue a Napoli
la laurea in filosofia. Per la sua preparazione filosofica, nonché per la
profondità della sua filosofiai, è considerato tra i maggiori filosofi italiani.
Per lungo tempo è stato professore di filosofia presso gli Istituti Salesiani
di Don Bosco. Ricoverato all'ospedale
“San Leonardo” di Castellammare di Stabia, per un blocco renale, e ritornato a
Pacognano di Vico Equense dopo aver superato la crisi, è morto novantaquattrenne.
Uomo di anima sensibile e di infinita fede ha trascorso molto della sua vita
scrivendo, interessandosi di agiografia. È stato protagonista televisivo sulla
prima rete nazionale con il programma: Tempo dello Spirito. Intensa e vasta la sua opera letteraria. Altre opere: “Bartolo Longo e la sua intimità
con Dio”; “Don Bosco si diverte”; Sorgenti di gioia; Gesù sotterra un chicco di
grano; Giorgio La Pira e il risorto; “Fiori di sapienza. Dizionarietto di
saggezza”; “La Donna del Sanctus; Papa Giovanni beato. La parola agli atti
processuali; Quando la teologia prende fuoco. Giuseppe Quadrio sacerdote
salesiano; Don Bosco nella luce del Risorto; Don Bosco sorridente entra in casa
vostra”; “Così Don Bosco amò i giovani”; “Il Padre Nostro”; “Ma c'è poi questo
Dio; Nota bene; Sorgenti di Gioia; L'Ave Maria inno dell'amore filiale; Il
Beato Filippo Rinaldi copia vivente di Don Bosco; “La sorgente eterna dell'amore”;
“Noi esistiamo perché Dio Padre ci ama; Stile di Serenità; La Gioia a Portata
di Mano; Ridi e sorridi da saggio; Il Beato Bartolo Longo; Dolcezza e speranza
nostra; Dio ci ama con cuore d'uomo; Il Padre nostro; La Leva del Mondo: la
preghiera; Sant'Eustachio; Il Cristo in cui Spero; Giorgio La Pira Profeta e
testimone del Risorto; Serva di Dio Elisabetta Jacobucci Francesca Alcantarina;
Beata Maria della Passione; Il Servo di Dio B. Longo; Papa Giovanni Beato; Così
ridono i saggi; Fiori di sapienza; Il segreto di papa Giovanni; S.Alfonso amico
del popolo; La Donna del Sanctus; Il Sacro nome ti chiama per nome; La Leva del
Mondo: la preghiera; Il monumento alla Pace Universale del beato Bartolo Longo;
Il Salesiano è fatto così; Messaggio di Teilhard De Chardin. Intuizioni e idee
madri (Elledici Torino); Un esploratore della felicità: biografia del Servo di
Dio Giacomo Gaglione, Apostolato della Sofferenza. Citazionio su Adolfo
L'Arco La comunità di Pacognano ricorda
don Adolfo L'Arco di Raffaele Meazza, Il Giornale di Napoli, sito "Positano
news", Identities-85063233 Biografie
Biografie: di Biografie Categorie: Religiosi
italianiTeologi italianiFilosofi italiani Professore Teano Vico Equense. Adolfo
L’Arco. Arco. Keywords: gravitas, hagiography; if he has religious faith, he is
not a philosopher. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arco” – The Swimming-Pool
Library https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791207845/in/dateposted-public/
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